La madre sieropositiva:implicanze nello sviluppo del copione del

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La madre sieropositiva:implicanze nello sviluppo del copione del
La madre sieropositiva:implicanze
nello sviluppo del
copione del bambino.
Prof.ssa Raffaella Leone Guglielmotti, Dr.ssa Paola Pierro
Secondo il rapporto UNAIDS si stima che, nel 2009, 33 milioni di
persone abbiano contratto l’infezione da HIV di cui la metà è rappresentata
da donne. L’infezione, dunque, si è progressivamente diffusa nella
popolazione generale colpendo soprattutto le donne e i bambini al di sotto
dei 15 anni.
La trasmissione dell'infezione da HIV da madre a figlio può avvenire in
varie fasi della gravidanza o della maternità durante: la gestazione, il
parto e l'allattamento al seno.
La terapia antiretrovirale, il parto cesareo elettivo, prima della
comparsa di contrazioni o della rottura delle membrane, e l’allattamento
artificiale contribuiscono a limitare notevolmente il rischio di trasmettere
l'infezione.
Consideriamo la gravidanza come crisi maturativa all’interno del copione di
vita
in
cui
vengono
rielaborate
nuove
modificazioni
sia
a
livello
intrapsichico sia a livello relazionale-sociale. La donna, dunque, si dispone
a vivere o, potremo dire, rivivere nel suo processo interpersonale con il
figlio processi arcaici di una separazione-non separazione d’identità (Leone
Guglielmotti, 2010).
Nella
donna
sieropositiva
emergono
angosce
legate
all’infezione,
all’impatto emotivo e fisico che la gravidanza può procurare, paure legate
al
sé
ed
al
neonato,
ad
un
senso
di
inadeguatezza
ed
autocolpevolizzazione.
Il vissuto della donna con HIV si concentra in particolare sul
sentimento di ambivalenza tra il bisogno di procreare e poter riesistere
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attraverso il figlio e l’indulgere in un sentimento di rabbia, di frustrazione e
di rancore per non essersi ‘protetta’ o per non essere stata protetta. La
svalutazione dell’esistenza dell’altro, infatti, non le ha permesso di
pensarsi con il futuro nato che oggi le rimanda la sua inadeguatezza,
un’immagine di sé ‘cattiva’, ‘portatrice di morte’, di malattia per sé e per
l’altro. La possibilità che il suo bambino sia malato la risveglia da un
torpore
in
cui
sistematicamente
negava
le
sue
scelte
e
la
sua
responsabilità. Molto spesso la scoperta della sieropositività può avvenire
nello screening iniziale della gravidanza che viene esperita, quindi, come
momento profondamente traumatico per la propria salute e per la vita del
bambino con un difficoltoso processo di investimento affettivo.
I vissuti ambivalenti della donna con l’HIV vengono “consegnati- trasferiti”
al bambino ponendo le basi per la formazione del suo protocollo. Ma non è
solo il vissuto ambivalente connesso alla gravidanza che il bambino riceve.
A questo si associa un substrato psicopatologico della storia copionale della
donna con HIV.
Le manifestazioni psicopatologiche più evidenti riguardano i disturbi
psichiatrici come i disturbi dell'umore (depressione maggiore), i disturbi
d'ansia (PTSD), l'abuso di sostanze, i disturbi di personalità e frequenti
tentativi di suicidio.
Il bambino, quindi, sin dai primi giorni di vita, s’identifica ed introietta
sentimenti, credenze, modalità comunicative e difese dell’altro/madre
(Fonagy
& Target, 1993-2000; Gallese et al., 2006; Sander, 2002).
Compie
dei
tentativi
d’identificazione
e
disidentificazioni
proiettive
sforzandosi di organizzare la sua esperienza di Sé e l’altro/madre in
relazione
sensazioni,
allo
scopo
di
sentimenti
esercitare
ed
i
un
bisogni,
controllo
sui
sentimenti,
propri
bisogni,
comportamenti
dell’altro/madre al fine di garantirsi una sopravvivenza fisica ed emotiva.
Dai numerosi studi (Gore-Felton et al., 2001; Kimerling et al., 1999a,b;
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Martinez et al.,2002) emergono episodi di abuso fisico e sessuale durante
l'infanzia, episodi di violenza sessuale e stupro, di violenza interpersonale
nella storia di donne con infezione da HIV.
Il trauma protocollare e copionale di mancato rispecchiamento non
consente al bambino di sviluppare le proprie emozioni se non in modo
complementare alle reazioni materne che gliele rispecchia (Fonagy &
Target, 1993-2000; Gallese et al., 2006; Sander, 2002) attraverso un
processo d’identificazione proiettiva (Leone Guglielmotti, 2010).
Le
esperienze
arcaiche
tragiche
vengono
confermate
da
scelte
distruttive e imprevedibili che evidenziano gli aspetti disfunzionali di
processi di auto-protezione verso sé e verso il proprio bambino (sviluppo
della cura e l'amore di sé e dell'altro).
Il bambino percepisce la madre come imprevedibile e non disponibile a
soddisfare i suoi bisogni. Cercherà dunque di mantenere una forte
vicinanza con la madre non dandosi il permesso di allontanarsi e guarderà
il mondo con una posizione esistenziale Io non sono Ok – tu sei Ok. O
vivrà la madre come spaventante assumendo come drammatica posizione
esistenziale quella del Io non sono Ok- Tu non sei Ok. La non integrazione
tra pensieri e sentimenti della madre, trasformati in fragilità e paura,
spaventano il bambino che percepisce una presenza-assenza del caregiver.
Vorrei raccontarvi una favola per meglio comprendere il vissuto interno
della donna sieropositiva. Scarpette rosse di Andersen è una tragedia
travestita da favola che parla della tragicità dell'infanzia, della difficoltà a
riscattarsi, delle sfide e delle conseguenze che esse comportano.
C' era una volta una bambina rimasta orfana. Con il sacco di stracci che
le aveva lasciato la madre, si fabbricò un paio di scarpe rosse di cui
andava molto fiera. Un giorno, da una splendida carrozza, scese una ricca
signora che la invitò a seguirla nella sua bella casa dove l' avrebbe trattata
come una figlia. Ripulita e rivestita, la bambina scoprì che la signora aveva
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fatto bruciare le sua adorate scarpe. Al loro posto le vennero comprate
delle scarpe nuove, che lei scelse di vernice rossa. Quando la signora si
accorse del colore, le proibì di indossarle. Un fuoco segreto le si accese nel
cuore e continuò a desiderare più di ogni altra cosa le sue scarpette rosse.
Ogni volta che le indossava cominciava a danzare senza riuscire a
fermarsi.
Disperata, andò dal boia e si fece tagliare i piedi. E ora la bambina era una
povera storpia, e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da
estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse.
Oltre all'elemento tragico in questa favola emerge anche l'elemento della
trasformazione della tragicità cioè l'occasione di acquisire una nuova
identità e appartenenza. Ma il passato non può essere annullato perché
ritorna continuamente con la danza delle scarpette rosse che ricordano alla
bambina la sua identità, la sua libertà. La bambina non è disposta a
sottomettersi ai nuovi valori proposti dalla vecchia signora, non accetta il
compromesso: piomberà in una tristezza che la conduce verso un
desiderio ossessivo, verso una irrequietezza senza nome, alla fine
accettando il rischio di perdere i piedi. La donna sieropositiva, dal canto
suo, insegue illusioni che assumono le forme di sostanze stupefacenti, di
esperienze
sessuali
a
rischio,
di
relazioni
amorose
insoddisfacenti
raggiungendo come finale quello della sieropositività. Entrambe, la bimba
e la donna con HIV, andando avanti con il proprio Bambino (esclusore),
sfidano le regole e la sfida avrà un tornaconto distruttivo.
Che cosa possiamo fare dunque nel lavoro con una donna e madre
sieropositiva?
Innanzitutto modellare una relazione di ascolto empatico e informare
l'Adulto, per tranquillizzare il B impaurito della paziente e per facilitare una
compliance attraverso informazioni che riguardano l’evoluzione della
gravidanza e del parto, dell’allattamento, sulla crescita del bambino e sugli
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interventi educativi. L’acquisizione di informazioni adeguate consente di
spostare l’uso dell’immaginazione su aspetti positivi adulti della crescita
del feto in utero e del bambino e permette la crescita di uno spazio interno
nella psiche della madre al nuovo nato.
In secondo luogo promuovere un lavoro di accettazione e sviluppo di
consapevolezza nel qui e ora che permetta alla paziente di venire in
contatto con
i propri sentimenti, pensieri, comportamenti ponendo
attenzione all'integrazione dei tre aspetti e non alla separazione degli uni
dagli altri ad identificarli e accettarli.
Il riconoscimento e l’accettazione dei propri sentimenti ambivalenti può
attenuare la tensione interiore e quindi la donna può recuperare speranza
per uscire dalla crisi ed avviare processi di pensiero.
Le emozioni inizialmente avvertite come confondenti, caotiche e
viscerali iniziano, attraverso l'aiuto del terapeuta, ad essere legittimate,
poi comprese, spiegate e fornite di senso.
Riuscire
a
dare
un
significato
a
quanto
è
avvenuto,
ai
propri
comportamenti sembra essere la via privilegiata che consente di ristabilire
una narrativa coerente della proprie esperienze di vita e pone le basi per
entrare in relazione con il proprio bambino più funzionale alla crescita e
allo sviluppo del suo copione.
Vorrei terminare questo mio intervento con una bellissima frase di Sophie
Marinopoulos (2006):”Un bambino può nascere solo dopo la nascita della
maternità di sua madre”.
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