I PRODOTTI TIPICI DELLA PROVINCIA DI TORINO

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I PRODOTTI TIPICI DELLA PROVINCIA DI TORINO
FEDERAZIONE PROVINCIALE
COLTIVATORI DIRETTI TORINO
10135 TORINO - VIA PIO VII 97
TEL. 011/6177211 - FAX. 011/3161348
I PRODOTTI TIPICI
DELLA PROVINCIA DI TORINO
Censimento e ricerca storica delle
produzioni tipiche agroalimentari nella provincia di Torino
Dicembre 2000
Realizzazione a cura di:
Mauro D’Aveni, Sara Ebano - Ufficio Qualità Coldiretti Torino
Gruppi Coltivatori Sviluppo - Torino
Agriteco S.r.l. - Torino
Federazione Provinciale Coltivatori Diretti Torino
I prodotti tipici della provincia di Torino
PRESENTAZIONE.
La recente riscoperta dei prodotti tipici ad opera dell’opinione pubblica non ha certo
colto impreparata la Coldiretti di Torino, che da anni ormai - risale agli Anni Ottanta
l’inizio della prima Campagna di Educazione Alimentare, rivolta agli scolari della scuola
dell’obbligo, nell’intento di riavvicinare la città al mondo dei campi - si batte per promuovere e
valorizzare le produzioni agricole di pregio, ricercando un dialogo costante e costruttivo con i
consumatori.
La Coldiretti infatti ha intrapreso da tempo, con il progetto “Campagna Amica”, la
strada della massima trasparenza nel rapporto con il consumatore, dicendo un “no” deciso
all’utilizzo di organismi geneticamente modificati (con i progetti “semina sicura” e “allevamento
sicuro”), aprendo ai cittadini le porte delle proprie cascine, organizzando nelle piazze di tutt’Italia
le “Oasi dei prodotti tipici”, cercando di offrire prodotti che assicurino al contempo le massime
garanzie di salubrità, genuinità e sicurezza, ed il rispetto delle grandi tradizioni alimentari del
nostro paese. In cambio chiede che venga riconosciuto il ruolo insostituibile che l’agricoltura svolge
nel salvaguardare il territorio e l’ambiente e nell’assicurare la continuità delle tradizioni alimentari
attraverso le produzioni tipiche e di qualità.
La ricerca su I prodotti tipici della provincia di Torino che qui presentiamo,
si inserisce appunto in questo contesto ed ambisce non solo costituire un censimento delle
produzioni tradizionali sparse sul territorio provinciale, ma intende al contempo connotarsi
come un’analisi del fenomeno “prodotti tipici” nel suo complesso ed indicare alcune strade
percorribili per una loro proficua e duratura valorizzazione.
La ricerca è stata resa possibile dal profondo radicamento della Coldiretti sul territorio,
che ha consentito di beneficiare della preziosa esperienza dei propri dirigenti di sezione e della
insostituibile professionalità dei tecnici della Associazione Gruppi Coltivatori Sviluppo, che
garantiscono una capillare ed approfondita conoscenza del mondo rurale e dei suoi prodotti.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Un ringraziamento infine va ai dottori Mauro D’Aveni e Sara Ebano, del nostro
Ufficio Qualità, ed alla società Agriteco S.r.l., emanazione della Coldiretti di Torino, che su
nostro incarico hanno curato la realizzazione della presente ricerca.
Il Presidente
(Carlo Gottero)
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INDICE
Presentazione
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Indice
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4
Introduzione
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13
1. La tipicità: una scoperta recente.
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14
2. Cosa definisce un prodotto tipico
Pag.
16
2.1 Tipicità come radicamento storico e socio-culturale
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17
2.2 Tipicità come qualità
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18
2.3 Tipicità come denominazione regolamentata
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21
2.3.1 La normativa nazionale
Pag.
22
2.3.2 I marchi di garanzia comunitari
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24
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26
Pag.
28
4 La “inadeguatezza” degli strumenti comunitari di tutela dell’origine Pag.
dei prodotti tipici
5 L’elenco regionale dei prodotti agroalimentari tradizionali
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32
2.4 Tipicità come risultante di più fattori
3 La tipicità percepita
38
Capitolo Primo - I prodotti tipici della provincia di Torino
1. Ortaggi, cereali e simili.
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40
1.1 Un po’ di storia
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40
1.2 Il Peperone di Carmagnola
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42
1.3 Il Pisello di Casalborgone
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47
1.4 L’Asparago
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49
1.4.1 L’Asparago di Santena
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50
1.4.2 L’Asparago di Poirino
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52
1.5 Il Cardo bianco avorio di Andezeno
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53
1.6 Il Cardo verde di Chieri
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55
1.7 L’insalatina di Castagneto Po
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1.8 La Cipolla di Andezeno
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1.9 Il Pomodoro costoluto di Cambiano
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58
1.10 Il Pomodoro di Chivasso
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60
1.11 La Scorzobianca o Barbabuc
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61
1.12 Il Cavolfiore di Moncalieri
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62
1.13 Il Cavolo di Montalto Dora
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64
1.14 La Lattuga gentilina di Moncalieri
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68
1.15 Il Trifulot del bür
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70
1.16 Il Ravanello lungo o Torino o Tabasso
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71
1.17 La Cipollina di Ivrea
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73
1.18 Le antiche varietà di mais da polenta
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78
1.19 Il Grano saraceno
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80
1.20 Il Tartufo bianco (Tuber magnatum Pico)
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82
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84
2.1 Introduzione
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84
2.2 Le mele
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89
2.2.1 La mela di Cavour
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93
2.2.2 La Renetta grigia di Torriana
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99
2.2.3 Le mele rosse
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99
2.2.4 Le mele di montagna
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102
2.2.5 Il pum ‘n cumposta o pum dal pis e il pum muiàt
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106
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107
2.3.1 La pera Madernassa
Pag.
108
2.3.2 Varietà di pere particolarmente adatte alla cottura
Pag.
109
2.3.3 Le pere di montagna
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113
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114
2.4.1 La ciliegia di Pecetto
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116
2.4.2 L’amarena di Trofarello
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120
2.4.3 Le susine della collina torinese
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121
2. La Frutta
2.3 Le pere
2.4 La frutta della collina torinese
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2.4.4 La pesca di Baldissero Torinese
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2.4.5 La fragolina di San Mauro
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125
2.5 Le castagne delle vallate torinesi
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127
2.5.1 Il marrone della Val di Susa
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130
2.5.2 Le castagne delle Valli di Lanzo
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132
2.5.3 Il marrone della Val Pellice
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133
2.6 I piccoli frutti della provincia di Torino
Pag.
135
Pag.
137
Pag.
137
3.1.1 La Biova
Pag.
142
3.1.2 La Mica
Pag.
143
3.1.3 Il pane di Chianocco
Pag.
145
3.1.4 Il Pan barbarià
Pag.
146
3.1.5 Il Tupunin
Pag.
147
Pag.
149
Pag.
150
- La Fugassa d’la Befana
Pag.
154
- La Focaccia di Susa
Pag.
155
- I Ciciu ‘d Capdan
Pag.
157
Pag.
158
- Il Biscotto della Duchessa
Pag.
159
- I Canestrej
Pag.
160
- I Mostaccioli
Pag.
163
- Le paste di meliga
Pag.
164
Pag.
165
- Gli Zest di Carignano
Pag.
166
- I Marrons glaces
Pag.
168
Pag.
172
3. Pane, prodotti da forno e dolci
3.1 Il pane
3.2 I dolci ed i prodotti da forno
3.2.1 I dolci piemontesi nell’antichità
3.2.2 Il Medioevo e la pasticceria secca
3.2.3 Il Medioevo e la nascita della confetteria
3.2.4 Il Cinquecento e lo zabaglione
- L’antica ricetta dello zabaglione
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3.2.5 Il Seicento e la nascita del Gherssin
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175
- Il Grissino Stirato
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177
- Il Grissino Robatà
Pag.
178
- I Torcetti di Lanzo
Pag.
178
Pag.
180
Pag.
182
3.2.7 L’Ottocento e l’avvento dello zucchero
Pag.
183
3.2.8 L’Ottocento e la pasticceria
Pag.
185
- I Sangiorgini di Piossasco
Pag.
187
- I Nocciolini di Chivasso
Pag.
188
3.2.9 La diffusione dei dolci
Pag.
190
3.2.10 I dolci del focolare nella tradizione torinese
Pag.
191
- Il Bonèt
Pag.
192
- La Turta ad pum d’la festa d’Argnan
Pag.
193
Pag.
194
3.3.1 La storia
Pag.
194
- Il Bicerin
Pag.
199
Pag.
203
- L’Alpino
Pag.
204
- Il Grappino
Pag.
205
- Il Gianduiotto
Pag.
206
- Il Cremino Fiat
Pag.
208
- Il Bacio
Pag.
209
- Le uova di cioccolato
Pag.
210
Pag.
210
Pag.
211
Pag.
212
4.1 Un po’ di storia
Pag.
212
4.2 Il Vermouth
Pag.
215
3.2.6 Il Settecento ed i primi passi della pasticceria
3.2.6.1 I primi trattati di cucina e di pasticceria
3.3 Il Cioccolato
3.3.2 I cioccolatini
3.3.3 Le praline
- I dolci orbassanesi
4. Liquori e distillati
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4.3 La Grappa Piemontese con alambicco a bagnomaria
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218
4.4
La Menta di Pancalieri
Pag.
220
4.5
Il Genepì
Pag.
223
4.6
Il Barathier elisir d’herbes
Pag.
225
4.7
Il Ratafià
Pag.
228
4.8
Il Nocciolino di Chivasso
Pag.
229
Pag.
230
5. I prodotti a base di carne
5.1
Il maiale nella tradizione contadina del Piemonte
Pag.
230
5.2
I salumi
Pag.
237
- la Mica della Val Susa
Pag.
240
5.2.1 I salami
Pag.
241
- il Cacciatorino
Pag.
243
- il Salame cotto
Pag.
244
- il Salam d’la duja
Pag.
245
- il Cotechino
Pag.
246
5.2.2 I prosciutti
Pag.
247
- il Prosciutto crudo della Val Susa
Pag.
247
5.2.3 I salumi poveri
Pag.
248
5.2.3.1 Dalle “torte” di sangue al salame di patate
Pag.
248
- la Mustardela
Pag.
249
- il Boudin
Pag.
250
- il Sanguinaccio con pane
Pag.
251
- il Sanguinaccio con patate
Pag.
251
- il Bisecon o bisecun
Pag.
252
- i Previ o preti
Pag.
252
- la Pancetta con cotenna
Pag.
253
- il Salame di patate
Pag.
253
- la Salsiccia di cavolo
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254
5.2.3.2 Piedini ed orecchie
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- la Batsuà o basuà
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255
- le Frisse o grive
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256
Pag.
257
- il Salam ‘d turgia
Pag.
258
- la Teutenne o tetetta
Pag.
259
- la Tripa ‘d Muncalè
Pag.
260
- il Salame di capra
Pag.
261
- il Salame di cavallo
Pag.
262
- il Salame di asino
Pag.
262
- il Salame di cinghiale
Pag.
262
5.2.5 I violini e le mocette
Pag.
263
- il Violino di agnello
Pag.
263
- il Violino di camoscio
Pag.
263
- il Violino di capra
Pag.
264
- la Mocetta del Canavese
Pag.
264
Pag.
265
- la Carne secca in salamoia
Pag.
265
- la Galantina
Pag.
265
- il Lardo
Pag.
266
- il Salame all’aglio
Pag.
266
- la Testa in cassetta
Pag.
267
- il Viorun
Pag.
267
Pag.
267
Pag.
269
Pag.
269
6.1.1 La storia e gli aneddoti più antichi
Pag.
269
6.1.2 Il Medioevo
Pag.
275
6.1.2.1 Pantaleone da Confienza e la sua Summa lacticiniorum Pag.
276
5.2.4 Salumi ed insaccati di altri animali
5.2.6 Altri prodotti
5.3 Che fine ha fatto messer porco?
6. I prodotti lattiero-caseari
6.1 I formaggi fra storia e leggenda
6.1.3 Dalla “polenta concia” di Facino Cane ai giorni nostri
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6.2 I prodotti lattiero-caseari della provincia di Torino
Pag.
283
Pag.
283
6.2.1.1 La Toma Piemontese DOP
Pag.
288
6.2.1.2 Le mille varietà di Toma
Pag.
292
6.2.1.3 La Tuma d’ lait brusc
Pag.
295
Pag.
296
Pag.
297
Pag.
298
6.2.3.1 Il tomino canavesano asciutto
Pag.
299
6.2.3.2 Il tomino canavesano fresco
Pag.
299
6.2.3.3 Il tomino di Rivalta Torinese
Pag.
300
6.2.3.4 Il tomino di Saronsella o Chivassotto
Pag.
301
6.2.3.5 Il tomino del Talucco
Pag.
301
6.2.3.6 Il Cevrin di Coazze
Pag.
302
6.2.3.7 La Toma o Tuma di Casalborgone
Pag.
303
6.2.4 Il Murianengo o Moncenisio
Pag.
304
6.2.5 La Paglierina
Pag.
306
6.2.6 Il Crosta Rossa (Reblochon)
Pag.
307
6.2.7 Il Bruss
Pag.
311
6.2.7.1 Il bruss da latte
Pag.
314
6.2.7.2 Il bruss da ricotta
Pag.
315
6.2.8 La Ricotta Piemontese (Seirass)
Pag.
316
6.2.8.1 Il Seirass del fen
Pag.
324
6.2.8.2 Il Salignön
Pag.
326
6.2.8.3 Il Murtret
Pag.
327
Pag.
328
7.1 La biodiversità come presupposto della tipicità
Pag.
328
7.2 Il concetto di razza
Pag.
329
7.3 Perché salvaguardare una specie o razza?
Pag.
330
6.2.1 La Toma
6.2.2 La Tometta
6.2.2.1 Il Tumet
6.2.3 Il Tomino
7. Il germoplasma animale
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7.4 La conservazione del germoplasma animale
Pag.
333
7.5 Il patrimonio zootecnico piemontese
Pag.
339
7.6 Le razze autoctone della provincia di Torino
Pag.
341
7.6.1 La razza bovina Piemontese
Pag.
341
7.6.2 La razza bovina Pezzata Rossa d’Oropa
Pag.
344
7.6.3 La razza ovina Biellese
Pag.
345
7.6.4 La razza ovina Frabosana
Pag.
347
7.6.5 La razza ovina Tacola
Pag.
349
7.6.6 La razza ovina Savoiarda
Pag.
350
7.6.7 La razza caprina Alpina comune
Pag.
352
7.6.8 La razza suina di Cavour
Pag.
353
7.6.9 La gallina Bionda Piemontese
Pag.
354
7.6.10 La gallina Bianca di Cavour
Pag.
355
7.6.11 Il coniglio Grigio di Carmagnola
Pag.
356
Pag.
358
7.7.1 Un po’ di storia
Pag.
358
7.7.2 La lampreda (’l lamprè)
Pag.
362
7.7.3 La Tinca dorata del Pianalto di Poirino
Pag.
368
1. Un patrimonio di straordinarie potenzialità
Pag.
374
2. I sentieri del gusto
Pag.
376
3. Le DOP o IGP possibili
Pag.
378
3.1 Il Peperone di Carmagnola
Pag.
379
3.2 L’Asparago Torinese
Pag.
380
3.3 La Mela Rossa dell’Ovest Piemonte
Pag.
382
3.4 La Mela di Cavour
Pag.
384
3.5 La Ciliegia di Pecetto Torinese
Pag.
386
3.6 La Castagna delle Valli Torinesi
Pag.
387
3.7 Il Salame Cotto Piemonte
Pag.
389
7.7 L’ittiofauna del Piemonte
Capitolo Secondo - Alcune ipotesi di valorizzazione
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3.8 La Ricotta Piemontese
Pag.
390
3.9 La Tinca Dorata del Pianalto di Poirino
Pag.
393
Considerazioni conclusive
Pag.
394
Bibliografia
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399
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I prodotti tipici della provincia di Torino
INTRODUZIONE
Il mondo agricolo si trova innanzi a un bivio: deve decidere se indirizzarsi
verso un’agricoltura votata a fornire nutrimento al minor costo (ciò che conta è
fornire calorie, proteine e vitamine a prezzi stracciati, non importa se a scapito della
qualità e della genuinità), oppure se avviarsi invece verso un’agricoltura consapevole
di non essere soltanto e semplicemente alimentazione, ma anche piacere
gastronomico, anche desiderio di riscoprire le proprie radici culturali attraverso i
sapori della tradizione. E sarà proprio dei prodotti di quest’agricoltura che si
occuperà la presente ricerca.
Innanzitutto cercheremo in questa introduzione di chiarire il significato d’un
termine un poco onnicomprensivo ed elastico come “tipicità”, quindi vedremo
come la interpretano e la salvaguardano le normative vigenti e che opinione hanno
di essa i consumatori.
Quindi, nei capitoli che seguiranno, faremo un censimento dei prodotti tipici
della provincia di Torino (Capitolo Primo), dedicando ad ognuno un congruo
spazio, e cercheremo di individuare in alcuni di essi potenzialità tali da farne
ipotizzare la necessità di una valorizzazione che eventualmente conduca
all’ottenimento di un marchio di tutela comunitaria (Capitolo Secondo).
Infine trarremo alcune brevi considerazioni sul ruolo che svolgono le
produzioni tradizionali, sulle loro potenzialità e sulle iniziative da intraprendere per
garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo.
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1.
I prodotti tipici della provincia di Torino
La tipicità: una scoperta recente.
L’aggettivo “tipico”, nell’odierna accezione di prodotto caratteristico
legato ad uno specifico territorio, è, nella storia dell'alimentazione, una scoperta
relativamente recente.
Un tempo infatti i prodotti alimentari erano il frutto dell'elaborazione
delle materie prime disponibili in loco e la produzione avveniva all'interno di
contesti socio-culturali assai limitati, nei quali la circolazione delle risorse era
riservata ai nobili, alle loro corti ed alle classi mercantili più agiate.
La tipicità ha cominciato ad essere percepita come un valore soltanto
quando, con lo sviluppo delle vie di comunicazione e delle reti commerciali, si è
avuta la possibilità di venire a contatto con prodotti simili realizzati altrove, che
entravano quindi in “concorrenza” con le produzioni locali.
Fintanto poi che la circolazione delle conoscenze necessarie alla
produzione è rimasta limitata ad un ambito territoriale ristretto, la tipicità di un
prodotto - intesa in questo caso nel senso di rispondenza alla tradizione - poteva
essere messa in pericolo tutt’al più da qualche tentativo fraudolento, comunque
non certo in grado di minarne l’esistenza.
Due processi sociali relativamente recenti hanno invece messo a
repentaglio la vita stessa dei prodotti tipici: l'industrializzazione e la
standardizzazione delle produzioni che ad essa consegue.
L'industrializzazione non solo ha portato a modificare le stesse modalità
produttive, ma, fatto ai nostri fini ancor più rilevante, ha progressivamente
sempre più svincolato la produzione alimentare dai suoi luoghi tradizionali.
Cardine dell’industrializzazione è la “ripetibilità”, ossia il riprodursi di
gesti, attività e prodotti sempre assolutamente identici: insomma l’antitesi della
tipicità, che per sua definizione crea prodotti “irripetibili”, legati come sono
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I prodotti tipici della provincia di Torino
all’alea della miriade di microeventi che caratterizzano un territorio ed una
tradizione produttiva.
La necessità di ottenere prodotti sempre uguali ha fatto nascere gli
“standard”, i modelli da riprodurre fedelmente, ed ha mutato il concetto stesso di
“qualità”, ora divenuto semplicemente (semplicisticamente?) la capacità di
rispondere agli standard produttivi.
Creare un modello di prodotto da ripetere significa però “imbalsamare”
quel prodotto e quindi di fatto dimenticare che gli alimenti sono una cosa “viva”,
fatta di microrganismi, tessuti e cellule in gran parte ancora vitali, e che spesso è
questa “vitalità” a rendere tipico (e buono e saporito e salutare e godibile e chi
più ne ha più ne metta) un prodotto.
Questa “vivacità” però non solo non piace all’industria, ma non piace
neppure alle normative in materia di caratteristiche igienico-sanitarie degli
alimenti, che si contraddistinguono per una sorta di “fobia da batterio” e, in
nome del nobile intento di ridurre i rischi per il consumatore, rischiano nella
pratica, come suol dirsi, di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ossia
privilegiano, nei fatti, gli alimenti cosiddetti a basso rischio (quelli “imbalsamati”
cioè), facendo della sterilità un valore assoluto, ai danni delle produzioni
artigianali meno standardizzate e più tradizionali. E così facendo rischiano di
buttar via, tra le altre cose, il bambino che c’è in ognuno di noi e che taluni
prodotti tipici sanno far riemergere, col loro potere evocativo, la loro storia ed il
loro legame con i nostri ricordi, con i brandelli della nostra vita.
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2.
I prodotti tipici della provincia di Torino
Cosa definisce un prodotto tipico.
Definire esattamente cosa sia la tipicità è impresa oggi sempre più ardua.
Abbiamo definito tipico un prodotto legato ad un determinato territorio e ad
una determinata tradizione. Ma, mentre territorio e, benché in misura minore,
tradizione sono termini sufficientemente trasparenti e riconducibili ad una qualche
evidenza oggettiva, il concetto di legame è invece assai più problematico e si presta
ad interpretazioni più o meno restrittive.
Il legame con il territorio infatti può essere semplicemente il fatto che un
certo prodotto porti il nome del luogo in cui anticamente si originava, oppure che
sia fatto con materia prima proveniente da un determinato territorio, oppure ancora
che il processo produttivo, tutto o in parte, le materie prime, tutte o in parte, e
quindi il prodotto finale provengano da quella determinata area.
E cosa dire poi del rapporto con la tradizione? È tipico soltanto un prodotto
che ha dietro di sé un passato, una storia da raccontare, oppure è tipico anche un
nuovo prodotto realizzato in un territorio ben definito? E ancora, quante e quali
variazioni si possono tollerare in un prodotto per poterlo ancora definire tipico?
Quale è il discrimine che ci consente di stabilire che un prodotto è tipico ed un
altro no?
Per cercare di dare risposta a simili quesiti, possiamo distinguere almeno tre
modi, che possono anche essere o apparire in contrasto tra loro, di definire il
concetto di tipicità:
• tipicità come radicamento storico e socio-culturale,
• tipicità come qualità (e/o come rispondenza a determinati standard di
qualità),
• tipicità come denominazione regolamentata.
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2.1 Tipicità come radicamento storico e socio-culturale.
La tipicità è un concetto che trova il suo pieno significato nell'ambito della
storia e del contesto socio-culturale di un territorio. In questo senso, è molto più
difficile definire degli standard e precisare dei confini.
Il prodotto tipico non è semplicemente un alimento (a rigore per altro vi
sono anche numerosi prodotti tipici non alimentari), è lo specchio di un
territorio, delle sue risorse naturali e culturali, è il frutto dello stratificarsi delle
fatiche e dell’inventiva di generazioni e generazioni, è un qualcosa che ha una
storia da raccontare. E la grandezza, la straordinaria “diversità”, di un prodotto
tipico sta nel suo saper raccontare ad ognuno di noi una “sua” storia, imbastita
coi fili dei nostri ricordi più profondi.
È ormai a tutti noto che la cultura materiale fa parte a pieno titolo della
cultura senza aggettivi, anzi, in un mondo in cui predomina la corporeità e la
materialità (lo stesso culto dell’apparire che ci caratterizza non ha proprio nulla di
spirituale), essa diviene il veicolo principale per conoscere la storia e la cultura
d’una società o d’un territorio.
Se è vero poi che le pratiche alimentari sono una parte fondamentale della
cultura di tutti i popoli, allora il prodotto tipico va considerato, a tutti gli
effetti, un bene culturale.
Non necessariamente un'opera d'arte, è ovvio, come non lo sono gran
parte dei documenti storici o dei reperti archeologi, ma un bene che ha in sé la
capacità di evocare la nostra storia, anzi, a ben pensarci, che ”è” la nostra storia.
In questo senso, la diffusione della cultura dei prodotti tipici è prima di
tutto una questione di diffusione culturale e di educazione.
E quindi sarebbe
importante se di essa si occupasse non solo il Ministero delle Politiche Agricole,
ma anche il Ministero dei Beni Culturali e, perché no, il Ministero dell’Istruzione.
Sarebbe bene infatti che si moltiplicassero le iniziative di educazione
alimentare nelle scuole (la Coldiretti torinese fin dal 19 conduce ogni anno
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un’intensa attività nelle scuole torinesi), per spiegare ai ragazzi cos'è un prodotto
tipico ed abituarli a riconoscere in quel cibo qualcosa di più che un semplice
nutrimento.
Perché comprendere appieno un prodotto tipico non è soltanto una
questione di gusto, di “sensi”, quanto piuttosto una questione di “senso”.
Occorre cioè una cultura specifica che, considerandolo alla stregua d’un qualsiasi
bene culturale, sia in grado di attribuirgli l’intero suo significato, collocandolo
all’interno di un sistema di segni, di valori, di rimandi, di corrispondenze, di
confronti.
Ecco perché anche la cultura alimentare ha bisogno di essere
tramandata, insegnata, diffusa, stimolata: solo così il prodotto tipico spalancherà
le porte del mondo in esso racchiuso e riuscirà a perpetuare il miracolo di farlo
continuamente rivivere.
2.2 Tipicità come qualità.
“Tipicità” non è sinonimo di “qualità” tout court, è bene sottolinearlo
subito, per quanto possa esservi una stretta parentela.
L'innegabile qualità di
molti prodotti industriali moderni, o dei pregiatissimi piatti della nouvelle-cuisine,
sono quanto di più lontano si possa immaginare da un prodotto tipico inteso in
senso tradizionale.
Anzi non è paradossale sostenere che molti prodotti tipici nel senso più
tradizionale del termine non potrebbero essere considerati oggi dei prodotti di
qualità, almeno non nell'accezione più attuale del termine qualità applicato ai
prodotti alimentari, che, ignorando che l’alimento è una cosa viva, privilegia
l’aspetto igienico-sanitario, facendo, come abbiamo già detto, della sterilità un
valore assoluto.
Definire il concetto di qualità di un alimento rimane comunque assai
complicato.
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Si può definire la qualità complessiva d’un alimento come la
sommatoria di numerose qualità, che la bibliografia più recente, così come
illustrato nello Schema n° 1, riassume in cinque “qualità”:
• qualità Igienico-sanitaria, intesa come assenza di agenti patogeni od
inquinanti;
• qualità nutrizionale, come contenuto in elementi nutritivi;
• qualità sensoriale, che considera le caratteristiche percettibili, quali
l’aspetto, l’odore, il colore, la consistenza, la struttura;
• qualità tecnologica, intesa come attitudine a particolari usi o
trasformazioni (resa produttiva, ritenzione idrica, resistenza alle
manipolazioni, ecc.);
• qualità d’uso, da intendersi come l’insieme di quelle caratteristiche che
rendono “facile” e “conveniente” l’uso di un determinato prodotto,
quali la disponibilità (facilità di reperimento e quantitativi sufficienti a
soddisfare
la
richiesta),
la
conservabilità,
la
trasportabilità,
l’economicità.
Le norme internazionali di qualità invece definiscono la qualità come
“l’insieme delle caratteristiche di un’entità, che ne determinano la capacità di
soddisfare esigenze espresse ed implicite” (UNI EN ISO 8402 ed. 1995).
Questa definizione di “qualità” implica che un’entità deve in tutti gli
aspetti essere idonea per il proprio previsto uso. Nel caso di un prodotto, esso
deve, all’atto della messa sul mercato, soddisfare un certo numero di specifiche
tecniche (standard), le quali possono essere codificate in norme o contratti. In
questo senso la “qualità” diventa “conformità ai requisiti richiesti”, “rispondenza agli
standard” o, in loro assenza, “adeguatezza allo scopo”.
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Schema n° 1 –
•
•
•
•
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La qualità degli alimenti.
Igienico-sanitaria
assenza di:
microrganismi
patogeni e tossine;
parassiti
e
loro
metaboliti;
contaminanti tossici;
ecc.
•
•
•
•
•
energia
proteine
minerali
vitamine
ecc.
La qualità
degli
alimenti
Sensoriale
•
•
•
•
•
Nutrizionale
aspetto
colore
odore
struttura
ecc.
Qualità d’uso
•
•
•
•
•
disponibilità
conservabilità
trasportabilità
economicità
ecc.
Tecnologica
Attitudine a particolari usi o trasformazioni
(es. resa, ritenzione idrica, resistenza alle
manipolazioni, ecc.)
Quando parliamo però di prodotto tipico e cerchiamo di definirne il
concetto di qualità, avvertiamo immediatamente l’inadeguatezza tanto di questa
definizione quanto delle cinque categorie riportate nello Schema: nessuna ci pare
risponda adeguatamente alle peculiarità che caratterizzano un prodotto tipico.
È un po’ come per le nostre capacità percettive: ci siamo resi conto, ormai
da secoli, che i nostri cinque sensi sono una strumento inadeguato per cogliere
appieno la complessità dell’universo e ci siamo così inventati il “sesto senso”, che
non è certo un concetto univoco o ben definibile, ma è un elastico agglomerato
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di sensazioni indefinibili, è il residuo fossile di quell’antenna parabolica da
marziani che forse un tempo, chissà, avevamo.
Ecco quindi che la tipicità diventa la “sesta qualità” d’un alimento.
Ed in questo senso la tipicità di un prodotto diviene l’espressione della sua
capacità vocativa e referenziale.
La tipicità di un prodotto, la sua tradizionalità, diviene essa stessa
sommatoria di diversi caratteri, che fanno del prodotto tipico un “unicum”:
la storicità, in virtù della sua capacità di richiamare valori culturali originali
delle comunità locali e del suo stretto rapporto con l’ambito territoriale
di riferimento;
la familiarità, per la sua capacità di rievocare “concretamente” le nostre
radici;
la riscoperta, per quel suo stimolarci alla ricerca del tempo perduto e fare
così di noi tanti piccoli Indiana Jones del gusto;
l’eccellenza, non tanto per quei suoi profili organolettici particolare,
quanto per quel suo essere frutto d’una antica sapienza artigianale ed
espressione dell’arte del “particulare”, così cara alla nostra storia e al
nostro sentire.
2.3 Tipicità come denominazione regolamentata.
Un’altra accezione del concetto di “prodotto tipico” è quella che lo identifica
con un prodotto a denominazione regolamentata e quindi, potremmo dire, munito
d’una patente di ufficialità, che lo definisce tipico, lo contraddistingue e lo tutela.
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2.3.1
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La normativa nazionale.
La necessità di definire e tutelare, a livello nazionale ed internazionale, la
tipicità dei prodotti ha cominciato a diventare un’esigenza, per tutti i principali paesi
europei, fin dai primi anni del secondo dopoguerra, quando si è iniziato ad
intervenire con una regolamentazione giuridicamente vincolante.
Il primo atto ufficiale di questa nuova sensibilità si è avuto con la Convenzione
Internazionale sull’uso dei nominativi e delle denominazioni dei formaggi, stipulata a Stresa il 1
giugno 1951 tra Italia, Francia, Svizzera, Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e
Norvegia.
In essa i Paesi contraenti riconoscono un’univoca definizione ai
concetti di ‘formaggio’, ‘nominativi d’origine’ e ‘denominazioni’, e si impegnano ad
adeguare le singole normative nazionali in materia. I formaggi italiani riconosciuti
con questa convenzione sono Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Pecorino
Romano, Fontina, Fiore Sardo, Asiago, Provolone e Caciocavallo.
A questo primo atto internazionale è seguito l’Accordo di Lisbona del 31
ottobre 1958 che ha definito il concetto di denominazione di origine (“denominazione
geografica di un paese, regione o località che serve a designare un prodotto che ne
proviene e le cui qualità o caratteristiche siano dovute esclusivamente o
essenzialmente all’ambiente geografico, comprendendovi i fattori naturali e i fattori
umani”), estendendolo a tutti i prodotti, e ne ha stabilito la protezione.
L’atto normativo nazionale che ha recepito gli accordi intrapresi con la
Convenzione di Stresa è la Legge 10 aprile 1954 n. 125 ‘Tutela delle denominazioni
di origine e tipiche dei formaggi’, cui sono seguite le ‘Norme regolamentari’
d’applicazione contenute nel D.P.R. 5 agosto 1955 n. 667.
La Legge 125/54 tra le altre cose ha istituito un apposito Comitato
Nazionale per la tutela dei formaggi a denominazione ed ha riconosciuto ai
Consorzi volontari di produzione compiti di vigilanza sulla produzione e sul
commercio dei formaggi a denominazione.
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Ad essa è seguito il D.P.R. 30 ottobre 1955 n. 1269 di riconoscimento di 14
formaggi (Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Gorgonzola, Pecorino Romano,
Pecorino Siciliano, Fontina, Montasio, Pressato, Ragusano, Taleggio, Fiore Sardo,
Asiago, Provolone e Caciocavallo), che ha definito per ognuno di essi metodi di
lavorazione, caratteristiche merceologiche e zone di produzione.
Per quanto concerne gli altri formaggi piemontesi, oltre a Grana Padano e
Gorgonzola, occorre attendere la fine degli Anni Settanta (se si eccettua il D.M. 24
novembre 1964 sulle caratteristiche del “Toma” prodotto nel vercellese) per avere i
decreti di riconoscimento della ‘Robiola di Roccaverano’ (1979) e di Murazzano,
del Bra, del Raschera e del Castelmagno (1982), cui seguirà dieci anni dopo quello
del Toma Piemontese (1993).
Agli Anni Cinquanta datano anche i primi riconoscimenti di denominazione
attribuiti ai vini (benché alcuni tentativi di regolamentazione fossero già stati fatti
negli Anni Trenta, come il Decreto del Ministero Agricoltura e Foreste del 15
ottobre 1931 che delimitava la zona tipica di produzione del Marsala) a partire dalle
leggi del 4 novembre 1950 n° 1068 e n° 1069 di riconoscimento rispettivamente
del “Moscato passito di Pantelleria” e del “Marsala”.
Bisognerà però attendere l’inizio degli Anni Sessanta per avere la prima vera
disciplina organica dei vini a denominazione d’origine, orientata sul collaudato
modello francese, con il D.P.R. 12 luglio 1963 n° 930, che ha definito le “Norme
per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini”, classificandole in: denominazione di origine “semplice” (D.O.), “controllata” (D.O.C.) e “controllata
e garantita” (D.O.C.G.).
Da questo punto in avanti i vini italiani procederanno spediti, distanziando
inesorabilmente tutti gli altri prodotti, verso un successo che non ha eguali ed in
molti casi ha consentito la sopravvivenza, spesso pure ben remunerata, di vitigni,
ambienti e consuetudini tradizionali.
La distanza tra i vini e gli altri prodotti è ben sintetizzata dal fatto che in
Piemonte, a fronte di ben 51 vini a DOC/DOCG, vi siano appena 6 DOP
(formaggi) e 1 IGP (Nocciola Piemonte).
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Per questo motivo la presente ricerca non considera in alcun modo i vini,
ritenendo che essi, ancorché siano sicuramente da considerarsi “prodotti tipici” di
grande tradizione e qualità, siano ormai sufficientemente noti e studiati.
La denominazione d’origine, inizialmente come abbiamo visto riservata a
vini e formaggi, è stata progressivamente allargata, a partire dagli Anni Ottanta, a
salumi, olio extravergine di oliva, frutta e ortaggi. Quindi, negli anni successivi, la
normativa nazionale è andata raccordandosi con la nascente normativa comunitaria,
che ha dato nuovo impulso e indirizzo alla denominazione d’origine.
2.3.2 I marchi di garanzia comunitari.
Con i Regolamenti n. 2081/92 e 2082/92 la Comunità Europea ha per la
prima volta inteso valorizzare i prodotti agroalimentari mettendone in evidenza
la qualità legata all’origine geografica. In particolare il Regolamento n. 2081/92,
entrato in vigore il 24 luglio 1993, intende espressamente favorire lo sviluppo
delle zone rurali e delle popolazioni che vi risiedono esercitando attività legate
all’agricoltura e alla trasformazione dei prodotti agricoli.
È bene ricordare infatti che i prodotti che possono beneficiare dei marchi
comunitari DOP e IGP (per i vini DOCG e DOC) risultato tutelati in modo più
efficace in caso di contestazione, grazie alla prevalenza del diritto comunitario
rispetto al diritto nazionale dei singoli Stati membri.
Inoltre
l’Accordo
TRIPS,
applicabile
nei
130
Paesi
aderenti
all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), consente di tutelare, in tali
Paesi, non solo i marchi e i brevetti di invenzione, ma anche le denominazioni di
origine geografiche che risultano legittimamente tutelate all’interno di ciascuno
dei Paesi aderenti.
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I marchi comunitari sono riportati nello Schema n° 2
e descritti
brevemente nei paragrafi successivi.
Schema n° 2 - I marchi comunitari.
D.O.P.: Denominazione di Origine Protetta.
È il marchio comunitario che costituisce una tutela e una garanzia sia a livello
comunitario che con i paesi terzi. La protezione della denominazione d'origine è
stata attuata dalla Comunità Europea con il Regolamento N. 2081/92, entrato in
vigore il 24 luglio 1993.
In esso per Denominazione d'Origine Protetta si intende:
"il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un
paese, che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:
- originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese,
- la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o
esclusivamente all'ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed
umani,
- la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'area
geografica delimitata" (Art. 2 par.1).
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I.G.P.: Indicazione Geografica Protetta.
È il marchio comunitario che viene attribuito a prodotti la cui origine fa
riferimento ad uno specifico ambito territoriale, ma per i quali è sufficiente che solo
una fase del processo produttivo avvenga nell'area geografica determinata. La
protezione della indicazione geografica è stata attuata dalla Comunità Europea con
il Regolamento N. 2081/92, entrato in vigore il 24 luglio 1993.
In esso per Indicazione Geografica Protetta si intende:
"il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un
paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:
- originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese,
- di cui una determinata qualità, la reputazione o un'altra caratteristica possa
essere attribuita all'origine geografica,
- la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell'area
geografica determinata" (Art. 2 par. 1).
S.T.G.: Specialità Tradizionale Garantita.
Il regolamento n. 2082/92 consente di attribuire la denominazione di
Specialità Tradizionale Garantita ai prodotti fabbricati secondo le formule
tradizionali nel paese di origine.
In Italia ad oggi soltanto la “mozzarella” ha ottenuto questo riconoscimento.
Le caratteristiche specifiche di tale regolamento e lo scarso interesse raccolto fino
ad ora, non fanno intravedere grandi sviluppi futuri.
2.4
Tipicità come risultante di più fattori.
Dalle più recenti indagini, come vedremo nel successivo paragrafo (cfr. par.
3), emerge come il consumatore ritenga elemento “indispensabile” per attribuire
una patente di tipicità la presenza di un legame o di un vincolo tra prodotto e
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territorio.
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Tuttavia esistono molteplici fattori che, sommandosi e fondendosi a
quello geografico, determinano il prodotto tipico ed il suo apprezzamento da parte
della domanda finale.
La Tabella n° 1 che segue propone uno schema riepilogativo che classifica gli
spazi di differenziazione tra:
- differenti fasi e livelli della filiera: materie prime, trasformazione, stagionaturaconservazione;
- differenti variabili di prodotto: areale di produzione (localizzazione), contenuto
intrinseco delle componenti materiali del prodotto (input di produzione) e
componenti “esterne” di processo (tecniche di gestione).
Tab. n° 1 - Le variabili della tipicità alimentare.
Localizzazione
Comunale,
Materie prime
provinciale,
agricole
regionale (1 o più),
nazionale
Comunale,
Trasformazione
provinciale,
regionale (1 o più),
nazionale
Input di produzione Tecniche di gestione
Razza, varietà,
cultivar,
tipo alimentazione
Trattamenti,
lavorazioni,
operazioni colturali,
modalità raccolta
Parametri chimico-
Salatura,
fisici di gestione,
tipo di caglio,
tecnica di cottura,
ingredienti
tecniche di
spremitura
Comunale,
Tempi di
Stagionatura,
provinciale,
stagionatura,
conservazione
regionale (1 o più),
modalità di
nazionale
conservazione
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Le singole caselle mostrano alcuni esempi esplicativi del tipo di
differenziazione che può essere introdotta e sottolineano come, a seconda dei casi,
il livello di “vincolo” associato al prodotto può essere più o meno forte.
In pratica la differenziazione insita in un prodotto tipico, e quindi la sua
specificità, è la risultante di un mix di fattori che trovano nel disciplinare di
produzione lo strumento di identificazione e la base di riferimento per i controlli e
la certificazione.
Ciò significa che non esiste una definizione univoca di tipicità, bensì
esistono prodotti con diversi livelli di tipicità. Infatti, pur in presenza del
minimo comune denominatore rappresentato dal legame col territorio, la differente
qualità e quantità di vincoli legati al prodotto determina livelli distinti di “tipicità”.
E tale attributo assume valori più elevati quanto maggiori risultano vincoli, legami
ed elementi di differenziazione.
3.
La tipicità percepita.
L’Istituto Nomisma ha condotto nel 2000 (VIII rapporto sull’agricoltura
italiana “Prodotti tipici e sviluppo locale. Il ruolo delle produzioni di qualità nel
futuro dell’agricoltura italiana” Sintesi dei risultati intermedi. Roma, 11 luglio 2000)
un’indagine sui prodotti tipici realizzata su un campione di consumatori
rappresentativo dei grandi centri urbani (Milano, Torino, Bologna, Roma, Napoli,
Bari) con l’obiettivo di verificare:
i criteri di scelta del consumatore relativi all’acquisto di beni
•
alimentari:
•
l’importanza della tipicità del prodotto come criterio di scelta negli
acquisti dei prodotti alimentari;
•
la capacità di identificazione dei prodotti tipici da parte del
consumatore;
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•
la conoscenza di marchi di tutela comunitari per i prodotti alimentari;
•
la capacità di associazione dei prodotti alimentari ai marchi di tutela;
•
la riconoscibilità dei marchi DOP e IGP per le diverse categorie
merceologiche di prodotti alimentari.
•
l’accettazione di un differenziale di prezzo tra “tipico” e “non tipico”.
I risultati di tale indagine sono sintetizzati nelle Tabelle di seguito riportate.
.
Tab. n° 2 - I criteri di scelta dei prodotti alimentari.
Criteri
Punteggio
Importanza alta
di scelta
medio
Giudizio da 8 a 10
Marchi di tutela e garanzie di qualità
8,8
85,8%
Prodotto naturale
8,2
75,1%
Provenienza italiana del prodotto
8,2
73,8%
Vicinanza del punto vendita
8,0
68,3%
Prezzo e convenienza
7,4
56,4%
Presenza di promozioni
6,7
45,9%
5,9
34,9%
5,4
19,2%
Prodotto della regione/provincia di
appartenenza
Marca famosa
Fonte: Nomisma, Indagine Prodotti Tipici 2000
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Tab. n° 3 - Gli attributi di tipicità di un prodotto.
Attributi
%
Genuino, non ha conservanti
31,8
Fatto con materie prime del territorio
24,5
Fatto con metodi artigianali
18,5
Basato su una ricetta tradizionale
15,8
Acquistabile direttamente nel luogo di produzione
9,4
Fonte: Nomisma, Indagine Prodotti Tipici 2000
Tab. n° 4 – Conoscenza dei marchi di tutela e certificazione dei prodotti
alimentari.
Conoscenza marchio
Sì, conosco
No, non conosco
ISO 9000 UNI-EN 29000
26,0
74,0
Biologico
82,5
17,5
Lotta integrata
16,6
83,4
DOP
28,8
71,2
IGP
18,1
81,9
STG
12,5
87,5
Fonte: Nomisma, Indagine Prodotti Tipici 2000
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Tab. n° 5 - Associazione tra prodotti alimentari e marchi di tutela: analisi per
comparto.
Percezione
Percezione
errata
Corretta
31,3
22,3
46,6
Formaggi
28,9
23,1
48,1
Ortofrutta
33,3
38,8
27,9
Pasta e prodotti da forno
29,4
47,6
23,0
Comparto
Non so
Salumi e carne
Fonte: Nomisma, Indagine Prodotti Tipici 2000
Tab. n° 6 - Il differenziale di prezzo ‘sostenibile’ per i prodotti tipici.
È disposto a pagare un prezzo più elevato per il prodotto tipico?
Risposte %
Sì, anche molto elevato (>50%)
10
Sì, con una differenza tra il 20% e il 50%
19
Sì, ma non più del 20%
47
No, non sono disposto a pagare alcuna differenza
18
Non so
6
Fonte: Nomisma, Indagine Prodotti Tipici 2000
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4. La ‘inadeguatezza’ degli strumenti comunitari di tutela
dell’origine dei prodotti tipici.
Abbiamo visto nei paragrafi precedenti come esistano diversi livelli di
tipicità, che tende ad assumere valori più elevati quanto maggiori risultano i vincoli
e gli elementi di differenziazione, e come il legislatore comunitario, con DOP, IGP
e STG, abbia in un certo senso interpretato tale aspetto.
È indubbio però che, in senso più generale, livelli differenti di tipicità siano
riscontrabili anche al di fuori del sistema delle denominazioni comunitarie, tra i
prodotti che, a vario titolo - tradizionali, di fattoria, locali, di parchi/aree protette,
ecc. - si propongono al consumatore come tipici.
Quindi, nonostante essi rappresentino il quadro normativo di riferimento
essenziale per la valorizzazione dei grandi prodotti tipici italiani e per supportare
politiche di espansione delle esportazioni, i regolamenti sulla tutela dell’origine non
sono, da soli, in grado di coprire la vasta gamma di opportunità, produzioni e
nicchie che caratterizzano i sistemi agricoli e territoriali italiani.
La valorizzazione completa del prodotto tipico italiano (come in altri Paesi
Europei) necessita di diversi strumenti interrelati organicamente, in grado di
assicurare quei principi di flessibilità e diversificazione che sono insiti nel concetto
“esteso” di tipicità.
Tra le varie opportunità che l’esperienza ha dimostrato difficilmente
valorizzabili con i regolamenti sulle denominazioni d’origine, un ruolo rilevante è
rappresentato dalle produzioni ottenute con processi tradizionali (ecotipi locali di
nicchia, preparazioni gastronomiche tradizionali, eccetera).
Si tratta, in genere, di produzioni agricole ottenute con processi di
trasformazione consolidati nel tempo (formaggi, salumi, varie tipologie di conserve
vegetali) che si caratterizzano come “arte del particolare”, assumendo non di rado
valenze di assoluta eccellenza.
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Queste produzioni non sempre possono rientrare negli schemi segnati dalla
regolamentazione comunitaria per diversi motivi interagenti e, talvolta, sovrapposti:
• piccola scala produttiva;
• eterogeneità delle produzioni;
• frammentazione delle aziende produttrici, difficilmente organizzabili in
consorzi.
A ciò occorre aggiungere poi che, generalmente, queste produzioni si
caratterizzano per porsi ai massimi livelli di tipicità e quindi di vincoli e di
differenziazione, il che si scontra con la generale correlazione positiva presente tra
vincoli e costi di produzione, a livello tanto a livello d’impresa quanto di filiera,
come ben evidenzia lo Schema n° 3.
Schema n° 3 - Il binomio “vincoli-dimensioni”.
Costi maggiori
Volumi prodotto ridotti
Vincoli
blandi
Vincoli
estremi
Volumi prodotto elevati
Costi minori
Fonte Nomisma
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La correlazione diretta tra vincoli e costi di produzione è comunque soltanto
una delle componenti economiche che caratterizzano i sistemi di produzione tipici,
come si può evincere dalla Tab. n° 7, nella quale viene riportato con maggiore
dettaglio il panorama delle “funzioni” economiche del prodotto, distinguendo tali
funzioni a seconda che riguardino il livello microeconomico dell’impresa o quello
più generale della filiera e del sistema locale.
Proprio perché, come abbiamo visto, l’elemento imprescindibile della tipicità
è la presenza di un legame diretto tra prodotto e territorio, si comprende come tale
caratteristica implichi effetti economici diretti e indiretti sull’economia del
comprensorio considerato.
Il modello economico della produzione tipica può interagire anche a livello
di “sistema” territoriale, garantendo la massima efficienza in termini di
“attivazione” dell’economia locale. Infatti i legami col territorio garantiscono la
permanenza in esso dei benefici economici di una positiva evoluzione del prodotto
sul mercato finale.
D’altronde, se sostenuto da una coerente concertazione e condivisione
territoriale delle scelte programmatorie riferite allo sviluppo rurale, il prodotto
tipico può coagulare sinergie intersettoriali con altre componenti dell’economia e
del territorio (turismo, ambiente, cultura).
Ecco perché diviene estremamente importante una politica di sostegno che
tuteli non solo le poche grandi produzioni tipiche a marchio comunitario, ma anche
la miriade di produzioni tradizionali, ivi compresi le tante piccole DOP e IGP che
non riescono ad andare oltre un mercato più o meno strettamente locale.
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Tab. n° 7 - Le “funzioni” economiche dei modelli di produzione tipici.
Minacce – vincoli
I
- Maggiori costi di produzione
M
delle materie prime
P
- Maggiori costi di trasformazione
R
- Costi del sistema di
E
controllo e certificazione
S
- Costi di produzione,
A
commercializzazione e tutela giuridica
Opportunità
- nuovi segmenti di
domanda interna
- nuovi mercati geografici
- maggiori garanzie di reddito
- sfuggire alla concorrenza
internazionale
del prodotto
S
I
S
T
E
M
- Ripensamento approccio
- garanzia indotto economico
allo sviluppo locale
- garanzia indotto occupazionale
- necessità di coordinamento di filiera e
- sinergie “intersettoriali” per lo
di sistema economico locale
sviluppo locale
- condivisione “territoriale”
- conservazione identità storico-
di indirizzi e strategie
culturale
A
È sufficiente così uno sguardo, anche sommario e frettoloso, al panorama
italiano delle produzioni tipiche tutelate, per rimanere colpiti innanzitutto dalla
natura “bipolare” del paniere dei prodotti italiani a denominazione comunitaria.
La Tab. n° 8 mostra infatti come i primi 10 prodotti DOP/IGP per
dimensione di PLV agricola attivata (qui elencati in ordine di PLV decrescente:
Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Gorgonzola, Pecorino
Romano, Prosciutto San Daniele, Mozzarella di Bufala Campana, Prosciutto di
Norcia, Speck Alto Adige, Prosciutto di Modena), aggreghino una quota di PLV
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complessiva pari a circa il 92% ed una quota pressoché analoga in termini di export
(90%).
Tab. n° 8 - La concentrazione dei prodotti DOP/IGP
PLV
Quota
Export
Quota
(mrd. Lire)
%
(mrd. Lire)
%
Top 10
5.057
91,6
1.658
90,4
Altri 93 prodotti
465
8,4
176
9,6
Totale paniere DOP/IGP
5.522
100,0
1.834
100,0
Prodotti
Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Consorzi di Tutela
Oltre alla caratteristica dimensionale, anche altre variabili della tipicità
contribuiscono a definire tipologie di prodotto e modelli di filiera. In questo senso
lo Schema n° 4 individua, sui due livelli accesso alle materie prime e ampiezza
dell’area di trasformazione, quattro gruppi di prodotto:
A) prodotti con bacini geografici ampi sia per l’approvvigionamento delle
materie prime e sia per l’area di trasformazione;
B) prodotti con ampio bacino di approvvigionamento delle materie prime e
area di trasformazione ristretta;
C) i cosiddetti “prodotti alimentari locali”, che possiedono caratteristiche
intermedie, vuoi per dimensioni, vuoi per materie prime e aree di
trasformazione (ambiti provinciali o pluricomunali), e che trovano sbocco
prevalentemente in mercati locali e regionali; in questa categoria rientrano
gran parte dei prodotti a marchio dei settori caseario e della salumeria;
D) vi è infine il cosiddetto “giacimento delle nicchie”, che racchiude
“preziosità” d’ogni genere.
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In quest’ultima categoria rientra tutto quell’elevato numero di prodotti
nazionali - ivi comprese alcune DOP e IGP “minori” e quei prodotti legati alle
numerose iniziative di marchi collettivi fiorite di recente nel nostro paese contraddistinti da una forte specializzazione, tanto delle materie prime quanto della
trasformazione, e caratterizzati da dimensioni di scala ridotte o anche molto ridotte
(da qualche miliardo a alcune decine di milioni). E sarà proprio di questi prodotti
che si occuperà la presente ricerca.
Schema n° 4 - La “mappa strategica” dei prodotti tipici.
A
•
•
•
•
Accesso a Materie Prime
(bacino approvv. ampio)
Mortadella di Bologna
Grana Padano
Gorgonzola
Pecorino Romano
Area di
trasformazione
ampia
•
•
•
•
B
Bresaola
Speck
Prosciutto di Parma
Parmigiano Reggiano
Area di
trasformazione
ristretta
Prodotti
alimentari
locali
C
D
Giacimento
delle “nicchie”
Limitazione Materie Prime
(bacino approvv. ristretto)
Fonte Nomisma
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5. L’elenco regionale dei prodotti agroalimentari tradizionali (ai
sensi dell’art. 8 del Decreto Legislativo 30 aprile 1998 n. 173).
L’introduzione delle recenti normative in materia di caratteristiche igienicosanitarie degli alimenti - il Decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio
1997 n. 54 in materia di produzioni lattiero-casearie, attuazione delle direttive CE
92/46 e 92/47, e soprattutto il decreto Legislativo 26 maggio 1997 n. 155,
attuazione delle direttive CE 93/43 e 96/3, concernente l’igiene dei prodotti
alimentari - ha suscitato da più parti nel nostro Paese forti proteste, che si sono
tradotte in una riscoperta delle produzioni tipiche italiane, considerate le prime
vittime d’una visione troppo rigida e burocratica del sacrosanto concetto della
tutela del consumatore, ed in una massiccia mobilitazione dell’opinione pubblica in
favore della loro salvaguardia.
Per tentare in qualche modo di placare le proteste e di favorire l’ottenimento
di qualche deroga per talune produzioni tradizionali, il Decreto Legislativo 30 aprile
1988 n. 173 ha istituito la pubblicazione di un elenco regionale di “prodotti
tradizionali” (art. 8, comma 1) e ha dato vita ad un Comitato, presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, con lo scopo “di promuovere e diffondere le produzioni
agroalimentari tipiche e di qualità e per accrescere le capacità concorrenziali del
sistema agroalimentare nazionale, nell’ambito di un programma integrato di
valorizzazione del patrimonio culturale, artigianale e turistico nazionale” (art. 8,
comma 3).
Sulla scorta di ciò la Regione Piemonte ha emesso – con deliberazione della
Giunta Regionale 10 aprile 2000 n. 89-29894, pubblicato sul Bollettino Ufficiale
della Regione Piemonte del 24 maggio 2000 - un primo elenco di prodotti
agroalimentari tradizionali del Piemonte, che riporta le schede tecniche di 162
prodotti e cita altri 65 prodotti in via di definizione.
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Di questi prodotti, 91
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interessano la provincia di Torino, dei quali 68 corredati di scheda tecnica e 23 con
semplice segnalazione.
Detto elenco è soggetto a periodici aggiornamenti, al fine di consentire la
modifica della scheda tecnica dei prodotti già inclusi o l’aggiunta di nuovi prodotti.
Il prossimo aggiornamento e previsto per la fine del 2000.
Molti dei materiali raccolti in questo studio si sono tradotti in schede di
segnalazione inviate alla regione Piemonte ad integrazione del primo elenco
pubblicato.
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Capitolo Primo
I PRODOTTI TIPICI
DELLA PROVINCIA DI TORINO
_______________________
1. ORTAGGI, CEREALI E SIMILI.
1.1 Un po’ di storia.
Gli ortaggi hanno, da sempre, una tale importanza nell’economia rurale e
nella cucina contadina da poter essere definiti tutto meno che semplici “contorni”.
Per secoli hanno rappresentato il pane e il companatico d’intere generazioni che,
soprattutto in aree montane e marginali, vedevano la carne un paio di volte
all’anno.
Gli anni bui del Medioevo, e delle invasioni in particolare, sono il periodo
delle carestie, ma anche delle mille “invenzioni” per togliersi al meglio la fame.
Tutto è buono per chi non ha da mangiare: si riducevano in farina le radici seccate
della gramigna per fare il pane; si mangiavano ghiande, miglio, panico, segale,
saggina, veccia, luppoli. Si andavano a cercare le radici della scorzonera e della
scorzobianca (il barbabuc che vedremo più oltre), le bacche di rosa canina (ancor
oggi se ne fanno liquori e marmellate), i sarmenti secchi e pestati della vite (oggi i
più raffinati mettono i viticci nell’aceto), la scorza di pino, i semi della “Bella di
notte” ed una infinità di altre bacche e radici che, come scrive Giovan Battista
Segni in Discorso sopra la carestia e la fame del 1591, «producevano un gran rinfranco
alla povera gente in tempo di carestia in luogo di castagne e di pane».
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Il mondo vegetale insomma ha sempre rappresentato, nei periodi di magra
soprattutto, un inesauribile serbatoio di alimenti, come mirabilmente sintetizza un
antico proverbio valdese: «touto èrbo du’ lèvo la créto è bouno a fa la m’nétro»,
ogni erba che sollevi la cresta è buona per far la minestra.
Sarebbe lunghissimo l’elenco delle erbe e dei vegetali in genere che i nostri
avi riuscivano a scovare nei preti e nei boschi e che finivano nelle minestre o nelle
insalate. Se ne può avere un’idea dall’abilità di certe contadine che ancora oggi in
pochissimo tempo sanno raccogliere cesti pieni di erbe sconosciute con cui fare
sformati, torte, zuppe, perfino dolci.
Nel 1919 il direttore dell’Istituto Botanico dell’Università di Torino - il prof.
Oreste Mattirolo -preoccupato dal rischio di una carestia (allora tutt’altro che
improbabile) studiò «i vegetali alimentari spontanei del Piemonte», pubblicando un
curioso libretto, Phytoalimurgia pedemontana, dal quale risultano essere più di
cinquecento le piante che crescono naturalmente e che - ignorate oggi dalla maggior
parte della gastronomia - in realtà sono commestibili e, probabilmente, sono state
utilizzate nella cucina dei nostri vecchi..
Un’idea, anche abbastanza precisa, su cosa mangiavano gli italiani, ed i
piemontesi in particolare, sul finire del Medioevo ce la possiamo fare comparando i
quattro più antichi manoscritti di ricette della cucina italiana (cfr. la «Storia della
Gastronomia Italiana» di Claudio Benporat). Ecco gli ingredienti primari citati dai
quattro testi a proposito delle verdure:
Asparago, bietola, cappero, cardo, carota, cavolo, cece, cicoria, cima di rapa,
cipolla, fagiolo (“dell’occhio”), farro, fava, finocchio, frumento, fungo, indivia,
lattuga, lenticchia, miglio, navone, panico, pastinaca, pisello, porro, rapa, ravanello,
riso, sambuco, scalogno, sedano, spinacio, zucca, zucchino.
Le più recenti ricerche storiche ed archeologiche sembrano aver stabilito che
le lenticchie erano coltivate dalle nostre parti già in epoca preistorica, mentre la
coltivazione della fava risale almeno all’età del Bronzo ed i piselli erano certamente
già conosciuti nel 4500 avanti Cristo.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Insomma il mondo vegetale ha rappresentato per secoli la base alimentare
con cui hanno campato i nostri avi sino a non molto tempo fa.
Appena
cinquant’anni fa infatti la base alimentare dei nostri nonni, soprattutto nelle aree
montane e marginali, era costituita da cereali, patate, castagne, cipolle, cavoli,
legumi. Da essi riuscivano a trarre energia e proteine a sufficienza (senza scialare è
ovvio), trovando le vitamine e i sali minerali nella frutta locale e nelle verdure a
foglia larga.
Ecco perché assume una particolare importanza la riscoperta di ortaggi tipici,
la cui scomparsa comporterebbe un’irreversibile perdita di memoria collettiva, di
identità territoriale, di piacere del gusto e di storia locale.
In questo senso la provincia di Torino appare come un orto quanto mai
vario, come si potrà ben apprezzare nei paragrafi che seguiranno e che daranno
conto del panorama orticolo tipico del territorio provinciale.
1.2 Il Peperone di Carmagnola.
Il peperone è pianta d’origine incerta, sconosciuta ai Greci, ai Romani, ai
Cinesi e anche, come dimostrato dai viaggi del navigatore inglese Cook, agli abitanti
delle isole del Pacifico. Secondo De Candolle, la vera patria del peperone è il
Brasile, secondo altri il Messico o la Giamaica. Indiscussa comunque l’origine
sudamericana risalente a tempi lontanissimi.
L’introduzione in Europa risale alla prima metà del secolo XVI.
La
diffusione è poi velocissima: tre varietà nel 1542, tredici nel 1640, trentacinque sul
finire del Seicento. In Italia viene segnalato per la prima volta nel 1551.
Il peperone era chiamato chili dagli Indiani d’America, mentre Portoghesi e
Spagnoli lo battezzarono pimento o “pepe del Brasile”. La denominazione italiana
deriva da “pepe”, generica attribuzione per una pianta dotata di azione eccitante.
La specie, introdotta in Carmagnola chissà quando, trovò nell’area
carmagnolese un ambiente pedoclimatico particolare, che favorì la selezione di
varietà autoctone ed una produzione di elevata qualità, che assunse col tempo un
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I prodotti tipici della provincia di Torino
carattere industriale. Commercializzato in tutta Italia ed esportato all’estero, il
tipico Peperone di Carmagnola è il vanto dell’economia agricola locale.
La coltivazione del peperone nel carmagnolese risale a tempi remoti ed è
stata documentata da numerosi studi storici locali.
Una delle testimonianze più antiche risale al 1818, quando l’allora sindaco
Ottavio Agostino Viglione riceve un invito a partecipare alle giornate organizzate in
onore del «Real Ospite Inglese il Sig. Duca di Gloucester», pranzi compresi: la
lettera inizia con un significativo «Altro che peperoni!».
Il mercato riservato esclusivamente al peperone inizia a Carmagnola solo nel
1946, ubicandosi di fronte all’ingresso laterale della Collegiata. All’inizio sono pochi
orticoltori, con quattro-cinque ceste ciascuno e il mercato si svolge, durante la
stagione, il mercoledì e la domenica. Qualche anno dopo verrà spostato di pochi
metri, nel piccolo slargo di casa Audisio e successivamente in piazza Mazzini.
Già alla fine degli Anni Trenta Bartolomeo Fumero, che sarà sindaco della
città dal 1946 al 1956 e dal 1960 al 1964, inizia sotto una tettoia l’attività di
conservazione dei peperoni. Unitamente ai fratelli Giuseppe e Pietro, dà avvio
all’industria conserviera la cui attività proseguirà fino all’inizio degli Anni Sessanta.
Le ricette passeranno alla ditta Di Vita, altra industria di conserve alimentari che nel
frattempo ha preso l’avvio in Carmagnola.
La produzione del peperone in Piemonte si concentra per circa il 50%
nella provincia di Torino ed in particolare nel Carmagnolese. Si tratta di una
coltura che ha qui antiche tradizioni e che ha dato cultivar locali molto pregiate,
soprattutto per la qualità del frutto.
Il peperone è senza dubbio il prodotto orticolo più rappresentativo della
zona, risulta infatti essere l’ortaggio verso cui sono stati indirizzati i maggiori
investimenti. Nonostante la tendenza negativa negli ultimi anni
che ha fatto
registrare un decremento delle superfici investite a peperoni ed un conseguente calo
della produzione, il peperone ancora oggi rimane il prodotto trainante nello
sviluppo del settore orticolo dell’intera zona.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
In questa zona le aziende orticole specializzate rappresentano solo il 23% del
totale, mentre concorrono a formare la parte più consistente della produzione
aziende ad indirizzo cerealicolo-zootecnico che a questa coltura destinano una parte
della superficie realizzando una buona integrazione di reddito grazie alla
remuneratività del prodotto e alla utilizzazione della manodopera aziendale.
In passato la superficie a peperone nel comune di Carmagnola era molto più
vasta; negli ultimi anni si è verificata una forte contrazione dovuta a stanchezza del
terreno ed a gravi problemi fitosanitari. Tuttavia si è determinato uno spostamento
della coltura verso i comuni limitrofi per cui l’entità della produzione non ha subito
fiessioni e anzi, grazie al miglioramento varietale, si è incrementata.
Le varietà prodotte nell’areale carmagnolese sono il Quadrato, il Corno o
Lungo, il Trottola o Cuneo e il Tumaticot.
Le condizioni ambientali e di coltura dei peperoni sono terreni pianeggianti a
tessitura limoso-sabbiosa e franca.
Nella fase di preparazione del seme quest’ultimo viene preventivamente
disinfettato in soluzione di fosfato trisodico al 10% per un’ora, per l’eliminazione di
particelle virali ed in una soluzione di ipoclorito di sodio al 20% per 30 minuti, per
eliminare funghi e batteri, cui segue un abbondante risciacquo.
L’epoca della semina va dall’ultima decade di dicembre ad inizio aprile, in cui
vengono seguite due procedure in ambiente forzato: la prima segue il metodo
tradizionale della semina sul “letto caldo” (allo stadio di 4-6 foglie le piante
vengono ripicchettate in piena terra sotto il tunnel nella prima decade di aprile), la
seconda consiste nella “semina in vivaio”.
Le piante dopo la fase di preparazione e semina vengono trapiantate sotto il
tunnel a partire dalla prima decade di febbraio in pieno campo, a partire dalla prima
decade di maggio a fila singola. La coltura viene poi concimata prevalentemente
con abbondante uso di sostanza organica (letame bovino) e concimi minerali e/o
chimici.
All’inizio allegagione le piante vengono tutorate con fili di nylon o ferro
sostenuti da paletti in legno e irrigate con un numero di interventi variabile in
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I prodotti tipici della provincia di Torino
funzione dell’andamento climatico e con le seguenti modalità: a goccia (con
manichetta), per scorrimento, a pioggia.
Trattandosi di una specie a raccolta scalare questa viene effettuata
manualmente a partire da fine luglio con sacco a spalla.
La produzione unitaria massima consentita di “Peperone di Carmagnola” è
di 35 t/ha in coltura protetta e 24 t/ha in pieno campo per la tipologia “Quadrato”,
di 40 t/ha sia in coltura protetta sia in pieno campo per la tipologia “Corno”, di 27
t/ha in coltura protetta e 21 t/ha in pieno campo per la tipologia “Cuneo” e di 21
t/ha sia in coltura protetta e sia in pieno campo per la tipologia “Tumaticot”.
I peperoni all’atto dell’immissione sul mercato presentano caratteristiche
diverse a seconda del tipo considerato.
Il tipo Morfologico Quadrato presenta forma quadrata a tre o quattro
punte, altezza non superiore a 1/3 della larghezza, picciolo staccato al nodo,
maturazione di almeno 1/3 della bacca, sapore dolce, colore giallo o rosso,
ottimo contrasto con il verde, spessore del pericarpo minimo di 3 mm.
Il tipo morfologico Corno o lungo presenta forma conica molto allungata,
con 3-4 lobi, forma regolare dei frutti, con superficie leggermente scanalata, apice
estroflesso, attaccatura del picciolo leggermente infossata, lunghezza superiore a
20 cm, picciolo staccato al nodo, maturazione di almeno 1/3 della bacca, sapore
dolce, colore giallo o rosso, spessore pericarpo minimo di 2 mm, polpa
compatta, adatta alla conservazione, colore molto stabile nei liquidi di conserva.
Il tipo morfologico Trottola o Cuneo presenta forma cuoriforme, picciolo
staccato al nodo, maturazione di almeno 1/3 della bacca, sapore dolce, colore
giallo o rosso, spessore pericarpo minimo di 3 mm.
Il tipo morfologico Tumaticot presenta forma tondeggiante schiacciata ai
due poli, picciolo staccato al nodo, maturazione di almeno 1/3 della bacca,
colore giallo o rosso, spessore pericarpo minimo di 2 mm.
La raccolta è scalare, a partire da 80-90 giorni dal trapianto e dura 2-3 mesi;
deve essere fatta allo stato di verde, appena inviato, nelle prime raccolte e colorato
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I prodotti tipici della provincia di Torino
per i 2/3 nelle ultime staccate. Importante l’uniformità di maturazione, colorazione
e dimensioni secondo le norme di qualità.
Le bacche non sono adatte a lunghe conservazioni in frigorifero (max 10
gg.), a temperatura di 8-10°C con 95% di umidità relativa, meglio se in sacchetti di
polietilene forato.
La selezione, che ha portato a cultivar molto produttive, ha però in leggera
misura inciso negativamente sullo spessore del pericarpo del frutto influenzandone
la conservabilità gravemente. La varietà locale, il Quadrato di Carmagnola invece,
pur essendo meno produttivo, possiede qualità eccellenti sia di pezzatura che di
dolcezza e spessore della polpa.
Il Quadrato di Carmagnola insieme al Braidese e al Cuneo rappresenta il 3035% della produzione; mentre il 60% circa è costituito da Corno di Carmagnola e
da Corno di bue, del restante 5-10% fanno parte il Trottola e il Tumaticot.
Il mercato di Carmagnola rappresenta il centro più importante per la
commercializzazione del peperone nella provincia di Torino. Ad esso affluisce
quasi tutta la produzione della zona mentre una parte del prodotto viene smaltito
attraverso la vendita diretta al consumatore o con la cessione diretta ai
commercianti e alle industrie di trasformazione.
Il peperone ha dei grossi problemi in relazione alla sua deperibilità grave:
infatti l’assottigliarsi del pericarpo lo rende più soggetto al marciume, crea delle
difficoltà di trasporto impedendone la collocazione su mercati più distanti. Le
industrie di trasformazione che operano nella zona o comunque in regione, ritirano
circa il 50% della produzione che è costituita soprattutto dal Lungo di Carmagnola
e dal Corno di bue preferiti per la loro migliore adattabilità alla lavorazione e per il
loro periodo di maturazione che coincide con la piena ripresa lavorativa dopo il
periodo estivo.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
1.3 Il Pisello di Casalborgone.
La zona di Casalborgone è territorio particolarmente vocato per la
coltivazione del pisello, il quale predilige terreni di medio impasto (con una
distribuzione equilibrata in sabbia, limo, argilla) e a reazione neutra (pH 6,5-7),
una temperatura compresa tra i 13 e i 18°C (lo sviluppo si arresta quando la
temperatura scende al di sotto dei 4-5°C, anche se la pianta riesce a sopportare,
solo nei primi stadi di crescita, temperature di poco al di sotto di 0°C) ed una
luminosità elevata (il pisello è specie longidiurna, cioè passa dallo stadio
vegetativo a quello riproduttivo, fioritura, in corrispondenza del progressivo
aumento di ore di luce giornaliera).
Anticamente il Pisello di Casalborgone era costituito delle varietà Quarantin,
Casalot e Barchetta, elencate in ordine di precocità, di cui le aziende producevano il
seme.
Circa 50 anni fa, con la nascita della varietà commerciale Espresso
Generoso, tali varietà sono state per lo più soppiantate al punto che oggi vengono
coltivate per lo più per mantenerne il seme.
Il Pisello di Casalborgone si presenta con baccello piccolo (max 5 cm), seme
di piccolo diametro, liscio, di colore verde chiaro, di sapore dolce e consistenza
pastosa. È particolarmente adatto per zuppe e vellutate.
La tecnica colturale prevede il succedersi delle seguenti operazioni: preparazione del terreno in agosto (aratura e fresatura); - preparazione dei solchi; concimazione con letame e concime minerale; passaggio del tridente per rendere
soffice il terreno del solco e per interrare il concime; - semina in due periodi
dell'anno a novembre, con raccolta in fine aprile-maggio, e a febbraio-marzo con
raccolta a metà maggio-giugno;
- quando le piante sono alte una ventina di
centimetri si rincalzano; posizionamento del tutore.
Trattandosi di colture con tutore la maggior parte delle operazioni deve
essere effettuata manualmente.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Dal 1960 è stata delimitata la zona di coltivazione del Pisello di Casalborgone
contrassegnata da Marchio e comprendente i seguenti comuni oltre a Casalborgone:
Cinzano, Rivalba, Sciolze, Castagneto Po, San Sebastiano da Po, Lauriano, Berzano
San Pietro, Aramengo, Tonengo.
Le testimonianze storiche di tale coltura si possono far risalire almeno al
1920, in quanto, è di quell'epoca la nascita del Mercato di Casalborgone.
È possibile che la coltivazione sia antecedente a tale epoca in quanto altre
testimonianze indicano che prima della nascita del Mercato esistevano alcuni
negozianti di Casalborgone che vendevano i Piselli di Casalborgone a Torino.
La coltivazione interessava intere estensioni collinari di Casalborgone e zone
limitrofe.
Testimonianze di coltivatori locali indicano che il Mercato, per la vendita del
Pisello si svolgesse nei seguenti periodi: dalla fine di aprile, tutto maggio, giugno,
luglio, settembre, ottobre con vendite medie di 350 q.li /a sera.
Attualmente si
svolge ancora ,in genere in giugno, una tradizionale Sagra del Pisello ormai arrivata
ad una quarantina di edizioni.
Le varietà di cui le aziende producevano il seme erano le seguenti in ordine
di precocità: Quarantin, Casalot, Barchetta.
Circa 50 anni fa, con la nascita della varietà Espresso Generoso selezionate
da ditte sementiere specializzate, le sovracitate varietà sono state per lo più
soppiantate e in rari casi vengono ancora oggi coltivate.
Negli ultimi anni la coltivazione del Pisello nelle zone considerate ha subito
una recessione a causa dell’invecchiamento dei produttori agricoli locali e della loro
contrazione numerica, della tecnica colturale (che deve essere effettuata
manualmente senza la possibilità di utilizzo di attrezzature meccaniche), della
riduzione negli anni della richiesta di prodotto fresco da parte del consumatore e
del contemporaneo aumento di consumo di prodotto conservato.
Negli ultimi anni l’interesse del consumatore pare essersi risvegliato ed è
sperabile che questo comporti un rilancio del prodotto.
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1.4
I prodotti tipici della provincia di Torino
L’Asparago.
Gli asparagi erano già conosciuti nell’antichità dagli Egizi, che sembra li
offrissero ai loro dei. Noti nella Grecia antica, erano molto apprezzati dai Romani.
Plinio e Marziale assicuravano che l’asparago era il trionfo degli aromi dei
buongustai di Roma e Pompei che lo coltivavano negli orti. Lodati da Catone e da
altri uomini illustri, gli asparagi erano consigliati come diuretici e mineralizzanti
Le invasioni barbariche sembrano essere risultate nefaste per l’asparago, del
quale non si riparlerà più per molto tempo. Nel Medioevo pare fosse coltivato
dagli Arabi e sembra si debba loro la sua introduzione in Spagna, attraverso la quale
giunse in Francia, fino a divenire il piatto preferito del Re Sole.
Nel Rinascimento l’asparago ottenne finalmente un posto d’onore nell’alta
cucina che non abbandonò più.
I primi coloni dell’America del Nord non dimenticarono di portare con loro
le radici dell’asparago, che così divenne famoso anche oltre oceano.
Gli asparagi sono i polloni o turioni dell’Asparagus officinalis, appartenente
alla famiglia delle Liliacee, di consistenza carnosa, privi di foglie, muniti di
squamette all’estremità. Essi si ottengono come germogli dal rizoma, collocato più
o meno in profondità nel terreno, in modo che cresca bianca e tenera la parte che
cresce interrata (se l’interramento è ridotto si hanno asparagi verdi da consumare
novelli), che si raccolgono non appena la punta appare al livello del suolo.
Di questo ortaggio primaverile abbiamo numerose varietà, che possiamo
raggruppare come segue:
- Asparago verde o asparago comune;
- Asparago bianco o violetto-rosato, tra cui il Bianco d’Olanda, che ha per
prototipo assai pregiato l’Argenteuil;
- Asparago d’Alemagna e di Milano;
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I prodotti tipici della provincia di Torino
- Asparago americano, che racchiude alcune varietà giganti ottenute negli
Stati Uniti, tra le quali il Colossale di Connover.
Da un punto di vista dietetico, gli asparagi sono ricchi di fibre e forniscono
circa 30 calorie per ogni 100 grammi di prodotto. L’asparago è costituito in gran
parte di acqua (90% circa), di proteine (3,7%), lipidi (0,16%) e glucidi (3,06%); per il
suo basso apporto calorico è indicato nelle diete dimagranti.
Contiene una sostanza rinfrescante dal sapore caratteristico, l’asparagina, che
abbonda particolarmente nel tessuto giovane delle piante.
Questa sostanza,
scoperta da Broussais nel 1829, ha un elevato potere diuretico ed interessò per
molto tempo la medicina.
Questo ortaggio è particolarmente indicato nel caso di malattie metaboliche,
ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia (arteriosclerosi), diabete e nelle diete
iposodiche.
In provincia di Torino l’asparago ha trovato la sua culla d’elezione nella zona
a sud ovest della città, compresa tra Moncalieri e Poirino ed avente come centro
principale i comuni di Santena e Cambiano.
1.4.1 L’Asparago di Santena.
L’Asparago di Santena presenta turioni di colore verde intenso, con
sfumature violacee, ha una lunghezza media di 22 cm. e la parte colorata
comprende circa il 65% della lunghezza totale, apice appuntito.
Il materiale d’impianto dell’asparago è dato in prevalenza da “zampe”
coltivate in loco, le quali vengono interrate in febbraio-marzo, in fosse profonde
10-15 cm, e messe in dimora circa un anno dopo. La raccolta avviene da aprile a
metà giugno.
La qualità organolettica dell’Asparago di Santena deriva soprattutto dal tipo
di terreno - sciolto, sabbioso, poco calcareo e molto permeabile - dalla maturazione
fuori serra e dall’uso esclusivo di concimi organici.
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L’Asparago di Santena è tipico del territorio, anche se con qualche illustre
antenato in terra d’Oltralpe, poiché discende dalla cultivar francese dell’asparago
verde di Argenteuil, e del resto l’agricoltura nel Piemonte Sabaudo, come ogni altro
aspetto della vita, della società, dell’economia regionale, ha risentito per secoli di
influssi francesi.
La mancanza di documenti storici pertinenti in cui vi sia un preciso
riferimento all’asparago non consente di definire con esattezza il momento di inizio
della coltivazione in Santena. Si presume, per quanto è stato tramandato, che i
primi turioni siano stati recisi nel Settecento ed alimentassero un consumo familiare
poco esigente e ristretto all’area santenese.
A cavallo tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento Cavour si interessò
della coltivazione degli asparagi e tale ortaggio fu veramente la “sorgente della
prosperità di Santena” (definizione data dallo stesso Cavour in una lettera ad Al
Johnston, insigne chimico di Edimburgo).
Il massimo della produzione si registrò nel periodo compreso tra gli anni che
precedettero la seconda guerra mondiale e gli anni che accompagnarono il boom
economico. Si stima per alcune di queste annate una produzione giornaliera di
circa 300 quintali, mentre è documentata nel 1953 un taglio di 150 quintali al giorno
in media, da aprile a metà giugno. A difesa dell’abbondante quantità di asparagi
delle piantagioni furono emanate dalle autorità disposizioni per vietare il taglio e
l’asportazione dell’ “asparagina”, destinata al commercio ornamentale.
Durante gli anni della seconda guerra mondiale i contadini, dopo aver
proceduto alla cernita, al lavaggio ed alla confezione dei mazzi ed averli caricati sul
carro si dirigevano ai mercati generali di Torino, dove al mattino seguente
avrebbero venduto il prodotto in mazzetti legati con tralci di salice.
Nell’immediato dopoguerra sono documentate esportazioni in numerosi
paesi europei: nel 1946 a Londra, e prima ancora, attraverso la ditta Noberasco di
Albenga, vennero spediti a Monaco di Baviera. Non solo si esportò da Santena
l’ortaggio, ma anche i segreti della sua coltivazione. Pare che un commerciante
santenese abbia insegnato l’arte in questione ai bolognesi, riconoscendo nei terreni
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emiliani una sede adatta all’asparago. Il fatto si ripeté tra il 1960 ed il 1965 per
alcune località del Pavese, della Sicilia e della Sardegna.
A partire dagli anni ’60 si è assistito ad un declino dell’asparago, dovuto sia
all’insorgere di malattie resistenti, sia all’abbandono delle campagne da parte della
manodopera assorbita dalla nascente industria. Da alcuni anni, però, si può parlare
di ripresa della coltivazione dell’asparago unitamente a studi scientifici per stabilire i
giusti parametri di ogni fase della tecnica colturale.
Al fine di garantire l’origine del prodotto e di avviare iniziative di
valorizzazione l’Associazione Turistica Nuova Pro Loco Santena ha registrato il
marchio collettivo “Aspars ‘d Santena” presso il Ministero dell’Industria,
Commercio ed Artigianato.
1.4.2 L’Asparago di Poirino.
L’Asparago di Poirino presenta turioni con apice appuntito e di colore verde
intenso, con sfumature violacee, ha una lunghezza media di 22 cm. e la parte
colorata comprende circa il 65% della lunghezza totale.
Le tecniche colturali non differiscono da quelle già riportate a proposito
dell’Asparago di Santena.
Le peculiari caratteristiche pedologiche delle “terre rosse” dell’altopiano
poirinese, conferiscono all’Asparago di Poirino un sapore caratteristico.
Facendo riferimento alla memoria storica, è nel 1920 che si è visto il primo
campo di asparagi a Poirino, presso la Cascina Tetti Elia di proprietà della famiglia
Quattroccolo. Subito seguita dalla famiglia Brossa e via via da tante altre, è negli
anni ’50 che la coltura arriva alla massima espansione e nel 1957 viene organizzata
la prima Sagra dell’Asparago di Poirino.
Nel 1974 l’Associazione Gruppi Coltivatori Sviluppo di Poirino-Favari
contava 40 soci che conferivano il prodotto in un unico punto, per poi lavorarlo e
commercializzarlo.
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Attualmente nel Poirinese sono coltivati circa una ventina di ettari ad
asparagi.
1.5 Il Cardo Bianco Avorio di Andezeno.
Il cardo bianco avorio di Andezeno si presenta di colore bianco avorio con
foglie strette, frastagliate e spinose. Questa varietà risulta essere molto tenera solo
se conserva il colore bianco.
La zona di Andezeno e Chieri risulta particolarmente vocata per la
coltivazione dei cardi; infatti il terreno si presenta leggermente alcalino e leggero.
La semina deve avvenire non prima del mese di maggio; se viene anticipata al
mese di aprile la pianta, essendo sensibile alle ore di luce, va a seme, diventando
non più utilizzabile commercialmente.
Nella zona di Andezeno in particolare, si usa seminare il cardo a file con
distanza sulla fila, tra una pianta e l’altra, di massimo 5 cm. Tradizionalmente
nell’interfila si seminavano 6 file di cipolle.
Successivamente i cardi vengono legati a gruppi di 5 o 6 e coperti e con due
teli di nylon neri, uno per parte, pizzicati con delle mollette o altro materiale,
lasciando fuori una parte delle foglie.
In passato la copertura dei cardi veniva preceduta da tre passate con l’aratro
tra le file, poi con il badile veniva buttata la terra contro le piante legate; la legatura
e la rincalzatura venivano successivamente ripetute dopo 8 giorni e poi ancora una
volta nell’estate dopo circa 15- 20 giorni. Questa tecnica, di coprirli con la terra,
dava come risultato un cardo più bianco e quindi più tenero della attuale copertura
con i teli di nylon, ma richiedeva una quantità di manodopera che oggi non è più
possibile avere a disposizione. Questa vecchia pratica, in ogni caso, è ancora
presente ad Andezeno negli orti familiari.
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Ai primi di ottobre i cardi vengono coperti completamente con i due teli di
nylon nero facendo dei buchi nel centro del telo.
La raccolta avviene da metà agosto in avanti fino a quando non gela.
Per la conservazione, ai primi geli, intorno a S. Martino, i cardi vengono tutti
raccolti, legati a mazzi, e messi in buche di terra con le foglie al di fuori della buca
in modo da chiuderla.
La concimazione è effettuata con il letame e per evitare il rischio di malattie
per stanchezza del terreno è effettuata la rotazione colturale con i seminativi.
Il confezionamento del prodotto è effettuato in azienda al momento della
vendita, con abbondanti lavaggi con acqua fredda per eliminare la terra e con il
taglio completo della radice e delle foglie.
Il cardo bianco avorio di Andezeno oggi viene confezionato in cassette di
plastica. I cardi si presentano lunghi circa 50- 60 cm e ogni cassetta ne contiene
circa 15 con un peso medio della cassetta che varia tra 5 e 10 Kg. Ogni cardo pesa
da 0,5 a 2 kg.
In passato venivano portati al mercato più lunghi anche 1,20 m. legati a
mazzi e si dividevano: cardini costituiti da 12 cardi piccoli, mezzani costituiti da 6
cardi di media grandezza e dai grossi costituiti da 4 cardi che pesavano anche 10 Kg
l’uno.
Ancora oggi i cardi commercialmente sono divisi in piccoli, mezzani e
grossi. I più apprezzati sono i piccoli perché più teneri.
Tradizionalmente la zona di coltivazione dei cardi è sempre stata Chieri ed
Andezeno. Ad oggi però la coltivazione del cardo è rimasta localizzata nel comune
di Andezeno. Infatti, l’area degli orti di Chieri dove veniva coltivato questo
ortaggio, si trova dove oggi sorge l’area industriale del paese.
Gli agricoltori della zona hanno precisato che il “cardo gobbo di Andezeno”
non esiste. Infatti si tratta di un artificio operato in passato dagli agricoltori per
ottenere dei cardi simili come aspetto al famoso “gobbo di Nizza” (la pianta del
cardo di Nizza è più verde, le foglie sono larghe e senza spine e risulta essere più
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tenero). Per ottenere il cardo gobbo infatti, è sufficiente coricare da un lato i cardi
buttandovi sopra la terra, in questo modo le piante crescono curve.
La vendita del prodotto avviene da fine agosto a marzo.
I canali di commercializzazione attualmente sono: il MOI, i supermercati,
presso le aziende che li producono e le fiere in particolare quella di Andezeno che
avviene ogni anno in autunno la prima domenica di ottobre.
La produzione del cardo di Andezeno oggi è estesa su di una superficie di
circa 50 giornate con una densità media di 10 piante a mq.
Per le caratteristiche del prodotto, non è possibile la meccanizzazione della
raccolta. La preparazione del prodotto per il mercato deve essere fatta
rigorosamente a mano, richiedendo molte ore di manodopera.
Oggi i coltivatori sono muniti di guanti di plastica per il lavaggio dei cardi.
Un tempo, durante l’inverno, vicino all’acqua fredda per il lavaggio, veniva posta
una bacinella di acqua calda per riscaldare le mani durante l’operazione di pulitura.
1.6
Il Cardo Verde di Chieri.
Il cardo verde di Chieri era coltivato nella zona che oggi è l’area industriale
chierese. Infatti, prima degli anni ’50, questa zona confinante con il comune di
Andezeno era specializzata a orto con produzione in particolare di cardi e cipolle. A
seguito degli espropri si è persa la tradizione orticola. Ad oggi esistono ancora degli
orticoltori nel comune di Chieri, ma sono spostati verso la piana che è più
specializzata in cerealicoltura e zootecnia. Inoltre le colture orticole praticate sono
quelle delle zone di Cambiano, Santena, Carmagnola ovvero principalmente
zucchino, peperoni, pomodori.
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1.7 L’Insalatina di Castagneto Po.
L’Insalatina di Castagneto Po è una lattughina di piccolo calibro, simile alla
attuale tipologia Parella, con fogliolina dal margine arrotondato, rosetta di 10-15 cm
di diametro e foglia leggermente ondulata.
In origine esisteva solamente la varietà verde (più antica), poi in seguito ad
incroci si è arrivati anche alla varietà rossa.
Testimonianze orali accertano la sua coltivazione sul territorio di Castagneto
Po e dei comuni limitrofi
almeno fin dai primi del 1900. Veniva coltivata nelle
zone collinari soleggiate tra i filari dei vigneti. Un tempo era venduta soprattutto
all’ingrosso sui mercati di Torino, Casalborgone e Chivasso, trasportandola in
sacchi di iuta. Oggi è venduta soprattutto al minuto presso mercati rionali locali,
tra cui il principale è quello di Chivasso.
Il seme è ottenuto, secondo il metodo tradizionale per essiccamento delle
infiorescenze delle piante migliori. La semina e` autunnale con raccolta invernale.
Oggi viene seminato il seme
selezionato, confezionato e venduto da una ditta locale, e in pochi casi viene
selezionato direttamente il seme in azienda come una volta.
L'insalatina viene comunque seminata in autunno con raccolta e vendita
invernale.
Le produzioni odierne sono senz'altro ridotte rispetto ad un tempo, tuttavia
questa varietà e` ancora coltivata dalle aziende locali e ricercata dal consumatore per
le caratteristiche del sapore "dolce" e di tenerezza.
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1.8 La Cipolla di Andezeno.
I terreni di Andezeno e delle zone immediatamente circostanti – sciolti,
leggeri e leggermente alcalini - si prestano particolarmente alla coltivazione delle
cipolle. La Cipolla di Andezeno si presenta in quattro varietà ben distinte:
la Cipolla Bianca: è di forma rotonda e con epidermide di colore bianco; il
sapore è piccante e poco dolce.
la Cipolla Piatta o Piatli-na: è di forma appiattita e con epidermide dorata; il
sapore è dolce e poco piccante. Si presta bene alla cottura in forno per il quale è
molto ricercata (cipolle ripiene). Per le sue caratteristiche estetiche può essere
confusa a livello commerciale con la piatta di Stoccarda.
la Cipolla Ramata: è di forma rotonda e con epidermide di colore ramato
chiaro; il sapore é dolce e poco piccante, molto simile alla piatli-na.
la Cipolla Viola: è di forma rotonda con l’epidermide di colore viola brillante.
Per il colore ricorda la cipolla rossa di Tropea, ma il sapore non é dolce bensì molto
piccante.
La Cipolla di Andezeno viene seminata in un periodo compreso tra dicembre
e marzo, ovvero può essere seminata prima delle gelate quando il terreno è pronto,
in quanto non germina fino alla primavera. La dose di seme è circa 2 Kg per
giornata, mentre la distanza tra le file deve essere 20–22 cm e quella sulla fila 5 cm
(per la Bianca, la Viola e la Ramata) o 8-9 cm (per la Piatta). Nel mese di maggio è
necessario il controllo delle infestanti. La coltura necessita di irrigazione se la
stagione si presenta siccitosa.
La Cipolla di Andezeno può venire attaccata dai tripidi (in particolare la
Piatta) e dalla peronospora.
La raccolta viene effettuata da fine luglio ai primi di agosto e deve essere
rigorosamente manuale perché a differenza delle varietà più comuni, la polpa è più
tenera e si danneggia facilmente.
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Commercialmente la cipolla bianca e la cipolla ramata si dividono i 3
categorie: calibro da 30–50 mm con peso compreso tra 20 e 40 grammi, calibro da
40–70 mm con peso compreso tra 130 e 190, calibro da 70–100 mm con peso
compreso tra 200 e 400 grammi. La piatli-na si divide anch’essa in 3 categorie, ma
con pesi inferiori: calibro da 30–50 mm con peso compreso tra 20 e 40 grammi,
calibro da 40–70 mm con peso compreso tra 80 e 150 grammi, calibro da 70–100
mm con un peso di circa 200 grammi.
Rispetto ad altre varietà in commercio la Cipolla di Andezeno si caratterizza
per la polpa particolarmente tenera e quindi di rapidacottura, e per l’elevata
conservabilità, fino a primavera inoltrata. La tenerezza, che è un suo pregio, diviene
commercialmente un difetto, poiché la rende poco adatta alle manipolazioni.
Secondo fonti orali la coltivazione ad Andezeno delle cipolle è plurisecolare
e questa tradizionale vocazionalità ha indotto la creazione di diverse selezioni locali
di cipolle con caratteristiche che si differenziano dalle altre comuni varietà in
commercio nel mondo. Proprio per la lunga tradizione colturale, è abitudine dei
coltivatori della zona farsi il seme delle varietà locali in azienda, selezionando i bulbi
che vengono poi ripiantati per mandarli a seme.
1.9 Il Pomodoro Costoluto di Cambiano.
Il Pomodoro Costoluto di Cambiano è una delle numerose varietà
appartenenti alla specie Lycopersicum esculentum Mill., famiglia Solanacee.
È coltivata nell’areale torinese (Cambiano ed i comuni limitrofi di Chieri,
Santena, Trofarello e Pecetto T.se) da diversi anni e risulta dalla selezione operata
dai produttori su materiali genetici presenti in Piemonte (probabilmente dal
pomodoro di Chivasso) negli anni del dopoguerra.
Le piante presentano vigoria medio elevata, media copertura fogliare,
grappoli tendenzialmente ramificati; il primo fiore del grappolo tende, in presenza
di condizioni climatiche particolari (repentine escursioni termiche), a produrre frutti
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deformati.
I prodotti tipici della provincia di Torino
Produce bacche di media pezzatura e di forma tendenzialmente
appiattita, con lievi costolature nella zona del peduncolo, che risultano poco
consistenti a maturità, di sapore acerbo e particolarmente adatte per la
trasformazione in salsa.
Il seme viene prodotto in azienda, selezionando le piante che producono le
bacche meglio rispondenti agli standard varietali (frutti di non elevata pezzatura,
appiattiti e costoluti). La tecnica colturale prevede la semina in semenzaio a letto
caldo tra febbraio e la prima decade di marzo, con ripicchettaggio in cubetto di
torba e successivo trapianto sotto tunnel tra fine aprile e i primi giorni di maggio.
La raccolta, giornaliera d’estate e a giorni alterni più tardi, inizia a fine luglio e si
protrae sino a fine ottobre.
La coltivazione richiede una maggior manodopera rispetto alle cultivar
standard per eliminare l’elevato numero di germogli laterali emessi dalle piante
(occorrono mediamente quattro o cinque interventi di diradamento fogliare) e per
la raccolta dei frutti che risultano nascosti dalle foglie.
Il terreno più favorevole per la coltivazione del Pomodoro costoluto è quello
argilloso, tipico del territorio cambianese
Attorno agli Anni Venti in Cambiano esisteva uno stabilimento conserviero
per la trasformazione del pomodoro, rimasto attivo fin verso il 1940, a
testimonianza dell’antichità della particolare vocazione del territorio verso tale
coltura. Le metodiche di produzione erano per alcuni aspetti diverse dalle attuali,
infatti il pomodoro veniva lasciato maturare sulla pianta, era difficilmente irrigato
per mancanza di pozzi nei campi e veniva trattato al più con verderame. Il raccolto
si effettuava tre o quattro volte tra i mesi di maggio e ottobre ed il prodotto veniva
sistemato in cestoni e portato direttamente allo stabilimento per la trasformazione
in conserva. Chiuso tale stabilimento, che ritirava tutto il prodotto della zona, il
pomodoro fu dirottato verso i Mercati Generali di Torino, con un flusso che dura
tuttora.
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Attualmente la produzione complessiva di pomodoro nell’area indicata è di
circa 6.000 q.li annui, di cui circa 50 q.li annui sono di Pomodoro Costoluto di
Cambiano.
La ridotta superficie investita a Costoluto è giustificabile dalle sue
caratteristiche di pianta molto rigogliosa, sensibile agli attacchi fungini, e dal frutto
ottimo organoletticamente, ma delicato e poco resistente alle manipolazioni.
1.10 Il Pomodoro di Chivasso.
Il Pomodoro di Chivasso (Lycopersicum esculentum Mill., famiglia Solanacee) è
coltivato nel Chivassese da lungo tempo.
Produce bacche di grande pezzatura
(300-350 g.), di forma appiattita, con evidenti costolature nella zona del peduncolo.
La produttività non è elevata, si evidenziano problemi di allegagione nei
palchi, tendenza a produrre frutti deformati sul primo fiore di ogni palco e scarto
abbondante.
Nonostante la non elevata produttività, la cultivar viene conservata per
differenziare il prodotto destinato al mercato.
Le qualità che caratterizza il prodotto è il gusto eccellente delle bacche che
risultano dolci e molto saporite.
La tecnica colturale prevede la semina in semenzaio a febbraio, con
successivo ripicchettaggio in cubetto di torba. Dopo una fase di allevamento in
serra, le piantine vengono poste a dimora sotto tunnel in aprile, adottando distanze
di 1,2 m. tra le file e 0,40 sulla fila. Le successive operazioni sono simili a quelle di
altre cultivar. La raccolta avviene da metà giugno.
Valgono per il Pomodoro di Chivasso le considerazioni fatte a proposito
del Costoluto di Cambiano (delicatezza e scarsa resistenza alle manipolazioni), che
hanno prodotto negli ultimi anni una sensibile riduzione delle superfici investite.
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1.11 La Scorzobianca o Barbabuc.
La Scorzobianca o Barbabuc (Tragopogon porrifolius L.) è una pianta
erbacea appartenente alla famiglia delle Asteracee. In fase vegetativa si presenta con
foglie lineari di 0,5 x 15 cm sistemate in forma di rosetta appressata, ragnatelose sui
margini, con radice verticale di consistenza legnosa.
Allo stato spontaneo cresce in prati aridi, poco curati, in incolti, da 0 a 1000
mt di altitudine e fiorisce da giugno ad agosto differenziando uno scapo fiorale con
capolini bruno-violacei.
Ai fini produttivi la semina avviene ad inizio agosto in coltura protetta e a
fine agosto per le produzioni di pieno campo. La Scorzobianca predilige terreni
sciolti e non troppo fertili per problemi di inscurimento della radice che ne
deprimono la qualità commerciale. A settembre si provvede allo sfalcio delle foglie
per permettere il ricaccio delle stesse in modo meno vigoroso, durante l’autunno e
l’inverno, e di consistenza meno coriacea. La raccolta si effettua da gennaio(colt.
protetta), febbraio fino ad aprile, prima che inizi la differenzazione dello scapo
fiorale.
La parte edule è rappresentata dalle foglie e dal colletto, che vengono
consumati dopo una cottura in padella, stufate o cotte alla piastra.
L’origine della semente è commerciale, ed è affidata sostanzialmente alla ditta
Spina sementi di Moncalieri che ne cura anche la riproduzione.
La zona di produzione tipica di questo ortaggio si identifica nei comuni di
Moncalieri (zona collinare) e Nichelino.
Le piante raccolte vengono lavorate nei locali propri delle aziende agricole. Si
mondano le parti apicali delle foglie e si taglia il fittone fino ad una lunghezza di
circa 5 cm. L’ortaggio così condizionato viene commercializzato in cassette di legno
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o plastica. La destinazione alla vendita per il consumo fresco è rappresentata
principalmente dai dettaglianti o vendita diretta dei produttori.
Si può presumere una produzione di circa 1500-2000 Kg, tipicamente
stagionale nei primi tre mesi dell’anno, che interessa pochi produttori (3-5). Il
prodotto può spuntare prezzi oscillanti dalle 3500£/Kg fino a 7000£/Kg a seconda
della precocità e del tipo di lavorazione più o meno accurata cui viene sottoposto.
La coltivazione del Barbabuc tradizionalmente si inseriva in un periodo nel
quale non erano previste produzioni in pieno campo, favorendo così l’occupazione
della manodopera aziendale e la possibilità di sfruttare gli appezzamenti per il
ricavo di reddito nei primi mesi dell’anno.
La tradizione del consumo di questa pianta ha origini antiche, probabilmente
legate alla consuetudine di raccogliere allo stato selvatico la specie affine
Tragopogon pratensis L., ed utilizzarne la radice che, bollita nel latte, rappresentava
un ottimo tonificante e ricostituente dopo le debilitanti malattie invernali.
La possibilità per i cittadini di consumare un ortaggio quasi selvatico, di
sapore assai gradevole, stagionale, fa si che si perpetui la coltivazione del Barbabuc
da parte di alcuni produttori che intendono mantenere quote di mercato in vendita
diretta o dettaglianti vocati alla commercializzazione di produzioni locali e primizie.
1.12
Il Cavolfiore di Moncalieri.
Il cavolfiore di Moncalieri è una delle molteplici varietà orticole che
appartengono alla specie Brassica oleracea
var. botrytis, pianta erbacea della
famiglia delle Brassicacee o Crucifere.
Si presentano con un fusto provvisto lateralmente di foglie più o meno
espanse, delle quali le più alte avvolgono il germoglio. Da questo si sviluppano i
peduncoli fiorali, molto ingrossati in modo da formare la “testa” o grumolo o
infiorescenza. Questa diventa mostruosa per fasciazione ed assume colorazione
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varia, dal bianco neve al verde o violacea, e costituisce la parte commestibile,
unitamente alle foglie involucranti più tenere.
Il Cavolfiore di Moncalieri presenta il grumolo di colore biancastro, a forma
conica con buona ricopertura fogliare.
L’origine può essere fatta risalire ai Savoia che lo importarono dalla Francia
quando si insediarono in Piemonte con al seguito gli ortolani ed i giardinieri che
lavoravano per la Casa Reale. Probabilmente appartiene alla medesima selezione del
Verde di Macerata e del Romanesco.
La tecnica colturale prevede il trapianto delle piantine da metà giugno- inizio
luglio in pieno campo, e raccolta da ottobre fino ad inverno inoltrato.
Tradizionalmente il trapianto avveniva dopo la trebbiatura del grano, inserendo così
l’ortaggio in una ampia rotazione colturale.
Questa varietà presenta un ciclo tardivo, mediamente di 120 giorni, occorre
infatti una temperatura inferiore ai 12 °C per la differenziazione della infiorescenza.
La fase di maturazione è generalmente scalare, le infiorescenze vengono
raccolte e vendute coronate e possono raggiungere un peso di 1,4- 2 Kg. È una
produzione tipicamente stagionale, generalmente non si provvede ad una
conservazione dell’ortaggio, anche perché la maturazione scalare garantisce una
certa continuità di raccolta fino ad inverno inoltrato, caratteristica positiva per la
vendita diretta o a dettaglianti che non necessitano di grandi volumi concentrati ma
di quantità medio- basse ma costanti per un certo periodo.
La selezione è affidata alla riproduzione del seme da parte dei produttori
stessi, i quali attuano un contro ciclo colturale in coltura protetta: il trapianto
avviene a metà settembre e la raccolta del seme a marzo. Questa pratica è così
attuata per evitare l’allungamento ulteriore del ciclo colturale se si aspettasse la
fruttificazione delle piante a fine produzione commerciale
Il prodotto in questione presenta un gusto più sapido e rustico delle varietà
commerciali, tiene meglio la cottura in acqua e le successive manipolazioni
culinarie.
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La zona di produzione di questo ortaggio si identifica sostanzialmente nei
comuni di Moncalieri, Santena, Nichelino, Trofarello.
Le infiorescenze raccolte (“teste”) vengono lavorate nei locali propri delle
aziende agricole. Al momento della raccolta si lasciano le ultime foglie avvolgenti il
grumolo e l’ortaggio così condizionato viene commercializzato. La destinazione alla
vendita per il consumo fresco è rappresentata dai dettaglianti o vendita diretta dei
produttori.
Si può presumere una consistenza di circa 350.000 piantine commercializzate
per il trapianto da parte di vivaisti, che provvedono alla semina in cubetto di torba
di 3 x 3 o 4 x 4 dei semi forniti dai produttori.
Il prodotto può spuntare prezzi al consumo oscillanti dalle 3000£/Kg fino a
5000£/Kg.
1.13 Il Cavolo di Montalto Dora.
Nell’ambito delle Crucifere i cavoli sono gli ortaggi più importanti con
numerose forme coltivate, tutte assegnate al genere Brassica, specie oleracea L.
(=Brassica sylvestris Miller) (Tesi, 1994). Secondo l’interpretazione del Pignatti i
cavoli coltivati deriverebbero da un gruppo di specie spontanee nel Mediterraneo. Il
cavolo verza si caratterizza per avere un fusto breve a livello del terreno, con
numerose foglie involucranti a formare una testa globosa e compatta, mentre le
foglie sono bollose (Brassica oleracea cv sabauda L.). Si distingue, inoltre, per una
maggiore resistenza al freddo rispetto al cavolo cappuccio, dal quale si differenzia
per l’odore ed il sapore più marcato ed il maggior contenuto in fibra.
Il Cavolo di Montalto Dora è varietà locale di cavolo verza a foglie
ricciute, formanti delle teste subrotonde, resistenti e tuttavia tenere e dotate di un
sapore gradevole che li fa preferire ai cavoli di altre provenienze. Tali peculiarità
organolettiche sono dovute alle caratteristiche pedologiche della parte
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pianeggiante del territorio di Montalto Dora, costituita per la gran parte da
terreni sciolti e freschi, i terreni dell’antico diluvium rimaneggiati dai ghiacciai e
ricoperti da strati di varia potenza di depositi del grande lago post-glaciale e dalle
alluvioni della Dora Baltea.
Nella pianura torinese abbondavano praterie e seminativi semplici o arborati,
coltivati a cereali, a leguminose da seme ed a foraggere, scrivevano Chiej e
Gamacchio, i quali proseguivano (Chiej e Gamacchio, 1928) sottolineando che si
incontravano qua e la’ alcune coltivazioni, poco note e non sufficientemente
apprezzate e tuttavia degne di speciale considerazione per le buone produzioni e
per i redditi elevati che potevano apportare ai coltivatori, coltivazioni suddivise tra
“piante a prodotto alimentare” e “ piante che forniscono materie prime per le
industrie”.
Fra le “piante a prodotto alimentare” si annoverano anche i cavoli fiore ed i
cavoli verza. Questi ultimi occupavano un posto importante tra gli ortaggi di grande
coltura ed infatti la statistica assegnava alla loro coltivazione in provincia di Torino
nei primi decenni di questo secolo poco meno di 1.000 ha, dei quali oltre 930 si
riferivano alle coltivazioni di secondo raccolto. Da queste si ottenevano dei
prodotti che variavano dai 300 ai 500 q/ha. Le coltivazioni di maggior importanza
si osservavano nei dintorni di Torino, ossia nei comuni di Collegno, Grugliasco e
Settimo Torinese ed in alcuni comuni del Canavese quali: Rondissone, Vische e
Montalto Dora.
Quest’ultimo comune si trova allo sbocco della Valle d’Aosta, a monte di
Ivrea, e nella parte pianeggiante del suo territorio, si trovano dei terreni dell’antico
diluvium rimaneggiati dai ghiacciai e ricoperti da strati di varia potenza di depositi
del grande lago post-glaciale e dalle alluvioni della Dora Baltea. Per la massima
parte sono terreni sciolti e freschi la cui fertilità È proverbiale e li fa giustamente
apprezzare.
Nel comune di Montalto Dora dominava (e domina tuttora) la piccola o
piccolissima proprieta’, si osservava quindi un grande frazionamento dei terreni col
predominio di particelle di poche migliaia di metri quadrati, coltivate con la
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rotazione quadriennale, nella quale alla coltivazione del frumento dopo il trifoglio
seguivano diverse coltivazioni intercalari fra cui i fagioli quarantini, gli erbai di
granoturco, di saggina, di rape ed i cavoli verza.
I cavoli verza ivi coltivati costituivano una varieta’ locale a foglie ricciute,
formanti delle teste subrotonde, dure e tuttavia tenere e dotate di un sapore
gradevole che li faceva preferire ai cavoli di altre provenienze. La statistica
assegnava circa 20 ha alla loro coltivazione nel comune di Montalto Dora.
I terreni destinati alla loro coltivazione si preparavano appena eseguita la
mietitura con una buona aratura, dopo averli abbondantemente letamati,
sistemandoli “ad aiuole curve” larghe 1 m. Verso la fine di luglio si faceva il
“piantamento”, adoperando le piantine provenienti dai semenzai impiantati negli
stessi campi o, piu’ comunemente, nei terreni pure sciolti della regione collinare.
Il trapianto si eseguiva col “foraterra”, distribuendo le piantine alternate su 2 file
per aiuola alla distanza di 0,5 m dopo aver bagnato le radici in una poltiglia di
argilla e di sterco bovino, quindi si innaffiavano abbondantemente.
Avvenuta la ripresa, si eseguiva prima una sarchiatura e alcuni giorni dopo
una rincalzatura con l’aratro, completandola con la zappa. Una cura speciale
usavano i coltivatori per difendere le loro coltivazioni dalle larve della cavolaia, che
comparivano sempre numerose e che venivano distrutte schiacciandole con spatole
di legno.
Si ottenevano produzioni per ettaro pari a 20.000-30.000 “teste” di peso
variabile da 2 a 4 Kg, che si estirpavano ed asportavano dai campi nella seconda
meta’ di ottobre. Le piante raccolte si trapiantavano negli orti chiusi, disponendole
in file strettamente addossate le une alle altre per poi smerciarle nella stagione
invernale.
Durante la raccolta arrivavano a Montalto Dora dei negozianti provvisti di
camioncino, che acquistavano e trasportavano buona parte della produzione nei
centri di consumo e nelle vallate alpine pagandola a prezzi variabili fra le 0,5 £ e le
2 £ per “testa” e da 50 a 60 £ per quintale di cavolo verza.
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La produzione media si attestava intorno alle 25.000 “teste” per ettaro e, col
prezzo pari a 1 £ per pianta, si otteneva un reddito lordo di 25.000 £ per ettaro, che
ai tempi per una coltura intercalare non era certamente poca cosa.
Sino ai primi anni '50, ma soprattutto prima della seconda guerra
mondiale, l'economia prevalentemente agricola di Montalto Dora viveva in larga
misura sulla produzione dei cavoli verza. Poi, il crescente sviluppo dell'industria,
in particolare l’Olivetti ad Ivrea, con il progressivo assorbimento della
manodopera giovanile canavesana, contribuì, insieme a problemi di mercato, al
quasi abbandono di questa coltivazione. Fino ad oggi questa era ridotta al ruolo
di produzione per l'autoconsumo di poche famiglie montaltesi
Da novembre a febbraio, oltre 400 quintali la settimana, affluivano sui
mercati di Ivrea, Biella e Borgo d’Ale. Commercianti di ortofrutticoli arrivavano
anche dalla Lombardia per caricare e spesso esportare in Svizzera questo ortaggio
cosi prezioso. Poi, il crescente sviluppo dell'industria, con il progressivo
assorbimento della manodopera giovanile canavesana, contribuì, insieme a
problemi di mercato, al quasi abbandono di questa coltivazione.
In questi ultimi anni si è cominciato un percorso di valorizzazione e
rilancio di una coltivazione tipica e di qualità, attraverso anche manifestazioni,
come la Sagra del Cavolo Verza di Montalto Dora, che si svolge ogni anno nella
quarta domenica di novembre.
I cavoli invernali di Montalto Dora erano conosciuti in tutto il Canavese
per essere il non plus ultra quanto a qualità e sapore: erano l’ingrediente
indispensabile per confezionare la migliore “supa 'd pan e còj”, zuppa di pane e
cavoli. I cavoli montaltesi erano fantastici poi, grazie alle loro foglie croccanti e
frastagliate, per raccogliere dai fumanti “fojòt” (tegamini di coccio) la deliziosa
bagna càuda.
Insuperabili, perché consistenti alla cottura, per avvolgere
l’impasto dei famosi “caponèt” canavesani nelle loro foglie saporite.
Questi
ultimi sono un impasto generalmente costituito da carne, salumi, in certi casi riso,
insomma da quelli che Sandro Doglio, ne Il dizionario di gastronomia del Piemonte del
1997, chiama «i soliti avanzi, che in realtà hanno fatto grande la cucina
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piemontese, costringendo cuochi e cuoche ad inventare modi sempre diversi di
utilizzarli. ».
1.14 La Lattuga Gentilina di Moncalieri.
Sotto il nome di Lattuga Gentilina di Moncalieri sono raggruppate due
tipologie di lattughe che si identificano sostanzialmente nella lattuga Parella e nella
lattuga Zuccherina, da non confondere con una selezione commerciale di lattuga
Batavia di recente introduzione, commercializzata in tutta Italia
con il nome
Gentilina.
Entrambe appartengono alla specie Lactuca sativa L., famiglia delle Asteracee
o Composite, e sono piante erbacee annuali, formanti un grumolo centrale più o
meno sviluppato di foglie tenerissime, intere e aderenti fra loro.
La parte edule è rappresentata dalle foglie formanti un cespo più o meno
aperto, di piccolo calibro, che vengono consumate crude in insalata.
La tipologia Parella rappresenta una selezione delle varietà lattughe
cappuccio, di colore verde scuro opaco, con foglie corte, bollose, disposte a rosetta
patente. È una produzione tipicamente primaverile, e i cespi vengono raccolti ad
uno stadio di sviluppo che raggiunge un diametro di circa 10- 12 cm ed un peso di
poche decine di grammi (20-40 g.).
La lattuga Zuccherina è una tipologia Romana, con foglie più lunghe, di
colore verde chiaro lucente, lisce, disposte a rosetta più appressata. La produzione
può interessare tutte le stagioni, sia in pieno campo che in coltura protetta, e i cespi
sono raccolti ad uno stadio di sviluppo precoce, quando raggiungono il peso di
poche decine di grammi (15-30 g.).
Entrambi i prodotti presentano caratteristiche di fragranza, croccantezza e
freschezza. Il tipo Zuccherina, da cui origina il nome, è decisamente più dolce al
gusto, e di consistenza più tenera.
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La semina avviene a spaglio, su terreno affinato e ben preparato sia in pieno
campo che in tunnel, e generalmente non sono necessari grossi interventi di
carattere fitoiatrico durante il ciclo colturale.
L’origine della semente è commerciale, i produttori si approvvigionano da
rivenditori della zona che commercializzano materiale riprodotto o distribuito da
ditte sementiere (Olter Sementi di Asti; Carrara F.lli di Parma).
La zona di produzione tipica di questo ortaggio si identifica nei comuni della
cintura di Torino, tradizionalmente vocati alla produzione di ortaggi per i mercati
cittadini.
Le piante vengono raccolte ad uno stadio di sviluppo precoce, prima che si
formi la “testa”, mondate delle foglie danneggiate od ingiallite e riposte in cassette
di legno o plastica per la commercializzazione, e rappresentano un prodotto
delicato e raffinato. La destinazione alla vendita per il consumo fresco è
rappresentata principalmente dai dettaglianti o vendita diretta dei produttori, una
piccola quota è destinata alla grande distribuzione sempre più interessata alla
commercializzazione di prodotti locali e particolari.
Per entrambe le tipologie di lattughini si può stimare una produttività di circa
1,5- 1,7 Kg/mq quando sono raccolte ad uno stadio precoce di sviluppo tipico per
il loro utilizzo. Si può stimare la produzione annua commercializzata in circa 500
quintali. Il prezzo di vendita varia dalle 8.000 Lit/kg di inizio stagione alle 3.000
Lit/kg.
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1.15 Il Trufulot del bür.
Il Trifulot del bür è una delle molteplici varietà di patata che appartengono al
genere Solanum, pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Solanacee.
La pianta ha aspetto cespitoso, con fusti erbacei eretti nella fase iniziale dello
sviluppo, più o meno inclinati in prossimità della maturazione. Il frutto è una bacca
rotondeggiante che contiene numerosi semi ed è una caratteristica tipica varietale.
La parte edule della pianta è rappresentata dai tuberi, che si formano all’estremità
degli stoloni ipogei.
La tecnica colturale prevede la “semina” a febbraio, tradizionalmente nel
periodo del Carnevale, la raccolta a maggio- giugno. In alcune situazioni della
collina di Moncalieri era prevista la coltivazione in tunnel con raccolte precoci già
ad aprile.
I tuberi sono a pasta gialla, di forma allungata con dimensioni di circa 8-12
cm per un diametro di 3-4 cm.
L’origine della selezione può essere fatta risalire alla Francia, paese dal quale
le patate sono state introdotte in Italia, anche perché i tuberi da seme normalmente
utilizzati dai produttori hanno origine e provenienza transalpina, commercializzati
con il nome di Ratte, e non si provvede più alla autoriproduzione in azienda.
Localmente, in alcuni casi, il Trifulot è identificato da alcuni con il nome di “Ratin”.
I trifulot sono utilizzati per la cottura generalmente interi, o al massimo
tagliati a metà, passati al forno o in padella per accompagnare carni bianche o rosse,
in umido, come ingrediente di minestre di verdura.
La zona di produzione di questo ortaggio si identifica sostanzialmente nei
comuni di Moncalieri, Santena, Nichelino, Trofarello, a ridosso dell’abitato di
Torino dove trova mercato.
Esiste una nicchia di produzione in val di Susa, val Chisone e val Pellice
destinata sostanzialmente ad autoconsumo, nonché in val Sangone per la vendita al
mercato di Giaveno.
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I tuberi raccolti vengono condizionato nei locali propri delle aziende
agricole, dove vengono puliti e ricoverati in cassette per la vendita. Il prodotto non
è destinato alla conservazione, ma va consumato nel breve periodo per conservare
le caratteristiche tipiche della patata “novella”.
In qualche caso può essere
commercializzata già pelata, provvedendo al distacco della buccia, di consistenza
sottile, con immersione in acqua e barilatura manuale. I canali commerciali
preferenziali sono rappresentati dalla vendita diretta o a dettaglianti.
Il prodotto può spuntare prezzi al consumo oscillanti dalle 10.000 £/Kg per
le prime produzioni fino ad un minimo di 5000 £/Kg.
La produttività si può stimare in circa 70- 100 ql./ha. Più incerta la stima del
valore del mercato del prodotto in questione, in quanto l’offerta è quanto mai
polverizzata sul territorio per la ridotta superficie investita nella coltivazione.
1.16 Il Ravanello Lungo o Torino o Tabasso.
Il Ravanello Lungo o Torino o Tabasso è un ortaggio da consumo fresco di
sapore dolce, tenero e non forte; adatto ad essere consumato insieme all’insalata
verde, oppure a qualsiasi tipo di insalata fresca, si accompagna bene anche con la
maionese.
Il ravanello Tabasso per poter manifestare al meglio le sue caratteristiche
tipiche, necessita di un terreno sabbioso, leggero e alcalino. Per contro non
sopporta terreni acidi e pesanti.
Il ravanello viene coltivato sotto tunnel, seminato poco profondo a file
ravvicinate su terreno fresato. Il ciclo colturale dura da un minimo di 25 gg in
estate, ad un massimo di 70 – 75 gg in inverno. La coltivazione prosegue durante
l’intero arco dell’anno tranne nei mesi estivi (luglio e agosto) perché il ravanello
patisce le alte temperature e risulta essere spugnoso e di sapore forte, sgradevole
per il consumatore.
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La concimazione ottimale si ottiene con la letamazione una volta all’anno
all’inizio della stagione colturale e con humus di lombrico distribuito a metà anno
colturale.
È necessaria una irrigazione soprachioma poco abbondante ma frequente,
ricordando che il ravanello è molto sensibile agli eccessi idrici.
La coltivazione del ravanello si avvantaggia della solarizzazione (tecnica
agronomica che sfrutta il calore del sole per sterilizzare il terreno), durante i mesi
estivi (luglio e agosto), in quanto questa tecnica permette l’eliminazione delle
infestanti (fatta eccezione della portulacca) e controlla bene la malattia fungina la
rizoctonia.
Per la rapiditá del ciclo colturale raramente necessita di trattamenti
fitosanitari.
Il ravanello Tabasso e frutto di un incrocio fra due varietà diverse di
ravanello. Nella prima metà di questo secolo nella zona di Testona (frazione di
Moncalieri) era diffusa la coltivazione di un ortaggio chiamato “ravanello Torino”
selezionato, si dice, da un agricoltore della zona il Sig. Ballor, personaggio famoso
per la sua abilità nel creare nuove varietà tra cui il crisantemo bianco “super
william”. Le caratteristiche di questo “ravanello Torino” erano la precocità e il
colore metà rosso e metà bianco, aveva però il difetto di diventare facilmente vuoto
all’interno.
Il “ravanello Torino” è stato successivamente incrociato con una cultivar di
ravanello proveniente dalla Liguria denominata “oliva” per la sua forma allungata e
dal colore interamente rosso.
Dall’incrocio è nato il “ravanello Tabasso”, di forma allungata, rosso e con la
punta bianca. Negli anni la varietà è stata migliorata stabilizzando a livello genetico
le caratteristiche qualitative attraverso una selezione massale operata dagli
agricoltori stessi che si sono riprodotti il seme in azienda.
Il confezionamento del prodotto avviene in mazzi di 8 ravanelli raccolti
attualmente con un elastico posto alla base delle foglie, in passato il mazzo veniva
legato con i rametti di salice. I mazzi quindi vengono sistemati 20 per cassetta di
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plastica nera e le radici vengono ben lavate con l’acqua. Il mazzo deve essere
completo di foglie, fornendo cosi al consumatore la garanzia della freschezza del
prodotto.
Attualmente
la
coltivazione
del
“ravanello
Tabasso”
e
estesa
prevalentemente alla collina di Moncalieri. In passato negli anni 70 la coltivazione
era estesa anche a Nichelino, Testona e comuni limitrofi.
La riduzione della superficie dagli anni 70 ad oggi è dovuta soprattutto alla
concorrenza da parte dell’Olanda e di Latina. In realtà quest’ultima produce un
ravanello sempre allungato ma tutto rosso, più pesante e meno lucido.
Attualmente la produzione complessiva annuale del Tabasso è stimata
intorno ai 7500 qli/ anno.
I canali di commercializzazione principali sono i
supermercati della provincia di Torino, il MOI oppure i mercati rionali.
1.17 La Cipollina di Ivrea.
La Cipollina di Ivrea è una cipolla di piccolissime dimensioni ossia della
grandezza di una nocciola o poco più, la cui forma varia dalla sferica, alla subrotonda ed alla oblunga; il diametro varia da uno a due centimetri e mezzo e più
raramente a tre e la colorazione dal rosso aranciato chiaro al nocciola sbiadito
caratteristico.
Costituiscono una vecchia produzione dell’alto Canavese, che fu in ogni
tempo rinomata per le sue pregevoli qualità. Per il gusto fine, delicato, squisito ed
assai gradevole, da molto tempo la loro fama ha varcato i confini dei paesi d’origine
essendo riuscite a farsi apprezzare da tutti i buongustai; a conferma di questo basta
digitare “cipolline di Ivrea” in qualsiasi motore di ricerca e salteranno fuori una
miriade di ricette o di siti sull’argomento.
Scrive il professor Chiej Gamacchio in un suo libro dei primi del 900
sull’argomento, che le Cipolline formavano oggetto di una esportazione notevole
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verso parecchie località della Svizzera della Francia, della Spagna e “perfino delle
Americhe, dove vengono esportate allo stato naturale o variamente confezionate”.
La denominazione di Cipolline di Ivrea non è peró del tutto appropriata,
perché nella città di Ivrea si fa solo in gran parte la loro vendita; la loro patria si
deve invece ricercare in quella parte dell’alto Canavese che occupa l’imbocco della
Valle d’Aosta, che va cioè dalle sponde della Dora Baltea alle falde delle catene
montuose che si innalzano a poca distanza dal fiume, nel tratto compreso tra la
confluenza del torrente Lys e lo sbocco della valle nell’ampio e pittoresco anfiteatro
morenico eporediese.
Alla loro coltivazione si destinavano nei primi anni del novecento circa una
cinquantina di ettari di terreno, distribuiti nei diversi comuni che si trovano nella
indicata località. Più precisamente, i maggiori centri di produzione si trovavano nei
comuni di Tavagnasco, di Quincinetto, di Nomaglio, e di Carema, situati i due
primi, sulla destra e gli altri sulla sinistra della Dora. Si coltivavano pure ma meno
estesamente, nei comuni di Pont S. Martin, Cesnola, (ora frazione di Settimo
Vittone), Settimo Vittone e Montestrutto (anche questo ora frazione di Settimo
Vittone), che si trovano sulla sponda sinistra.
In tutti questi comuni, ed in special modo nei primi, la coltivazione delle
cipolline era praticata dalla più remota antichità; e sempre il prof. Chiei scriveva che
l’importanza avuta in passato era alquanto scemata poiché già allora erano oggetto
di concorrenza sleale sostituendo alle vere cipolline delle piccole cipolle di altra
provenienza uguale per forma e grandezza ma che nulla avevano a che fare col
gusto squisito delle prime. Questa fraudolenta sostituzione praticata spesso su vasta
scala, da negozianti poco scrupolosi e solo amanti del lucro, sullo stesso mercato di
Ivrea finì col tempo a produrre un notevole deprezzamento nel valore delle vere
cipolline, e con questo una minore convenienza a continuarne la coltivazione.
Infatti parecchi coltivatori preferirono destinare i loro terreni alla coltivazione delle
piante foraggiere che avevano pure una grandissima importanza perché il bestiame
costituiva una delle più importanti risorse della località.
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Le condizioni dell’ambiente dove si pratica la coltivazione delle Cipolline di
Ivrea, sono del tutto particolari: riguardo al clima, si hanno da una parte le correnti
di aria fresca che spirano quasi senza interruzione dall’alta valle del Lys e
Rananchio; dall’altra la presenza delle grandi catene montuose delle prealpi, ed in
special modo dei due colossi Mombarone e Renon, che stanno all’imbocco della
vallata e che ritardano la comparsa del sole su una parte dei terreni e anticipano la
sua scomparsa sugli altri, impedendo o smorzando l’azione troppo viva del sole di
meggiogiorno, fanno si che anche durante i più forti calori estivi regni un clima
temperato e fresco.
I terreni risultano poi dalla sovrapposizione e dalla mescolanza del limo
glaciale e dagli ammassi caotici del terreno morenico e delle alluvioni recenti della
Dora e dei suoi affluenti, coi detriti che in epoca remota ed anche in epoca più
recente, si sono acumulati alle falde dei monti. Ne risultarono cosi degli ammassi
silico sabbiosi micacei, contenenti talora delle ghiaie e delle pietre, di colore oscuro,
sciolti, leggeri e permeabilissimi all’acqua. Presentano per lo più una doppia
pendenza verso la Dora e verso lo sbocco della valle, quindi si prestano assai bene
ad essere irrigati. A tal fine, la loro superficie venne ridotta coi lavori ad essere quasi
pianeggiante; ed era poi solcata da una fitta rete di piccoli canali destinati a
condurre ed a smaltire l’acqua di irrigazione derivata dalla Dora o dai torrentelli che
discendono dai monti, alimentati dalle sovrastanti cime nevose.
La parte più alta di questi terreni è occupata dai boschi di castagno da legna e
da frutto; più sotto ai boschi si innestano i vigneti a pergolato, avvicinandosi alla
parte pianeggiante questi ultimi si diradano e lasciano il posto ai prati e ai coltivi e
quindi alle cipolline. È ancora degno di nota il fatto che in tutta la zona, si ha un
grande frazionamento della proprietà, sicché sono rari gli appezzamenti della
superficie di un ettaro; abbondano quelli aventi una estensione minore di un
decimo di ettaro e quelli di poche centinaia di metri.
Alla coltivazione delle Cipolline si destinavano di preferenza i terreni meno
inclinati, scoperti e meglio esposti. Solo come eccezione, si coltivavano talora
consociate con qualche pianta da frutto e specialmente coi peschi; si coltivavano
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per lo più dopo le patate od anche dopo la rottura del prato oppure più volte di
seguito sullo stesso appezzamento.
La preparazione del terreno va eseguita in primavera e solo eccezionalmente
in autunno, e consiste in una accurata vangatura che si completa con un accurato
affinamento e livellamento del terreno che viene poi diviso in aiuole della larghezza
di tre o quattro metri, mediante solchetti di debole inclinazione che dovranno
servire da irrigatori.
La concimazione andrebbe eseguita con letame bovino maturo in ragione di
400 ql. ad ettaro.
La semina si esegue in primavera appena cessato il pericolo dei geli e quindi
dalla fine di febbraio alla prima metà di marzo, nell’intento di evitare in parte i
danni di alcune patologie, adoperando esclusivamente il seme prodotto in azienda o
comunque nella zona. A tal fine nell’autunno si scelgono le cipolle che
rappresentano meglio i caratteri della varietà e si conservano in un ambiente
riparato dal freddo per rimetterle in terra nella primavera successiva. Si piantano
distribuendole in gruppi di cinque o sei attorno a paletti, destinati a sostenere prima
lo scapo e più tardi le infruttescenze. Quando i frutti hanno raggiunto la
maturazione, si raccolgono le ombrelle e si fanno essiccare per staccarne il seme per
strofinamento; oppure si lasciano per qualche giorno a fermentare in un mastello
per liberare più facilmente i semi dl pericarpo.
I semi ripuliti ed essiccati, si conservano rinchiusi in sacchetti in camere sane
ed arieggiate fino alla semina. Questa si fa alla volata adoperando da kg 0,50 a 0,90
di seme per ogni ara. Si fa quindi piuttosto fitta, in previsione delle perdite di
piantine che si dovessero verificare per parassiti o avversità atmosferiche; il seme
sparso va poi interrato smuovendo con una leggera erpicatura la superficie delle
aiuole.
Dopo la semina se è necessario si dovrà rompere la crosta che si è formata in
superficie per facilitare l’emergenza delle piantine, quando poi queste sono spuntate
si pratica una prima scerbatura, altre scerbature vanno eseguite in seguito anche per
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smuovere il terreno al fine di indebolire le piantine in modo che non crescano
troppo vigorose.
Qualora le piantine fossero troppo fitte andrà eseguito un diradamento.
Irrigazioni abbondanti andranno poi eseguite durante la stagione estiva e se occorre
per limitare l’evaporazione e la crescita delle infestanti potrà tornare utile una
pacciamatura. Agli inizi del secolo scorso a questo scopo si usava consociare le
cipolline con il mais.
La raccolta si esegue quando le foglie sono essiccate e quando le tuniche
esterne dei piccoli bulbi hanno raggiunto una colorazione rosso nocciola,
generalmente si raggiungono queste condizioni verso la metà di agosto. Dopo la
raccolta si ripuliscono della terra che può aderire ai bulbi e si dispongono ad
asciugare distese in strato sottile su solai asciutti ed arieggiati dove si conservano
fino al momento della vendita. Da un’ara di terreno si ottengono da 75 a 100 Kg.
di bulbi.
Le cipolline sono soggette ad attacchi di Peronospora, Sclerotinia e di insetti
terricoli quali grillotalpa, maggiolino, larva della mosca.
La vendita del prodotto si effettuava soprattutto sul mercato di Ivrea a prezzi
variabili a seconda della forma, del colore e della dimensione delle cipolline. A tal
proposito ancora oggi le caratteristiche tipiche delle Cipolline di Ivrea sono
determinate da una forma rotonda o subrotonda la cui grandezza non supera il
diametro di cm. uno o due o poco più di colore rosso aranciato o nocciola chiaro.
Non vanno bene quelle oblunghe o fusiformi perché provengono dai terreni
limacciosi della Dora e quindi meno buone, quelle aventi un diametro maggiore a
quello anzidetto perché meno gustose, sono infine poco pregiate quelle con
colorazione rosso violacea perché rappresentano una degenerazione o peggio una
sostituzione delle vere Cipolline di Ivrea.
Scriveva il prof. Chiej Gamacchio: “ Ammettendo di ottenere un prodotto di
75 ql. ettaro e di vendere questo prodotto a sole L. 50 ogni q.le, risulta che il valore
delle cipolline che si possono ricavare da un ettaro di terreno ammonta a lire 3750.”
A quei tempi un ettaro di terreno si acquistava con 15 – 20.000 lire.
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1.18 Le Antiche Varietà di Mais da Polenta.
Le quattro varietà tradizionali di mais per produrre farine per polenta sono
le seguenti.
L’Ottofile, prende il nome dalla caratteristica specifica di avere una
pannocchia con otto file longitudinali di chicchi dalla forma arrotondata di colore
arancio molto ricco di amido. Veniva seminata per lo più nella langa alta ed ha un
ciclo produttivo medio.
La Pignolet, deriva il suo nome dall’avere i chicchi dotati di una piccola
protuberanza che fa assomigliare la pannocchia vagamente ad una pigna. I semi
sono di un bel colore arancio vivo con un contenuto delle frazioni amidacea e
setolosa molto equilibrata. Si semina a partire dalla bassa langa sino alla pianura
Cuneese e Torinese con un ciclo produttivo medio precoce.
Il Marano, è un mais dal ciclo produttivo precoce con una pannocchia
molto piccola dai chicchi di un bel colore rosso – amaranto vivo, con una frazione
setolosa preponderante rispetto alla frazione amidacea. Veniva seminato dalla bassa
langa sino al Monferrato e all’Alessandrino.
La Quarantina, chiamata così per il suo ciclo produttivo precocissimo,
veniva seminata in tuta la zona soprattutto in secondo raccolto e quando le avverse
condizioni climatiche impedivano la semina di mai Ottofile, Pignolet e Marano in
modo da poter avere comunque la produzione necessaria per il sostentamento della
famiglia giacchè era impensabile sopportare una annata senza la produzione di mais
da polenta.
Bisogna ricordare che tutte e quattro le varietà di mais necessitano di cure
maniacali nel mantenere la purezza della tipicità che si ottiene con la selezione
annuale delle migliori pannocchie che vengono accantonate per essere utilizzate
come seme per la successiva annata; le varietà di mais in oggetto si stanno
estinguendo proprio perché i vecchi contadini che conoscono bene l’esigenza e la
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tecnica di selezione non tramandano più il loro sapere ai figli perché la semina dei
mais nostrani non è più una esigenza primaria e commercialmente non vengono
assolutamente valorizzati dall’industria di trasformazione.
I mulini che producono farina tradizionale per polenta fanno seminare con
contratti di produzione i mais in oggetto garantendo ai contadini prezzi adeguati
alla eccezionale bontà degli stessi ( prezzi superiori anche di 3 – 4 volte i mais
comuni ).
La bontà della materia prima viene poi esaltata dalla miscelazione delle
quattro varietà e dalla macinazione.
Non si incontrano grandi difficoltà nel trovare contadini disposti a seminare i
mais nostrani perché le tecniche di produzione che vengono imposte sono quelle
tradizionali sino a 40 – 50 anni fa, più rispettose della natura e vicine alla sensibilità
ambientale che sta facendosi strada in molti di loro, ottenendo, peraltro, una
adeguata remunerazione.
La macinazione delle varietà di mais in oggetto avviene con l’utilizzo di
macine in pietra a lenta rotazione(circa 100 giri al minuto) che danno come
prodotto la farina integrale giacchè la macinazione su pietra è una macinazione che
lascia nella farina tutte le parti di cui è composto il chicco compresa la parte più
pregiata, il germe, che nella macinazioni industriali frazionate viene invece separato
e tolto dalla farina. E’ importantissima la tecnica di macinazione su pietra perché il
germe viene in questo modo spappolato e macinato e si amalgama alla farina che
diventa adatta a produrre polenta di caratteristiche organolettiche eccellenti.
Nella provincia di Torino, come in tutto il resto del Nord Italia in cui la
polenta era alimento della dieta giornaliera, sino agli anni cinquanta era
consuetudine da parte dei contadini seminare grandi superfici di mais per uso
zootecnico e riservare una parcella del campo migliore dell’azienda per la semina
della meliga per la polenta. La meliga per la polenta era il frutto di selezioni durate
decenni effettuate direttamente dai contadini allo scopo di ottenere un mais dalle
qualità organolettiche eccellenti senza curarsi dell’aspetto produttivo, a differenza di
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quella ad uso zootecnico che doveva e deve tuttora soprattutto essere una varietà
molto produttiva.
Così si selezionarono l’Ottofile, la Pignolet, il Marano e la Quarantina.
Negli anni sessanta e settanta la tradizione di consumare polenta era andata
progressivamente perdendosi e di pari passo si era persa l’abitudine di seminare i
mais tradizionali per la polenta. Si era anche perso il “gusto” della polenta
tradizionale soppiantata da polentine preparate con le varie farine industriali (le
bramate, semolate ecc.) dai tempi di cottura più brevi e di più facile reperimento ma
dalle caratteristiche organolettiche piuttosto anonime.
A cavallo tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta si è iniziato un
paziente lavoro di ricerca degli ultimi contadini che ancora seminavano le varietà di
meliga nostrana per polenta e solo grazie all’intraprendenza di imprenditori
appassionati si è potuto salvare l’Ottofile e la Pignolet che erano veramente
sull’orlo dell’estinzione.
1.19 Il Grano Saraceno.
Sotto il nome di Grano Saraceno si comprendono tre specie: - il grano
saraceno comune (Polygonum fagopyrum L.), - il grano di Tartaria o di Siberia, - il
grano saraceno emarginato.
La specie più importante e diffusa nei nostri climi è il grano saraceno
comune, originario della Asia centrale, il quale è caratterizzato da fiori rosei o
bianco rosei ed achenio ad angoli interi. Esso è molto sensibile al freddo
(temperatura minima + 6 °C) e teme le gelate tardive ed i freddi autunnali precoci.
Per la sua rapidità di sviluppo riesce a trarre profitto dalle limitate stagioni calde
delle regioni alpine, dove è coltivato.
È poco esigente, preferisce i terreni freschi e sciolti, si adatta in quelli acidi,
rifugge gli argillosi e umidi. Teme le prolungate piogge autunnali.
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La raccolta avviene tra la fine di settembre ed i primi di ottobre. Visto che la
maturazione degli acheni è scalare, si raccolgono le piante quando la maggior parte
è matura.
La granella fornisce una farina, spesso di colore scuro per i residui
dell’achenio, utilizzata nell’alimentazione umana, in particolare nelle zone montane.
Il grano saraceno non è una graminacea, ma non per questo ha qualcosa da
invidiare ai suoi cugini più famosi.
I chicchi, riconoscibili per la loro forma quasi triangolare, sono teneri e
croccanti, per cui richiedono pochissima cottura circa 10/15 minuti in abbondante
acqua salata. Il grano saraceno viene tutt'ora consumato in provincia di Torino
sotto forma di farina per la preparazione di polente, pane, focacce, pasta fresca, ecc.
Da un punto di vista nutrizionale il grano saraceno è un alimento molto
equilibrato, con un 67-70% di glucidi, 10-12% di proteine e 2,5-3% di grassi, ricco
in ferro, vitamina B, vitamina E e magnesio, particolarmente adatto alle stagioni
fredde data la sua capacita' riscaldante, può però essere usato saltuariamente anche
in estate per preparare gustose insalate, unendovi verdure fresche, olive ed
eventualmente formaggi leggeri.
Il grano saraceno annovera tra le sue proprietà la capacità di fornire energia e
vigore fisico, cosa che lo rende particolarmente adatto nella convalescenza, nella
gestazione, agli anziani; aiuta ad eliminare dall'organismo i liquidi in eccesso ed ha
una notevole azione rivitalizzante su reni, cuore e ghiandole sessuali.
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1.20 Il Tartufo Bianco (Tuber magnatum Pico).
In provincia di Torino il Tartufo bianco (Tuber magnatum Pico) è presente sulle
colline del Chierese e del Chivassese, che confinano col Roero, l’Astigiano e il
Monferrato.
Il tartufo bianco ha il peridio liscio e la forma globosa, spesso molto
appiattita ed irregolare. Il peridio è di colore giallo pallido o tendente all’ocra con
chiazze rosso-brune. La gleba, percorsa da venature bianche molto ramificate, varia
dal colore latte al rosa intenso con sfumature brune. Le spore sono di tipo
reticolate-alveolate ad alveoli grandi. E’ il più grande tra i tartufi: raggiungono le
dimensione di una grossa mela, ed ogni anno si raccolgono pochi esemplari che
superano, anche abbondantemente il chilogrammo. Il suo profumo inteso ed il
sapore gradevole lo fanno considerare il più pregiato tra i tartufi.
È reperibile solo nella tarda estate, in autunno e all’inizio dell’inverno sotto
querce, salici, tigli e pioppi, in terreni con umidità abbastanza elevata anche nel
periodo estivo.
In questi ultimi anni la produzione del Tuber Magnatum Pico si è molto
ridotta, anche se non è dimostrabile statisticamente a causa della mancanza di dati
storici. Secondo i “trifolau”, negli ultimi 15 anni vi è stato un calo della produzione
dell’80%. I fattori che hanno portato a questo calo della produzione sono
molteplici come ha evidenziato il Dott. Vizzini del CNR di Torino, fra le quali
taglio indiscriminato delle piante simbionti, abbandono delle campagne,
compattamento del terreno dovuta a poca areazione, raccolta indiscriminata
effettuata da cercatori improvvisati, influenze delle piogge acide, meccanizzazione
dell’agricoltura, particolari condizioni climatiche (temperature elevate e scarse
precipitazioni), influenza degli inquinanti atmosferici.
ll tartufo era conosciuto dai tempi più antichi. La sua origine, nel passato fu
attribuita a diverse cause: dalla decomposizione organica al calore, dal fango per
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germinazione spontanea all’impatto del fulmine con il suolo. Qualcuno pensava
fosse un organo riproduttivo degli insetti e altri lo riportarono addirittura al regno
minerale.
L’esistenza del tartufo è nota da sempre, ma fu solo a partire dal XVI secolo
che venne riconosciuto come fungo. Alla fine del XVIII secolo il mondo scientifico
studia il prestigioso “Tuber magnatum” (il tartufo bianco), tartufo peraltro
riconosciuto dalla corte piemontese (alcuni documenti risalenti alla seconda metà
del 1300, testimoniano che esso veniva donato dai principi d’Acaja a Bona di
Borbone) e il cui nome si deve al medico piemontese Vittorio Pico. Il Conte
Camillo Benso di Cavour utilizzò il tartufo come mezzo diplomatico, Gioacchino
Rossini lo definì “Il Mozart dei funghi”, Lord Byron riteneva che il suo profumo
destasse la creatività e per questo motivo ne teneva un esemplare sulla scrivania,
mentre Alessandro Dumas lo definì “il Sancta Sanctorum della Tavola”.
Notevoli progressi furono fatti verso la fine del secolo scorso, quando il
professor Gibelli dell’Istituto Botanico dell’Università di Torino, dimostrò la
relazione, nota come simbiosi che molti funghi assumono con alcune piante. Negli
stessi anni il tedesco Frank attribuì il nome di “micorrize” alle formazioni mediante
le quali questa relazione si verifica.
Nel 1967 grazie alle ricerche del Centro di Studio sulla Micologia del terreno
del CNR di Torino, fu dimostrato sperimentalmente il rapporto micorrizico pianta
tartufo.
Per valorizzare questo prodotto a livello mondiale, nel 1949 Giacomo Morra,
pensò di inviare il miglior esemplare dell’anno, ad un personaggio illustre della
politica, dello sport e dello spettacolo. Quell’anno fu scelta l’attrice Rita Hayworth e
nel 1951 il presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Nel 1999, la Fiera è stata
visitata da circa mezzo milione di visitatori ed almeno 45000 di essi hanno
acquistato quantità variabili del prodotto in oggetto.
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2. LA FRUTTA.
2.1 Introduzione.
La coltivazione della piante da frutta, già conosciuta presso i Greci, diventa
particolarmente florida in Italia nel periodo dell'Impero Romano, come ben
sottolineano i vari Catone, Varrone, Plinio e Palladio, che descrivono, con dovizia
di particolari, i luoghi e le cure riservate agli alberi da frutto, a testimonianza di una
coltivazione diffusa ed apprezzata.
In Piemonte però la situazione è un po’ diversa, poiché, fino al secolo IX, ci
si limita a raccogliere mele, pere, fichi, olive, castagne ed uva da piante spontanee.
Nei Capitolarii di Carlo Magno sono contenuti consigli e raccomandazioni a
coltivare meli a frutti dolci, profumati, acidi e di lunga conservazione, ma i pochi
segni di una vera e propria frutticoltura si ritrovano solo nei vasti giardini di
Abbazie e Conventi.
In Piemonte sono gli ordini monastici, cluniacensi prima e cistercensi poi,
che si dedicano a coltivare e migliorare le varietà del periodo romano sopravvissute
alle invasioni barbariche (Mattirolo, 1917; Gabotto, 1901).
Fino al XIII-XIV secolo i fruttiferi sono considerati alberi ornamentali, di
lusso, da porre intorno alle dimore signorili in quanto richiedono per la loro
coltivazione grandi spazi, competenze tecnico-agronomiche ancora inesistenti e
presentano ampi margini di rischio prima e dopo il raccolto. Di conseguenza la
frutta assume il significato per lo più di privilegio, di cibo superfluo riservato alle
classi abbienti.
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Le confetture di frutta, in particolare, continuano ad essere segno di
ricercatezza e di lusso sulle mense della nobiltà e della Corte di Savoia dove si ha
notizia di confetture preparate dalla duchessa Bianca di Monferrato, moglie di Carlo
I (Mattirolo, op. cit.).
Nel tardo medioevo però statuti comunali e rendiconti delle castellanie
sabaude fanno menzione di alberi da frutto piantati ai bordi di coltivi, in prati aperti
o chiusi, campi a cereali, orti, brolii (orti alberati), giardini, cortili, vigne e si inizia a
parlare di planterii o più specificamente di pomerii (Nada Patrone, 1981). Negli Statuti
di La Morra del 1407, ad esempio, era indicato l’obbligo di piantare ogni anno, per
venti anni, diverse specie fruttifere, tra cui “persichi durassi e nostrani”.
Il melo, il ciliegio, il pesco e il cotogno divengono tra i fruttiferi
predominanti nel Piemonte, soprattutto nel Cuneese e nel Canavese e si
menzionano piante selvatiche e spontanee ma produttive e alberi innestati. La
pratica dell'innesto sembra essere l'unica conosciuta e tramandata dall'antichità.
Verso la fine del Quattrocento nell'area pedemontana, parallelamente
all'estensione della coltura, la frutta cessa di essere cibo di élite e si diffonde presso
ampi strati sociali, assumendo un valore economico. All’epoca infatti, il valore
venale delle mele, deducibile dalle multe imposte per furti, è pari a quello di pere,
ciliegie e prugne, è inferiore a quello di castagne e mandorle (frutti di più facile e
lunga conservazione), ma superiore a quello di fichi e pesche (forse più
abbondanti).
È con il Rinascimento che si assiste, con il diffondersi della stampa e dei
primi trattati di agricoltura, ad un forte impulso della frutticoltura, soprattutto in
Toscana dove, similmente a quanto succede in Francia, sorgono, presso la Corte
Medicea e presso le Ville Ducali, frutteti con varietà di pregio e condotti con
tecniche innovative.
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Per il Piemonte invece l'entusiasmo che aveva pervasi i secoli dal XIII al
XVII e l'interesse per nuove varietà si limitano allo spazio circoscritto dei poderimodello (Valentino, Regio Parco, Mirafiori, Millefonti), sorti in prossimità di
Torino per volere di Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I, al fine di coltivare le
migliori varietà di fruttiferi per approvvigionare le mense reali (Mattirolo, op. cit.).
La frutticoltura piemontese, intesa in senso moderno, nasce però soltanto sul
finire del 1700, quando vengono introdotti, attraverso la Savoia, i modelli colturali e
le varietà di fruttiferi presenti da lungo tempo in Francia (Genesy, 1882).
Un notevole contributo all'espandersi della frutticoltura nascente proviene
dall'attività dell'Accademia di Agricoltura, fondata nel 1785 a Torino, la quale , nel
1798, crea l’Orto della Crocetta, in cui operarono insigni membri dell’Accademia di
Agricoltura quali M. Bonafous e G.B. Delponte, con il compito di favorire il
diffondersi delle tecniche agronomiche di coltivazione e di nuove cultivar (a metà
dell’800 nell’Orto erano presenti circa 700 varietà delle diverse specie).
Presso gli Orti della Crocetta ed in seguito del Valentino, infatti, si
sperimentano nuove specie, si conservano e si diffondono le migliori varietà di
fruttiferi del momento e, attraverso corsi di frutticoltura, vengono divulgate idee e
conoscenze scientifiche e tecnologiche e si formano frutticoltori preparati
professionalmente.
Importantissimi per la frutticoltura piemontese sono nel 1800 i vivai Burdin,
sorti nel 1779 a Chambéry: coi loro cataloghi oltre a far conoscere l'ampio
assortimento varietale di cui dispongono (oltre 800 varietà), i proprietari, i fratelli
Burdin, offrono ai coltivatori istruzioni e suggerimenti di tecnica frutticola. Nei
loro stabilimenti viene situato anche il museo pomologico per conservare in una
raccolta speciale i modelli di tutti i frutti coltivati nei Regi Stati.
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Il modellatore Garnier Valletti, nato a Giaveno (TO) nel 1808, dopo aver
lavorato alla Corte Austriaca dapprima e presso l'Imperatore di Russia a
Pietroburgo poi, al suo rientro in Italia riproduce nella forma, nel peso e nei colori
naturali più di 1200 varietà di frutti e 600 di uve.
Le Esposizioni Agrarie sono l'occasione di presentare al pubblico le migliori
varietà di frutta coltivate allora in Piemonte ed i macchinari agricoli utilizzabili.
In
una esposizione tenuta a Torino nel 1884, vengono presentati dalla casa Cirio,
all’epoca anche azienda vivaistica, numerose cultivar di melo, pero, pesco, susino,
oltre a numerose varietà di fichi e vite. In quell’occasione venne presentata anche la
cultivar di melo Carla, nota sin dagli inizi dell’Ottocento e tuttora sporadicamente
coltivata.
Nel XX secolo la frutticoltura è andata via via acquistando una funzione
sempre più importante nell’economia agricola piemontese, con un successo dovuto,
almeno in parte, anche al vasto assortimento varietale resosi disponibile.
La trasformazione del frutteto familiare in coltura specializzata, verificatosi in
Piemonte a partire dai primi del Novecento, ha favorito una graduale, ma costante,
evoluzione dell’assortimento varietale.
Ciò si è tradotto in una vera e propria
rivoluzione varietale, con l’introduzione di cultivar e modelli produttivi diversi tesi
ad assecondare le nuove esigenze del consumatore in materia di gusto e aspetto del
frutto e di sua conservabilità e disponibilità durante tutto l’arco dell’anno. Questa
rivoluzione però se da un lato ha contribuito ad arricchire e migliorare la
frutticoltura piemontese, dall’altra ne ha costituito un evidente impoverimento,
poiché ha indotto, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, un
progressivo ma inarrestabile affermarsi delle nuove cultivar rispetto alle vecchie
varietà locali, come bene evidenzia lo Schema n. 1 che riporta un significativo
confronto tra l’assortimento varietale del melo nel Pinerolese negli anni 1930-1940
e negli anni 1970-1980.
Nei paragrafi che seguiranno cercheremo di dar conto appunto delle varietà
locali ,che in alcuni casi resistono ancora sufficientemente bene, ma in altri - e sono
la gran parte - faticano a sopravvivere.
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Schema n. 1 - Confronto tra l’assortimento varietale del melo
nel Pinerolese negli anni 1930-40 e negli anni 1970-80 (Fonte CIFOP)
Anni 1930-1940
5%
6%
1%
5%
30%
5%
8%
5%
25%
Renetta grigia di Torriana
Bella di Barge
Renetta Champagne
altre locali
5%
Dominici
Runsè
Losa
altre non locali
5%
Gamba Fina
Magnana
Ross Giambon
Anni 1970-1980
5%
5%
20%
70%
Gruppo Golden D.
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Gruppo Red D.
altre locali
altre non locali
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2.2 Le mele.
Un posto preminente tra la frutta piemontese spetta sicuramente alla mela,
forse la specie a più antica coltivazione, come dimostrano i grandi autori latini.
Catone, Varrone, Plinio e Palladio infatti citano ben 26 varietà di melo e
sottolineano l'importanza riservata alle mele che, oltre ad essere pagate
profumatamente, sono spesso presenti sia nelle opere letterarie che nelle
decorazioni pittoriche o scultoree di abitazioni e monumenti di quel periodo
(Mattirolo, op. cit.).
La storia del melo in Piemonte seguirà le vicende riportate nel paragrafo
precedente, godendo però generalmente di maggior fortuna. La fortuna della
coltura, protetta dalle autorità comunali fin dal tempo dei liberi Comuni, è
attribuibile alla facile adattabilità della specie a differenti pedoclimi, alla possibilità
di reperire entità a raccolto estivo oppure autunnale e di poter conservare i frutti
per lunghi periodi.
Le mele vengono consumate, crude o cotte (spesso con anice o in acqua di
rose), sul luogo di raccolta, mentre quelle in esubero vengono esportate, ma con
l'imposizione di pagamento di un pedaggio come risulta dagli Statuti di Bra (Nada
Patrone, op. cit.).
Nell’Ottocento Garnier Valletti catalogava e presentava nella collezione
presso l'Accademia di Agricoltura di Torino ben 72 varietà di melo, a testimonianza
della notevole ricchezza varietale, sintomo anche di una grande diffusione della
coltura. Infatti, nella seconda metà del secolo, per le migliorate condizioni
economiche e per il progredire dei mezzi di trasporto, la domanda di frutta
piemontese si accresce e conseguentemente si espande la coltura (Carlone, 1955).
Fino alla prima metà del Novecento la melicoltura continua a diffondersi
lungo le vallate alpine, nelle zone pedemontane, collinari ed in ambienti favorevoli
specialmente in provincia di Cuneo, Torino e Novara (Haussmann 1931; Carlone
1958; Breviglieri 1950).
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In seguito si espande anche in pianura, sostituendosi alle tradizionali colture
erbacee (Carlone, op. cit.). In tale periodo e fino agli anni '40, il Piemonte riveste
un ruolo di tutto rilievo nel contesto della melicoltura italiana contribuendo, per
oltre il 20% al totale nazionale, con una produzione concentrata nelle valli del
Piemonte occidentale, dal cuneese alla Val Susa.
L’alta vocazionalità alla
produzione di mele è testimoniata dall’altissimo numero di varietà presenti ancora
oggi in queste zone, ciascuna diffusa già allora in pochi comuni, a volte in una sola
borgata.
Un tempo le “nuove” varietà si scoprivano occasionalmente, a partire da
selvatici che presentavano caratteristiche interessanti (organolettiche, buona
conservabilità). Il proprietario o i suoi vicini di casa o gli innestatori professionisti
(“entaire”) prelevavano le marze e la diffusione della nuova varietà avveniva a
macchia d’olio. La varietà così creata acquisiva il nome del proprietario della pianta
capostipite o del luogo di rinvenimento, oppure un nome legato alle caratteristiche
del frutto o della pianta.
I nomi di alcune cultivar ancora oggi presenti, infatti, derivano da particolari
caratteristiche pomologiche (Bianc Brusc, Gamba Fin-a, Rigadin, Pum-prus, Büta
Bianca e Büta Rüsa) o dall’epoca di maturazione (Rosa d’Agosto) o dalla persona
che ha selezionato e/o diffuso le varietà (Pin del Vis, Bertoldo) o dalla zona di
origine (Bela ëd Barge, Losa ëd Giaven).
Per quanto concerne la piattaforma varietale essa è, alla fine degli anni Venti
e Quaranta, ancora assai ampia (Breviglieri, op. cit.), come ben evidenzia la Tabella
n. 1.
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Tab. n. 1 - Piattaforma varietale del melo in Piemonte anni 1929-1948
(rappresentatività %)
1929
1948
1929
1948
Varietà
1929
1948
Abbondanza
-
0,5
Dominici
-
1
-
1
Friminello
8
6
9
7
-
3
2
1
-
Furnas
Fine Gamba and
similar
Green Ravè
Canadian
Rennet
Chiodo Rennet
Bagnolo
1
0,5
Bouchard
2
-
Calvilla
2
1
0,5
Golden Rennet
2
1
Red Calvillas
2
2
Giachetta
2
-
2
4
Cortipendula
2
-
3
2
2
-
Catlinin
1
0,5
-
1
Risorta
2
-
Cattarello
1
1
2
1
Linot Red
-
1
Champagne
-
1
5
3
Milone Red
-
1
Ciucarine
1
-
Gian d'Andrea
Golden
Delicious
Grenoble
Liscia di
Cumiana
Losa
Torriana Grey
Rennet
Rusty Rennet
10
4
Giambun Red
-
4
Commercio
1
-
Magnana
7
9
Runsé
3
10
Composta
1
0,5
Matan
5
4
Susin
1
-
Delicious
3
-
Morella
10
12
Others
6
16,5
Dolce piatto
1
1
Varietà
Varietà
Il ventaglio varietale rimane pressoché stabile fin dopo la prima metà degli
anni '50, quando, in seguito alla crescente specializzazione colturale ed
all’introduzione di nuove tecniche produttive, esso si riduce progressivamente e si
innesca il fenomeno dell'erosione genetica che condurrà alla situazione descritta
nella Tabella n. 2, dalla quale si evince come nel 1994 la superficie investita a meli di
varietà locali si sia ridotta a non più del 4-5% sul totale.
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Tab. n. 2 - Suddivisione per cultivar delle superfici a melo in Piemonte
(1994).
CULTIVAR
% SUL TOTALE
Golden Delicious
55.5
Red Delicious
34.5
Gala
3.2
Ozark Gold
1.5
Other Summer
0.4
Rennets
1.6
Other Fall/Winter
3.3
TOTALE
100
Anche dal punto di vista produttivo la melicoltura piemontese ha subito
un’evoluzione considerevole, come evidenzia la Tabella n. 3. Infatti tra la fine degli
anni Venti e la metà degli anni Sessanta la produzione annua passa da circa 64.000
t. a oltre 110.000 t., pur registrando un forte calo nell'immediato dopoguerra, nel
quale era scesa a poco più di 39.000 t.
Tab. n. 3 - Andamento della produzione di mele in Piemonte (t) nel
periodo 1929 – 1992.
PROVINCIA
ANNO
1929
1948
1957-61
1964
1982
1992
Alessandria
1269
2121
1798
2400
4622
5595
Asti
161
1223
1012
950
7329
17779
Cuneo
47412
25035
66808
86520
110772
72000
Novara
2616
1800
2650
1840
489
1185
Torino
9747
3975
13714
15410
13874
16985
Vercelli
2500
5000
12402
3950
3250
585
TOTALE
63707
39154
98384
111070
140337
114129
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Attualmente, secondo stime ISTAT per l’anno 2000, in provincia di Torino
sono investiti a meleto circa 1.070 Ha per una produzione totale di oltre 190.000
quintali.
Dedicheremo i paragrafi che seguiranno alle mele tipiche di alcune aree
particolarmente vocate della provincia di Torino, ossia alla mela di Cavour, alle
mele rosse dell’Ovest Piemonte, alla Renetta Grigia di Torriana e alla melicoltura
montana, nonché ad alcuni sistemi tradizionali di conservazione delle mele (pum ‘n
cumposta o pum dal pis e pum muiat).
2.2.1 La Mela di Cavour.
Attualmente circa 400 varietà di mele (e circa 150 di pere) sono raccolte e
studiate presso la Scuola Malva-Arnaldi di Bibiana, eletta a Conservatorio Regionale
del germoplasma di melo e pero grazie ai finanziamenti di INTERREG I e II. La
presenza in loco di questa struttura, museo didattico vivente della frutticoltura
tradizionale, rende la zona di Cavour ideale rappresentante della tradizione
frutticola dell’Ovest Piemonte.
La fertile pianura pinerolese, infatti, produce quasi il 90% della produzione
totale della provincia di Torino ed i preziosi terreni alluvionali della zona di Cavour,
si sono rivelati ideali per lo sviluppo di una fiorente frutticoltura che è ormai
all’avanguardia nella regione e che ha eletto a regina per eccellenza di questa
produzione frutticola la mela.
La mela di Cavour rappresenta il fiore all’occhiello dell’agricoltura locale: per
promuovere la qualità del prodotto ogni anno ad inizio novembre, si tiene
un’importante rassegna commerciale, la manifestazione “Tuttomele”, che raccoglie
il meglio della produzione del circondario, con mostre convegni e degustazioni
dedicate al prezioso frutto.
L’indicazione “Mela di Cavour” designa i frutti appartenenti, oltreché ai
gruppi varietali Golden delicious, Starking e Renetta (in particolare della Renetta
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I prodotti tipici della provincia di Torino
grigia di Torriana), a tutte le varietà locali ancora in gran parte presenti ed
apprezzate e descritte qui di seguito.
BELLA DI BARGE
Epoca di raccolta
Nella seconda decade di ottobre
Di grossa pezzatura, buccia liscia con colore di fondo giallo verde e
sovraccolore rosso aranciato. Polpa di colore bianco, dal sapore dolce
aromatico e di tipo croccante.
Presenta ottima conservabilità in fruttaio ed in cella frigorifera.
Poco soggetta a ticchiolatura, mediamente sensibile a oidio e butteratura
amara.
Frutti
Note
BURAS
Epoca di raccolta
Nella seconda decade di settembre
Di media pezzatura, buccia lievemente ruvida e rugginosa di colore gialloverde. Polpa di colore bianco-verde, dal sapore dolce acidulo e di tipo
croccante.
Adatta sia al consumo fresco che alla cottura. Idonea alla conservazione
sino a marzo-aprile.
Poco soggetta a ticchiolatura, sensibile a vitrescenza e butteratura amara.
Frutti
Note
DOMINICI
Epoca di raccolta
Frutti
Note
Note
storico-bibliografiche
Dicembre 2000
Nella seconda decade di ottobre
Di grossa pezzatura, buccia leggermente ruvida, rugginosità a livello
lenticellari e della cavità calicina con colore di fondo giallo verde e
sovraccolore rosso sfumato. Polpa di colore bianco o bianco-crema, dal
sapore acidulo aromatico e di tipo croccante.
I frutti, serbevoli in frigorifero, presentano ottime caratteristiche
organolettiche dopo 2-3 mesi di conservazione.
Poco soggetta a ticchiolatura e a oidio e mediamente sensibile a
butteratura amara.
Semenzale rinvenuto verso la fine del 1800 nel meleto del frutticoltore
Dominici di Bricherasio (TO). La cultivar è stata classificata da Tamaro
(1929) nel gruppo “Caravelle” o “Battocchie”. Risulta diffusa nella
provincia di Torino, particolarmente nei comuni di Cavour, Bricherasio, S.
Secondo, Pinerolo, S. Pietro Val Lemina.
Le mele, richieste ed apprezzate dal mercato locale, si conservano molto
bene in fruttaio per essere consumate da febbraio a marzo e spesso fino ad
aprile (Godino, 1940).
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I prodotti tipici della provincia di Torino
FURNAS (FOURNAS, FORNAZ, FURNASS, RUS FURNAS)
Epoca di raccolta
Nella seconda decade di settembre
Di grossa pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovraccolore rosso
sfumato. Polpa di colore bianco, dal sapore dolce-acidulo e di tipo
fondente.
I frutti, poco serbevoli, sono poco soggetti a ticchiolatura.
Frutti
Note
Note
Storico-bibliografiche
Garnier-Valletti riproduce un “Fornaz” proveniente da Cumiana che
descrive a frutto grosso, di seconda qualità, di colore giallo verde, colorito
e striato di rosso, che matura a novembre-dicembre.
GAMBA FINA LUNGA (GAMBAFINA)
Epoca di raccolta
Frutti
Note
Note
storico-bibliografiche
Nella seconda decade di settembre
Di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovraccolore rosso vinoso.
Polpa di colore bianco, dal sapore dolce e di tipo fondente.
I frutti, poco serbevoli e soggetti a disfacimento, presentano butteratura e
vitrescenza.
Per Breviglieri (op. cit.) l’origine risale a fine ‘800 da una varietà in coltura
in territorio di Caraglio (CN) e diffusasi solo in Piemonte. Il nome si
riferisce al peduncolo lungo e sottile (Radicati et al., op. cit.). I frutti si
prestano particolarmente alla cottura.
GAMBA FINA PIATTA
Epoca di raccolta
Frutti
Note
Dicembre 2000
Nella prima-seconda decade di ottobre
Di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovraccolore rosso scuro.
Polpa di colore bianco crema, dal sapore dolce e di tipo fondente.
I frutti, di media serbevolezza in fruttaio (in cella frigo si conservano sino
a 150 giorni), sono poco sensibili a ticchiolarura e soggetti ad alternanza e
butteratura amara.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
GIAN D’ANDRÈ
Epoca di raccolta
Nella terza decade di ottobre
Frutti
Di piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo verde e sovraccolore rosso vinoso. Polpa
di colore bianco-giallo, dal sapore dolce e di tipo succosa.
Note
I frutti, serbevoli, sono poco suscettibili alla ticchiolatura.
Note
storico-bibliografiche
Classificata da Tamaro (1929) e più tardi da Godino (op. cit) nel gruppo
delle “Calville”, è segnalata come diffusa in tutto il Piemonte, ma
soprattutto nei dintorni di Torino e delle Valli Pinerolesi. E’ varietà rustica,
e le mele, raccolte a fine ottobre o inizio di novembre, necessitano di
alcuni mesi in fruttaio per maturare. Di bell’aspetto, acquistano a
maturazione un aroma che ricorda quello della fragola (Godino, op. cit.).
GRENOBLE
Epoca di raccolta
Frutti
Note
storico-bibliografiche
Nella terza decade di ottobre
Di piccola pezzatura, buccia
peduncolare e di colore verde.
acidulo e di tipo croccante.
Di probabile origine francese;
confetture. Conosciuta anche
fermentata “da composta”.
liscia, rugginosità a livello della cavità
Polpa di colore bianco-verde, dal sapore
utilizzata per la preparazione di purea e
come “Grigio Composta” nella forma
LOSA
Epoca di raccolta
Nella prima decade di ottobre
Frutti
Di piccola pezzatura, buccia ruvida, rugginosità fino al 25% con colore di
fondo verde e sovraccolore rosso sfumato. Polpa di colore bianco-verde,
dal sapore dolce-acidulo e di tipo succosa.
Note
I frutti, serbevoli, sono poco suscettibili alla ticchiolatura e sensibili alla
vitrscenza. Con il diradamento la pezzatura può superare i 100 g.
Note
storico-bibliografiche
Dicembre 2000
Molon (op. cit.) cita una “Losa”, rinvenuta presso una cava di lastre da
tetto (lose in piemontese), nel comune di Bagnolo (CN), mandamento di
Barge, con frutti di sovraccolore rosso. Breviglieri (1949, op. cit.) ne
segnala l’origine in località Lusere di Barge, da dove si è diffusa, fin dal
1860, soprattutto nel Saluzzese e nel Pinerolese. A causa della modesta
pezzatura del frutto ha però perso importanza sia presso i frutticoltori, che
presso i consumatori (Breviglieri ,1949, op. cit.). Godino (op. cit.), come
Tamaro (op. cit.), la classifica tra le mele invernali, nella famiglia delle
“Renette Rosse”.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
MAGNANA
Epoca di raccolta
Nella terza decade di ottobre – prima decade di novembre
Di media pezzatura, buccia ruvida, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo verde e sovraccolore rosso o rosso
vinoso. Polpa di colore bianco-verde, dal sapore dolce-acidulo e di tipo
fondente.
I frutti, serbevoli (si conservano fino a 250 giorni in fruttaio), sono
mediamente sensibili alla ticchiolatura e sensibili ad afide lanigero.
Varietà coltivata in Piemonte dalla fine dell’800 e derivante dal nome della
località dove è stata ritrovata originariamente. Il frutto presenta buone
qualità organolettiche e serbevolezza ma è piccolo e poco colorato
(Breviglieri op. cit.)
Frutti
Note
Note
storico-bibliografiche
RUNSÈ (ROUNCÈ, RONZÈ, RONSÈ, RUNSÈ)
Epoca di raccolta
Nella prima decade di novembre
Di media pezzatura, buccia liscia, senza rugginosità con colore di fondo
giallo-verde e sovraccolore rosso brillante o rosso vinoso. Polpa di colore
bianco crema, sfumato di rosa, dal sapore acidulo-aromatico e di tipo
succoso.
I frutti, serbevoli (in fruttaio si conservano fino a maggio), sono
mediamente soggetti ad alternanza e a butteratura amara, poco sensibili a
ticchiolatura e afide lanigero, sensibili a oidio.
Frutti
Note
Note
storico-bibliografiche
Varietà locale, originatasi per seme, nella seconda metà dell’800 a Osasco
(Godino, op. cit.) e classificata da Tamaro nella famiglia delle “Renette
Rosse”. E’ conosciuta come ottima mela da tavola, resistente a
manipolazioni e di lunga conservazione (Godino, op. cit.)
RUS TUMASIN
Epoca di raccolta
Frutti
Note
Note
storico-bibliografiche
Dicembre 2000
Nella terza decade di ottobre
Di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovraccolore rosso
brillante. Polpa di colore bianco-verde, dal sapore dolce-acidulo e di tipo
fondente.
I frutti, serbevoli sono poco sensibili a ticchiolatura ma difettano per
pezzatura.
Semenzale rinvenuto da Tommaso Boiero a Cavour (TO) all’inizio del
Novecento
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I prodotti tipici della provincia di Torino
BIANC BRUSC
Epoca di raccolta
Nella prima decade di ottobre
Frutti
Di piccola pezzatura, buccia cerosa, rugginosità sino al 25% con colore di
fondo giallo-verde e sovraccolore rosso sfumato. Polpa di colore biancoverde, dal sapore acidulo e di tipo croccante.
CHAMPAGNE
Epoca di raccolta
Nella prima decade di settembre
Frutti
Di media pezzatura, buccia cerosa, rugginosità a livello della cavità
peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovraccolore rosso sfumato.
Polpa di colore bianco, dal sapore acidulo e di tipo fondente.
PIATLIN
Epoca di raccolta
Nella prima decade di ottobre
Frutti
Di medio-piccola pezzatura, buccia cerosa, rugginosità sino al 25% con
colore di fondo verde e sovraccolore rosso vinoso. Polpa di colore biancoverde, dal sapore acidulo e di tipo croccante e succoso.
SAPIS
Epoca di raccolta
Nella prima-seconda decade di settembre
Frutti
Di medio-grossa pezzatura, buccia liscia, rugginosità sino al 25% e a livello
della cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovraccolore
rosso sfumato. Polpa di colore bianco crema, dal sapore dolce e di tipo
croccante.
SCONOSCIUTA BENECH
Epoca di raccolta
Nella terza decade di agosto
Frutti
Di piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità sino al 25% e a livello della
cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovraccolore rosso
sfumato. Polpa di colore bianco crema, dal sapore acidulo e di tipo
croccante.
La Mela di Cavour è uno dei prodotti che meritano una valorizzazione
particolare e che ha sicuramente le potenzialità per ambire ad un marchio
comunitario, come meglio illustreremo nel Capitolo Secondo.
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2.2.2
I prodotti tipici della provincia di Torino
La Renetta Grigia di Torriana.
Già agli inizi del ‘900 era diffusa in tutto il Piemonte la Renetta Grigia di
Torriana, una varietà indigena, originariamente coltivata nella frazione Torriana di
Barge e poi diffusasi nelle zone limitrofe ed in particolare nei territori dei comuni di
Barge, Bagnolo, Cavour e Pinerolo (Breviglieri, 1949 - pomologo).
La Grigia di Torriana deve il suo nome alla caratteristica e diffusa rugginosità
della buccia, che le è valso anche il nome dialettale di pum ruslent, “mela arrugginita”.
Essa presenta frutti di pezzatura media, con una forma tronco-conica breve e
simmetrica, un profilo trasversale circolare, un peduncolo corto e medio basso, una
buccia ruvida, rugginosa fino al 100% con lenticelle grandi e rugginose. La polpa
del frutto ha una tessitura grossolana, un sapore dolce-acidulo ed un colore biancocrema.
Prodotta in migliaia di quintali alla fine dell’Ottocento ed esportata in
Germania, in Inghilterra ed addirittura in Egitto, oggi la sua produzione è
drasticamente ridotta.
La Grigia di Torriana è comunque ancora oggi particolarmente apprezzata
nelle province di Cuneo e Torino, oltre che per le caratteristiche organolettiche,
anche per la rusticità che si esprime nella scarsa sensibilità della cultivar alla
ticchiolatura, alla butteratura amara e all’afide lanigero.
2.2.3 Le mele rosse.
In Piemonte, in particolare nelle valli e colline dell’Ovest Piemonte, la mela
rossa ha sempre trovato un terreno ed un clima particolarmente favorevoli, così che
non è stato difficile per le popolazioni di quelle zone sviluppare e potenziare, come
abbiamo già ricordato, una melicoltura di alta qualità.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Testimonianza della esistenza di una vera e propria vocazione ambientale di
questo areale per la coltivazione delle mele rosse, è dato dal gran numero di cultivar
originatesi nella zona, quali, ad esempio, per le molte varietà locali a buccia rossa
citate nel paragrafo dedicato alla Mela di Cavour. Oppure ancora per la varietà
Carla la cui pianta madre venne reperita nel comune di Barge; la Contessa la cui
pianta madre era situata nella Valle Maira e che ebbe grande diffusione all’inizio
dell’ultima guerra; la Gamba fina lunga la cui origine è sconosciuta ma che sembra
comunque risalire alla fine dell’800 da una varietà in coltura nella paese di Caraglio;
la Rusa d’la Cavalota la cui pianta madre venne reperita nella Borgata Cavalota,
nel comune di Barge.
Accanto a queste cultivar autoctone, vennero poi introdotte e sperimentate a
partire dagli anni ’30 nuove varietà provenienti dagli Stati Uniti, ed in particolare
quella delle Red delicious che rappresentano ad oggi l’ossatura principale della
produzione delle mele rosse nell’Ovest Piemonte.
L’area del Cuneese e del
Pinerolese in particolare, si è perciò trovata ad essere la regione europea dove più
elevata è la percentuale di coltivazione delle Delicious rosse.
Durante il decennio 1980-1990 l’attenzione dei frutticoltori piemontesi si è
rivolta ad una nuova varietà di mele provenienti dalla Nuova Zelanda, l e Gala, che
attraverso incroci e sperimentazioni hanno in breve mutato l’aspetto divenendo
frutti attraenti “dipinti” di rosso striato si tutta l’epidermide.
Si può quindi dire con assoluta certezza che le mele rosse hanno nei secoli
accompagnato l’evoluzione della storia e delle tradizioni dell’Ovest Piemonte.
Al fine di valorizzare questa particolare vocazione, alcuni Enti ed
Associazioni della provincia di Cuneo si stanno adoperando per ottenere la IGP
“Mela rossa delle Valli Cuneesi”, la cui zona di produzione comprende, oltre a una
cinquantina di comuni della Provincia di Cuneo, anche numerosi comuni della
Provincia di Torino (la fascia pedemontana che da Cumiana giunge a Cavour), per
cui sarebbe forse più rispondente alla distribuzione territoriale una denominazione
come “Mela rossa dell’Ovest Piemonte”.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
L’indicazione “Mela rossa delle Valli Cuneesi” designa esclusivamente il
frutto delle cultivar appartenenti ai due gruppi varietali Red Delicious e Gala. Le
colture di mele sono site nella fascia di altipiano che si estende da Cuneo fino ai
piedi delle Alpi Occidentali (Marittime e Cozie), con altitudine compresa fra i 250 e
800 m. s.l.m.
Le pratiche culturali, tradizionalmente in uso nel territorio, sono atte a non
modificare le caratteristiche peculiari del frutto. La scelta dei sesti di impianto è
fatta con l’obiettivo di consentire la massima permeabilità della chioma della
radiazione luminosa, che costituisce fattore determinante per la tipica colorazione
dei frutti. L’inizio de periodo di raccolta coincide con il momento in cui la mela
raggiunge la colorazione rossa ottimale.
Nel corso del tempo , in particolare, si è poi riusciti ad esaltare quella felice
combinazione di sapore e colore, che era già una caratteristica delle vecchie varietà
autoctone e che è una delle principali ragioni di successo della mela di Cuneo. Il
colore particolarmente intenso della Mela rossa è dato dalla particolare irradiazione
dei raggi solari cui questo frutto è esposto: in pratica ciò che in molte colture è
possibile ottenere intervenendo artificialmente sui processi di maturazione,
nell’altipiano cuneese avviene in maniera completamente naturale.
Vari fattori concomitanti interagiscono positivamente con il genotipo delle
cultivar di melo atte a sviluppare la sovracolorazione rossa della buccia: l’altitudine,
compresa fra i 250 e i 800 m. s.l.m. che è tra le più elevate della frutticoltura
europea, la buona latitudine nord, la particolare conformazione orografica che
determina da un lato forti escursioni termiche e dell’altro la formazione di brezze di
monte a senso alternato mattino/sera. A queste si aggiungono l’intensità e la
qualità della radiazione luminosa (che aumentano in funzione dell’altimetria), le
escursioni termiche a ciclo diurno e la variazione ciclica bagnatura/asciugatura
dell’epidermide dei frutti.
Le stesse sostanze responsabili della colorazione delle mele, la cui
concentrazione aumenta in funzione dell’altimetria del luogo di coltivazione, oltre al
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I prodotti tipici della provincia di Torino
contributo all’aspetto estetico esplicano anche favorevoli azioni salutistiche e
farmacologiche al consumo.
Si può quindi ben dire che il colore rosso delle mele cuneesi oltre a renderle
particolarmente belle, le renda anche più salutari per il consumatore. La colorazione
rossa costituisce d’altra parte una potente attrattiva commerciale, legata com’è
nell’immaginario collettivo al “frutto del peccato”, ma è anche considerata
unanimemente dai pomologi un apprezzato parametro e indice di qualità del frutto.
2.2.4 Le mele di montagna.
Gli alberi da frutta sono, da sempre, una componente imprescindibile del
paesaggio montano e pedemontano, una tangibile testimonianza della presenza e
delle fatiche dell’uomo, come i terrazzamenti, i prati, i rari coltivi.
Tra gli alberi da frutta i meli sono quelli sicuramente più presenti, poiché da
essi si ricava un frutto nutriente, in grado di conservarsi per un intero anno e di
entrare in mille ricette di cucina povera. Da esso poi si può ottenere il Vin ‘d pum,
il sidro, sollievo e consolazione di molte vallate in cui il vino era un lusso e la vite
non dava frutti.
I
noti
fenomeni
di
dismissione
di
attività
produttive
(drastico
ridimensionamento delle attività estrattive ed industriali e contrazione di quella
agricola) e di conseguente spopolamento delle vallate montane hanno ridotto
sensibilmente la presenza di alberi da frutto, letteralmente “inghiottiti” dai rovi e
dal bosco, depauperando così un patrimonio di varietà straordinariamente adattate
al difficile ambiente montano
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I prodotti tipici della provincia di Torino
In alcune valli della provincia di Torino comunque resistono ancora
numerose cultivar locali e la coltivazione della mela ha ancora una discreta
diffusione, soprattutto nella fascia altimetrica compresa tra i 400 e gli 800 metri.
È il caso delle Valli di Lanzo, nelle quali la melicoltura è stata da sempre
orientata verso impianti promiscui, non specializzati, con scarsi apporti di nuove
varietà ed a carattere familiare.
Non è più possibile, purtroppo, parlare delle produzioni elevate di un tempo,
quando, fino agli anni ’60, la cultivar Rigadin per esempio, a frutto acidulo, era
particolarmente apprezzata dal mercato tedesco e veniva esportata in Germania
tramite ferrovia.
Attualmente il mercato è strettamente locale ed i clienti sono gli stessi
villeggianti e i turisti che percorrendo le Valli hanno avuto modo di conoscere ed
apprezzare le mele locali.
A testimonianza della diffusione della melicoltura nelle Valli di Lanzo, si
possono ricordare due pratiche, un tempo diffuse, per conservare più a lungo le
mele.
Le Mele in composta, ottenute utilizzando di preferenza la cultivar
Composta Vera, i cui frutti, piccoli e rugginosi, venivano posti in contenitori e
sommersi con acqua aromatizzata con chiodi di garofano e tenuti in fresche
cantine. In questo modo si potevano conservare per tutto l’inverno e oltre, fino
anche a luglio, e consumarli così durante la fienagione.
Le Collane di mele appassite, tradizione che si è mantenuta fino ai primi del
Novecento.
I frutti venivano privati del torsolo e tagliati secondo il piano
equatoriale (come per le frittelle) e, infilate in uno spago, venivano posti in solaio ad
appassire. A Capodanno e durante il carnevale, quando i bambini passavano di
porta in porta per gli auguri, ricevevano come dono le collane di mele appassite.
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La Comunità Montana ha avviato un progetto di recupero della melicoltura
nelle Valli di Lanzo T.se che prevede la conservazione del germoplasma tramite un
campo collezione. Il progetto, oltre alla costituzione del campo, prevede un rilancio
della melicoltura attraverso uno studio che ne qualifichi il prodotto.
Brevemente si indicano le principali varietà locali ancora coltivate e
commercializzate nelle Valli di Lanzo.
Bugin (dal nome della famiglia Bogino di Lanzo) è la varietà più diffusa in
tutta l’area; la sua provenienza è esterna; si è diffusa negli anni ’50 per le sue buone
caratteristiche organolettiche, la produttività, la resistenza alle principali malattie e,
non ultimo, la conservabilità dei frutti.
La maturazione dei frutti avviene
generalmente nel periodo invernale, già in fruttaio, dopo essere stati raccolti a fine
ottobre, si conservano fino a inizio estate. Buccia con colore di fondo tendente al
giallo, marezzata di rosso, in modo non uniforme; polpa bianca con sfumatura
verdastra, profumo dolce, sapore zuccherino leggermente acidulo.
Rigadin (dalle striature rosse della buccia) viene chiamata anche Niclot e
Michlet a seconda delle zone. Era la varietà esportata in Germania fino agli anni
’60. Le piante sono produttive, i frutti di media pezzatura, raccolti alla metà di
ottobre, non hanno una lunga conservabilità. Buccia con colore di fondo giallo
striato di rosso; la polpa è bianca, profumata e di sapore spiccatamente acidulo.
Coronei (= colonnelli, dal nome di una famiglia di Castiglione in Coassolo
T.se): piante vigorose, a portamento espanso, con frutti di pezzatura medio
grande. La buccia è ruvida, con colore di fondo giallo più o meno marezzato di
rosso. La polpa è bianca, poco profumata, di sapore acidulo.
Magnetti Domenico (dal nome di un frutticoltore che ha selezionato tale
varietà tra un gruppo di semenzali presenti nella sua azienda) si è diffusa nelle
altre zone mantenendone il nominativo. Le piante sono vigorose e di buona
produttività. La buccia è di colore giallo e rosso inteso, la polpa è bianca,
profumata con sapore dolce acidulo.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Bianco di Bogno (dalla frazione Bogno in Coassolo T.se) ha buccia di
colore giallo-verde chiaro e polpa bianca poco profumata, di sapore acidulo.
Contessa è una delle varietà più diffuse, presenta frutti di grandi
dimensioni. La buccia è di colore verde-giallo macchiata di rosso, la polpa è
bianca e succosa e acidula. Terminano la maturazione sulla paglia in quanto,
essendo grossi, hanno la tendenza a cadere prima del tempo.
Pum ‘d la lira di origine sconosciuta, deve il suo nome al fatto che negli
anni ’20 dieci chilogrammi di queste mele si vendevano al prezzo di una lira. La
buccia ha un colore verde intenso, sfumata di rosa, mentre la polpa è bianca
attraversata da venature verdastre, croccante ed acidula. I frutti si raccolgono a
fine settembre e si conservano 15 giorni prima di essere consumati. Mela con
caratteristiche simili alla Granny Smith.
Molte altre varietà sono ancora coltivate (un’indagine condotta dalla
Comunità Montana locale ne ha “riscoperte” complessivamente una quarantina) tra
cui: Losa, con buone caratteristiche organolettiche, Senatore, Composta Vera,
Pin dal Vis per la sua polpa intensamente aromatica, Bella del Bosco con polpa
succosa e leggermente croccante, Cafasse simile alla Rigadin ma con maturazione
più tardiva, Carpendo Brusc, tipica mela acidula.
Anche in quasi tutte le altre vallate della provincia di Torino sopravvivono
varietà simili a quelle tuttora presenti nelle Valli di Lanzo, non disponiamo però di
dati che ci consentano una disamina più approfondita.
In ogni caso gran parte di queste varietà sono studiate e catalogate, come
abbiamo già ricordato, presso la Scuola Malva-Arnaldi di Bibiana, eletta a
Conservatorio Regionale del germoplasma di melo e pero
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2.2.5 Il pum ‘n cumposta o pum dal pis e il pum muiàt.
La mela è un prodotto che consente di prolungarne il consumo fresco fino a
quasi un anno, generalmente da luglio, quando compaiono le prime varietà estive,
fino a giugno dell’anno seguente, con le varietà più tardive e a più lunga
conservazione. Una conservazione così lunga però è possibile soltanto in
condizioni ambientali favorevoli, col mantenimento costante di temperatura ed
umidità ottimali. Un tempo quindi, prima dell’introduzione dei moderni impianti di
frigo conservazione, occorreva, per coloro che non disponevano di cantine
adeguate allo scopo, escogitare metodi di conservazione alternativi.
Il Pum ‘n composta o Pum dal pis (letteralmente mele in composta o mele che orinano,
che gocciolano) sono uno di questi originali modi di conservazione delle mele.
Alcune varietà “arrugginite” (soprattutto Renetta Grigia di Torriana, Gris
d’la cumposta, Grenoble) risultano particolarmente adatte allo scopo. A fine
inverno, quando la disidratazione del frutto ne aumenta la concentrazione
zuccherina, venivano poste in barili, immerse in acqua e ricoperte con un “paiass”
di paglia di segale e con una pesante losa di pietra di Luserna, per garantire
l’ammollo. Si lasciava riposare il tutto per un minimo di 40 giorni, in modo da
consentire una fermentazione alcolica nella polpa, che non si disfaceva per le
particolari caratteristiche della cultivar e soprattutto per la resistenza della buccia. Il
consumo avveniva da Pasqua in poi e le mele così ottenute si conservavano per altri
3-4 mesi.
Ancor oggi alcune aziende producono, soprattutto nell’area del cavourese, i
Pum del pis, benché con produzioni limitate al consumo familiare o al più da
presentare al pubblico in occasione di manifestazioni particolari (Tuttomele).
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Un altro antico e ormai quasi scomparso modo per conservare le mele erano
i Pum muiat, letteralmente mele a bagno, come ricorda Sandro Doglio. Si mettevano
in una damigiana o in una grande olla di terracotta, a strati con foglie di canna (che
conferiscono un gusto particolare), ricoprendo il tutto con due litri di aceto bianco,
un pizzico di acido salicilico acqua fresca. Le mele devono essere completamente
immerse per almeno due mesi prima di poter essere mangiate.
2.3 Le pere.
La coltivazione del pero (Pyrus Communis L.) affonda nell'antichità, con
reperti provenienti da Asia ed Europa di età superiore a 4000 anni.
Il poeta
Omero ricorda le piantagioni di Alcinoo e Laerte, mentre la mitologia greca
attribuisce alla pera il significato di frutto sano e gustoso, prediletto da divinità ed
eroi.
Dalla Magna Grecia la coltivazione del pero giunse a Roma, dove ebbe
ampia diffusione e grandi estimatori: Catone e Plinio perfezionarono le tecniche di
coltivazione, mentre Pompeo e Nerone ne furono entusiasti consumatori.
Dopo il declino medioevale, questa coltura si diffuse in Messico e California
ad opera dei missionari spagnoli, ed in Europa, in particolare in Belgio e Francia, a
partire dal 1700. Se in epoca romana venivano menzionate una quarantina di
varietà, oggi se ne conoscono oltre 5.000, anche se in minima parte oggetto di
coltivazione da reddito.
La coltivazione del pero in Piemonte ha spesso seguito le vicende descritte
per il melo. Tuttavia, la minor facilità di questa specie a sviluppare mutazioni
gemmarie, ha favorito il mantenimento in coltura di antiche cultivar.
Le varietà
consigliate all’inizio del Novecento erano caratterizzate da elevata conservabilità ed
indicate in special modo per la cottura.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Prima della seconda guerra mondiale le varietà locali che spiccavano per
diffusione erano le pere del gruppo Martin e la Madernassa.
Con l’avvento della frutticoltura intensiva, nel secondo dopoguerra, anche
nel pero si assiste alla sostituzione delle varietà locali con cultivar di altrettanto
antica costituzione, ma di migliori prestazioni produttive.
In provincia di Torino attualmente (stime ISTAT anno 2000) sono investiti a
pereto circa 240 ha, per una produzione di circa 54.000 quintali.
2.3.1 La pera Madernassa.
La storia delle origini della Pera Madernassa si possono far risalire al secolo
scorso, quando sostituì la varietà “Martin sec” scomparsa a causa della ticchiolatura
e di altre malattie tipiche delle pomacee.
In un primo tempo la varietà era conosciuta con il nome di “Gavello”, poi
sostituito dalla denominazione “Madernassa”, nome con il quale è giunto fino ai
giorni nostri. Mentre si conosce con precisione il periodo nel quale venne
impiantata, non si conosce altrettanto esattamente la sua origine genetica, anche se
è oramai opinione diffusa che derivi da un incrocio naturale di un seme della varietà
“Martin sec” con un selvatico.
La Madernassa, coltivata nell’Albese e nell’Ovest Piemonte fin dal secolo
scorso, veniva commercializzata in tutta Europa per il suo intenso sapore e per la
predisposizione alla cottura, caratteristiche gradite in particolare ai mercati inglesi e
tedeschi.
La Pera Madernassa, all’atto dell’immissione al consumo, presenta una polpa
biancastra, croccante, leggermente profumata; un sapore: dolce, leggermente
tannico, buon tenore zuccherino; una buccia sottile e dura con fondo verde scuro
tendente al giallo a maturazione con zone più o meno ampie di ruggine o riflessi
rossicci, presenti soprattutto in particolari annate.
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La pera Madernassa destinata alla trasformazione industriale ha dimensioni
inferiori a quelle stabilite per la vendita del prodotto per il consumo fresco.
I sistemi di allevamento e di potatura sono tali da favorire un’ampia ed
efficace percezione della luce del sole, al fine di mantenere alta la qualità e le
caratteristiche dei frutti.
La densità media di piante è di n. 600 per ettaro, per il sistema di coltivazione
a controspalliera o spindel. Nel caso di piante innestate su “franco”, considerata la
dimensione dell’albero, di altezza superiore ai 4,5 metri, nella buona pratica agricola
la densità massima delle piante è di n.100 per ettaro.
La produzione di Pera Madernassa, in impianti in piena produzione, coltivati
sia su franco che su porta innesti nanizzanti, può arrivare a 480 quintali per ettaro.
La raccolta ha inizio indicativamente nel mese di settembre e termina nel
mese di novembre, tenuto conto dell’andamento stagionale e delle condizioni
ambientali.
2.3.2 Varietà di pere particolarmente adatte alla cottura.
Le pere Martin Sec, Martinone, Martin Dobi (Martin Doppio) e Supertino
sono ottime varietà e sono considerate, a livello nazionale ed europeo, le più adatte
al consumo cotto. Di seguito vengono riportate le principali caratteristiche di ogni
singola varietà.
Martin Sec.
L’origine di questa varietà è molto incerta e antica. Secondo Leroy parrebbe
provenire dallo Champagne, secondo Gallesio, invece, dalle Alpi Piemontesi,
precisamente dalle Alpi Cozie e Alpi marittime. In Francia la varietà risultava
coltivata nel XVI secolo essendo stata già menzionata da C. Estienne nel 1530.
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La cultivar è nota anche con i seguenti sinonimi: Martin sec d’hiver,
Cannellino, Cavicchione, Garofala, Garofolino, De Saint Martin, Roggia, Rousselet
d’hiver.
L’albero è vigoroso, mediamente produttivo, sensibile alla ticchiolatura,
impollinato da Madernassa e Passacrassana.
I frutti sono medio - piccoli, piriformi, misurano mediamente 75 mm di
altezza e 55 mm di larghezza. Il peduncolo è lungo, sottile, slargato all’apice, diritto,
inserito verticalmente od obliquamente, sul frutto.
La cavità peduncolare è poco pronunciata o assente.. Il calice è aperto,
grande, situato in una cavità poco profonda. La buccia è fine, sottile, rugginosa, di
colore giallastro-chiaro, sfumata di rosso alla insolazione, ricoperti da numerose
lenticelle grigie, rilevate.
La polpa è giallastra, semifine, granulosa, zuccherina, poco succosa,
aromatica e profumata. I semi sono lunghi mediamente 8 mm e larghi 4.5 mm.
I frutti maturano dalla fine di dicembre al mese di marzo e si conservano
abbastanza bene anche in un ambiente naturale di tipo fruttaio. L’epoca di raccolta
è intorno alla seconda metà di ottobre.
La pera Martin sec è considerata la migliore in assoluto fra tutte le pere che
presentano la predisposizione alla cottura.
Il Martin sec è ancora diffuso in tutto il Piemonte nelle zone pedemontane e
nelle vallate dell’area alpina.
Martinone.
È una varietà di pero ottenuta nel 1920 dal signor Marconetto di Bagnolo
Piemonte in provincia i Cuneo, da un semenzale di pero liberamente impollinato.
La cultivar è nota anche con i sinonimi di Marconetto, Bagnola, Cannellina Tonda.
L’albero è di buon vigore, di buona produttività. Manifesta una buona
resistenza alla ticchiolatura.
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A differenza di altre varietà di pero la pianta è autofertile, ma migliora ed
aumenta la produzione se viene impollinata con la Passacrassana e il Martin doppio.
Il frutto è medio - piccolo, piriforme e panciuto; misura mediamente 64 mm
in altezza e 70 mm in larghezza. Il peduncolo è di media lunghezza, inserito in una
cavità piuttosto larga. Il calice è medio grande, con sepali coriacei, larghi e lunghi,
disposti un una cavità calicina medio-grande, poco profonda.
La buccia di colore giallo cannellino, semi opaca, rugginosa su tutta la
superficie. La polpa bianco-giallognola, mediamente consistente, granulosa, di
sapore dolce è particolarmente aromatica; il torsolo è piccolo.
Il frutto matura da dicembre a marzo. È predisposto alla lunga
conservazione, anche in un ambiente naturale. Evidenzia una buona resistenza alle
manipolazioni e ai trasporti.
Conosciuto e particolarmente apprezzato sul mercato di Milano, il Martinone
è considerata una ottima pera, particolarmente adatta alla cottura. Considerato il
sapore dolce e particolarmente aromatico della polpa viene consumato anche allo
stato fresco.
Il Martinone, oggi rappresentato da un numero limitato di esemplari, era
largamente diffuso nei territori della provincia di Cuneo e Torino, lungo l’arco
alpino e nelle vallate fino a 800 metri di altitudine.
Martin dobi (Martin doppio).
La pianta evidenzia un vigore identico al Martin sec con i rami meno sottili e
le foglie più ampie. L’affinità di innesto con il cotogno è scarsa e la pianta risulta
leggermente sensibile alla ticchiolatura. La pianta e partenocarpica, ma non aumenta
la produzione se impollinata con Madernassa.
Il frutto è di media pezzatura, piriforme, misura mediamente 80-85 mm in
altezza e 65-70 mm in larghezza. Il calice è abbastanza largo inserito in una cavità
poco profonda. Buccia parzialmente rugginosa di colore rosso, particolarmente
accentuato dall’insolazione. Il peduncolo è mediamente sottile, lungo, inserito
verticalmente sul frutto e con una cavità peduncolare poco profonda. La polpa è
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consistente, di colore bianco-giallognolo, granulosa, di sapore dolce, aromatico ed
un retrogusto odoroso leggermente di moscato.
L’epoca di raccolta è come quella del Martin sec. L’epoca di maturazione si
colloca da dicembre a marzo.
Presenta una buona predisposizione alla lunga conservazione anche in
ambiente naturale.
Supertino.
La varietà è derivata, probabilmente, da un semenzale liberamente
impollinato ottenuto da un seme di Martinone o Martin doppio.
L’albero è di medio vigore ad elevata produttività. La varietà è autosterile e
deve essere impollinata con Madernassa o Passacrassana. La pianta manifesta una
discreta resistenza alla ticchiolatura.
Il frutto è di media pezzatura, di forma oblunga: misura mediamente 90 mm
di altezza e 65 mm di larghezza. Il calice è largo inserito in una cavità mediamente
profonda. La buccia è di colore giallo-verdastro, rugginosa. Il peduncolo corto
inserito obliquamente sul frutto. La polpa è biancastra, abbastanza fine,
leggermente granulosa, mediamente consistente, di buon sapore, leggermente
aromatica.
L’epoca di raccolta è come quella del Martinone. L’epoca di maturazione va
da dicembre marzo. Il frutto è predisposto per una lunga conservazione anche in
ambiente naturale e si può prolungare fino a maggio in frigorifero.
Il settore frutticolo a livello nazionale ed europeo soffre di una pesante crisi
di mercato dovuta ad una super produzione, mentre una produzione di pere
predisposte alla cottura, di ottima qualità, possono avere un buon futuro
commerciale a livello nazionale e anche estero.
Le quattro varietà in oggetto, sia per le caratteristiche organolettiche del
frutto, sia per la rusticità della pianta, andrebbero tutelate e rilanciate.
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2.3.3 Le pere di montagna.
Quanto detto a proposito delle mele di montagna, vale anche a proposito
delle pere, altro frutto particolarmente ben adattato all’ambiente montano.
Anche in questo caso disponiamo, per merito del lavoro di ricerca svolto
dalla Comunità Montana locale, di dati riguardanti le Valli di Lanzo, la quale può
essere eletta a paradigma di una storia ed una situazione che si ripete, con minime
differenziazioni, in tutte le altre vallate della provincia di Torino.
Va inoltre ricordato che, presso la Scuola Malva-Arnaldi di Bibiana, sono
raccolte circa 150 varietà di pere, gran parte delle quali caratteristiche di territori
montani e pedemontani.
Tra le principali varietà locali ancora coltivate e commercializzate nelle Valli
di Lanzo merita citare.
Ciatin vecchia varietà che si trova ancora diffusa nel circondario di Lanzo.
Presenta una buccia ruvida con colore di fondo verde giallo; la polpa è bianca, di
sapore leggermente acidula. I frutti sono raccolti a metà ottobre e si conservano
fino a dicembre.
Brut e bon d’istà con piante di buona produttività e frutti che presentano
una buccia ruvida con colore verde rossiccio e polpa di colore crema, profumata,
saporita e gustosa. I frutti maturano nella prima decade di settembre ed hanno una
conservabilità limitata.
Pruss dl’eva produce pere acquose, a buccia di colore verde con sfumature
rosse, polpa bianca, succosa, dolce acidula, che maturano a fine ottobre. Ha ancora
una discreta commerciabilità.
Camagna coltivata soprattutto nel comune di Lanzo, ha piante vigorose e
produttive; la buccia è liscia, verde tendente al giallo, la polpa è bianca, succosa e
fondente. I frutti maturano a metà settembre, non hanno una lunga conservabilità.
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Airola Maria (dal nome del frutticoltore che l’ha diffusa in zona) presenta
una buccia giallo paglierino e polpa bianca, fondente, molto succosa, poco dolce. I
frutti, dopo la raccolta a metà settembre, si conservano per circa 50 giorni. È una
delle migliori varietà di pero presenti in zona.
Molte altre sono coltivate (un’indagine ne ha “riscoperte” complessivamente
una ventina) tra le quali ancora: Prusutin ‘d la Gioia, Barutello Rino, Brut e Bon
d’otogn, Bernagion Busiard e altre.
Le pere non subiscono alcun trattamento sia in campo (anche se la
coltivazione non è dichiaratamente biologica) sia durante la conservazione.
La cultivar di pero che poco si prestano alla conservazione, vengono
utilizzate cotte nel vino rosso con zucchero e a volte con l’aggiunta di castagne.
2.4 La frutta della collina torinese.
Un ambiente di fitti boschi, rifugio di animali pericolosi, poco sicuro per chi
vi si avventurasse, ma anche di forte impatto visivo nel contrasto tra la copertura
forestale e la pianura antropizzata: queste dovevano essere probabilmente le
impressioni di un viandante medioevale di fronte al paesaggio della collina torinese,
che all’epoca si era meritato l’appellativo di Montagna di Torino.
«Nel XIV secolo sarebbe stata follia l’avventurar la persona e la roba in
residenze tanto selvaggie, e lontane da ogni speranza di soccorso», scrive lo storico
Luigi Cibrario nel 1846.
Infatti tra il XIV e il XV secolo le costruzioni erano
molto rare e l’uso della collina come appendice residenziale della città inizia nel
1500 e si intensifica tra Sei e Settecento.
Le attrattive del paesaggio, il ruolo di rifugio risparmiato dalle pestilenze, il
clima più fresco in estate, se confrontato con l’afa della pianura, convinsero nobili
ricchi piemontesi a costruirsi ville sulla collina. Ad esse venne attribuito il nome di
Vigne, che ben rappresentava la duplice funzione di luogo di villeggiatura e fonte di
reddito agrario grazie alla coltivazione della vite, oltre che di frutta, ortaggi e cereali.
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Sono i duchi di Savoia a dar via all’utilizzo residenziale della collina: con il
trasferimento della capitale da Chambery a Torino, nel 1563, essi danno avvio alla
costruzione delle "residenze di delizia" esterne al cuore della città, come il
Valentino sul Po, il Regio Parco alla confluenza di Stura e Po, Mirafiori alla
confluenza di Sangone e Po, e, nel territorio collinare, la Vigna di Cardinal Maurizio
nel 1615 (poi della Regina) e quella di Madama Reale nel 1621.
I nobili, obbligati dalla corte a essere sempre presenti in città per le cure di
governo, inventano la moda della villeggiatura in vigna. Più tardi ne seguiranno
l’esempio i ricchi borghesi, interessati ai redditi delle proprietà collinari, che nel’700
beneficiano dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli.
Alla fine del 1700 sulla collina di Torino sono segnalate ben 391 Vigne. Il
fenomeno della residenza in villa comporta una trasformazione del paesaggio
collinare: dai pendii sono ricavati terrazzamenti sostenuti da muri, i cosiddetti
“artefatti piani”, che ospitano l’impianto di giardini, aiuole con alberi da frutta,
pergolati. La distribuzione delle Vigne non è strettamente legata all’andamento
delle strade, ma piuttosto all’esposizione, alla vista panoramica e alla conformazione
del terreno, nel rispetto del paesaggio naturale circostante. L'attuale distribuzione
delle strade e dei sentieri ricalca le storiche vie di transito che collegavano tra loro le
Vigne ed i possedimenti agricoli.
I territori collinari che circondano Torino sono, dal punto di vista
paesaggistico e naturalistico, di incomparabile bellezza, la cui salvaguardia non può
prescindere dalla presenza di un’attività agricola produttiva.
L’agricoltura collinare è però un’agricoltura “difficile”, condizionata com’è
dalle caratteristiche del territorio (terreni in pendenza e di fertilità non sempre
ottimale, scarsità di risorse idriche, difficoltà di lavorazione), che non può
sopravvivere se non sceglie di percorrere decisamente la strada della qualità e della
tipicità..
Questa strada passa necessariamente attraverso una riscoperta delle antiche
varietà locali, che hanno ampiamente dimostrato non solo delle caratteristiche
qualitative peculiari, ma anche una generalizzata resistenza alle malattie (resistenza
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che, ovviamente, si manifesta soprattutto nell’area di provenienza della varietà
stessa) che fa di ognuna di esse un “ecotipo”, nato e plasmato e perfettamente
adattato al microambiente originario.
In questi ultimi anni non solo l’opinione pubblica, ma anche i produttori
stessi, hanno riscoperto il valore delle varietà locali, consapevoli, per esperienza
diretta, che le cultivar non locali faticano ad adattarsi, rendendo indispensabili
trattamenti fitosanitari che, oltre a danneggiare l’ambiente, incidono sui costi di
produzione.
La collina torinese è particolarmente ricca di varietà locali che meritano una
valorizzazione e che sono ancor oggi ancora assai diffuse ed apprezzate dal
consumatore. In particolare essa risulta vocata per produzioni quali le ciliegie, le
pesche e le susine
2.4.1
La ciliegia di Pecetto.
Originario dell'Asia Minore, il ciliegio (Prunus avium L.) si diffuse in Egitto sin
dal VII secolo avanti Cristo e, successivamente, in Grecia (è citato da Teofrasto nel
III secolo). Le prime testimonianze della sua presenza in Italia risalgono al II secolo
avanti Cristo, quando Varrone ne illustrò dettagliatamente l'innesto.
Più tardi,
Plinio il Vecchio ne descrisse dieci varietà nella sua “Naturalis Historia”.
Fin dal ‘600 in Piemonte si usava piantare alberi di ciliegio ai margini dei
boschi per attirare, con il prelibato frutto, gli uccelli e poterli così cacciare
liberamente: per questo motivo il ciliegio fu chiamato Prunus avium, o degli uccelli.
Il ciliegio è da tempo immemore componente imprescindibile del paesaggio
collinare, benché lo si possa rinvenire in tutte le zone temperate del Piemonte.
Nonostante la coltivazione del ciliegio sia sempre stata considerata marginale, in
quanto gli alberi erano dispersi nei campi ancor più delle altre specie fruttifere ed il
consumo era quasi esclusivamente familiare, già dalla fine dell’Ottocento esistevano
alcune aree in cui la produzione era rilevante e veniva utilizzata anche per le
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lavorazioni di confetteria e la conservazione sotto spirito. Ne è prezioso testimone
il trattato di frutticoltura del Rho (1906), nel quale si afferma che le varietà idonee
per tali trasformazioni erano ricercatissime e che “la società di conserve alimentari
Cirio (sede di Torino) consuma 30.000 miriagrammi quando le trova”.
Pecetto Torinese è da antica data il paese delle ciliegie per antonomasia,
come testimonia il paliotto policromo della prima metà del Settecento, presente
nella chiesa di Santa Maria della Neve, su cui sono rappresentate raffigurazioni
ornamentali di ciliegie con uccelli nell’atto di beccarle. Pare inoltre che i toponimi
Ceresole e Ceresolette, località dell’antico contado di Celle confinante con Pecetto,
derivassero da piantagioni di ciliegi selvatici, il che fa pensare che i ciliegi, in questa
zona, fossero conosciuti e coltivati fin dalla più remota antichità.
In realtà l’impianto su vasta scala di queste piante da frutto è più recente e
risale al 1910, anno in cui grandinate e filossera quasi sterminarono i vigneti. Come
scrive R. Grigliè in un suo trattato del 1968, il sindaco di Pecetto, l’avvocato Mario
Mogna, volendo aiutare l’afflitta cittadinanza con un’iniziativa comune, chiese
consiglio al suo buon amico Giovanni Giolitti che proprio in quel periodo
raggiungeva l’apice delle sue fortune politiche. Giolitti suggerì di sostituire i filari di
viti, rosi dalla malattia, con alberi da frutta: “a due passi da Torino, avrete il mercato
facile”. Furono scelti i ciliegi, invece di peschi o susini, perché la zona sembrava
particolarmente adatta e ne allignavano parecchi.
Nel 1917 con l’arrivo in piena produzione degli impianti e la contemporanea
assenza dei giovani in guerra, fu aperto il Mercato delle ciliegie, tuttora esistente,
che si è immediatamente connotato come un mercato stagionale all’ingrosso gestito
direttamente dai produttori. Le ciliegie, raccolte al mattino, scelte e confezionate nel
pomeriggio, sono vendute alla sera sul mercato (l’apertura attuale è alle 18,30).
Il ciliegio rappresenta oggi la coltura di maggior reddito nel complesso
comunale e il nome di Pecetto è ormai quasi automaticamente collegato
all’immagine di rosse, turgide, scintillanti ciliegie, che costituiscono una specialità
conosciuta anche al fuori del Piemonte.
Le Ciliegie di Pecetto sono frutti freschi delle specie:
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- Prunus avium var. Juliana, in italiano ciliegie propriamente dette, in piemontese
cirese o cerese;
- Prunus avium var. duracina, in italiano duroni, in piemontese graffiun;
- Prunus cerasus, in italiano amarena, in piemontese griota.
La zona di produzione della Ciliegia di Pecetto comprende i territori dei
comuni di Pecetto T.se, Andezeno, Arignano, Baldissero T.se, Chieri, Gassino,
Moncalieri, Montaldo T.se, Pavarolo, Pino T.se, Sciolze.
Nelle colline di questa zona, per le peculiarità pedoclimatiche, si sono diffuse
varietà di ciliegie, duroni e amarene che in altre zone del Piemonte e dell’Italia non
hanno avuto successo. In particolare si sono affermate negli anni varietà
caratteristiche per il sapore, il colore o la resistenza allo spacco. Le principali di
esse sono:
Vittona: ciliegia tenerina a frutto dolce, con buccia di colore scuro e polpa di
scarsa consistenza, matura nella prima decade di giugno, è poco adatta alla
conservazione.
Galuciu: durone a frutto con buccia di colore rosso scuro e polpa
consistente, che matura intorno alla metà di giugno;
è pianta rustica e
particolarmente adattata alla zona.
Galucia: durone simile al precedente, ma più grosso e rotondo, con picciolo
lungo e polpa croccante; matura contemporaneamente al Galuciu; è varietà tipica di
Baldissero T.se.
Marisa o amarena Barbero: è cultivar di ciliegio acido con caratteri
intermedi tra l’amarena e la ciliegia dolce, con picciolo lungo, frutto più grosso
dell’amarena, di scarsa consistenza, colore scuro e sapore dolce-acidulo, resistente
allo spacco, matura intorno alla metà di giugno.
Martini: ciliegia introdotta nella zona dal prof. Martini intorno al 1948-50, di
origine non ben definita, da alcuni indicata come sotto varietà della Vittona; ha
frutto cuoriforme, appiattito da una parte, di colore rosso molto brillante, polpa
croccante, sapore molto dolce; è resistente alla spaccatura, ma ha qualche difficoltà
di allevamento.
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Graffione di Pecetto o Grafiun d’la spirit o Graffione bianco: durone
bianco di ottima consistenza e quindi particolarmente adatto alla conservazione
sotto spirito. In passato esso veniva utilizzato per la fabbricazione dei famosi
cioccolatini “Mon cherie” della Ferrero di Alba, la quale preferisce ogggi
approvvigionarsi altrove. Del resto l’attuale produzione di Graffione bianco si è
notevolmente ridotta, perché il prezzo spuntato dal durone era inferiore a quello
ottenuto dalla ciliegia rossa da consumo fresco.
Mollana: ciliegia resistente allo spacco, con picciolo lungo, polpa molle, non
troppo dolce, molto produttiva.
Vigevano: ciliegia di colore rosso vivace, molto apprezzata dal mercato,
matura nella terza decade di maggio.
Vittona della spiga: ciliegia a frutto cuoriforme, di sapore molto dolce,
spacca molto facilmente e per questo motivo va perdendosi.
In un’indagine pomologica sulle cultivar di ciliegio della provincia di Torino,
pubblicata nel 1965 negli Annali dell’Accademia di Agricoltura, sono descritte tra le
varietà locali, anche la Mollana, la Moncalera, la Neirana, ed il graffione di Pecetto,
indicato anche con il termine di graffione da spirito.
Fino ad una decina di anni fa il panorama varietale del ciliegio era
prevalentemente caratterizzato dalle sopra citate cultivar locali, perfettamente
adattate alle condizioni climatiche ed ambientali del territorio, oggi in parte
soppiantate da nuove cultivar più produttive, che hanno rinnovato l’assortimento
varietale e ampliato il calendario di maturazione.
Per tentare di mantenere le varietà locali occorre un duplice intervento, da un
lato bisogna tipizzare e caratterizzare meglio le singole cultivar (per alcune di esse
sono già in corso lavori di selezione tra i molti cloni esistenti nelle varie zone),
dall’altro occorre cercare un loro inserimento in mercati particolari, capaci di
valorizzarne la tipicità ed esaltarne le caratteristiche..
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A questo proposito merita ricordare che ogni anno, tra la fine di maggio e la
prima metà di giugno, ha luogo a Pecetto la Sagra delle ciliegie, dove si possono
gustare i frutti delle varietà locali più pregiate.
La Ciliegia di Pecetto inoltre ha sicuramente le potenzialità per ambire
all’ottenimento di un marchio comunitario.
2.4.2 L’amarena di Trofarello.
L’amarena di Trofarello è una varietà di Prunus cerasus con frutto di media
grandezza, tondeggiante, con una cicatrice stilare ben evidente, di colore rosso
granata scuro, con polpa molle, non molto zuccherina, di sapore acidulo con un
lieve retrogusto amarognolo.
È varietà che si adatta bene ai terreni sciolti, abbastanza umidi e con clima
fresco, caratteristici appunto della zona di Trofarello e Revigliasco.
L’Amarena di Trofarello ha una maturazione ritardata rispetto alla ciliegia e
ai graffioni, infatti la raccolta dei frutti dura fino alla metà di luglio.
Un limite di questa varietà è dato dalla sua non elevata resistenza alle
manipolazioni ed alla conservazione. Inoltre, da qualche anno, è soggetta ad
attacchi precoci di Ragoletis cerasi.
Le amarene di Trofarello erano ricercate in tutta Italia, venivano i grossisti
dalle altre regioni per acquistare il prodotto.
Secondo testimonianze orali degli
attuali produttori, negli anni ’50-’65 c’erano all’incirca 300 “ciresè” (raccoglitori di
ciliegie e amarene provenienti dalle zone montane o dalle colline limitrofe) che
venivano a Trofarello nella stagione della raccolta e si fermavano per circa un mese
o un mese e mezzo.
Italo Eynard e Roberto Paglietta in “Indagine pomologica sulle cultivar di
ciliegio della provincia di Torino” (Adunanza del 14 febbraio 1965), pubblicato
negli Annali dell’Accademia di Agricoltura di Torino, scrivono che l’Amarena “si
sta diffondendo in provincia di Torino, particolarmente nelle zone di Trofarello e
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Revigliasco ove costituisce circa l’80% dei nuovi impianti”, poiché “è cultivar molto
produttiva e ricercata dall’industria conserviera”.
Negli ultimi 20 anni però non risulta siano stati fatti nuovi impianti di
amarene a Trofarello, sicché questa coltura, se non interverranno convincenti
politiche di sostegno, è destinata a contrarsi ulteriormente o comunque a rimanere
limitata ai frutteti familiari.
2.4.3
Le susine della collina torinese.
Originaria dell’Eurasia e del Nord America, la susina (Prunus domestica) fu
introdotta in Europa circa 20.000 anni fa. Le prime testimonianze della sua
presenza in Italia risalgono al I secolo dopo Cristo, quando Plinio il Vecchio la citò
nella sua Naturalis Historia.
Il termine dialettale piemontese con cui viene designata la susina, Dramasin o
Ramassin, deriva etimologicamente dal nome della capitale siriana, Damasco, a
testimonianza della loro origine. L’ipotesi più accreditata sul loro arrivo in Europa è
che esse vi siano state portate dai Crociati al ritorno dalla Terra Santa.
Le susine fecero la loro prima comparsa in Italia intorno al XII secolo
diffondendosi nelle zone collinari del torinese e del chierese ad opera delle
comunità di Frati Benedettini provenienti dalla Francia, il cui insediamento è
testimoniato dalle Abbazie ancora oggi presenti in loco.
Nell’area collinare del torinese e del chierese sono tradizionalmente coltivate
un gran numero di cultivar locali di susino.
Una ricerca condotta nel 1994 dai CATAC di Chieri e Casalborgone della
Federsviluppo di Torino, dalla Regione Piemonte e dalla Facoltà di Agraria di
Torino, ha individuato e catalogato 30 varietà locali di susino. Tra queste meritano
di essere citate:
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• San Luigi (tipica della zona di Verrua Savoia) ha frutto di forma
elissoidale allungata, di piccola pezzatura (11 g. circa), buccia con colore di
fondo giallo più o meno marezzato di rosso-viola, polpa arancio chiaro, di
consistenza fondente. È varietà a maturazione precoce (terza decade di giugno).
• San Giovanni (S. Mauro) di forma elissoidale allungata, pezzatura
molto piccola (5 g.), a buccia gialla più o meno marezzata di rosso-viola, polpa
verde chiaro di scarsa consistenza, matura nella terza decade di giugno.
• Saluzzo (Gassino) di forma ovale allungata, piccola pezzatura (9-10
g.), buccia arancio marezzato viola scuro, polpa giallo arancio di buona
consistenza, matura nella seconda decade di luglio.
• Santa Rosa (Gassino) di forma rotonda, pezzatura grande (60 gr.), a
buccia rosso arancio, polpa gialla di buona consistenza, matura nella seconda
decade di luglio.
• Ramassin dla nebbia (S. Mauro) di forma ellittica, piccola pezzatura
(10 g.), buccia verde con sovracolore rosso viola, ricoperta di pruina bianca (da
cui nebbia) polpa giallo verde, matura nella terza decade di luglio.
• Settembrina tonda (Gassino) di piccola pezzatura (10-15 g.), buccia
arancio e polpa color albicocca.
• Settembrina ovale (Sciolze), di piccola pezzatura (10-15 g.), buccia
verde chiaro e polpa giallo verde, matura, come la tonda, nella terza decade di
agosto.
Altre varietà sono: Bertola, Spagna, Gaiotti, Sant’Anna, Ramassin
d’agosto, Aprà, Bernarda, Brignone, Uova di tacchino, Rosa, Maribulan,
Ramassin bianca, Del col viola, Maddalena.
Tutte queste varietà locali si caratterizzano per una migliore resistenza agli
attacchi da crittogame e da parassiti e quindi non subiscono alcun trattamento né in
campo né in fase di conservazione.
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Dalle testimonianze degli stessi produttori si può far risalire la coltivazione
delle varietà di susine locali citate alla seconda metà dell’Ottocento.
La valorizzazione di queste produzioni, potrebbe nel prossimo futuro
consentire un rinnovo degli impianti più vecchi (alcuni impianti di varietà di susino
locale presentano un’età media di 30-50 anni.), la sperimentazione di adeguate
forme di allevamento e di conduzione degli impianti (tecniche di potatura, metodi
di irrigazione, sistemazioni del terreno ecc.).
Tutto ciò con la convinzione di contribuire alla rinascita o alla continuazione
di una frutticoltura collinare, che nel passato era l’attività agricola di primaria
importanza, che può ancora oggi offrire dei vantaggi economici.
In provincia di Torino, secondo stime ISTAT per l’anno 2000, sono investiti
a susino circa 52 ha per una produzione di circa 900 quintali.
2.4.4 La pesca di Baldissero Torinese.
Nella zona di Baldissero Torinese gli alberi di pesco erano tradizionalmente
diffusi in coltura consociata ai vigneti, piantati in mezzo ai filari di viti, e solo un
parte esigua erano presenti come frutteto puro.
In seguito violentissimi e ricorrenti attacchi di filossera, distrussero tutti i
vigneti della zona, che furono prontamente ripiantati, dimenticandosi però di
introdurre nuovamente gli alberi di pesche.
Ciò ha indotto una consistente riduzione nel numero di piante di pesco, oggi
per lo più consociato con susini e ciliegi, che risultano più interessanti
economicamente.
Le pesche di Baldissero sono delle selezioni particolarmente ben adattate alla
zona, che in parte vanno sotto il nome generico di ”pesche di vigna” ed in parte sono
degli innesti portati a Baldissero a fine Ottocento.
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Sono piante di pesche che si adattano molto bene ai terreni calcarei, dove
normalmente le pesche più comuni soffrono di clorosi ferrica. Le pesche di vigna
sono nate da seme e si differenziano facilmente da quelle innestate per l’aspetto più
rigoglioso, infatti non manifestano sintomi da clorosi ferrica.
Un portainnsto
molto usato nella zona perché tollerante al calcare è il 766.
Fra le “pesche di vigna” ci sono ancora oggi presso alcune aziende le
seguenti selezioni locali.
- La Pesca del vino, che matura all’epoca della vendemmia e presenta
un frutto a buccia rossa con striature gialle e polpa rossa, di sapore dolce; la
pianta si moltiplica per seme.
- Il Limunin, che matura a metà agosto e presenta un frutto allungato,
a forma un limone, di colore giallo leggermente roseo e sapore molto dolce; è
particolarmente sensibile agli attacchi di Cydia molesta.
- La Piccola pesca o Persi limun servai, che a maturazione dà un
frutto di colore giallo, molto profumato, poco dolce ma molto aromatico; si
moltiplica per seme.
- Le Pesche selvatiche, con la buccia gialla e la pasta bianca, che si
moltiplicano per seme.
Fra le pesche innestate e coltivate in frutteto a filari merita ricordare: la Fior
di maggio, a maturazione precoce; la San Giovanni, che matura intorno a metà giugno;
la Golden, che ha frutto allungato, matura in agosto ed è originaria della zona di
Superga; la Vitu, che è originaria proprio di Baldissero, matura ad agosto ed ha
pasta bianca e buccia di colore rosso.
Sono inoltre ancor oggi coltivate, le varietà, particolarmente produttive,
Elberta, Morettini 1, Morettini 1/14 e le Hala.
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2.4.5 La fragolina di San Mauro.
Tutti conosciamo la deliziosa fragola dei boschi per averla raccolta lungo le
ripe dei colli o montane ove la specie vegeta spontanea. La conosciamo per il
colore scarlatto, per il delicato profumo che la caratterizza, per lo squisito sapore,
dolce e fresco.
Originaria delle Alpi, dove cresceva allo stato selvatico, la fragola (Fragaria
vesca) veniva chiamata fragrans dai Romani, in omaggio al suo intenso profumo. Sulle
tavole dell'antica Roma questo frutto compariva regolarmente in coincidenza con le
feste in onore di Adone, alla morte del quale, come narra la leggenda, Venere
pianse copiose lacrime, che, giunte sulla terra, si trasformarono in piccoli cuori
rossi: le fragole.
Fino al XVII secolo, in Europa venivano coltivate piante di specie selvatiche
autoctone (Fragaria vesca, F. viridis, F. moschata) e altre introdotte dall'America del
Nord (F. virginiano).
Il contributo più importante alla coltivazione di questa specie lo fornì un
ufficiale francese, che importò dal Cile le piante madri utilizzate come base per la
costituzione dell'ibrido Fragaria x ananassa, a cui appartengono tutte le cultivar
attualmente diffuse.
La fragolina di S. Mauro è una fragolina di bosco (Fragaria vesca) che
anticamente veniva prodotta coltivando piantine prelevate dai boschi nell’area della
collina torinese. La coltivazione veniva già praticata nel ’700, poiché l’ambiente
naturale, la costituzione del terreno, il clima umidiccio anche in piena estate e le
nebbie autunnali dense e frequenti del settore collinare da Castiglione a S. Mauro,
sono particolarmente favorevoli alle pianticelle di fragole, che soffrono i calori
eccessivi e le brinate fuori stagione.
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La cultivar, quindi, possiede caratteristiche di tipicità e si differenzia in modo
spiccato dalle altre varietà presenti in commercio (Fragaria x ananassa). La
coltivazione richiede terreni freschi, ricchi di sostanza organica, caratteristiche dei
terreni collinari delle zone comprese tra S. Mauro T.se e Rivodora. La raccolta si
protrae dalla metà di aprile alla fine di giugno.
Storicamente la comparsa della cultivar nelle nostre zone risale al 1700. Negli
ultimi 30 anni si è riscontrata una diminuzione dei produttori agricoli che, insieme
all'aumento del costo della manodopera, ha portato ad una contrazione delle aree
investite alla coltivazione.
Le fragole che troviamo spontanee lungo le siepi, sulle rive e sui cigli dei
boschi e dei luoghi selvatici dei colli e dei monti, e che vediamo coltivate su qualche
aiuola nei nostri orti o nei nostri giardini, sono oggetto di una coltivazione
interessante per i paesi posti nella zona che si estende da Torino a Chivasso; tra la
sponda destra del Po e la linea di displuvio dei colli torinesi.
Nel 1907 in una nota del Prof. Dott. G. Chiej-Gamacchio sulla coltivazione
delle fragole nei dintorni di Torino, apprendiamo che «Le fragole si trovano infatti
oggi largamente coltivate sulle pendici meglio esposte delle colline fino a notevoli
altezze e sopra buona parte dei terreni pianeggianti che si stendono dai piedi degli
stessi colli alle sponde del Po. Le coltivazioni di maggiore importanza si trovano nei
comuni di San Mauro Torinese e di Castiglione, nei dintorni delle frazioni di
Sambuy e La Rezza e successivamente in quelli di Gassino e Baldissero (frazione
Rivodora). ».
Le caratteristiche tipiche di sapore e aroma della fragolina sono
particolarmente apprezzate dal consumatore e ciò consente la realizzazione di un
maggiore margine di guadagno da parte del produttore, se confrontato alla
produzione di varietà commerciali.
Dal 26 maggio al 3 giugno il comune organizza la Sagra della Fragola, dove è
possibile gustare questi frutti, che possiedono ancora le caratteristiche di aroma e
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gusto tipiche delle fragoline spontanee dei boschi, già molto apprezzate dai nostri
antenati.
2.5 Le castagne delle vallate torinesi.
Dopo il crollo dell’Impero romano, dominatore di buona parte del mondo
conosciuto, per l’Europa inizia un periodo oscuro di fame e distruzione. È in
quest’epoca che nascono i cibi poveri, cucinati con gli avanzi, con il poco a
disposizione.
In Piemonte la castagna, di cui la regione è ricca, diventa un frutto
fondamentale da cui trarre ogni genere di alimento e con cui inventare ogni tipo di
ricetta. La durezza e la difficoltà della vita, il continuo, drastico cambiamento degli
eventi, contribuiscono a far nascere nella gente comune credenze e superstizioni
spesso legate al cibo, in genere il più semplice e comune come il pane o le castagne.
Il castagno è albero sacro: sotto le sue fronde - come sotto le querce - si teneva
giustizia. Ad Acíreale c’è un castagno vecchio di quattromila anni: ha un diametro
di una cinquantina di metri, è in parte cavo, dentro si può rifugiare un pastore con
tutto il gregge. È chiamato anche il «castagno dei duecento cavalieri », perché la
leggenda vuole che una Isabella di Borbone (o di Aragona) concedesse le sue grazie
in quel rifugio naturale, appunto a duecento suoi cavalieri.
Con le castagne gli abitanti delle valli povere dei Piemonte e della Lombardia,
dell’Ardeche francese, della stessa Toscana, si sono probabilmente nutriti per
millenni.
Probabilmente giunta in Piemonte in epoca antica, la castagna è però coltivata con
una certa regolarità e sfruttata per ragioni alimentari soprattutto nel primo
Medioevo, quando diventa il nutrimento fondamentale - spesso la sola ricchezza dei montanari della Valle di Susa, del Pinerolese e del Biellese. Per molti valligiani
il castagno era l’albero del pane e si mangiavano crude, bollite o arrostite; secche, se
ne faceva una farina che non serviva soltanto - come oggi - per il dolce
castagnaccio, ma che veniva trasformata in sostanziose «polente», persino in forme
di pane.
La castagna addolcita con il miele è stato probabilmente uno dei primi «dolci» di cui
si ha menzione.
Attorno alla castagna, anzi al marrone, era già nata una leggenda dal sapore erotico,
il che semmai era una carta in più per aver via libera nel salotto dei signori. « Le
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castagne provocano il coito per essere ventose», scriveva l’autorevole medico romano Castor
Durante da Gualdo nel suo Tesoro della Sanità» pubblicato nel 1546. E aggiungeva:
«danno grandissimo et buon nutrimento, sanano i flussi, et pestate con mele et sale sanano il
morbo del can rabioso, - quando si cuocono su le brage fermano il vomito». Addirittura, «cotte le
castagne sotto la cenere leggiermente, et monde si cuocono in un tegame con olio et sale et poi
aggiuntovi pepe et succo d'aranzi servono per tartufi». Se poi «si mangiano con pepe et sale,
ovvero con molto zuccaro... convengono à colerici». Insomma, le castagne «sono buone ne i
tempi freddi a tutte le etadi e complessioni, pur che siano ben stagionate, ben cotte et in poca
quantità e sopra si beva buon vino».
Intorno agli inizi del 1600 il Bertaldo, medico di Carlo Emanuele I di Savoia,
nelle annotazioni alle Regole di sanità del Benzo, ci dà interessanti notizie sulla
produzione piemontese di castagne del tempo. «La nostra gente alpina» egli afferma
«è molto prolifica, perché molti si nutriscono di esse, quasi tutto l’anno, perciò le
loro donne sono prolifiche». Le castagne più stimate «sono le grosse, chiamate dai
francesi “marrons”, e di queste se ne fanno i biscotti, quali infilzati si conservano
tutto l’anno, seccati prima al fumo…. Si biasimano le selvatiche e picciole dette da
noi Piemontesi “ponenghe”[….] Negli Stati dell’A. Serenissima di Savoia molti, la
maggior parte dell’anno, non vivono d’altro che di castagne, et sono robusti e sani
[…] come quelli ch’abitano […] Perosa, Giaveno, Val di Susa, Marchesato di
Lanzo».
Le castagne sono la base di molti piatti tipici di tradizione piemontese, dal
Monte Bianco alla minestra di castagne, alla torta di castagne, al castagnaccio.
Per conservare le castagne, in Piemonte venivano tradizionalmente seguiti tre
metodi diversi.
Nella zona di Garessio venivano conservati sotto sabbia in grotte o cantine;
in valle di Susa se ne faceva un cumulo (ricciaia) che veniva ricoperto dagli stessi
ricci di castagna. Nella zona di Cuneo, infine, si sottoponeva la castagna (o il
marrone) alla cosiddetta “novena”, cioè lo si teneva a bagno per nove giorni
nell’acqua fresca.
Molti ritengono tuttora che questo procedimento serva per
lavarle e fare venire a galla le castagne bacate; ma è stato dimostrato
scientificamente (studi di Cesare Bardini dell’Agrimontana) che la “novena” ha
anche la proprietà di “riordinare” i granuli di amido contenuti nella castagna o nel
marrone, che da una posizione piuttosto disordinata, si dispongono in modo
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radiale, dal centro verso la periferia del frutto, il che favorisce la canditura e quindi
è fondamentale nella preparazione dei marrons glacès.
Poiché le castagne si trovano quasi sempre tre per volta nello stesso riccio
(non così il marrone, che invece è uno solo), la leggenda vuole che siano appunto in
tre in quanto “una va alla Chiesa, una ai poveri e una al contadino che raccoglie le
castagne”.
In tutta la provincia di Torino sono circa 8.000 gli ettari di terreno, compresi
nella fascia altimetrica tra i 500 ed i 1.000 metri, nei quali il castagno è presente. In
alcune zone, come nelle Valli Orco e Soana, l’omonima Comunità Montana
organizza annualmente il conferimento collettivo di castagne, iniziativa che
costituisce una valida possibilità d’integrazione di reddito per le popolazioni
montane ed un incentivo alla cura ed alla tutela del patrimonio castanicolo.
La provincia di Torino è conosciuta per la qualità di alcune varietà pregiate, i
cosiddetti “Marroni”, la cui produzione è limitata e concentrata prevalentemente in
un’area di poco superiore ai 1000 ettari nei territori della Valle di Susa, in cui
spiccano le varietà Marrone di Meana, San Giorgio e Bruzolo, e della Val Pellice (di
particolare pregio sono i Marroni di Lusernetta e Villar Pellice).
In Piemonte la produzione totale di castagne è stimata intorno ai 35.000
quintali, quella di marroni intorno ai 5.000 quintali.
2.5.1 Il Marrone della Val di Susa.
Nella Valle di Susa, si hanno notizie circostanziate a partire dal 1200 d.C. Tra
i tanti castagneti merita di essere ricordato il Castagneretum di Templeris, appartenente
all’ordine dei Templari, situato tra i Comuni di Villarfocchiardo e San Giorio di
Susa, ove ancora oggi vi sono le più antiche ceppaie.
Per tutto il Medioevo questo prodotto venivano chiamate “castagne”. Il
nome “marrone” si diffonde più tardi, anche se è probabile che le piante fossero già
di questa varietà.
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Ancora sotto Carlo II, si assiste alla ripresa dell’economia e, soprattutto nella
zona tra Mattie e Villarfocchiardo, la raccolta delle castagne garantiva un lavoro
alquanto remunerativo, come dimostrano testimonianze storiche. Per tutto il 1700
e 1800 la castagna in Valle Susa ha continuato a costituire un’importante ed
insostituibile fonte alimentare e di reddito per le popolazioni delle zone collinari e
montane.
Successivamente la coltura si diffuse mediante la promozione fatta dalle
istituzioni monastiche che costituirono estesi castagneti in tutta la Valle di Susa.
Nella Valle di Susa opera l’Associazione di Produttori “Marrone della
Valle di Susa” che da anni è impegnata in un’azione di rilancio, valorizzazione e
tutela della castanicoltura esistente.
In quest’ottica si inserisce anche la collaborazione tra l’Amministrazione
Provinciale di Torino e la Comunità Montana Bassa Valle di Susa e Val Cenischia
concretizzatasi, tra l’altro, con la recente richiesta al Ministero delle Politiche
Agricole del riconoscimento dell’Indicazione Geografica Protetta per il “Marrone
della Valle di Susa”, unanimemente riconosciuto come uno dei più pregiati d’Italia.
Il “Marrone della Valle di Susa” designa il frutto delle cultivar di castagna
“Marrone di San Giorgio” (clone TO 13), “Marrone di Bruzolo” (clone TO 14) e
“Marrone di Meana” (clone TO 15).
Il “Marrone della Valle di Susa” presenta una forma ellittica-allungata in
prevalenza arrotondata, con pelosità fitta anche se non molto estesa.
La pezzatura si può definire variabile tra quella “grossa” (da 60 a 70 frutti per
kg di prodotto non selezionato) e quella “medio piccola” (da 81 a 90 frutti per Kg
di prodotto non selezionato). La torcia del prodotto si presenta media o mediolunga con stili dissecati, corti e di colore bruniccio. La cicatrice ilare è di forma
variabile, con tendenza al rettangolare e con leggera pelosità residua al contorno.
La raggiatura stellare nel prodotto non è molto estesa e presenta bordi frastagliati di
colore lievemente più intenso del resto dell’ilo.
Il prodotto presenta un pericarpo di colore marrone, piuttosto chiaro, con
strie più scure, frequenti, rilevate con l’interno in prevalenza leggermente peloso,
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l’episperma è di colore nocciola chiaro con striature più scure che si separa
prevalentemente con facilità dal seme. Il seme, infine, è di colore giallo chiaro, di
gradevole sapore zuccherino e con scarsa percentuale di settatura.
Le condizioni ambientali di coltura dei castagneti destinati alla produzione
del “Marrone della Valle di Susa” sono quelle tradizionali della zona, atte a
conferire al prodotto che ne deriva le specifiche caratteristiche di qualità. I sesti
d’impianto e le forme di allevamento sono quelli in uso generalizzato con una
densità di piante per ettaro variante da 80 a 120 piante. Le cure colturali ed i
sistemi di potatura e di raccolta, in special modo per i nuovi impianti, sono atti a
non modificare le caratteristiche dei frutti.
La produzione unitaria massima è di 25 quintali per ettaro di coltura
specializzata.
La eventuale conservazione del “Marrone della Valle di Susa”, al fine di
dilazionarne la commercializzazione del prodotto fresco, viene effettuata secondo i
metodi tradizionali.
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2.5.2 Le castagne delle valli di Lanzo.
Coltura antica, considerata un tempo “il pane dei poveri”, ha rappresentato
nel passato e in tutte le aree montane, una risorsa molto importante dalla quale si
utilizzava il frutto, il legname e anche le foglie, impiegate come strame per gli
animali.
Il progressivo spopolamento delle montagne, il modificarsi delle condizioni e
del sistema di vita e, non ultimo, i gravi attacchi fungini hanno ridotto nel tempo
drasticamente l’importanza della coltura.
La raccolta delle castagne è stata per molti anni limitata al solo consumo
familiare. Solamente nell’ultimo decennio il prodotto sta riavendo un certo interesse
di mercato. Infatti, vi è una notevole richiesta di prodotto da parte di privati,
commercianti locali, ma molte volte la vendita avviene anche al di fuori del
territorio delle Valli di Lanzo.
Il consumo di questo prodotto è così passato da cibo povero di un tempo a
frutto prelibato che richiama alla memoria la tradizione contadina delle nostri valli,
da consumarsi in occasioni particolari.
I castagneti nelle Valli di Lanzo vegetano in una fascia altimetrica compresa
tra i 500 e i 900 m (orizzonte sub-montano) coincidente con i comuni di media e
bassa valle, spingendosi fino ai 100 metri di quota ed in alcuni casi sporadici, anche
oltre.
Sul territorio delle Valli di Lanzo, sono presenti dei castagneti appartenenti a
vecchie varietà locali ancora coltivate e commercializzate. Tra queste si segnalano,
in ordine di importanza e diffusione: Tempurive, Spinacorta, Qua, Spinalunga, Viri, Viri
Tardivo e Riundette (letteralmente “rotondette”).
Il prodotto presente nel territorio delle Valli di Lanzo rientra
commercialmente nella categoria delle castagne, non avendo produzioni di varietà
classificabili come marroni.
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Non vengono impiegati macchinari per la raccolta, che è fatta a mano,
raccogliendo i ricci con un rastrello di legno ed utilizzando anche una lunga pinza
di ferro. Si lasciano in ricciaia per alcuni giorni in attesa che il riccio inizi a seccare
e si possano estrarre le castagne più comodamente.
Nel 1987 venne affidata all’IPLA di Torino, su incarico dell’Assessorato
Agricoltura della Regione Piemonte, una ricerca inerente il castagno da frutto che
prevedeva l’individuazione e la descrizione delle varietà esistenti e coltivate sul
territorio regionale.
Il lavoro ha interessato anche la Comunità Montana Valli di Lanzo e sono
state individuate sei cultivar locali: Viri, Viri Tardivo, Qua, Spinacorta, Tempurive e
Riundette.
La vitalità del settore è dimostrata anche da una “Sagra della castagna” che si
tiene a Corio dal 1983, a cura della locale Associazione “La Ciuenda”.
2.5.3 Il Marrone della Val Pellice.
Il “Marrone”, così come viene definito, si differenzia dalla più comune
castagna per la pezzatura maggiore, la colorazione non troppo scura della superficie
caratterizzata da striature brune ben evidenti, una scarsa resistenza alla sbucciatura
che ne facilita la lavorazione, ed un limitatissimo sviluppo e penetrazione della
pellicola membranacea (episperma) che internamente si inserisce nel frutto e si
rimuove con difficoltà.
La migliore testimonianza della presenza storica del castagno da frutto in Val
Pellice è fornita dalle rilevanti dimensioni dei castagneti presenti in valle.
I castagneti della Val Pellice, sono localizzati nella fascia pedemontana e
montana fra i 500 e i 1000 metri di quota, quasi a formare un anello lungo l’intero
asse della Valle.
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All’interno della Valle le zone castanicole di maggiore interesse si trovano
nei comuni di Bobbio Pellice, Villar Pellice, Torre Pellice, Luserna S.Giovanni e
Lusernetta.
2.6 I piccoli frutti della provincia di Torino.
La raccolta dei frutti spontanei del sottobosco ha tradizioni antichissime, che
si perdono nella notte dei tempi.
Gli abitanti delle vallate e le colline della provincia di Torino conoscono da
sempre la innumerevoli qualità di questi piccoli prodotti. Basti pensare che già nel
periodo feudale lo sfruttamento delle risorse minori del bosco veniva concesso
come diritto di uso. Mentre il signore, infatti, teneva per sé i prodotti più pregiati
che le proprie terre potevano offrire, come legname e cacciagione, egli tollerava che
le risorse minori potessero essere sfruttate dalla comunità.
L’utilizzo dei frutti del sottobosco ha rappresentato così per secoli una fonte
di alimento e medicamento, tradizione mantenutasi ancora viva al giorno d’oggi,
soprattutto in quelle regioni in cui la crescita spontanea di questi frutti è
naturalmente favorita dalle condizioni climatiche e geo-morfologiche.
Le zone montane e collinari sono da sempre la culla naturale per la crescita
dei piccoli frutti di bosco che nascono spontaneamente lungo le strade, alle pendici
dei monti e nel sottobosco. Quando si cominciò a pensare che questi piccoli
prodotti potevano anche essere venduti, ebbe iniziò una raccolta più massiccia,
finalizzata alla vendita ad industrie, che ne ricavavano liquori, profumi e persino
medicinali.
A partire dai primi Anni Sessanta, sull’esperienza di quanto già avviato in
altre regioni e paesi d’Europa, si sperimentano nuove cultivar e si iniziano i primi
impianti su larga scala, comprendendo come una temporanea attività estiva, potesse
invece trasformarsi in una redditizia forma di coltura su base intensiva.
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Particolarmente intensa, in particolare in alcune Comunità Montane della
provincia di Torino, è l’attività sperimentale condotta di concerto con la Facoltà di
Agraria dell’Università di Torino.
Il termine “piccoli frutti” si riferisce ad una serie di piante arbustive, le più
diffuse delle quali sono il lampone, la mora, il ribes e il mirtillo. Tali piante crescono
spontaneamente nei boschi e solo da alcuni decenni è iniziata la loro selezione ai
fini di una coltivazione intensiva, che ha interessanti prospettive di sviluppo: i
piccoli frutti infatti possono dare buone rese economiche impegnando superfici
limitate. Il loro inserimento nel piano colturale ha contribuito, nella Provincia di
Torino, ad una integrazione del reddito specialmente in quelle zone marginali in
cui le scarse rese rendono poco remunerative le colture tradizionali, ed è diventata
un presupposto per la permanenza dell'agricoltura nei territori collinari e montani.
Lampone: è arbusto vigoroso che raggiunge un’altezza di 2.5 metri, con
apparato radicale molto superficiale, costituito da un rizoma che ogni anno produce
numerosi polloni. A seconda dell’epoca e delle modalità di fruttificazione si
distinguono in varietà “unifere” e “rifiorenti”: le prime producono solo sui tralci di
due anni, le seconde invece una prima volta sulle estremità del pollone dell'anno
(autunno) ed una seconda volta sulla restante porzione di ramo, come le unifere
(estate successiva). Si allevano in filari con l’ausilio di pali leggeri e uno o due fili
verticali o orizzontali ai quali si legano i tralci o si indirizzano i polloni nel caso di
varietà rifiorenti. Le distanze vanno da 1,50-2,50 m fra le file a 0,50-0,70 m fra le
piante. Per evitare lo sviluppo delle erbe infestanti in prossimità delle piante e lungo
il filare è consigliabile la pacciamatura con polietilene nero con fori di 15 cm di
diametro. La raccolta avviene a luglio.
Mora: è il frutto del Rovo, un arbusto con tralci lunghi 3-4 metri a
portamento inizialmente eretto e poi strisciante sul terreno. Le varietà coltivate
sono generalmente prive di spine. Gli impianti entrano in piena produzione al
terzo-quarto anno e continuano a dare buone produzioni fino al decimo-
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dodicesimo anno. La maturazione dei frutti si ha nei mesi di agosto e settembre,
con rese ad ettaro superiori a 100 quintali.
La raccolta viene effettuata a mano ad intervalli di 3-4 giorni. La destinazione
dei frutti (consumo fresco, surgelati, trasformati) è differente a seconda della varietà
. Anche i frutti del Rovo sono particolarmente delicati e richiedono pertanto una
grande accortezza nelle operazioni di raccolta e di confezionamento.
Ribes rosso: delle specie di ribes coltivate quella a frutto rosso è la più
diffusa. Le piante si presentano come arbusti perenni che possono superare anche i
2 m di altezza. I ribes entrano in piena produzione al quarto-quinto anno e si
mantengono in produzione economicamente valida per dieci-dodici anni,
raggiungendo produzioni di 70 100 q.li ad ettaro. La maturazione dei frutti si
verifica nei mesi di luglio ed agosto, quando le bacche hanno raggiunto una
colorazione intensa. L’utilizzazione preponderante dei frutto è la produzione di
trasformati (marmellate, gelatine, sciroppi, liquori, ecc.). Il consumo diretto è
limitato a quantità molto ridotte. La concimazione di fondo dei terreni destinati a
queste coltivazioni prevede l’utilizzo di materiale organico (letame bovino maturo);
può essere effettuato il ricorso ad elementi chimici per integrare gli apporti dei
fertilizzanti in relazione sia all’andamento climatico che al carico produttivo delle
piante.
Ribes bianco: le varietà di ribes bianco sono, in genere, molto inferiori a
quelle di ribes rosso per produttività, vigore, dimensione delle bacche e numero
delle stesse per grappolo. Alcune nuove varietà stanno suscitando interesse anche
per il buon momento commerciale di questo “piccolo frutto”.
La tecnica di
coltivazione è del tutto simile a quella del ribes rosso. Il frutto del ribes bianco è più
dolce, in genere, meno aspro di quello delle varietà a frutto rosso.
Uva spina: gli arbusti di uva spina sono meno vigorosi del ribes, pertanto il
numero dei fili nell’allevamento a contro spalliera aumenta a 5 o 6 con il primo filo
a soli 30 cm da terra e gli altri distanziati di circa 25 cm l’un l’altro. I nuovi getti
devono essere legati più volte durante la stagione vegetativa.
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3. PANE, PRODOTTI DA FORNO E DOLCI.
3.1
Il Pane.
Furono i cereali, agli albori della nostra civiltà, a trasformare l’uomo nomade
e cacciatore in coltivatore stanziale, che imparò ben presto ad ottenere farina
schiacciando i chicchi e ad impastarla con l’acqua prima di farla cuocere: era nato il
pane. Ed ebbe inizio così la sua storia millenaria, che s’intreccia indissolubilmente
con la storia dell’uomo. Ben presto il pane divenne sinonimo di cibo e di opulenza
e simbolo del miglior prodotto della sua fatica che l’uomo possa offrire alla divinità.
Ed infatti l’uomo, scaraventato da una mela in questa valle di lacrime, inizia
la sua storia con la dura condanna biblica: "col sudore di tua fronte mangerai il
pane."
Del resto non ci sono dubbi: l'impasto non lievitato di acqua, orzo, segale
oppure miglio grossolanamente triturati a farina, è testimoniato, in mille modi, fin
dalla nostra preistoria.
Furono gli
Egizi, però, ad imprimere la svolta decisiva, scoprendo e
perfezionando la tecnica della lievitazione, la quale conferisce leggerezza e
digeribilità al prodotto. Da allora il pane cominciò a diffondersi rapidamente nel
Mediterraneo e la figura del fornaio ad assumere una sua speciale dignità.
I Greci portarono quest’arte a grande raffinatezza, al punto che lo storico
Ateneo arrivò a censire ben 72 diverse tipologie di prodotti di forno. E gli Ateniesi
iniziarono anche i Romani ai segreti del pane e nacquero così nella capitale mulini e
forni pubblici, severamente vigilati da una specifica corporazione, i Pistores.
Da allora, seguire i percorsi dal pane su e giù per la penisola, diventa un po'
come seguire i percorsi delle guerre, delle invasioni, ma anche della fame e delle
carestie. Tra suggestioni magiche, rituali, ludiche o fantastiche, il pane è sempre
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stato il cibo per eccellenza delle plebi, occasione di feste e pretesto di tumulti: panem
et circensem nella Roma imperiale o manzoniani tumulti d’un popolo affamato.
Ed è proprio in questo lungo percorso che il pane affermò la sua tipicità,
manifestandosi nelle sue varie tipologie regionali. Nel Nord l’influenza celtica delle
super lievitazioni portò a un prodotto molto soffice o addirittura con l ' interno a
bolla, come le varie biove e michette.
Il mangiare quotidiano del Piemonte, della Liguria e della Valle d'Aosta,
come del resto di tutte le altre regioni italiane, è sempre stato scandito dalla
presenza del pane. La pagnotta, bianca o nera, costituiva il momento centrale,
l’ossatura del desinare. Era considerata alla stregua di un alimento sacro, senza la
quale non poteva essere officiato il rito del banchetto, o più semplicemente del
togliersi la fame. Del resto, la mica portava il segno di questa sacralità nel taglio a
croce impartito sulla superficie.
Il pane era indispensabile alla comunione e alla
celebrazione della Messa; veniva offerto alla Chiesa (in genere alla morte di un
famigliare) e - come buon augurio - alla puerpera.
Quando ognuno, in campagna, faceva da sé il proprio pane, per vecchissima
consuetudine, regalava una delle pagnotte appena sfornate ad un vicino, a un
amico, a un parente o a un prete, come simbolo di fortuna, di fratellanza e di
condivisione.
Un pane, simbolo di prosperità, veniva portato alla sposa nella sua nuova
casa: prima di cuocerlo, con la mano o con il coltello, lo si benediceva incidendoci
un segno di croce.
Secondo la tradizione piemontese, il pane era sempre e soltanto fatto dalle
donne: una ragazza non era ritenuta pronta al matrimonio finché non era in grado
di impastare, di fare il pane e portarlo al forno.
Gli anziani conservano una specie di rispetto misto a timore nei confronti
del pane. Più frutto di ataviche rimembranze di carestie e di stagioni della fame,
quando anche il pane nero, fatto di farina di segale o di avena mista a miglio e ad
altri cereali minori, era benvenuto. Guardano, senza comprenderli, nipoti che
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hanno ormai relegato la pagnotta in un angolo della mensa, nel ruolo di piccola
comparsa.
Eppure, fino a poco tempo fa, il casotto del forno era posto al centro della
piccola comunità rurale, la borgata in collina, la grangia in montagna, la grande
cascina in pianura. Nei paesi e nei nuclei urbani il pastino con l’annesso forno era
anch’esso centro di vita vissuta.
I vecchi, d'inverno, andavano al pastino
soprattutto per fare quattro chiacchiere, come oggi si va al bar a prendere il caffè.
Ci andavano col libretto del pane sul quale segnavano la cotta che avrebbero pagato
in natura, con la farina, e più avanti nel tempo, in denaro, cinque e poi dieci lire il
chilo, come succedeva ancora negli Anni Cinquanta.
I forni erano rigorosamente a legna, la farina giungeva dal più vicino mulino
dove venivano macinati grani autoctoni, provenienti dai campi vicini.
Già a fine
giugno iniziavano i preparativi per la mietitura. La messe veniva falciata a mano
dalle squadre degli operai, poi era raccolta in grandi fasci, i covoni, i quindi erano
poi sistemati in piccoli ammassi di 15-20 ciascuno, le capale e i capalot, come
vengono chiamati nel basso Piemonte. Così le spighe terminavano l’essiccazione
ed erano pronte per l’ultimo atto, la trebbiatura, nei capaci ventri delle macchine da
batè.
Sugli Appennini e sulle Alpi il pane si cuoceva due o tre volte l’anno. Il
forno veniva acceso l’ultima volta in autunno, per la cottura di un pane che avrebbe
dovuto resistere nei mesi invernali, senza perdere la sua naturale fragranza. Questo
pane nero di segale induriva, però, e doveva essere tagliato con particolari
strumenti, financo con l’accetta, e poi ammorbidito nel latte e nelle zuppe. Ora
questa tipologia di pane a lunga conservazione non esiste più, tuttavia non è raro
trovare, nelle vallate alpine, tonde pagnotte di segale, che si conservano per
settimane avvolte in un panno appena inumidito oppure in un sacco di nylon.
Presso qualche forno di montagna si prepara ancora il pane misto con farina di
patate.
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Prima di descrivere i principali pani piemontesi, occorre fare una piccola
premessa che ci consente di comprendere meglio questo prodotto, opera di madre
natura e dell’uomo.
II compito della “levata", cioè della lievitazione della pasta del pane, era
demandato alle donne. Nella madia di casa esse conservavano la “madre", ovvero
un pezzo di pasta proveniente dalla precedente lievitazione. Si trattava, in realtà, di
una coltura casalinga di lieviti, necessari per far crescere, “levare", l’impasto di
farina, acqua e sale, e renderlo digeribile. Durante la lievitazione avviene un piccolo
miracolo di natura biochimica: zuccheri, amidi e proteine si trasformano e alla fine
del processo si avvertono sentori di latte fresco e deboli profumi di aceto. La
lievitazione acida è terminata e nelle “biove" la fragranza tipica della farina di
frumento va a mescolarsi con quelle su accennate della lievitazione.
È raro, oggi, trovare un pane del genere.
Oggi la "madre" è stata
abbandonata per far posto al lievito di birra, che più velocemente fa gonfiare la
pagnotta. Gli aromi di un tempo sono stati sostituiti da quelli alcolici. Questo pane
"moderno" è cotto per lo più in forni ventilati, alimentati da combustibile artificiale.
II più delle volte, ai tre ingredienti principali, farina acqua sale, viene aggiunto latte,
quando va bene, oppure strutto o altre materie grasse, oppure ancora altri prodotti,
quali le noci e le olive, per ottenere così il pane condito o pane speciale.
Chi non vuol perdere i legame con la propria storia deve andare alla ricerca
di vecchi forni a legna e di panetterie che producono pani come quelli di una
volta, magari con farine integrali, macinate su pietra, ancora con il loro germe, che
costituisce il cuore del chicco.
II germe è ricco di sapori e calorie. Queste pagnotte migliorano il giorno
dopo, diventano morbide ed elastiche, da tagliare a fette, da accompagnare al
salame e ai formaggi, da inzuppare nella minestra.
Un po’ dappertutto in Piemonte troviamo la Biova, composta di farina
bianca, acqua, lievito di birra e sale. Ha una forma panciuta e oblunga, è lievitata
per un paio d’ore e poi infornata. Pesa dai 100 ai 500 grammi, ha una crosta molto
ruvida e un interno piuttosto cavo. Ottima per farci la sòma d’aj: si spacca la
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pagnotta in due e vi si sfrega sopra dell’aglio, quindi la si annaffia di buon olio
extravergine di oliva e la si spolvera di sale fino.
Gemella della Biova, è la Mica, fatta con farina bianca di tipo 0 e doppio 0,
con lievito acido e lievito di birra. La pasta lievita tutta la notte, al mattino si
aggiunge un po’ di farina, si modella la pagnotta e la si taglia a croce in superficie,
poi si cuoce in forno. La forma è ovale e pesa dai 400 ai 500 grammi. Quando è più
grande, prende il nome di Micòn. Se non presenta il taglio longitudinale si chiama
Mica Bòrgna.
La Grissia o Ghèrsia è di origine monferrina, ma oggi la troviamo ovunque.
La pasta viene modellata in cilindretti lunghi circa 30-40 centimetri, appiattiti con le
mani e rinforzati al centro. Dopo la lievitazione, vengono tagliati in superficie
longitudinalmente e infornati, in modo da assumere la forma caratteristica.
Spostiamoci nell’alto Canavese e incontriamo le Raschie. Si tratta di
pagnottelle rettangolari basse, alte appena qualche centimetro, lunghe sui 15
centimetri e larghe 4. La loro superficie è stata raschiata con un apposito strumento
prima di essere cotta. Tagliata longitudinalmente la Raschia si presta per la
confezione di ottimi panini col salame.
Dalle parti di Druento nascono le celebri Paisanote, in onore delle belle
contadinotte prosperose dalle guance rubizze. Sono pagnotte larghe, a libro aperto,
di farina bianca tipo 0, del peso di due o tre etti, ottenute da un impasto di media
consistenza, non troppo morbido, né troppo duro. Nei pic-nic, nelle merende sinoire
le Paisanote non devono mai mancare.
Il Liber, con la sua forma quadrata divisa a metà così da assumere l’aspetto
di un libro aperto, non deve essere confuso con le paisanote, più grandi e più
rustiche.
Nelle panetterie di montagna è facile trovare pani di segale e, qualche volta,
di avena; hanno per lo più fogge circolari e pesano dai tre o quattro etti al
chilogrammo. Sono lontani parenti del Panet di segale, che veniva cotto ai Santi
e conservato per tutti i mesi invernali, quando il forno rimaneva spento sommerso
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dalle nevi. Rotondo e sempre più duro con il passare delle settimane, veniva tagliato
con appositi taglierini., qualche volta ammorbidendolo con l'acqua.
A Torino si sono ormai perse le tracce del Gavasot, un pane bianco a testa
di bambola dal lungo collo ipertiroideo, ‘l gavas, da cui il nome dialettale. Come
sono ormai estinti i Galletti, le Bamboline, tutti cosparsi di zucchero: una sorta di
brioche contadina, fatta con pasta di pane morbida, che veniva acquistata per i
bambini.
Scomparso anche il Giaco, una sorta di pane, tipico di Pinerolo, a forma di
due triangoli aperti a libro.
Nel torinese, e soprattutto nel Pinerolese, è ancora qua e là presente la
tradizione di preparare vari tipi di pane: il Barbarià (pane ordinario, bigio, ottenuto
da farine di frumento e segale mescolate), il Pan niè (integrale di segale, non
lievitato, senza sale, fatto cuocere nel forno per almeno dieci ore) ed il Chalendàl
(sorta di pane imbottito con patate, barbabietole e cipolle, condito con spezie, che
veniva tipicamente consumato nel periodo natalizio).
3.1.1 La Biova.
La Biova è un pane tipico del torinese, che oggi si prepara così.
Per 20 chilogrammi di farina occorrono, oltre al sale, 600-1000 grammi di
lievito di birra e, nel caso di Biova morbida, 380 grammi di strutto. Si mettono gli
ingredienti nell’impastatrice facendo attenzione che sale e lievito non vengano a
contatto. Si versano subito 10 litri di acqua ed i restanti 2 litri gradatamente
durante l’impasto, facendo in modo che il glutine venga allungato ed elasticizzato.
Si impasta per 30 minuti circa in impastatrice a forcella o a braccia tuffanti, e per
15-20 minuti circa in impastatrice a spirale, ma a bassa velocità. Si da poi alla pasta
un tempo di lievitazione di 80-90 minuti circa, in ambiente di 30°C dando una piega
in quattro dopo i primi 45 minuti.
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Si fanno quindi le forme della misura voluta, passandole due volte in
formatrice (prima bastoncino e poi arrotolando il tutto). Si intavolano le forme,
appoggiando le punte in modo che si sformino, separando le stesse con dei teli a
ventaglio (in gergo “dare la tela“). Si copre bene il tutto per evitare il formarsi della
crosta. Si lascia ancora lievitare per circa 50-60 minuti in ambiente a 30°C e con il
70-80% di umidità. È buona norma tagliare poi in due le forme con una raschia di
legno per evitare l’apertura del taglio prima dell’infornamento.
Si inforna subito, senza vapore per 10 minuti circa per favorire lo sviluppo,
per un tempo di cottura di 20-35 minuti circa in totale, a seconda delle pezzature, e
ad una temperatura di 230-250°C (la temperatura può variare a seconda dei modelli
di forno), comunque sempre a “temperatura brillante”.
3.1.2 La Mica.
La Mica è un altro prodotto tipico diffuso un po’ in tutto il Piemonte, che è
prodotto con farina di grano tenero, acqua, lievito naturale in pasta, sale e presenta
una pezzatura di 500-700 grammi, un colore della crosta bruno dorato, un sapore
molto fragrante ed un’umidità del 30-38%.
La caratteristica principale di questo tipo di pane è la lievitazione naturale,
che oggi avviene nel seguente modo.
Si effettua un primo impasto serale
utilizzando kg 1 di lievito naturale madre in pasta, kg 5 di farina e kg 2,5 di acqua;
dopo circa 8 ore si effettua il primo rinfresco aggiungendo kg 10 di farina e kg 5 di
acqua. Dopo 3-4 ore si effettua un secondo rinfresco aggiungendo kg 20 di farina e
kg 11 di acqua; nel secondo rinfresco, prima di impastare si toglie un pezzo di
lievito madre, quanto basta per un altro ciclo. Dopo 3-4 ore si effettua l’impasto
definitivo aggiungendo kg 35 di farina, kg 17-20 acqua e kg 1,400 circa di sale.
Il tempo di impasto con un’impastatrice a forcella è mediamente di 25/30
minuti circa. Si divide l’intero impasto in “pastoni” da Kg 15-20 e si mette sul
banco di lavoro precedentemente spolverato con la stessa farina usata per
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l’impasto, per isolarli dal banco stesso. Si lascia riposare alcuni minuti e si piegano i
pastoni in tre per farli prendere forza e spostarli sempre sul bancone isolato dallo
spolvero.
Si lascia riposare 15-20 minuti, quando il pastone ha quasi raddoppiato il suo
volume, si pesta per far uscire l’anidride carbonica e si ripete la piegatura in senso
diverso in tre, affinché le piegature rimangano incrociate. Dopo altri 15-20 minuti
in cui i pastoni avranno nuovamente raddoppiato il volume in altezza, se non
saranno più “slabbrati”, si procederà alla stiratura e cilindratura, che può essere
fatta a mano con il mattarello oppure con la macchina sfogliatrice (durata di circa
5/10 minuti), ricavandone un rettangolo dello spessore di circa due centimetri.
Si procede quindi alla formazione del pastone finale, provvedendo all’ultima
piegatura, che consiste nell’unire le estremità del pastone in centro in senso
longitudinale, si spiana leggermente e si pressa con il matterello il centro d’unione.
Il pastone viene poi piegato su se stesso in senso longitudinale, affinché le parti
combacino perfettamente. Il pastone si sposta su di un piano spolverato di
cruschello o granito (semola di frumento tenero). Il tutto si lascia lievitare per 15-20
minuti, affinché raddoppi lo spessore: il pastone finale risulterà della larghezza di
30-35 cm e della lunghezza di 150-170 cm.
A questo punto si effettua un taglio con una lametta nel senso longitudinale
della parte opposta alla riga di congiungimento dell’ultima piegatura. Si provvede
quindi con una raschia di legno a tagliare i triangoli che dovranno essere infornati in
piedi ed appoggiati sulla pianta del triangolo in forno aperto, privo di vapore, a 240260° per 45-50 minuti.
La procedura descritta è quella attuale, ma in altri tempi ovviamente il lavoro
veniva fatto a mano.
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3.1.3 Il Pane di Chianocco (Pan ’d Cianuc).
Il “Chianocco” è un pane tipico della media Val Susa, in particolare dei
comuni di Chianocco e Bussoleno.
Ha forma di filone (grescia) del peso di circa 600-700 g. e non è condito, né
con strutto né con olio. Sue principali caratteristiche sono una mollica abbastanza
compatta ed una crosta molto friabile, che per le sue peculiarità lo fa preferire agli
altri pani per una migliore conservabilità: infatti,
analogamente al miccone, è
prescelto dai margari e dai gestori dei rifugi, che lo conservano anche per molti
giorni.
Il gusto particolare è dato principalmente dalla quantità di pasta acida (alvà)
usata in abbinamento al lievito di birra. La levata è preparata la sera precedente
impastando 3 Kg di pasta acida, conservata dall’impasto del giorno, 5 Kg di farina,
una noce di lievito e acqua; l’impasto così ottenuto (deve essere piuttosto duro e
compatto) va conservato al fresco. Al mattino si impasta la levata con 20 Kg di
farina (se possibile di grano nazionale), 10 litri di acqua circa, 100 gr di lievito e 600
gr di sale. Si lavora per circa 30 minuti con una impastatrice a forcella o a braccia
tuffanti e per circa 20 minuti con impastatrice a spirale.
Dopo mezz’ora di riposo si formano su assi di legno infarinati delle liste della
lunghezza di circa 30 cm e si lasciano lievitare per circa un’ora. Quindi si procede al
taglio dei pani con una raschia di legno e si infornano con il taglio dalla parte
superiore, senza vapore, per favorirne lo sviluppo; la cottura si protrae per circa
un’ora, alla temperatura di 220-230°C.
Il Pan ‘d Cianuc viene tuttora prodotto dai alcuni panettieri di Chianocco e
Bussoleno e delle zone limitrofe.
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3.1.4 Il Pan Barbarià.
Il Pan Barbarià (letteralmente pane “imbarbarito” ) è un prodotto tipico
delle vallate cuneesi e delle valli Pellice e Chisone, che si tramanda nel tempo. È
prodotto con farina di frumento tenero, farina di segala integrale, acqua, lievito
naturale, sale.
Il Pan Barbarià presenta una pezzatura di 500/600 grammi circa, un colore
bruno scuro, un sapore acidulo, molto appetitoso e un’umidità massima del 35%.
Per l’impasto occorrono circa 5 chilogrammi di lievito naturale madre in
pasta, 2,5 chilogrammi di farina di grano tenero, 2,5 chilogrammi di farina di segala
integrale, 2,5 o 3 litri si acqua e 0,150 chilogrammi di sale. Ottenuto l’impasto, a
distanza di 10/15 minuti di risposo, si piegano i “pastoni” in tre per almeno 2-3
volte, per fargli prendere forza. Si formano delle pagnotte di 500/600 grammi circa
e si lasciano lievitare per circa 30-40 minuti. Si inforna alla temperatura media di
220-230°C, per un tempo di circa 50-60 minuti.
Il Pan Barbarià può anche essere prodotto in altre pezzature, e dovrebbe
essere consumato preferibilmente raffermo.
Le sue origini e la sua diffusione sono piuttosto remote e si possono datare
con certezza fin dal XVIII secolo.
Alla base di tale prodotto c’era la coltivazione mista della segala e del
frumento, che veniva effettuata nelle terrazze ricavate in alta montagna. La segala
resistendo al freddo, ma non ai forti venti per il lungo stelo, era supportata dal
frumento, dotato di un’avara spiga ma uno stelo corto e piuttosto robusto. Da
questo misto di segala e frumento è dunque nato il Pan Barbarià.
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3.1.5 Il Tupunin.
Il Tupunin è un prodotto tipico del cuneese, ma che si può trovare anche in
alcune zone della parte meridionale della provincia di Torino.
È prodotto con farina di grano tenero, acqua, lievito naturale in pasta e sale e
presenta una pezzatura di 70/100 grammi, un colore della crosta bruno dorato, un
sapore molto fragrante ed un’umidità del 20-30%.
La caratteristica principale di questo tipo di pane è la lievitazione naturale che
avviene in modo non dissimile a quello già descritto per la Mica. Si effettua un
primo impasto serale utilizzando Kg 0,5 di lievito naturale madre in pasta, Kg 2,5 di
farina e Kg 1,3 di acqua; dopo circa 8 ore si effettua il primo rinfresco aggiungendo
Kg 5 di farina e Kg 2,5 di acqua. Dopo 3-4 ore si effettua un secondo rinfresco
aggiungendo Kg 10 di farina e Kg 5,5 di acqua; nel secondo rinfresco, prima di
impastare si toglie un pezzo di lievito madre, quanto basta per un altro ciclo. Dopo
3-4 ore si effettua l’impasto definitivo aggiungendo Kg 17 di farina, Kg 8-10 acqua,
Kg 0,7 circa di sale e Kg 0,25 di lievito di birra, diluito in acqua per la spinta finale.
Il tempo di impasto con un’impastatrice a forcella è mediamente di 25/30 minuti
circa.
Si divide l’intero impasto in “pastoni” da Kg 10-12, e si mette sul banco di
lavoro precedentemente spolverato con la stessa farina usata per l’impasto, per
isolarli dal banco stesso. Si lascia riposare alcuni minuti e si piegano i pastoni in tre
per farli prendere forza e spostarli sempre sul bancone isolato dallo spolvero.
Si lascia riposare 15-20 minuti, quando il pastone ha quasi raddoppiato il suo
volume si pesta per far uscire l’anidride carbonica e si ripete la piegatura in senso
diverso in tre, affinché le piegature rimangano incrociate. Dopo altri 15-20 minuti
in cui i pastoni avranno nuovamente raddoppiato il volume in altezza, se non
saranno più “slabbrati”, si procederà alla stiratura e cilindratura, che può essere
fatta a mano con il matterello oppure con la macchina sfogliatrice (durata di circa
5/10 minuti), ricavandone un rettangolo dello spessore di circa due centimetri. Si
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procede quindi alla formazione del pastone finale provvedendo all’ultima piegatura,
che consiste nell’unire le estremità del pastone in centro in senso longitudinale, si
spiana leggermente e si pressa con il matterello il centro d’unione. Il pastone viene
poi piegato su se stesso in senso longitudinale, affinché le parti combacino
perfettamente. Il pastone si sposta su di un piano spolverato di cruschello o
granito (semola di frumento tenero). Il tutto si lascia lievitare per 35-40 minuti,
affinché raddoppi lo spessore: il pastone finale risulterà della larghezza di 20-25 cm
e della lunghezza di 150-170 cm.
A questo punto si effettua un taglio con una lametta nel senso longitudinale
della parte opposta alla riga di congiungimento dell’ultima piegatura. Si provvede
quindi con una raschia di ferro a tagliare i triangoli che dovranno essere infornati in
piedi ed appoggiati sulla pianta del triangolo in forno aperto, privo di vapore, a 250270° per 25-30 minuti.
La procedura descritta è quella attualmente in uso, ma in altri tempi
ovviamente il lavoro veniva fatto a mano.
Con questa stressa procedura si possono ottenere altre forme di pane,
chiamate “Topu”, “L’Drunè”, la “Grisà lavà”: è solo questione di taglio finale al
momento di infornare. Invece di essere tagliate a triangolo, il pastone viene tagliato
a liste trasversali e diviso a metà per il primo, in tre per il secondo, e nessun taglio
per la “Grisà lavà”. L’importante è infornare con il taglio rivolto verso l’alto,
affinché nella cottura il pane possa aprirsi come un fiore.
Il Tupunin è il primo pane forgiato in formato piccolo ed originariamente è
nato in occasione di convegni conviviali, quali nozze o pranzi di una certa
importanza, per assecondare il capriccio di qualche nobile sempre alla ricerca di
cose bizzarre.
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3.2 I Dolci e i prodotti da forno.
La storia del dolce nell’alimentazione viene fatta risalire dagli storici e dai
ricercatori addirittura all’origine del pane, dunque all'inizio della storia della cucina:
all’epoca remota in cui l’uomo ha imparato a cuocere il proprio cibo. Può sembrare
un legame audace, eppure ancora oggi le forme più tradizionali e classiche di dolce
hanno spesso forma e sostanza di una pagnotta: gli esempi più classici sono il
panettone, il pandolce, il pandoro, ma anche il pari di Spagna, il pari pepato, il pari
speziato, il plum-kake e persino i maritozzi, i krapfen e il Kugelhupf, nonché la
grande, infinita famiglia dei biscotti.
La storia dei dolci in Piemonte non fa eccezione alla storia generale del dolce nel
mondo. L'estrema ricchezza e la grande varietà di prodotti dolciari reperibili
storicamente nella nostra regione, semmai, sono un’ennesima testimonianza della
relativa povertà alimentare di questa terra, in cui - per contrasto, quasi per una sorta
di rivalsa - si è cercato di sfruttare al meglio i pochi prodotti a disposizione.
I dolci piemontesi sono spesso poveri, ma ciononostante sono prova dell’ingegno e
della fantasia dei nostri avi, inventori di molteplici creazioni dolci, ai quali hanno
saputo dare forme diverse, tanto che quasi ogni centro abitato, quasi ogni piccola
comunità, ha avuto o ancora ha i suoi dolci, i suoi biscotti caratteristici.
Forme diverse, dunque, ma anche componenti diverse: dall’«aquicelus»
descritto da Plinio (che altro non era se non l’antenato del torrone, fabbricato
semplicemente con pinoli cotti nel miele) ai marrons glacés (esaltazione nobile di
uno dei più modesti frutti della terra); dal cioccolato (che storicamente è stato
perfezionato proprio a Torino, tra la fine dei Cinquecento e i giorni nostri) al
cioccolato Gianduja (nato anch’esso a Torino durante l'occupazione napoleonica e
inventato per carenza di cacao, sostituito con polvere di nocciole tostate); dalle
caramelle ai torcetti. E via andando per una marea di prodotti dolci creati
utilizzando oltre che miele, zucchero e farine, anche latte, grassi, burro, frutta,
spezie, uvetta, rum, mosto, vino, erbe e perfino il sangue del maiale.
3.2.1
I dolci piemontesi nell’antichità.
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Per tutta l’antichità e quasi tutto il Medioevo il miele è il dolcificante per
eccellenza, utilizzato sia per le necessità domestiche, sia nella pasticceria e
confetteria.
Rinomato è quello primaverile della pianura e delle colline, dove
predomina il nettare profumato dell’acacia, ed ancor più pregiato quello alpino di
Pragelato e del Monte Rosa, che profuma di fiori montani. Dunque i dolci più
antichi sono semplici ed economici, preparati con miele e prodotti della terra.
Un esempio è l’«aquicelus», che gli antichi Taurini confezionavano con i
pinoli, come scive Plinio il Vecchio, storico e naturalista romano, nella “Naturalis
Historia” (lib. XIV, 9): “In melle decoctos nucleos (pineos) Taurini aquicelos
vocant”. L’«aquicelus» dei taurini si può considerare l’antenato del nostro torrone.
L’impasto di noci, nocciole o mandorle con miele e bianco d’uovo è una delle
principali e più antiche testimonianze della pasticceria italiana e ancora un secolo fa
- come sostiene Giovanni Vialardi, aiuto capocuoco del primo Re d’Italia, nel suo
Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confetteria - il torrone veniva fatto
con il miele, spesso ricoperto in superficie con delle cialde di farina insipide.
Fra i dolci più antichi, quelli detti dai latini “pistores lactarii”, perché ottenuti
lavorando latte o formaggio fresco, hanno ancora in Piemonte eredi diretti: la
“panna cotta”, la “crema alla panna”, i “doux ed sèiras” (in occitano), a base di
ricotta e tipici delle zone alpine, o ancora il “fromage blanc” della Savoia.
Per millenni i nostri antenati che abitavano le vallate, hanno mangiato
castagne secche, bollite o arrostite, ne hanno fatto farina per polente, pane e dolci.
Nel Medioevo questo frutto diventa ingrediente essenziale per leccornie a base di
latte, legumi o frutta, in particolare prugne (coctis in prunis, cotte nelle prugne).
Nella tradizione dolciaria piemontese, accanto alle castagne, compaiono
mandorle, noci e soprattutto nocciole, un tempo coltivate insieme all’olivo nelle
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zone più soleggiate della collina di Torino, e diffuse in tutta l’area pedemontana,
come testimoniano gli statuti di molte Comunità.
La società povera dei nostri più lontani antenati - inventato dunque il pane nel corso dei secoli a poco a poco lo ha elaborato, arricchendolo con latte, miele o
frutta: aggiungendoci spesso, cioè, almeno un componente in qualche modo
dolcificante. Con ogni probabilità, tuttavia, quel pane dolce non era di consumo
corrente: per secoli deve essere stato un alimento quasi rituale, riservato forse
esclusivamente alle grandi solennità, con un probabile profondo significato
religioso, come ad esempio la tradizionale Fugassa d’la Befana, tipica del giorno
dell’Epifania, ed i Ciciu ‘d Capdan, tradizionali doni di Capodanno da parte di
padrino e madrina.
Spesso il pane dolce veniva modellato a forma di animale: era un modo
semplice ed ingenuo di fare un’offerta agli dei, un sostituto domestico del sacrificio
rituale. È rimasto nella tradizione di gran parte del Piemonte il galucio, cioè un
pezzo di pasta di pane lavorato a forma di galletto., appena spruzzato di zucchero,
che i contadini cuocevano nel forno a legna assieme al pane vero e proprio nei
giorni di gran festa o di marca.
In ogni caso ci vollero secoli, anzi millenni, prima che si diffondesse ed
estendesse l’abitudine di preparare e ancor più di consumare con qualche regolarità
il pane dolce, man mano arricchito con altri ingredienti (uova e vino, soprattutto).
Nel Medio Oriente si cominciò ad aggiungere alla pasta da pane anche
mandorle, fichi, datteri, noci e persino formaggi poco fermentati (più che altro di
capra): da alimenti di forma solida, nacquero così probabilmente anche i più remoti
cibi dolci al cucchiaio, che oggi classificheremmo nella grande famiglia dei budini.
In Europa, il dolce, oltre che dalla dolcificazione del pane (cotto in modi diversi e spesso arricchito, ma non
troppo, da altri componenti) nacque anche dalla cottura della frutta (con miele o mosto o vino). Al contrario di
quel che si potrebbe credere, infatti, la frutta (fatta eccezione per quella secca tipo nocciole, mandorle e
castagne) non era molto apprezzata nei secoli scorsi; era anzi spesso considerata un cibo pericoloso. Due illustri
medici piemontesi dei passato (Albini e Guainerio) ne sconsigliavano esplicitamente l'uso quotidiano abituale
per i disturbi che poteva arrecare, essendo forse colta non perfettamente matura oppure mal conservata, oppure
consumata in condizioni igieniche che lasciavano molto a desiderare.
Nei registri delle spese di “coquina” dell'Hotel dei Savoja - nei primi anni del
millennio - non viene quasi mai fatta menzione di acquisti di frutta, mentre
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compaiono frequentissime spese per ortaggi e “herbe”. E tra la poca frutta citata
figurano quasi esclusivamente le pere oltre che i melograni (che erano tuttavia
esplicitamente riservati al conte, alla contessa e ai loro figli).
Fino al 1300 - secondo le ricerche di Anna Maria Nada Patrone, che ne dà conto
nel ricchissimo studio su “Il cibo del ricco e il cibo del povero” la frutta era in ogni
caso un alimento di lusso, una leccòrnia da consumare quasi sempre “ante pastum”
e non alla fine del pasto, o forse tra un pasto e l'altro, come golosità, come
dissetante, come farmaco: cioè come segno e simbolo di gusti raffinati, un po'
strani, come si conveniva a persone di prestigio.
Era certamente maggiore l'utilizzazione di frutta cotta per sostenere gli
anziani e gli ammalati o come contorno e condimento a carni lesse o arrosto
(tradizione che ritroviamo anche in Piemonte con le mostarde, con le castagne che
imbottiscono l'oca o il iniziale, con la composta di mele che spesso ancora
accompagna la selvaggina e persino il budino di sangue).
Cuocere dolcificando la frutta (che nelle campagne era abbastanza
largamente a disposizione, mentre in città eri rara) e scoprire che non soltanto era
buona, ma non dava disturbi, deve essere stata una delle grandi, remote scoperte
dell'alimentazione. Sono nate cosa le composte, le mostarde, le marmellate, e
quindi le nostre classiche «pesche ripiene», il «bianco mangiare», (versione dolce
a base di mandorle) e via via le torte di nocciole e di castagne, fino alle crostate di
frutta in cui ritroviamo nuovamente come base il pane o per lo meno la pasta da
pane.
Non si fabbricavano, però cose dolci in tutte le famiglie, né in qualsiasi
occasione. La povertà dominante e il poco tempo a disposizione fuori dei lavoro
necessario per assicurarsi il minimo vitale, impediva alla massaia di dedicarsi a
quella che sarebbe diventata l'arte dolciaria. Il gusto del dolce, si sa, è innato
nell'uomo (che comincia a riconoscerlo e ad apprezzarlo nel succhiare
latte
materno che è naturalmente dolce). Un pizzico di dolce nell'alimentazione di tutti i
giorni (dato dalla natura del cibo stesso o da qualche ingrediente dolce o dolciastro)
è quindi probabile sia stato presente nel mangiare di sempre, certo favorito dalla
progressiva scoperta e dalla valorizzazione di sostanze dolcificanti: il latte stesso, il
miele, ma anche certi frutti maturi, il mosto d'uva, il vino, il succo di qualche radice,
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il lattice di alcune piante.
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Nell'antichità - remota e prossima - si sapevano
probabilmente trarre gusti e profumi dai prodotti della natura più di quanto non
sappiano fare la massaia o il cuoco di oggi, che devono per lo più ricorrere a
prodotti specifici se non sintetici.
Molte bevande antiche erano naturalmente a gusto prevalentemente dolce:
l’Oxisaccharus (una sorta di aperitivo composto di acqua, aceto e miele o zucchero);
il vinus mulsus (che oggi chiameremmo forse vin brulé: vino vecchio bollito con miele,
mosto fresco, zenzero, chiodi di garofano, cannella e - ancora - miele o zucchero); il
vinus dulcis (forse qualcosa di simile al nostro Moscato). E, naturalmente, il ben più
famoso idromele (in Piemonte come altrove ottenuto dalla fermentazione di una
soluzione di miele e acqua, aromatizzata talvolta con fiori di sambuco, di timo e di
rosmarino).
L’abitudine a cibi prevalentemente o totalmente dolci, preparati e consumati
proprio in quanto hanno questa caratteristica di gusto, tuttavia, sembra essersi
affermata molto tardi nel calendario della nostra civiltà e si è consolidata soltanto
con la conoscenza e la progressiva disponibilità dello zucchero di canna - usato in
Oriente nell’antichità, ma importato in Europa intorno all’Anno Mille, prima dagli
Arabi, quindi dai Crociati e distribuito soprattutto dai mercanti veneziani.
Per secoli e secoli si deve insomma far riferimento a dolci senza zucchero, nei quali
il ruolo dolcificante era svolto da miele, sapa, mosto d’uva, frutti maturi o latte, ma
anche da prodotti importati a caro prezzo, quali l’uva zibibbo (che veniva dal
Meridione), i coctana (piccoli, fichi molto zuccherini prodotti sulle coste
mediterranee) e naturalmente i ben più cari e rari datteri, provenienti dall’Africa
settentrionale.
È in sostanza ciò che ancor oggi si può spesso trovare nella cucina tradizionale di
campagna, dove lo zucchero - quando è utilizzato – è spesso un di più, quasi una
aggiunta che ha valore e significato di spezia, di tocco finale, al limite quasi la
dimostrazione se non l’ostentazione di una piccola ricchezza aggiuntiva.
Uno dei primi documenti storici che rivelano la presenza (e l’alto prezzo)
dello zucchero in Piemonte, è un conto dell'hostel di una principessa di Savoia, che
nel 1273 segnala la spesa di 2 soldi d’oro e 5 denari d’argento per appena una libbra
di zucchero.
La Fugassa d’ la Befana.
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È tradizione consolidata che certi prodotti dolci vengano consumati
prevalentemente, se non esclusivamente, in certe occasioni festive dell’anno. Un
esempio è la “Fugassa d’ la befana”, focaccia della Befana, torta dolce di pasta
frolla che si consumava nel torinese soprattutto nel giorno dell’Epifania. Non per
nulla che nel Torinese l’Epifania è nota non solo come ’l dì d’j tre Re, ma anche
come ‘l dì d’la fogassa (Voci e cose del vecchio Piemonte, Viriglio A., 1917).
Tipica, fra le molte, quella di Druento. Era in genere offerta dal panettiere ai
suoi più affezionati clienti, accompagnandola con la strofetta: “Cerea, l’ai portaie la
fugassa. / Ch’a la posa lì, e peui ch’a pasa”,
“Buongiorno, le ho portato la
focaccia;. La posi pure e poi ripassi” (per pagare).
Questo dolce, molto antico, può essere paragonato al panettone e alla colomba
pasquale, ma si ritiene possa essere addirittura più antico.
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La Fugassa d’ la Befana è un dolce con sorpresa, che racchiude in sé due
fave, una bianca e l’altra nera. I malcapitati che trovavano la fava bianca dovevano
pagare la focaccia e quelli della fava nera il vino.
La Fugassa d’ la Befana presenta una forma rotonda a forma di margherita,
un colore dorato e un sapore dolce.
Per prepararne l’impasto occorrono gr. 2000 di lievito naturale (ottenuto da
lievito madre, farina e acqua), gr. 4500 di farina ad alto tenore proteico, gr. 1270 di
burro morbido, gr. 980 di tuorli, gr. 48 di sale e gr. 1600 di cubetti canditi di
arancia, cedro e vaniglia.
Si impasta bene, si fa lievitare per tutta la notte al coperto a circa 23°C e al
mattino si fraziona del peso che si vogliono fare le focacce. Si fa riposare una
decina di minuti e si schiaccia ogni pezzo a circa 205 cm., sistemato su teglie con
carta da forno. A questo punto si taglia a spicchi senza raggiungere il centro tipo
margherita con petali pari per quanti sono gli ospiti. E a fantasia ogni spicchio va
attorcigliato o accavallato uno sull’altro per 1/3 sopra lo spicchio vicino, si fa
lievitare a 27°C. Si lucida la superficie con albume e si cosparge di piccoli grani di
zucchero. Si cuoce in forno a circa a 200°C.
La Fugassa d’ la Befana si conserva in luogo asciutto e si consuma entro un
paio di giorni.
La Focaccia di Susa
L’origine della Focaccia di Susa è sicuramente antica e deriva da lavorazioni di
panettieri che, partendo dai pani a bassa lievitazione, che potevano già esistere
all’epoca dei Romani fino al Medioevo, hanno man mano utilizzato nuovi
ingredienti: uova e burro con l’aggiunta, prima, di miele e poi di zucchero.
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La quantità di zucchero e burro è aumentata con l’introduzione, dopo la seconda
guerra mondiale, delle farine di forza importate dal Nord America, più facili da
lavorare.
Con i ricordi e le testimonianze locali noi sappiamo che la focaccia di Susa fu
sicuramente prodotta secondo l’attuale ricetta a partire dal 1870, quando il
capostipite dei fornai della famiglia Favro, il sig. Domenico, rilevò il forno della
famiglia Rolando che deteneva il segreto della ricetta, tuttora gelosamente custodita
dai discendenti.
La Focaccia di Susa è un prodotto da forno tipico della Val di Susa i cui
ingredienti, indicati in ordine di quantità decrescente, sono: farina di grano tenero 0
con una certa forza (W 180), burro, zucchero, uova, sale e lievito.
La produzione inizia mescolando le uova col burro e lo zucchero, prosegue con
l’aggiunta di farina, acqua e lievito; il tutto viene impastato con la impastatrice e
lasciato a lievitare per due ore. A questo punto l’impasto viene suddiviso in parti: a
ciascuna di esse si dà la forma di una palla, che poi viene allargata in una spianata
rotonda di diametro variabile (da 28 a 50 cm) e dello spessore di 1,5 cm.
La
spianata così ottenuta viene lasciata riposare da un’ora ad un’ora e mezza, poi se ne
rialza il bordo con le dita e si cosparge la focaccia di zucchero semolato, infine sulla
superficie del dolce vengono praticati dei fori, per evitare il formarsi di bolle, alcuni
panettieri vi tracciano invece dei disegni (che una volta erano fatti con il tagliere del
fornaio mentre ora si utilizzano delle forme); le decorazioni più comuni
rappresentano una stella, un cuore, una colomba o un ferro di cavallo e vengono
scelte a seconda delle occasioni.
Per la festività dell’Epifania si usa mettere nell’impasto una fava come nella
Fugassa d’la befana. Concluse queste operazioni, la focaccia viene messa a cuocere
in forno ad alta temperatura (intorno ai 500° C) per far sì che lo zucchero caramelli,
facendo ovviamente attenzione a non lasciarla bruciare.
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I Ciciu d’ Capdan.
Il Ciciu d’ Capdan è un dolce povero, che veniva tradizionalmente offerto da
padrini e madrine ai figliocci per Capodanno, a forma di bamboccio (ciciu) dalla
crosta dorata.
Per l’impasto vengono utilizzati kg. 1 di farina, kg. 0.200 di zucchero, kg.
0.250 di burro, l. 0.500 di latte, gr. 30 di lievito di birra, gr. 10 di sale, 8-10 tuorli
d’uovo e zucchero caramellato.
Per preparare i Ciciu d’Capdan si stempera in una terrina il lievito con
150/200 grammi di farina e latte tiepido, quanto basta per un impasto molto molle.
Si copre l’impasto e si lascia riposare per circa 25/30 minuti.
A parte si prepara la farina a fontana, e nel centro si miscelano tutti gli
ingredienti previsti; si incorpora quindi la farina e per ultimo il lievito (preparato in
precedenza) ed si impasta. A metà impasto si cola un cucchiaio di zucchero appena
caramellato per profumare. Si consiglia di fare questa parte dell’impasto la sera
prima e depositarlo in un mastello posto in luogo fresco, ma non freddo, fino al
mattino.
Si manipola l’impasto piegandolo alcune volte per fare sgonfiare e si procede
alla formatura dei bambocci, che verranno depositati su teglie e fatti lievitare
affinché raggiungano il doppio del loro volume di origine. Si pennellano infine con
tuorlo d’uovo sbattuto e si cospargono di “monparaglia” colorati e si inforna a
200°C circa.
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3.2.2 Il Medioevo e la pasticceria secca.
Per gran parte del Medioevo in Piemonte l’arte dei dolci rimase praticamente
confinata nei monasteri e nei conventi, dove i religiosi avevano tempo e modo di
dedicarsi alla cucina e dove in genere abbondava la materia prima costituita
soprattutto dal miele. Spesso (capita ancora oggi) questi dolci riproducevano,
seppur sommariamente, un simbolo religioso o superstizioso, oppure una
immagine sacra, che era ambita dai credenti e dai pellegrini come ricordo più
ancora che come golosità. Di fonte laica e popolaresca nascono invece le forme di
pane - e di pane dolce - che si rifanno a immagini di vita quotidiana con allusioni,
più o meno palesi, alla sessualità.
È l’epoca in cui nascono i biscotti e la prima pasticceria secca, che in alcuni
casi (per esempio i canestrelli, diffusi ancora oggi un po' dappertutto in Piemonte)
erano preparati con la stessa tecnica usata per le ostie utilizzate per la Comunione.
In convento, per esempio, sono nati, tra gli altri, i biscottini di Novara,
anticamente chiamati biscottini delle monache o anche biscottini di San Gaudenzio,
perché una leggenda vuole siano stati inventati da Gaudenzio, primo vescovo della
città.
A quando risalgano esattamente i biscottini non è dato sapere, però si può
avallare l’ipotesi, avanzata da Vittoria Sincero in “Dal Riso al Rosa”, datandone la
nascita «forse al Medioevo, quando unica distrazione di un vivere monotono erano
i banchetti in cui si dava sfoggio di arte culinaria. Nei conventi, soprattutto, dove le
condizioni di vita erano superiori a quelle dei laici, le monache si sbizzarrivano. E
poiché nel convento nulla deve essere sprecato, qualcuna si sarà rammaricata nel
vedere i suoi dolci andare a male. Perché non sperimentare un dolce di lunga
conservazione, da offrire magari al vescovo per la distribuzione ai poveri del pane
bianco di polla, che avveniva il lunedì dell'Angelo? Ed ecco il monastero mobilitato
a confezionare il pane delle monache. Al miele usato dapprima fu poi sostituito lo
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zucchero; dalle forme grosse si passò a quelle sempre più piccole, cercando gli
espedienti pratici di cottura che ne migliorassero la qualità. Si giunse così alla
preparazione di un pane bianco, dolce, piccolo, senza lievito, quindi non
fermentato, annullando o quasi l’umidità grazie alla doppia cottura. Era nato il
biscotto o meglio, per la sua forma minuscola, il “biscottino”».
In questo periodo nascono - nei conventi soprattutto come abbiamo visto,
ma anche nelle residenze nobiliari ed in alcuni casi addirittura nelle povere dimore
contadine - molti altri dolci tuttora in uso in Piemonte e nella provincia di Torino.
È il caso del biscotto della Duchessa di San Giorgio Canavese, dei
mostaccioli delle vallate alpine e delle paste di meliga.
IL BISCOTTO DELLA DUCHESSA
Il Biscotto della Duchessa è un dolce friabile al cacao, tipico del
comune di San Giorgio Canavese, prodotto ancor oggi secondo la
ricetta originale di Pinòt Rolet.
La tradizione popolare narra che la duchessa di Pistoia usasse, come
pretesto per le sue scappatelle amorose, il dover andare a San Giorgio
ad acquistare i deliziosi dolci al cacao a lei intitolati.
Gli ingredienti utilizzati per produrre questo biscotto sono: zucchero,
albume d’uovo, cacao amaro in pasta, sciroppo di zucchero, farina di
frumento e vanillina.
Questi ingredienti, sapientemente amalgamati, formano un impasto
che viene diviso e tirato a mano fino a raggiungere la forma desiderata;
successivamente viene cotto nel forno ad una temperatura molto
bassa per circa 30 minuti.
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I Canestrej (Canestrelli)
I Canestrelli sono un dolce tipico del Biellese, dell’Eporediese e
dell’Alto Canavese, in particolare di Crevacuore, Borgofranco d’Ivrea,
Ivrea, Mazzè, che deriva il proprio nome dai canestri di vimini
intrecciati, nei quali si deponevano dopo la cottura, e che ha origini
assai lontane, sicuramente medievali.
È un dolce a base di cioccolato costituito da una cialda tonda e sottile,
dalla forma irregolare e dal colore testa di moro. Si ritiene che la
cialda originaria fosse già di colore scuro, nonostante il costo elevato
del cacao. Solo nel ‘900 la quantità di cacao impiegata è più che
raddoppiata e si è iniziato a distinguere tra cacao amaro e cacao
zuccherato.
La noce moscata sostituì i chiodi di garofano non appena si rese
disponibile anche in occidente; il rhum, invece, fu introdotto più tardi,
presumibilmente dopo la metà dell’Ottocento. Alcune famiglie, una
minoranza, al posto del rhum impiegano marsala o vermouth.
La vaniglia, presente nella ricetta che alcune famiglie si tramandano, è
un ingrediente non indispensabile, così come le uova, che nella ricetta
originaria non comparivano, in quanto i Canestrelli venivano fatti solo
in particolari occasioni e dovevano conservarsi per molti mesi.
In particolare, a Crevacuore vi era l’usanza di fare i Canestrelli in
occasione degli sposalizi nelle famiglie più importanti, mentre nel
Canavese venivano prodotti in occasione della festa patronale e del
carnevale.
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La prima documentazione scritta che decanta la bontà dei "Canestrelli",
come tipici dolci biellesi, risale all’anno 1805. È contenuta in un
manoscritto conservato nella Biblioteca Reale di Torino e
testualmente afferma : "Panetteria - Pasticceria, e' nel circondario e
principalmente a Biella che viene prodotto il miglior pane di tutto il
Piemonte. Ne viene inviato a Vercelli e anche a Torino sopratutto
quello in bastoncini chiamato comunemente Cressin o Grissini.
Vengono prodotti anche degli eccellenti Canestrelli specie di
pasticceria in cui il cioccolato e' la base molto apprezzata e se ne fanno
consegne in molte città".
L’origine dei Canestrelli di Crevacuore risale probabilmente alla fine
del ‘600. Una data certa della produzione di una cialda nel territorio
dell’antico Principato di Masserano e Marchesato di Crevacuore
l’abbiamo grazie all’esistenza di un caratteristico attrezzo in ferro di
proprietà della signora Ida Gibba Mecco, discendente di un’antica
famiglia che ha vissuto tra Masserano e Crevacuore, recante la data del
1750.
Dall’analisi di alcune ricette di famiglie crevacuoresi - tutte risalenti alla
fine dell’Ottocento o all’inizio del Novecento, in quanto per molti
decenni la ricetta è stata tramandata di madre in figlia oralmente, come
una sorta di dote - si evidenzia la tendenza a personalizzare le ricette
con il nome della proprietaria, il che fa sì che non si trovano i
medesimi ingredienti o le medesime quantità in ognuna.
La ricetta base tradizionale comunque comprende i seguenti
ingredienti: 1 kilogrammo di farina bianca, 500 grammi di cacao
amaro, 500 grammi di zucchero, 500 grammi di burro, 250 grammi di
cacao zuccherato, 1 noce moscata grattugiata, 1 uovo, 1 bicchiere vino
rosso, 1 bicchierino di rhum.
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Si amalgamano prima tutti gli ingredienti asciutti sino ad ottenere un
composto di colore omogeneo, quindi si aggiungono gli altri
ingredienti e si impasta bene il tutto. Dall’impasto si formano tante
palline, dalla cui grandezza dipenderà la dimensione della cialda finale.
L’impasto, diviso a pezzetti, veniva schiacciato tra due lastre di ferro
poste all’estremità di una lunga pinza e quindi cotto per qualche
minuto direttamente sul fuoco. Sulle lastre erano incise le iniziali della
famiglia alla quale apparteneva il curioso strumento, insieme con altri
simboli e disegni; durante la cottura tali segni grafici venivano trasferiti
in rilievo sulla superficie del Canestrello.
L’attrezzo di ferro o ghisa viene messo sul fuoco e, rivoltando da
ambo le parti, si farà cuocere, finché il canestrello avrà assunto un bel
colore “testa di moro”.
In questa fase solo una persona esperta è in grado di valutare la giusta
temperatura e il tempo necessario per ottenere una cialda gustosa e
croccante (normalmente poche decine di secondi).
Alla fine della cottura si otterrà una cialda tonda e croccante, il cui
colore dipenderà molto dalla quantità di cacao impiegato e dal calore
dell’attrezzo durante la cottura.
I Canestrelli, non appena si raffreddano, sono pronti per il consumo o
per la vendita. Si conservano a lungo, ma nel tempo tendono a perdere
il loro tradizionale aroma di cioccolato e spezie..
Attualmente i Canestrelli vengono prodotti non solo al gusto di cacao
e vaniglia, ma anche alla nocciola, al limone, all’arancia, al caffè, alla
menta, al cocco e al pistacchio.
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I Mostaccioli.
I mostaccioli sono dei dolci che hanno una forma romboidale, un
colore violetto pallido ed un marcato sapore di vino e di spezie.
Per la loro preparazione sono necessari 2.200 g. di farina, 2.000 g. di
zucchero, 1 litro di vino rosso, preferibilmente Barbera, 50 g. di chiodi
di garofano in polvere e 30 g. di cannella in polvere.
Si lavora la farina, lo zucchero e le spezie con un terzo di litro di vino;
a metà impasto, si aggiunge gradatamente il vino rimasto fino ad
ottenere un impasto molto consistente e liscio. Si tira la pasta fino ad
ottenere un foglio di circa 1 cm. di spessore e si tagliano dei rombi di
5-6 cm. di diametro, che si sistemano in teglie e si infornano a 175°C
per circa 20 minuti.
I mostaccioli si conservano in luogo asciutto e si consumano entro 2
mesi.I mostaccioli, già in uso nell’800, sono dolci caratteristici dei
paesi di fondovalle di tutta la provincia di Cuneo e delle vallate più
meridionali della provincia di Torino.
Probabilmente le origini del prodotto in oggetto provengono da
Revello in Valle Po dove si producono ancora e non è raro incontrare
in piazza montanari che scendono d’inverno ai mercati ed alle fiere
sgranocchiandoli con gusto.
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Le Paste ‘d melia (Paste di Meliga).
Le paste ‘d melia, paste di meliga, sono un prodotto tipico della
provincia di Torino e di altre zone del Piemonte, che si presenta con
una forma rotonda, una pezzatura di circa 10-12 grammi, un colore
dorato, una pasta croccante ed un sapore dolce.
Per preparare le paste meliga occorrono: 1.000 g. di farina di
frumento, 500 g. di farina di mais (meliga tipo fumetto), 1.000 g. di
burro, 700 g. di zucchero, 5 uova intere, 10 g. di sale, 1 scorza di
limone grattugiata, 1 bustina di lievito.
Per la preparazione del prodotto si incorporano bene il burro e lo
zucchero con le uova, il sale e la scorza di un limone. Si setaccia la
farina con il lievito e si impasta il tutto, ma non troppo, e si far
riposare una decina di minuti in luogo fresco. Si inserisce l’impasto
nell’apposita siringa con il disco a stella e si formano degli anelli del
diametro esterno di circa 5 centimetri. Quindi si mettono a cuocere
sulle apposite teglie a forno moderato. Le “paste di meliga” sono una
ricetta antica che si perde nel tempo. Citate in diversi testi di
gastronomia piemontese sono le paste di meliga di Pianezza, i
“melicotti”.
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3.2.3 Il Medioevo e la nascita della Confetteria.
L’arte di confettare e di preparare infusi e liquori ha origini lontane e in
Piemonte, a Torino specialmente, si sviluppa in una misura e con una raffinatezza
particolare, influenzata dalle tecniche della vicina Francia.
Già nell’antichità esistono dolci ricoperti di miele simili ai confetti. La rivestitura dei
confetti, come si fa oggi, sembra derivata da un fornitore di «pasticcerie» alla corte
di Luigi XV di Francia; ma il riconoscimento dell’egemonia francese in fatto di
dolci si accompagna tuttavia alla consapevolezza che la confetteria ha fatto in Italia
progressi più rapidi.
Come scrive un insigne studioso dell’epoca, «sembra che quest’arte sia stata
inventata per allettare il gusto in altrettanti modi, quanti ella produce lavori diversi.
Non vi è frutto, fiore, seme, pianta, per quanto sia egli buono in natura, cui non dar
si possa un sapore più grato e dilettevole oltre di somministrare alle mense dei gran
signori il più bell'ornamento delle tavole».
Nel Medioevo sui tavolini delle corti sono sempre presenti le «spezie da
camera», usate per profumarsi la bocca, soprattutto dopo i pasti.
Presso la corte dei primi Duchi di Savoia sono diffuse le confetture, le
«treggee» (antenate delle nostre caramelle), confezionate con mandorle dolci o semi
di finocchio rivestiti di zucchero cristallizzato, i «dragèes» e i «trocisci», cioè
pastiglie caramellate a base di anice.
La distribuzione di bomboniere nei pranzi di gala viene fatta da paggi,
scudieri, e alti dignitari in occasione di nozze, battesimi, onomastici oppure per
celebrare qualche solenne avvenimento, come il ricevimento di ospiti di riguardo.
In molte occasioni le bomboniere non vengono regalate a tutti gli invitati, ma solo
ai festeggiati, ai personaggi più alti di grado e alle loro dame; gli altri ospiti devono
accontentarsi di «mangiare con gli occhi» le ambite confetture. Presso le corti del
Piemonte si distribuiscono agli ospiti dei cartocci («cornet») oppure scatole
(«dragéoir») ripiene di confetti di dimensioni diverse o di frutti canditi che per lo
più provengono dal Nizzardo o da Genova. Nella vicina Liguria l’arte del candire
veniva già praticata intorno all’anno Mille.
Gli Zest di Carignano.
I marinai genovesi avevano appreso dagli Arabi che le scorze di agrumi immerse
nella melassa si conservavano più a lungo e in questo modo potevano trasportarle e
difendersi dallo scorbuto.
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La canditura di frutti e di scorze di agrumi si diffonde tra la «haute»
piemontese e in qualche località diventa, con il passare del tempo, un
prodotto tipico del luogo: a Carignano, in provincia di Torino, la produzione
degli «zesti», scorze di agrumi candite, è preesistente al XIV secolo e resta
in voga fino alla fine del ‘700.
L’etimologia del termine «zest» o «zesti» è incerta, anche se i più sostengono che
provenga dalla lingua francese. Infatti il termine «zest» compare nella prima
edizione del 1815 del Gran dictionnaire universel du XIX siècle di Pierre Larousse (tomo
IV, Parigi 1876), nel significato dapprima di «piccola pellicola dura che separa le
parti della noce, poi ad un piccolo pezzo di scorza d’arancio, o di limone. Il latino
“schistus”, che riprende il greco “schistos”, tagliare, fendere è uguale al termine
francese “schiste”. Parte esteriore colorata che deriva dal taglio in lunghe bande
della pelle di limoni e cedri.».
Il Littrè nel suo Dictionnaire de langue française (tomo IV, Parigi 1881), definisce il
vocabolo “zester” «separare dallo zest la parte bianca sottostante. Tagliare la scorza
di un limone in piccole listelle.».
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Gli zest sarebbero, si sostiene, i veri antenati di tutti i canditi del mondo; sono
infatti menzionati (con il termine «gestes») in una lettera che la Duchessa Bianca di
Monferrato invia il 9 ottobre 1516 dal suo castello di Carignano al duca di Savoia
Carlo III (1486-1553) nella quale scrive: «je vous enuoye par mon esceuyer francois
present porteur un peu de coudognat et gestes que jai faict ces jours passes».
Come è consuetudine delle nobildonne del tempo, la Duchessa nel suo castello
insieme alle sue damigelle trascorre il tempo ricamando cappe, piviali, pianete e
stole per le chiese, allevando bachi per filare la seta, preparando sciroppi, confetture
e naturalmente... zesti, che offre ai suoi ospiti.
Sono alterne le vicende di questi canditi: scompaiono durante le vicende terribili in
cui Carignano fu coinvolta nella prima metà del XVI secolo, ricompaiono alla metà
e negli ultimi anni del XVII, non appena il Piemonte può godere di un breve
periodo di pace.
Nell’articolo sugli zest pubblicato sul Corriere di Carignano, nel 1924, troviamo i
momenti più significativi della loro storia: gli zest vennero offerti a Carlo Alberto,
principe di Carignano, nel 1817, quando con la sua sposa, Maria Teresa, passò per
Carignano, diretto al Castello di Racconigi; nel 1829 vennero offerti a Carlo Felice;
nel 1842 un dono di zest venne fatto a Maria Adelaide, Arciduchessa d’Austria e
sposa del principe ereditario Vittorio Emanuele.
Per la “Gianduieide” del 1868, alcuni carignanesi, con a capo il sindaco, vendettero
zest in piazza Castello, a favore dei poveri di Carignano ed il padiglione ebbe
l’onore della visita della principessa Margherita di Savoia, accompagnata dal
fidanzato principe Umberto, alla quale furono offerti gli zest, racchiusi in una
scatola d’argento.
La più classica e tradizionale ricetta per la loro preparazione la
dobbiamo ad uno sconosciuto confetturiere della cittadina torinese e
risale alla fine del Settecento: le scorze di limone, arancio, cedro o
bergamotto si mettono nell’acqua fresca, «si lasciano 24 ore acciocchè
perdano quell’amaro e poi si mette dell’acqua a bollire e si mettono dentro; si fanno
passare bene e per provarli se sono abbastanza cotti si mettono in mezzo a due
denti, che si chiuscano, allora si colano e si lavano a due o tre acque, e poi si
mettono nel zuccaro liquido e tiepido, e si fa per otto giorni, si fa scaldare i zuccaro
ossia levare il bollo, e poi si prende il zuccaro, si tira alla piuma, poi si mette
dentro gli zesti, si fa dare due o tre bolli, e poi si levano dal zuccaro, si mettono
sopra li setacci a seccare».
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Nella monografia “Voci e cose del vecchio Piemonte”, pubblicata nel
1917, Alberto Viriglio annovera anche gli “zesti di Carignano” tra i
“prodotti delle terre subalpine, sacrati peculiarmente ai consumi della
ghiottoneria torinese”.
I Marrons Glaces
Il marron glacés non è stato inventato ieri: se ne trovano tracce e ricette in
antichissimi libri; se ne parla in ricevimenti di Corte dei secoli scorsi; ci sono
accenni in testi classici lontanissimi nel tempo. L’idea di candire la castagna è
probabilmente antica quanto l’abitudine di nutrirsi di castagne: notte dei tempi
insomma.
La paternità dei marrons glacés è contesa tra Francia e Piemonte. Si ha notizia che ai
tempi di Luigi XIV - il re Sole - i confettieri avessero l’abitudine di produrne per
Natale e di portarli a Corte: il re, che era molto goloso e gran mangiatore, li
apprezzò talmente che ne pretendeva anche in altre epoche dell’anno.
Sembra che il cuoco di Carlo Emanuele I, il figlio storpio di Emanuele Filiberto,
detto il «Conte Grande» ma anche «Carlo il gobbo», abbia introdotto alla corte dei
Savoia i marrons glacées. Questo cuoco, dei quale non si sa il nome - ma soltanto che
forse era astigiano - sembra sia stato anche il «papà» dello Zabaglione e della
Finanziera, dunque un benemerito della grande cucina piemontese.
La storia è abbastanza verosimile. I Savoia arrivavano freschi freschi (siamo alla fine
dei 1500) dalle loro valli savoiarde, ed è probabile che impiantandosi a Torino
volessero adottare anche la cucina piemontese; e che cosa poteva inventare il loro
cuoco se non trasferire a Corte - nobilitandoli - i piatti migliori e più preziosi dei
signorotti locali e del contado?
Quei marroni canditi - che probabilmente erano nati come la sola ghiottoneria, la
galuperia, dei bambini delle montagne - a poco a poco erano certamente arrivati,
soprattutto per la golosità delle dame, nei castelli e nei salotti: che cosa trovare di
meglio, di più prezioso in questa povera regione per i nuovi signori di Torino?
Naturalmente anche per i marroni si può parlare di cru, cioè di piccole
zone dove - per le caratteristiche del terreno, l’esposizione, il
microclima - vengono frutti migliori.
Dopo aver subito la «novena», i marroni vengono scelti - soltanto
quelli di calibro maggiore sono usati per la canditura - e quindi
conservati a strati, in vecchie cantine scavate nel tufo. I marroni si
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conservano a lungo, almeno da novembre a marzo e possono così
essere lavorati lungo quasi tutto l’arco dell’anno.
La prima fase per la produzione dei marrons glacès è una attenta
calibratura che consiste nella selezione dei frutti in base alla
dimensione, per poterli così destinare ad ogni specifica produzione.
Si passa poi alla fase di pelatura, che può avvenire in due modi:
attraverso il brulage (passaggio rapidissimo per caduta in un cilindro ad
altissima temperatura) per i frutti più piccoli o attraverso il vapore, per
i marroni di calibro maggiore. Nella sbucciatura a vapore viene
praticata la tecnica della microincisione. Si utilizza infatti generalmente
una inciditrice meccanica che interviene nella sola buccia. Quindi
entrano in azione macchine sbollentatrici che provvedono a scottare il
prodotto con il vapore il quale, penetrando nei numerosi tagli praticati
nel pericarpo ne permette il distacco pressoché totale.
Tolta la buccia e la pellicina - il lavoro viene necessariamente rifinito a
mano, un marrone alla volta da artigiani specializzati, fieri e quasi
gelosi del loro antico mestiere - il processo per farli diventare marrons
glacés è relativamente semplice, anche se molto lungo e delicato. Si
tratta di sostituire per osmosi a poco a poco l’acqua che naturalmente
è contenuta nella castagna con lo sciroppo di zucchero. E ciò si
ottiene con una serie di bagni, riscaldamenti, sgocciolature, altri bagni
e così via per una settimana almeno, in uno sciroppo, che all'inizio è
composto dal 70% di acqua e il 30% di zucchero, ma che alla fine sarà
del 70% di zucchero con il 30% soltanto di acqua.
Parte dello
zucchero è in realtà glucosio, che ha la stessa purezza e le stesse
proprietà dello zucchero (saccarosio), ma «copre» meno l’inimitabile
sapore dei marrone.
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Il marrone viene quindi posto in retine e cotto in acqua. L’acqua di
cottura servirà poi per la preparazione dello sciroppo zuccherino
impiegato per la canditura.
I marroni vengono infatti fatti impregnare per un periodo che va da
un minimo di quattro fino a sei giorni, a temperatura massima di 70°C
in uno sciroppo che da leggero si addensa fino a raggiungere i 70 bris.
Lo sciroppo di canditura si ottiene facendo bollire l’acqua di cottura
con del saccarosio ed una stecca di vaniglia naturale.
I marroni posti negli appositi contenitori di canditura (chiamati
“condissoises”) vengono coperti dallo sciroppo. Nel processo di
canditura il marrone rilascia acqua e assorbe sostanza zuccherina. Per
arrivare al prodotto finito, che deve essere saturo di sostanza
zuccherina, lo sciroppo di canditura deve essere tenuto ad una
temperatura di circa 35-60° e la soluzione zuccherina deve essere
continuamente mantenuta ad un livello di tenore zuccherino fino ad
un massimo di circa 70 bris (circa 34 BC).
Quando il marrone è saturo di sostanza zuccherina è candito e viene
posto su retine a scolare per almeno 24 ore.
A questo punto si prepara una glassa zuccherina, che viene stesa in
modo uniforme sul marrone candito, lasciata a sgocciolare e trasferita
in forno per qualche istante a 300°C, per favorire la cristallizzazione
della glassa che così diventa traslucida.
Nel processo di trasformazione non è consentito l’utilizzo di alcun
prodotto chimico di sintesi.
Il prodotto finito deve essere integro e
candito fino al cuore.
I marrons glacès sono un prodotto fresco, con deperibilità media di
una settimana.
Se postì in atmosfera modificata (miscela di anidride carbonica ed
azoto) può conservarsi per circa un anno.
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3.2.4 Il Cinquecento e lo Zabaglione.
Con il Cinquecento l’arte dolciaria italiana raggiunge un grado di ricchezza e
raffinatezza che non ha precedenti e nelle corti piemontesi si sviluppa un
artigianato che vanta i migliori maestri pasticceri della penisola.
Il duca di Savoia Carlo Emanuele I (1562-1630), detto «il grande», mecenate di
lettere, scienze e belle arti, la sa lunga anche in fatto di cucina e arte dolciaria, tanto
che concede patenti di nobiltà a due dei suoi cuochi e allo «scalco» addetto alla
cucina. E proprio alla mensa del duca Carlo Emanuele I pare sia stato servito per la
prima volta, sul finire del XVI secolo, lo zabaglione o zabaione, in piemontese
«sambajòn» («sambajeu» in Provenza). La squisita crema dal sapore delicato e
vigoroso è il frutto delle alchimie di qualche cuoco di Casa Savoia, cui la «dolce
scoperta» merita senz’altro una patente di nobiltà.
I dolci della reale casa non devono però essere un segreto, se le loro ricette passano
di bocca in bocca, magari raccomandate o sussurrate, a popolane o signore di alto
lignaggio, nientemeno che attraverso la grata del confessionale da un autorevole
frate del Terz’Ordine dei Francescani: fra’ Pasquale de Baylon. La leggenda, che
spesso va a braccetto con la storia, narra infatti che questo frate di origine spagnola,
vissuto tra il 1540 e il 1592, girò l’Europa frequentando le corti fino ad approdare a
Torino presso la parrocchia di San Tommaso.
Il frate è sì uomo di chiesa, ma anche cuoco sopraffino. Le penitenti, attirate
dalla sua insolita fama, trovano in lui un bonario e illuminato padre spirituale che sa
capire le esigenze e le debolezze della carne. Così, dal confessionale fra’ Pasquale
de Baylon suggerisce a dame e popolane, che si lamentano della scarsa vivacità del
consorte, un rimedio energetico capace di ridare vigore al più stanco dei mariti.
La ricetta si sintetizza in una formuletta facile da ricordare, «1+2+2+1», riferendosi
alle dosi stabilite utilizzando la misura di un guscio d’uovo: montare un tuorlo con
due gusci di zucchero finché il composto sia quasi bianco, indi unire due
abbondanti gusci di vino marsalato e uno di acqua; infine cuocere a bagnomaria o
su fiamma bassa, mescolando fino al primo cenno di bollore.
Alla sua morte fra’ Pasquale de Baylon non viene dimenticato: entra nella leggenda
torinese e le donne continuano a passarsi e consigliarsi la ricetta, ricordandolo e
venerandolo tanto che nel 1618 viene beatificato da papa Paolo V e nel 1690 fatto
santo da papa Alessandro VIII. Da questo punto in avanti è storia nota: san
Baylon si identifica sempre più con la sua ricetta e con il suo nome, in dialetto
torinese «san Baion», si battezza il prodigioso rimedio, «sambajon», italianizzato in
zabaglione.
Dal 1722 san Pasquale de Baylon è patrono dei cuochi e continua a essere
festeggiato il 17 maggio nella chiesa di San Tommaso, in via Pietro Micca, la strada
che originariamente portava alla Porta Marmorea, dove le antiche corporazioni di
Torino tra cui cuochi (cusinè), pasticceri (pastissè) e camerieri (cambrè) usavano
festeggiare il loro santo patrono: san Baylon e prima di lui Teodoro di Ancira in
Calizia, martire al tempo di Diocleziano. Ancor oggi presso la sede torinese
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dell’Unione Cuochi è conservata una bandiera storica che risale al 1722 e che reca la
dicitura «Pia Associazione dei Cuochi Privati e Famigli d’ambo i sessi sotto
l’invocazione di S. Pasquale de Baylon»; un suo ritratto è collocato nel coro della
chiesa dei Cappuccini e la chiesa di San Tommaso conserva una statua in legno a lui
dedicata.
La ricetta dello zabaglione con il tempo ha varcato i confini sabaudi e la sua
notorietà è giunta fino ai nostri giorni. In Valle d’Aosta questa crema aromatizzata
con rhum si chiama «fiandolein» e un po’ ovunque nelle campagne ne esiste una
versione «a crudo», che nel biellese è detta «arsuma».
In pasticceria con lo zabaglione, stimato più della crema e della panna, si farciscono
i «cannonett» o cannoli e alcuni tipi di bignole, note in passato come «choux», vanto
della pasticceria piemontese. Da parte loro i pasticceri torinesi, sensibili al fascino
delle preparazioni francesi, sfornano pasticceria mignon, bignè, cannoli e pastelle
della dimensione di un boccone: la più comoda tentazione della gola.
Nel caso dei bignè la grande scuola francese è stata mutuata e in un certo senso
perfezionata. In Francia i «beignets» sono frittelle preparate con un pezzo di frutta
(pesca, mela, pera ecc.), passata in una pastella di farina, uova, latte e zucchero, e
cotte in olio bollente. Vengono servite accompagnate da salse dolci o salate che
variano a seconda delle regioni. In Italia, questi piccoli capolavori di pasticceria
sono in prevalenza dolci. Le bignole piemontesi sono tuttora farcite con crema alla
vaniglia o al caffè e le più classiche con crema di cioccolato, crema pasticcera e
cioccolato, crema gianduia o zabaglione.
Nel passato, invece di glassare la superficie delle bignole, i pasticceri le
spennellavano con acqua zuccherata o le spolveravano di zucchero prima di
passarle in forno perché assumessero un aspetto lucente. Nel suo trattato di
pasticceria, Ciocca dice che le bignole piemontesi «si riempiono di crema vaniglia, o
cioccolato, o nocciole, o zabaglione, od altro, poi vengono leggermente coperte di
fondente sulla superficie. Il fondente deve essere bianco o colorato, secondo la
crema che contiene la bignola, cui si applica un piccolo fregio sopra con fondente
cioccolatto».
L’Antica Ricetta dello Zabaglione
Unire un tuorlo d’uovo fresco con due cucchiaini di zucchero e sbattere fino a
quando il tuorlo diventa quasi bianco. Aggiungere due gusci d’uovo abbondanti di
marsala (non all’uovo) e un guscio d’acqua. Mettere sul fuoco con fiamma
limitata, o a bagnomaria, rimescolando continuamente con un cucchiaino sino al
primo cenno di bollore. Togliere dal fuoco e continuare a rimescolare. Quindi
servire caldo.
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3.2.5 Il Seicento e la nascita del Gherssin.
Uno zabaione, una cioccolata fumante, un bicchiere di buon vino rosso o latte e
zucchero sono gli elementi migliori per inzupparvi, pociè in piemontese, non solo
dei torcet o dei comuni biscotti, ma anche dei grissini.
Il termine grissino deriva da “grissia” o “gherssa”, il pane a forma allungata e
stretta un tempo usato in tutto il Piemonte, simile all’attuale baguette francese.
Esasperando la forma allungata del pane e assottigliandola sempre più, è nato il
grissino, la cui paternità è tutt’oggi molto discussa, ma che di certo fece la sua prima
comparsa alla metà del 1600.
Il Cibrario al riguardo racconta che «c’erano dapprima dei pani allungati fini
di tre once circa di peso, chiamati grissie. Migliorata la pasta, recandola a tale
tenacità da potersi tirare in cordicelle lunghe un braccio, senza romperle, si
procedette all’invenzione dei grissini».
E sì, perché i grissini, i gherssin, altra gloria di Torino e del Piemonte, hanno
tradizioni antiche e molti li considerano alla stregua di un dolce. Napoleone non
può fare a meno dei «petits bátons de Turin». Carlo Felice (1765-1831),
soprannominato «Rex Theatrorum», ne sgranocchia perfino in palco al Regio.
Nel 1643, l’abate fiorentino Vincenzo Ruccellai - membro di un’ambasceria
medicea in Francia - passando per Chivasso è incuriosito da questo strano pane di
tre once di peso e di forma allungata e appunta nel suo diario: «Gustammo a mensa
una novità, sebbene di stravagante forma, vale a dire del pane quale è lungo più di
un braccio e mezzo e sottile a similitudine d’ossa di morti» .
Nonostante questa accreditata citazione, la versione più ricorrente sull’origine del
grissino torinese è quella legata alla figura dell’infante Vittorio Amedeo Il di Savoia
(1666-1732), destinato a diventare il primo re del suo casato.
Nel 1675 il duca Amedeo II cresce poco e a stento a causa dei continui disturbi
intestinali. Preoccupata, la madre Maria Giovanna Battista di Nemours incarica il
medico di corte, don Ubaldo Pecchio, di cercare un rimedio e cambiare la dieta del
giovane duca. Il medico ricorda di aver sofferto in gioventù, di analoghi disturbi e
di averli risolti grazie a un pane con poca mollica, ben lievitato, cotto e molto
croccante che gli aveva preparato la madre. Così va dal panettiere di Casa Savoia,
Antonio Brunero, come lui originario di Lanzo: insieme preparano lunghe strisce di
pasta lievitata, «stirate» con il movimento delle mani e la trazione delle braccia.
Ottengono così, dopo la cottura, un pane a forma di bastoncino, friabile. con poca
mollica e una crosta dorata a cui viene dato il nome di «gherssin», ossia piccola
«gherssa», italianizzato poi in «grissino». Amedeo II lo mangia e presto risolve i
suoi problemi digestivi, migliorando nel fisico.
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Pare sia stato alimento provvidenziale per il giovane figlio del Duca di Savoia
ed al riguardo il Carutti, nella “Storia di Vittorio Amedeo II” racconta: «Il dottor
Pecchio di Lanzo, chiamato a curare il giovanetto Duca Vittorio Amedeo II, sbandì
pozioni e boccette ed ogni generazione medicinali, lo feci nutricare di panne
grissino, onde, la natura aiutante, il suo corpo rinvigorì.».
Questa nuova forma di pane, chiamato dai nobili anche panbiscotto, era
dapprima solo privilegio dei ricchi e preparato per la loro farina di grano, mentre il
popolo si nutriva ancora di pane, le grissie, ove per la preparazione si mescolavano
farine di segale, la principale, con altre di orzo e grano.
Da questo momento in avanti il grissino diventa il pane preferito di Casa Savoia ed
è conosciuto e apprezzato dai più fini e regali palati dell’epoca.
Dal grissino si è originato anche un prodotto da forno molto apprezzato, il
torcetto, la cui preparazione e cottura risultano molto simili.
Tradizionalmente
sono nati come dolci a base di pasta di pane, passati nello zucchero o nel miele e
preparati nei forni comuni a legna dei paesi, ove un tempo tutte le famiglie vi
cuocevano il pane.
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Il Grissino Stirato.
I grissini stirati sono prodotti tradizionali delle Valli di Lanzo, di Torino del
Canavese, e del Pinerolese, i cui ingredienti sono: farina di grano tenero tipo 0
oppure 00, acqua, lievito e sale. Secondo alcuni panificatori nel prodotto
tradizionale non dovrebbero essere presenti grassi di origine animale e vegetale
(Panificatori delle Valli di Lanzo e delle Valli Chisone e Germanasca), secondo altri,
invece, potrebbe anche contenere strutto oppure olio e strutto (Panificatori di
Torino).
Le fasi della panificazione del grissino comprendono l’impasto della farina con gli
ingredienti di cui sopra, la preparazione della forma (stiramento), la lievitazione
durante la quale si lasciano riposare gli “stirati” e la cottura in forno a temperatura
che varia tra i 200 e i 250°C e che, a differenza del pane, è prolungata per eliminare
in tal modo tutta l’acqua contenuta. Ne consegue un prodotto leggero e friabile,
facilmente assimilabile in quanto parte dell’amido si trasforma in destrina e
maltosio che facilitano notevolmente la digeribilità del prodotto. Un tempo i forni
impiegati erano tutti a legna, attualmente soppiantati da quelli elettrici.
Per ottenere gli “stirati” si parte da liste di pasta lunghe 10 centimetri e larghe circa
3 che vengono allungate tirandole lentamente ai capi, per circa 1,50 metri (grosso
modo l’ampiezza delle braccia aperte).
In occasione della Sagra del Grissino Stirato tenutasi a Lanzo dal 1 all’8 giugno
1986 merita segnalare che i Comuni di Torino, Chieri, Andezeno e Lanzo T.se
hanno firmato un protocollo d’intesa tra i centri storici del grissino “dove si
impegnano alla sua tutela e qualificazione, nonché a concordare iniziative e
manifestazioni di promozione e valorizzazione del grissino stesso, in cui
riconoscono parte della loro immagine più autentica”. (Lanzo 7 giugno 1986).
Il Grissino Robatà.
I grissini robatà sono prodotti tradizionali di Chieri ed Andezeno, che utilizzano gli
stessi ingredienti del grissino stirato: farina di grano tenero tipo 0 oppure 00, acqua,
lievito e sale, con o senza l’aggiunta di grassi.
Le fasi della panificazione sono in tutto simili a quelle descritte per lo stirato,
differenziandosene soltanto al momento della formatura del filoncino di pasta..
Per questo tipo di grissino il filoncino verrà allungato tramite arrotolamento (robatà
significa appunto arrotolato) per compressione manuale sul tavolo da lavoro
(soltanto sino a 40 cm. circa). Sull’impasto rimarranno, pertanto le impronte delle
dita del grissiniere ed inoltre i grissini non vengono frammentati dopo la cottura.
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I Torcetti di Lanzo.
Il torcetto è un prodotto di pasticceria secca, costituito da un
bastoncino di pasta ricoperto di zucchero, ripiegato fino a far unire le
due estremità e a fargli assumere una forma ovale allungata a goccia.
La superficie del torcetto è lucida grazie alla pennellatura con acqua,
prima, e successivo spolveramento con zucchero semolato.
I “torchietti” come venivano chiamati nel ‘700 (per la loro forma
attorcigliata) erano già descritti nel libro Confetturiere Piemontese edito nel
1790.
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Nel Trattato di cucina e pasticceria moderna del 1854, Giovanni Vialardi,
aiutante capocuoco dei re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II,
descrive tre ricette di torchietti, partendo da altrettanti tipi di impasto.
Una di queste è pressoché simile all’attuale; la differenza più evidente
sta nell’utilizzo del lievito naturale al posto di quello di birra impiegato
ai giorni nostri.
Anche Sandro Doglio, nel suo Dizionario di gastronomia del Piemonte,
dopo un’attenta ricerca bibliografica cita Lanzo come probabile paese
di origine del torcetto: «Sembra il luogo di origine sia la zona di Lanzo
(TO), dove del resto si dice che siano nati anche i grissini, che in
effetti, con la differenza che non sono dolci, hanno più o meno la
stessa tecnica di preparazione e cottura. ».
Gli ingredienti della pasta sono: farina tipo 00, acqua, burro, lievito,
malto e sale.
Tradizionalmente sono nati come dolci a base di pasta di pane, passati
nello zucchero o nel miele e preparati nei forni comuni a legna dei
paesi, ove un tempo tutte le famiglie vi cuocevano il pane.
Generalmente si cuocevano sulla bocca del forno in attesa che questo
fosse sufficientemente caldo per infornare il pane. Con il passare del
tempo il prodotto subì una trasformazione; da grossi bastoncini di
pane dolce, dal 1800 in poi, divenne un vero prodotto di pasticceria
secca. La dimensione si ridusse di circa la metà, la consistenza della
pasta si fece più leggera anche grazie alla farina meno grezza, al lievito,
ma soprattutto all’introduzione del burro. Si modificò anche il modo
di consumarli. Dapprima erano destinati solo ai bambini (nelle rare
occasioni che avevano al tempo di mangiare dolci), poi si passò a
presentarli a fine pasto nelle ricorrenze familiari (battesimi, matrimoni,
ecc.) a volte accompagnati con panna montana (fioca) spruzzata di
caffè d’orzo macinato o con lo zabaione (successivamente).
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3.2.6 Il Settecento e primi passi della pasticceria.
Con il Settecento il primato del buon gusto passa dall’Italia alla Francia: se ne
avvertono i segni nella moda, nelle buone maniere, ma soprattutto a tavola.
In Francia l’arte della cucina era stata introdotta nel ’500 da famosi cuochi,
pasticceri confettieri e gelatieri italiani, chiamati là da principi e signori, come quelli
che Caterina de’ Medici aveva portato con sé nel 1533 andando sposa a Enrico Il di
Francia. Ragioni di potenza politica avevano fatto prevalere per un certo periodo il
tipo di cucina e arte dolciaria romana e toscana, che diede origine successivamente
alla nuova e moderna cucina francese.
Nel Settecento la situazione si capovolge. È la «nouvelle cuisine» francese a
influenzare quella italiana. Ciononostante agli italiani viene riconosciuto - anche dai
francesi - il merito di essere innovativi nel campo dei dolci, per i «lavori» in
zucchero, i gelati, i sorbetti, le marmellate, i delicati rosoli e ratafià. «Le dessert,
proprement dit, est italien, si l’on entend par ce mot la réunion et la disposition
agréable aux yeux des gáteaux, des fruits et des confitures», dichiara Fayot,
«gastrosofo» francese citato da Brillat-Savarin
«Chef francais, pátissier turinois» («Capocuoco francese, pasticcere torinese») recita
un detto che compare un po’ in tutte le lingue sui menù internazionali dei più
lussuosi ristoranti e alberghi; un motto che è già di per sé un’onorificenza.
Nel ’700 vanno ricercati i primi passi dell’arte pasticcera, quando si inizia a
utilizzare lo zucchero «nuovo», quello di barbabietola (sucher 'd biarava, in
piemontese), e con esso altri prodotti di importazione, come tè, caffè e cacao.
Dinastie di maestri artigiani nascono e si sparpagliano per l’Europa. La giornata
delle dame e dei cavalieri è scandita da mille rituali, in cui trovano posto il caffè, la
cioccolata, il tè. In quest’ambito culturale la pasticceria e la confetteria conoscono
anni di grande successo.
«Ai tempi di Augusto i cuochi pregiati erano siciliani: oggi questi uomini importanti,
questi chimici domestici sì pregiati debbono essere Franzesi o almeno Piemontesi.
Eppure (chi il crederebbe?) ancora l’arte della cucina è ita in Francia dall’Italia»,
rammenta il conte-gesuita Giovanbattista Roberti (1719-1786), attento e scrupoloso
osservatore della società e dei costumi del suo tempo.
Nella storia della cucina italiana il capitolo subalpino-rinascimentale ha sempre
avuto un ruolo marginale, un po’ periferico. Le raffinatezze del ‘700 sabaudo, che
si manifestano a noi ancora nei palazzi e nelle opere architettoniche, nelle
porcellane e nelle argenterie, si proiettano nella elaborata squisitezza della tavola e
soprattutto nelle portate di pasticceria e confetteria.
Un’attenzione particolare viene rivolta non solo alla forma dei dolci, ma anche
all’elemento sorpresa, alla scenografia: decorazioni, «lavori» di zucchero, dolci dal
valore simbolico. Se ne ha testimonianza nel già citato Trattato di cucina... di
Giovanni Vialardi, insigne aiutante capocuoco e pasticcerei di Carlo Alberto e di
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Vittorio Emanuele Il e loro consigliere gastronomico. Questo manuale, che
contiene duemila ricette, una trentina di tavole e più di trecento disegni, testimonia
quanto sia vasta la cultura di questi pasticceri di corte che creano per i loro signori
spettacolari portate di dolci. Essi devono conoscere bene il loro mestiere, per
trarre un felice accordo tra profumi e gusti e per scegliere le materie prime più
adatte alla preparazione delle diverse parti del dolce, ma al tempo stesso devono
avere doti artistiche per presentare composizioni spettacolari sia per forma che per
varietà, ispirandosi naturalmente al gusto dell'epoca. Realizzando una summa di
sapori e foggiando memorabili figure di zucchero, si tende a soddisfare tutti i sensi:
dal gusto all’odorato, dalla vista al tatto.
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3.2.6.1 I primi trattati di cucina e di pasticceria.
Nel corso del Settecento la comunicazione e gli spostamenti sempre più facili
favoriscono lo scambio di idee e di abitudini culinarie e contribuiscono alla nascita
di manuali di cucina e di pasticceria.
Il primo libro di cucina di questo periodo è Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi
pubblicato anonimo a Torino nel 1766. Questo volume apre il capitolo francopiemontese dell’editoria dedicata alla cucina nazionale; non è più destinato alle
classi abbienti, come i libri di cucina che l’hanno preceduto, ma pensato e scritto
per tutti, con una particolare attenzione al risparmio in cucina e all’utilizzo di
alimenti comuni.
La fortuna editoriale de 11 cuoco piemontese inizia con l’edizione del 1775, ampliata
rispetto alla prima, meglio strutturata nei capitoli e sulla quale sono modellate tutte
le successive. Il libro esce in ben 16 edizioni fino all’ultima del 1850. Quelle di
Torino del 1784 e di Venezia del 1789, spingono l’editore Sirtori di Milano a
curarne nel 1794 un’edizione locale che, malgrado il titolo modificato (Il cuoco
piemontese ridotto all'ultimo gusto, e perfezione, con nuove aggiunte, ad uso anche della nostra
Lombardia), contiene un testo identico a quello dell’edizione di Torino. Le «nuove
aggiunte», promesse dal titolo, non sono che un espediente editoriale per assicurare
al volume una diffusione più ampia.
Una conferma indiretta della fortuna di questo libro è la pubblicazione negli anni
seguenti di altri trattati di cucina che ne riecheggiano il titolo oltre che i contenuti:
La cuciniera piemontese (Vercelli, 1771), compilato dal colto e severo barone Vernazza,
Il cuoco milanese e la cuciniera piemontese (Milano, 1859), Manuale del cuoco e del pasticcere di
raffinato gusto (Pesaro, 1832) e Il cuciniere italiano moderno (Livorno, 1848). Inoltre
vengono pubblicati i testi di due fra i più importanti cuochi piemontesi di tutti i
tempi: Frangois Chapusot, che è l’autore dei quattro fascicoli de La cucina sana,
economica ed elegante secondo le stagioni (1846), e Giovanni Vialardi, autore del Trattato di
cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confetteria (Torino 1854) e della Cucina
borghese semplice ed economica (1863).
Il cuoco piemontese è la prima raccolta sistematica di ricette in uso nel tempo. Non si
parla ancora di ricette regionali, che assumeranno caratteri distinti solo a partire dal
secolo successivo, ma si nota - anche nell’ultima parte del volume dedicata a «Il
cuoco pasticciere» - che gli ingredienti utilizzati sono spesso prodotti locali.
Dello stesso anonimo autore è Il confetturiere piemontese (Torino, 1790), il primo libro
in lingua italiana che tratta in modo sistematico l’arte della confetteria. «Oltre a
quelle cose che sono state da me praticate, ed altre, che mi sono state trasmesse da'
miei amici, ne ho anche procurate alcune cavate dal Francese», spiega lo scrittore al
termine dell’opera. Nel volumetto vengono illustrate le delicatezze della pasticceria
subalpina del tempo: pasta di Torino, pasta savoiarda alla provenzale, pasta di
Savoia alla piemontese, composta «d’uva muschiata» (uva moscato) all’astigiana
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biscottini di Savoia, biscottini savoiardi alla provenzale, «tourons», biscottini di
marroni o di cioccolato alla monferrina.
3.2.7 L’Ottocento e l’avvento dello zucchero.
Fino al 1800, in Piemonte come dappertutto in Europa, lo zucchero era
messo in commercio più che altro in pani di forma conica, che si grattugiavano
man mano che se ne aveva bisogno, ma era anche venduto come polver zucari. La
migliore qualità era considerata quella proveniente dall’Oriente, dalle zone di
Damasco e di Alessandria d’Egitto. Molto apprezzato era lo zucar Babiloniac, forse
proveniente dall’attuale Iraq. Il più corrente era chiamato zucar casatinus. Erano in
commercio, presso gli apotecari, anche zuccheri profumati: il rosato (con essenza di
rose) e il violato (che in realtà era una decorazione di zucchero in infusione di
violette).
L’avvento dello zucchero (e soprattutto la sua utilizzazione per la creazione
dei dolci) è stato un processo molto lungo e lento - anche se rivoluzionario nei
risultati e decisivo per la storia del mangiare e bere - facilitato e reso infine
universale soltanto con la scoperta della possibilità di estrarre zucchero dalle
barbabietole. Ma già siamo quasi a metà dell’Ottocento.
Dalla cucina dei ricchi si estende a poco a poco alla cucina dei borghesi e
quindi anche dei poveri.
Il dolce, scrive nel 1854 Giovanni Vialardi cuoco di casa Savoia, rende
elegante un pranzo e mette in rilievo il genio e il buon gusto del cuoco. E aggiunge:
«la pasticceria più in uso sono le pietanze dolci inzaccherate di cucina e le creme, le
gelatine, le composte di frutti cotti, le quali unite poi alla pasticceria leggera, ai
sorbetti, ai confetti, formano la parte più brillante e ricca del pranzo». Nel suo
ricettario, lo stesso Vialardi dà ben 376 ricette dolci sotto la voce pasticceria, a cui si
aggiungono altre 191 ricette per composte, bevande, conserve dolci, marmellate,
gelatine e liquori.
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Alla fine dell’800 in molti caffè torinesi è in gran voga la “fiòca”, panna di
latte montata o lattemiele, conosciuta già dai latini come “nives esculentas” [cfr. G.
Ciocca, Il pasticcere e confettiere moderno, Milano, 1923]. Si consuma in inverno
e nelle grandi solennità, accompagnandola con cialde, gli “oblìo”, la cui
preparazione è molto simile a quella dei tradizionali canestrelli, biscotti rotondi cotti
nei “fer dij canestrei” (ferri dei canestrelli), utensili simili a grosse tenaglie, che si
arroventavano sul fuoco.
La tradizione del dolciario in Piemonte nasce nelle corti e nei chiostri
dell’alto Medioevo e del Rinascimento e arriva al periodo d’oro di Torino capitale,
quando i “bicerin”, i cioccolatini, le creme pasticcere e le caramelle trionfavano, tra
i pettegolezzi, nelle confetterie e nei caffè del capoluogo subalpino: la Torino di
Gozzano e di De Amicis, dove dolci e confetti avevano un posto d’onore.
3.2.8 L’Ottocento e la Pasticceria.
In tema di dolci, alla rivoluzione francese spetta il merito di aver spazzato via quei
mastodontici trionfi e pasticci e di aver fatto conoscere la pasticceria di fantasia,
biscotti e dolciumi assortiti.
Nate in Francia prima che da noi, le pasticcerie si sviluppano nella prima metà
dell’800, quando in Europa aumenta la disponibilità di zucchero di canna e ancor
più quando si diffonde la lavorazione industriale dello zucchero di barbabietola: lo
zucchero si riduce di prezzo e il suo impiego in pasticceria aumenta. Da quel
momento l’arte dolciaria cessa di essere un privilegio di teste coronate e di famiglie
aristocratiche. Gli artigiani guardano oltre le frontiere, superano i confini,
diffondono idee e ricette in tutta Europa.
L’attività del pasticcere assume maggiore importanza anche in Italia e le botteghe di
pasticceria e confetteria si moltiplicano. In Piemonte gli artigiani dolciari sono
favoriti dal clima economico di Torino, sede della monarchia sabauda, dove molte
materie prime - tra cui zucchero, caffè e cacao - arrivano meno gravate da dazi
rispetto ad altri stati italiani. Tuttavia l’arte dolciaria resta a lungo entro limiti
modesti rispetto ad altre attività, sia per la richiesta relativamente bassa dei suoi
prodotti, sia per la grande varietà che non permette di sviluppare metodi di lavoro
più razionali.
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Si perfeziona la pasticceria di tipo corrente, dolciumi e biscotti più adatti alle nuove
condizioni sociali ed economiche, tanto da relegare i «gáteaux» al passato.
Acquistano popolarità le crostate, ma ancor più i pasticcini, che consentono di
scegliere fra tipi e sapori, soddisfacendo fantasia e gusti diversi, ma soprattutto
sono più piccoli e meno costosi di una torta, accessibili a tutte le borse.
La rivoluzione industriale, che investe anche il settore dolciario, favorisce il
diffondersi della biscotteria secca che conosce grande successo già sul finire
dell’800. Il benessere crescente, l’affermarsi di una nuova borghesia e l’aspirazione
a una vita più comoda e agiata, aumentano i consumi voluttuari. Così anche il
biscotto diventa genere quotidiano, presente e insostituibile presso ogni ceto
sociale. L’industrializzazione cambia molte cose, ma non la pasticceria; nonostante
l’alternarsi di mode e di consumi, essa non tramonta e non teme concorrenti.
Il campionario dei dolci piemontesi è ricco di nomi, di richiami al pittoresco
mondo di una volta. Nomi che ricordano quelli delle filastrocche, “brutti e buoni”,
“ossa da mordere”, “ossa di morto”, oppure evocano figure reali e simboliche, le
“côpëtte”, i “baci di dama”, i “pet ‘d madama”, o le “ciape ‘d nona”.
Nell’800 dalla provincia di Torino si inviano alcune centinaia di emine di
nocciole a Torino e in certe annate se ne spediscono anche a Lione, Digione e
Parigi dove i confettieri ne fanno grande uso per la fabbricazione degli zuccherini.
[cfr. G. Casalis, Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S.M. il Re di
Sardegna, Torino, 1848, sub vocem Saluzzo].
Con il tempo le nocciole, intere o in pasta, sono sempre più spesso impiegate
nella preparazione di biscotti, torte, amaretti, nocciolini, ossa da mordere, spumette,
ma anche di dragèes, praline, nougatines, fino alla confezione di vari tipi di
cioccolato e cioccolatini.
Gli amaretti, così chiamati per il loro gusto amaro, che deriva dalle mandorle,
sono di origine antica; forse già noti ai Romani, dimenticati nel Rinascimento e
riscoperti all’inizio del XIX secolo, sia pure modificati nella ricetta e nella forma.
Gli “amaret” fatti con mandorle, ma anche con nocciole, variano nel nome e nella
ricetta a seconda dei luoghi: a Ivrea si trovano gli “eporediesi al cacao”, a Garessio i
“garessini” e a Omegna le “reginette”, piccoli amaretti accoppiati e legati da un
impasto di noccioline tritate e cioccolato. Anche a Cavagnolo, gli amaretti, larghi
poco più di tre centimetri, si presentano in coppia separati da uno strato di
cioccolato: sono conosciuti come “cavagnolesi”. Infine a Chivasso vi sono i
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“nocciolini” (”noasetti”); sono poco più grossi di un’unghia e vengono fatti con
nocciole tostate, albume e zucchero.
All’Ottocento datano anche altri dolci, frutto di modifiche o perfezionamenti
di dolci più antichi, come il caso dei Sangiorgini di Piossasco, che rappresentano
una delle tante varianti delle paste ‘d melia.
Anche moltissime delle più prestigiose pasticcerie della città di Torino
nascono nell’Ottecento o ai primi anni del Novecento. Ne sarebbero degne di
citazione moltissime; ci limiteremo a ricordare alcune delle più note: Stratta, Baratti,
Platti, Falchero, Giordano, Avvignano, Dezzutto, Sida, Rampini, Della Ferrera e
Pfatisch-Peyrano, che con la raffinata qualità dei loro prodotti contribuiscono a
mantenere alto il prestigio della tradizione dolciaria di Torino.
I Sangiorgini di Piossasco.
I Sangiorgini, prodotto tipico del comune di Piossasco, sono biscotti
secchi di media pezzatura, la cui composizione è quella classica della
tradizionale pasta ‘d melia, ma con la particolarità dell’uvetta che li
rende meno asciutti e con la caratteristica forma ricurva come il
profilo di una montagna.
Gli ingredienti sono: farina di mais, zucchero, margarina vegetale,
uova, aromi naturali, polvere lievitante, uva sultanina.
La produzione è tipicamente artigianale da parte di alcune panetterie
che provvedono alla vendita al dettaglio.
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Presente già nella seconda metà dell’Ottocento, il dolce, frutto di una
ricetta della cucina povera, venne elevato alla dignità della tavola
signorile dal fine gusto di intenditrice della mamma della signora Adele
Boneschi Valvassori, una vera e propria istituzione in Piossasco.
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Ritornò al popolo tra gli anni ‘40 e ’50, grazie alle sapienti mani del
panettiere e pasticciere Emilio Lanza, che ne valorizzò il sapore e la
fragranza.
Gli anni del boom economico e della forte immigrazione lo fecero
cadere nell’oblio, fino alla sua completa riabilitazione agli inizi degli
anni ’90 dovuta a Pro Loco e Commercianti che, in onore del Monte
San Giorgio che protegge l’abitato dai venti e dal freddo, gli diedero il
nome di Sangiorgini.
I Nocciolini Di Chivasso
I Nocciolini sono un dolce tipico di Chivasso, la cui origine si può far
risalire agli anni intorno al 1810 per opera del maestro Giovanni
Podio. Ma colui che ebbe una parte determinante nella valorizzazione
e la diffusione su larga scala di questa tipica specialità, fu suo genero il
cav. Ernesto Nazzaro, con la sua prestigiosa pasticceria cittadina.
Il Nazzaro aveva partecipato con i Nocciolini ad importanti mostre e
manifestazioni, meritando sempre ed ovunque vasti consensi, per la
qualità e la bontà del prodotto. Fra i tanti attestati merita ricordare un
attestato d’onore rilasciato per la sua partecipazione all’Esposizione di
Parigi del 1900 nonché quello non meno importante relativo
all’Esposizione di Torino del 1911, ben in vista il brevetto con il
relativo marchio di fabbrica dei nocciolini; chiamati allora Noisettes,
rilasciato dal Ministero del Commercio del Regno d’Italia datato 1904.
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Il riconoscimento più ambito fu il permesso di ornare i contenitori dei
Nocciolini dello stemma Reale in quanto fornitore della Real Casa di
Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III e delle LL.AA. i Duchi di
Genova.
Fino agli Anni Trenta il tipico prodotto chivassese veniva denominato
Noisettes, ma la proibizione fascista di uso di nomi stranieri o che
potessero apparire tali, trasformò le Noisettes in Nocciolini.
Questa in sintesi è la storia di questa tipica specialità dolciaria. Per
quanto riguarda invece la composizione e la forma di questo nostro
prezioso prodotto, i titolari delle quattro pasticcerie
- site nella
centralissima via Torino, ed unici produttori artigianali dei nocciolini hanno mantenuto nel tempo la ricetta tradizionale, e le sue
componenti
sono
solo
tre
ingredienti:
Nocciole
Piemonte,
naturalmente sgusciate e tostate al punto giusto, zucchero ed albume
d’uovo.
I tre ingredienti vengono opportunamente raffinati ed impastati, fino a
portare l’impasto a densità colante, per poter colare, in appositi fogli di
carta paglia speciale, tante piccole goccioline, che devono essere
lasciate asciugare per circa 15 o 20 minuti e poi passati in forno per la
debita cottura. A cottura ultimata i Nocciolini vengono poi
confezionati in appositi sacchetti del colore rosa o celeste a seconda
della preferenza del produttore. Va fatto rilevare che i nocciolini sono
igroscopici e pertanto soggetti a deterioramento, quindi vanno
conservati sempre chiusi nei loro contenitori.
Da oltre 15 anni un noto pasticcere chivassese si è anche specializzato
nella produzione di nocciolini su scala industriale ed ha trovato un suo
interessante spazio di mercato, facendo dei Nocciolini un simbolo di
Chivasso.
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3.2.9 La diffusione dei dolci.
Pranzi dei ricchi a parte, fino a non molti decenni or sono, in Piemonte il
consumo di dolci è comunque rimasto prerogativa quasi esclusiva delle grandi
occasioni: Natale, Capodanno, Pasqua, persino Quaresima, feste patronali,
anniversari, compleanni, battesimi, matrimoni. A volte anche funerali: le ossa di
morto, che tuttora si producono in certi comuni, altro non sono che un dolce, a
base di bianco d’uova e zucchero, che veniva distribuito originariamente fra i
convenuti a un funerale come forma di ringraziamento per aver partecipato al
dolore della famiglia.
Il Piemonte è tuttora ricco di paesi nei quali certi dolci vengono preparati
esclusivamente in particolari occasioni. E in realtà ancora oggi l’arrivo sulla tavola
di casa di una torta è quasi sempre fatto eccezionale.
Fino all’ultima guerra - e persino negli anni successivi - anche nelle famiglie
benestanti il consumo di dolci e dolciumi era limitato ai giorni di festa, alle grandi
ricorrenze religiose o di famiglia, oppure era considerato una sorta di premio.
Più lento ancora è stato il processo di diffusione del dolce - e dello zucchero
in particolare - nelle campagne. Il contenuto della zuccheriera era tenuto sotto
chiave nella credenza, lo zucchero, essendo centellinato, riservato ai malati o agli
ospiti. E ancor oggi in un cascinale può capitare dì vedersi offrire una tazza di caffè
e sentirsi dire dalla padrona di casa che porge lo zucchero “Ne prenda, ne prenda.”
L’insistenza dell’offerta non è ostentazione di ricchezza, bensì dimostrazione di
rispetto per l’ospite per il quale non si vuol lesinare lo zucchero, che nella memoria
ancestrale rimane fra le cose più preziose e costose che si potevano avere in casa.
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Soltanto nella recentissima attuale epoca di benessere diffuso, il consumo dei
dolci si è esteso, ha rotto i vincoli di tradizione e costume ed è entrato nelle
abitudini alimentari quotidiane, conseguenza di un generale miglioramento delle
condizioni di vita, di una cresciuta disponibilità di prodotto, di un cambiamento
radicale di mentalità, supportati da una produzione - prima artigianale poi
industriale - sempre più attiva e creativa.
3.2.10
I dolci del focolare nella tradizione torinese.
Sono numerosissimi i dolci inventati dalla creatività di qualche anonimo
cultore del buon mangiare nella discrezione del proprio focolare, facendo di parenti
ed amici le cavie, spesso inconsapevoli, su cui testare gli esiti delle proprie fatiche.
Fatiche che spesso, se ben riuscite, valicavano le pareti domestiche per diffondersi
tra il parentado e tra i compaesani, raramente oltrepassando confini comunali.
Potremmo assumere a prototipi di tutta quest’imponente stirpe di dolci, il
Bonèt, che si è ormai guadagnato un posto stabile nei menù di moltissimi ristoratori
non solo piemontesi, e la Turta ad pum d’la Festa d’Argnan, la Torta di mele della
festa di Arignano, che non solo non travalica i confini comunali, ma la si prepara
esclusivamente in ben determinate ricorrenze.
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Il Bonèt.
Il Bonèt, un tipico e tradizionale dolce piemontese al cucchiaio, è un
budino, cotto a bagnomaria e generalmente servito freddo, a base di
latte, uova, amaretti, zucchero e cacao.
Sull’origine del nome «bonèt» (che in piemontese significa berretto,
copricapo) esistono due correnti di pensiero. La prima sostiene che il
Bonèt debba il suo nome alla forma dello stampo di rame o di
alluminio in cui tradizionalmente viene cotto, forma che ricorda
vagamente quella d’un berretto; la seconda ritiene che - consumandosi
come ultima portata prima di alzarsi da tavola -
sia stato così
chiamato per la similitudine con il cappello che si è soliti indossare
come ultima cosa, prima di uscire di casa.
Secondo il Dizionario piemontese-italiano di Vittorio di Sant’Albino
(1859), la spiegazione verrebbe invece dal fatto che bonet ‘d cusin-a,
cappello da cucina, è il nome di una «forma o vaso di rame, imitante
alla grossa un berretto, nel quale si fanno cuocere pasticci o altro».
Il Bonèt, nato come dolce tipicamente invernale, si trova attualmente
in tutte le stagioni e con molta frequenza nelle carte dei migliori
ristoranti piemontesi.
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La Turta ad Pum d’la Festa d’Argnan
(La Torta di Mele della Festa di Arignano)
La Turta ad pum d’la festa d’Argnan è una torta di mele casalinga
ancor oggi preparata secondo un’antica ricetta dalle donne di
Arignano in occasione della Festa del paese (terza domenica di
Settembre) e della Sagra d’autunno (ultima domenica di Ottobre).
La preparazione delle torta inizia scegliendo delle mele rosse di
vecchie varietà locali (collettivamente denominate Pum d’la Turta) e
delle pere Martin sec, le quali vengono sbucciate, grattugiate e poste a
cuocere a fuoco lento, rimestando continuamente fintanto che il
composto non presenti la giusta densità. A questo punto si toglie dal
fuoco, si aggiungono nocciole tritate (linsori pistà), amaretti sbriciolati
(amereti sbrisà), cacao amaro (puer ad ciculata) e zucchero (sucher). Si
amalgama il tutto e lo si dispone in una sietta (tortiera in terracotta
smaltata di forma rotonda) precedentemente imburrata. Si pone in
forno, possibilmente i vecchi forni a legna utilizzati per il pane, e si fa
cuocere sin tanto che non si forma una leggera crosta dorata.
Un tempo si utilizzava, al posto delle nocciole, la mandura, ossia la
mandorla interna al nocciolo delle pesche, che venivano conservate ed
essiccate apposta per quest’uso.
Secondo fonti orali, la tradizione della Torta è antichissima ed è nata
con la nascita della Festa del paese.
La ricetta si tramanda di
generazione in generazione.
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3.3 Il Cioccolato.
3.3.1
La storia.
Nel lungo elenco delle cose dolci a Torino fin dal secolo scorso primeggia il
cioccolato, definito tecnicamente come “miscuglio di cacao torrefatto e zucchero
ben raffinati e mescolati a temperatura conveniente”.
Il cacao è ricavato dai semi della Theobroma cacao, pianta originaria
dell’America tropicale e ora ampiamente coltivata anche in Africa; era già
conosciuto dagli Aztechi che lo consumavano come alimento in bevanda con il
nome xocolati. Compare in Europa nel XVI secolo, importato attraverso la Spagna
da Ferdinando Cortès e viene servito come bevanda.
La pianta di cacao è un albero alto 8-10 metri, ha foglie grandi lanceolate e
fiori gialli o rossastri. Fruttifica dai 4 ai 50 anni circa e la raccolta viene effettuata
mediamente due volte l'anno. Il frutto (le cabosse) è ovoidale e brunastro, è lungo
12-25 cm. e contiene una polpa nella quale si trovano alcune decine di semi lunghi
15-20 mm., larghi 10-20 e spessi 4-10, disposti in 5 file. Questi semi vengono
liberati dalla polpa, fatti fermentare ed essiccare, infine torrefatti e macinati.
Il prodotto più famoso ottenuto dal cacao miscelato con zucchero è, come
già detto, il cioccolato in forma solida (fondente). Questo è nato a Torino per opera
del torinese Doret, che ideò una macchina atta a lavorare e raffinare la pasta di
cacao.
Nei primi anni dell’Ottocento, venne a Torino per imparare i segreti dell’arte
(contrariamente a quanto generalmente si pensa) lo svizzero Cailler, il quale
ritornato in Svizzera diede origine alla produzione del loro rinomato cioccolato al
latte.
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Un buon cioccolato (come del resto un buon caffè) è fatto con una sapiente
miscela di tipi di cacao.
La rapida e grande diffusione del cioccolato in Europa - sia come bevanda,
sia poi sotto l’aspetto di tavolette e cioccolatini - è probabilmente dovuta,
paradossalmente, alla severità dei digiuni che la Chiesa imponeva in quei secoli.
Non appena si cominciò a conoscerlo, infatti, ci si pose subito il problema se un
bicchiere di cioccolata rompesse o no il digiuno. La regola stabilita da papa Pio V
stabiliva che liquida non frangunt jenjunum (i liquidi non interrompono il digiuno), ma
evidentemente si pensava soprattutto all’acqua, alle tisane, forse anche al vino. Ma
la cioccolata era da considerarsi un liquido?
La prima risposta delle autorità religiose fu negativa: la bevanda venuta
dall’America era proibita durante la Quaresima, al venerdì, e durante i molti altri
giorni di vigilia stabiliti; nei periodi di massima austerità la regola dei digiuno (totale
o parziale) doveva essere seguita per quasi la metà dei giorni dell’anno. Ma. per
fortuna, anche i prelati sono golosi: il cardinale napoletano Lorenzo Brancaccio,
facendo sfoggio di bravura dialettica, riuscì a dimostrare che - anche se soltanto per
accidens - la cioccolata era pur sempre una bevanda, e in quanto tale non doveva
essere proibita in Quaresima e nei giorni di vigilia.
La cioccolata entrò così
trionfante negli usi comuni e persino in sacrestia.
Torino è tuttora una delle capitali mondiali dei cioccolato. Perché lo sia, è
storia antica. La leggenda vuole che fosse particolarmente ghiotto della nuova
bevanda a base di cioccolato il duca Emanuele Fíliberto di Savoia, comandante
delle armate imperiali, che la conobbe durante un soggiorno in Spagna. Violando i
divieti di esportazione, lo stesso Emanuele Filiberto - racconta la tradizione
torinese - trafugò e nascose nei propri bagagli, una certa quantità di fave di cacao,
portandole in Piemonte, dove andava a prendere finalmente possesso degli stati che
gli erano stati riconsegnati dopo aver combattuto e vinto per Carlo V a San
Quintino e dopo la pace Cateau Cambrèsis del 1559. Il duca affidò probabilmente
quel poco cacao ai suoi cuochi o pasticceri, che seppero trarne mirabilia. Per
questo Torino e provincia sono tuttora la capitale del cioccolato.
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Il cacao probabilmente venne finalmente importato legalmente in Italia e a Torino
(si parla del 1606) dal mercante e viaggiatore fiorentino Francesco Carletti, che
riuscì a rompere il monopolio spagnolo e a commercializzarlo anche a Firenze e
soprattutto a Venezia.
Già nel 1555, comunque, Nostradamus - che era medico, abitò a Torino e scrisse
misteriosi versi nei quali sarebbero nascoste sorprendenti profezie - pubblicò un
trattato sul cioccolato. E fin dal Seicento si trova memoria a Torino della nascita di
aziende per la fabbricazione e la vendita del cioccolato. È del 1678 una Patente, a
firma di Madama Reale Giovanna Battista che dice: «Avendoci Giò Antonio Ari
fatto supplicare di concedergli il privileggio di vendere pubblicamente la cicolata in
bevanda nella presente Città per anni sei prossimi dalla data della presente, abbiamo
accondisceso volentieri alla sua domanda, per esserne lui il Primo introduttore.».
Madama Reale non parla ancora di cioccolato solido, bensì di cicolata in bevanda.
Pochi anni prima, nel 1659, con autorizzazione dei Re Sole era stata aperta a Parigi
da un certo David Chaillon (o Chalion) una bottega all’insegna della Croix du Tiroir
dove vendeva une certaine composition qui se nomme chocolat, faite en liqueur ou en pastille
(una composizione di cioccolato fatta in liquore o in pastiglie).
A Torino, verso la fine del Seicento, si producevano 750 libbre al giorno di
cicolata - come la chiamano ancora i Piemontesi nel loro dialetto. Se ne esportava
anche in Austria, Svizzera, Germania e Francia.
I primi venditori e fabbricanti, legati agli ambienti delle corti, nascono nella metà
del '600; secondo i cronisti, a Parigi sono «distillateurs marchands de liquers»,
mentre nella Torino antica vengono chiamati in franco-piemontese «limonadier» e
altro non sono che acquavitari e sorbettieri, di cui esiste menzione fin dal 1628 in
un regio decreto che fissa «un diritto di pagarsi dai fabbricanti d’ogni sorta
d’acquavite, all’Ospedale maggiore della Sacra Religione dei Santi Maurizio e
Lazzaro e a beneficio de poveri». Dagli acquavitari, che pure anticamente facevano
parte della corporazione degli speziali, avrà origine, per specializzazione, la figura
del «caffettiere».
Fino al 1848 il caffettiere viene chiamato «acquavitàr» e anche negli atti pubblici di
quei tempi si trova solo menzione degli acquavitari che servono nelle loro botteghe
anche il caffè così come i caffettieri servono rosoli. acquavite e sorbetti.
La cioccolata incomincia a essere distribuita nelle botteghe di Torino a
partire dal 1680; in principio si tratta di una bevanda di gusto pessimo, in quanto i
«limonadier» badano di più ai costi che non alla qualità del prodotto. Sono pochi
quelli che fabbricano la cosiddetto «cioccolata della sanità», aromatizzata con
cannella e così chiamata per distinguerla da altre qualità ottenute miscelando
droghe, farine e chissà quali altri intrugli. La si ottiene dal cacao puro e, come
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prescrive una ricetta del tempo, «ajountes un peu de sucre & méme un peu de
cannelle & celà s'appellerà chocolat de Santé».
Per fabbricare la «cioccolata di Torino» una ricetta del tempo consiglia di utilizzare come ingredienti: «Cacao
maragnano 3 kg., cacao caracca 4 kg., zucchero 3 kg., cannella 90 grammi, si fanno anche delle cioccolate santè
ed alla vaniglia col cacao delle isole, zucchero brutto secco e farine o fecole, o zucchero della Martínica e
vaniglia».
Per un certo periodo a Torino vengono introdotte regole tali per cui l’attività dei
caffettieri è mantenuta distinta da quella degli acquavitari e dei fabbricanti di
cioccolata; questi ultimi possono produrre ma non vendere al pubblico le loro
merci, mentre i caffettieri devono limitarsi a servire «il caffè, il cioccolatte e le
decozioni calde, i rinfreschi freddi o in ghiaccio».
Il cioccolato, dunque, era ancora soprattutto una bevanda, mescolata con
caffè, latte e zucchero, entrata nelle abitudini delle famiglie ricche: si consumava al
mattino, come petit-dejeuner e veniva chiamata bavareisa (da bevarina).
Quando si diffondono i locali pubblici, nei primi anni dell’Ottocento, questo
curioso miscuglio liquido verrà servito bollente in un bicchiere con supporto e
manico in metallo e tutto prese il nome di bicerin, cioè “piccolo bicchiere”.
Agli inizi dell’800 secolo insieme allo sviluppo delle piantagioni di cacao nel
mondo, 1'industria cioccolatiera si organizza e si perfeziona nei diversi paesi, ma in
Piemonte già sul finire del `700 si incomincia a sfruttare industrialmente il cacao.
Non si ancora arrivati alla preparazione che noi oggi intendiamo con il
termine di cioccolato e cioè a una miscela più o meno compatta e consistente di
cacao in polvere, zucchero ed eventuali sostanze aromatiche. L'esperienza torinese
è determinante per la messa a punto di quelle lavorazioni che permettono di
solidificare il cioccolato, per arrivare poi alla tavoletta e al cioccolatino: a Torino
vengono da tutta Europa per perfezionare e approfondire quest'arte.
La storia della produzione dolciaria segue le tappe dell’evoluzione
industriale: la meccanizzazione aumenta la produttività e al tempo stesso riduce i
costi. A Torino il primo passo importante lo compie la ditta Caffarel sullo scorcio
del `700: apre il suo primo stabilimento in regione Valdocco, fuori Porta
Susa, sulle rive del canale Pellerina della Dora Riparia dove, giorno e notte,
l'acqua aziona le pale di una ruota idraulica, fornendo l'unica energia disponibile in
quei tempi. Uno dei primi macchinari per la fabbricazione del cioccolato, una
specie di mescolatore, viene ideato intorno al 1802 dal genovese Bozelli, non è che
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l'applicazione del frantoio delle olive alla lavorazione del cioccolato; un progetto
semplice, ma al quale fino allora nessuno aveva pensato. Agli albori dell'industria
questa innovazione pare rivoluzionaria e per diverso tempo suscita la curiosità dei
torinesi: si possono produrre fine a 700 libre di cioccolato al giorno (circa 350 kg).
Poco tempo dopo, la Caffarel acquista un'altra macchina idraulica, inventata
dal piemontese Doret per raffinare la pasta di cacao e mescolare lo zucchero e la
vaniglia, operazione fino allora eseguita manualmente.
Nel 1826 l'antica ditta Caffarel Padre e Figlio si fonde con la Prochet Gay &
C. dando vita alla Caffarel Prochet, a quei tempi la ditta tecnologicamente meglio
attrezzata. Come ricordano giornali dell'epoca la produzione è cosi elevata che
quando il vento soffia dalla Val di Susa il profumo del cacao investe le prime case
di via Dora Grossa (l'attuale via Garibaldi) e richiama i ragazzini a frotte.
Caffarel e Prochet si possono considerare gli industriali torinesi del
cioccolato della prima generazione, eredi di un'antica tradizione collegata alle
migrazioni valdesi dalla Francia. Non vi è dubbio che anche il glorioso rimpatrio
dei valdesi - come venne definito il ritorno degli esuli di Francia dopo l'editto di
tolleranza del Piemonte - abbia influito sull'incremento della produzione di
cioccolato.
Grazie alle esperienze di questi pionieri dell'industria si diffondono e si
perfezionano le tecniche per ottenere il cioccolato dalle fave di cacao. Le principali
fasi della lavorazione - tostatura, miscelazione, raffinazione e concaggio - da
manuali diventano meccaniche.
Messo a punto il sistema per solidificare la cioccolata il passo per ottenere i
primi cioccolatini è breve.
Il Bicerin.
Nell’800 la cioccolata in bevanda incomincia a essere mescolata dando origine un
po' ovunque in Italia al «mischio», che a Torino prende il nome di «bicerin»,
diventando subito, a partire dal 1840, la consumazione torinese caratteristica del
mattino. Frutto dell’inventiva dei caffettieri dell’epoca, che mescolano latte, caffè e
cioccolata dolcificando con sciroppo, è servita in bicchieri di vetro (da qui il
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termine bicerin). L’idea del manico metallico da applicare al bicchiere per non
scottarsi le dita viene attribuita a un oste torinese della contrada Doragrossa, un
certo Calosso.
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La madre del celebre «bicerin» è la «bavareisa» o «bavarese», già in uso
nel XV secolo a Torino: una bevanda composta anch’essa di latte,
caffè e cioccolata, servita, a differenza del bicerin, già mescolata e
dolcificata con sciroppo. Nel bicerin invece i tre componenti sono
serviti a volontà separatamente e sempre molto caldi.
La nuova bevanda si diffonde subito presso le prime botteghe del caffè; locali che
diventano ben presto di moda, trasformandosi in «caffè» per antonomasia, luoghi di
incontro del bel mondo sfaccendato e di quello politicamente impegnato.
In un’epoca in cui alle signore per bene non è permesso frequentare i caffè, il
bicerin consente loro di fare uno strappo alla regola. Dai caffè più eleganti di
Torino - come il San Carlo, il Fiorio, il Diley, il Nazionale, la Borsa - ai più
frequentati delle province piemontesi, le persone si fermano a bere il «bicerin», nelle
sue tre qualità: «pur e fiór», «pur e barba», «un pó ‘d tut». Se ordina «pur e fiór» il
cliente chiede un bicerin con caffè e latte mescolati tra loro; «pur e barba» se vuole
il caffè insieme alla cioccolata e infine se richiede «un pó ‘d tut» si aspetti la miscela
dei tre diversi ingredienti.
In un bicchiere a parte si serve la «stissa», goccia o supplemento, che può essere di
latte, caffè o cioccolata e in quest'ultimo caso costa più cara.
Ciononostante il prezzo del bicerin è sempre alla portata di tutti e la tariffa
comprende anche un «bagnato», un biscotto che s’intinge.
«Il bicchierino (misto di cioccolatte, latte e caffè) è la bibita prediletta della mattina:
ministri, magistrati, professori, negozianti, fattorini, cestaie, venditori e venditrici
ambulanti, campagnuoli ecc., tutti spendono volentieri i loro tre soldi per rifocillarsi
economicamente lo stomaco». (da G. Stefani - D. Mondo, Torino e i suoi dintorni.
Guida, Torino 1852, p.33).
Inizialmente il prezzo del bicerin con un bagnato è di mezza «môta»
(moneta che Vittorio Amedeo III aveva emesso a partire dal 1794).
Nella seconda metà dell’800 il prezzo è ovunque di 15 centesimi,
tariffa che resta in vigore fino al 5 dicembre 1913, quando il prezzo
viene portato a 20 centesimi.
La razione più abbondante del bicchierino - chiamata «tasson» (grossa
tazza) - costa 25 centesimi e dà diritto ad una maggiore dose di
sciroppo o di zucchero. Infine costano 5 centesimi i biscottini
supplementari che gli avventori abitualmente intingevano nel
bicchierino.
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Ce ne sono di quattordici specie, dolci squisiti dai nomi curiosi: «crocion», «torcèt»
(«giassà»,«granà» o «sfojà»), «tortílié», «savoiardina», «parisien», «foré», «briòss»,
«democràtich», «pupe d'minia», «picol 'd frà», «chìfel», «biciolan», «garibaldin» e
«michétte» di semola o al burro.
La golosità di alcuni avventori per questi dolci si spinge addirittura al limite della
voracità tanto da legare la loro figura alla storia dei dolci torinesi: «Circa le quantità
dei bagnati non vi è norma che nell’appetito e nella borsa dei consumatori, qualche
ventricolo privilegiato giunge a demolire una "cavagnetta" di dodici pani». Il caso
dell’avvocato Giacinto Benvenuti di San Giorgio Canavese, amante del bicchierino
e assiduo frequentatore del caffè San Carlo nelle ore notturne, del Cocito nel
pomeriggio e del Diley alla sera. Pare riuscisse a consumare fino a due «cavagnette»
di bagnati, cioè 24 «pani da caffè»! E tra un «crocion» e un «forè» trovava il tempo
per scrivere in simpatici versi: «Tempo verrà che io sarò Ministro / E mangiando
capponi / Farò trarre al capestro / Chi mai non m’ha pagato bicchierini».
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Per questa abitudine mattutina di consumare bicchierini, Torino viene chiamata
«bicerinopoli» e ai suoi abitanti - soprattutto ai più metodici - viene appioppato
l’aggettivo «bicerìn» oltre che «bógianen». Per decenni sulla primi pagina della
rivista «Il Birichin» sopravvive anche una rubrica intitolati «Bicerinopolitavanade» o
semplicemente «Bicerinopoli»; la sigla dell'articolista è in carattere con il titolo:
«Café, lait e cicolata».
Questa bevanda assume una celebrità quasi internazionale, quando
Dumas, venuto a Torino nell’agosto 1852, scrivendo a M. De Raude
ne parla con grande entusiasmo: «Tra le belle e buone cose notate a
Torino, non dimenticherò mai il “bicerin”, una specie di eccellente
bevanda composta di caffè, latte e cioccolata, che si serve in tutti i
caffè ad un prezzo relativamente basso.». (A.Dumas, Lettres à M. De
Raude, tratto da Torino e i Torinesi, A. Viriglio).
Oggi un celebre liquorificio torinese, sull’onda della recente riscoperta
del bicerin, ha messo in commercio un prodotto denominato appunto
“Bicerin”, publicizzato con lo slogan “il liquore di Torino”. Il Bicerin,
quello vero però, non era certo un liquore e neppure una semplice
bevanda: era molto, molto di più.
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3.3.2 I cioccolatini.
I "cicôlatè" miscelano cacao, zucchero e aromi ottenendo appetitosi "pan" e
“rolò”, pani e salami di cioccolato, e i celebri "diablotin `d cicôlata", che con l’andar
del tempo si affinano sempre più nel gusto e nella forma. Quei primitivi
"cioccolatini", battezzati "diablotin", sono delle pastiglie di cioccolato aromatizzato
o più propriamente “pezzetti di cioccolata in figura di rotella piana"(cfr. V. di
Sant’Albino, Gran dizionario, sub vocem Diablotin) che si mangiano crudi.
Qualcuno sostiene che l’origine del termine "diablotin" sia da attribuire
addirittura a Cagliostro (1743-1795), uomo dai mille mestieri; egli era solito
confezionare pillole e polpette ("croquettes") di cioccolato a cui attribuiva virtù
afrodisiache e rinnovatrici di gioventù, e pare che a Torino si sia improvvisato
cioccolatiere dando ai suoi cioccolatini questo nome franco-piemonte che significa
"diavolotti”.
La ricetta dei “diab1otin” consiglia innanzi tutto di prendere della buona
cioccolata e poi:
« Se è troppo secca, mettetela nella stufa, acciocchè divenga molle, indi rnettetevi un poco di
buon olio di olivo, per poterla ben maneggiare con il cucchiaro, poi pigliatene dei piccoli pezzi, e
rotonditeli, per farne palotte della grossezza di una nocciuola, e metteteli sopra un foglio di carta in
distanza uguale fra di esse di un buon pollice; quando il foglio è tutto occupato, pigliate il detto
foglio per le estremità, ed appoggiatelo da una parte sopra la tavola, e dall'altra scuotetelo per
appianare li diavoletti, ed acciocchè si ghiaccino da per se stessi; e se volete, potete agghiacciarli con
nompareilles bianche, e le pungerete tutte con confetti di cannella, poi li farete seccare nella stufa.»
(da “Il confetturiere piemontese”).
Anche i “diavoletti con pistacchi” vengono confezionati come i precedenti
manualmente, con la sola differenza che «metterete in cadun diavoletto un pistacchio intiero
nel mezzo, quello però mondato dalla sua pelle; poi ruotolerete li diavoletti tra le mani, per fargli
pigliare la forma di piccoIi olivi».
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All’inizio deII'800 compaiono i “givu”: cioccolatini grossi come ghiande,
ottenuti da una pasta di cacao tirata a mano e foggiata grossolanamente.
Tra i vari cioccolatini che hanno reso famosa Torino, citiamo il cioccolatino
alpino, il grappino, il Gianduiotto, il cremino Fiat, il bacio e le uova di cioccolata.
L’ Alpino.
La formula dell’alpino è stata creata nel 1922 ed il nome è stato scelto
con il suggerimento degli ufficiali degli Alpini, la cui caserma era
confinante con la sede dell’azienda dove venne inventato.
La produzione degli alpini nel torinese è documentata da atti sul
“brevetto per marchio d’impresa” rilasciato il 27 luglio 1935 e da
lettere di corrispondenza che provengono da tutta Italia e dall’estero
(New York, 7 gennaio 1937) e che testimoniano la richiesta di questi
cioccolatini già dal 1936.
L’alpino è un cioccolatino con ripieno di crema al liquore avvolto da un
pirottino di alluminio colore argento.
Il liquore è ottenuto da una miscela di aromi, la cui ricetta è segreta,
immessi in alcool buongusto di gradi 96°. La lavorazione consiste
nell’immettere in appositi stampi i pirottini di alluminio che, riempiti
di cioccolato gianduia, grondati e raffreddati, creano una sottile parete.
La crema al liquore, preparata separatamente, è immessa nei singoli
pirottini. Questi vengono nuovamente raffreddati ed induriti per
consentire la sovrapposizione dello stesso cioccolato utilizzato
all’inizio. La permanenza per circa 20 minuti in frigorifero consente di
dare la consistenza finale al cioccolatino. La conservazione è
condizionata ad una temperatura non superiore ai 20°C ed umidità
relativa massima del 50%, il limite è di circa 60 gg.
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Il Grappino.
Il nome e le caratteristiche del “Grappino” sono stati brevettati in data
1968, ma erano già prodotti dal 1962. In quell’anno, il proprietario
dell’azienda che oggi produce i cioccolatini cercò di abbinare la grappa
invecchiata di Chiaverano con il cioccolato e ne ottenne un ottimo
risultato: la conservazione è limitata a circa 4 mesi, rispettando le
condizioni di temperatura (max 20°C) e umidità relativa (max 50%).
La produzione dei grappini nel torinese è documentata da atti sul
“brevetto per marchio d’impresa” e da lettere di corrispondenza che
testimoniano la richiesta di questi cioccolatini già dal 1970.
Il grappino è un cioccolatino al liquore con ripieno liquido di grappa
invecchiata (classico prodotto Piemontese).
La lavorazione consiste nel preparare a caldo (110°C) il ripieno
(anima), composto di sciroppo di acqua e zucchero con l’aggiunta di
grappa invecchiata; il tutto è colato in alveoli di amido prestampato.
Raffreddandosi, la soluzione sovrassatura crea una cristallizzazione
esterna dello zucchero che congloba il distillato. Le “anime” sono
separate dall’amido e ricoperte di cioccolato, temperato; dopo una
permanenza di circa 15 minuti ad una temperatura di 13-14°C, il
cioccolatino finito viene incartato ed etichettato con alluminio e
fascette.
La produzione dei grappini avviene a Torino, mentre la grappa
proviene da Chiaverano, sul lago morenico omonimo della serra di
Ivrea.
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Il Gianduiotto.
Attorno alla metà dell’800 nasce il celebre Gianduiotto, il cioccolatino
a forma di spicchio, o barchetta rovesciata che dir si voglia, ottenuto
impastando cacao, zucchero e le famose nocciole "tonde e gentili” del
Piemonte, rinomate per la loro qualità fine e gustosa.
In un’epoca in cui non si conosce ancora il cioccolato al latte, la pasta
gianduia è considerata il miglior cioccolato esistente. Già da tempo si
fabbrica cioccolato alla nocciola, ma utilizzando nocciole a pezzetti
non tostate. L’idea di amalgamare al cioccolato le nocciole tostate e
tritate viene a Michele Prochet.
Alcuni cronisti sostengono che 1’invenzione della “pasta Gianduia” sia
nata da uno stato di necessità: Napoleone, con il blocco continentale,
aveva reso quasi impossibile ai confetturieri piemontesi il rifornimento
di cacao i cui prezzi nel frattempo erano saliti alle stelle. Così, per
continuare a produrre il cioccolato, gli ingegnosi subalpini avrebbero
pensato di unire al cacao un frutto di casa: le nocciole. Già nel 1852
Michele Prochet produce questa pasta di cioccolato e nocciole, ma
solo nel 1865 vengono messi in commercio i "Gianduia”,
popolarmente chiamati “gianduiotti”.
Il padrino di questo nuovo e geniale cioccolatino è proprio Gianduia,
la simpatica maschera piemontese. Nell’800 durante il carnevale a
Torino è consuetudine allestire una grande fiera e la gente accorre da
ogni parte del Regno. Finché dura il carnevale non è più il re, ma "Sua
Maestà Gianduia” a governare bonariamente la città con leggi e
decreti. È durante il carnevale che Gianduia ha modo di assaggiare i
già popolari cioccolatini e, constatatane di persona la squisitezza,
autorizza il produttore a chiamarli con il suo nome.
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" Noi Gianduja primo, unich e ver, acorduma a Monsù
Caffarel Prochet Gay costa pergamena economica perché
lippis et tonsoribus a sia notori che chiel a l'a ben merità a la
nosta Fera Fantastica del 1869.
- Dait dal Ciôchè d' San Giôan - Merco Scurôt 1869 ”.
Per molti aspetti il Gianduiotto è carico di significati allegorici legati al
carnevale. In una tradizione che ha per fulcro la cerimonia di
incoronazione del re della festa scelto fra il popolo, il gianduiotto
allude all’incoronazione di “Giôan dla Duja” come “re del carnevale”.
Il profilo del cioccolatino ricorda l’ala del cappello della popolare
maschera - come ebbe a osservare il celebre burattinaio Giovanni
Battista Sales. Simbolo di regalità invece la stagnola che lo ricopre, una
vera e propria novità per quei tempi: il gianduiotto è il primo
cioccolatino a essere incartato!
II suo successo si deve innanzi tutto alle sue qualità, ma anche alla
scelta felice con la quale la Caffarel agli inizi del secolo decide di
consolidarne il prodotto sul mercato. La sua fortuna commerciale
viene affidata a decine di maschere Gianduia che distribuiscono sorrisi
e cioccolatini accompagnandoli con inchini e spiritose battute.
Da allora il Gianduiotto è diventato e continua a essere ambasciatore
delle virtù dolciarie del Piemonte e ha mantenuto molte delle sue
caratteristiche di un tempo.
Il sapore è ottenuto da una corretta miscelazione di nocciole tostate,
zucchero e polvere di cacao; il suo colore bruno varia a seconda delle
rniscele di cacao utilizzate.
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Nelle attuali produzioni industriali il gianduiotto viene ottenuto con
una pasta di cioccolato più ricca di burro di cacao rispetto al passato
per facilitarne la lavorazione.
Il processo produttivo passa attraverso diverse fasi quali: miscelazione,
raffinazione, concaggio a secco degli ingredienti pasta di cacao, pasta
di nocciola e zucchero. A questo punto della lavorazione viene
aggiunto all’impasto il burro di cacao e la miscela subisce nuove
lavorazioni:
stoccaggio,
temperaggio,
colaggio
in
stampi,
raffreddamento, smodellaggio e incarto.
Il Cremino Fiat.
Molti si saranno chiesti se per Fiat si intende la celebre fabbrica
automobilistica e, se sì, quale nesso c’è con il cioccolato. Ecco svelato
il dilemma.
Nel 1911 la fabbrica di automobili Fiat indice un
concorso fra tutti i cioccolatieri italiani per l’invenzione di un nuovo
cioccolatino, da riservare in esclusiva alla Fiat che intende usarlo a
scopi pubblicitari. Vince il concorso un cremino a forma di cubo, con
quattro strati (invece dei soli tre) alternati di cioccolato e pasta di
mandorle ideato da Aldo Majani di Bologna. È un successo
travolgente, ma solo la Fiat può distribuire il nuovo cioccolatino. Solo
nel 1913 Majani ottiene il permesso di vendere il nuovo cremino a
condizione che mantenga il nome “Fiat”. Più tardi verrà brevettato il
tutto il mondo.
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Il Bacio.
Fu inventato dalla moglie di Francesco Buitoni, Luisa, nel 1922. Luisa
aveva notato, aiutando il marito in fabbrica, che durante la lavorazione
dei cioccolatini venivano buttati via chili di briciole di nocciole: un
vero peccato! Perché non recuperarli? Impastò questi frammenti di
nocciole con del cioccolato dando una forma un po’ strana che
ricordava un pugno chiuso, dove la nocca più sporgente era
rappresentata da una nocciola intera. Il cioccolatino era buonissimo ed
il marito le fece notare che sembrava proprio un cazzotto! Dopo solo
due mesi nella vetrina del negozio dei coniugi Buitoni apparvero i
nuovi cioccolatini: i Cazzotti Perugina. Fu un successo sia per la bontà
del prodotto sia per la forma e per l’inconsueto nome.
Più tardi però cominciarono a pensare che…non era tanto carino
entrare nel negozio e chiedere dei cazzotti o, peggio ancora, offrire dei
cazzotti alle ragazze, mentre sarebbe stato molto più accattivante e
romantico l’estremo opposto, cioè il bacio!
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Le Uova di Cioccolato.
L’usanza di scambiarsi uova fresche risale a più di 5000 anni fa,
quando i Persiani si scambiavano questo dono per dare il benvenuto
alla primavera, con tutta la simbologia che l’uovo ha sempre
rappresentato: simbolo della vita per gli Egizi, fecondità della terra per
i Greci, quintessenza dell’essere per i Fenici. Questa usanza divenne
ben presto simbolo religioso: in ambito cristiano si trova il paragone
fra Gesù, che risorge dalla tomba, ed il pulcino, che esce dal guscio.
Dopo quelle di gallina decorate, venne il turno delle uova-gioiello
inventate da Fabergé, orafo alla corte dei Romanoff, impreziosite da
smalti e pietre preziose incastonate. Durante il regno di Luigi XIV le
uova furono ricoperte di cioccolato. Un secolo dopo le uova di
cioccolato divennero il consueto dono per pasqua.
3.3.3 Le praline.
L’origine delle praline risale al 1671 come conseguenza di due “guai”
avvenuti nella cucina del duca Plessis-Praslin. Il nobiluomo stava attendendo il
dolce: un aiutante di cucina fa cadere in terra una piatto colmo di mandorle; mentre
il capocuoco rincorre il ragazzo per picchiarlo, inciampa e rovescia una casseruola
piena di zucchero caramellato, proprio sulle mandorle appena cadute. Il cuoco è
disperato, poiché non c’è tempo per fare un altro dolce ed allora … raccoglie
questo impasto di zucchero e mandorle, e dandogli una forma presentabile, lo porta
a tavola. Il nobile, noto buongustaio, rimane molto colpito dal nuovo dolce e
decide di dargli il proprio nome “Prasline”. In seguito, lo sbaglio fu perfezionato
ricoprendo piccole quantità di impasto con il cioccolato.
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I Dolci Orbassanesi
Gli Orbassanesi sono classiche praline di cioccolato fondente al liquore
di forma rotonda, di colore marrone scuro e pezzatura intorno ai 17
grammi. Gli ingredienti principali sono : zucchero, cioccolato
fondente, burro di cacao, rhum, uova, latte, aromi e vaniglie.
La preparazione consiste nella lavorazione della crema al rhum con
latte, uova e zucchero, pastorizzata, e colata in cialde di albume o in
stampini. Le meringhe così ottenute sono ricoperte con cioccolato
extra fondente fuso, per formare la pellicola di rivestimento, e lasciate
raffreddare a temperatura ambiente od in frigorifero. Il tempo di
preparazione delle praline richiede l’impegno di un giorno per ottenere
il prodotto finito.
Gli Orbassanesi così ottenuti sono avvolti singolarmente in carte
alimentari e con veline trasparenti prestampate. Si possono conservare
a temperatura ambiente anche per circa 60 giorni, ma in genere sono
prodotti in quantità tali da essere venduti nel giro di qualche giorno.
Le praline sono in genere vendute sfuse a peso, ma è prevista la
possibilità di confezionarli in scatole come i comuni cioccolatini.
La produzione è tipicamente artigianale, da parte dei laboratori e
negozi di pasticceria che provvedono alla vendita al dettaglio, ed è
circoscritta al comune di Orbassano. Storicamente il merito della
scoperta dell’arte della pralineria è attribuito ai cioccolatieri torinesi
che per primi lavorarono il cioccolato in Europa. In seguito il mestiere
si diffuse un po’ ovunque, e localmente si attribuirono i nomi alle varie
praline prodotte. La tradizione del prodotto in questione risale a 35
anni fa, documentata dalle testimonianze orali di un pasticcere
interessato alla produzione della pralina, che ha ricevuto in eredità
l’arte dai genitori.
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4. LIQUORI E DISTILLATI.
4.1 Un po’ di storia.
Già il fatto che la prima citazione sulla produzione di acquavite in Piemonte
sia datata 1443 e riguardi il dazio, la dice lunga sulla significatività della sua
produzione fin da quell'epoca e sul prezioso contributo che ha sempre dato alle
casse dello Stato.
Ma non da meno consente una più facile interpretazione delle
caratteristiche salienti dei distillatori, rende più facile la comprensione del fatalismo,
della pazienza e dell'individualismo che li contraddistingue. In fondo, da secoli, si
trovano a lavorare a mezzadria con i governi che si sono succeduti, hanno dovuto
imparare a essere scaltri e riservati per sopravvivere, onesti per non finire nei guai,
pazienti e caparbi per non cedere alla tentazione di cambiare mestiere. Trattati come banditi dagli esattori, inquinatori dagli ambientalisti e attentatori della salute
pubblica dagli alcolisti, che cosa ha dato - e dà - loro la forza per continuare?
L'amore per l’alambicco e, soprattutto, in questi ultimi tempi, l’affezione del
consumatore italiano e estero per l’acquavite che producono, unica e irripetibile
come il carattere dei lambiccari.
In Piemonte il grappaiolo del XV secolo aveva già a disposizione Barbera,
Moscato e Nebbiolo, che ancora oggi sono tra i vitigni più rappresentativi della
nobile acquavite subalpina, ma operava con gli alambicchi dell’epoca, costituti da
una caldaia riscaldata a fuoco diretto, che il più delle volte non superava i cento litri
di capacità e, non di rado, era dotata solo di un elemento di condensazione dei
vapori formato da una canna immersa in un barile d’acqua.
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Comunque sia, secondo il Fritsch, nel XV secolo Torino è maestra in
Europa nella preparazione dei liquori. C’è dunque da chiedersi come mai abbia poi
rapidamente perso tale primato. Un’idea di quello che può essere successo ci viene
data dai 39 provvedimenti normativi che vengono emanati tra il 1627 e il 1797: quasi tutti sono tendenti a rimpinguare il più possibile le casse dello Stato attraverso
l’acquavite, anche favorendo la delazione, consentendo il porto d’armi agli accensatori e imponendo pratiche burocratiche certosine. È ovvio che in un tale contesto il
rifugio nella clandestinità diventava per molti obbligato e, in simili condizioni, è
difficile pensare alla nascita di grandi aziende e a una forte innovazione tecnologica.
Nonostante i secoli successivi non siano stati migliori sotto il profilo fiscale, i
Piemontesi hanno portato avanti con caparbietà il perfezionamento delle tecniche
inerenti la produzione delle acqueviti e dei liquori. Tra tutti va ricordato
l’apparecchio dei fratelli Stemmer di Torino, che consentiva la distillazione in
continuo della vinaccia un secolo prima che il disalcolatore entrasse di prepotenza
nel settore. Non di minore interesse è stato l’alambicco Rocco (1870 circa), che
funzionava a vapore e consentiva un’agile estrazione del cremortartaro, e
l’innovazione condotta con l’arrivo alla Stazione Sperimentale di Asti del Comboni
(1900-1905) e quindi delle nuove teorie sulla distillazione a vinacce emerse. Non si
è certi che sia figlio di queste I’alambicco a bagnomaria di stile piemontese, ma
sicuramente è ancora oggi uno di quelli che meglio si prestano a trattare in modo
delicato vinaccia umida, ma non grondante.
Nonostante le innovazioni - ben divulgate anche dal concorso che si tenne
ad Alba nel 1884 - nei primi lustri del 1900 ferve ancora la distillazione a tassa
giornaliera, con migliaia di piccoli apparecchi di stampo rinascimentale che operano
nelle vallate intorno a Torino.
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Accanto ai dolci e ai confetti, si allineavano sulla credenza i liquori da tavola,
vanto della spezieria italiana da cui discende la liquoreria moderna: sono ottenuti
per distillazione, per infusione, oppure per infusione e distillazione, utilizzando
succhi depurati di frutti e di certe piante aromatiche.
Dagli acquavitari e dagli stessi confettieri della Torino antica discende tutta
una tradizione di liquori da tavola - rosoli, ratafià, elisir - che nel passato hanno reso
famosa la città, dando origine, già nel '700, all’industria locale e a un commercio
anche al di fuori degli stati del regno sabaudo.
Essi vengono tenuti in grande considerazione dai viaggiatori che si trovano a
transitare nel capoluogo subalpino: il conte De Merode Westerlo nel 1693 dichiara
«squisitissimo il ratafià di Torino»; nel 1725 il barone Carlo di Poolnitz trova
«famosi il suo rosolio ed i suoi liquori»; monsignor Salmon (1751) conferma nel suo
Stato presente di tutti i popoli la qualità degli «eccellenti rosoli e dei liquori torinesi»,
così apprezzati da essere spesso oggetto di scambio e di cortesie fra la casa sabauda
e varie corti straniere, principi e potenti dell’epoca. La stessa origine storica del
vermouth viene fatta risalire a una variante dell’antico rosolio di Torino, a base di
vino aromatizzato, già celebrato nel XVII secolo.
Ancora oggi con questi liquori da tavola si «bagnano» torte e pandispagna, si
profumano una buona parte della pasticceria mignon e vari tipi di frutta; si
preparano centri di fondant e di praline.
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4.2 Il Vermouth.
Il termine “vermouth” secondo alcuni deriverebbe da una parola di origine
tedesca, che significa “assenzio, amaro”, secondo altri invece da “Veran" (sollevare)
e da “Muth” (che in linguaggio teutonico antico significa “spirito”): quindi
“sollevare lo spirito".
Il vermouth è industrialmente un’invenzione piemontese, anzi torinese, della
seconda metà del Settecento, ma certamente una bevanda analoga esisteva già da
tempo.
Il primo cenno a una specie di aperitivo che assomiglia al nostro vermouth si
trova nel IV Canto dell’Odissea, quando la regina Elena, nella reggia di Sparta, offre
al marito Menelao e a Telemaco (figlio di Ulisse) una specie di cocktail ottenuto
aggiungendo al vino un infuso di erbe egiziane. “Chi lo beveva - dice Omero lasciava passare il giorno senza versare una lacrima, anche se gli fossero morti il
padre e la madre.”.
Secondo Nino Bazzetta de Vemenia, autore di uno studio sui “Caffè storici
d’Italia” fu addirittura Dante Alighieri “a segnalare gli elementi per la fabbricazione
del vermouth”. Infatti « il poeta fa dire a Forese che la sua consorte Nella lo ha
condotto a ber lo dolce assenzio dei martin e parlando della Fenice, simbolo
dell’eterno rinnovamento umano, dice: Così per li gran savi si confessa / che la
Fenice muore e poi rinasce, / quando al cinquantesimo anno appressa; / erba né
biada in sua vita non pasce, / ma sol d'incenso, lagrime ed ammonio; / e nardo e
mirra son l’ultime fasce.». Questa curiosa tesi di Dante, secondo il quale la Fenice
per risorgere beve qualcosa di simile al vermouth, fu ripresa anche da Teofilo Rossi
di Montetera in una sua pubblicazione.
Anche i Romani, forse, conoscevano una bevanda analoga al nostro
vermouth, una sorta di vino chinato chiamato absenthiatum vinum, condito con
incenso (o assenzio), nardo e mirra.
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Storicamente risulta che - nella sua versione attuate - il nostro vermouth fu
creato e posto in commercio nel 1786 da Antonio Benedetto Carpano.
Sostanzialmenle è un vino aromatizzato e ha conosciuto un eccezionale successo in
Italia e in tutto il mondo, sia nell'Ottocento sia nella prima metà del Novecento. La
base classica era rappresentata dal vino Moscato. II vermouth è stato, in seguito,
progressivamente trascurato, per la concorrenza di altri aperitivi e vini. Ma in
questi ultimissimi anni sembra sia in leggera ripresa.
Le diverse ricette di vermouth sono tutte gelosamente custodite con gran
segreto dai fabbricanti, fra i quali ricordiamo i più classici: Carpano, Martini &
Rossi, Cinzano.
Ma ecco la ricetta che nel 1854 ne dava Giovanni Vialardi, cuoco di Carlo
Alberto e di Vittorlo Emanuele II nel suo prezioso Trattato di Cucina. «Prendete del
legno quassio, genzianella, china-china, centaura minore, sommità d'assenzio gentile, corteccia di
cedro, fiori di sambuco, di ciascuno 10 grammi; bacche di ginepro, radice d’angelico, di ciascuno 6
grammi; garofani, cannella, noce moscata, pepe, di ciascuno 4 grammi. Pestate tutte queste droghe
grossolanamente nel mortaio, mettetele entro un bottiglione con 5 litri di buon vino bianco generoso,
lasciatele in macerazione per 10 giorni agitandolo di tanto in tanto, separate le droghe, filtrate il
liquore e mettetelo nelle bottiglie turandole bene.».
Non è oggi facile, al privato, reperire tutte queste droghe, ma la ricetta
dimostra - quanto meno - la grande popolarità che questo tradizionale aperitivo
piemontese aveva nel secolo scorso.
Precedente a quella del Vialardi è la ricetta trovata fra le carte dell’acquavitaio
Rovere, che aveva bottega in via San Tommaso: si tratta del vermouth che veniva
confezionato apposta per re Carlo Alberto.
Il vero “Vermouth di Torino”, il migliore e più pregiato, doveva essere
preparato con almeno una quarta parte di Moscato di Canelli. La parte rimanente
doveva essere costituita da vini bianchi dolci o secchi. Si utilizzavano allo scopo i
vini delle colline tortonesi e i vini di Gavi.
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Un’occhiata alla geografia piemontese consente di vedere che patria e
produttori del vermouth vengono e lavorano (o hanno impiantato i loro
stabilimenti) praticamente tutti a Sud di Torino, nella piana al di là delle colline,
verso il Cuneese e l’Astigiano, in mezzo, o a due passi insomma, dalle Langhe e dal
Monferrato, da dove veniva la gran parte del vino. I Cinzano erano di Pecetto, la
Martini e Rossi è nata a Pessione, Cora aveva bottega a Torino ma i figli aprirono
uno stabilimento a Costigliole d’Asti.
La fama del vermouth è indissolubilmente legata al Piemonte e a Torino in
particolare, dove alla fine del 1700 era una vera e propria arte la preparazione di
questo vino aromatico, dorato, dai 15 ai 17 gradi alcolici, profumato con droghe e
con erbe.
Correva infatti l’anno 1786 ed il proprietario della liquoreria - sita in Torino
sotto i Portici di Piazza della Fiera (ora Piazza Castello), angolo Via della Palma (ora
Via Viotti) - era il Signor Marendazzo. Aveva come aiutante di bottega il Signor
Antonio Benedetto Carpano, emigrato in città da Bioglio Biellese, il quale - appena
ebbe modo di apprezzare le qualità sopraffine del moscato - si prefisse di ricavarne
un vino aromatizzato, addizionandolo ad erbe e spezie, secondo i dettami appresi
da certi frati della sua valle nativa. Nasceva così il vermouth.
Nel 1838 i primi a saggiare le vie dell’esportazione furono i fratelli Giuseppe
e Luigi Cora. Il loro esperimento di vendita in America ebbe notevole successo,
tanto che la Casa Cora, che aveva sede nell’attuale via XX Settembre (allora via
della Provvidenza), si dovette ingrandire.
Da questo momento altri stabilimenti per la produzione di Vermouth di
Torino sorsero nelle province viticole piemontesi. Molte importanti Case
parteciparono del successo internazionale di questa bevanda: Bartolomeo Dettoni,
Carlo Gancia, Alessandro Martini, Francesco Cinzano, Giuseppe Ballor.
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4.3 La Grappa Piemontese con alambicco a bagnomaria.
Il Piemonte dedica da sempre una grande attenzione alla distillazione della
vinaccia: ne sono testimonianza la creazione della Università degli Acquavitai e la
presenza di alambicchi, in tutte le epoche, nei castelli e nelle tenute agricole
nobiliari. Emblematico è il caso del Conte di Cavour, che da Grinzane si faceva
spedire i campioni della grappa prodotta per accertarne personalmente la qualità.
All’epoca in verità la Grappa si chiamava Branda, per assonanza con brandy,
ed ancora oggi in dialetto si fa fatica a pronunciare l’italianismo giunto dall’Italia
orientale.
La grappa è l’unico distillato al mondo che si ottiene da una materia prima
solida, palabile. Le implicazioni che derivano da questo aspetto sono
importantissime: essendo la vinaccia ciò che rimane dal processo di vinificazione
(ci si riferisce alle vinificazioni in rosso, vale a dire quelle in cui la vinaccia rimane a
contatto con il vino), essa raduna e concentra tute le sostanze aromatiche presenti
nel vino.
Sotto il profilo grappistico la regione Piemonte è tra le più fortunate. Può
infatti contare su un notevole patrimonio di vinacce rosse che giungono in
distilleria fermentate e quindi sono immediatamente distillabili.
Tra queste
spiccano per nobiltà quelle del Nebbiolo e, per qualità, le fragranti bucce dell’uva
Dolcetto e Barbera. Quest’ultimo vitigno è fonte di una vinaccia splendida e ancor
tutta da scoprire e da valorizzare. Ma, vero emblema della grappa piemontese,
rimane l’aromatico Moscato dal quale si trae il più famoso spumante italiano nel
mondo - l’Asti - e una acquavite di grande personalità e di pari suadenza.
Oggigiorno la maggior parte delle grappe è ottenuta con il disalcolatore
continuo, importato dall’America e destinato alle produzioni di massa. Vi sono
apparecchiature di questo tipo in gradi di disalcolare anche 5.000 quintali di vinaccia
nel corso delle 24 ore. Il risultato è facilmente intuibile anche dalla persona non
addetta ai lavori.
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L’innovazione dell’apparecchio continuo è stata accettata anche da distillerie
di medie e di piccole dimensioni, ma molte aziende non hanno voluto abbandonare
gli alambicchi discontinui e in certi casi l’hanno a questi affiancato. Tra gli ultimi
predominano le caldaiette a vapore sui bagnomaria, mentre solamente un
tamburlano è a fuoco diretto. In Piemonte c’è anche chi ha rifiutato di concentrare
i vapori idroalcolici con la colonna cercando invece di raggiungere l’obbiettivo con
sistemi alternativi, che gli consento maggiori possibilità di selezionare gli aromi
secondo la materia prima che distilla.
In quest’ambito si vuole segnalare non tanto la grappa, prodotto tradizionale
italiano, quanto la tecnologia tradizionale piemontese con Alambicco a Bagnomaria.
Gli alambicchi, tradizionalmente in rame, sono immersi in due caldaie di
acciaio: nell’intercapedine che si trova tra l’alambicco e la caldaia circola dell’acqua,
che è riscaldata immettendo vapore, prodotto a parte da un apposito impianto
generatore.
L’acqua contenuta nell’intercapedine è portata ad ebollizione: fatto assai
importante è che il vapore così ottenuto è alla pressione di 0,2 atmosfere, e a tale
pressione è immesso nell’alambicco di rame contenente la vinaccia.
A tale
pressione il vapore acqueo ha una temperatura di 102°C circa, che consente di non
“cuocere” le vinacce e di evitare in gran parte trascinamenti in colonna di oli
essenziali e di impurezze.
Terminata la carica dell’alambicco con la vinaccia, che di norma viene
disposta su un certo numero di cestelli in rame per facilitarne poi l’estrazione, viene
immesso nell’alambicco il vapore derivante dall’ebollizione dell’acqua contenuta
nell’intercapedine ed ha inizio così la distillazione. Il vapore acqueo immesso
nell’alambicco in rame attraversa molto lentamente la vinaccia, arricchendosi
dell’alcool e degli aromi che naturalmente sono presenti.
Il vapore idroalcolico è raccolto da una tubazione alla sommità
dell’alambicco ed è convogliato direttamente nella colonna di arricchimento e
distillazione; è qui che il vapore idroalcolico cede, salendo verso la sommità della
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colonna, attraversando i piatti e borbottando nel liquido ivi presente, le impurezze
ancora presenti.
Abbinate agli alambicchi vi sono delle colonne deflemmatrici in rame a
funzionamento discontinuo (una per alambicco). Ciò significa che, al termine di
ogni “alambiccata”, la colonna viene completamente scaricata delle impurezze che
ha trattenuto durante la precedente distillazione.
Sotto il profilo organolettico la grappa dei bagnomaria si distingue
generalmente per l’aroma tondo, equilibrato e privo di asperità, non di rado
caratterizzato da una nota di confettura, che solo in alcuni casi può sfociare in
anomali sentori di cotto.
Purtroppo la quantità di grappa prodotta con il metodo a bagnomaria
rappresenta ormai solamente il 3-5% del totale delle grappe prodotte in Piemonte,
anche se garantisce un prodotto di eccellente qualità, che merita sicuramente
maggior considerazione.
4.4 La menta di Pancalieri.
Pancalieri è un piccolo ma attivissimo centro di quasi 2000 abitanti a 30
Km da Torino, ai confini con la provincia di Cuneo. Benché ormai da tempo si
sia trasformato in un paese ad economia mista, l’Agricoltura (con aziende di
piccole e medie dimensioni specializzate in coltivazioni di piante officinali e
colture foraggere-cerealicole), costituisce tuttora una delle componenti principali
del reddito per la sua popolazione.
In questa “isola d’erba” da oltre cent’anni si è sviluppata la coltivazione della
Menta piperita, il cui olio essenziale per la finezza del profumo e la gradevolezza del
gusto è considerato dagli esperti come il migliore del mondo.
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La Menta Piperita nera venne introdotta in Italia nel 1903 da Honorè Carles,
associatosi nel 1901 a Giovanni Varino fondatore della omonima distilleria di
Pancalieri nel 1870. Dal 1908 questa specie botanica si diffuse velocemente, sia per
le rese in campo, remunerative per gli agricoltori, sia per le rese in essenza,
remunerative per i distillatori.
Notizie sulla coltivazione delle mente in Piemonte risalgano al XVIII, come
riportato dalla Iconographia Taurinensis conservata nella biblioteca dell’Orto Botanico
di Torino, ora Dipartimento di Biologia Vegetale della Facoltà di Agraria
dell’Università degli Studi di Torino.
In una nota del Dott. Carlo Edoardo Zay, pubblicata nel volume 45° degli
Annali dell’Accademia di Agricoltura di Torino, intitolata Sull’essenza di menta piperita
di Piemonte sono riportate le seguenti informazioni: «L’essenza di menta piperita del
Piemonte è preparata principalmente, e per ora, in Pancalieri, nella distilleria dei
fratelli Rittatore, alla cui intelligenza ed attività devesi se questo prodotto, a detta di
questi industriali, varca le Alpi ed in Francia ed Inghilterra è preferito alle stesse
essenze indigene. ».
Sempre il Dottor Zay, in una nota Sulla composizione dell’essenza di menta piperita
di Piemonte paragonata a quella dell’ess. di m.p. americana, pubblicata nel 1911, scrive:
«Incaricato dalla ditta G. Varno, di Pancalieri, importante produttrice e distillatrice
di essenza di menta piperita greggia e rettificata, di confrontare il suo prodotto, di
cui mi garantiva la genuinità, coll’essenza americana, credo non privo d’interesse
comunicare i risultati delle mie analisi. […] Da questo breve confronto […] risulta
come, per quanto riguarda la composizione chimica, l’essenza nostrana possa
gareggiare benissimo con una delle prime marche di essenze straniere […]. E che se
la nostra non è sempre apprezzata quanto merita, ciò può dipendere da varie cause,
fra le quali potrebbe mettersi innanzi tutto il profumo, su di che certamente non si
può discutere, essendo cosa troppo personale. In secondo luogo perché noi siamo
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venuti più tardi e quindi il nostro prodotto non ha ancora avuto il tempo di farsi
strada e di essere conosciuto ed apprezzato come dovrebbe.».
Prima della seconda guerra mondiale si contavano più di settanta distillerie
nel circondario del paese, e nel 1960 si arrivò alla produzione record di 100.000
chili di olio essenziale di menta.
In anni recenti la menta ha subito la concorrenza di altri distillati più
scadenti, prodotti a prezzi competitivi in altri paesi, ed è stata in parte sostituita da
altre essenze.
Dal dopoguerra ad oggi, la coltivazione di menta nel Pancalierese si amplia o
si contrae secondo il trend di mercato dell’olio essenziale, con il particolare della
graduale acquisizione, da parte dell’azienda agricola, del mezzo strumentale
(alambicco) necessario per effettuare in proprio l’operazione di distillazione.
In questo contesto nasce nel 1985 la Cooperativa Erbe Aromatiche
Pancalieri, che in questi anni ha lavorato per valorizzare questa importante
produzione, anche con massicce iniziative che hanno portato a creare un’immagine
di produttori seri ed impegnati alla salvaguardia della qualità nel rispetto della
tradizione secolare. Alla Cooperativa aderiscono circa 30 aziende agricole non solo
di Pancalieri, ma di tutta la zona tipica di produzione della Menta piperita in
Piemonte. I suoi Soci si sono negli anni specializzati nella coltivazione non solo
della menta, ma anche di una ventina di piante officinali di specie diverse,
commercializzate sotto forma di oli essenziali o di prodotti essiccati.
Dal punto di vista della tecnica colturale, la Menta piperita si propaga mediante
piantine fogliate estirpate manualmente e trapiantate quando la loro altezza è di 1015 cm, in quanto i semi sono sterili. I terreni migliori per la coltivazione sono di
natura argilloso-silicea, perché il sottosuolo è sempre umido.
Al fine di ottenere l’olio essenziale, la raccolta viene effettuata nel periodo di
piena fioritura verso la metà di agosto.
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L’olio essenziale greggio di Menta piperita è ottenuto dalla distillazione a
corrente di vapore dell’erba verde in pianta intera proveniente dalla coltivazione
della specie botanica Menta Piperita nera (Black Mint degli Inglesi) varietà Officinalis,
forma Rubescens nota come Menta Italo-Mitcham.
L’olio essenziale presenta un aspetto limpido, incolore o giallo paglierino
assai fluido, un aroma forte, penetrante, caratteristico di menta, un sapore pepato
e lascia in bocca una persistente sensazione di freschezza seguita da una
leggerissima punta di amaro.
La resa massima in olio essenziale per ettaro di coltura è di circa 65 litri.
L’olio essenziale ricavato dalla distillazione dell’erba verde, prima del suo
utilizzo deve essere sottoposto a una o più ridistillazioni sottovuoto, denominate
“rettifica” o “plurirettifica”, per ridurre percentualmente taluni elementi
indesiderati, tra i quali i “terpeni”, e migliorare le caratteristiche chimico-fisiche ed
organolettiche.
4.5 Il Genepì.
Il suo nome scientifico è Artemisia glacialis e basterebbe quel glacialis a dare
un’idea dell’ambiente in cui questa pianticella, alta una decina di centimetri, spunta a
primavera, si arricchisce di un inconfondibile aroma, fiorisce e, infine, sotto la neve
attende che passi il lungo inverno delle alte quote.
Il Genepì, infatti, vive sulle Alpi e sugli Appennini, lungo una fascia
altimetrica che va dai 1.800 ai 2.400 metri. Per quanto riguarda la catena
appenninica è particolarmente presente nel tratto abruzzese.
L'Artemisia glacialis è chiamata anche “genepì vero” o “genepì femmina” per
distinguerla dall’Artemisia spicata (“genepì nero o genepì maschio”) e dall’Artemisia
mutellina (“genepì bianco”).
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La distinzione non è sostanziale ai fini dell’impiego che si fa di queste piante
officinali, dalle doti terapeutiche non trascurabili, per la preparazione del genepì, il
tipico liquore di montagna.
La storia dei Genepì è priva di aneddoti curiosi o di nomi famosi, a parte una
singolarità: per molto e molto tempo, le tre artemisie appena ricordate erano del
tutto sconosciute ai botanici, interessati soprattutto alle specie di pianura o di
collina. Soltanto in un secondo tempo, quando l’interesse degli studiosi si rivolse
anche alle piante meno... comode, andando a ricercare nuovi esemplari in alta
montagna, si presero in considerazione le Artemisia glacialis, spicata e mutellina e si
cominciò ad indagare sulle loro reali proprietà curative. E qui si ebbe un risultato
sconcertante. Infatti, da tempo immemorabile, nelle zone alpine dominate dai
ghiacciai, il Genepì era considerato un rimedio più che efficace contro il
congelamento e veniva usato anche per frizionare le parti colpite dal gelo. In realtà,
il genepì serviva a riscaldare il malcapitato, a riattivare la circolazione sanguigna, ma
non di rado si esagerava nella somministrazione del liquore andando incontro ad un
epilogo tragico. Se ne deduce, quindi, che le Artemisia sono piante da usare con una
certa cautela, attenendosi con scrupolo alle dosi prescritte.
Prima di indagare sui principi attivi di queste piante e di suggerire qualche
piccolo rimedio, ricordiamo che le tre Artemisia di cui ci occupiamo presentano un
aspetto abbastanza simile: le foglioline sono molto laciniate, ossia suddivise in lobi,
di colore verde-grigio e coperte da una villosità setosa, i fiori sono gialli, riuniti in
capolini o in spighe, e tutta la pianta emana un aroma amaro e pungente che ricorda
quello dell’assenzio.
La fioritura avviene in estate, fra giugno e luglio. Purtroppo visto il largo uso
che si è fatto del genepì nella produzione di liquori a livello industriale, queste
Artemisia sono diventate piuttosto rare, tanto da essere incluse fra le specie
protette.
Sono comunque coltivabili, su terreno sabbioso, oltre i mille metri e c'è da
augurarsi che la montagna possa presto ripopolarsi di queste interessanti piante,
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così tipicamente alpestri, chiamate in francese genepì, in inglese genippi, in tedesco
Edelraute.
Dal punto di vista della loro composizione chimica, le Artemisia, seppure in
diversa percentuale, contengono tutte olio etereo essenziale, sostanze amare,
tannini, gomma, resina e sali minerali.
Le parti utilizzate a scopo terapeutico, oppure come aromatizzante, sono
soprattutto le sommità fiorite raccolte nel momento della schiusura. Questo
particolare suggerisce di non strappare la pianta, ma eventualmente tagliarla a livello
del suolo: in tal modo la pianta sotterranea continua a vivere e la specie non si
disperde.
Spesso il vero genepì è sostituito dall’ “Erba iva”, Achillea moschata, altrettanto
efficace e da usare con minor precauzione, perché non presenta controindicazioni
di sorta.
A parte l’antico uso del Genepì per curare i postumi del congelamento,
ricordiamo che le Artemisia glacialis, spicata e mutellina vantano soprattutto proprietà
digestive, sudorifere, toniche per il sistema nervoso e anche stimolanti per
l’appetito.
Le Artemisia entrano come ingrediente base in diverse “preparazioni”.
Tisana: si prepara con due grammi di sommità fiorite di genepì ogni 100
grammi di acqua e se ne prendono tre o quattro bicchierini al giorno per dare tono
al sistema nervoso e anche per abbassare la febbre.
Vino aromatico: si ottiene mettendo quattro grammi di fiori di Artemisia
glacialis in un litro di vino bianco secco e lasciando riposare il tutto per due
settimane possibilmente in frigorifero. Infine, filtrare e bere un bicchierino di
questo vino leggermente amaro dopo i pasti a scopo digestivo. Se invece del vino,
per questa preparazione si usa del marsala, ne deriva una bevanda da prendere a
bicchierini prima dei pasti, come aperitivo.
Grappa: le Artemisia possono essere utilizzate per dare aroma e valore
terapeutico all’acquavite che poi si dimostra efficace per combattere il "mal di
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montagna", ossia lo stordimento seguito da capogiri e vertigine che colpisce
parecchie persone, soprattutto alle prime arrampicate. Per preparare questa grappa
medicinale, basta mettere cinque o sei grammi di sommità fiorite di genepì in una
bottiglia di acquavite e lasciar macerare per una ventina di giorni o anche più a
lungo, come si fa con la Ruta graveolens. La grappa, così aromatizzata, oltre a far
cessare i disturbi del "mal di montagna", esercita un’azione corroborante e serve ad
attenuare stanchezza e depressione dopo una fatica, oppure durante gli stati di
notevole tensione emotiva.
Liquore: è il classico utilizzo delle Artemisia, lasciate in infusione in
soluzione idroalcolica.
Scheda botanica
Nome
scientifico:
Nomi popolari:
Artemisia glacialis, mutellina e spicata
genepì delle Alpi, genepì femmina, genepì maggiore, genepì
bianco, genepì nero, genepì maschio
Origine:
zone montuose dell'Europa meridionale
Famiglia:
Composite
minuscoli, giallo-verdi, riuniti in piccoli capolini quasi sferici
Fiori:
riuniti in ciuffi al sommo degli steli, oppure disposti all'ascella
delle foglie. Emanano un forte aroma. Molto ricercati dalle api
erbacee perenni, alte da 5 a 15 centimetri, con foglie suddivise in
sottili lacinie, di color bianco-argento, coperte da peluria setosa,
che ha lo scopo di proteggere le piante dal freddo. Queste tre
Caratteristiche: artemisie si dispongono a tappeto e spesso raggiungono il bordo
dei ghiacciai. Sono fortemente aromatiche. Sotto l'aspetto
curativo devono essere usate con precauzione e nelle dosi
prescritte
Etimologia:
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il nome ricorda quello di Artemis, ossia Diana, dea della
giovinezza e della caccia
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4.6 Il Barathier elisir d’herbes.
L’Elisir d’Herbes Barathier è prodotto a Pomaretto fin dalla fine del 1800
con il nome di Amaro Cozie (dalle Alpi Cozie ). Il nome cambia in Barathier nel
1905. Il grado alcolico è di 20% in vol. Il prodotto in oggetto è ottenuto con la sola
macerazione (non è un distillato) in alcool e acqua di 7 qualità di erbe e fiori
montani raccolti allo stato spontaneo.
Può essere di colore scuro (marrone scuro) o chiaro (giallo chiaro). Il colore
scuro si ottiene aggiungendo un po’ di zucchero caramellato. La versione scura è
quella originaria. Solo da 25-30 anni viene prodotto anche senza il caramello. Tra i
due oltre al colore c’è poca differenza e solitamente viene preferito quello scuro.
Le caratteristiche principali del prodotto sono:
il sapore particolare: è un elisir dal gusto fine e gradevolmente amaro.
Inizialmente amarognolo il sapore diventa più caldo, (sapore tipico dell’Angelica)
terminando con un misto tra la liquirizia e le noci mature.
la lavorazione è rimasta quella di un tempo. Le erbe, dopo la raccolta
manuale sono selezionate ed essiccate. Saranno utilizzate man mano durante l’anno.
Per ottenere l’alcolato del Barathier si mettono a bagno le erbe in contenitori non
porosi, tipo vetro o acciaio, in una soluzione composta da acqua e alcool per un
periodo che varia dai 35 ai 40 giorni. In seguito si aggiunge ancora alcool, un po’ di
zucchero (cristallino) e acqua di sorgente. L’acqua, ingrediente fondamentale e
generalmente poco considerato, deve essere poco dura, limpida e senza sapori che
altererebbero il prodotto finito.
La distillazione, procedimento molto usato
oggigiorno per la creazione di aromi, è assolutamente da non utilizzare, perché
distrugge una miriade di principi attivi, che da soli sono forse insignificanti, mentre
nell’insieme creano l’aroma caratteristico dell’elisir.
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Nato per il solo consumo familiare, la produzione - nel corso degli anni diventa gradualmente più consistente, per accontentare anche amici e parenti. Oggi
si può trovare soprattutto nella ristorazione di qualità e presso alcune enoteche di
Torino e provincia, oltre che nel negozio di vendita a Pomaretto adiacente al locale
di produzione.
La documentazione dell’esistenza del prodotto risale al 1902, è scritta in
francese (lingua molto usata a quel tempo nella Val Germanasca) ed è conservata
gelosamente. Altri scritti risalenti al 1902 sono relativi alle vendite giornaliere di
questo prodotto.
4.7 Il Ratafià.
Il Ratafià è un liquore leggero prodotto dalla fermentazione di frutta,
soprattutto ciliegie ed albicocche., chiamato anche “Amarasco”.
Un tempo il Ratafià era molto diffuso e prodotto quasi dappertutto nella
provincia di Torino. L’enologo piemontese Giovanni Robiolo ne ha codificato la
ricetta.
Il nome si vuole che venga dalle Antille, dove si fabbricava il “rach” (spirito,
alcol) di “tafia” (canna da zucchero).
Probabilmente il nome aveva un certo
successo commerciale e chi produsse i primi Ratafià, si appropriò del nome. È
tuttavia possibile che il nome derivi dal francese “rectifiè”, rettificato.
Sull’origine del termine Ratafià, Angelo Brofferio racconta, in una storia
fantasiosa, che nell’anno 999, due vecchi nemici - sopravvissuti entrambi ad
un’epidemia di peste, grazie ad una “misteriosa bevanda” loro portata da una
giovane donna in odore di stregoneria - fecero pace.
La riconciliazione fu
annunciata da un notaio con il grido “Sic res rata fiat” (così la cosa sia stabilita) ed il
popolo, entusiasta, urlò a sua volta “Rata fiat”. Naturalmente la miracolosa bevanda
era quello che sarebbe stato chiamato da allora, appunto, Ratafià.
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Il liquore viene oggi prodotto miscelando il succo di ciliegie in soluzione
idroalcoolica, con zucchero e aromi , ottenendo un liquore di moderata gradazione
alcoolica ( 26% Vol.)
La tradizione ultra centenaria del prodotto può essere attestata da diverse
documentazioni storiche, tra cui, merita di essere citato un documento tratto dal
libro Tradizioni italiane, stampato in Torino nel 1848, e dalle varie onorificenze
ottenute dal Ratafià nel periodo compreso tra il 1891 e il 1914.
4.8 Il Nocciolino di Chivasso.
Il Nocciolino di Chivasso è un liquore dolce, a base di infuso di nocciole, a
bassa gradazione alcolica (24% di alcool).
Le nocciole sono messe in infusione in alcool per permettere l’estrazione
degli oli essenziali tipici. La miscela di acqua, alcool, infuso naturale di nocciole,
aromi ed infusi particolari per l’arrotondamento del gusto, avviene in contenitori di
acciaio inox.
Il Nocciolino è stato ideato e brevettato dalla ditta Capella Giovanni di
Chivasso negli anni immediatamente successivi il secondo conflitto mondiale. Nel
1950, la ditta Capella, ottenne dal Comune di Chiasso l’autorizzazione a fregiare le
etichette ed il marchio di fabbrica del prodotto con lo stemma gentilizio della città
(deliberazione della Giunta Comunale n° 216 del 5 dicembre 1950). La ditta Capella
depositò il marchio all’Ufficio Centrale dei brevetti, modelli e marchi presso il
Ministero dell’Industria e del Commercio il 28 aprile 1959 col n.149458. La ditta
Capella oggi non esiste più e ha venduto il brevetto ad altre aziende.
Il Nocciolino di Chivasso si accompagna bene ovviamente - è “la morte
sua”, direbbero a Roma - con i Nocciolini di Chivasso.
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5. I prodotti a base di carne.
5.1
Il maiale nella tradizione contadina del Piemonte.
Il maiale ci fa compagnia e ci dà da mangiare da almeno novemila anni,
secolo più, secolo meno: a tanto risale, infatti, la “domesticazione” del suino. Ma
non c’è dubbio che già prima di allora, per chissà quanti secoli, fino a perdersi nella
notte dei tempi, l’uomo si è nutrito di carne di maiale, quando naturalmente riusciva
a catturarlo e a ucciderlo nei boschi, dove viveva libero, accanto al fratello cinghiale.
Il primo maiale di cui si hanno notizie è il Sus palustris, altrimenti noto come,
“maiale delle torbiere”, probabile progenitore, in tutto il mondo, di maiali e
cinghiali.
Il maiale è stato domesticato in tutto il mondo antico, forse prima in Cina
che altrove (i cinesi continuano a considerarlo il re della tavola). Ma dai minuziosi
inventari compilati dagli archeologi su ciò che si è trovato nei villaggi dell’epoca
neolitica scoperti nella pianura Padana (e in Piemonte in particolare), risulta che tra
i resti di 100 capi di bestiame 76 sono di maiali, 12 di pecore e capre e soltanto 11,5
di bovini.
Insomma, in ogni villaggio, presso ogni abitazione, viveva o veniva
allevato almeno un maiale. La stessa cosa del resto succedeva ancora fino a qualche
decennio fa, quando ogni contadino allevava in cascina uno o più suini per farne
salami e salsicce.
Di tutti i fornitori di carne, il maiale è stato, nella nostra storia - quella
piemontese in particolare – l’animale che di gran lunga ci ha dato di più. Le poche
notizie che si hanno dei tempi lontani ci dicono che, certamente fino al l300-1400
(ma in molte zone anche più tardi, molto più tardi), buoi e mucche non erano
allevati come fonte di cibo, ma erano considerati essenzialmente animali da lavoro:
sfruttati per il latte (da cui si ottenevano burro e formaggi), venivano uccisi e
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mangiati soltanto quando erano vecchi e stanchi. Così si spiega, del resto, la
predilezione quasi romantica dei piemontesi per la carne di bue. Al contrario di
quelle suine, le carni bovine erano considerate poco nutrienti, adatte a nutrire forse
i più poveri, coloro cioè che non si potevano permettere l’allevamento o l’acquisto
di carne di maiale (o di agnello).
In Piemonte l’olio, anche quello d’oliva, era conosciuto fin dai tempi più
antichi, ma era poco, ed era considerato un lusso. Anche come condimento erano
quindi utilizzati, fino a pochi decenni or sono, soprattutto i grassi ottenuti dal
maiale: sagimen, axuncia, ingrassata, grassa, sugna e cutile lardi sono i termini ricorrenti.
Segnando su una carta geografica le zone in cui si fa uso dei grassi del maiale,
anche, per esempio, per conservare i salami nella doja e le zone dove al contrario la
cucina è prevalentemente orientata sull’olio d’oliva, si possono conoscere i limiti tra
due diverse “civiltà”: quella del maiale e quella dell’olivo; il Piemonte è decisamente
al di sopra di questa linea, nell’area del maiale. La stessa nostra bagna caoda
anticamente si otteneva sciogliendo lardo o sugna: tutt’al più si utilizzava, anziché
olio d’oliva, olio di noci appena spremute.
Dai registri di casa Savoia, nel Medio Evo, risulta che si comprava grasso di
bovino soltanto pro curru et quadriga ungendis, in altre parole per ingrassare le ruote dei
carri. Il grasso bovino (sepum) era probabilmente utilizzato nell’alimentazione
soltanto dai molto poveri; soprattutto trovava sbocco nella preparazione delle
candele, al posto della più preziosa cera di api.
Fino a un’epoca relativamente prossima a noi, il maiale in Piemonte è stato
allevato quasi esclusivamente all’aperto, in libertà, nei boschi: poco diffidente e
goloso, l’animale si avvicinava di frequente agli abitanti, al punto che nell’antichità
era spesso assimilato al cane per il carattere relativamente mite e per la innata
capacità di segnalare, con grugniti e movimenti, le presenze estranee (la stessa cosa
capitava per le oche). Il porcello poi si accontentava di poco: tutti i rifiuti erano
suoi e tanto bastava, in genere, per nutrirlo. Per queste ragioni è stato accettato
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dall’uomo e con relativa facilità domesticato. In certe zone, per esempio nell’Italia
centrale, il maiale è tuttora utilizzato, al posto del cane, per individuare i tartufi.
La grande diffusione del maiale (e in parte anche del cinghiale) nell’area della
pianura Padana e la sua intensa utilizzazione nella cucina, si spiegano ricordando
che fino a qualche secolo fa tutta la zona, ma in particolare proprio l’area che oggi
chiamiamo Piemonte, era quasi interamente ricoperta da foreste, soprattutto da
grandi boschi di querce-farnie.
Famosa era la “Foresta Orba”, nel Piemonte
meridionale (dove oggi si coltiva l’uva Cortese del vino Gavi e dove sappiamo che
andava a caccia Liutprando: lo racconta Paolo Diacono nella sua Storia dei
Longobardi), ed erano coperti di boschi il Monferrato, le Langhe e in parte anche il
Canavese. Foreste si estendevano ai piedi di tutte le Alpi.
Il monte sul quale sorge la Sacra di San Michele si chiama Pirchiriano, ma
anticamente era denominato Porchiriano, probabilmente perché nelle sue foreste
abitavano un mucchio di porcelli. Anche i nomi attuali di molti piccoli e grandi
centri piemontesi attestano la presenza nel passato di foreste: Boschi, Boscodonne,
Boscomarengo, Bosconero, Castagneto, Castagni, Castagnito, Coriliano, Frassineto,
Lauriano, Oliveto, Olmo Gentile, Pianbosco, Pino, Robino, Rovereto, Silvano
d’Orba, Sommariva del Bosco...
I suini crescevano bene nei boschi a prevalenza di querce, nutrendosi di
ghiande, mentre gli ovini e i caprini, invece, per sopravvivere avevano necessità di
prati e pascoli naturali. Il diritto del “glandatico”, di cui parlano molti contratti
medievali, imponeva all’affittuario di un bosco di consegnare al proprietario parte
del raccolto di ghiande oppure dei maiali allevati con le stesse. Probabilmente a
quell’epoca i maiali (Porcus casarengus) erano spesso incrociati con i cinghiali (Porcus
selvaticus).
Poche dovevano essere le restrizioni alla libera circolazione dei maiali nei
campi e nei boschi. Ma in certe zone del Monferrato, a quanto risulta, questi limiti
esistevano: infatti veniva ammesso il pascolo dei maiali, purché fossero “ferrati” o
avessero anellum in morro, cioè un ferro ad anello intorno al grugno, affinché non
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potessero scavare, danneggiando i campi e distruggendo le coltivazioni. Si trattava,
evidentemente, di colline che erano già molto abitate e sempre più coltivate.
Lo storico Massimo Montanari sostiene che, «l’allevamento dei suini
nell’Alto Medioevo, rappresenta una delle voci principali del bilancio economico e
alimentare dei ceti rurali. Praticato allo stato brado, negli ampi spazi boschivi di
uso comune, garantiva all’alimentazione quotidiana un apporto rilevante e continuo
di carne. A partire dai secoli centrali del Medioevo, la riduzione dei boschi e la
limitazione degli usi di pascolo significò una contrazione di tale allevamento e,
ovviamente, della presenza di carne suina nella dieta contadina.
Nei secoli XIV-
XV, lungi dal recuperare gli antichi livelli, l’allevamento suino subì una contrazione
ulteriore, dovuta ai nuovi rapporti di lavoro instauratisi nelle campagne. I contratti
mezzadrili consentivano al contadino di allevare uno, due maiali “dentro” il podere;
sempre più marginale diventava, per questa attività, l'uso dei boschi.
Dall’allevamento brado si passava a un allevamento domestico, stabulare, di
consistenza assai più limitata».
I primi segnali di inizio del disboscamento nella pianura Padana si avvertono
già nel IX secolo, ma la progressiva distruzione delle foreste per ottenere aree in cui
coltivare cereali, legumi e ortaggi e realizzare praterie in cui allevare bovini (sempre
più indispensabili per i lavori agricoli, oltre che per il latte e i formaggi), raggiunge la
punta massima nel XII e XIII secolo. Il boom agricolo, conseguenza e causa dello
sviluppo demografico, provoca una ulteriore progressiva corrosione delle aree
boschive, mettendo in crisi i precedenti equilibri zootecnici e di produzione.
Ma le porcilaie, almeno nel senso che le intendiamo noi oggi, nascono
soltanto nel 1800, anche se la piccola storia ricorda il caso del comune di ButtigIiera
d’Asti, sorto verso il 1250 sulle rovine di un antico feudo dei Biandrate di San
Giorgio, distrutto dagli Astigiani, che si chiamava “Porcile”.
Sulle porcilaie e l’allevamento dei maiali presso Torino, nell’Ottocento, esiste
la testimonianza del veterinario Toggia, ufficiale dell’esercito sardo: «La più bella e
la più numerosa razza de’ porci che al giorno d’oggi possiede il Piemonte, si è quella
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del signor Audifredi, proprietario di un vasto tenimento in Parpàglia, poco distante
dal regio castello di Stupinigi (è una cascina tuttora esistente). Da questa mandria
composta da cinquanta circa troje e di più verri di alta taglia e di razza Africana,
provenienti dalle più belle razze della Lombardia, nascono produzioni che,
ingrassate a dovere, pesano 25 sino a 30 rubbi (225-270 chili). Questo intelligente e
industrioso agronomo nulla lascia d'intentato per portare al più alto grado di
perfezione questa specie, e rendere fertilissimo quel tenimento. Porcili ben costruiti,
spaziosi e aerati per l'uno e l'altro sesso, truogoli ben disposti per uso di mille e
cinquecento porcellini, cento cinquanta vacche lattiere, copiosi pascoli di trifoglio,
cereali in abbondanza, canali d'acqua ben diretti, eccetera, sono il risultato delle
cognizioni agrarie del prelodato sig. Audifredi per far fiorire questo così utile
stabilimento».
A proposito del nutrimento ideale per questi maiali, il veterinario Toggia
suggeriva di ricorrere a «le piste del riso, i casciolai, le triperie, i molini, le fabbriche
dell’olio, dell’amido, della birra... ».
La carne di maiale è aborrita dagli Ebrei e dagli Arabi: il divieto di
consumarla è giustificato da ragioni sanitarie (è inadatto come cibo nei climi caldi),
ma più probabilmente nasce dalla constatazione che il maiale si nutre di rifiuti ed è
perciò da considerarsi un “essere impuro”, veicolo tra l’altro di parecchie zoonosi.
Molto gradita invece ai Greci e agli Egiziani, la carne di maiale era
considerata una ghiottoneria dai Romani: a Roma esiste ancora via Panisperna, che
significa, dal latino panis et perna, “via del pane e prosciutto”, cosiddetta perché ai
tempi della Roma antica - nella zona in cui si trova oggi quella via, aperta da papa
Sisto V - venivano distribuiti generosamente, durante le cerimonie in onore di
Giove, pane e prosciutto al popolo.
Il maiale trionfa da sempre sulla tavola, ricca o povera che sia, degli italiani e
dei suoi abitanti settentrionali soprattutto.
Lo si mangiava innanzitutto arrostito,
come è capitato all’inizio a tutte le carni, ma ben presto si è scoperto che c’erano
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anche molti modi per conservarne delle parti: salandole, affumicandole,
immergendole nel suo stesso grasso o insaccandole nei budelli.
C’è chi sostiene che i primi salumi siano apparsi già nell’Età del Ferro. È
certo comunque che l’arte di far salumi e prosciutti è nata dall’esigenza di far durare
il più a lungo possibile quella straordinaria scorta alimentare rappresentata dal
maiale. E si sa per certo che, soprattutto nel Medioevo, le carni conservate,
specialmente di maiale, hanno rappresentato una risorsa fondamentale per
l’alimentazione popolare, in un’epoca di fame, carestie, guerre ed invasioni (salami e
prosciutti erano anche relativamente facili da nascondere, quando gli eserciti
invasori saccheggiavano ogni cosa).
Hanno parlato di prosciutti nei loro scritti Varrone, Marco Porcio Catone,
Columella e Palladio. Nel De re rustica compare quella che è probabilmente la prima
ricetta per fare il prosciutto: una tecnica molto simile a quella usata ancora qua e là,
soprattutto per la preparazione del cosiddetto “prosciutto di montagna” (cfr. il
Prosciutto crudo della Val Susa).
Lo stesso Plinio scriveva: «Da nessun altro animale si trae maggior materia
per la ghiottoneria: la carne di maiale ha quasi cinquanta sapori diversi, mentre per
gli altri animali il sapore è unico.». Secoli dopo, nel 1745, il marchese Vincenzo
Tanara, ne L'economia del cittadino in villa individuerà addirittura centodieci maniere di
farne vivande e una sessantina di possibili diversi salumi.
Nell’antica Roma, la parola salumen significava un “insieme di cose salate”,
soprattutto di carne di maiale.
I salumen erano venduti dai cupedinari, che oggi
chiameremmo salumieri.
Gran parte del rifornimento di Roma in carni suine e salumi veniva dal
Nord. Nelle sue Storie, Polibio scrive che «l’abbondanza di ghiande raccolte nei
querceti allignanti a intervalli nella pianura è attestata soprattutto da quanto dirò: la
grande quantità dei suini macellati in Italia per i bisogni dell’alimentazione privata e
degli eserciti si ricava tutta dalla pianura Padana. ». E i prosciutti più pregiati, a
Roma, erano proprio quelli provenienti dalla Gallia Cisalpina.
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Fino a poche centinaia di anni or sono, il maiale viveva non soltanto nelle
foreste e nelle campagne, ma anche all’interno dei villaggi, addirittura nelle città.
Ogni famiglia riteneva fosse suo diritto allevare accanto a sé, nutrendolo
prevalentemente con i rifiuti della mensa, la riserva di carne e cibo rappresentata
appunto dal porcello. Leggi e Statuti medievali contengono in abbondanza richiami
e divieti sui maiali e prevedono anche contravvenzioni, addirittura condanne alla
prigione per chi allevava i porcelli nei centri abitati: la ripetizione per secoli e secoli
di questi divieti significa che nessuno dava troppo retta alla legge e che quindi i
maiali continuavano a vivere e grufolare tra le case.
Gli Statuti di Vercelli, intorno al 1300, vietano la “circolazione di porci e trie
(troie) in città”. Pochi decenni più tardi, poiché il divieto non è ascoltato, viene
imposto di non costruire più porcili nelle strade cittadine e sotto i portici e di
abbattere quelli esistenti. Nel 1400, anche le autorità di Bra e di Saluzzo vietano il
libero vagare dei maiali pei- víllam sine custodia e impongono ai cittadini ut bestie porcine
teneatur incluse: par di capire che li si poteva dunque allevare anche in città, ma a
condizione che fossero in un recinto o in una stalla. A Pont Canavese, secondo gli
Statuti medievali, le autorità dovettero ricorrere a un bando per vietare
l’allevamento di animali all’interno del cimitero: segno che ciò accadeva, con poco
rispetto per i poveri defunti.
Dall’invasione dei porci non fu esente neppure Torino. La storica Anna
Maria Nada Patrone segnala che «nel 1328 viene ripetuto il divieto di lasciar vagare
porci liberi per la città, sia per motivi di politica sanitaria, sia perché il Comune era
costretto a risarcire i proprietari degli animali eventualmente rubati o uccisi.». Il
divieto non deve essere troppo rigido né ubbidito se nella stessa Torino, duecento
anni più tardi, nel 1542, viene ordinata la confisca di tutti i suini lasciati liberi per le
vie cittadine (eccettuati quelli degli Antoniani, che erano allevati per trarne un
grasso, utilizzato per curare l’ “erpete o fuoco di sant’Antonio”).
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Nel Rinascimento - forse anche per la riduzione del numero di capi a
disposizione, conseguenza della progressiva scomparsa delle grandi foreste - si
verifica un’importante evoluzione: considerata fino ad allora cibo per la pura
sopravvivenza, la carne di maiale, e più ancora i prosciutti e i salumi, diventano
raffinate squisitezze ed entrano nell’alta gastronomia. Non c'è menù di banchetto
importante che non ne segnali la presenza. Se i libri degli acquisti di casa Savoia nei
primi secoli del millennio registrano minuta porcorum e frixura porcorum, destinati alla
mensa familia, presumibilmente dunque soltanto per i servi, nei secoli successivi la
carne di maiale, i prosciutti e i salumi (persino gli umili sanguinacci) diventano cibi
pregiati, sempre più valorizzati e richiesti, destinati anche alla tavola dei signori. E
l’arte dei “trincianti” nasce, probabilmente proprio per l’esigenza, nei grandi pranzi
e a Corte, di saper affettare e servire prosciutti e salumi, oltre che arrosti e bolliti.
Nei tempi più vicini a noi, con l’evoluzione dei gusti e delle abitudini, con il
lento ma progressivo spopolamento delle campagne e l’incremento della
popolazione urbana, con il nascere e l’affermarsi dell’industria (anche alimentare), il
maiale è coinvolto nel radicale cambiamento del sistema alimentare. Finisce
un’epoca anche per il porcello.
5.2 I salumi.
Si dice salumi e si fa presto a pensare alle tavole della Pianura Padana,
emiliane innanzitutto, ma anche lombarde e venete, dove la tradizione ha assegnato
agli affettati un ruolo di prestigio nelle abitudini del desco familiare e della
ristorazione d’alto livello. Ma non è solo una questione di storia. Pare evidente che
la norcineria del Nord-Est d’Italia, fatte salve indiscutibili qualità d’eccellenza, ha
saputo vendersi meglio, promuoversi a dovere, e soprattutto uscire da quelle
nicchie in cui le montagne piemontesi e valdostane hanno sempre conservato i loro
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tesori: pochi, artigianali, antichi di secoli ma, talvolta, a rischio di estinzione o
scomparsi del tutto. Un problema di marketing, lo definiremmo oggi, al quale i
salumieri di quella che fu la costola primigenia dello Stato sabaudo non hanno mai
badato.
Proseguivano per la loro strada, allevavano con somma devozione il maiale
(e non solo), e lo lavoravano a dovere per un orticello commerciale poco più vasto
di quello di casa.
E così anche le oche, le capre, le pecore, le vacche, gli asini, tutti animali da
cui si ricavano salumi di grande interesse, sono ancora oggi relegati a piccole
produzioni caserecce, spesso sconosciute al popolo degli appassionati.
Cercheremo di ritrovarle, in un’escursione che ci accompagnerà per la
provincia di Torino e ci farà scoprire le sue speciali leccornie: la Mustardela della
Val Pellice, la Mica della Val Susa, il Lardo al rosmarino di Cavour, la Tripa `d
Muncale e un eccellente Salame di patate, sempre più introvabile nella sua versione
corretta, prodotto nel Canavese, a Ivrea, Castellamonte e Cuorgnè.
Raccontata così - una teoria di salumi dai nomi evocativi, che solleticano
l’acquolina in bocca - la situazione sembra più rosea di quella che è; i dubbi, infatti,
li abbiamo lasciati alla fine e riguardano un problema assai sentito dai norcini locali
(ma la situazione nazionale non è dissimile), quasi tutti costretti, quando la
produzione supera i pochi quintali, ad approvvigionarsi nei grandi allevamenti per
la materia prima.
Il maiale pesante, oltre i 180-200 chili, dal quale un tempo si
ricavavano i salumi sopra citati, è pressoché scomparso: troppo costoso e troppo
lenti i tempi di allevamento. I ritmi veloci dei tempi attuali, non solo nella vita ma
anche nel lavoro, gli hanno fatto preferire un suino più leggero, sbrigativo,
economicamente più redditizio. Ma si ha un bel parlare di salumi di qualità, corretti
finché si vuole nella lavorazione, se poi non si tutela il bene primario e ci si
accontenta di capi ingrassati mai abbastanza, in tutta fretta, le cui carni hanno una
sapidità tutta da dimostrare e senz’altro inferiore a quella di un tempo.
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Per secoli, in certi casi addirittura per millenni, la scarsità di comunicazioni e
di contatti e la sopravvivenza di comunità relativamente “chiuse”, ha favorito la
trasmissione di padre in figlio, di generazione in generazione, di abitudini alimentari
e quindi, nel nostro caso, di tecniche di macellazione, di taglio, di utilizzo e di
conservazione delle carni, di arricchimento con spezie, erbe o vino o di
integrazione con altri prodotti (per lo più riso e patate). Ogni regione, ogni miniarea, aveva propri prodotti caratteristici, vere e proprie “specialità” di cui oggi,
purtroppo, rimangono ormai poche tracce. È il caso per esempio della Mica della
Val Susa, la cui sopravvivenza si deve alla passione d’un allevatore salumiere della
Valle.
Oggi, è chiaro, l’industria alimentare, preoccupata soprattutto della quantità e
del rifornimento alimentare ai grandi mercati, non ha più né tempo né interesse a
lavorare il maiale secondo tecniche antiche e per lo più casalinghe. Certi tipi di
prodotto, di insaccati soprattutto, sono inesorabilmente destinati a scomparire,
anche perché leggi sempre più severe impediscono o quanto meno limitano la
macellazione e la lavorazione individuale, frenando l’artigianato di piccola
produzione, che era nato e si era diffuso per far fronte ad una pur ridotta domanda
locale.
Oggi del maiale si utilizzano quasi soltanto certe parti; il resto va a finire nelle
gigantesche mortadelle oppure viene trasformato in alimenti, per umani ed animali,
che di suino non hanno neppur più il nome. Sono svalutate proprio quelle parti del
porcello che in passato, sotto la pressione della necessità e grazie alla fantasia dei
nostri avi, hanno dato più gusto, personalità e caratteristiche al mangiare.
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La Mica della Val Susa.
La Mica è un tipico salume della Valle di Susa, costituito da un impasto di
carne e grasso di suino macinati, pressato in una forma cilindrica e
ricoperto di farina di segale e pepe.
La carne ed il grasso sono macinati a grana media (rete a fori di 10 mm) ed
impastati con sale ed aromi naturali.
L’impasto è messo in stampi di
acciaio inox (un tempo di legno) con diametro di 15-18 cm. e altezza 4-5
cm. e sottoposto ad una pressatura manuale, seguita da uno o due
rivoltamenti. L’impasto così formato è passato in un contenitore con
pepe macinato e poi in farina di segale per due o tre volte, finché lo strato
di pepe e di farina non raggiunge i 2-3 mm. Il tutto è poi posto su ripiani
di acciaio (un tempo di legno) in ambienti a temperatura controllata di 2324°C per 24 ore. Il prodotto è poi posto in cella ventilata alla temperatura
di 17-18°C, e rivoltato una volta al giorno per circa una settimana. Infine
la Mica è posta in un’altra cella a 3-7°C per almeno 40 giorni. In queste
condizioni, se ben ricoperto di farina, il prodotto si conserva anche per 78 mesi. Prima della vendita la superficie del prodotto viene pulita.
La Mica costituiva anticamente un ingegnoso sistema di conservazione
della carne, bene un tempo assai prezioso, anche per 7-8 mesi;
conservazione ottenuta utilizzando il pepe, col suo potere battericida, e la
farina di segale, il tipico cereale di montagna, che insieme creano uno
strato superficiale protettivo atto a limitare al minimo gli scambi con
l’esterno e quindi a preservare l’integrità del prodotto.
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5.2.1
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I salami.
Il nome del salame deriva, com’è facilmente percepibile, da “sale”, ossia
dall’ingrediente fondamentale per la sua conservazione e la sua maturazione.
Difatti, fin dagli albori della civiltà, l’uomo si rese conto che, per la conservazione
delle carni, la funzione del sale è assolutamente indispensabile. Spetta infatti al sale
ridurre la quantità di batteri indesiderabili, quali i germi anaerobi, che potrebbero
indurre fenomeni di putrescenza, pericolosi per la salute umana.
La flora
responsabile dei processi di affinamento dei salumi viene quindi selezionata
principalmente grazie all’apporto del sale.
Per i romani il salame apparteneva al genere di vivande definite salsum, vale a
dire “salate”, vendute dal salsamentárius, il salsamentario o il pizzicagnolo direbbero i
romani d’oggi. Più specificamente, la famiglia dei salami portava il nome di
tomaculum o tomacium., più che altro però in allusione alla loro forma.
Fino a pochi decenni fa, mentre ogni cascina aveva i propri porcelli, nei
paesi, ma anche nelle città, molte famiglie compravano un maiale intero, spesso
ancora vivo, e lo facevano ammazzare dal norcino, che cercava di utilizzarne al
meglio tutte le parti. C’erano parti da consumare subito, come gran parte del
sangue, il fegato, le costine, gli zampini, la salsiccia e certi altri pezzi meno
conservabili: per giorni e giorni l’economia famigliare imponeva di mangiare maiale
e di fare in qualche modo festa.
Di solito si ammazzava il maiale in concomitanza con le feste di fine anno,
periodo in cui i lavori dei campi rallentavano, il freddo consentiva una più agevole
conservazione delle carni e le feste imminenti facilitavano - anzi quasi lo
richiedevano, per una sorta di santificazione delle festività - il lasciarsi andare al
gozzoviglio. In campagna comunque spesso si celebravano le porcataje, le feste del
porcello, anche al di fuori delle feste comandate ed anzi, con la scusa ‘d ajutè a fè i
salam, il rito della festa si perpetuava di borgata in borgata per tutto l’inverno.
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Ad ogni buon conto, in un modo o nell’altro, in tutte le cantine
troneggiavano file di salami e di cotechini, prosciutti e pancette appese a stagionare:
una riserva di cibo per tutto l’anno, che in un certo senso ogni volta rinnovava la
festa.
Oggi invece l’opulenta disponibilità d’ogni ben di dio in qualunque stagione
dell’anno ha fatto scomparire non solo o non tanto quei sapori antichi - poiché a
ben cercare li possiamo ancora trovare nei mille angoli nascosti della nostra
penisola - quanto la nostra capacità di far festa attorno ad una pagnotta casereccia,
due fette di salame ed un bicchier di vino.
In molti casi comunque sono davvero i prodotti che tendono a scomparire,
sia per carenza o addirittura mancanza di una certa materia prima (gli asini, i muli, i
cavalli), sia per le nuove e moderne tecniche di conservazione. I salam ‘d la doja per
esempio - conservati anche per un anno intero nel grasso fuso del maiale all’interno
d’un orcio di terracotta, la doja - non hanno forse più ragion d’essere, almeno dal
punto di vista della tecnica di conservazione, dal momento che esistono il
sottovuoto e il congelatore.
Per fortuna però - e sperando che duri - ormai mangiamo per il piacere più
che per il bisogno e quindi un numero sempre crescente di consumatori invoca a
gran voce la salvezza dei Cacciatorini d’una volta, del Cotechino, del Salame cotto o
di quello ‘d la doja.
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Il Cacciatorino.
Piccolo salame stagionato da mangiare crudo, spesso confezionato in
“collane”. Diffuso quasi dappertutto in Piemonte, in certe zone vengono
consumati anche cotti. Qua e là in Piemonte sono anche chiamati salsicce
alla cacciatora.
Il macellaio torinese Giuseppe Lancia, provveditore della Real Casa
nell’Ottocento, sosteneva: “questa salsiccia alla cacciatora è una delle
preparazioni più appropriate per i viaggiatori e i cacciatori”. Ed ecco
spiegata l’origine del termine “cacciatorino”.
Grazie alle ridotte dimensioni, che ne permettono un consumo immediato,
senza creare problemi di conservazione, il cacciatorino è, probabilmente, il
tipo di salame crudo più conosciuto e venduto in Italia.
La lavorazione comprende l’insaccatura di carne e grasso di maiale tritati. Vi
è una certa variabilità da zona a zona per ciò che riguarda la concia, che
comprende spesso l’utilizzo di vini tipici o speziature tipiche della zona di
produzione (macis, noce moscata, aglio, finocchietto, erbe aromatiche,
cannella). Insaccato nel budello torto di manzo o suino, il cacciatorino
matura qualche giorno in ambiente caldo e umido e poi passa alla
stagionatura, della durata di qualche settimana, in un locale fresco e areato.
Spesso i salamini, del peso di circa 50 grammi, sono venduti a grappoli di
cinque, sette o dieci pezzi. Quelli più grandi, legati a ferro di cavallo,
prendono invece il nome di “salsicce secche”. Per gustare al meglio la
fragranza del cacciatorino, bisognerebbe mangiarlo freschissimo, prima
ancora che emerga in superficie la tipica muffa bianca.
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Il Salame Cotto
Del maiale, com'è noto, non si butta via niente, ma come utilizzare nel
migliore dei modi le carni di seconda scelta? Per i norcini di buona parte
del Nord Italia, e specialmente per gli emiliani, la risposta è da sempre la
mortadella; in Piemonte invece è il salame cotto.
Si tratta di un insaccato non stagionato in genere servito come antipasto.
L’impasto di questo salume non è fine, quasi cremoso come quello della
mortadella, ma è tritato abbastanza grossolanamente, subisce una minore
salatura ed è arricchito con vino (specialmente Barbera), spezie ed erbe
aromatiche come pepe cannella, menta, santoreggia, chiodi di garofano. La
decisa aromatizzazione è necessaria per supplire alla mancata fermentazione
naturale delle carni, non sottoposte a stagionatura. Insaccato nella
bondeana di manzo, è lessato a fuoco molto lento. È prodotto in tutto il
Piemonte, nelle versioni più diverse, secondo lavorazioni sia artigianali sia
industriali.
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Il Salam D’la Duja
Tutti conoscono la maschera piemontese di Gianduja, il cui nome deriva da
duja o douja, termine dialettale che indica il boccale largo e basso, dotato di
manico e beccuccio, che un tempo si usava per mescere il vino. II nome
Gian d’la duja, diventato poi Gianduja, stava quindi a sottolineare le
abitudini alcoliche del personaggio. II salame in questione, però, non è
caratterizzato dalla presenza di vino nell’impasto. II termine duja, invece, è
passato col tempo a indicare anche il grande orcio di terracotta in cui si
conservavano salami ricoperti di strutto.
È nell’epoca della conquista romana che il Piemonte è in gran parte passato
dalla cucina a base di grassi animali alla cucina a base di olio, anche se
alcune subregioni - quelle che hanno posto maggiore resistenza alla
conquista e all’invasione romana, come l’Alto Canavese - tenacemente sono
rimaste fedeli fino a questi ultimi decenni alla tradizione, al burro ed ai
grassi di origine animale: i salami della duja sono gli esempi più concreti di
un certo rifiuto dell’olio di oliva (in altre regioni gli stessi salami sono
appunto conservati nell’olio).
Così il salame d’la duja trae la sua denominazione dal modo in cui lo si
conservava dal tempo della macellazione fino alla nuova luna di marzo. E
ancora oggi il metodo non è molto cambiato.
L’impasto è un macinato misto di carni scelte e magre (spalla, coppa e
ritagli di coscia) e di grasso, di lardo o pancetta, condito con sale, pepe,
aglio e vino rosso, in dosi variabili a seconda della zona di produzione.
Dopo un’asciugatura di circa tre giorni in un locale fresco e ventilato, si
passa alla duja. Lo strutto fuso che ricopre i salami, raffreddandosi, si
solidifica e li protegge dall’ossidazione. In genere non si superano gli ottonove mesi di stagionatura; più tempo passa, comunque, più aumenta la nota
piccante del salame.
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Il Cotechino
Alzi la mano chi non ha mai cenato in occasione dell’ultimo dell’anno con
lenticchie e cotechino in tutte le sue possibili varianti, sicuramente
l’insaccato da cuocere più diffuso in Italia. In Piemonte, però il cotechino
assume un’importanza ulteriore in quanto è uno degli immancabili
componenti del tradizionale gran bollito misto.
II suo nome nasce dalla presenza nell’impasto, in proporzioni variabili,
della cotenna di maiale. Originariamente questa ne costituiva addirittura
l’esatta metà (il resto è carne magra). Oggi, seguendo le attuali mode
alimentari, i cotechini non ne contengono più del 30%. II cotechino
migliore è quello ricavato dalle parti più sanguigne del maiale, ovvero le più
vicine al collo e alla testa dell’animale a cui è mescolata la “parte bianca”,
costituita dal lardo o, meglio ancora, dal cosiddetto “golato”, un grasso
piuttosto consistente che si trova alla base della testa. Il tutto, macinato
grossolanamente è tradizionalmente condito con sale fino, chiodi di
garofano, pepe e cannella.
L’insaccatura avviene in budelli di manzo tenuti precedentemente a bagno
in acqua e vino bianco secco. Tra le varianti, segnaliamo il cotechino
fasciato (detto anche “in galera"), cioè spellato, avvolto in una fetta di
manzo e cotto come un arrosto, mentre il “cappello da prete”, in Piemonte,
è un taglio di arrosto della spalla da non confondere con l’omonimo salume
parmense: un triangolo di cotenna farcito con l’impasto del cotechino.
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5.2.2 I Prosciutti.
La trasformazione della coscia, o della spalla, del maiale in prosciutto è
diffusa in tutto il torinese, sia a livello artigianale che industriale, anche se hanno
raggiunto fama mondiale soprattutto i prosciutti emiliani, veneti e umbri. Pochi
sanno che gran parte dei maiali dai quali si ottengono i più rinomati prosciutti
vengono invece proprio dagli allevamenti piemontesi.
A livello locale (in moltissime zone della nostra regione) esiste la tradizione
di preparare particolari prosciutti, che grazie al tipo di animale, alla concia,
all’eventuale
affumicatura
ed
all’ambiente
in
cui
maturano,
acquistano
caratteristiche di gran pregio.
IL PROSCIUTTO CRUDO DELLA VAL SUSA
Il Jambon ‘d la Val Susa, il Prosciutto Crudo della Val Susa, si differenzia da
altri prosciutti crudi per alcune caratteristiche particolari: innanzitutto la
coscia di suino viene privata dell’osso prima della salatura, quindi è rifilata
in modo da consentire alla cotenna di ricoprire tutta la carne ed infine viene
cucita al fondo, con cucitura molto spessa. Il peso finale è di 12-13 kg.
La salagione viene effettuata a secco ed ha durata di 15 giorni. Ad essa
segue una giornata di asciugatura ed una pressatura, con pesi di circa 3 kg,
per 3-4 giorni. Alla pressatura segue un riposo di 100 giorni a temperatura
controllata (3-5°C) con un rivoltamento al giorno, al termine del quale si
procede ad un lavaggio e alla stuccatura delle cuciture con sugna. Infine
inizia la fase di stagionatura, che si protrae per 15-16 mesi, con un
rivoltamento settimanale. La caratteristica metodologia produttiva del
Prosciutto Crudo della Valle di Susa, in particolare la cucitura, è una
tradizionale metodica, tipica soprattutto dell’Alta Val di Susa, che
consentiva di conservare i prosciutti nei fienili o nei sottotetti,
proteggendoli meglio da eventuali parassiti ed agenti contaminanti.
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5.2.3 I salumi poveri.
5.2.3.1 Dalle “torte” di sangue al Salame di patate.
La povertà, la scarsità di altre fonti di proteina animale, l’innato e a volte
esasperato sfruttamento di tutto ciò che era disponibile, hanno suggerito a certe
comunità insolite ed originali utilizzazioni anche di parti meno nobili del porcello:
ne sono un esempio le “torte di sangue” e le stesse “lasagne al sangue” della, un
tempo, poverissima Langa; oppure il “Marzapane” novarese, che non ha nulla di
dolce nonostante il nome, ma è composto da sangue di maiale, pane grattugiato,
latte e lardo, condito con spezie, aglio e vino.
Altri prodotti originati dalla povertà, poi diventati leccornia, sono anche i
Salami di patate del Canavese e del Biellese e le Salsiccie di riso conservate in strutto
dell’alto Biellese, insaccati nei quali alla carne di maiale tritata si aggiungevano
rispettivamente patate bollite e riso cotto, certamente per aumentare, con relativa
poca spesa, il cibo a disposizione.
A seguire riportiamo le schede sintetiche dei principali di questi prodotti che
ancora troviamo sul territorio della provincia di Torino.
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La Mustardela.
È uno dei tanti salumi che fanno parte della più povera tradizione
contadina, nato dalla necessità di sfruttare al meglio ogni parte del maiale,
compreso il sangue. Lucida, elastica, di colore viola scuro tendente al nero,
la Mustardela ha una forma cilindrica un po’ ritorta, lunga più o meno 25
centimetri e con un diametro di circa 6 centimetri.
Un tempo molto più diffusa, oggi la sua produzione è decisamente limitata:
oltre a qualche famiglia che la prepara per proprio consumo, esistono pochi
artigiani nelle Valli Pellice e Chisone, le cosiddette Valli valdesi, che
lavorano e vendono sul posto.
La preparazione della mustardela è molto antica e notevolmente complessa.
La materia prima deve essere un maiale di grande pezzatura e peso intorno
ai 200 chili. Durante la macellazione si raccoglie in un recipiente tutto il
sangue; poi si lessano in acqua la testa, la cotenna, le orecchie, la lingua, i
polmoni, i rognoni, salando solo a fine cottura. Dal grasso fuso e colato si
ricavano i ciccioli e si lasciano raffreddare. Tritati a grandezza media i
ciccioli, la carne, più alcuni porri e cipolle stufati, vi si aggiunge il sangue,
condendo con sale, pepe e spezie varie. Si lascia riposare il composto per
due ore, si insacca nel budello torto e si fa lessare per un quarto d’ora. La
Mustardela non è un salume adatto alla stagionatura. Si mangia
prevalentemente come se fosse un salame, ma entra anche nella
composizione di alcune ricette locali. Resiste, inoltre, l’antica tradizione di
tagliarla per la lunghezza e friggerla con le cipolle.
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Il Boudin
La parola francese boudin comprende, tra i suoi tanti significati, quello di
“sanguinaccio": in effetti, è proprio di questo che si tratta, anche se
costituisce una variante particolare della più comune versione di cui
abbiamo già parlato. Grande classico della cucina tradizionale delle zone
montane della provincia di Torino, preparato in macellerie e salumerie
esclusivamente del luogo, è un insaccato ottenuto principalmente da sangue
di maiale (ma esistono anche boudin di sangue bovino, in purezza e misto).
La differenza sostanziale sta nell’impasto, all’interno del quale sono
mescolate patate bollite (o, più raramente, barbabietole rosse), cubetti di
lardo, sale, spezie, aromi naturali, erbe di montagna e vino. Insaccati in
budelli sottili, i sanguinacci sono appesi ad essiccare
per un paio di
settimane. La conseguente stagionatura non può protrarsi per più di un
mese, in quanto la patata bollita è facilmente deperibile.
In tavola il Boudin può essere servito grigliato, fritto e soprattutto lessato:
dopo averlo bollito, lo si dispone in un tegame a rosolare con burro, aromi
e patate affettate, fino alla cottura delle stesse. Nei tempi andati era
considerato a ragion veduta un piano povero, oggi è facile scoprirlo in bella
mostra tra gli antipasti dei ristoranti regionali più affermati.
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Il Sanguinaccio con Pane
Il Sanguinaccio con pane si presentano come un salsicciotto di colore
tendenzialmente scuro.
Si confeziona facendo un impasto di sangue di maiale, pane secco raffermo,
rifilatura di pancette, aglio, pepe e droghe varie, insaccando il tutto nel
budello. Il prodotto viene venduto fresco ed è consumato di preferenza
bollito e servito con le patate.
Il Sanguinaccio con Patate
È un sanguinaccio tradizionalmente legato alla montagna, ove è maggiore la
disponibilità di patate rispetto al pane.
Anch’esso si presenta come un salsicciotto tendenzialmente scuro,
preparato con le stesse materie prime e consumato con le stesse modalità
del sanguinaccio con pane.
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Il Bisecon o Bisecun.
Il Bisecun è un salame cotto di testa o di trippa di maiale aromatizzato con
sedano e carote ed insaccato nello stomaco del maiale. Deve il suo nome al
nome dialettale buseca, che significa appunto “trippa”.
Vengono fatte cuocere le trippe (o la testa) in un brodo di verdure,
vengono quindi condite con soffritti di cipolle, conciate con aromi, tritate a
grana media ed insaccate in un budello grosso come quello del salame
cotto. Segue mezz’ora di cottura in acqua bollente.
Normalmente è
venduto a fette.
I Previ o Preti.
I Previ sono delle cotenne arrotolate ed aromatizzate tipiche di diverse
zone del Piemonte.
Si taglia una striscia di cotenna di maiale, si dispone su di una superficie di
lavoro e di condisce con sale, pepe, aromi e conce particolari, a seconda
delle tradizioni delle diverse zone. Si arrotola su se stessa e si lega con
apposto spago.
Viene consumata cotta bollita, generalmente con i fagioli (Tufaja).
L’origine del prodotto è sicuramente antica ed è stata tramandata di padre
in figlio, come raccontano testimonianze dei locali. Sembra che il prodotto
prenda il nome dal fatto che tale ghiottoneria era destinata all’ospite più di
riguardo della cene e tale ospite generalmente era il prete del paese.
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La Pancetta con Cotenna.
Si tratta di una pancetta ripiegata su se stessa con la cotenna che la ricopre.
Si presenta legata. Le pancette - squadrate, salate a secco ed aromatizzate –
vengono messe aperte in salagione, per 21 giorni, poi vengono appese e
fatte sgocciolare ed infine piegate su se stesse “a libro” e legate.
Pancette di questo genere si sono sempre prodotte per i consumi familiari,
ma esistono anche salumifici artigianali o piccolo industriali che producono
la pancetta con cotenna da oltre mezzo secolo.
Il Salame di Patate
Dalla tradizione contadina del Canavese il sapore di un prodotto antico: il
Salame di Patate. Le origini di questo particolare salame si perdono nella
notte dei tempi. Con i suoi semplici ingredienti era in grado di soddisfare in
modo completo le esigenze della popolazione rurale che confezionava nelle
proprie cascine questo prodotto.
La carne metà grassa e metà magra, viene macinata ed impastata in giusta
proporzione con le patate. Si insacca in budello naturale e si produce da
Settembre a Marzo, prima che la patata fermenti. Una quantità limitata di
pepe fino, noce moscata, cannella ed altri aromi naturali completano la
preparazione di questo squisito prodotto. Per la maturazione basta un
giorno in ambiente secco e ventilato mentre non è necessaria la
stagionatura. Per questo motivo deve essere consumato entro un massimo
di 20 giorni. In genere è consumato quasi subito, gustato crudo oppure
cotto arrosto o grigliato.
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La Salsiccia di Cavolo
La Sautisa ‘d coj, Salsiccia di cavoli, un tempo era prodotta utilizzando solo
foglie di cavolo e grasso di maiale, mentre in tempi più recenti si è diffuso
l’utilizzo, almeno in parte, di carne di suino. Si utilizza circa un terzo di
foglie di cavolo, un terzo di grasso di suino ed un terzo di carne. Delle
foglie di cavolo si utilizza solo la parte verde (si elimina la nervatura
centrale).
Le foglie di cavolo sono lavate, bollite e schiacciate per far uscire l’acqua.
Vengono unite al grasso ed alla carne e il tutto è macinato (più o meno
finemente) ed insaccato.
Queste salsicce - lunghe circa 20 cm, con
diametro di 7- 8 cm e peso di 500 g. circa - sono prodotte in autunno ed
inverno; si conservano fino a due settimane dopo la preparazione. Per il
consumo è necessaria la bollitura.
La Salsiccia di cavolo è un prodotto tipico del comune di Mattie, in Valle di
Susa, e delle zone limitrofe.
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5.2.3.2 Piedini ed orecchie.
Anche un piatto di eccelsa gastronomia come la Batsuà, ormai classico della
gastronomia piemontese, nasce dalla tendenza quasi esasperata di utilizzare al
meglio ogni parte del maiale (o del vitello). E così pure il Barato, una zuppa a base
di orzo e patate un tempo abbastanza diffusa nelle cascine del Novarese, di cui gli
zampini di maiale sono i componenti essenziali.
Qua e là per il Piemonte poi hanno avuto diffusione gustosissimi piatti ed
insaccati in cui entravano le orecchie oppure le frattaglie del maiale, come il
gustosissimo Orion (appunto le orecchie del maiale cucinate con aceto, in certi casi
con acciughe e peperoni), oppure le Frisse, salume povero realizzato con frattaglie di
maiale ed originariamente tradizionale delle Langhe.
La Batsuà o Basuà.
La Batsuà è un piatto classico della cucina tradizionale piemontese
-
costituito da piedini di maiale (o di vitello) rasati, bolliti con un po’ d’aceto
di vino, disossati, tagliati a strisce, impanate e fritte - sempre più di
frequente presente nei menù di ristoranti con cucina tradizionale.
Il nome curioso è la trascrizione fonetica del francese bas-de-soie, che
significa “calza di seta”, probabilmente per la delicatezza del piatto o per
ironia sulla zampa del maiale (o del vitello).
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Le Frisse o Grive.
Le Frisse o Grive sono polpettine fatte con fegato nero, polmone, frattaglie
varie, carnetta e grasso di gola, impastate ed avvolte nell’omento. Le
polpettine, che hanno pezzatura di circa un etto, vengono sovente cosparse
di farina gialla, affinché non si attacchino le une alle altre. Alcuni
aggiungono uvetta lasciata a bagno nel vino per una notte, altri zucchero.
Vengono fritte in padella ed una volta venivano fritte con lo strutto o il
burro.
Diffuse un po’ ovunque in Piemonte, le Frisse sono caratteristiche
specialmente del Canavese
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5.2.4
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Salumi ed insaccati di altri animali.
Nata per il maiale, la tecnica dell’insaccato, che ha rappresentato per secoli il
più sicuro metodo di conservazione per le carni, si è estesa in Piemonte anche ad
altri animali. E così nelle valli di Lanzo, a due passi da Torino, è nato il Salam ‘d
turgia, preparato con la carne della vacca da latte che non ha avuto vitelli, mentre in
altre zone montane è esistita (rarissima oggi) la Tetetta: mammella di mucca cotta a
lungo (anche sette ore), tritata e confezionata in salami con sale, erbe di montagna,
aglio e spezie.
A Moncalieri, che fino a una decina di anni fa era uno dei più importanti
mercati piemontesi di vitelli e mucche, è finita in un insaccato persino la trippa di
bovino.
Così si sono tramandati, fin quasi ai nostri giorni, insaccati “curiosi”, che
prevedono per esempio, in zone dove il maiale era meno frequente, l’uso di carne
d’asino (soprattutto sulle montagne, laddove asini e muli erano impiegati in lavori di
campagna o nei trasporti) oppure di carne di cavallo (come a Castelletto sopra
Ticino, dove esisteva fino al secolo scorso una stazione di cambio dei cavalli che
trascinavano le chiatte lungo il Ticino). Del resto nel Monferrato esiste ancora oggi
un salame di puro suino che si chiama mula o muletta, il che rende lecito il sospetto
che in un non lontano passato il ripieno fosse invece proprio costituito da carne
d’asino o di mulo.
Ed infine, tradizionali del torinese, sono anche gli insaccati di capra ed il
salame di cinghiale.
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Il Salam ‘d Turgia
L’origine di questo insaccato, tipico delle valli di Lanzo, è legata alla
soluzione d’un problema di stretta necessità: quando una vacca,
inestimabile patrimonio economico per l’allevatore, diventava improduttiva
a doveva essere abbattuta per un qualsiasi motivo, ci si trovava con una
quantità di carne non facile da smaltire. Facendone dei salami, era invece
possibile conservarla per lungo tempo, senza nulla sprecare. Ancora oggi,
per la produzione del tipico Salam ‘d turgia vengono usate le carni di vacche
turgie, sterili, improduttive.
L'impasto si compone per il 70% di carne vaccina e per il 30% di grasso
suino, macinati grossolanamente e aromatizzati con sale, pepe in grani e
spezie. Insaccato in budello di vitello, si passa alla fase di riscaldamentoasciugatura della durata di circa una settimana, all’interno di una paiola a una
temperatura di circa 20°C. II Salam ’d turgia si consuma sia crudo sia cotto.
La stagionatura di solito dura un mese, in celle tenute alla temperatura
costante di 10-12°C, ma si trovano in commercio anche salami più freschi,
di soli 15 giorni di stagionatura. L’intero procedimento di lavorazione,
stagionatura e conservazione, nel corso del tempo non ha subito
cambiamenti sostanziali: l’unico intervento è stato di carattere strutturale,
legato
alle
moderne
disposizioni
sanitarie
che
hanno
richiesto
l’adeguamento dei locali delle salumerie. La produzione è oggi limitata a una
decina di quintali annui, venduti dagli stessi produttori.
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La Teutenne o Tetetta.
La Teutenne o Tetetta, è la mammella della mucca, salata, aromatizzata e,
talvolta, affumicata. Come tanti altri prodotti dell’antica tradizione
contadina, anch’essa è nata dalla necessità, se non addirittura dall’“obbligo
morale", di non buttare via nulla dell’animale macellato.
Un tempo
celebrata prelibatezza delle zone alpine Piemontesi e Valdostane, oggi è
prodotta da un numero ristretto di salumieri. La preparazione, piuttosto
complessa, è rimasta praticamente immutata nel tempo. Le mammelle
fresche di mucca sono appese per qualche ora e incise in più punti per far
uscire tutto il latte che è ancora al loro interno. Intanto si prepara, in un
recipiente piuttosto capace, un letto di foglie di salvia, alloro e rosmarino,
bacche di ginepro, spezie e sale. Quindi vi si adagiano sopra
alternativamente uno strato di mammelle e uno di aromi, finché non si
riempie completamente il contenitore, e si lascia riposare per 15-20 giorni.
Trascorso questo periodo, le mammelle sono poste in appositi stampi e
cotte lentamente a vapore per un periodo che varia da artigiano a artigiano.
Fatta asciugare e conservata in luogo fresco, la Teutenne è pronta per il
consumo. Di sapore particolarmente delicato, ha l’aspetto di una mousse
alquanto compatta. In tavola, è servita come antipasto in fette molto sottili.
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La Tripa ‘d Muncalè.
Costituita dai prestomaci (rumine, reticolo e talvolta anche l’omaso) di
alcuni ruminanti bovini, ovini e caprini, la trippa è un piatto di antica
tradizione latina e celtica, particolarmente gustoso e decisamente meno
grasso di quanto si pensi.
L’importanza della carne - e della trippa in particolare - nella città di
Moncalieri ha origini antichissime.
Già nel 1230 esisteva un florido
mercato del bestiame e, addirittura, una contrada della città medievale (oggi
via Vittorio Alfieri) era dedicata ai masei, ovvero ai macelli. L’idea della
Tripa ’d Muncalè, ovvero di un salame di trippa, nacque dalla necessità di
conservare più a lungo un alimento di facile deperibilità.
Le tre cavità (non esclusivamente bovine), dopo il classico trattamento di
sbiancatura, tramite asportazione del rivestimento, lavaggio e toelettatura,
sono bollite, compresse e insaccate in un budello di 12 centimetri di
diametro. Dopo una breve stagionatura il salame di trippa è pronto per il
consumo. Di solito è servito come antipasto, tagliato a fette o a listarelle
sottili, condito con olio, limone, pepe, aglio e prezzemolo.
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Il Salame di Capra.
Il Salame di capra è tipico di numerose zone montane del Piemonte ed in
particolare delle Valli di Lanzo e del Canavese, la cui produzione avviene
normalmente in primavera ed in autunno.
La lavorazione prevede l’impasto di vari ingredienti (50% circa di carne di
capra ben sgrassata, carne di maiale, lardo o pancetta, carne di bovino), la
loro macinazione e l’insacco a formare salami lunghi dai 15 ai 20 cm legati
in file. I salami vengono poi lasciati asciugare in una particolare cella
chiamata paiola (dal patois paiulà), in cui viene mantenuta una temperatura
intorno ai 20°C e un’umidità del 65% circa.
L’asciugatura dura una
settimana circa ed ogni giorno i valori di umidità e temperatura sopra
indicati variano (2°C in meno e 2 punti percentuali di umidità in più ogni
giorno). In alcuni casi si passa direttamente alla stagionatura vera e propria,
che dura mediamente dai 20 ai 30 giorni, e avviene in celle o cantine a
temperatura costante di 10-12 °C e con un’umidità relativa del 70-80 %. Il
Salame di capra può anche essere consumato fresco, dopo 15 giorni.
Il procedimento di lavorazione, stagionatura e conservazione non ha subito
mutamenti con il passare del tempo;
l’unico intervento è di carattere
strutturale e legato ai locali delle salumerie che sono stati adeguati alle
disposizioni sanitarie in materia di lavorazione della carne.
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Il Salame di Cavallo.
Si presenta con la forma di un cacciatorino un poco più lungo. L’impasto è
formato da una parte magra di carne di cavallo al 100 % e da una parte
grassa costituita da lardelli di pancetta e grasso di maiale. L’impasto,
aromatizzato con sali, aromi, spezie, viene insaccato e legato a filzi o file.
Viene poi stagionato per circa 15 giorni.
Si tratta di un’antica specialità di Strambino e di altri paesi limitrofi.
Il Salame di Asino
Molto simile al salame di cavallo, ma di pezzatura un poco più piccola, è
caratteristico anch’esso delle vallate alpine e del Canavese.
L’impasto è formato da una parte magra di carne di asino al 100 % e da una
parte grassa costituita da lardelli, pancetta e grasso di maiale. L’impasto,
aromatizzato con sali, aromi, spezie, viene insaccato e legato a file. Viene
poi stagionato per 15 giorni circa.
Il Salame di Cinghiale
Sono salami non molto stagionati (20-30 giorni circa), scuri, ottenuti da
carne magra di cinghiale mescolata a pancetta di maiale (15-20 %), sale e
vari aromi naturali, a seconda di ricette più o meno casalinghe e tramandate
oralmente tra le generazioni.
Sono specialità diffuse soprattutto nelle Valli di Lanzo ed in Val di Susa.
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5.2.5 I Violini e le Mocette.
I salumi di capra, dal canto loro, sono nati nelle zone più povere e di
montagna, dove il maiale non aveva le condizioni migliori di vita: così nel
Monregalese erano per esempio specialità (e oggi è meno facile trovarli) i Meiron ’d
crava (magroni di capra), che inizialmente erano semplici pezzi di carne di capra
affumicata in salamoia oppure, soprattutto nell’Ossolano ma anche in alcune vallate
torinesi, i Violini, che consistono in un prosciuttino ottenuto dal cosciotto della
capra.
In Valle d’Aosta, che geograficamente è Piemonte e che storicamente ha
fatto parte del Piemonte fino a cinquant’anni or sono, sono nate per esempio le
Mocette, a base di carne secca affumicata, che in origine erano confezionate con la
lingua dello stambecco o del camoscio, poi sono state fatte con le carni di capra ed
oggi per lo più sono di carni bovine.
Il Violino di Agnello.
Coscia di agnello, salata e stagionata, da consumare come un prosciutto
crudo. I cosci sono salati e conciati. Nella concia, oltre a sale, pepe e
cannella, vengono utilizzati alloro e rosmarino. Le operazioni di salatura
durano 9-10 giorni.
La stagionatura si protrae per circa 60 giorni. Il
prodotto non è affumicato.
Il Violino di Camoscio.
Coscia di camoscio preparata esattamente come descritto a proposito del
Violino di agnello.
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Il Violino di Capra.
Coscia di capra preparata esattamente come descritto a proposito del
Violino di agnello.
La Mocetta del Canavese.
La Mocetta, o Motzetta, è uno dei più celebri salumi delle zone alpine, di
cui pare re Vittorio Emanuele II fosse particolarmente ghiotto, tipico
soprattutto dell’area del Parco del Gran Paradiso.
Fino a qualche tempo fa, la si otteneva dalla coscia disossata dello
stambecco, ma da quando quest’ultimo è stato dichiarato specie protetta i
salumai hanno dovuto ripiegare su alcuni tagli del manzo, sulla capra e,
nella maggior parte dei casi, sul camoscio.
La lavorazione è molto simile a quella del prosciutto: la carne , rifilata dal
grasso e dalle fibre è massaggiata con una miscela di sale, pepe, timo, salvia,
alloro, rosmarino e santoreggia. Perché raggiunga la maturazione è posta
per qualche giorno sotto sale e poi ad asciugare in un ambiente tiepido ed
aerato per una settimana.
La stagionatura avviene in luoghi freschi e
ventilati per un periodo di tre o quattro mesi. Si può conservare al massimo
un anno, poi indurisce eccessivamente.
Piatto tipicamente invernale, perché se ne possa apprezzare al meglio il
gusto va servita al naturale, e non, come spesso avviene, condita con olio,
pepe e limone. Al ristorante si trova spesso sotto forma di bocon du diable,
boccone del diavolo, accompagnata cioè da fettine di pane di segala abbrustolite in precedenza con uno spicchio d’aglio - imburrate e spalmate
di miele.
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5.2.6 Altri prodotti.
La Carne secca in salamoia.
Pezzetti di carne - oggi soprattutto di vitello o vitellone, ma nei tempi
passati di capra o anche di maiale - conservati in salamoia, arricchita con
spezie, per il consumo durante tutto l’anno.
Prodotto un tempo tipico dell’Alta Val di Susa - ne parla anche Mario
Soldati in alcuni suoi romanzi - oggi sopravvive ancora a Bardonecchia, in
particolare nella frazione Melezet, dove sono consumati prevalentemente in
famiglia.
La Galantina.
Preparata con carne di maiale, variamente condita e aromatizzata e cotta.
Tradizionalmente dovrebbe essere insaccata nella vescica del maiale oppure
messa in scatola con la sua stessa gelatina. Si consuma fredda, tagliata a
fette.
Sono oggi numerose le salumerie che l’hanno riscoperta e non è raro
trovarla in un piatto di affettati misti, non sfigurare affatto accanto ai salumi
più blasonati.
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Il Lardo.
Il Lardo è il pannicolo adiposo sottocutaneo del dorso e delle pareti
addominali del maiale, in commercio a pezzi, con o senza cotenna. Può
essere fresco o conservato sotto sale (con la salatura si riduce a circa un
terzo del suo peso); anche affumicato o variamente aromatizzato, con
spezie, ginepro, erbe aromatiche. Si mangia crudo a fettine più o meno
sottili; si fa sciogliere per fritti e soffritti, ma era in passato usato soprattutto
come condimento.
Molto diffuso ancor oggi quasi dappertutto in Piemonte. In particolare
sono rinomati il Lardo al rosmarino di Cavour ed il Lardo nero di Banchette
d’Ivrea.
Il Salame all’aglio.
Impasto di carne magra e grasso, conciato con sale, pepe e aglio macerato
nel vino bianco. Viene insaccato nel budello e si conserva spesso immerso
nello strutto.
È una specialità tipica di Ivrea e del suo circondario.
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La Testa in cassetta.
Ricavata dalla testa di maiale, aromatizzata con spezie ed insaccata in un
budello naturale. Prodotta per lo più in inverno, è tipica di Cavour e del
Pienerolese.
Il Vioroun.
Si tratta di carne dapprima macerata in salamoia, in tinozze di legno, fra
strati di erbe di montagna e sale, poi essiccata. Oggi pressoché introvabile,
era tipico dell’alta Valle di Susa.
5.3 Che fine ha fatto messer porco ?
Nell’evolversi dei consumi e nello stile di vita metropolitano il maiale è oggi
cibo di grande attualità: gli insaccati e la carne suina incontrano sempre più il favore
dei consumatori.
È un ritorno di gusto e un riconoscimento di qualità: negli anni passati la
psicosi delle diete, l’allarme lanciato dal mondo della medicina nei confronti delle
cosiddette “malattie dell’abbondanza”, tipiche del nostro tempo, avevano generato
un orientamento avverso ai cibi grassi ed a farne le spese è stata, più di altri
prodotti, proprio la carne di maiale. Salami e cotechini furono bollati con il
marchio di cibi pesanti, carichi di grassi pericolosi alla salute e furono accusati di
contenere troppo sale, di alzare il tasso di colesterolo nel sangue e, soprattutto, di
far ingrassare.
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Recenti studi dell’Istituto Nazionale della Nutrizione sostengono che si
tratta, per buona parte, di pregiudizi e ingiuste accuse. La carne di maiale, grazie a
rigorose selezioni delle razze e a nuovi sistemi di allevamento, è molto meno grassa
di un tempo. I grassi del maiale sono per lo più insaturi, simili cioè a quelli dell’olio
d’oliva, mentre il contenuto in colesterolo non è superiore a quello delle altre carni.
La richiesta del mercato, in questo ultimo periodo, è tornata a essere
altissima. Ed è evidente che, nonostante continuino a esistere piccoli allevatori e
produttori, così come ancora ci sono salumieri e macellai che producono in proprio
gli insaccati, è ormai la grande industria a rifornire i banchi dei negozi e dei
supermercati.
Questo boom dei salumi però non nasce da una riscoperta dell’antica nobiltà
di messer porco, di cui tanto abbiam parlato nel paragrafo dedicato al ruolo che egli
ebbe - “egli” si badi, non esso - nella tradizione contadina piemontese. Nasce
piuttosto da una scoperta: i salumi, gli affettati in particolare, sono quanto di più
comodo e ghiotto possa offrire l’odierna cultura del panino in fretta e furia, del
break che sostituisce il pasto.
Oggi le case non hanno più cantine, le riserve alimentari (quando ci sono)
stanno nel frigorifero o nel congelatore, non c’è più tempo (e forse neppure la
voglia e la capacità) di studiare e preparare manicaretti complicati: tanto meglio se
sono già preparati, o se richiedono poco impegno. Il prosciutto è venduto a fette,
spesso in vaschette o sottovuoto; il salame è offerto già stagionato; il cotechino non
si compra quasi più; il sanguinaccio è praticamente scomparso; l’uria del crin,
l’orecchio del maiale, non si sa nemmeno più dove cercarlo.
Se poi qualcuno conosce una massaia [N.d.R.: la massaia è quella femmina
di razza umana che quotidianamente si reca sul mercato a riempir le sporte della
spesa per la propria famigliola] che ancora cerca il pezzo di cotenna per rendere più
gustosa la zuppa di fagioli, ce lo segnali, per favore: provvederemo a sposarla se del
caso, sicuramente a ricavarne qualche clone.
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6. I prodotti lattiero-caseari.
6.1 I formaggi fra storia e leggenda.
6.1.1
La storia e gli aneddoti più antichi.
Duecento anni prima di Cristo il Cartaginese Annibale
- secondo un
racconto popolare piemontese, la cui origine si perde nella notte dei tempi - calà
dal Mongineiver coí soldà pien d’aptit, diret a Roma, a l’à 'ncrosià la rasa... per 'na toma (sceso
dal Monginevro coi soldati pieni d’appetito, diretto a Roma ha incrociato la razza
… per una toma).
Dove finisca la leggenda ed inizi la realtà non è dato sapere, ma Annibale,
intanto, è passato per davvero in Piemonte durante la seconda guerra punica.
Il
23 settembre del 218 avanti Cristo è anzi la prima data storicamente certa in cui si
parla di Torino: Annibale vince i Taurini, assedia la loro capitale (che si chiamava,
sembra, “Taurasia”), la conquista in tre giorni, mettendola a ferro e fuoco. Che poi
le migliaia di Cartaginesi ed i loro alleati fossero affamati (pien d’aptit) non è certo
difficile a credersi: durante la difficile traversata delle Alpi non avevano trovato
molti viveri e non potevano avere al seguito troppe vettovaglie. Come pure che
abbiano incontrato la “toma”, apprezzandola al punto da prolungare la loro
permanenza, non pare idea peregrina. Quasi certamente infatti i soldati di Annibale
non conoscevano alcun tipo di formaggio: venivano per lo più dall’Africa
settentrionale e oggi sappiamo che molti popoli africani - come del resto quasi tutti
gli asiatici, soprattutto dell’Estremo Oriente - non avevano (e non hanno tuttora)
tradizioni alimentari legate al latte ed ai suoi derivati (perché in gran parte di quelle
popolazioni è assente l’enzima lattasi, che,
scindendo il lattosio nei suoi
componenti, glucosio e galattosio, rende il latte digeribile). Ed è inoltre altrettanto
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sicuro che nelle zone alpine e pedemontane all’epoca di Annibale - e già da tempo si allevavano mandrie di bovini e si conosceva l’arte casearia.
Non c’è dubbio infine - per finire con le possibili verità contenute nella
leggenda - che in Piemonte i Cartaginesi di Annibale si siano trattenuti più di
quanto fosse necessario per vincere le resistenze dei Taurini e proseguire verso
Roma, riscuotendo in questo tempo il premio che tutti i conquistatori pretendono.
La storia ci dice infatti che si trattennero più o meno due mesi: distrutta
Torino in settembre, a metà novembre erano ancora in zona, tanto che il giorno 15
di quel mese combatterono e vinsero una drammatica battaglia sul Ticino. Undici
anni più tardi poi un altro esercito Cartaginese, guidato da Asdrubale, fratello di
Annibale, è ripassato per le Alpi e per Torino.
Il racconto di Annibale e delle tome ci dà insomma un punto di riferimento
per confermare l'antichità e una possibile primogenitura delle nostre terre nell'arte
casearia. L’invasione dei Cartaginesi è avvenuta più di duemila anni or sono, ma è
certo che per risalire all'epoca in cui si è cominciato a far formaggi in Piemonte si
dovrebbe fare un ulteriore salto indietro nel tempo di qualche altro migliaio di anni.
Da dove sia venuta agli antichi abitanti del Piemonte la capacità e quindi la
tradizione di far formaggi non è un mistero: conosciamo i bovini e l’arte casearia
grazie alle massicce immigrazioni di popoli provenienti dai pianori dell'Asia
centrale. Siamo stati conquistati e occupati da genti che in questa parte d’Europa
hanno probabilmente preso il posto dei primitivi popoli cacciatori, portando con sé
- e lasciandocela in eredità - la capacità di addomesticare i bovini, di allevarli, di
utilizzarne il latte e di fare formaggi. Siamo i discendenti di quei popoli e di quegli
incroci.: la capacità e il gusto di fare, e consumare formaggi sono probabilmente
iscritti da allora nel nostro patrimonio genetico.
Dell’ipotetico e remoto inventore dei formaggi., Livio Cerini di Castegnate,
gastronomo lombardo, ha tracciato una bella immagine nel libro Il cuoco gentiluomo:
«Se risalgo nei millenni vedo il primo furmagiatt casuale che, avendo dimenticato in
un angolo della sua capanna sulle palafitte un legno cavo pieno di latte e avendolo
ritrovato cagliato, invece di buttarlo via - essendo un avaraccio - cerca di utilizzarlo:
scoprendo le prime vestigia di un nuovo sapore, apre una nuova èra per il palato.
Sempre sia benedetto questo ignoto benefattore.».
Sul Monte Bego e nel Vallone delle Meraviglie - al confine geografico tra Francia e
Italia, sulle Alpi Marittime - fin dall'epoca neolitica (tra il 5000 e il 2000 prima di
Cristo) in più posti sono incisi sorprendenti graffiti che tra l'altro rappresentano
bovidi e anche recinti nei quali le mucche venivano custodite: è la testimonianza
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eloquente di una presenza dell'uomo allevatore (e dunque probabilmente anche
produttore di latte e formaggi) in quei tempi lontani.
Si sa del resto che, nel villaggio neolitico di La Maddalena, presso Chiomonte in Val
di Susa, già dieci-dodicimila anni fa abitavano cacciatori-pastori che allevavano
capre, pecore e mucche e che probabilmente già sapevano utilizzare il latte per fare
tome o ricotte. E se è vero, come dimostrano gli studi più recenti, che l’agricoltura
si è diffusa nelle nostre aree fra il 6000 e il 6500 avanti Cristo, è a quell’epoca che si
deve far risalire anche l'inizio dell’allevamento regolare e razionale del bestiame e
quindi la fabbricazione diffusa dei formaggi.
Come quasi sempre curiosamente capita per i prodotti dell’alimentazione, anche per
i formaggi c'è poca storia scritta e ci sono memorie zoppicanti. C’è qualche
accenno nei testi che abbiamo ereditato dalla Grecia antica, c’è qualcosa anche in
Plinio il Vecchio e negli altri scrittori della tarda romanità, ma ben poco prima e
quasi niente dopo, almeno fino al tardo Medio Evo.
Il termine “formaggio”, deriva dal latino medievale “formi, formagium”, con
riferimento a “forma”, trattandosi solamente di latte lavorato e tenuto in una
forma. (Caseum formaticum, cacio messo in una forma). Molti formaggi francesi si
chiamano appunto “fourme”; da noi è abituale parlare di “forma di Fontina, di
Parmigiano, eccetera”.
Un piccolo fatto di lingua: la parola “ceva” era il termine usato nella lingua
parlata nel basso Piemonte prima della conquista romana per indicare una razza di
vacche alpine; per questo una cittadina cuneese si chiama tuttora Ceva. Numerosior
Appennino: Cebanum hic e Liguiria mittit ovium maxime lacte (Più ricco l’Appennino: dalla
terra dei Liguri invia il formaggio di Ceva, soprattutto di latte ovino) è la frase di
Plinio (Naturalis Historia., libro 11, 240-241). Interpretandola, c'è chi ha individuato
nel nome ligure-pedemontano “Ceva” anche l’origine del termine latino per
formaggio (“caseum”), da cui forse è anche venuta la parola “cacio”, con tutti i suoi
derivati tuttora in uso nell’Italia centromeridionale.
Non sembra esserci dubbio, in ogni caso, che luogo di sviluppo europeo
dell'artigianato dei formaggi siano stati proprio le terre a cavallo delle Alpi: quelle
valli e quelle montagne che oggi si chiamano Svizzera, Savoia, Lombardia,
Piemonte e Valle d’Aosta. Soltanto in epoche più tarde - con lo sfruttamento
progressivo e intensivo dei grandi pascoli dell’Europa centrale e sotto la spinta
dell’aumento della popolazione europea - l’artigianato caseario si è anche esteso al
resto della Francia, spingendosi man mano verso l’attuale Olanda, la Danimarca e
oltre.
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Le poche cose che sappiamo del modo di mangiare dei nostri antenati
piemontesi negli anni bui dell’antichità e del Medio Evo ci fanno capire che il
formaggio era soprattutto utilizzato come una sorta di “riserva di cibo”: il latte abbastanza abbondante quando la mucca o la pecora o la capra allattavano i loro
piccoli - non poteva essere conservato; ma si era scoperto che lasciandolo o
facendolo cagliare, e trasformandolo quindi in formaggio, poteva invece essere
messo da parte e consumato in tempi successivi o in periodi di carestia. Passando
il tempo il formaggio non si alterava; certamente maturava e si trasformava, ma
restava commestibile: una buona riserva, insomma, anche relativamente facile da
immagazzinare per il domani, al limite agevole da nascondere in caso di invasioni e
guerre.
Companatico reperibile quasi dappertutto, facile da conservare, trasportabile,
a portata di quasi tutte le borse, il formaggio era soprattutto consumato nell'esercito
e dalle famiglie più povere, che non potevano permettersi la carne. Già Aristofane
(nella “Pace”, scritta quattro secoli prima di Cristo), aveva sottolineato che il
soldato era stanco della guerra, dell’elmo, del formaggio e della cipolla, che sono il
vitto dei militare in guerra.. E Platone (nel secondo libro della Repubblica aveva
notato che sale, olive, formaggio, cipolle e verdura erano il cibo dei campagnoli..
Anna Maria Nada Patrone - in un studio attento e prezioso sul cibo
nell’epoca medievale - sostiene che dai documenti antichi si può dedurre “un uso
quasi classista dei formaggi nei regimi alimentari” nell'area pedemontana.
E
segnala: «In un contratto censuario dei 1276 tra il Monastero di Rocca delle Donne
e alcuni coloni della grangia di Guazzolo si stabilisce che nei giorni della trebbiatura
due rappresentanti del monastero dovessero essere presenti alla spartizione dei
grani tra possessore e affittuari, avendo diritto a fin “prandium” di pane, vino e
carne, mentre i “tenitores” della terra avevano a loro volta diritto a un “prandium”
- quando avessero trasportato il raccolto dai campi alla grangia - composto di pane,
vino e formaggi.». Carne per i signori, formaggio per i dipendenti, insomma.
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Tra i tipi di formaggi del Medio Evo sono del resto segnalati il “caseus
spongiosus”, quello “filosus”, quello “cavemosus” e quello “oculatus”, che
probabilmente erano i più scadenti e quindi riservati alle mense dei poveri. Erano
anche considerati “ideali donativi amore Dei”, cioè adatti alle elemosine a favore
degli ordini religiosi mendicanti.
Inoltre esistevano formaggi particolarmente piccanti, che Pantaleone da
Confienza, nel 1400, non esita a definire “utiles pro pauperibus”, “preziosi per i
poveri”, sia perché ne era sufficiente una piccola quantità per condire o dare gusto
al pane o alla polenta, sia perché - quando erano utilizzati per la confezione di torte
o pasticci con pasta da pane, polenta o verdure (che erano di preparazione diffusa e
popolare) - rendevano non necessario l’uso del prezioso sale e delle spezie troppo
care.
Ma i formaggi piccanti e anche molto fermentati non dovevano soltanto
piacere ai poveri, se è vero - come risulta nel 1270 dai registri della casa sabauda che il conte di Savoia ricevette in omaggio personale per l’Epifania dal castellano di
Evian, due “seracia putrefacta” (che non devono evidentemente averlo disgustato).
Per molti secoli, almeno fino al 1500 circa, severe norme religiose vietavano, oltre
alla carne, anche il consumo dei formaggi nei giorni di magro. Il divieto era
imposto durante la Quaresima, nonché “in die veneris” (il venerdì) e “in vigíliis
solemnibus,, (nelle vigilie solenni). Gli statuti di Chieri del 1300 vietano
esplicitamente ai tavernieri di utilizzare formaggio e uova anche per la preparazione
di cibi nei giorni di magro. Nonostante ciò, durante tutto il Medio Evo i formaggi
figuravano fra i prodotti che dovevano essere dati - specie nelle zone montuose agli enti ecclesiastici per censo o come tributi.
Cibo popolare, dunque; ma anche - curiosamente - ghiottoneria e, al tempo
stesso, oggetto di regalo. Il poeta Francois Villon, nel suo testamento, lasciò una
“talmouze” (una sorta di soufflé al formaggio) in eredità all'amico Jehan Ragnier.
Luigi XVI, fuggendo da Parigi per sottrarsi alla Rivoluzione, fu arrestato a
Varennes: aveva fame e sete, chiese e ottenne vino e formaggio.
E la celebre
madame de Montespan vantava di saper creare cento salse di sua invenzione a base
di formaggio.
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Per tutto il Medio Evo il formaggio ha sofferto dei pregiudizi di una
medicina ufficiale scettica sulla sua bontà alimentare, al punto che in molti testi se
ne sconsigliava il consumo. Addirittura c’era chi riteneva - per esempio lo stesso
Pantaleone da Confienza, che vedremo essere, nel XV secolo, il primo a studiare e
a catalogare i nostri formaggi - che latte e formaggi potessero essere, in particolari
circostanze, una delle possibili cause della lebbra o quanto meno di certe malattie o
infezioni della pelle.
Il latte era perciò quasi sempre consumato bollito con cereali (soprattutto
l’avena) in una sorta di polentina liquida, oppure veniva fatto coagulare o condito
con molto sale, con agresto o con aceto o anche unito a miscugli agrodolci.
In Piemonte era anche diffuso e consumato il burro, benché, essendoci a
disposizione altri tipi di grasso (in primo luogo il lardo, ma anche gli oli che si
sapevano ottenere spremendo non soltanto le olive - ben più diffuse di oggi in
Piemonte - ma anche altre bacche e frutti), si riteneva tutto sommato più
conveniente trasformare il latte e il suo grasso in formaggio. Per questo, fin dal IX
secolo almeno, la produzione casearia in Piemonte risulta essere notevolmente
abbondante.
Operazione relativamente facile, almeno per ottenere i risultati più
elementari, i formaggi erano fatti in casa: nelle campagne, ovviamente, ma anche
nelle città, dove senza problemi erano tenute capre e pecore e dove in ogni caso era
possibile approvvigionarsi di latte, portato ogni giorno sul mercato cittadino dai
margari (ancora pochi decenni or sono era tradizione di molte famiglie piemontesi
preparare in casa rudimentali “tomini”).
6.1.2 Il Medioevo.
In Piemonte, nel Medio Evo, era molto diffuso e consumato soprattutto il
“seratium” (corrispondente all’odierna ricotta o séirass.). Ma per avere un quadro di
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quella che doveva essere la vasta gamma dei formaggi nel Piemonte medievale, è
necessario attingere ad alcuni libri fondamentali che ci tramandano nozioni di
alimentazione e di arte sanitaria.
Giacomo Albini di Moncalieri, medico del principe Giacomo di Savoia Acaia nella
prima metà del Trecento, nel suo “De Sanitatis Custodia” riporta regole e consigli
alimentari, probabilmente ispirate alla scuola salernitana e alla stessa medicina
araba, ma che hanno alcuni riferimenti al consumo dei formaggi, sostenendo tra
l'altro che il formaggio “dat multum nutrimentum et forte”: dà abbondante e ricco
nutrimento.
Alle buone norme dell’alimentazione - con numerosi cenni ai latticini si rifà
anche Antonio Guainerio, nell’ “Opus preciarum ad praxim non mediocriter
necessarium” del 1481.
Vera e propria guida al vivere sano ed al nutrirsi con
saggezza è pure il “Veni Mecum” di Pietro de Monte da Bairo, protomedico di
corte e docente all’Università di Torino: il suo celebre testo fu pubblicato in latino
nel 1512, seguito da una edizione in volgare nel 1524.
Ma la fonte prima e più ricca per chi vuol sapere qualcosa sui formaggi del
passato (in tutt’Europa, ma in Piemonte in particolare) è la “Summa lacticiniorum
completa omnibus idonei”, incunabolo pubblicato nel 1477 da Pantaleone da
Confienza, maestro di Pietro da Bairo.
6.1.2.1
Pantaleone da Confienza e la sua Summa lacticiniorum.
Nato appunto a Confienza, cittadina della Lomellina oggi in provincia di
Pavia, ma allora dipendente dalla sabauda Vercelli, Pantaleone fu professore alle
Università di Vercelli, Pavia e Torino, nonché “protomedico”, ossia capo dei
medici, di casa Savoia. Ebbe a suo tempo fama di “dottissimo”, fu spesso chiamato
per consulti anche alla corte del Monferrato e, come premio per la sua attività, la
duchessa Anna di Savoia gli concesse in appannaggio la castellanìa di Carignano.
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Il Summa lacticiniorum fu stampato a Torino da Jean Fabre (un esemplare è alla
Biblioteca Nazionale del capoluogo piemontese), ed è riconosciuto essere il primo
dettagliato studio sul latte e i formaggi.
Per incarico dei Savoia, spesso al seguito dello stesso duca Lodovico (figlio di
Amedeo VIII, l’antipapa di Ripaglia, e padre del beato Amedeo IX), Pantaleone
aveva potuto viaggiare in tutto lo stato sabaudo, in Italia e anche nel resto d’Europa
(in Francia soprattutto) e ne aveva approfittato per studiare e analizzare i vari tipi di
formaggio dell’epoca.
La seconda parte dei trattato di Pantaleone - intitolata “De caseis”, del
formaggio - è in effetti la prima monografia esistente al mondo dedicata in modo
specifico ai formaggi ed è divisa in quattordici capitoli, nei quali analizza i caci
“Vallis Augustae” (della Valle d'Aosta), “Vallis Lancii” (delle valli di Lanzo), “Vallis
Segusiae” (della Val di Susa) e così di seguito.
Tra i formaggi che cita merita
ricordare:
Caseus mordicativus: formaggi gustosissimi e piccanti prodotti nella valle di
Locana e Ceresole e in Valle di Lanzo.
Caseus piacentinus: il “piacentino”, (che potrebbe essere identificato nel nostro
attuale Grana padano) il quale secondo il medico sabaudo, quando è stagionato per
3-4 anni, deve il gusto alle erbe odorose che si trovano sulle sponde del Po.
Questo “placentinus”, sostiene Pantaleone, era superiore al Reggiano, ai formaggi
di Vercelli, di Novara o degli altri posti dove si cominciavano a produrre forme
analoghe. Veniva anche prodotto nell’Alto Novarese (forse in Val d’Ossola, dove
oggi si produce il Bettelmett), in grosse forme, oblunghe, quasi quadrate.
Caseus sapidus: formaggio gustoso prodotto negli alpeggi dei Moncenisio senza
salatura: a dargli gusto erano sufficienti le erbe dei pascoli.
Cerisole vallis Locane caseus: formaggio di Ceresole in val Locana, tome a lunga
conservazione prodotte nell'Alto canavese, che dopo sei mesi di stagionatura
assumevano una colorazione rossastra e un sapore intenso e piccante.
Coacils prope Aviliana seracium: seirass di Coazze presso Avigliana, formaggio
rinomato e di buona qualità, non molto salato, che migliorava il sapore dopo una
certa stagionatura.
lanua caseus o caseus ianuensis: formaggio di porta, prodotto a Gavi, di cui
esistono segnalazioni fin dal 1193.
La Mora caseus: robiola di La Morra, Pantaleone lo giudica ,<uno dei migliori
formaggi italiani>.
Mascarpa o seracium: prodotto a Coazze e Avigliana, in Val di Susa, a Chieri e a
Savigliano. Pantaleone ne consiglia il consumo dopo averlo stemperato con acqua
di rose e zucchero.
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Montecenisio caseus: vari tipi di formaggi (diversi per forme e gusto) prodotti
negli alpeggi del Moncenisio, considerati ottimi specialmente se preparati con latte
ottenuto dai primi pascoli con erba nuova (caseus marcengus).
Robiole : le migliori erano prodotte a La Morra, nel Monferrato, sulle Alpi liguripiemontesi (Ceva e terre dei marchesi dei Carretto), nonché in Lomellina (a
Palestro e a Confienza).
Vallis Auguste caseus: formaggio della Valle d'Aosta - l'antenata delle attuali
“tome” valdostane e della Fontina. Pantaleone lo considerava un formaggio
ottimo, profumato, gustoso, grasso, burroso, facile a liquefarsi tanto che si
consumava spalmato su fette di pane arrostito: è il principio della “fonduta”. (La
Valle d'Aosta è stata parte della provincia di Torino fino al 1927 e dal 1945 è
diventata regione autonoma).
Vallis Lancii et circumstantium caseus: formaggio delle valli di Lanzo e zone
vicine, in forme molto grosse, poste a maturare sulla paglia e sul fieno, corrisponde
con ogni probabilità alle attuali “tome di Lanzo”. Quando con la stagionatura, la
crosta era ben ispessita al punto da aver incorporato fili di erba e di paglia e il
formaggio aveva perso l'eccesso di umidità, la forma veniva pulita e quindi posta fra
chicchi di avena o di segale per completarne la maturazione e acquisire il
caratteristico sapore piccante (“incisidus et morticativus”).
Vallis Sancti Martini caseus: formaggio di val San Martino, prodotto a San
Martino Canavese, era abbastanza simile alle “tome” prodotte in valle di Susa.
Vallis Secusie caseus: formaggio della Vai di Susa. Grassi o magri, erano le
caratteristiche “tome” di montagna.
Nel testo del medico dei Savoia non manca poi un giudizio di merito:
detestato da molti - sostiene Pantaleone (che da parte sua ne era ghiotto) - il
formaggio è da molti invece amato visceralmente, tanto da costituire il
fondamentale se non unico alimento per gran parte della popolazione.
Non
mancano neppure riferimenti alle tecniche di lavorazione e di stagionatura dei vari
tipi di cacio.
Apprendiamo dal testo di Pantaleone che i cagli erano tratti
dall'abomaso dei giovani animali ancora nutriti a solo latte oppure dal coagulo
contenuto nello stomaco della lepre. Ma segnala che per cagliare il latte venivano
utilizzati anche coaguli vegetali, come il latte di fico o il succo del cardo.
Stagionati a volte anche per lunghissimo tempo, molti tipi di formaggio
venivano conservati avvolti nel fieno o nella paglia (i bisnonni del Sairass del fen o
della Paglierina). Altrove le forme erano invece immerse nelle granaglie (la segale il più asciutto di tutti i cereali - era considerata la più adatta): i chicchi mantenevano
un calore moderato, con un buon grado di umidità naturale, impedendo al tempo
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stesso che il formaggio subisse una fermentazione eccessiva.
Spesso le forme
erano anche tenute in cantine, in caverne, oppure erano più o meno
abbondantemente affumicate, o semplicemente esposte al fumo del camino.
(L’inventario del castello sabaudo di Torino, nel 1419, cita uno “scanum pro
caseis”, cioè uno scaffale per i formaggi).
In Piemonte all'epoca di Pantaleone (siamo nel XV secolo) c'era anche
grande commercio di formaggi provenienti dalle vallate alpine, dalla Valle d’Aosta,
dalla Savoia, ma anche dall’Emilia (Parmigiano) e dalla Sardegna (Pecorino). Non
c'è infatti statuto comunale o bando dell’epoca che non preveda gabelle o pedaggi
sull’importazione o anche soltanto sul passaggio di casei e di seracia. E in molte
località - per esempio a Ivrea già nel XIV secolo - i venditori di formaggi erano
raggruppati in associazioni di categoria.
Consumato come companatico (con pane o, ancor più, con la polenta dell’epoca,
fatta con farine dei più svariati cereali, compreso il miglio), il formaggio doveva
essere molto utilizzato per condire quelle torte di pasta di pane e verdura, che sono
spesso ricordate nei testi dell'epoca come caratteristica della cucina popolare. Ma
Pantaleone da Confienza descrive anche altri modi di consumare i formaggi. Per
esempio ci dice che nella Moriana (regione oggi francese che si trova appena al di là
delle Alpi Cozie) il formaggio aveva grosse dimensioni (oltre i 10 chili, come ancor
oggi molte tome d’alpe) e veniva tagliato a fettine per essere sciolto al fuoco dei
camino in inverno. (Queste forme erano chiamate “lumbi”, forse - pensa
Pantaleone - perché avevano una forma simile al lombo del porco o del corpo
umano). In altre vallate alpine, invece, le fette di formaggio venivano esposte al
fuoco con pinze (o comunque strumenti di ferro) fin che si scioglievano e la crema
così ottenuta era consumata su croste di pane. I formaggi della valle di Lanzo
infine, erano “grassi”, in forma quadrata e si era soliti consumarli “liquefatti co’l
butiro nell’inverno”.
Cinquecento e più anni fa, Pantaleone insomma già descriveva, con sufficiente
esattezza, le tecniche odierne per la preparazione della “raclette”, della “fondue
suisse o savoiarda,” della nostra stessa fonduta.
Giovanni Lodovico Bertaudo, medico pure lui di casa Savoia nei primi anni dei
Seicento, a proposito dei “serraci” del Piemonte provenzale, ci dice anche che si
consumavano “fritti con pepe e sale in padella”.
Il “serracio” era un formaggio anche da esportazione; scrive infatti Bertaudo: “si fa
nell’Alpi liguri e nell’Alpi di Cuneo e si manda dentro a le scatole in altri paesi. E
specialmente i frati certosini che abitano nell’Alpi, ne’ luoghi di Pes e Cassotto, ne
fanno assai.” (Il Certoso di Cassotto. di cui scrive Bertaudo è la Certosa di Casotto
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fondata nel XII secolo e devastata dai francesi nel 1802. - Con Pes, il medico allude
invece alla Certosa di Pesio costruita nel 1173, soppressa nel 1802).
6.1.3 Dalla «polenta concia» di Facino Cane ai giorni nostri.
Un aneddoto che ha tutta l’aria di avere radici di verità, racconta che il
Piemonte deve la capillare diffusione della “polenta concia” (fatta cioè cuocendo o
condendo la farina con pezzi di Toma) a uno dei personaggi più discutibili e
sanguinari che sia apparso nella nostra regione alla fine del 1300: Facino Cane.
Nato a Santhià nel Vercellese, Facino mise se stesso e la banda dei suoi
accoliti al servizio di chi lo pagava di più: fu agli ordini del marchese del
Monferrato, combatté per i Visconti, assediò e distrusse castelli e paesi un po’
dappertutto.
Si racconta dunque che avesse una vera passione per la “polenta concia”
(chiamata qua e là anche “polenta grassa”), al punto da farne quasi il suo unico
alimento: ovunque capitava la pretendeva, obbligando cuochi e contadine a
preparargliela. Naturalmente la polenta di Facino Cane non era fatta con la farina
di mais, bensì con farine di altri cereali: soltanto nel Seicento - o addirittura nella
seconda metà del Settecento, secondo alcuni storici - e comunque dopo la scoperta
dell'America, la polenta sarà fatta con il granturco.
Il mondo lattiero-caseario per altro è uno dei pochi settori della nostra
alimentazione a non aver subito cambiamenti importanti in conseguenza della
scoperta dell'America.
Al contrario, la storia ci insegna che i formaggi
rappresentano uno dei regali che la vecchia Europa ha fatto al nuovo mondo, dove
l'allevamento del bestiame era una pratica sconosciuta.
È un fatto abbastanza
sorprendente che merita di essere sottolineato, in quanto quasi tutta l’alimentazione
in Europa è stata invece profondamente modificata - e in linea di massima anche
alterata - dall’introduzione e dal consumo di prodotti scoperti in America: basta
pensare al peso crescente e in molti casi determinante che da allora hanno avuto nel
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mangiare quotidiano il mais, la patata, il peperone, il fagiolo (in Europa si coltivava
solo il fagiolo dell’occhio) o la zucca.
È lecito insomma ritenere che l'evoluzione del formaggio rappresenti una
linea continua che si perde nella notte dei tempi: al contrario di altri prodotti della
nostra alimentazione quotidiana, si può credere che gran parte dei formaggi che
oggi si possono trovare sulle nostre tavole siano sostanzialmente identici a quelli
che erano già a disposizione dei nostri avi migliaia di anni or sono. Gli stessi
processi di lavorazione sono in gran parte identici a quelli d’allora.
Molti formaggi piemontesi presentano curiose similitudini, nonostante confini e
barriere geografiche, con i prodotti caseari che si producono (o si producevano)
nelle regioni contigue.
I formaggi delle valli di Susa e di Lanzo sono abbastanza simili - per
fabbricazione e talvolta anche per forma - a quelli che si ritrovano nella confinante
Savoia; quelli dell’Ossola sono parenti stretti degli aostani e, ancor più, degli
svizzeri; quelli delle valli cuneesi hanno infine conservato un che di provenzale.
Sono il risultato di una dominanza storica, ma anche l’effetto di quel singolare
fenomeno che ben conoscono gli abitanti delle zone alpine, i quali sanno che il più
delle volte le montagne uniscono anziché dividere (come insegnerebbe invece la
moderna geografia politica), favorendo il nascere sugli opposti versanti di abitudini,
costumi e modi di vivere che presentano sorprendenti rassomiglianze.
Esistono persino, al di qua e al di là delle Alpi, analogie nei nomi di certi
formaggi, quasi a dimostrarne il carattere sovranazionale.
soprattutto nella Savoia i formaggi chiamati Tomme.
Diffusissimi sono
Un po’ in tutta la Francia
alpina è poi diffuso un Serac (anche chiamato Serrè o Serray) abbastanza simile al
nostro Seirass: curiosamente viene anche chiamato Brousse (il che può far pensare
al nostro Bruss). Nella lontana Bretagna (soprattutto nella zona di Rennes), si
produce da tempo immemorabile una jonchèe (gioncata con latte intero coagulato
messo a gocciolare in un pagliere di giunchi o di paglia di segale intrecciata: tal quale
lo si fa nel Pinerolese anche se alla loro jonchèe spesso i bretoni uniscono, con il
caglio, qualche goccia di Kirsch).
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I prodotti lattiero-caseari della Provincia di Torino.
6.2.1 La Toma.
Come abbiamo visto (cfr. paragrafo 6.1.2.1) Pantaleone da Confienza,
nell’illustrare le varie qualità di formaggio presenti sui mercati pedemontani, cita i
formaggi delle valli di Locana e Ceresole, di Lanzo, di Susa e del Moncenisio,
classificandoli tra i gustosissimi caseus mordicativus, noti per il sapore intenso e
piccante, frutto di una stagionatura di circa sei mesi e della miscelazione di latte
bovino e ovicaprino. Erano gli antenati della Toma.
Dal Medio Evo in poi quindi la Toma si è andata affermando come
formaggio tipico dell’areale alpino piemontese, mantenendo, soprattutto tra i
margari, tipologie produttive e risultati organolettici che ben poco si discostano da
quelli descritti negli incunaboli medievali.
La stessa frammentazione produttiva e l’incanalarsi del prodotto nei mille
rivoli dei mercati locali, non è tutt’oggi, fatte le debite proporzioni, granché diversa
da quella dei secoli sopra citati, al punto che ogni vallata piemontese può vantare
tipicità produttive, spesso ulteriormente accentuate distinguendo l’alta dalla bassa
valle e l’inverso dall’indritto. Ovunque però, al di là dei localismi e delle più o meno
nobili “enclaves” produttive, è da tempo immemorabile diffusa la coscienza che
esiste un filo conduttore che accomuna le produzioni in un’unica denominazione: la
Toma.
La Toma poi, nata come formaggio in aree tipicamente montane e di valle, si
è diffusa con il tempo anche nelle zone di pianura a causa, o meglio dire per merito,
dei margari, così come ricordato tra gli altri da Francesco Confienza in una
memoria dal titolo I margari della Provincia di Torino presentata nell'adunanza del 20
maggio 1917 alla Reale Accademia d’Agricoltura di Torino (Vol. LX pp. 87-112), da
Carlo Remondino - direttore dell’ufficio agrario di Cuneo - nella relazione La mostra
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dei prodotti della montagna (Cuneo 1912-1913) e da Giovanni Delforno ne I Formaggi
Tipici del Piemonte e della Valle d'Aosta (edizioni EDA 1981, pag. 176).
Il Confienza precisa: «...col nome di margari sono chiamati i pastori che nella
stagione autunnale(settembre ed ottobre) discendono dai monti nella pianura, con
le loro scorte vive, per trascorrervi l'inverno. Taluni margari ritornano nella zona a
montana in fine marzo o ai primi di aprile, altri in fine maggio o nella prima decade
di giugno; questi ultimi sono chiamati margari di loggia, mentre i primi sono
conosciuti col nome di margari propriamente detti. I margari di loggia (i quali in
primavera provvedono in parte all’alimentazione del bestiame mediante il pascolo
di alcuni prati detti, localmente, primaverili o di loggia) sono a caratterizzati
dall'avere le scorte vive costituite in prevalenza da bovini... ».
Il Confienza inoltre ricorda come il latte prodotto dai margari venisse da
loro direttamente impiegato per la fabbricazione del burro, della Toma, del nostrale
e della ricotta, il che conferma come il margaro unisse, allora come ai giorni nostri,
all’attività d’allevatore di bovini ed ovini quella di casaro.
Ancora oggi in Piemonte si contano un numero significativo di margari
(oltre 1.500 secondo i dati della Regione Piemonte - Assessorato della Sanità),
destinato però, a causa delle condizioni dure di vita e di norme giuridiche sempre
più restrittive, ad un costante e inesorabile decremento, con un’emorragia che
andrebbe assolutamente fermata, perché, come scriveva il Delforno già quindici
anni fa, «la montagna deve avere i suoi abitanti, che sono i suoi difensori e fra i più
tipici montanari sono appunto quei pastori-imprenditori di bestiame, i quali
dovrebbero, pertanto, essere bene organizzati e protetti, ricordando che, per tenere
avvinte alla montagna le popolazioni montane, bisogna anzitutto dare loro in loco
la possibilità di una vita meno augusta e disagiata».
Sull’origine ed il significato etimologico del termine “Toma” esistono diverse
ipotesi, ma ben poche certezze. Tutte le fonti storiche e letterarie, comprese quelle
poc’anzi citate, infatti parlano genericamente di caseus, essendo, fino al Settecento
almeno, i trattati scientifici ed anche i documenti ufficiali di un certo livello redatti
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rigorosamente in latino, oppure, più recentemente, di cacio o formaggio. A questo
proposito il Santacroce (Il formaggio Toma di Lanzo, 1994, pag. 14) ritiene che il
termine “toma” fosse già utilizzato nei primi anni del Settecento anche in Val di
Lanzo, citando a conferma taluni testamenti che prevedevano rendite vitalizie
pagate in natura («…emine quindaci tra segla, et orzo, Rubbi due Tomme, Rubbo
uno butiro, mezzo Rubbo sale livre cinque oglio di noce…»). Occorre comunque,
benché l'uso popolare del termine “toma” sia sicuramente assai più antico,
attendere i primi decenni dell'Ottocento e la comparsa dei primi dizionari
piemontesi (Zalli,1830; Sant'Albino,1859; Gavuzzi, 1891) per avere notizie certe ed
autorevoli su di esso.
Tali dizionari concordano tutti nel definire il Toma una sorta di cacio
fresco, di ridotte dimensioni. È quanto ad esempio afferma lo Zalli (Dizionario
Piemontese, Italiano, Latino e Francese, 1830), il quale scrive: «Toma = sorta di cacio
formato recentemente con latte rappigliato insieme e premuto; cacio fresco, caseus
recens, fromage frais, fromage blanc. Toma grassa a la fior, cacio fresco col fior di
latte ... fromage frais a la creme, fromage non ècrèmè. Toma `d formag, forma di
cacio. ».
Dal che si deduce anche che “toma” possa avere una qualche attinenza
etimologica con “forma”, come pare confermare il Dal Pozzo (Glossario etimologico
piemontese, 1893), che scrive: « toùma = cacio fresco, formagella; etimo: dal provenz.
toumo cs. greco tomi, formella.». Il Levi invece (Dizionario Etimologico del Dialetto
Piemontese, 1927) alla voce tuma (o toma) recita: «sorta di cacio, forse voce
preromana (cfr. Romanisches Etymologisches Worter-Buch, Meyer Lubke W.,
Heidelberg, 1911) propria della regione alpina.».
Il Cortellazzo-Zolli (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana;1855) avanza
ulteriori ipotesi: «toma, formaggio grasso; quaglio, di etim. incerta. Di solito si
ricostruisce un lat. Pan. region. toma(m), che sembra rappresentare il gr. tomè
“taglio”, temnein “tagliare”. L’ipotesi di antica proposta (“Romania” XL-VIII, 1922,
p. 449-450 e LI, 1925 p. 540) non sarebbe infondata se si pensa alla diffusione del
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termine attestatosi soprattutto nell'Italia meridionale e nella Francia meridionale,
focolai di grecità, ma non è soddisfacente per la semantica, perché non si vede la
stretta relazione di questo tipo di formaggio con l'atto del tagliare. La derivazione
alternativa dal gr. ptoma “caduta” parrebbe più plausibile. Ma non sono mancate
altre spiegazioni: dal latino tumor “rigonfiamento” (Gregorio), morfologicamente
difficile, o da base preromana tuma “formaggio”(Hubschmidt) ».
Il Battisti Alessio (Dizionario etimologico italiano, 1957) invece ci è utile per
comprendere un po’ meglio la diffusione del termine. Scrive infatti: « tòma = f.
(XVII sec. Oudin), - azzo (m., ant., a.1398, ad Alcamo in Sicilia = sic. Tumazzu);
formaggio grasso; quaglio; formaggio spannato; cfr. lucch. tòma siero o parte
acquosa che si separa dal burro non ben raccolto quando poi si strugge, piem. tuma
caciola, tumin caciolino, calabr. tuma la pasta fresca del cacio prima di essere messa
nelle forme, tumazzòlu caciola formata coi residui della pasta, sic. tuma raveggiolo,
tumazzu; prov. toma, prov. mod. tumo f. raveggiolo, giuncata, passato al fr. tom(m)e
f.., massa di caglio fermentato, sorta di formaggio delle Alpi (a. 1842) ... Etimologia
discussa. ma verosimilmente da un lat. regionale toma, che sembra rappresentare il
gr. tomè taglio ... Il centro della voce sembra essere stato Marsiglia. ».
II termine toma quindi parrebbe non essere diffuso al solo Piemonte.
Per tentare di ricostruire, almeno sommariamente, la distribuzione areale del
termine “toma”, non ci aiuta la toponomastica, poiché non esiste né in Italia, né in
Francia alcun toponomastico “toma” o simile, mentre al contrario possiamo
servirci di due carte linguistiche riportate nell’Atlante Linguistico dell’Italia e della
svizzera Meridionale (A.I.S.), che è sicuramente uno dei migliori atlanti linguistici del
mondo.
Dalla carta n°1209 caciare (fare il formaggio) scopriamo che il tipo lessicale fe
la tuma è presente in dodici punti linguistici e precisamente: Vico C.se (punto A.I.S.
n°133), Rochemolles (140), Bruzolo (142), Ala di Stura (143), Corio (144),
Montanaro (146), Sauze di cesana (150), Giaveno (153), Torino (155),
Pontechianale (160), Corneliano d’Alba (165) e Cortemilia (176).
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Nella carta
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n°1217 salare il formaggio troviamo il tipo lessicale salè la tuma in tredici punti: Noasca
(131), Vico C.se 8133), Rochemolles (140), Bruzolo (142), Ala di Stura (143), Corio
(144), Sauze di cesana (150), Pramollo (152), Pontechianale (160), Pietraporzio
(170), Valdieri (181), Calizzano (184), e Airole (190), questi ultimi già in Liguria,
sulle Alpi Marittime.
La carta caciare inoltre ci consente di stabilire che il tipo lessicale toma in Italia
è diffuso, oltreché in Piemonte, soltanto in Sicilia, dove “fare il formaggio” è
presente pressoché su tutto il territorio regionale, sotto due forme principali:
ntumari e fari u turnattsu. A Mandanici poi (punto n 819) è riportato addirittura il
tipo fari a tuma. La storia del resto c'insegna che i legami, linguistici ma non solo,
tra il Piemonte e la Sicilia sono assai numerosi. Sono infatti numerosissime le
colonie gallo-italiche in Sicilia, che hanno avuto la loro origine, come sostiene il
Pellegrini (Carta dei dialetti d'Italia, 1980), « in una fascia del Piemonte meridionale a
confine con la regione ligure”. Il Pellegrini ci informa inoltre che “1e principali
colonie gallo-italiche di Sicilia sono: S. Fratello, Francavilla, Novara, e ormai quasi
estinte Fondachelli-Fantina, Montalbano-Elicona, S. Pietro Patti, Roccella
Valdemone (prov. Messina), Sperlinga, Nicosia, Aidone, Piazza Armerina,
Valguarnera (prov. Di Enna), Randazzo, Maletto, Bronte, Mirabella Imbaccari, S.
Michele in Ganzaria, Caltagirone (prov. di Catania), Ferla (prov. di Siracusa).». È
quindi possibile che il tipo lessicale “toma” si sia diffuso in Sicilia partendo proprio
da queste colonie d’origine piemontese.
L’area linguistica toma del resto, comprendendo sul versante italiano buona
parte del Piemonte e su quello francese le regioni comprese tra la Savoia e
Marsiglia, presenta una spiccata contiguità territoriale, che parrebbe avvalorare
l’ipotesi che la Provenza sia stata il centro d’irradiazione del termine, diffusosi
dapprima nelle vallate alpine piemontesi, e da qui sceso nelle contigue pianure, e
poi trasferitosi appunto in Sicilia.
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Ma è comunque indiscutibilmente il Piemonte ad aver nobilitato il termine
toma, attribuendolo ad una delle più tipiche, e sicuramente alla più diffusa,
produzione casearia del proprio territorio.
6.2.1.1 La Toma Piemontese D.O.P.
Il norne Toma nella tradizione popolare è stato frequentemente unito ad
un’indicazione geografica (Toma di Ormea, Toma di Biella, Toma di Susa, Toma
di Piode, Toma di Boves, Toma di Lanzo, ecc.), o tecnologica (Toma Grassa) o più
raramente di fantasia (Toma del Mulo, ecc.), per rappresentare comunque prodotti
similari ed in ogni caso tutti ispirati alla medesima matrice. In conseguenza di ciò,
poiché la zona di produzione rappresenta buona parte del territorio della regione
Piemonte, e nel pieno rispetto della tradizione, l’aggettivo Piemontese è stato unito
indissolubilmente al nome Toma, così da formare un tutt'uno: la Toma Piemontese.
I primi Decreti Ministeriali che fissano dei criteri di produzione, sia in
termini di areale che di caratteristiche finali del prodotto, al formaggio Toma,
risalgono agli anni ’50 e ’60, in esecuzione della Legge n° 369 del 2 febbraio 1939.
Questa legge è una riconversione del R.D.L. n° 1177 del 17 maggio 1938, che
fissava le percentuali minime di materia grassa sulla sostanza secca per tutti i tipi di
formaggio. Fu un riferimento importante, perché rappresenta in termini giuridici il
primo passo verso l’acquisizione della denominazione di origine istituita con la
legge n. 125 del 10 aprile 1953. Tornando al Toma, il D.M. 27 luglio 1950,
specifica le “caratteristiche per la produzione del formaggio “Toma” e
autorizzazione a venderlo in determinati comuni” che corrispondono all'intero
territorio della provincia di Torino, mentre il D.M. 24 novembre 1964 definisce le
“caratteristiche del formaggio Toma prodotto nei comuni della provincia di Vercelli
e destinato al consumo locale” .
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Entrambi i decreti definiscono il Toma come un formaggio a pasta dura,
prodotto con latte di vacca o misto, non fermentato, con stagionatura non inferiore
a tre mesi, con un tenore di grasso sulla sostanza secca non inferiore al 18%. Dalla
bibliografia di allora (Delforno 1964-1965) possiamo aggiungere che si trattava di
un formaggio a pasta cruda o semicotta, ad acidità di fermentazione, grasso o
semigrasso e a maturazione rapida o media, fabbricato con latte di vacca in purezza.
Le stime produttive parlavano di 50.000 q.li anno negli anni ’30, ridotti a
25.000 q.li negli anni ’70. Nel frattempo dal 1955 iniziano ad ottenere la d.o. in
virtù della L.125/53 i primi formaggi e contemporaneamente si evolve la tecnologia
di produzione con la nascita dei primi caseifici di tipo industriale. Si riduce
progressivamente la pratica della transumanza e molti produttori abbandonano la
trasformazione aziendale. In Piemonte il latte originariamente destinato a Toma,
acquistato da queste nuove strutture, viene così impiegato prevalentemente per
altre produzioni. La Toma si avvia così ad un lento declino, cosi come successo ad
altri prodotti caseari tipici, per assestarsi dagli Anni Ottanta in poi, su produzioni
dell’ordine di 15.000 - 20.000 quintali annui.
Una produzione tutto sommato ancora consistente, molto vivace in alcune
valli, sostenuta anche da caseifici artigianali. Contraendosi la quantità offerta, di
converso aumenta la “fama”, almeno sui mercati zonali e regionali, per cui le varie
Toma di Lanzo, Toma della Val di Susa, Toma delle Valli Biellesi, Toma della Val
Pellice, Toma della Val Sesia, conoscono via via i loro momenti di gloria.
Questa domanda però non è riuscita da sola a smuovere il comparto
produttivo, a dare una svolta verso la sua riorganizzazione, in modo da sfruttare
questa fama ed elevare i margini di profitto, perché sul mercato non esisteva
nessuna figura super partes in grado di valutare le evoluzioni di domanda e di
trasformarle in termini produttivi.
Il mercato della Toma osserva quindi regole tutte sue: alla forte domanda di
prodotti tipici, di alcune valli rinomate, si affianca la richiesta di un prodotto a
buon mercato. L’acquirente, soprattutto sul mercato rionale, ripone nella Toma
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diverse attese, di gusto, di tradizione, di prezzo, non sempre conciliabili fra loro. Ed
il mercato fa ovviamente il suo gioco, soprattutto perché non esiste strumento a
garanzia della denominazione, quindi della provenienza del formaggio stesso. Si
assiste quindi ad una invasione di formaggi di dubbia provenienza regionale (anzi di
sicura origine extraregionale e/o d’oltralpe) acquistati dai grossisti locali a prezzi
vantaggiosi perché prodotti su scala industriale, e spacciati come Toma del
Piemonte, di questa o quella valle. Che si tratti di frode è indubbio, come anche è
certo che questo “dumping” sul mercato deprima fortemente le possibilità di
migliorare in termini qualitativi e rafforzare in termini quantitativi la produzione
regionale di Toma.
Nell’ultimo trentennio è stato raro vedere caseifici che si specializzassero e
potenziassero la produzione di questo formaggio: si annoverano alcuni casi in cui è
stata consolidata una tradizione familiare; tuttavia la produzione si diffonde, come
area, e sono molte le strutture produttive che, stagionalmente o sporadicamente
trasformano Toma.
In alcune zone di pianura la Toma rappresenta una valida alternativa ad altre
produzioni nei momenti più scuri del mercato, ecco quindi che molti caseifici,
specializzati nella produzione di Gorgonzola nel Novarese o di Grana Padano nel
Cuneese, hanno optato per la diversificazione produttiva. anche solo per alcuni
mesi l’anno.
Circa la produzione di Toma nelle aziende agricole, quindi di trasformazione
aziendale diretta, il quadro è più complesso. Una grossa selezione è già stata fatta,
per cui c’è da credere che oltre all’abbandono dell’attività per sopraggiunti limiti di
età, non esistano altri incentivi personali a mollare questa attività produttiva.
Purtroppo esistono invece pressioni cogenti che possono portare a ciò, rendendo
più difficile il lavoro al margaro o al produttore montano, ponendo vincoli
strutturali e merceologici che non sempre sono raggiungibili in queste zone.
Da queste ed altre riflessioni è scaturita 1’esigenza di intervenire
concretamente a sostegno di questa produzione casearia piemontese, ponendosi
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come obiettivo la tutela della denominazione e della provenienza del latte dalle
contraffazioni che ormai nel mercato sono la regola, e la valorizzazione del latte
locale verso la trasformazione in prodotto tipico, adeguatamente remunerato.
Il primo passo in tale direzione è stata la richiesta della denominazione di
orgine avanzata presso il Ministero dell’Agricoltura nel corso del 1991.
Nell’istituire domanda di riconoscimento per la d.o. alla Toma si è tenuto in
debita considerazione 1'evoluzione subita da tale prodotto nel corso degli anni, sia
in termini di areale produttivo, che in termini di tecnologia di produzione, e sono
stati fissati dei requisiti minimi che potessero uniformare la Toma di qualsivoglia
valle piemontese. E stata valutata anche la possibilità di individuare dei differenziali
verticali (distinzione delle produzioni valle per valle) e orizzontali (Toma
d’alpegggio e Toma di pianura), ma in seguito alla Pubblica Audizione, avvenuta il
27/07/1992, il Comitato Nazionale per la tutela delle denominazione di origine e
tipiche dei formaggi, nell’esprimere parere favorevole a questo riconoscimento, ha
sconsigliato l’adozione di troppe varianti, accettando esclusivamente le
discriminazioni tra Toma a latte intero e Toma semigrasso e quelle relative alla
pezzatura.
L’iter si conclude con il riconoscimento delle denominazione di origine alla
Toma Piemontese ottenuto con DPCM il 10.05.1993 e la costituzione del
Consorzio di Tutela avvenuto il 05/10/1993.
In virtù di questo riconoscimento, il neo costituito Consorzio formalizza al
Ministero apposita domanda, ai sensi Reg. CEE 2081/92 relativo alla protezione
delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine, su tutto il territorio
comunitario. La Commissione delle Comunità Europee, dopo aver esaminato il
dossier presentato (ai sensi art. 4 stesso regolamento) ed aver richiesto ulteriori
integrazioni, ha riconosciuto la D.O.P. alla Toma Piemontese, con Reg. CEE
1263/96 del 1° luglio 1996.
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6.2.1.2 Le mille varietà di Toma.
Nonostante lo sforzo unificante della Toma Piemontese DOP - e il recente
ottenimento della possibilità di aggiungere ad essa specificazioni aggiuntive (di valle
per esempio) - la realtà è ancora quella di un formaggio che varia per forma,
pezzatura, qualità e tecnologia da un produttore all’altro.
Storicamente, come ricorda il Delforno, le principali varietà di Toma presenti nella
provincia di Torino sono la Toma della valle di Susa, la Toma del Sestrière, e la
Toma di Lanzo. Oggi una simile differenziazione ha perso in gran parte valore (a
punteggiare i pendii del Sestrière i villeggianti hanno sostituito le mandrie da
qualche decennio ormai), ma, in una ricerca storica come la nostra, ha sicuramente
interesse ricordare le principali caratteristiche di queste varietà.
Toma della valle di Susa .
La Toma della valle di Susa è un formaggio che si fabbrica in alcuni comuni della
valle omonima prevalentemente in piccoli caseifici aziendali o in alpeggi, seguendo
procedimenti per lo più empirici che portano spesso a prodotti molto variabili per
aspetto, caratteri organolettici e composizione.
La Toma della valle di Susa è un formaggio da tavola, a pasta molle o dura, crudo o
semicotto, ad acidità di fermentazione, grasso o semigrasso ed a saturazione rapida
o media, che viene prodotto con latte di vacca (intero o scremato), un tempo
frequentemente e caratteristicamente addizionato di latte di pecora. Per la sua
fabbricazione, secondo gli usi più tradizionali, il latte, dopo essere stato introdotto
in una caldaia di rame, viene portato ad una temperatura di circa 35°C e subito
dopo coagulato con caglio liquido o con caglio preparato dagli stessi produttori,
che lo ottengono essiccando i ventricoli di agnelli o di capretti lattanti. il cui
contenuto è poi tritato, impastato e reso liquido con l’aggiunta di aceto ed acqua o
di siero. Introdotto il caglio, rimescola il latte con uno spino (batjura) solitamente
ricavato dalla sommità di un abete, i cui ultimi rametti disposti a raggiera sono
tagliati ad una lunghezza di circa 25 cm, opportunamente curvati ed infilati in
piccoli fori praticati nel fusto, al di sotto, in modo da formare altrettanti archetti.
Il latte, in fase di coagulazione, si lascia riposo per circa un’ora ed, a coagulazione
avvenuta. si rompe la cagliata con la batjura o la schiumojra (la spannarola) a grana di
riso. La cagliata, così frantumata, viene lasciata in riposo per circa 10 minuti,
trascorsi i quali è raccolta in una tela di canapa, la rairola, e formata a mano, senza
l’ausilio di fascere. Dopo un giorno si toglie la tela e si pressa la forma su
un’apposita panca di carico in legno, utilizzando di norma pietre come pesi. Si
pone, quindi, il formaggio sull’asse di salatura (inclinato e provvisto di scannellature
per far defluire il siero residuo) e lo si sala per più giorni, dalle due facce, fintanto
che il prodotto non riceve più il sale e rimane asciutto. Si passa infine alla
stagionatura in apposito locale o grotta, collocandolo su assi di abete o larice, per
un periodo di 2-5 mesi, anche se già dopo un mese può essere messo in commercio
e consumato.
Toma del Sestríère
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La Toma del Sestrière si fabbrica nel comune omonimo ed in alcuni altri comuni
della valli Chisone e Germanasca negli alpeggi estivi, seguendo procedimenti per lo
più empirici che conducono a formaggi con caratteri organolettici e strutturali assai
variabili. Essa ha una forma cilindrica piuttosto larga, con facce piane ed uno
scalzo leggermente convesso; il suo peso è di solito compreso fra i 6 ed i 9 kg. A
maturazione il formaggio si presenta con una crosta piuttosto spessa, giallastra o
scura e più o meno verrucata, mentre all'interno la pasta è compatta, di colore
paglíerino e con occhi piccoli e non molto diffusi; il sapore è forte, aromatico e
piccante.
La.Toma del Sestrière è un formaggio da tavola a pasta semidura, ad acidità dì
fermentazione, grasso o semigrasso ed a maturazione media, che viene prodotto
con latte di vacca intero o scremato ed un tempo quasi sempre addizionato di latte
di pecora e talora preparato con solo latte pecorino. La sua tecnologia è simile a
quella della Toma della valle di Susa.
Toma di Lanzo
La Toma di Lanzo, che prende il nome dal comune e dalle valli omonime, è
indubbiamente la Toma più famosa. Si dice che fosse particolarmente goloso di
questo formaggio lo scienziato Guglielmo Marconi, che ogni volta che capitava a
Torino o in Piemonte, ne approfittava per fare una scorta di forme.
Si hanno notizie della Toma di Lanzo nelle memorie del Dott. Francesco Confienza
ne “I margari della provincia di Torino”, Adunanza del 20 maggio 1917 alla Reale
Accademia di Agricoltura di Torino, in cui vengono anche definiti i costi sui
mercati: “da 0,90 a 1 £ il kg.”
La sua produzione si attua specialmente in piccoli caseifici, per lo più a conduzione
familiare, od anche durante il periodo dell’alpeggio estivo; i maggiori centri di
fabbricazione si trovano, oltre che a Lanzo Torinese, nella valle Grande (Cantoira,
Chialamberto, Groscavallo, ecc.), nella valle di Ala (Ala di Stura, Balme, Ceres,
ecc.), nella valle di Viù (Lemie, Usseglio, Viù, ecc.) ed in alcune altre valli limitrofe.
Essa ha una forma cilindrica, con facce piane ed uno scalzo diritto o leggermente
convesso; il suo peso è molto variabile, essendo compreso fra i 3 ed i 10 kg. A 1-2
mesi di stagionatura si presenta esteriormente con una sottile crosta giallastra,
mentre all’interno la pasta è morbida, di colore paglierino e con piccoli occhi,
talvolta appena visibili e non molto diffusi; il sapore è gradevole, aromatico e con
qualche tendenza al piccante. Con l’invecchiamento (tuma veja) la pasta diventa
semidura e di colore giallo-oro, mentre la crosta si fa più scura, assume uno
spessore maggiore e risulta più o meno verrucata; il sapore è piuttosto forte e
piccante.
La Toma di Lanzo è un formaggio da tavola, ad acidità di fermentazione, grasso o
semigrasso ed a maturazione media, che viene prodotto con latte di vacca intero o
parzialmente scremato per affioramento. talora addizionato di piccoli quantitativi di
latte di pecora o di capra.
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Al latte, portato ad una temperatura di 35-37°C si aggiunge il caglio. La
coagulazione avviene in 10-60 minuti. Con una frusta si rompe la cagliata
finemente. La cagliata è raccolta in teli e si procede ad impastare e comprimere la
massa con le mani. La pressatura continua poi con i pesi che sono tolti dopo un
giorno. Segue la salatura a secco con vari rivoltamenti (questa fase dura 10-15
giorni) e la stagionatura (20-90 giorni) in locali con temperatura di 5-10°C e umidità
relativa dell’85% circa. In alternativa alla pressatura, alcuni produttori pongono la
cagliata estratta dalla caldaia nelle fascere e la tolgono quando essa ha raggiunto una
consistenza tale da mantenere la propria forma da sola.
Questo formaggio è assai apprezzato nelle sue zone tipiche di produzione, dove è
molto richiesto particolarmente dai turisti e dal villeggianti, che vi dimorano specie
in estate; quello grasso, inoltre, è il componente essenziale della cosiddetta polenta
«concia», che è un celebre piatto locale.
6.2.1.3 La Toma ’d lait brusc.
La Toma ’d lait brusc (la Toma di latte acido) è un formaggio caratteristico
soprattutto della Valle di Susa e dei suoi alpeggi e deriva il suo nome dalla
particolare tecnologia, che prevede il preliminare inacidimento naturale del latte.
Questo formaggio è prodotto in forme cilindriche, dal peso variabile dai 5 ai 12 kg,
con facce piane, diametro di 25 - 35 cm e scalzo diritto di 12 - 18 cm. A due o tre
mesi di stagionatura si presenta esteriormente con una crosta compatta e ruvida di
colore giallo rossastro. La pasta è biancastra o giallina, semidura e friabile, che con la
stagionatura tende ad erborinarsi.
Per la sua lavorazione si utilizza il latte ottenuto dalla mungitura della sera, che viene
stoccato caldo nella stessa caldaia di lavorazione e lasciato raffreddare ed inacidire in
modo naturale a temperatura ambiente per tutta la notte (12 ore circa). Il latte, così
acidificato e privato della panna di affioramento e miscelato talvolta con il latte del
mattino, si porta alla temperatura di 38-40°C, si aggiunge il caglio e si lascia riposare
per circa un’ora. Quindi si effettuata la rottura della cagliata a grana di riso, si estrae la
cagliata col telo e si lascia sgrondare per 15 minuti, effettuando una pressatura
manuale. Terminato lo sgrondo, si esegue la frisatura, la salatura in pasta e la
formatura con i teli in stampi. Si lasciano le forme sotto pressatura per circa 24 ore,
durante le quali vengono rivoltate due o tre volte. Tolti dagli stampi, i formaggi sono
ancora salati a secco (12 ore per faccia) e quindi stagionati su assi di legno per un
periodo che si protrae per 2- 5 mesi.
6.2.2 La Tometta.
Come indica il diminutivo, il formaggio Tometta è, nella sostanza, una
Toma di dimensioni ridotte, il cui diametro si aggira normalmente intorno ai 12
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cm, mentre lo scalzo è di 3-4 cm. Pur avendo caratteristiche organolettiche simili
a quelle della Toma, ha un periodo di stagionatura molto più breve, per cui è da
considerarsi un formaggio fresco e di pronto consumo.
Fra le diverse varietà di Tometta in commercio, sono degne di segnalazione le
seguenti:
• Tometta di Castellamonte, di latte vaccino intero o parzialmente scremato,
talvolta addizionato di latte di pecora, che conferisce al prodotto un leggero sapore
piccante;
• Tometta di Quincinetto, fabbricata con latte di vacca, ha una pasta bianca, tenera,
cremosa e di sapore dolce, con crosta sottile se il formaggio è fresco, biancastra e
spessa se è stagionato;
• Tometta della Valchiusella (Torino), prodotta con latte vaccino intero o scremato,
presenta una pasta provvista di piccole occhiature ed è caratterizzata da un colore
bianco-paglierino e da un sapore dolce-salato se il prodotto è fresco e leggermente
piccante se è stagionato.
Il formaggio Tometta, nelle sue diverse varietà, viene commerciato quasi
esclusivamente nelle sue zone di produzione ed in quelle limitrofe.
6.2.2.1 Il Tumet.
Tumèt è un termine dialettale con il quale si indica un formaggio che si fabbrica
nella zona compresa tra le provincie di Biella e di Torino e possiamo considerare in
qualche misura una Tometta.
Per la sua produzione, che si effettua per lo più in estate durante l’alpeggio del
bestiame, si impiega normalmente latte di vacca parzialmente scremato o magro.
Il Tumèt ha una forma rotonda, piuttosto grande, ma di limitato spessore. La pasta
è per lo più consistente, di sapore dolce, con una leggera vena amarognolaaromatica, molto gradita e dovuta agli ottimi foraggi che le vacche brucano,
dall’alba al tramonto, nei pascoli della zona - tutti al di sopra di 600 metri - ove
cresce un’erba fine e costellata da miriadi di fiori di disparato aroma. Quasi tutto il
formaggio prodotto è destinato all'alimentazione delle famiglie dei produttori e dei
consumatori locali, mentre soltanto piccole partite vengono commerciate nei
maggiori centri delle province di Novara, Torino e Vercelli.
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6.2.3 Il Tomino.
Formaggio prodotto con latte vaccino, eventualmente aggiunto di latte ovino
e/o caprino, grasso o semigrasso, a pasta molle. Forma di piccolo disco con
diametro di 5-10 cm, scalzo di 1-3 cm. e peso variabile tra gli 80 ed i 200 grammi.
Crosta non presente se fresco, di colore porcellana o paglierino scarico se maturo.
A 2-3 giorni dalla fabbricazione la pasta è di colore bianco, lucida, morbida e
burrosa, senza occhiatura. Quando la maturazione si prolunga la pasta diventa più
compatta ed assume tonalità paglierine; l’occhiatura deve sempre essere molto
limitata, se non assente. L'aroma del tomino fresco è piacevole, non troppo intenso,
ricorda il latte appena munto e presenta deboli sensazioni acidule. Nel tomino
maturo assume contorni più forti, dovuti dalla fermentazione lattica. Il sapore è
dolce, delicato, poco acidulo e gradevole nel tipo fresco, più sapido, intenso e
personale nel tipo maturo.
Questa tipologia di formaggio è stata, secondo il Delforno, sempre presa in
scarsa considerazione dagli studiosi caseari italiani, anche se la produzione ha
rappresentato nel tempo un’entità assai rilevante ed i pregi qualitativi del prodotto
sono da sempre di tutto rispetto. L’etimologia del nome è identica a quella del
formaggio Toma, di cui appare come evidente diminutivo.
La tecnologia produttiva è basata su principi molto semplici anche se è molto
variabile in relazione alla zona di produzione ed al tipo di Tomino che si vuole
ottenere: il latte vaccino (talvolta anche ovino e/o caprino) appena munto viene
portato alla temperatura naturale (37-38°C) ed aggiunto di caglio. A coagulazione
avvenuta si procede al taglio grossolano della cagliata per fare in modo che ogni
pezzo abbia le dimensioni di una noce. La cagliata viene raccolta, eventualmente
salata in pasta, e messa a scolare in apposite formelle bucherellate. A questo punto,
se il Tomino non è stato salato in pasta, si procede alla salatura a secco. La
maturazione dei Tomino fresco si completa in 2-3 giorni, ma è possibile anche
stagionare i Tomini per circa un mese.
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Di Tomini, come di Toma del resto, esistono molteplici varietà. A seguire
riportiamo le varietà più significative presenti in provincia di Torino.
6.2.3.1
Il Tomino canavesano asciutto.
Formaggio fresco a coagulazione acido-presamica, a base di latte vaccino. Il
diametro di ciascun tomino è di circa 8-10 cm, lo scalzo è di 3-4 cm ed il peso è
pari circa 65 g. Il sapore è gradevolmente acido, la pasta è bianca.
Il latte di vacca intero viene sottoposto ad una termizzazione (trattamento termico
a 68°C per 20’) ed è poi raffreddato a 27 °C. Si attende per 3-4 ore. Si aggiunge il
caglio nella misura di 10 g. per quintale. Segue un riposo di 19 ore e l’estrazione
della cagliata, che è sistemata in stampi forati. Il prodotto è quindi posto in cella a
24°C (Umidità Relativa 60%) per 8 ore. Nelle successive 8-10 ore si procede ad un
rivoltamento ed alla salatura a secco. Infine, dopo un ulteriore periodo di riposo di
alcune ore, i formaggi sono posti in cella a 3-4 °C per circa 12 ore e sono così
pronti per la vendita. I formaggi possono essere aromatizzati mediante un bagno di
olio e aceto più prezzemolo o peperoncino o noci tritate o altri aromi.
6.2.3.2 Il Tomino canavesano fresco.
Formaggio fresco a coagulazione acido-presamica, a base di latte vaccino. Il
diametro di ciascun tomino è di circa 8-10 cm, lo scalzo è di 3-4 cm ed il peso è
pari circa 65 g. Il sapore è gradevolmente acido, la pasta è bianca e spalmabile.
Viene confezionato in carta per alimenti e ciascuna confezione consiste in un
“rotolo” di 6 tomini.
Il latte è termizzato (68°C per 20’) e poi raffreddato fino a 42 °C. Segue un
riposo di 3-4 ore (fino ad 8 ore se il latte è ricco in grasso e proteine) ad una
temperatura di 38-42 °C. In questo lasso di tempo il pH del latte scende a 5. La
temperatura del latte è portata a 27 °C, quindi si aggiunge sale nella misura di 300
g/q.
Si aggiunge del caglio liquido (15 g./q.) e si attende per 19 ore. Non si effettua la
rottura della cagliata, che è estratta e posta in stampi. Successivamente si lascia
riposare il tutto per un’ora, si rivoltano le forme e si effettua un ulteriore riposo di
un’ora.
6.2.3.3 Il Tomino di Rivalta Torinese.
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Formaggio fresco a pasta molle, bianca, forma cilindrica, diametro di circa
10 cm, scalzo 3-4 cm., del peso di circa 150 grammi.
Il latte viene coagulato ad una temperatura di 37°C con aggiunta di caglio
liquido (50 c.c. per quintale). Il tempo di coagulazione è di circa 20 minuti. La
rottura avviene mediante tagli effettuati solo in un senso a distanza di 5-6 cm l’uno
dall’altro. La cagliata è posta in fascere per circa 20 ore. Le forme sono poi
estratte e salate superficialmente.
Il Tomino di Rivalta T.se vanta una tradizione secolare, come testimonia la
medaglia d’oro che vinse alla Grande Esposizione Campionaria Internazionale e
Vinicola Nazionale tenutasi a Genova nel 1906.
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6.2.3.4 Il Tomino di Saronsella o Chivassotto.
Formaggio molle a pasta bianca con sottile crosta giallo paglierina tipico di
alcuni Comuni delle colline a destra del Po, nei pressi di Chivasso: San Sebastiano
da Po, Casalborgone, Rivalba e Castagneto Po. Diametro 8 cm, scalzo 2-2,5 cm,
peso circa 100 g.
Il latte crudo intero della mungitura del mattino, talvolta miscelato con latte
della sera parzialmente scremato per affioramento, viene coagulato con caglio
liquido e si attende per circa 30’. Si procede ad una serie di rotture (4-6) grossolane,
ma eseguite sempre più in profondità. Ad ogni rottura si pongono le fascere sopra
la cagliata, si attende per 5-10’ e si elimina il siero con il mestolo. La cagliata è poi
estratta e posta in fascere. Ogni 1-2 ore si esegue il rivoltamento fino a sera. I
formaggi riposano in un locale fresco durante la notte e sono poi estratti dalle
fascere e posti su paglia di segale. Quindi sono salati su di una faccia e dopo un
giorno sono rivoltati su nuova paglia e salati sulla seconda faccia. Dopo altre 24 ore
le forme sono lavate in acqua e poste ad asciugare su teli. Il prodotto, dopo un
giorno di asciugatura sui teli è pronto per il consumo o viene fatto asciugare per
altri 4-7 giorni.
6.2.3.5 Il Tomino del Talucco.
Formaggio a base di latte di capra o misto (90-95 % latte vaccino; 5-10 % latte
di capra), fresco o stagionato. Il peso finito di ciascun tomino è di 80-85 g. Tipico
del Pinerolese pedemontano, in particolare del Talucco (frazione del comune di
Pinerolo) e di S. Pietro Val Lemina.
Il latte è riscaldato a 90°C, ed è poi raffreddato a 30-40°C. Si aggiunge caglio
liquido nella misura di 10 cc per quintale di latte. Dopo un’attesa di 10-15’ si
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effettua la rottura della cagliata con la schiumarola. Si ha poi una breve sosta di 510’ e la cagliata è trasferita nelle fascere. Si ha poi un rivoltamento e la salatura. Il
prodotto così ottenuto è consumato entro uno o due giorni.
Esiste anche una tipologia di Tomino di Talucco stagionato. Le forme, tolte
dalle fascere, sono depositate su paglia di segale e sono ulteriormente salate.
L’utilizzo della paglia di segale come materiale sul quale fare stagionare le forme è
indispensabile per favorire una sufficiente asciugatura ed un sufficiente indurimento
della pasta.
La breve stagionatura dura una o due settimane, durante le quali si effettua
un rivoltamento dei formaggi. Talvolta a fine stagionatura si aggiunge del pepe.
6.2.3.6 Il Cevrin di Coazze.
Il Cevrìn di Coazze è un formaggio che si produce nella valle del torrente Sangone
e nelle vallate limitrofe, soprattutto quando il bestiame sosta sugli alpeggi in estate.
Esso trova le migliori provenienze nelle località di Coazze (da cui prende il nome),
Cumiana, Forno, Giaveno ed in alcuni altri comuni della zona. Questo tipico
prodotto dei caseifici alpini si fabbrica con latte di capra, spesso miscelato con
quello di vacca. Ha una forma a disco ed un peso che varia da pochi ettogrammi a
2-3 kg. Quando il formaggio è fresco la pasta è friabile e di colore bianco, ma
allorché viene stagionato essa diventa più compatta ed assume una colorazione
giallognola, unitamente ad un odore piuttosto penetrante e ad un sapore più o
meno piccante.
Si porta il latte crudo alla temperatura di circa 18-20°C, aggiungendovi caglio di
vitello o di agnello. Dopo la coagulazione la massa viene posta in apposite formelle
o lasciata nella canapa, dopo averle dato una forma tonda. Matura in due o tre
giorni.
Il Cevrìn di Coazze è un ottimo formaggio da tavola, molto apprezzato e richiesto
dai consumatori, specialmente nelle zone in cui viene prodotto.
6.2.3.7 La Toma (o Tuma) di Casalborgone.
La Toma di Casalborgone è, ad onta del nome, per tipologia e dimensioni un
tomino. Infatti si tratta di un formaggio molle a pasta bianca, privo di crosta,
prodotto in forme cilindriche del diametro 12-15 cm, scalzo 3 cm, peso 300 g circa.
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Al latte intero crudo appena munto o eventualmente scaldato a 35-40°C si
aggiunge caglio e si attende per 30’ circa. Si esegue poi una rottura grossolana e
superficiale, si estrae il siero affiorato e si effettua una seconda rottura grossolana
ma in profondità nella massa. Si estrae il siero ancora presente, si depone la cagliata
in stampi. Si procede quindi ad una serie di rivoltamenti ad intervalli, dapprima di
circa un’ora e poi sempre più prolungati. Si lascia riposare il tutto nella notte
successiva. Segue poi l’affinamento in stampi per 24-48 ore.
6.2.4 Il Murianengo o Moncenisio.
Il formaggio Moncenisio o Mont-Cenis, detto anche Mauriennals, Moriannese,
Moriannengo o Murianengo, trae le sue origini in epoca sicuramente remota, ma
non facilmente determinabile a causa, forse, della scarsa importanza che ebbe ai
suoi albori, per la sua somiglianza con il Gorgonzola, di cui potrebbe essere
considerato una derivazione, che era già conosciuto nell’XI secolo.
Esso è un caratteristico formaggio estivo fabbricato sugli alpeggi dell’altipiano del
Moncenisio (da cui prende il nome) e sul versante meridionale del Colle del Fréjus,
nonché in talune altre zone montane della parte occidentale della provincia di
Torino (Bardonecchia, Exilles, Novalesa, Sestrière, Susa, ecc.).
Questo formaggio ha una forma cilindrica a facce piane, con diametro di
25-35 cm e scalzo (diritto) di 12-18 cm; il suo peso si aggira normalmente sui 5-12
kg. A 2-3 mesi di stagionatura si presenta esteriormente con una crosta compatta,
ruvida, dura, irregolare e di colore giallo o rossastro, mentre all’interno la pasta è
unita, friabile, burrosa, fusibile in bocca, di colore bianco o paglierino (più o meno
accentuato) e screziata di venature verdi o blu-verdastre, dovute alla presenza di
speciali muffe denominate penicilli; il sapore è dolce o leggermente piccante. Con
l’invecchiamento la pasta diventa più compatta, maggiormente erborinata e di un
piacevole colore giallo-oro, mentre la crosta - fattasi più scura - assume uno
spessore maggiore e tende a fessurarsi; il sapore risulta, in genere, molto aromatico
e più o meno fortemente piccante.
La tecnologia del formaggio Moncenisio è molto simile a quella del Gorgonzola a
due paste. Per la sua fabbricazione si impiega latte intero di vacca, eventualmente
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mescolato a quello di pecora o di capra; in qualche caso il latte della mungitura della
sera viene parzialmente scremato per affioramento e successivamente unito a quello
intero della mungitura del mattino. Il latte viene coagulato a 30-35°C con caglio in
pasta (od anche liquido) in 30-60 minuti. A coagulazione avvenuta, si procede alla
rottura della cagliata dapprima in grosse porzioni e poi più minutamente sino ad
ottenere grumi caseosi delle dimensioni di 1-3 cm.
Terminata questa operazione. segue un riposo di 10-15 minuti (per facilitare lo
spurgo del siero e per lasciare depositare il coagulo sul fondo della caldaia),
dopodiché si allontana il siero e si introduce la massa caseosa in una tela e la si pone
a fermentare in un secchio di legno, dove rimane per circa 24 ore. Trascorso
questo periodo di tempo, la cagliata viene accuratamente miscelata con circa un
terzo od anche la metà di quella appena prodotta e, quindi, la si introduce - avvolta
in una tela - in una fascera, le cui dimensioni sono in rapporto a quelle del
formaggio che si vuole ottenere.
Durante le prime 24 ore si esegue una leggera pressione (3-5 kg) sulle forme, nei
successivi 4-5 giorni queste vengono rivoltate, cambiando le tele ed aumentando
progressivamente la pressione (7-10 kg). La salatura si effettua a secco salando le
facce e lo scalzo dei formaggi ogni 24-48 ore e per un periodo di 15-20 giorni. A
fine salatura le forme sono ripulite e portate in ambienti freschi ed umidi (cantine),
dove subiscono il processo di maturazione e tutte le cure di governo comuni agli
altri formaggi. Dopo 20-30 giorni dalla fabbricazione, esse vengono forate a mezzo
di grossi aghi, anticamente di legno, dapprima su una faccia e sullo scalzo e dopo
qualche giorno sull’altra faccia, allo scopo di consentire l’introduzione dell’aria
nell’interno del formaggio, la quale - unitamente al substrato acido, alla temperatura
ed all’umidità dell’ambiente - costituisce uno dei fattori decisivi per lo sviluppo dei
penicilli. Il prodotto è pronto per il consumo dopo circa 3 mesi dall’inizio della
lavorazione, ma in qualche caso viene ulteriormente conservato sino a 4-5 mesi ed
oltre.
La composizione chimica media del Moncenisio è riportata nella tabella sottostante,
dalla quale si può rilevare come esso presenti percentuali di grasso, proteine e sali
piuttosto elevate, per cui è da considerarsi un ottimo alimento dotato di un alto
valore energetico e plastico. Secondo le vigenti disposizioni legislative, il suo
contenuto minimo di grasso sul secco è, come per il Gorgonzola, del 48%.
Sostanza secca
Grasso
Proteine
Ceneri
62 % t.q.
32 % t.q.
26 % t.q.
3,6 % t.q.
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Fino a qualche decennio fa il Moncenisio era venduto non solo sui mercati locali di
valle, ma anche a Torino, e piccoli quantitativi venivano addirittura esportati in
Francia ed in particolare nella Savoia. Oggi invece questo tipico prodotto dell’arte
casearia piemontese è purtroppo da considerarsi quasi scomparso. È quindi
assolutamente urgente mettere in atto ogni sforzo per tentare di far rivivere un
formaggio che, per i suoi indiscutibili pregi organolettici ed alimentari, è stato senza
dubbio uno dei migliori formaggi da tavola del nostro Paese.
6.2.5 La Paglierina.
La Paglierina è un formaggio molle, grasso. a pasta cruda, ad acidità naturale ed a
maturazione rapida, che viene prodotto un po’ in tutto il Piemonte, in particolare
nella provincia di Torino.
I1 nome Paglierina - creato nel 1891 e successivamente brevettato dal caseificio Cesare
Quaglia, che ha sede in San Francesco al Campo - deriva probabilmente dal fatto che un tempo
questo formaggio era reso piccante e rustico conservandolo fra la paglia, che ne lasciava impronta
sulla crosta.
La Paglierina ha una forma cilindrica, con un diametro di 10-18 cm, uno scalzo
(assai basso) di I2 cm ed un peso di 150-400 g, con variazioni in più od in meno,
per le tre caratteristiche, in rapporto alle condizioni tecniche di produzione ed alle
preferenze dei consumatori.
1 caratteri organolettici e strutturali del prodotto sono in relazione alla qualità del
latte impiegato, alla tecnologia seguita ed alla durata della maturazione. Nei
formaggi freschi, infatti, la pasta è burrosa, morbida, senza occhiatura, di colore
bianco od anche paglierino, di odore piacevole di latte appena munto e di sapore
fine e delicato, mentre la crosta è solo accennata e presenta un colore simile a
quello della pasta. Nei formaggi maturi, invece. la pasta è più compatta. traslucida.
fondente in bocca., di colore giallo più o meno intenso, di odore leggermente
pecorino (specialmente se per la loro fabbricazione si è impiegato latte di pecora) e
di sapore piuttosto aromatico e piccante, ma sempre gradito; la crosta con il
progredire della stagionatura assume, unitamente ad una certa consistenza, un
colore giallo nocciola più o meno marcato, con venature o macchie bianche dovute
allo sviluppo di muffe di tale colore.
Nel caseificio del passato questo formaggio era prevalentemente prodotto con il
latte di pecora o dì capra:, raramente addizionato a latte di vacca. Attualmente, e
soprattutto nelle lavorazioni su scala industriale, viene preparato con latte di vacca,
mentre soltanto in alcune zone delle Langhe e delle vallate alpine deriva tuttora da
latte di pecora o di capra, talora miscelati con quello di vacca.
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La Paglierina è un formaggio che si fabbrica con latte intero crudo e più raramente
con latte pastorizzato. I formaggi, ottenuti secondo le due tecniche differenti,
presentano caratteri organolettici e strutturali diversi, infatti, mentre con la
pastorizzazione del latte si ricavano prodotti dotati di una pasta molto legata e di un
aroma più dolce ed attenuato, con la lavorazione di un buon latte naturale si
ottengono formaggi più fragranti e saporiti.
La sua tecnologia è assai simile a quella della Robiola piemontese. A 2-3 giorni
dalla fabbricazione i formaggi sono pronti per il consumo e vengono generalmente
posti in vendita su dischi di carta pergamena recanti vistose diciture reclamistiche,
ma se si vogliono ottenere prodotti di sapore più forte e piccante, essi vengono
conservati in locali freschi in modo che la stagionatura può essere ulteriormente
prolungata, senza danni, sino ad un mese ed oltre.
Il rendimento in formaggio fresco è piuttosto elevato ed è di solito compreso fra il
14% ed il 18%, mentre quello in prodotto maturo si aggira sul 10-13%. La
percentuale minima legale di materia grassa, espressa sul secco, è del 45%.
6.2.6 Il Crosta Rossa (Reblochon).
Il formaggio Crosta rossa (Reblochon) è originario della Savoia, dove viene tuttora
prodotto in numerose località (Annecy, Beaumont, Chambéry, Entremont, GrandBornand, La Clusaz, Petit-Bornand, Saint Julien en Genevois, Thónes, ecc.) e da
dove la sua produzione, per lo più a carattere artigianale, si è progressivamente
estesa ad altre regioni limitrofe. In Italia questo tipico prodotto del caseificio
francese è attualmente fabbricato soprattutto nella provincia di Torino (ed in
particolare nella valle Susa e nel Canavese), in quella di Cuneo ed in alcune altre
limitate zone del Piemonte e della Valle d'Aosta; esso, però, non può essere qui
commercializzato con il nome di Reblochon, perché tale denominazione, in base
all’accordo italo-francese del 28 aprile 1964, è riservata esclusivamente al prodotto
francese.
Il suo nome deriva dal verbo «reblocher», che nel dialetto savoiardo significa
«mungere una seconda volta» od anche «terminare una mungitura» ed è, quindi,
assai probabile che nel lontano passato questo formaggio si fabbricasse
esclusivamente con il latte di fine mungitura e, pertanto, con un latte molto ricco di
materia grassa.
Secondo alcuni studiosi il Crosta rossa (Reblochon) avrebbe avuto origine in tempi
antichissimi a seguito dell'esecuzione di una frode. Nelle montagne della Savoia,
infatti, i proprietari delle vacche salite agli alpeggi dopo una decina di giorni dalla
monticazione si recavano nelle malghe per effettuare la pesata del latte, in base alla
quale veniva accertato il compenso in natura dovuto dal conduttore dell'alpeggio.
Sembra che qualche montanaro desse ordine ai mungitori di non completare la
mungitura, allo scopo di far apparire una minore produzione di latte, ma appena i
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proprietari si allontanavano, si procedeva a terminare la mungitura, ottenendo in tal
modo modeste quantità di latte ricchissimo di grasso, dalla lavorazione del quale
s'ottenevano formaggi molli di grande finezza e pregio.
Il Crosta rossa (Reblochon) è un formaggio grasso, a pasta molle, con
forma cilindrica e facce piane, avente un diametro di 12-16 cm ed uno scalzo
(arrotondato) di 2,5-6 cm. Il peso medio si aggira sui 400-800 g; le forme più
piccole sono generalmente quelle che vengono prodotte dai valligiani per il
proprio consumo familiare, mentre quelle più grosse (che possono anche
raggiungere e superare il peso di 1 kg) sono di solito vendute ai commercianti e
vengono denominate «Reblochons doubles».
La pasta del formaggio si presenta unita, morbida, fondente, priva o con
leggera occhiatura e di colore bianco, paglierino o giallo-zafferano. la crosta è
sottile,, liscia, untuosa al tatto, di colore giallo-rossastro o bruno-rossastro e
sovente ricoperta di muffa bianca. Il sapore è fragrante (di «fiori delle Alpi
pacificamente ruminati», come è stato definito), delicato, dolce e caratterizzato da
un intenso profumo che ricorda quello del latte fresco.
Il Crosta rossa (Reblochon) è un formaggio che ha origini molto antiche
(XV secolo) e le sue modalità di fabbricazione si sono tramandate, pressoché
immutate nei secoli di generazione in generazione. Per la sua preparazione si
impiega il latte intero di vacca prodotto al mattino, al quale si aggiunge quello della
sera precedente. oppure (e più frequentemente) lo si fabbrica con il latte
proveniente da una sola mungitura. li latte, dopo accurata filtrazione, viene
introdotto in piccoli recipienti di rame o di altro metallo idoneo (si tratta, in
genere, di pentoloni della capacità di 20-50 litri), e quindi, lo si porta alla
temperatura di 30-35°C e lo si coagula con caglio liquido - nella misura di circa 30
cc per ettolitro di latte - in 20-35 minuti: in passato, come coagulante, si usava
l’infusione di caglioli di agnello o di capretto in un siero, al quale si addizionava
sale comune da cucina.
Quando la massa coagulata ha raggiunto una certa consistenza. si procede alla sua
rottura dapprima con la spannarola e poi con la lira, sino a raggiungere grumi
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caseosi delle dimensioni di una fava o di una noce: talvolta, durante la fase di
rottura alcuni casari usano aggiungere un poco di sale finemente macinato.
Trascorso un breve periodo di riposo (7-10 minuti), durante il quale la cagliata si
deposita sul fondo della caldaia, si toglie il siero sovrastante e si raccoglie la massa
coagulata, che viene poi introdotta in apposite tele a maglia piuttosto fine, che si
appendono al fine di favorire lo spurgo del siero.
Dopo circa un’ora, allorché la cagliata è sufficientemente spurgata, la si introduce in
stampi di ferro smaltato, di alluminio o di legno, cilindrici, finemente bucherellati
anche sul fondo ed aventi un diametro di 12-16 cm ed un’altezza di 6-10 cm, che
vengono accuratamente foderati all’interno con tele da formaggio. Riempito lo
stampo, si ripiegano i lembi della tela sulla cagliata e, per accelerare lo spurgo del
siero residuo, si pratica su di essa una certa pressione, che viene effettuata dapprima
con le mani e poi sovrapponendo un disco di legno (del diametro di poco inferiore
a quello della forma), sul quale si collocano sassi o pesi di circa 1 kg. Nelle prime
ore dopo la fabbricazione si effettuano 3-4 o più rivoltamenti e dopo 6-12 ore si
tolgono i formaggi dagli stampi per portarli in un locale asciutto e ventilato (dotato
di una temperatura di circa 15°C), nel quale si procede alla loro salatura, che si
svolge a secco o, più raramente, per immersione in salamoia.
La salatura a secco si attua cospargendo di sale fino la faccia superiore e lo
scalzo dei formaggi, una seconda salatura viene fatta dopo 24 ore sull’altra faccia e
sullo scalzo ed a questa ne seguono altre 3-4, che hanno luogo nei giorni' successivi,
impiegando quantità decrescenti di sale. Nei casi in cui si esegue la salatura in
salamoia, s’impiega una salamoia piuttosto concentrata, nella quale i formaggi
vengono fatti sostare per alcune ore. Terminata la fase di salatura, la cui durata
varia ovviamente a seconda delle dimensioni del prodotto, le forme sono poste ad
essiccare - su scaffali di legno - in un locale avente una temperatura di 12-18°C, nel
quale rimangono per 5-8 giorni, trascorsi i quali vengono portate in un altro locale
per l'affinamento, dove si tengono per circa 10 giorni ad una temperatura più bassa
(8-10°C). Durante questo periodo le forme sono frequentemente rivoltate e
ripulite con una tela imbevuta di una soluzione concentrata di acqua e sale.
Il formaggio è pronto per il consumo a 20-30 giorni dalla fabbricazione, quando,
cioè, la crosta assume una colorazione giallo-rossastra o brunorossastra e si
presenta più o meno untuosa al tatto. Spesso le forme vengono anche consumate
all'età di 10-15 giorni (e queste sono attualmente le preferenze dei consumatori), ma
non è raro il caso in cui la loro maturazione venga prolungata sino a 50-60 giorni,
allo scopo di ottenere un prodotto caratterizzato da un sapore più forte ed
aromatico.
La resa in formaggio fresco è generalmente del 13-15%, mentre quella in formaggio
maturo si aggira normalmente sull’11-13%. Il siero, che residua dalla lavorazione,
viene di solito utilizzato per la fabbricazione della Ricotta o per l’alimentazione dei
suini. Il contenuto minimo legale di grasso, riferito alla sostanza secca dei
prodotto, è dei 45%.
La composizione chimica del Crosta rossa (Reblochon) è piuttosto varia, essendo
soprattutto in relazione alla qualità del latte impiegato, al grado di scrematura
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eventualmente praticata, alla perizia del casaro, alla durata della stagionatura ed al
modo con cui questa è stata condotta, al luogo ed all’epoca di fabbricazione, ecc.
Non si dispone di molti dati sulla sua esatta composizione chimica, ma, mediando i
lavori di diversi studiosi (Delforno G., Albonico F., Cerutti G., Guareschi I., Losi
A.), è possibile giungere ai valori medi riportati nella tabella sottostante.
Sostanza Secca
Grasso
Proteine
Ceneri
49% t.q.
23% t.q.
20% t.q.
3% t.q.
6.2.7 Il Bruss.
Il Bruss non è un formaggio, ma una speciale preparazione casearia, per lo più di
tipo casalingo od artigianale, che è oggetto di modeste lavorazioni in alcune zone
del Piemonte ed, in modo particolare, nella provincia di Torino, nelle vallate a sud
di Torino (Val Pellice, Val Chisone e Germanasca, Val Susa e Val Sangone) e nelle
vicine zone pedemontane.
Bruss è una parola dialettale piemontese intraducibile in italiano, che può anche
essere scritta Brós, Bróss, Brus, Brussu, Bruz, Bruzzu e Buzzu, a seconda della
fonetica in uso nelle diverse zone in cui esso viene prodotto. C’è chi sostiene che il
nome derivi dal piemontese brusè, “bruciare”: tale può essere infatti la sensazione di
chi assaggia un bruss molto piccante.
Troviamo nominato il bruss in una commedia di G. B. Tana di fine Seicento, nella
quale un personaggio, il conte Pioletto, per dimostrare di essere valido e forte,
nonostante i sessant’anni, dice orgogliosamente: “Mangio ancora il mio Bruss”.
Il Grande dizionario piemontese-italiano del cavalier Vittorio di Sant’Albino (scritto
all’inizio dell’Ottocento), lo definisce « specie di cacio fortissimo, fatto con altro
cacio vecchio e assai fermentato, impastato nell’acquavite con burro e alcune
droghe, che poi si chiude e si conserva in scatolette. ».
Negli anni Trenta del Novecento, il giornalista e scrittore Paolo Monelli descrive la
ricchezza gastronomica d’Italia in un celebre libro intitolato “Il Ghiottone errante”,
nel quale, riguardo al bruss, scrive: « Tenuto in vasi ermetici, l’odore passa il vetro,
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le mura, le città; e per vero Castelnuovo Don Bosco s’annuncia da lontano con
questo effluvio e v’è fama che così abbia tenuto più volte lontani francesi e
spagnoli, azzuffantisi su questi colli per la successione dei Gonzaga. ».
Il tipico sapore, che non si riscontra in alcun altro prodotto caseario, è dovuto
essenzialmente al processo di esterificazione degli acidi grassi presenti ad opera
dell’alcool etilico addizionato e si rivela di tale eccezionale robustezza da dare vita
in Piemonte al seguente proverbio: «Mac l’amor a l’è pi fòrt che ’1 Bruss» e cioè
«Soltanto l’amore è più forte del Bruss» (*).
Per la sua preparazione si impiegano generalmente formaggi di tipo diverso
(Ricotta, Robiola, Toma ed, in misura minore, Fontina, Gorgonzola, Grana,
Provolone, Taleggio, ecc.) che - dopo l’eliminazione della crosta - vengono
grattugiati se si tratta di formaggi a pasta dura, oppure tagliati in piccole scagliette
od in minute sezioni negli altri casi. Il tutto viene poi accuratamente miscelato,
impastato ed introdotto in barattoli od in vasi di vetro o di terracotta.
All’impasto, così ottenuto, si aggiunge spesso una piccola quantità di latte fresco o,
meglio, di crema e, quindi, si lascia fermentare in luogo fresco per alcuni giorni,
avendo cura di mescolare ogni tanto con un cucchiaio di legno. Quando il
prodotto assume l’aspetto di una pasta omogenea e cremosa, si arresta la
fermentazione aggiungendo alcool etilico o distillati di alta gradazione (grappa,
génépy, cognac, rhum, distillati ricavati dalla fermentazione della frutta, ecc.) nella
misura di 20-50 cc per chilogrammo di prodotto; durante la fase di maturazione i
recipienti vengono ricoperti con chiusure non ermetiche. Al fine di aromatizzare
maggiormente il prodotto,. alcuni usano aggiungere all’impasto qualche foglia di
alloro, aglio, rosmarino, erbe aromatiche, pepe od altri aromi naturali.
A 20-30 giorni dalla preparazione, ed anche oltre, il Bruss è pronto per il consumo.
Esso si presenta come una pasta omogenea, cremosa, facilmente spalmabile, di
colore bianco, paglierino, grigio chiaro od anche leggermente verdognolo
(specialmente se nella sua preparazione si sono impiegati formaggi erborinati), di
odore piuttosto intenso e di sapore più o meno fortemente aromatico, piccante e,
talvolta, tendente all’amaro. La sua composizione chimica non può essere
ovviamente fissata, perché varia a seconda dei tipi e delle proporzioni dei formaggi
che vengono utilizzati nella sua produzione.
Oltre alla tecnica di fabbricazione indicata, esistono numerose altre modalità di
preparazione, che conducono ad una vastissima gamma di prodotti
organoletticamente differenti..
Alla preparazione del Bruss si associano anche metodiche di preparazione intrise di
un che di magico ed esoterico, come ben evidenzia la seguente ricetta.
« Si taglia una Robiola fresca in 3 pezzi, che vengono introdotti in un vaso di coccio
invetriato unicamente ad un bicchierino di grappa e ad un bicchiere di vino bianco
secco. Eseguita l’operazione, si colloca il vaso in cantina al fresco ed all’81.mo
giorno, con una spatola si mantecano i pezzi di formaggio, facendoli ruotare per 12
volte nel senso delle lancette dell’orologio (il senso contrario sarebbe, secondo la
credenza popolare. quella del «Maligno», per cui il prodotto riuscirebbe cattivo); nel
tramenare la massa si aggiungono un’altra Robiola, un bicchierino di grappa ed un
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bicchiere di vino bianco secco. Dopo un riposo di 7 giorni si ripetono i 12 giri e le
aggiunte di Robiola, grappa e vino. Al 28.mo giorno si procede ad una terza
manipolazione fatta di 24 girate di spatola, a cui segue l’aggiunta del consueto
quantitativo di grappa e di vino; la stessa operazione viene ripetuta al 35.mo ed al
42.mo giorno e dopo 7 settimane il Bruss è pronto per il consumo.».
Assaggiandolo per la prima volta, sembra di mangiare del fuoco sotto forma di una
crema bianchiccia, ma appena le papille palatali entrano in confidenza con
«l'infernale mantecato» (come è stato definito), il buongustaio scopre qualcosa di
sconosciuto nella scala dei sapori piccanti.
Il Bruss viene solitamente impiegato come companatico, aggiungendo di volta in
volta alla massa caseosa nuova pasta di Robiola, o di altri formaggi in precedenza
elencati. Si usa anche spalmato sul pane o sui crostini ed è molto ricercato
soprattutto dai consumatori amanti di vigorose sensazioni gustative.
L’importanza di questo prodotto, che nel lontano passato era di gran lunga
maggiore, è diminuita con il passare degli anni (anche perché i gusti dei
consumatori, sollecitati da una pubblicità intensa ed efficiente, sono andati
orientandosi verso sapori “delicati”) sino alla notevole contrazione verificatasi dopo
l’ultima guerra.
Esistono poi alcuni prodotti che dal Bruss hanno mutuato semplicemente il nome
od, al massimo, alcune caratteristiche, quali la consistenza e la cremosità.
6.2.7.1
Il Bruss da latte.
Formaggio tipico delle Valli Orco e Soana e della Val Chiusella, di colore
bianco e consistenza pastosa, senza crosta, che tende a sbriciolarsi al taglio, come
una ricotta asciutta.
Il latte appena munto o appartenente alla mungitura della sera prima si
inocula con il siero del giorno prima e si fa riposare per un tempo variabile da 2 a
12 ore (tutta la notte). Quindi si raccoglie la cagliata in tele e la si lascia sgrondare.
Terminato lo sgrondo, si impasta la cagliata con sale ed eventualmente pepe o
peperoncino e si forma nei teli.
Il Bruss da latte può essere consumato dopo pochi giorni oppure stagionato
anche fino a 5 o 6 mesi.
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6.2.7.2 Il Bruss da ricotta.
Si tratta di un impasto di ricotta, da latte bovino od ovino, fermentata e
mantecata, caratteristico di numerose aree, soprattutto pedemontane, della
provincia di Torino.
Una “testa” (forma) di ricotta rimasta invenduta dopo due o tre giorni viene
sminuzzata e impastata con un inoculo di bruss già pronto e depositato in
un’apposita vasca, che un tempo era ricavata scavando un tronco di pioppo od altro
legno morbido. Nella vasca si aggiungono diverse teste di ricotta fino a riempirla. Il
tutto è impastato ogni 1-2 giorni per 30-40 giorni, quindi è trasferito in cella frigo
ed è pronto per la vendita.
Il prodotto che si ottiene ha una consistenza cremosa, più o meno vellutata,
un colore giallo paglierino ed un sapore piccante, conferitogli naturalmente dalla
fermentazione, tanto più marcato quanto maggiore è il tempo di fermentazione.
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6.2.8
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La Ricotta Piemontese (Seirass).
La Ricotta è un latticino che si ottiene dal riscaldamento del siero, con o senza
aggiunta di sostanze acide e di latte, e che si fabbrica in tutte le regioni d’Italia. Pur
essendo a rigore un sottoprodotto del caseificio, la Ricotta è assai ricercata e
remunerata, per cui acquista nell'industria casearia locale un’importanza
commerciale tutt’altro che trascurabile.
Il suo nome deriva dal latino recoctus, ossia cotto due volte (sebbene in latino si
usasse anche il termine caseus secundairius), in riferimento al fatto che essa si ottiene
facendo scaldare il siero che residua dalla lavorazione del formaggio (per ottenere il
quale il latte era già stato scaldato una volta), allo scopo di provocare, con l’alta
temperatura (al di sopra di 72°C) e con l’eventuale aggiunta di sostanze acide, la
coagulazione della lattoalbumina (che non coagula per azione del caglio) e, quindi,
la formazione della Ricotta.
La Ricotta, a seconda del latte di origine, può essere di vacca, di pecora., di
capra, di bufala o mista (se si ottiene da latti di specie diverse) ed è costituita
essenzialmente da lattoalbumina, unita a lattoglobulina ed a piccole quantità di
caseina, da grasso (sfuggito nel siero nel corso della fabbricazione del formaggio e
poi rimasto imprigionato nel suddetto albuminoide all’atto della sua coagulazione),
da lattosio e da sali, oltre che da acqua.
Come altri latticini, essa ha tradizioni che si perdono nella notte dei tempi ed era già
conosciuta all’epoca degli antichi greci e romani e nel Medioevo, tanto da essere
stata descritta o citata da innumerevoli autori classici, quali ad esempio Columella,
Erodoto, Senofonte, Varrone, Virgilio e, molto più tardi, Paolo Elziario Aresca,
Francesco Berni, Giovanni Boccaccio, Pino Correnti, Pantaleone da Confienza, F.
M. Grapaldus, Battista Platina, Gian Francesco Straparola, Benedetto Varchi, ecc
In Piemonte e nella Valle d’Aosta la Ricotta è denominata «Seírass», «Seras» o
«Seré», vocaboli che derivano dal latino Seracium (cfr. paragrafo 6.1.2) e dal francese
Sérai o Séret (nella Savoia e nella Svizzera francese viene tuttora chiamata Sérac).
La Ricotta piemontese e valdostana fu di gran consumo nel Medioevo. In un
manoscritto dei 1570. nel quale si elencavano gli alimenti da servire per i pasti dei
canonici della Collegiata di Sant’Orso in Aosta, si trova appunto menzionato fra i
latticini - oltre al burro ed al formaggio - il «Seiras»-, ma già nei redditi signorili dei
secoli precedenti questo prodotto figurava con molta frequenza e la prima traccia
risale al 1267-1268 in un elenco relativo al Chátel Argent di Villeneuve (Aosta).
Molto rinomato nella Valle d'Aosta era allora il «Seras» di Nús,, come conferma
Pantaleone da Confienza, il quale nella sua Summa lacticinorum (edito a Torino il 9
luglio 1477 per i tipi di Jean Fabre) ne descrive con chiarezza e precisione le
principali caratteristiche e la tecnica di fabbricazione nella maniera seguente:
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«La Valle d'Aosta è sita nel Ducato di Savoia e ivi i formaggi sono buoni e i pascoli
sono ottimi ed è terra sufficientemente temperata con monti fruttiferi e i prodotti
della terra sono perfetti;... E in questa Valle ancora si fanno seras e assai famosi e
buoni massimamente nella località detta Nús: i seras di Nús sono detti grandissimi
perché quadrangolari con un'altezza di quasi due cubiti, ed essi si conservano per
un anno perfettamente e talvolta anche per due; e come ebbi a sentire, li fanno in
questo modo: estratto il formaggio, uniscono ad esso nuovamente una certa
quantità di latte con una certa parte di acqua di latte acida ossia di due giorni e
mescolano con acqua di latte fresco; pongono quindi il calderone al fuoco finché si
riscaldi e cominci a bollire e così si condensino le parti che nuotano in superficie e
questo lo chiamano siero e lo raccolgono e lo ripongono nella forma della sopra
descritta figura e ivi ne spremono le parti acquose come dal formaggio: e poiché
talvolta non hanno tanta materia con la quale possano riempire quella forma fanno
e terminano il loro seras in due ed anche in tre giorni e così si spiega la diversità
delle sue diverse parti in colore e sapore e bontà che talvolta si presenta più in una
parte che in un’altra: e, per la verità, non si presenta in essi grande viscosità e
neppure c'è. Sono di sufficientemente facile digestione e a causa di ciò, nelle
regioni circostanti, le donne lo servono indifferentemente come cibo agli infermi
così come fanno alcuni medici. Il siero lo si fa anche in Italia e nelle regioni
piemontesi; ma ritengo non uniscano latte, invero non sono così grandi né di tanta
bontà.
Ciononostante presso Avigliana ne fanno quasi a forma di formaggio e sono assai
buoni per quanto non siano molto salsi e dopo i seras di Nús precedono gli altri in
bontà specie se invecchiati perché di nuovi ne trovo di migliori in molte parti del
Piemonte, ad esempio Chieri, ma ne mangiai anche di migliori in Savigliano ed è ciò
che Avicenna chiama colostro e dice: «11 colostro è di lenta digestione, di grosso
umore e di lenta evacuazione, il miele invero lo rettifica e acquisisce dal suo corpo
maggiore nutrimento. Ciononostante nel capitolo del formaggio dice che la ricotta
invero è meno nociva allo stomaco del formaggio nella misura in cui questo è di
alquanto lenta digestione e si evince cosi una apparente contraddizione: e presso gli
italiani si chiama mascarpa. E si dice comprovato dall'esperienza perché provoca
sopore e fa dormire e credo che la causa sia che in tale siero vi siano alcune o anche
più parti sottili mentre è ancora fresco e precipuaniente e che facilmente sono
evaporabili al cervello ed atte a provocare l’oppilazione necessaria al sonno. Tale
siero se stemperato con uno staccio o con acqua di rose e l'aggiunta notevole di
zucchero si fa mirabilmente delicato e sapido.».
In Piemonte la fabbricazione della Ricotta è diffusa un po’ ovunque ed assume
caratteri peculiari a seconda della zona e della tipologia aziendale (alpeggio,
allevamento stanziale di pianura, ecc.)
Al di là delle molteplici forme che le danno i singoli casari, la Ricotta
piemontese presenta una pasta fine, morbida, fusibile in bocca, a struttura grumosa
e non coerente (come è quella del formaggio), di colore bianco-niveo o biancastro,
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di odore piacevole di latte fresco e di sapore dolce (talora con una lieve vena
acidula), delicato, molto gradevole e valutato al palato: è facilmente digeribile, per
cui è indicata anche per i convalescenti e per gli ammalati dell’apparato digerente.
Essa tradizionalmente viene messa in commercio in due forme principali: con la
forma caratteristica di cono arrotondato, che le deriva dall’essere prodotta e
commerciata entro piccole tele serrate alle cocche; oppure può assumere la forma
cilindrica a cestello rovesciato, che le viene conferita dal suo tipico contenitore. In
entrambi i casi è di dimensioni molto variabili, ma, in genere, ha un diametro di 1020 cm ed un’altezza di 8-15 cm; il peso è solitamente oscillante tra i 500 grammi e i
2 kg.
I caratteri organolettici e strutturali della Ricotta piemontese possono variare
moltissimo, essendo soprattutto in relazione alla qualità ed alla composizione
chimica del latte e del siero da cui si ottiene, alla tecnica di lavorazione seguita, alle
attrezzature tecnologiche ed alle capacità del produttore.
La Ricotta ottenuta dal siero di latte pecorino è nella maggior parte dei casi
caratterizzata da un più alto contenuto di grasso e. sia per la resa che per la finezza
della pasta e la delicatezza del sapore, risulta spesso superiore a quelle provenienti
dal siero di latte di vacca o di capra o di latte misto. La Ricotta vaccina, invece.
specialmente se è ricavata da siero screziato, presenta una struttura piuttosto ruvida
e grossolana (soprattutto se si eccede nel riscaldamento), un colore tendente al
bianco-verdognolo ed un sapore meno delicato, fine e gradevole, per cui è
considerata merceologicamente inferiore alla precedente.
Se la Ricotta è sottoposta a trattamenti di salatura e di affumicatura per prolungarne
la conservabilità, il prodotto così ottenuto diventa più asciutto, duro e compatto,
perde la sua tipica delicatezza e fusibilità in bocca ed assume un colore biancogrigiastro ed un sapore più forte e meno gradevole, con conseguente declassamento
sul piano commerciale.
La Ricotta piemontese viene generalmente prodotta in due tipi principali: la Ricotta
dolce (che è fabbricata in quantità maggiore) e la Ricotta salata (che è meno
apprezzata e richiesta dai consumatori).
Per preparare la Ricotta dolce si riscalda il siero agitandolo delicatamente in senso
rotatorio ad una temperatura che varia da 75°C a 90°C, a seconda del tipo di
prodotto che si vuole ricavare.
Per ottenere un’ottima Ricotta è consigliabile impiegare sieri provenienti da uguali
lavorazioni a formaggio e controllare il tipo di caglio adoperato per la coagulazione
del latte, scartando, ad esempio, il siero ricavato dalle lavorazioni con caglio di
capretto o con forti dosi di lipasi, poiché il sapore più o meno piccante, che deriva
al prodotto, male si concilia con le sue peculiari caratteristiche e con la sua
conservabilità. Le miscele di sieri, ottenuti dalla lavorazione di formaggi di tipo
diverso, danno minori produzioni di Ricotta, che si presenta altresì in modo
difforme.
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Il siero dei formaggi molli, preparati con latte intero, fornisce una Ricotta più
morbida, vellutata e gustosa, mentre quello dei formaggi cotti, fabbricati con latte
titolato, dà un prodotto più solido, più friabile e di minore conservabilità; inoltre,
occorre ancora rilevare che è difficile ottenere Ricotta dal siero derivato dalle
lavorazione in cui il latte è stato pastorizzato e le difficoltà aumentano, sino ad
essere impossibile la fabbricazione, con l’aumentare del trattamento termico
eseguito.
In presenza di un siero eccessivamente acido, che impedirebbe la formazione della
Ricotta a temperatura normale e causerebbe l’affondamento delle sostanze
albuminoidi nel siero, con una conseguente migliore resa in prodotto finito, si
ricorre normalmente alla pratica della disacidificazione dello stesso mediante
l’aggiunta di opportune sostanze basiche, come ad esempio, la soda Solvay.
Allorché il siero, all’inizio del riscaldamento, raggiunge la temperatura di 40-50°C, si
procede alla rimozione delle particelle di cagliata rimaste in soluzione,
sottoponendo il liquido ad un movimento di vortice, allo scopo di provocare
l’unione di dette particelle e, quindi, la formazione di una massa di cagliata, che può
essere facilmente rimossa.
Poiché la richiesta di Ricotta dal mercato supera spesso l’offerta, per aumentare la
resa del prodotto si usa, talvolta, aggiungere al siero (quando ha raggiunto la
temperatura di 60-70"C) del latte di vacca o di pecora (intero, parzialmente
scremato o magro) od anche del latticello nella misura del 5-10% e sino ad un
massimo del 20-25%; l'aggiunta di questo latte viene fatta in più riprese, tenendo il
siero in blanda agitazione.
Per favorire la separazione della lattoalbumina e per evitare l’impiego di
temperature di riscaldamento troppo elevate, che fanno assumere al derivato uno
sgradevole sapore di cotto, si addiziona al siero (allorché ha raggiunto la
temperatura di 70-75°C) una piccola quantità di siero acido del giorno precedente
(detto «agra») in ragione di 1-4 o più litri per ettolitro di siero o di miscela sierolatte, oppure 100-200 g di solfato di magnesio o, meglio, 15-30 g di acido citrico o
di acido tartarico (sciolti in circa 2 litri di acqua tiepida) od anche 250 cc di aceto di
vino bianco, sempre per ettolitro di siero o di miscela. Se il siero proviene dalla
lavorazione del latte di pecora, non è necessario l’impiego né di agra, né di soluzioni
acide, poiché l’acidità posseduta da questo siero è sufficiente per ottenere la
separazione completa della Ricotta.
Subito dopo l’aggiunta di dette sostanze, si lascia riposare per 20-25 minuti la massa
sierosa (che nel frattempo è stata portata alla temperatura di circa 80°C), in modo
che la lattoalbumina coaguli ed affiori sotto forma di piccoli fiocchi leggeri, che si
agglomerano formando uno strato galleggiante bianco, molle ed uniforme, che con
l’ulteriore innalzamento della temperatura dei liquido a 85-90°C si fa più
consistente e compatto.
Sospeso il riscaldamento, si lascia affiorare tutto il coagulo per qualche minuto e
poi, mediante un mestolo a fondo bucherellato o con l'apposita schiumarola o
spannarola forata, si estrae - poco per volta - lo strato di Ricotta e lo si introduce
delicatamente in sacchetti di tela (che vengono poi appesi per facilitare la
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fuoriuscita del siero) od in speciali stampi bucherellati od in cestelli di vimini o di
plastica e di forma cilindrica o tronco-conica, nei quali rimane per 10-24 ore (sino a
completo spurgo del siero), preferibilmente in un ambiente dotato di una
temperatura di 20-25°C. Questi contenitori sono normalmente denominati
«fuscelle» o «fiscelle», (dal latino fiscella, diminuitivo di fiscus, che significa «cesto») ed
hanno un diametro di 10,5-18 cm ed una capacità di 300-2400 cc, quelli in vimini
sono più coibenti, mentre quelli in plastica sono più igienici e duraturi.
A fine lavorazione con un successivo riscaldamento dei siero e con la sua
agitazione, che fa sollevare la Ricotta che giace sul fondo e lungo le pareti della
caldaia, si può ottenere ancora una piccola porzione di prodotto. Come il siero
defluisce, la massa della Ricotta si costipa ed allora il numero delle forme viene
spesso ridotto «riboccandole», ossia versando il contenuto di uno o più contenitori
nei rimanenti, in modo da aumentare in essi la quantità di prodotto.
Il liquido che rimane nella caldaia dopo aver concluso la lavorazione, si chiama
«scotta» ed è caratterizzato da un colore verde più o meno scuro, da un forte odore
di acido acetico o di acido lattico e da un sapore lievemente dolciastro; esso viene
generalmente utilizzato nell'alimentazione dei suini e dei polli, ma - se il
quantitativo a disposizione è elevato - può anche essere destinato all'estrazione del
lattosio.
La Ricotta salata si ottiene come la precedente, ma da questa differisce - oltre che
per il fatto di essere stata sottoposta a salatura - anche perché ha una maggiore
compattezza e consistenza, che le deriva dal più prolungato riscaldamento del siero
e dal periodo di stagionatura piuttosto lungo cui è sottoposta. Questo prodotto,
dopo 12-36 ore di esposizione all’aria, viene tolto dai contenitori nei quali era stato
collocato dopo una prima leggera salatura per essere impastato a mano con sale
finemente macinato, dopodiché lo si espone ancora all’aria perché possa essiccarsi
rapidamente; la salatura viene ripetuta 1-2 volte a distanza di alcuni giorni ed il sale
complessivamente impiegato può raggiungere il 5-6% del peso della Ricotta. Per
conseguire una maggiore aromatizzazione, talvolta si usa aggiungere del cumino.
Terminata la salatura, si procede all’asciugamento delle forme tenendole per alcuni
giorni in un locale asciutto, tiepido e moderatamente ventilato e conservandole poi
al freddo sino al momento della vendita, che è bene venga effettuata entro 10-12
mesi dalla fabbricazione, perché oltre questo periodo di tempo possono avvenire
nel prodotto talune gravi alterazioni che sono dovute specialmente alla sostanza
grassa che si decompone profondamente; la Ricotta così alterata presenta un colore
giallognolo più o meno marcato e diffuso, acquista odori e sapori disgustosi e,
pertanto, non è più commerciabile, né commestibile.
Durante la conservazione in magazzino il prodotto viene saltuariamente ripulito e
raschiato ad ogni accenno di formazione di muffa; per conservarlo più a lungo, può
essere sottoposto ad affumicatura. Occorre ricordare, però, che con la salatura e
l’affumicatura la Ricotta piemontese perde alcuni dei pregevoli requisiti che la
caratterizzano e che la rendono assai gradita al' consumatori.
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La Ricotta piemontese inoltre, oltre alla sua versione dolce o salata, si presta molto
bene a numerose altre varianti, che prevedono aromatizzazioni con erbe aromatiche
oppure con frutta, zucchero o miele.
La resa della Ricotta piemontese varia in rapporto a numerosi fattori, i più
importanti dei quali sono la specie a cui appartengono gli animali che producono il
latte, la composizione chimica del siero ed, in particolare, il suo contenuto di
grasso, la tecnica di lavorazione seguita, l’epoca e la zona di produzione, le capacità
e le attrezzature possedute dal produttore. ecc. La resa della Ricotta vaccina fresca
(riferita al latte) è di circa il 3% se per la sua produzione si impiega siero di
formaggio magro e di circa il 4% se si usa siero di formaggio grasso, mentre quella
della Ricotta pecorina fresca è assai più elevata ed è solitamente compresa fra il 5%
ed il 10% (con punte del 15% ed oltre) del latte impiegato nella caseificazione.
Come si vede, si tratta di un rendimento che non è trascurabile e che pertanto deve
essere tenuto nella dovuta considerazione dal produttori di formaggi.
Il consumo di Ricotta dolce in Piemonte è in costante e progressivo aumento,
grazie soprattutto alla concomitanza di due fattori positivi: il gradimento del
consumatore, ottenuto facendo leva sui concetti oggi vincenti di freschezza,
delicatezza, ipocaloricità (molto presunta per altro, poiché 100 g. di ricotta
apportano circa 330 calorie); la capacità di prestarsi a numerosissime preparazioni.
Essa infatti è largamente impiegata in numerose preparazioni di cucina (ravioli,
tortelli, cannelloni, ripieni, ecc.) e per usi di pasticceria (produzione di torte, cannoli
siciliani, cassata alla siciliana, sfogliatelle, pastiera napoletana, ecc.) e si usa anche
trattarla con liquori, polvere di cacao, ecc.
La Ricotta salata, invece, viene meno consumata della precedente ed è
prevalentemente usata come companatico (talvolta cosparsa di peperoncino rosso
sminuzzato) o per grattugia.
6.2.8.1 Il Seirass del fen.
Il Seirass del fen (il Sairass del fieno) si caratterizza dalle altre ricotte, per la
forma ovoidale ed il tipico rivestimento esterno, costituito dal fieno verde degli
alpeggi. Talvolta i margari si avvalgono di altre essenze, in alternativa alle festuche
(graminacee che crescono negli alpeggi) solitamente impiegate per avvolgere il
delicato latticino, come il timo serpillo, che conferiscono aromi caratteristici.
Essendo un prodotto artigianale, ottenuto con il latte degli alpeggi, dove i
particolari di preparazione sono tramandati da generazioni, le sue caratteristiche
fisiche ed organolettiche sono variabili, in funzione soprattutto del luogo e della
stagione.
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La materia prima, il latte, bovino e ovi-caprino, viene miscelato in
proporzione del 50% bovino e 50% caprino nel periodo estivo, mentre in quello
invernale si sostituisce al caprino il latte ovino, dal sapore più delicato. Oggi in
realtà è più facile reperire del Seirass del fen di puro latte vaccino.
L’utilizzo di questa ricotta, fresca o stagionata, può avvenire sia in tavola che
in cucina; tradizionale è il consumo come condimento oppure come dessert
accompagnato da marmellata di mirtilli o miele.
La tecnologia produttiva di questa tipica ricotta, prevede come prima fase il
riscaldamento a 70°C del siero ottenuto dalla produzione della Toma. Raggiunta la
temperatura, viene aggiunta una modesta quantità di latte, circa il 10-15%, e il tutto
è ulteriormente riscaldato sino al raggiungimento della temperatura di 90°C. In
questa fase è opportuno mantenere il corretto mescolamento, onde evitare di
ottenere un prodotto poco omogeneo e compatto. Quando comincia
l’affioramento delle sieroproteine coagulate, viene sospeso il riscaldamento e si
effettua la schiumatura del siero con la spannarola, che viene posto in tele di lino
per le prime 24 ore. Durante questa fase si attua la salatura.
La fase successiva è l’avvolgimento del Seirass in un leggero strato di fieno
seccato con cura al fine di mantenere le caratteristiche di profumo e colore e
vengono effettuate due o tre salature superficiali intorno alla forma, alternate a
periodi di riposo di 24-48 ore.
La stagionatura dura almeno una settimana ed è fondamentale che la
temperatura nel locale di stagionatura non superi i 7-8 °C.
In alcuni casi la tecnologia produttiva prevede l’addizione al latte, prima della
coagulazione, di un infuso di erbe aromatiche di montagna, secondo ricette
tradizionali segretissime (è il caso per esempio del Seiras del Lazzarà, dall’omonico
colle che separa il vallone di Pramollo dalla Val Germanasca), mentre in altre
l’immersione nel siero bollente di un mazzetto di erbe aromatiche allo scopo di
favorire il rilascio delle essenze aromatiche.
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6.2.8.2 Il Salignön.
Il Salignön è tipico della zona di Quincinetto e dell’alto Canavese ed ha una lontana
origine germanica, poiché è diffuso anche nella zona di Gressoney ed in altre aree
della Valle d’Aosta a popolazione Walser.
Per la sua preparazione si passa allo staccio dell’ottima Ricotta grassa e la si impasta
con sale e con polvere di peperoncino rosso (o paprika), la quale conferisce alla
massa una tipica colorazione rosa molto pronunciata ed un forte sapore piccante;
talvolta si aggiungono all’impasto anche erbe e fiori essiccati dei pascoli alpini, che
danno un eccellente risalto all'aroma del prodotto.
La pasta, così preparata, viene poi modellata con le mani in modo da formare sfere
dei peso di circa 300 g, che si appendono all’interno della cappa del camino, al fine
di asciugarle rapidamente e di poterle così conservare a lungo: l’effetto del fumo,
inoltre, conferisce ad esse un gradevole e caratteristico sapore di affumicato, che è
molto apprezzato dai consumatori. Di questo latticino esiste anche un tipo non
affumicato, che viene consumato fresco, dopo aver impastato la Ricotta con aglio,
sale e paprika.
Il Salignön viene generalmente preparato per il consumo familiare e, pertanto, non
è quasi mai posto in commercio, anche se potrebbe certamente costituire
un'interessante curiosità gastronomica soprattutto nelle birrerie delle città, dato che
esso è dotato di un sapore che si armonizza assai bene con quello amaro della birra.
6.2.8.3 Il Murtret.
Preparazione casearia ottenuta da pezzi di Toma e ricotta fermentati.
Il
prodotto finale produce, al taglio, scaglie in corrispondenza dei pezzetti (“dadini”) di
partenza. Il peso è di circa 2 Kg. Il gusto è piccante.
Viene descritto da Marco Parenti nella monografia Alla ricerca del formaggio
perduto, come «delizioso formaggio essenzialmente fatto di ricotta amalgamata con
pepe e sale e a volte con semi di finocchio. ».
Nella preparazione tradizionale, si utilizzano tome stagionate fino a 90 giorni
(un tempo si utilizzavano soprattutto quelle non riuscite o difettose o invendute). Si
elimina la crosta e si taglia la pasta in dadini di 1-1,5 cm. di lato, che sono mescolati
con ricotta ottenuta dal siero della toma (la miscela contiene circa il 30% di ricotta).
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Si inserisce l’impasto in un sacchetto di tela del diametro di circa 15 cm ed alto 1520 cm, che viene chiuso. Il tutto è pressato mediante pietre o panca di caricamento.
Dopo circa 40 giorni il telo è macerato, asciutto e si stacca facilmente - a brandelli dal formaggio. A questo punto, eliminati i frammenti di tela e terminata la fase di
pressatura, si ha un periodo di stagionatura (da 60 giorni a sei mesi o un anno). In
seguito alla stagionatura si ha la formazione di una crosta giallo-rosata.
La produzione è tipica delle zone dell’alto Eporediese, Quincinetto ed aree
limitrofe.
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7. Il germoplasma animale tipico.
7.1 La biodiversità come presupposto della tipicità.
Biodiversità e tipicità sono due concetti strettamente interconnessi, poiché
spesso un prodotto tipico deve la propria tipicità, o buona parte di essa, alle proprie
caratteristiche genetiche, nel caso dei vegetali, o a quelle delle materie prime che lo
compongono , nel caso di produzioni animali.
Per contro, quasi sempre la
sopravvivenza di una specie, di una varietà o di una razza è garantita dal successo
commerciale di un prodotto tipico ad essa collegato.
La salvaguardia della biodiversità e del patrimonio vegetale ed animale in via
di estinzione è argomento largamente dibattuto a livello mondiale. Molto rimane
però da fare, prima di tutto per la conoscenza delle diverse specie esistenti
spontanee e coltivate, selvatiche e domestiche, e successivamente per la loro
conservazione.
Tutte le specie hanno una durata limitata nel tempo, quindi l’estinzione è un
processo del tutto naturale, ma che può subire delle notevoli accelerazioni a causa
delle interferenze dovute alle scelte dell’uomo. Le minacce alla biodiversità derivano
principalmente dall’attività umana, dal tentativo di incrementare sia le superfici
agricole e sia le produzioni vegetali e animali per colmare le esigenze alimentari
avendo come conseguenza lo stravolgimento dell’ambiente naturale, la
deforestazione, l’antropizzazione selvaggia, l’inquinamento di aria, acque e terra.
Limitatamente alle specie e razze animali e, in particolare, a quelle
addomesticate e di interesse zootecnico è noto come l’utilizzazione di poche razze
molto produttive a scapito delle razze più rustiche abbia determinato un calo di
interesse e, in vari casi, un vero e proprio abbandono delle popolazioni meno
produttive. In campo bovino ad esempio, la Frisona, rappresenta, oggi in Italia,
l’80% delle vacche da latte, ma lo stesso fenomeno di sostituzione ed abbandono di
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razze ha interessato la specie suina, le specie avicole, ecc. La scelta dei caratteri
produttivi economicamente più interessanti e, successivamente il lavoro di
miglioramento genetico ha portato ad un progressivo impoverimento del materiale
biologico e sono stati gli stessi ricercatori e realizzatori dei programmi di
miglioramento genetico a prendere coscienza, per primi, del rischio di perdita della
biodiversità. Anche l’esodo rurale verificatosi dal dopo guerra in poi, l’abbandono
delle aree più svantaggiate quale la collina e la montagna, l’intensificazione degli
allevamenti hanno portato al calo dei soggetti di razze rustiche e ad un distacco
crescente tra l’ambiente naturale e l’animale.
Attualmente nel mondo, secondo l’ultimo rapporto della FAO (1994) delle
2.719 razze identificate tra le principali specie di interesse zootecnico, ne sono state
individuate 391 a rischio (112 bovine, 101 ovine, 81 equine, 53 suine, 32 caprine, 11
asinine e 1 bufalina). In Italia, sarebbero 53 le razze in via di estinzione (11 bovine,
22 ovine, 9 caprine, 2 suine, 5 equine e 4 asinine).
In Europa gli studi sul patrimonio genetico in pericolo sono stati avviati oltre
venti anni fa: nel 1974, la Société d’Ethnozootechnie organizzava la prima di una
serie di “Giornate di studio sulle razze di interesse zootecnico in pericolo”;
un’inchiesta svolta dalla FAO sulle razze ovine in regressione risale alla fine degli
anni ’70 (Brooke e Ryder, 1978). Delle 49 razze prese in considerazione
dall’indagine FAO e diffuse nei vari Paesi del bacino mediterraneo, quattro erano
presenti nell’area nordoccidentale dell’Italia (la Sambucana, la Garessina, la
Savoiarda e la Rosset).
In Italia, tra il 1976 e 1981, il CNR programmava un Piano Finalizzato
intitolato “Difesa delle risorse genetiche delle popolazioni animali”, con l’obiettivo
di promuovere e coordinare ricerche per la conoscenza, la valorizzazione e lo
sfruttamento delle popolazioni animali a consistenza numerica ridotta. I risultati del
suddetto Piano sono stati pubblicati e discussi in una serie di convegni
(“Salvaguardia genetica e recupero zootecnico delle popolazioni autoctone italiane”,
Foligno,1979; “Le risorse genetiche animali, conservazione e utilizzo”, Roma 1979;
“Difesa delle risorse genetiche delle popolazioni animali”, Milano 1982) e
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sintetizzati in un Atlante Etnografico delle popolazioni animali allevate in Italia
(CNR, 1983). Nell’Atlante sono riportati dati sulla consistenza delle popolazioni,
descritte le principali caratteristiche morfologiche, produttive e riproduttive delle
stesse e forniti elementi per una valutazione delle possibilità di impiego e
valorizzazione in particolari condizioni di allevamento. Vi troviamo schede su 51
razze ovine, 22 razze caprine e 28 razze bovine. È in corso un aggiornamento degli
Atlanti delle popolazioni a rischio a cura dell’IDVGA di Milano (Istituto per la
Difesa e la Valorizzazione del Germoplasma Animale creato nel 1982 dal CNR).
Per quanto riguarda il Piemonte e la Valle d’Aosta, le popolazioni inserite
nello studio erano rappresentate da 8 razze ovine (Biellese, Delle Langhe,
Frabosana, Garessina, Saltasassi, Sambucana, Savoiarda e Tacola), 6 razze caprine
(Alpina, Camosciata delle Alpi, Roccaverano, Saanen, Sempione e Vallesana) e 6
razze bovine (Tortonese, Pezzata Rossa d’Oropa, Piemontese, Valdostana Castana,
Valdostana Pezzata nera e Valdostana Pezzata Rossa). Tra queste, tuttavia, vi sono
anche alcune razze a consistenza rilevante da non considerare in pericolo come la
Piemontese, la Valdostana P.R. e la Biellese.
L’elevato numero di razze in pericolo delle tre specie - ma in modo
particolare della specie ovina - presenti in Piemonte è da collegare principalmente
alla rilevanza delle aree montane e collinari (circa 73% del territorio regionale) dove
più facilmente persistono nicchie di allevamento di razze autoctone.
La conoscenza del patrimonio autoctono è un primo passo verso la sua
conservazione e verso la salvaguardia sia delle razze e sia dell’ambiente al quale
sono, quasi sempre, strettamente connesse. Caratteristica comune a tutte le
popolazioni locali è, infatti, l’essere in armonia con l’ambiente, grazie ad una
selezione naturale realizzatasi nel corso del tempo. Questa armonia si traduce in
rusticità, frugalità, resistenza alle malattie, capacità di vivere, riprodursi e produrre
con risorse alimentari modeste, là dove razze con più elevate attitudini produttivi
vanno incontro a problemi ambientali che annullano le loro potenzialità genetiche.
Ecco perché le popolazioni autoctone sono anche uno strumento di salvaguardia
del territorio.
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Fare chiarezza sul concetto di razza, indagare sulle caratteristiche
morfologiche e produttive e, soprattutto, sulle peculiarità e originalità genetiche
delle varie popolazioni dovrebbe permettere:
• una maggiore attenzione ad un patrimonio naturale, ma anche sociale e
culturale, largamente sottovalutato o del tutto ignorato;
• un primo passo verso la salvaguardia di questo patrimonio in pericolo e
dell’ambiente nel quale vivono;
• una più proficua utilizzazione dei fondi europei destinati alla salvaguardia
delle razze a rischio;
• un aiuto tecnico agli allevatori nella scelta delle razze da allevare o anche
nella scelta dell’orientamento produttivo e/o del progetto di lavoro.
7.2 Il concetto di razza.
La razza è frutto di un processo evolutivo e di differenziazione del materiale
animale iniziato da millenni nell’ambito di una determinata specie. È il risultato di
una lunga storia di allevamento sulla quale sono intervenuti numerosi fattori
(migrazione di uomini e animali, mutazioni genetiche, incroci, modificazioni del
contesto economico e politico). In un’accezione più moderna al concetto di razza
si è poi associato quello di standard di razza, cioè di un modello di riferimento per il
quale sono fissati i caratteri morfologici, nonché le attitudini produttive specifiche
della razza. Questo concetto di razza soffre, tuttavia, di un certo formalismo non
sempre rispondente alla realtà genetica (vi è, in alcuni casi, maggiore distanza
genetica tra soggetti della stessa razza, che tra soggetti di razze apparentemente
molto diverse).
Le diverse razze possono essere classificate in:
• primitive o tradizionali (popolazioni derivanti dalle popolazioni selvatiche
e soggette alla sola selezione naturale);
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• secondarie o standardizzate (derivanti dalle precedenti per selezione di
alcuni tipi o caratteri, operata dall’uomo);
• sintetiche (create a partire dall’incrocio tra razze secondarie);
• mendeliane (selezionate a partire da un solo gene come nel caso delle
razze caratterizzate da ipertrofia muscolare).
La maggior parte delle popolazioni caprine sono primitive e caratterizzate da
elevata variabilità genetica, mentre praticamente tutte le razze ovine e bovine
presenti nei nostri allevamenti appartengono al gruppo di razze secondarie,
selezionate in base ad alcuni caratteri di interesse economico - il vello bianco per gli
ovini ad esempio - e caratteri morfologici e produttivi standardizzati per i bovini
(standard di razza e indirizzo produttivo specifico) e/o sintetiche. In questo caso, la
variabilità genetica è minore e non necessariamente legata al fenotipo. Tra le razze
mendeliane possiamo inserire la razza Piemontese.
7.3
Perché salvaguardare una specie o una razza?
Le ragioni che spingono a salvaguardare il germoplasma possono essere
varie:
• etiche ed estetiche: rispetto del diritto all’esistenza di tutte le creature ed
esaltazione della bellezza della natura;
• storiche: ricostruzione delle tappe dell’insediamento e addomesticamento
nei diversi territori;
• scientifiche: ampliamento delle conoscenze sulla morfologia e fisiologia
degli animali, studi sull’evoluzione delle specie, sui rapporti esistenti fra le varie
popolazioni, sui caratteri genetici unici, ecc.;
• socio-culturali: individuazione di razze autoctone, riscoperta di antiche
tradizioni di allevamento e trasformazione quale parte del nostro bagaglio culturale,
della nostra memoria;
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• zootecniche: le razze locali sono depositarie di caratteri fondamentali
(capacità di adattamento, rusticità, longevità, resistenza alle avversità climaticoambientali e alle patologie, elevata fertilità, produzione a minor costo) spesso
sconosciuti nelle razze specializzate, e quindi si prestano particolarmente bene a
forme di allevamento più estensive e per l’utilizzazione di aree marginali.
Le motivazioni più ricorrenti per trascurare la salvaguardia di una razza sono
di carattere socio-economico: l’allevamento di detta razza non permetterebbe
all’allevatore di raggiungere un ragionevole standard di vita e potrebbe creare
conflitti di interesse tra gruppi di allevatori. Ma è molto difficile valutare la valenza
economica della biodiversità a meno che non vengano valutati - con lo stesso
metro economico - anche i danni ambientali e scientifici conseguenti alla scomparsa
di alcune popolazioni.
7.4 La conservazione del germoplasma animale.
Gli schemi per valutare il livello di rischio di estinzione di una razza sono
basati essenzialmente sul numero di riproduttrici censite e sul rapporto
maschio/femmine (cfr. Tabella n. 1). Il censimento dei riproduttori ancora presenti
è indispensabile per valutare la reale situazione della razza e la necessità di agire
tempestivamente per conservare ciò che rimanere e incrementare rapidamente il
numero di soggetti quando sono raggiunti livelli di rischio importanti.
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Tabella n. 1 - Categorie di rischio per gli animali (FAO, 1992).
Situazione
Normale
Rara
Vulnerabile
In pericolo
Critica
Estinta
Riproduttrici
>10.000
5.000-10.000
1.000-5.000
100-1.000
< 100
0
Riproduttori
<5
0
Presa coscienza del rischio imminente della perdita definitiva di larga parte
delle risorse genetiche, nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite
sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992, la
maggior parte dei Paesi ha aderito alla Convenzione sulla diversità biologica (CBD)
e al Programma globale FAO per la gestione delle risorse genetiche animali, il cui
livello base nella struttura organizzativa è costituito da punti di riferimento
nazionali, i cosiddetti “National Focal Point” (NFP).
Avvalendosi di tutte le
organizzazioni presenti sul territorio governative e non governative, compiti di tali
NFP sono:
• identificare e conoscere le risorse genetiche nazionali;
• monitorare i tipi genetici autoctoni a rischio di estinzione;
• studiare la variabilità genetica tra e entro le popolazioni;
• quantificare l’erosione genetica;
• conservare i tipi genetici autoctoni (TGA);
• educare la popolazione al mantenimento della biodiversità;
• divulgare l’importanza, soprattutto culturale, dei TGA ed il loro ruolo.
Nel 1994 il Governo italiano ha accreditato presso la FAO il Consorzio per
la Sperimentazione, Divulgazione e Applicazione di Biotecnologie Innovative
(ConSDABI) di Circello (Bn) quale NFP italiano.
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I sistemi di salvaguardia del germoplasma vanno analizzati in funzione della
situazione specifica delle singole popolazioni. Sono generalmente suddivisi in due
categorie dette in situ e ex situ. Per strategia in situ, si intende il mantenimento di
animali entro i sistemi di produzione zootecnica e per strategia ex situ il
mantenimento di animali in strutture protette quali fattorie sperimentali, parchi, zoo
o la creazione e l’utilizzazione di banche di materiale genetico (banca del seme,
crioconservazione). Le due strategie possono, ovviamente, coesistere ed integrarsi.
Proposte di utilizzazione dei parchi a scopo didattico e di conservazione sono già
state avanzate anche nella nostra regione.
Gli aiuti pubblici, quali il Reg. UE 2078/92 Misura D2, possono servire alla
conservazione del germoplasma, ma sono limitati nel tempo e, senza una adeguata
presa di coscienza da parte degli allevatori, rischiano di risolversi in una caduta di
interesse non appena cessi il finanziamento. Perciò è indispensabile sviluppare una
competitività sul mercato anche per i prodotti derivati da queste popolazioni
sfruttando le loro tipicità e qualità.
Il reg. UE 2078/92 ci ha consentito inoltre di avere un’idea più precisa della
consistenza delle razze definite in pericolo ed oggetto del finanziamento previsto
dalla Misura D2, come evidenziato dalla Tabella n. 2.
La Tabella n. 3 ci consente invece di comprendere l’evoluzione subita dalle
razze autoctone piemontesi.
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Tabella n. 2: Consistenza delle razze in pericolo e richiesta 2078-D2/1997
Specie
Consistenza
presunta
(1/1/95)
5.500
500
3.000
2.000
1.500
250
200
200
300
150
100
Razza
Bovini
P. R. d’Oropa
Tortonese
Ovini
Frabosana
Sambucana
Saltasassi
Tacola
Garessina
Savoiarda
Caprini
Roccaverano
Vallesana
Sempione
(Dati Regione Piemonte)
Richieste
(1/7/97)
4.598
0
4.218
3.201
0
633
35
0
581
50
5
Tabella n. 3 - Consistenza capi dal 1930 al 1998.
1930
1950
Anni
1970
Piemontese
630.000
570.000
500.000
450.000
330.000
P.R. d’Oropa
8.000?
8.000
6.300
4.600
4.600
Tortonese
20.000
-
400
100
50
3.000
30.000
40.000
50.000
50.000
23.000
16.600
1.100
6.200
?
8.000
2.000
2.000
3.400
40.000
35.000
12.000
5.000
2.000
Tacola
-
-
-
100
640
Garessina
?
2.700
1.600
100
80
2.500
2.500
100
70
2.500
?
1990
1998
Bovini
Ovini
Biellese
Frabosana
Sambucana
Delle Langhe
Savoiarda
Saltasassi
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Un’analisi, ancorché superficiale, della Tabella n. 3 evidenzia come, nel corso
degli ultimo mezzo secolo, buona parte delle razze autoctone piemontesi abbiano
subìto un forte decremento numerico, compresa la razza bovina Piemontese, razza
specializzata da carne ed esportata in vari Paesi europei (Olanda e Belgio ad
esempio) nonché in altri continenti (Argentina, Brasile, Cina, Australia, ecc.).
La contrazione numerica della Piemontese è dovuta, in parte all’esodo rurale
importante del secondo dopoguerra e, in parte, alla concorrenza delle razze da
carne di importazione (Garonnese, Charolaise e Limousine).
L’abbandono della
Tortonese è legato allo scarso interesse degli allevatori per una razza non
competitiva, né nella produzione di latte né della carne.
La forte contrazione degli ovini e caprini allevati è da collegare con la
prevalenza e lo sviluppo dell’allevamento bovino da latte e da carne in tutta la
pianura padana. L’85% dei capi ovini e caprini allevati in Piemonte e tutte le
piccole popolazioni in via di estinzione si trovano, infatti, in zone montane dove le
condizioni ambientali rendono assai problematici sistemi di allevamento intensivi.
In base ai livelli di rischio sopra citati, le razze autoctone piemontesi possono
essere catalogate come evidenziato nella Tabella n. 4.
La situazione reale può peggiorare ulteriormente se, oltre che del numero di
riproduttrici, si tiene conto anche del rapporto maschio/femmine e quindi della
grandezza genetica effettiva delle popolazioni in esame (cfr. Bodo, 1995).
Occorre quindi una sorta di monitoraggio collettivo per tenere sotto controllo la
dinamica, l’evoluzione o involuzione di una popolazione, in tempo utile per poter
proporre interventi.
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Tabella n. 4 - Classificazione delle razze piemontesi in base al numero di
riproduttrici
Situazione
Normale
Rara
Vulnerabile
Riproduttrici
>10.000
10.000-5.000
5.000-1.000
1.000-100
In pericolo
< 100
Critica
Estinta?
0
Razze
Piemontese
Biellese
Pezzata Rossa d’Oropa
Frabosana
Sambucana
Delle Langhe
Roccaverano
Vallesana
Tacola
Savoiarda
Garessina
Tortonese
Saltasassi
Sempione
Le strategie di conservazione della biodiversità devono essere messe in atto
prima della perdita definitiva o del raggiungimento dei livelli minimi, giacché il
ripristino è un processo molto lungo e difficilmente realizzabile. Fin d’ora è
necessario ricercare la collaborazione a livello nazionale e/o europeo: molte specie
(o razze) hanno una distribuzione territoriale transnazionale (è il caso della
Frabosana, della Vallesana, della Savoiarda, della Tarina ad esempio).
Per la salvaguardia della biodiversità, le linee di lavoro per il futuro possono
essere così schematizzate:
• individuazione dei serbatoi genetici e diffusione delle conoscenze sulle
popolazioni a rischio;
• studi sulla variabilità e l’originalità genetica entro e tra popolazioni utili
per le decisioni relative alle priorità nella programmazione di interventi di
riproduzione conservativa;
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• concertazione ed armonizzazione delle politiche agricole svolte dai diversi
Enti che agiscono sul territorio;
• monitoraggio delle popolazioni censite per analizzarne l’andamento;
• stabilizzazione e valorizzazione delle risorse genetiche recuperate
mediante l’allevamento in purezza e con l’aiuto tecnico agli allevatori quale garanzia
del mantenimento del presidio umano delle aree svantaggiate e della salvaguardia
del nostro patrimonio socio-culturale.
7.5 Il patrimonio zootecnico piemontese.
Bovini
La consistenza dei bovini in Piemonte al 1/6/1997 (dati Assessorato
Agricoltura) era valutata in 877.409 capi, di cui 348.288 riproduttori e 279.219
bovini da 1 a 2 anni. Il comparto bovino è composto per il 55% da razze da carne
(Piemontese e razze francesi), per il 26% circa da razze da latte (prevalentemente
Frisona poi Valdostana P.R., Pezzata Rossa d’Oropa e Bruna), il 13% circa di
meticci e il rimanente 6% da razze rustiche (Grigio Alpina, Tarina, ecc).
Le razze bovine interessate alla 2078/92 sono due, la Pezzata Rossa d’Oropa
e la Tortonese. La prima era già sottoposta a controlli funzionali nel 1992 e
possedeva un Registro Anagrafico; oggi, gli allevamenti iscritti al R.A. sono 141. La
Tortonese, invece, è ridotta alla stato di reliquia.
Ovini
La consistenza degli ovini in Piemonte al 1/6/1997 era valutata in 100.756
capi, di cui 79.259 pecore. Il comparto ovino è composto per il 65% da razze da
carne (Biellese, Bergamasca, Sambucana), un 12% circa da razze da latte (Delle
Langhe, Frabosana, Sarda) e il rimanente 23% da meticci e varie popolazioni
minori.
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Alcune Comunità Montane hanno iniziato a lavorare per il recupero di razze
ovine locali. È il caso della Comunità della Valle Stura per la Sambucana e delle Val
Pellice, Valli Gesso, Vermenagna e Pesio e Valli Monregalesi per la Frabosana.
La Regione Piemonte ha deliberato l’apertura di un Registro Anagrafico per
le razze Frabosana, Garessina, Sambucana e Tacola.
Caprini
La consistenza dei caprini in Piemonte al 1/6/1997 era valutata in 57.814
capi, di cui 45.083 capre. Il comparto caprino è composto per l’80% da cosiddette
capre comuni collegabili alla razza Alpina e caratterizzate da un’ampia variabilità dei
caratteri morfologici (colore e tipo di mantello) e produttivi alla quale è, molto
probabilmente, abbinata un’elevata variabilità genetica.
Per l’applicazione pratica della 2078/92 (Misura D2) è stata deliberata
l’apertura di un Registro Anagrafico per le razze Roccaverano e Vallesana.
Suini
Il settore suinicolo, che conta quasi 963.000 capi allevati, è impostato
esclusivamente sull’utilizzazione di razze importate (Large White e Landrace
principalmente) e ibridi commerciali di razze cosmopolite.
Mentre sono considerate estinte le razze locali alle quali accennano i testi
dell’inizio secolo come la razza di Cavour e di Garlasco, sulle quali torneremo.
Equini
Il patrimonio equino regionale è ridotto (28.588 capi di cui 27.362 cavalli,
975 asini e 251 muli e bardotti) e costituito da soggetti importati da altre regioni
(Avelignese, Murgese, Anglo-arabo-sardo) o da paesi limitrofi (razza di Mérens).
Conigli
L’allevamento cunicolo piemontese è rilevante (circa 930.000 di capi rilevati
nelle statistiche oltre numerosi capi presenti in allevamenti familiari), al 2° posto in
Italia ma basato principalmente su allevamenti intensivi di razze selezionate
(California, Fulvo di Borgogna, Argentato di Champagne, Blu di Vienna, ecc) e di
ibridi di dette razze o ibridi commerciali (Hyla e altri).
Delle 41 razze dello Standard Italiano, ben 28 risultano in via di estinzione,
ma nessuna di queste è originaria della nostra regione.
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Unica razza autoctona e di ridotta consistenza è il Grigio di Carmagnola, razza
locale al cui recupero lavorano dal 1982 alcuni ricercatori del Dipartimento di
Scienze Zootecniche dell’Università di Torino.
7.6
Le razze autoctone della provincia di Torino.
Nei paragrafi che seguiranno cercheremo di illustrare le principali
caratteristiche delle razze autoctone presenti sul territorio della provincia di Torino.
7.6.1 La razza bovina Piemontese.
La razza bovina Piemontese - che per fama e consistenza numerica è la
prima razza da carne italiana - non necessiterebbe, in una ricerca come questa, di
alcuna annotazione, quindi ci limiteremo semplicemente a fornire alcune brevi note
sull’origine e lo sviluppo di questa straordinaria razza.
La razza Piemontese deriverebbe da una popolazione autoctona di tipo
giurassico dopo assorbimento di altri piccoli gruppi etnici locali (quello di tipo
iberico - razza delle Langhe - e quello di tipo alpino - razza di Demonte) e
popolazioni del ceppo podolico.
I bovini Piemontesi raggiunsero una qualche uniformità, che ne giustificava
l’appellativo di razza, soltanto alla fine dell’Ottocento. Pur essendo animali a triplice
attitudine, con prevalenza del lavoro sulle altre due prestazioni, i bovini Piemontesi
erano già molto apprezzati per la produzione di carne e latte.
Attorno al 1850, secondo Lessona e Paci si potevano distinguere due tipi:
- la cosiddetta “scelta di pianura”, più pregevole, allevata nelle fertili pianure
alla destra del Po, a mantello fromentino più o meno carico, di statura elevata per
maggior sviluppo degli arti rispetto al tronco, buona produttrice di carne, con
sviluppo notevole dei muscoli della coscia e della groppa ma, generalmente,
mediocre lattifera;
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- e una "ordinaria di collina" presente nelle Langhe e nelle zone collinari di
Chieri, Moncalieri, Santena, del Canavese, simile alla prima ma più rustica, con
attitudine prevalente al lavoro e con una produzione di latte sufficiente per
l’allattamento dei vitelli. Pur distinguendosi per adattamento all’ambiente, questi
due tipi presentavano caratteri fissi simili e tali da poter considerarsi appartenenti ad
un’unica razza.
Nel 1886 comparve per la prima volta nel territorio del comune di Guarene
d’Alba il carattere “groppa di cavallo”, con muscolatura della coscia e della natica
fortemente sviluppata, in contrasto con lo Standard in vigore allora. Solo più tardi il
carattere ha destato l’interesse degli allevatori e degli scienziati e avuto un’influenza
decisiva sull’evoluzione della razza.
Nel corso dei secoli, il patrimonio zootecnico del Piemonte ha subìto
importanti variazioni, soprattutto in relazione agli eventi bellici e alle malattie
infettive del bestiame. Nel 1734 fu effettuato un censimento che forniva i primi dati
sui capi bovini complessivamente allevati nelle terre degli antichi domini, (ad
esclusione di Novara, Tortona e l’Oltre Po), risultati poco più di mezzo milione.
All’inizio del nostro secolo, la consistenza numerica della Piemontese ammontava a
680.000 capi, quota pari al 55,4% dei capi bovini regionali; era diffusa
prevalentemente nelle province di Cuneo e Asti (90%) e in misura minima in quelle
di Torino, Alessandria e Vercelli.
Nel 1985, l’ANABORAPI valutava ancora la consistenza della razza intorno
ai 600.000 capi, mentre nel 1996, in base all’Anagrafe zootecnica veterinaria, la
consistenza della Piemontese, nella nostra regione, era di 328.408 capi distribuiti in
oltre 15.000 allevamenti situate principalmente nelle province di Cuneo (65%),
Torino (21%) e Asti (9%).
La Piemontese “migliorata” è allevata in aree di pianura e collina, mentre la
distribuzione della Piemontese “comune” interessa prevalentemente le vallate
alpine del Cuneese. Difficile oggi definire la quota di Piemontese migliorata (in ogni
caso nettamente prevalente) da quella di Piemontese comune. Secondo Succi, la
consistenza di quest’ultima sarebbe di appena il 5%.
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In base al censimento
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I prodotti tipici della provincia di Torino
realizzato su un campione di oltre 100.000 capi ad opera dei veterinari delle ASR
nell’ambito di questo studio, i Piemontesi comuni sono rappresentati da circa
13.000 capi.
Rispetto alla Piemontese migliorata, il tipo "comune" risulta più alto con testa
meno leggera, scheletro più pesante, arti meno esili, addome meno retratto e pelle
meno sottile.
Lo sviluppo dei muscoli della groppa, della coscia e della natica è
molto meno accentuato, il tronco meno cilindrico e, quindi, il tipo morfologico
risulta mesomorfo, rispecchiando le caratteristiche della triplice attitudine.
Con l’evolversi della razza, sono praticamente scomparse alcune produzioni
tipiche - come i sanati, vitelli di latte di 3-4 mesi, ed i vitelli grassi castrati di 250-350
kg - mentre altre, come il “bue grasso” (manzo “di due denti” di peso vivo fino a
7-8 quintali) delle festività di fine anno, prodotto riconosciuto “piatto nazionale
italiano”, stanno vivendo un nuovo periodo di successo e le tradizionali Fiere del
bue grasso di Carrù (CN), Fossano (CN) e Moncalvo (AT) hanno ripreso quota.
La Piemontese era anche una discreta produttrice di latte, di un ottimo latte
utilizzato per diversi formaggi tipici. Recenti ricerche hanno dimostrato come
ancora oggi la composizione del latte della Piemontese appare ottima e le
percentuali di grasso e proteina, superiori a quelle riscontrate in razze più
produttive (Liberatori, 1990). Interessante appare anche la variabilità genetica
individuata tra soggetti di allevamenti diversi relativamente ai loci lattoproteici
(varianti caseiniche in particolare) (Caroli, 1992).
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7.6.2
I prodotti tipici della provincia di Torino
La razza bovina Pezzata Rossa d’Oropa.
La razza Pezzata Rossa d’Oropa, anche detta “razzetta d’Oropa”, è stata
riconosciuta come razza a consistenza ridotta dal Ministero fin dal 1985.
Come la maggior parte delle altre razze bovine pezzate rosse presenti
nell’arco alpino (Pezzata Rossa Italiana, Valdostana Pezzata Rossa, Mombéliarde,
Abondance, ecc.), trarrebbe la sua lontana origine (V secolo con la discesa dei
Burgundi dal Nord poi dal Centro Europa) dalla razza Simmental. Secondo alcuni
autori (Mascheroni, 1925; CNR, 1983) sarebbe una variante della Valdostana
Pezzata Rossa. Dalla Valdostana si è distinta in seguito a rinsanguamenti con tori
Simmental all’inizio del secolo e più recentemente nel corso degli Anni ’60 (Ciconi,
1980). Da studi realizzati negli anni ’80 sulle Pezzate rosse italiane (Crimella, 1982),
la P.R. d’Oropa risultava geneticamente più vicina alla P.R. Friulana che non alla
P.R. Valdostana.
Nel 1950 la consistenza totale era valutata di 8.000 capi circa, di cui solo
5.000 “degni di classificazione” (Bonadonna, 1950), distribuiti in alcune centinaia di
stalle. Nel 1997 risultavano iscritti al Registro Anagrafico 4.598 capi (di cui 128
tori, 3.245 vacche e 1.225 manzette) distribuiti in 231 allevamenti. A questi è da
aggiungere una quota di soggetti non iscritta al R.A. La razza è quasi tutta
concentrata in provincia di Biella, nelle vallate dell’Elvo e del Cervo, ma vi sono
alcuni allevamenti nelle province attigue di Vercelli e Torino.
È una razza di taglia grande, pezzata rossa, con testa relativamente leggera e
mantello pezzato rosso variabile dall’arancione al rosso carico, quest’ultimo da
preferirsi. È presente anche il genotipo pezzato nero, benché poco frequente e non
ricercato dagli allevatori. Testa, arti, parte inferiore ventre e fiocco sono
generalmente bianchi. Il peso vivo adulto può variare da 650 a 850 kg nei tori e da
550 a 650 kg nelle vacche.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
È considerata razza a duplice attitudine, ma quella prevalente è la produzione
di latte (mediamente 20-25 quintali a lattazione) destinato alla trasformazione in
Toma e Maccagno, formaggi tipici della zona.
Gli obiettivi della selezione della P.R. d’Oropa sono la produzione e la
qualità del latte, conservando tuttavia sia la buona conformazione della razza
(presupposto indispensabile per una buona produzione di carne) e sia una
rusticità della razza e capacità di utilizzare le risorse foraggiere delle aree
montane.
7.6.3 La razza ovina Biellese.
La razza ovina Biellese è anche chiamata “Razza di Ivrea”, “Nostrale” o
“Piemontese Alpina”. La razza è stata ufficialmente riconosciuta dal Ministero nel
1985, possiede quindi uno Standard di Razza, un Libro Genealogico e un Comitato
di Razza comune con la razza Bergamasca, con rappresentanti della Regione
Piemonte, delle principali APA interessate (Vercelli-Biella e Torino) e dell’APA di
Ravenna quale zona di espansione della razza.
La Biellese, come la maggior parte delle altre razze ovine allevate nell’arco
alpino (Bergamasca, Brianzola, Varesina, Del Lamon) trae la sua origine da una
razza sudanese, la Ovis aries sudanica, tuttora presente in Sudan, Egitto e in una vasta
area che va dal Caspio meridionale all’Asia Minore. Si trovano documenti sulla
pastorizia e i primi censimenti del bestiame nel Biellese, culla della razza omonima,
solo a partire dalla fine del XVII secolo.
La consistenza della razza ebbe andamenti vari: dopo un brusco calo e la
quasi estinzione nel periodo dell’immediato dopoguerra, si assistette, a partire dagli
anni '60, ad un progressivo e costante recupero dell’allevamento della Biellese.
Nel 1994 la consistenza totale del patrimonio ovino piemontese ammontava
a 106.000 capi circa, distribuiti in 3.500 allevamenti. In base all’anagrafe ovi-caprina,
Dicembre 2000
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I prodotti tipici della provincia di Torino
realizzata sempre nel 1994, la Biellese rappresentava il 59% del patrimonio
regionale con oltre 50.000 capi distribuiti in 350 allevamenti di consistenza mediogrande. Dalla zona di origine, la razza si è espansa soprattutto in provincia di
Torino e Cuneo ed è presente anche in provincia di Novara e, in misura minore, di
Asti .
Vi sono anche un buon numero di derivati Biellesi in quanto la Biellese è
stata utilizzata a lungo come razza incrociante su varie popolazioni minori
(Sambucana, Savoiarda, Frabosana e Garessina) per incrementare il peso vivo alla
nascita e gli accrescimenti degli agnelli e per migliorare la conformazione. E’ anche
in fase di sviluppo l’espansione della razza in altre regioni italiane, in particolare in
Valle d’Aosta, in Emilia-Romagna - dove si contano già una trentina di allevamenti
nelle province di Ravenna e Bologna - e, in misura minore, in Lombardia nella
provincia di Como.
La Biellese presenta taglia grande (con peso vivo che varia da 80 a 100 kg
per gli arieti e da 65 a 80 kg per le pecore), testa proporzionata alla taglia, senza
corna in ambo i sessi, profilo lievemente montonino, orecchie lunghe e larghe
pendenti oltre la regione della gola, vello bianco e piuttosto esteso (presente anche
una piccola percentuale di soggetti a vello nero, caratteristica che attualmente porta
all’esclusione dal Libro Genealogico), pelle e mucose rosee.
L’attitudine produttiva prevalente è la produzione di carne, mentre il latte è
generalmente utilizzato dagli agnelli e, solo in alcune aree delle province di Torino e
Cuneo, viene munto e trasformato dopo la macellazione dell’agnello.
La razza Biellese partecipa dal 1992 ai Performance Test nazionali, realizzati
annualmente su gruppi di agnelli delle varie razze da carne presso il Centro
Genetico di Urbania (PE); queste prove (giunte al XXII Ciclo per le altre razze da
carne) hanno interessato pochi allevamenti del Piemonte. Per ovviare alla scarsa
partecipazione a queste prove di performances (giustificata da una serie di motivi
tecnici e gestionali) si è cercato una soluzione locale per la produzione di maschi
riproduttori geneticamente validi, istituendo, nel 1995, un Centro arieti regionale
per la razza Biellese presso la Stazione Alpina di Sauze d’Oulx (To).
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7.6.4 La razza ovina Frabosana.
La Frabosana è una razza ovina autoctona detta anche “Roaschina”, “di
Roaschia” o “Rastela”, che è stata inserita tra le razze a rischio di estinzione dalla
Regione Piemonte ed ha ottenuto un Registro Anagrafico nel 1995.
Originaria delle vallate del Cuneese (Valli Monregalesi), era la razza ovina da
latte più diffusa in Piemonte.
Allevata nelle province di Cuneo, Torino ed
Alessandria venne gradualmente sostituita con la razza Delle Langhe; si sono
salvaguardati nuclei di Frabosane in purezza solo nelle zone montane più impervie.
Da una consistenza iniziale di 16-17.000 capi, in seguito al rapido declino
subìto, si contano attualmente circa 6.700 capi distribuiti in 90 allevamenti. La
minor tendenza a gemellare e la produzione lattea inferiore furono i principali
motivi della graduale sostituzione delle pecore Frabosane con quelle Delle Langhe
soprattutto nella zona dell’Alta Langa dove, un tempo, le prime prosperavano per i
loro spiccati caratteri di rusticità e resistenza. Altra causa del declino fu l’incrocio
con razze a prevalente attitudine per la carne come la Biellese, praticato per
migliorare la velocità di accrescimento degli agnelli.
Le principali aree di allevamento sono alcune vallate alpine della provincia di
Cuneo (Valli Monregalesi, Valle Gesso, Vermenagna e Pesio, Valle Grana) e la Val
Pellice in provincia di Torino; alcuni allevamenti sono presenti anche in provincia
di Asti, Alessandria e Vercelli.
La Frabosana presenta taglia media (con peso vivo di 75-85 kg nei maschi e
60-65 kg nelle femmine), testa pesante, con profilo spiccatamente montonino in
entrambi i sessi e con caratteristiche corna appiattite e ricurve, avvolte a spirale nei
maschi e rivolte all’indietro nelle femmine; orecchie medio-piccole portate in basso
ed all’infuori, vello di colore bianco-paglierino o marrone molto chiaro, con
bioccoli conici e grossolani aperti che lasciano scoperta la testa, l’addome e gli arti.
Sono stati individuati due tipi morfologici differenziabili sulla base delle
caratteristiche biometriche: un tipo più pesante e più alto (85 cm al garrese)
denominato “Roaschino” ed uno più leggero (75 cm al garrese) denominato
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I prodotti tipici della provincia di Torino
“Frabosano”. L’origine di tale differenziazione sarebbe da attribuire ai diversi
sistemi alimentari e di allevamento praticati un tempo: i pastori di Roaschia
portavano le greggi a svernare in pianura, mentre quelli di Frabosa trascorrevano
l’inverno in montagna.
L’attitudine prevalente della razza è la produzione di latte, che varia dai 50 ai
200 litri per una lattazione media di 150-180 giorni, con produzioni medie
giornaliere non superiori ai 500 ml/capo. Il latte munto viene per lo più miscelato a
latte vaccino per la preparazione di formaggi tipici come Raschera e Castelmagno
nella provincia di Cuneo, Toma e “Seirass del fen” nella provincia di Torino.
La produzione di carne è orientata verso l’agnello da latte di 12-15 kg di peso
vivo ed è favorita dalla buona precocità della razza (primo parto intorno a 13 mesi).
La lana, ricavata da un’unica tosatura annuale (2-2,5 kg/capo), è lunga e
grossolana, adatta unicamente per materassi. Un tempo, la pelle lanata degli agnelli,
resa pregevole da una notevole arricciatura delle fibre, era ricercata per la
preparazione di guanti e pelletteria varia.
La razza non è stata sottoposta, finora, ad alcun tentativo di miglioramento.
Il meticciamento con razze da carne, praticata fino a pochi anni fa, aveva avuto la
finalità di migliorare gli accrescimenti degli agnelli, ma con conseguenze deleterie
sulla produttività lattea e sulla persistenza della lattazione.
La razza Brigasca (o la francese Brigasque) allevata nelle due regioni
confinanti, Liguria e Provence Alpes Côte d’Azur, è ritenuta affine o addirittura
identica alla razza Frabosana, poiché identiche sono, in effetti, le principali
caratteristiche morfologiche e le origini.
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7.6.5
I prodotti tipici della provincia di Torino
La razza ovina Tacola.
La Tacola, detta anche “Cücch” o “Bertuna”, è una razza da collocare
etnicamente nel gruppo delle razze ovine alpine da carne a orecchie pendenti e
profilo montonino. Si tratta verosimilmente non di una razza, ma di un fenotipo
derivato dalla mutazione della Biellese per il carattere genetico ad effetto visibile
(padiglione auricolare di dimensioni ridottissime, quasi mozzato).
Attualmente sono stati iscritti al Registro Anagrafico della razza 633 capi
distribuiti in 30 allevamenti.
È allevata soprattutto in provincia di Biella e nelle
valli prealpine del Vercellese, ma è presente anche in provincia di Cuneo e,
sporadicamente, di Torino.
La Tacola, razza molto simile alla Biellese, se ne differenzia per la taglia
leggermente inferiore (con un peso vivo di 80 kg nei maschi e 65-70 kg nelle
femmine), le ridotte dimensioni del padiglione auricolare e la lana più fine.
Presenta testa proporzionata alla taglia, senza corna in entrambi i sessi, con profilo
leggermente montonino, più pronunciato nei maschi, le orecchie “mozzate” e il
vello bianco, esteso al collo ed al tronco, più limitatamente al ventre, alla parte
prossimale dell’avambraccio e della gamba, di tipo semi-aperto, con bioccoli conici,
lunghi, piuttosto grossolani e frammisti a giarra.
La carne è la produzione esclusiva, ottenuta con agnelli di 12-15 kg e castrati
portati al peso di 70-80 kg. Il latte è destinato esclusivamente all’allattamento
dell’agnello e la lana non riveste alcun interesse nell’economia dell’allevamento.
L’abitudine degli allevatori di pecore Biellesi di mantenere nel gregge alcuni
capi Tacola ha permesso di salvaguardare questi esemplari ai quali vengono
attribuite peculiari doti di rusticità e frugalità. L’inserimento della razza tra quelle in
pericolo di estinzione da sostenere tramite il Reg. 2078/92 ha, ovviamente, spinto
gli allevatori alla conservazione di questi soggetti. La possibilità di ottenere un
premio di allevamento e la relativa facilità di ottenere soggetti con orecchie mozze
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I prodotti tipici della provincia di Torino
(essendo il carattere "lunghezza padiglione auricolare" (EL) un carattere co-dominante,
spiegano il rapido aumento di questa popolazione.
7.6.6
La razza ovina Savoiarda.
Considerata un’antica razza di montagna - detta anche “razza di Cuorgné” -
era allevata, un tempo, nell’arco alpino, in zone in cui la manodopera agricola è
stata progressivamente sottratta dalla crescente industrializzazione e delle attività
turistiche.
Popolazione di origine incerta, classificata da Mason tra le razze alpine “a
orecchio semi-cadente”, è razza a duplice attitudine, latte e carne. Vi sono stati in
passato tentativi di miglioramento della produzione tramite incroci con altre razze
da carne italiane e francesi o ancora incroci con la Frabosana. Tale meticciamento
è la causa principale della perdita delle caratteristiche originarie della razza, del calo
demografico e l’ostacolo maggiore per il suo recupero. A differenza delle altre
razze, non vi è stata nessuna richiesta per l’accesso ai contributi previsti dal Reg.
UE 2078/92.
Nel 1961 si contavano 2.500 capi che si riducevano, già nel 1983, ad un
centinaio di ovini adulti di razza pura ed alcuni arieti meticci. La situazione,
attualmente, è peggiorata in quanto si trovano solamente qualche decine di pecore e
alcuni arieti meticci, collocati principalmente nella Val di Susa e nelle Valli Pellice,
Chisone e Lanzo. Non se ne conosce il numero preciso: sono stati censiti 74 capi
distribuiti in 3 allevamenti, oltre ai meticci con la Biellese e la Frabosana.
La Savoiarda presenta taglia media (con pesi vivi piuttosto variabili e
mediamente di 65-70 kg nei maschi e 55-60 kg nelle femmine) e una testa piuttosto
pesante, ben proporzionata, con profilo leggermente montonino, più accentuato
nei maschi; gli occhi sono sporgenti; le orecchie mediamente sviluppate, strette,
leggermente pendenti; presenza di corna generalmente robuste e avvolte a spirale
nei maschi più piccole o assenti nelle femmine; caratteristiche sono le macchie
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I prodotti tipici della provincia di Torino
orbitali neri e il musello nero macchiato di bianco; il vello è bianco sporco, semiaperto, con bioccoli di media lunghezza, ricopre tutto il corpo ad eccezione della
testa, del ventre e degli stinchi.
La pecora Savoiarda è allevata principalmente per la produzione di carne
ottenuta per lo più da agnelli di latte di 12-15 kg di peso vivo, oltre a qualche
soggetto castrato, ingrassato al pascolo. La produzione di latte è molto variabile e
può oscillare da 100 a 150 kg e oltre per lattazione. Buona parte del latte è riservato
all’allattamento dell’agnello e l’eventuale parte residua è destinata alla produzione di
formaggi per lo più misti anche con latte vaccino. La produzione annua di lana è di
circa 3 kg negli arieti e di 2 kg nelle pecore e la qualità è grossolana, lunga circa 1215 cm, priva di giarra e leggermente increspata.
La Savoiarda è una razza classificabile come “critica2, per la scarsa
consistenza e i motivi sopra illustrati , si dovranno, perciò, effettuare sforzi per il
recupero dei pochi capi rimasti in purezza dispersi in greggi misti con meticci di
varia origine.
Data la zona di allevamento e le caratteristiche morfologiche simili potrebbe
avere origini comuni alla razza francese Thônes et Marthod.
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7.6.7
I prodotti tipici della provincia di Torino
La razza caprina Alpina comune.
La razza Alpina è la popolazione caprina più diffusa in tutto l’arco alpino ed
in Piemonte in particolare, detta generalmente “nostrana”.
La capra “comune” non presenta caratteristiche tali da catalogarla tra una
delle razze già descritte; presenta una grande variabilità di taglia, di caratteri
morfologici (mantello uniforme o pezzato, colore del pelo vario, bianco, nero,
marrone, orecchie di forma e portamento vario) e di attitudini produttive.
La maggior parte delle capre comuni allevate nell’arco alpino sono,
comunque, per lo più assimilabili al ceppo cosiddetto “Alpino”, sono rustiche e ben
adattate all’ambiente montano.
Nel 1971 le capre “comuni” allevate in Piemonte erano valutate di circa
22.000 capi (MAF-ASSONAPA, 1973). Sottraendo alla popolazione caprina
regionale attuale (58.000 capi), le capre selezionate Saanen e Camosciate allevate
con sistemi intensivi (2.000 capi) e le capre di razze a consistenza limitata come la
Roccaverano e la Vallesana (700 capi), risultano oltre 55.000 capre “comuni”,
distribuite in alcune migliaia di allevamenti.
Esse presentano taglia media (con peso vivo dei becchi di 60-65 kg e delle
capre di 50-55 kg; altezza al garrese rispettivamente di 80 e 70 cm); testa leggera,
con orecchie dritte, appuntite e rivolte verso avanti; espressione vivace, presenza di
barba e corna molto sviluppate e rivolte all’indietro nel maschio, più corte nella
femmina (vi può anche essere assenza di corna); mantello uniforme o pezzato,
nero, marrone o bianco; pelo generalmente rasato e brillante, più lungo e più ruvido
nel maschio.
La produzione di latte è variabile e destinata ai capretti (o anche agli agnelli ai
quali le capre allevate in greggi misti ovini e caprini fanno spesso da balie) o
miscelata con altri latti per la trasformazione in prodotti tipici (Toma, Raschera, Bra
e robiole pure o miste). La produzione di carne è ottenuta da capretti di 10-12 kg
di peso vivo.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
La consistenza numerica della capra Alpina comune, è stabile ma sarebbe
auspicabile analizzare la variabilità genetica e le caratteristiche di questo variegato
gruppo di soggetti.
7.6.8 La razza suina di Cavour.
Le razze suine autoctone del Piemonte sono ormai soltanto un ricordo: un
tempo ce n’erano due, quella di Cavour e quella di Garlasco, allevate nelle cascine
di pianura.
Oggi sono estinte, sostituite ormai da molti anni dai moderni ibridi
commerciali allevati in modo intensivo.
La Cavourese era allevata nell’agro di Saluzzo, di Pinerolo e Cavour, aveva
testa piuttosto allungata con grugno forte, pelle e setole nere, ruvide, resistenti. Si
trattava di un animale rustico, adatto al pascolo ma di sviluppo lento, che forniva
una carne compatta, gustosissima, ottima per la preparazione di salumi.
La razza di Garlasco era diffusa in provincia di Novara e in Lomellina; era
caratterizzato da setole di colore bruno chiaro e testa più chiara. Del Garlasco i testi
scientifici di inizio secolo ne esaltavano la qualità eccellente del lardo e della carne,
nonché la buona prolificità, doti che non sono bastate a salvarlo dall’estinzione. È
stato infatti progressivamente sostituito da suini più grossi, più magri e più precoci;
il più famoso allevamento piemontese di suini Garlasco si trovava poco distante da
Novara e nel 1949 annunciava la notizia della scomparsa dell’ultimo esemplare.
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7.6.9
I prodotti tipici della provincia di Torino
La gallina Bionda Piemontese.
Nel periodo bellico e post-bellico, la maggior parte delle aziende piemontesi
e valdostane possedevano animali da cortile e, per quanto riguarda il pollame,
allevavano polli locali definiti “razza bionda Piemontese” (Vezzani, 1938). Altri
nomi che vengono attualmente attribuiti alla razza sono “Bionda di Villanova” ,
“Bionda di Cuneo” e “Rossa delle Crivelle” o ancora “nostralina”.
La consistenza della razza è ignota, alcuni nuclei in purezza vengono ancora
allevati come attività amatoriale da alcune decine di allevatori nella pianura di
Cuneo e nella zona di Villanova, al confine tra le province di Asti e Torino.
Difficile valutare quale sia la consistenza della razza viste le dimensioni e la
dispersione degli allevamenti. Generalmente si ritiene che sia allevata con sistema
estensivo familiare, quasi sempre a terra e alimentata con pascolo e integrazione di
mais. L’utilizzazione è il consumo familiare e la vendita su mercati locali come polli
ruspanti e galline a fine carriera.
La Bionda Piemontese presenta testa di medio sviluppo, con cresta rossa
semplice formata da 4 a 6 denti, ben sviluppata, eretta nel gallo, pendente da un lato
nella gallina; bargigli e guance rossi, orecchioni di media grandezza, rossi con
venature bianche; becco giallo e forte; pelle di colore giallo e piumaggio di colore
fulvo (camosciato o dorato in varia gradazione); coda portata alta, di colore nero,
lunga e quadrata nella gallina, con riflessi colorati metallici nel gallo o ancora bianca
o blu (in entrambi i sessi, possono essere presenti alcune remiganti primarie dello
stesso colore della coda); il peso vivo dei galli adulti varia da 2,5 a 3 kg, quello delle
galline adulte da 2 a 2,5 kg.
Le uova sono di colore rosato con guscio liscio e peso medio di 55-60
grammi. La produzione annuale concentrata prevalentemente nel periodo
primaverile ed estivo- si aggira sulle 180-200 uova. Le pollastre iniziano la
deposizione verso il 6°-7° mese di vita. La produzione di carne è rilevante
presentando la razza uno sviluppo precoce, caratteristica alla quale si aggiungono
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I prodotti tipici della provincia di Torino
rusticità e resistenza alle malattie; il peso di macellazione (1,5 kg) viene raggiunto in
70 giorni circa.
La qualità della carne - frutto anche delle tecniche di allevamento e
alimentazione estensive - è ottima e perciò destinata ai consumatori più esigenti.
Le produzioni tipiche sono il pollo di 60-70 giorni, il cappone durante il
periodo natalizio e la gallina a fine produzione. Queste vengono solitamente
commercializzate in Emilia-Romagna e in Lombardia. Cresta e bargigli
particolarmente sviluppati sono utilizzati per un piatto tipico piemontese, “la
finanziera”.
Oltre alla buona attitudine alla produzione di uova, la razza presenta
un’elevata percentuale di schiudibilità delle stesse.
7.6.10 La gallina Bianca di Cavour.
Altro nome che viene attualmente attribuito alla razza è “Bianca di Saluzzo”,
essendo generalmente commercializzata sul mercato di Cavour.
Alcuni nuclei in purezza vengono allevati nelle aziende di pianura e come
attività amatoriale da allevatori della zone di Cavour al confine tra le province di
Cuneo e Torino. Non si hanno dati sulla consistenza. Sono allevati con sistema
estensivo familiare, quasi sempre a terra e alimentati con pascolo e integrazione di
mais. L’utilizzazione è il consumo familiare e la vendita su mercati locali come polli
ruspanti e galline a fine carriera.
La Bianca di Cavour presenta taglia medio-piccola, testa di medio sviluppo,
leggermente allungata con cresta rossa semplice formata da 4 a 6 denti, ben
sviluppata, eretta nel gallo, pendente da un lato nella gallina; bargigli e guance rossi,
orecchioni gialli e sviluppati; becco giallo, forte; piumaggio di colore bianco
perlaceo e coda portata alta, di colore bianco, leggermente aperta nella gallina; il
peso vivo dei galli adulti varia da 1,9 a 2,4 kg, quello delle galline adulte da 1,7 a 2,2
kg.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Le uova sono di colore bianco lucente con guscio liscio e peso medio di 50
grammi.
La produzione annuale - concentrata prevalentemente nel periodo
primaverile ed estivo - si aggira sulle 180 uova.
7.6.11 Il coniglio Grigio di Carmagnola.
Il coniglio Grigio di Carmagnola ha avuto origine da una popolazione locale
di conigli comuni a mantello grigio, molto diffusa nelle aziende piemontesi alla fine
degli anni cinquanta poi quasi completamente scomparsa agli inizi degli anni
ottanta, almeno come razza pura.
La consistenza della razza è ignota, un nucleo in purezza di 10 maschi e 70
femmine è allevato a Carmagnola, presso il Centro Allevamento del Dipartimento
di Scienze Zootecniche della Facoltà di Agraria. Sono allevati in piccoli nuclei con
sistema estensivo familiare, a terra o in gabbie di legno e alimentati con erba e fieno
e scarti di cucina. L’utilizzazione è il consumo familiare e solo raramente, in casi di
eccedenze, la vendita sul mercato.
Il Grigio di Carmagnola è una razza media con corpo allungato, spalle e
lombi carnosi, dorso forte e ben curvato, arti mediamente lunghi con cuscinetto
plantare rivestito da pelo folto. Presenta testa leggermente allungata, orecchie forti
portate a “V” di lunghezza massima di 14 cm, occhio bruno; pelliccia folta e soffice
con pelo di media lunghezza di colore grigio, più chiaro nella regione ventrale, sulla
faccia mediale e plantare degli arti posteriori e nella parte inferiore della coda. È
presente una macchia triangolare più chiara sulla nuca; il sottopelo è grigio o grigio
chiaro senza mai diventare bianco, mentre appare scura la faccia dorsale della coda.
Le unghia sono pigmentate. Il peso vivo dei maschi adulti varia da 3,5 a 5,5 kg,
quello delle femmine adulte da 3 a 4,5 kg. Sono considerati difetti gravi le orecchie
da ariete, il sovracolore fulvo o l’occhio rosso.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
I soggetti allevati presentano un incremento giornaliero di 27-30 g /dì e
raggiungono mediamente 1,6 kg a 60 giorni di età e 2,6 kg a 90 giorni; a seconda
delle esigenze dei consumatori possono, quindi, essere macellati tra i 2 e i 3 mesi di
età.
Dal 1982 l’Università di Torino ha avviato una iniziativa di recupero di
questa razza locale dimostratasi interessante ai fini produttivi. Il nucleo su cui si
opera, essendo relativamente “chiuso”, ha imposto un programma di
accoppiamenti con controllo della consanguineità. Attualmente vi è un crescente
interesse per i maschi e i lavori sono, quindi, indirizzati alla creazione di una linea
maschile senza però trascurare la finalità della salvaguardia della razza-popolazione.
Resta comunque difficile valutare quale sia la situazione della razza in campo,
viste le caratteristiche di allevamento praticate.
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7.7
I prodotti tipici della provincia di Torino
L’Ittiofauna del Piemonte.
7.7.1 Un po’ di storia.
Una leggenda racconta che i monaci di Avigliana, per aggirare la
proibizione di mangiare carne al venerdì, immergessero dei vitelli nelle acque del
lago, e li battezzassero come “Trute ‘d Vian-a” (trote di Avigliana), perché
fossero mangiabili senza peccato anche nei giorni di magro.
Anche se questa leggenda potrebbe farci dubitare sul consumo di piatti a
base di pesce dei nostri antenati piemontesi, storicamente troviamo che nello
stesso lago di Avigliana, nel 1859 sorse il primo stabilimento ittiogenico
dell’Italia.
Ricercando in epoche antecedenti, troviamo che già durante il Medioevo il
consumo di prodotti ittici di acqua dolce, ivi compresi i pesci di fiume, fosse
sviluppato i tutta l’Europa occidentale.
Tra i pesci più apprezzati del tempo troviamo le Lamprede, descritte in
ricette per facilitarne la digestione: lessate e condite con prezzemolo, maggiorana,
salvia basilico, pepe, zenzero, cinnamono ed un pizzico di zafferano (cfr. Nada
Patrone A. M., Il cibo del ricco ed il cibo del povero, Centro Studi Piemontesi, Torino,
1981, pagg. 317-341.).
Una disposizione, emanata dal vicario di Torino il 7 marzo 1680 per porre
fine ad abusi nella vendita del pesce, informa sulle specie ittiche presenti sul
mercato di Torino (cfr. Duboin F.A., Raccolta per ordine di materie delle leggi, editti,
manifesti, ecc. pubblicati dal principio dell’anno 1681 sino agli 8 dicembre 1798 sotto il
felicissimo dominio della Real Casa di Savoja, Tomo XI, vol. 13, Eredi Bianco e Comp.,
Torino, 1835.).
L’ordinanza contiene un calmiere dei prezzi dei singoli pesci in base al quale
le lamprede ed il temolo condividono il prezzo più alto, pari a 10 soldi; le tinche
sono suddivise in due categorie in funzione del peso: la piccola (“Tenca di mezza
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I prodotti tipici della provincia di Torino
livra in giù”) non si sarebbe potuta vendere ad un prezzo superiore a 7 soldi alla
libbra, la grande (“Tenca di mezza livra in sù”) ad un prezzo superiore agli 8 soldi.
Per quanto riguarda l’Ottocento, Enrico Festa, zoologo che per primo si
occupò dell’Ittiofauna piemontese da un punto di vista scientifico, distingue i
prodotti ittici pregiati da quelli poco apprezzati, dalla presenza degli stessi nella
cucina dei ricchi o in quella dei poveri. (cfr. Festa E., I pesci del Piemonte, Boll. Musei
Zool. e Anat. Comp. R. Univ. Torino, 1892, 7, n. 129, 1-125.). Dal lavoro citato si
apprende che nei rendiconti di spese e negli elenchi delle vivande di ospedali ed enti
assistenziali torinesi, manca del tutto la voce “pesce” di qualsiasi natura, nella dieta
dei lavoratori compaiono preferenzialmente pesci di mare (merluzzo, acciughe
salate, aringhe affumicate, sardine in scatola). Poco apprezzate, le carni del barbo,
del barbo canino, dell’avola, del triotto, del cavedano, del vairone, delle scardole,
del fregarolo, della savetta, della lasca e del cobite, sono un cibo povero; ma non
vengono sciupate o consumate dagli stessi pescatori. Questi non possono
permettersi di mangiarsi il pescato: lo dimostra una ricetta tipica dei pescatori
settimesi, o il “pess-coj” (pesce-cavolo) che del pesce ne conserva solo il nome
poiché lo si ottiene con una foglia di cavolo piegata a mo’ di pesce, infarinata, fritta
poi messa in carpione. Analogamente, a Carmagnola, le zucchine messe in carpione
sono chiamate “tenche bòrgne” (tinche cieche).
Entrano nell’alimentazione ricca lo storione, le anguille, le trote, i temoli, le
carpe, il gobione, lo scazzone, il ghiozzo e le lamprede. Le tinche sono apprezzate
solo se di lago ed il luccio non è più stimato come nel Medioevo.
Per comprendere le preferenze nei confronti delle specie ittiche nella storia è
d’obbligo considerare il loro legame con la medicina ed i pregiudizi. Nel Medioevo
la medicina ufficiale imponeva di preferire pesci magri e squamosi e proscriveva
quelli pescati in acque inquinate da scarichi di latrine, bagni, cucine e lavatoi. Per
questa ragione carpa e tinca, condividendo l’habitat rappresentato da fondali
melmosi e la seconda, avendo inoltre carni definite “viscose”, non furono
apprezzate, così come venne sconsigliato dai medici il consumo dei pesci allevati
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nelle vasche ad acque morte. (cfr. Nada Patrone A. M., Alimentazione e malattie alla
fine del Medioevo - Risultati di una ricerca, Boll. Storico Vercellese, 1985, 15 n.2, 5-36.).
L’equazione “acqua limpida e corrente = pesce salubre (e viceversa)”
continua in realtà ad affiorare in lavori scientifici e scritti divulgativi dei secoli
successivi.
Un esempio di pregiudizio nei confronti dei pesci autoctoni si trova nelle
parole del tenente-colonnello Luigi Clavarino, membro del consorzio agrario di
Torino, che nella sua Coreografia delle Valli di Lanzo, scrive con malcelato
disprezzo: “(…) l’anguilla e la tinca a cui piace abitare nelle acque stagnanti, fangose
o almeno poco correnti, sono sbandite da queste valli.” (cfr. Clavarino L., Saggio di
coreografia statistica e storica delle Valli di Lanzo, Stamperia della Gazzetta del Popolo,
Torino, 1867.).
Il primo trattato scientifico sull’ittiofauna del Piemonte risale al 1892, anno
di pubblicazione della monografia I pesci del Piemonte ad opera dello zoologo Enrico
Festa. In tale testo Festa segnala tra le specie ittiche la Petromyzon fluviatilis L (in
italiano chiamata lampreda, in piemontese lamprè) nonostante affermi di non averne
trovato esemplari, né avuta notizia dai pescatori interrogati, ma la annovera tra i
nostri pesci poiché ne ritiene probabile la sua esistenza, vista la sua presenza, anche
se di rado, nelle regioni confinanti. Della famiglia dei ciprinidi segnala la presenza
della Tinca vulgaris C. (in italiano chiamata tinca, in piemontese tenca) ed esamina
esemplari provenienti da Casale (paludi), Torino (Dora Riparia), Novarese (stagni),
Rivarossa C.se, Ivrea (Lago di Candia), Ceresole d’Alba (stagni), Moncalieri (paludi),
Laghi della Ferrera.
Nel 1980 Carlo Sampò e Franco Vallero hanno schedato 28 specie di pesci
che rappresentavano l’ittiofauna riscontrata nel fiume Po nel territorio carignanese.
Giovanni Delmastro nel 1981 ha condotto un’indagine sulla distribuzione dei pesci
viventi nel territorio del Comune di Carmagnola. Nella tabella sotto riportata sono
riportate le specie di cui è stata riscontrata la presenza:
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Nome italiano
Lampreda
Storione
Trota Fario
Trota marmorata
Trota iridea
Salmerino di fonte
Temolo
Luccio
Pigo
Triotto
Cavedano
Vairone
Lasca
Savetta
Barbo
Barbo canino
Scardola
Sanguinerola
Arborella
Carpa specchio
Carpa
Tinca
Cobite comune
Cobite mascherato
Anguilla
Persico trota
Persico sole
Pesce gatto
Scazzone
Ghiozzo di fiume
Gobione
Pesce rosso
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Nome a Carignano
lamprè
storion
truta fàrio
truta marmorà
truta iridea o bianca
tëmer
luss
volà
triòt
quajastr – quajass
vairon – fërsa
marsenga
sàiva – siva
barb
barb cagnin
scavarda – coa rossa
sargoin – bogio
mèliga
carpa specc
carpa nostran-a – regin-a
tenca
strassa sach
strassa sach
anguila
persich truta
areoplan – reoplan
pess gat
bòta
-
Nome a Carmagnola
storion
truta fàrio
truta marmorà
truta iridea
salmerin
tëmer
luss
volà
triòt-scaverda
quajastr
vairon – nèira
marsenga
siva
barb
barb cagnin
coa rossa
amaròt
mèliga
carpa
tenca
strassa sach
strassa sach
anguila
persich truta
areoplan – scaverda
pess gat
bòta
Bòta
Ciassòt
pess ross
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7.7.1
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La Lampreda ( ‘l Lamprè).
La lampreda deve il suo nome all’abitudine di leccare in continuazione le
pietre dei fiumi dove vive.
Secondo Baldassarre Pisanelli, la lampreda deve essere catturata nei fiumi
nei mesi di marzo e aprile, quando è più grassa e più tenera. “Se ne allestisce un
piatto dal gusto delicatissimo e di grande pregio, molto nutriente e con effetto di moltiplicazione
dello sperma. A dire il vero la lampreda risulta di digestione un poco difficile e pare che nuoccia
ai podagrosi ed coloro che sono malati di nervi: si può rimediare affogandola nella malvasia,
dopo averle tappato la bocca con una noce moscata e le altre aperture naturali con chiodi di
garofano. Verrà poi cotta in tegame con nocciole, pane, olio, spezie e malvasia.” (Pisanelli B.,
Trattato de’ cibi, et del bere, Marc’Antonio Bellone, Carmagnola, 1589).
Alberto Viriglio ricorda che le lamprede nel corso dei secoli furono
annoverate tra le specialità torinesi, come i grissini, il cioccolato ed il vermouth : “
(…) quando abbiano soggiornato per qualche tempo entro il latte, costituiscono un piatto non solo
eccellente, ma storico. Erano accettissime al primo Napoleone, il quale dopo averne assaggiato
nella sua prima venuta in Torino (novembre 1797), sempre ed abbondantemente ne volle e rivolle
ad ogni suo ritorno e finì per incombenzare i cuochi imperiali di tenere sempre provvista di
lamprede “all’uso torinese” la mensa augustissima nella capitale dell’impero.” (Viriglio A., Voci
e cose del vecchio Piemonte, Viglongo, Torino, 1971, ristampa anastatica dell’edizione
Lattes, Torino, 1917)
La lampreda nel 1892 era oggetto di speciale commercio e grandemente
stimata come cibo. Enrico Festa ricorda che nei dintorni di Settimo T.se i pescatori
facevano in mezzo alle correnti cumuli di terra molto concimata, chiamati paston in
cui le Lamprede d’inverno e di primavera si radunavano e venivano poi prese
zappando questi cumuli o si catturavano con una rete detta trùbia (sferone o
guadia). Il Sig. Giuseppe Bessone, uno degli ultimi pescatori di professione di
Settimo T.se ha descritto questa seconda tecnica, attuabile quando le lamprede
sono in amore, con una sequenza di ben precisi movimenti.
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La lampreda, Lamprè in dialetto, appartiene alla classe dei Ciclostomi.
La scarsa conoscenza della sistematica animale è tra i fattori che concorrono
a rendere estremamente sbiadita e confusa nella conoscenza dei più l'immagine dei
Ciclostomi. Si tratta comunque di una classe che annovera, nel complesso, un
numero assai modesto di specie, meno di cinquanta, e che di queste una parte
conduce un'esistenza estremamente elusiva e segreta presso il fondo marino.
Per quanto riguarda invece i ciclostomi che risalgono dal mare in acqua dolce
e quindi possono capitare sotto gli occhi della gente con una certa qual maggiore
frequenza, manca addirittura nei più la consapevolezza della loro appartenenza a un
gruppo zoologico a sé stante, venendo essi considerati, in base all’aspetto esteriore
e al tipo di vita, come dei pesci, sono spesso assimilati alle anguille.
L’importanza alimentare e economica di questi animali è modesta e
attualmente limitata a zone ben precise della penisola, con il che viene meno una
delle più forti motivazioni per una loro migliore conoscenza. Antichi testi ci
confermano però che la diffusione di questi animali era., un tempo, pressoché
uniforme. Nel caso dei ciclostomi che risalgono i corsi d’acqua, va tenuto presente
che anch'essi vanno pagando un pesante scotto all’alterazione degli ambienti
fluviali, cosicché sempre meno frequente ne diviene il reperimento.
In una novella del Boccaccio, si parlava della Lampreda come di una vera
leccornia, e ben due libri del tempo, di Maestro Martino. cuoco del patriarca
d’Aquileia, e del Platina. descrivono ricette usate per cucinare la lampreda. Le
carni, infatti, hanno buon sapore e taluni le reputano eccellenti, altri non le
apprezzano.
Se molto piccole le Lamprede si possono quindi friggere
semplicemente in padella con altri pesciolini.
Quelle più grosse. si possono
cucinare in umido o arrostite a tranci sulla griglia.
Grande consumo alimentare veniva fatto in Piemonte nelle zone
caratterizzate da piccoli ma costanti corsi d’acqua - bialere - tipici in particolare del
Carmagnolese e della provincia di Cuneo.
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I Ciclostomi, pur essendo dei vertebrati, si differenziano nettamente, da tutti
gli altri animali che portano questo nome, sono infatti Agnati, perché possiedono
un’apertura boccale del tutto priva di mascelle.
Gli ammoceti (così si chiamano le larve delle lamprede) conducono
un’esistenza del tutto diversa da quella degli adulti, trascorrendo alcuni anni
affondati nel fango e nella sabbia dei corsi d’acqua. Di lì essi lasciano sporgere
soltanto la porzione anteriore del corpo, in modo da poter introdurre in
continuazione acqua attraverso la bocca. espellendola poi attraverso gli orifizi
branchiali che si aprono numerosi sui due lati, dopo avere trattenuto le particelle
commestibili, di materiale organico finemente particolato, veicolate da tale flusso
d’acqua.
Già si è detto dell’aspetto serpentiforme dei Ciclostomi, che richiama da
vicino quello di un’anguilla. Due sono gli ordini in cui si divide la classe dei
Ciclostomi: i Petromizoniformi o lamprede e i Missiniforni o missine. Si tratta nel
primo caso di organismi che iniziano la propria vita in un corso d’acqua e la
proseguono per lo più nel mare o in un lago; nel secondo di animali esclusivamente
marini.
Esternamente una lampreda mostra un bocca circolare che si apre al fondo
di una depressione a imbuto orlata da una frangia carnosa.
Un formidabile
armamentario di denti cornei giallastri, caduchi e quindi continuamente rimpiazzati.
è impiantato sulle pareti dell’imbuto orale e sulla lingua della lampreda.
Nei Petromizoniformi, infatti, il cibo è costituito dal sangue che fuoriesce
dalla cute di un pesce perforata dalla lingua e dai denti dell’imbuto orale, secondo
una meccanica che varrà la pena di illustrare successivamente con una certa
accuratezza.
Il capo reca un’unica apertura olfattiva, il cui interno è a fondo cieco, occhi
molto sviluppati e sette fori o spiracoli, quanti sono i sacchi branchiali, con i quali
l’apparato respiratorio comunica con l’esterno. Vi è da rilevare, a proposito della
meccanica respiratoria dei Ciclostomi, che essa viene profondamente influenzata
dal particolare regime alimentare comportante una prolungata adesione ai tessuti
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della preda, durante la quale la bocca non può fungere da via d’ingresso dell’acqua.
Ne consegue che nelle larnprede gli spiracoli possono servire da entrata, oltre che
da uscita, del flusso respiratorio.
Esternamente è rilevante l’assenza delle pinne pari, caratteristiche invece dei
Pesci, nonché la constatazione di un’abbondantissima produzione di muco da parte
della cute, che è del tutto priva di scaglie.
I Petromizoniformi, la cui area di distribuzione coincide sostanzialmente con le
zone temperate dei due emisferi, appaiono notevolmente uniformi nel loro aspetto
esteriore, per cui l’identificazione dei vari generi e delle diverse specie deve basarsi
su caratteri anatomici poco appariscenti, risultanti da un’attenta osservazione. Così
il genere Jchthyomyom, nordamericano, può essere distinto dai generi Petromyzon e
Lampetra, presenti al di qua e al di là dell’Atlantico, per il fatto di possedere una
pinna dorsale non divisa nettamente da un’intaccatura in due parte distinte.
All’interno dei generi, poi, il riconoscimento delle specie richiede soprattutto un
accurato esame dei disco orale che riveli il numero, la fortuna e la distribuzione dei
denti cornei, nonché delle piastre che li portano.
A questo proposito è interessante notare come lo stesso genere possa
comprendere, accanto a specie munite di denti regolarmente sviluppati come
Jchthyomyom castaneus, Lampetra fuviatilis, Lampetra japonica, ecc., altre a denti
smussati. chiaramente inidonei a sostenere un’alimentazione parassitaria Lampetra
planeri, Lampetra richardsoni ecc. Queste lamprede fanno eccezione alla norma. nel
senso che, una volta divenute adulte, non si alimentano più e il loro apparato
digerente si atrofizza. Ne consegue che tali adulti non sono obbligati ad
abbandonare in cerca di cibo il corso d’acqua natio ma possono rimanervi sino
alla riproduzione, venendo subito dopo a morte.
Particolarmente interessante, nei Petromizoniformi è il comportamento
riproduttivo e alimentare.
Tutte le lamprede sono accomunate dal fatto che depongono le uova in depressioni
scavate nel letto di corsi d’acqua poco profondi. La velocità della corrente e, ancor
più, le dimensioni del materiale di fondo costituiscono i due fattori più importanti
nella scelta dell’area di frega. In generale vengono scartati i fondali troppo instabili.
così come quelli includenti materiali rocciosi troppo voluminosi e quindi
difficilmente rimovibili.
I fondali sabbiosi, che sembrano invece essere preferiti dalla nostra lampreda di
fiume (Lampetra fluviatilis). Per l’escavazione del nido vengono adottate due diverse
tecniche. Secondo una di queste, la lampreda asporta le pietre dal fondo una dopo
una dopo l’altra, aderendovi con la bocca e poi depositandole a distanza, questa
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attività può anche essere effettuata in collaborazione da due lamprede. In altri casi,
invece, il riproduttore aderisce con la bocca a una grossa pietra situata nella parte
più a monte dell’area riproduttiva e quindi prende a ondeggiare vigorosamente con
tutto il corpo. In tal modo i materiali più fini del fondo vengono smossi e
trasportati più a valle dalla corrente e, alla fine, si viene a costituire una depressione
ovoidale circondata da ghiaia e pietre più o meno voluminose sui due margini
laterali e su quello a monte, da materiale fine asportato nel modo anzidetto sul
margine a valle.
In tutte le specie studiate entrambi i sessi partecipano alla escavazione del nido,
sebbene spesso esso venga inizialmente costruito dai soli maschi, ai quali soltanto
in un secondo tempo si aggiungono le femmine. Per quanto riguarda la
deposizione delle uova, essa è stata studiata in dettaglio nella lampreda di fiume.
In essa si è potuto osservare che le femmine passano ripetutamente in prossimità di
un maschio intento a scavare il nido fissandosi a ogni passaggio al fondo a distanza
tale dal maschio che la testa di questo venga brevemente a contatto con la regione
genitale della sua compagna. Dopo questo primo approccio “provocatorio”, la
femmina penetra nel nido fissandovici con il disco orale e il maschio, avvicinatosi
da dietro, aderisce al suo corpo con la bocca e quindi scivola in avanti fino a
raggiungere la testa, alla quale si attacca tenacemente. Ciò fatto esso avvolge
strettamente la porzione caudale del corpo intorno alla femmina, in genere subito
davanti alla pinna dorsale, e poi la fa scivolare all’indietro fino a che la propria
papilla genitale non venga ad accostarsi a quella della femmina. Un tale
scorrimento del corpo attorcigliato del maschio viene a “spremere” le uova fuori
dal corpo della femmina, ove vengono fecondate dallo sperma del maschio stesso;
il tutto con accompagnamento di vigorosi movimenti a frusta dei due riproduttori
che sollevano sabbia e ghiaia, venendo così a ricoprire le uova. Dalle uova, dopo
una ventina di giorni al massimo, fuoriesce l’ammocete, lungo circa un centimetro e
quasi trasparente, che si approfonda nella sabbia lasciando fuori soltanto la testa.
Nella sua bocca, a forma di ferro di cavallo e priva di denti, penetra acqua che poi
esce dai fori branchiali, già evidenti, privata delle particelle alimentari quali detrito
organico, alghe unicellulari, batteri, ecc.
Questo regime alimentare microfago permane durante tutta la fase larvale
della lampreda. in genere da 3 a 7 anni, a seconda delle specie, e si conclude con la
metamorfosi a una taglia che risulta per lo più compresa tra 10 e 20 cm. Tale
processo segna anche il passaggio alla fase parassitaria dell’animale, per iniziare la
quale il neo-adulto scende al mare o in un lago di cui il corso d’acqua natio è
tributario. Questa migrazione trofica non ha luogo per quelle specie che come si è
già detto, non si alimentano più dopo la metamorfosi.
Le lamprede individuano la vittima, rappresentata nella maggioranza dei casi da un
pesce, facendo ricorso sia alla vista sia all’olfatto, senso questo particolarmente
spiccato. Durante la fase di avvicinamento alla vittima, il disco orale è mantenuto
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chiuso; al momento dell’attacco, invece, esso si apre, la testa si volge verso l’alto e il
contatto con la cute del pesce ha luogo. L’adesione al corpo della vittima risulta
immediatamente tenacissima. Entra poi in giuoco la lingua, che con il suo bordo
anteriore tagliente perfora o la pelle, dalla quale prende a stillare il sangue,
unitamente ad altri liquidi organici. Questo flusso di materiale nutritizio viene
accresciuto e mantenuto costante nel tempo dal secreto prodotto dalle grandi
ghiandole boccali della lampreda, che oltre a possedere proprietà anticoagulanti è in
grado di fluidificare i tessuti con cui viene a contatto. Se il pesce che è stato
aggredito muore o è in procinto di farlo, la lampreda lo lascia, talché la durata nel
tempo dell’attacco dipende, oltre che dalla taglia e dal ritmo alimentare
dell’aggressore, anche dalle dimensioni e dalla robustezza della vittima.
7.7.3 Tinca dorata del Pianalto di Poirino.
Gli ambienti naturali stanno rapidamente cambiando impoverendosi dal punto di
vista della biodiversità, sempre più spesso notiamo che certe specie autoctone sono
diventate rare o difficilmente reperibili. Ciò è dovuto a molteplici fattori, quasi
sempre collegati ad attività antropiche.
Nel panorama dell’itticoltura osserviamo che l’introduzione di specie alloctone
carnivore e l’affermarsi di monocolture. dirette verso specie redditizie e di veloce
accrescimento, ha causato un rapido declino di molte specie autoctone e
l’abbandono del loro allevamento.
È il caso della Tinca (Tinca tinca) da sempre il più importante pesce secondario nelle
tradizionali carpicolture italiane ed europee; oggi è difficilmente reperibile, essendo
in forte diminuzione nei principali fiumi e allevamenti italiani.
Anche nel comprensorio dell’altopiano di Poirino, zona tradizionalmente nota per
l’allevamento e il consumo di una varietà di tinca dalla forma gibbosa e dalla livrea
dorata, la riduzione delle tinche è un fenomeno preoccupante.
Nei bacini, ricavati dall’estrazione di argilla per costruzioni e successivamente
adibiti all’abbeveraggio del bestiame, si è da sempre allevata la tinca, essa ha il
pregio di sopportare bassi valori di ossigeno disciolto e di pH, forti oscillazioni di
temperatura e notevoli tassi di inquinamento organico e di salinità. In questi
ambienti di acque basse, calde e limacciose, la tinca si alimenta essenzialmente di
invertebrati di fondo (molluschi, larve di insetti, anellidi, crostacei, rotiferi, ecc.),
evidenziando una dieta essenzialmente proteica e manifestando una prolificità
spesso elevata.
Dai contadini della zona, la tinca, considerata un alimento di notevole valore
proteico, ha sempre rappresentato una fonte di non trascurabile introito economico
avendo infatti carni delicate e sode, non grasse e non ricche di miospine.
Presentando dunque rinomate qualità organolettiche, è da sempre fatta oggetto di
commercio.
L’abbandono delle classiche attività agricole e zootecniche e l’adozione delle
monocolture e dell’allevamento intensivo dei bovini hanno alterato le tradizionali
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pratiche gestionali dei bacini; successivamente l’introduzione di fauna acquatica
alloctona. predatrice e/o competitrice alimentare, ha contribuito alla drastica
riduzione del numero dei bacini nei quali si trova la tinca, compromettendone il
successo riproduttivo. Essa è anche quasi scomparsa anche dai torrenti locali, nei
quali abbondava e prosperava.
Si comprende quali siano le preoccupazioni, non solo degli allevatori, ma anche
della cittadinanza, consci del fatto che la perdita di questa varietà di tinca non deve
avvenire.
Attualmente nell’areale di distribuzione, di quella che da sempre era nota come
“Tinca dorata del Pianalto di Poirino”, permane comunque un buon numero di
laghetti, circa 100, nei quali è ancora allevata, ma sono circa 250, e non più
utilizzate, le cave idonee all’allevamento di questo pesce, il cui valore commerciale è
tra i più elevati fra tutti i pesci autoctoni di acqua dolce. Attualmente sui mercati
ittici nazionali. la tinca spunta prezzi attorno a 20-25.000 Lit./kg. vivo, inferiori
solo a quello dell’anguilla e storione, pari a quello del pescegatto e superiore di circa
il doppio a quello della trota e della carpa.
È anche in questa prospettiva che in Poirino si sta realizzando un
consorzio di allevatori, con lo scopo di rilanciare questa tradizionale e unica
forma di allevamento monocolturale della tinca, anche attraverso il recupero
degli invasi attualmente non utilizzati.
Tale attività sarà rivolta alla produzione di materiale qualitativamente selezionato e
in grado di soddisfare le esigenze di mercato, ma anche di produrre ceppi idonei al
ripopolamento in ambiente naturale.
Le prospettive di tali attività sono volte al ripristino della produzione, che garantiva,
nel solo comune di Poirino, sino alla metà degli anni ’50, circa 250-300 q. di
tinche/anno, contro i 70-80 o, forse, 100 q./annui attualmente stimati.
Il corpo della tinca si presenta allungato, robusto, che tende a diventare più
massiccio con l’età, è ricoperto da una spessa epidermide mucosa, nella quale sono
inserite in profondità le piccole squame rotonde. La bocca terminale è piccola e
protrattile, agli angoli di questa, sul labbro superiore, si trovano due brevi barbigli.
Gli occhi sono piccoli e rossicci, le pinne, grandi e di colore grigio, sono
arrotondate e spesse, la pinna caudale, robusta e larga, presenta una lievissima
concavità ed il peduncolo caudale è massiccio. Le pinne ventrali del maschio sono
più lunghe e robuste di quelle della femmina: il secondo raggio di queste pinne
spesso è curvo. Le pinne ventrali del maschio, accostate al corpo, nascondono
l’apertura anale.
La colorazione base è giallo-verde, il dorso più scuro, tendente al verde, i fianchi
più chiari, spesso con tonalità bronzee o dorate, il ventre è giallastro o grigio.
Nella Tinca dorata, una variante della tinca comune, è preponderante una
colorazione giallo-rossiccia. La bocca è bordata di rossiccio. Macchie nere sono
sparse irregolarmente sul dorso e sulle pinne. I denti, faringei, sono posti su due
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linee. Il senso del gusto localizzato in bocca, sulle labbra e nei barbigli è l’organo
principale per la ricerca del cibo. Molto sviluppato è anche il senso del tatto, per
mezzo di terminazioni nervose in bocca, sulle labbra, nei barbigli e nella pelle di
tutto il corpo.
La tinca popola le acque interne e a debole corrente dell’Europa, dell’Asia Minore e
della Siberia occidentale, non i fiumi che sboccano nel Mar Glaciale Artico. È
presente anche nelle acque salmastre del Mar Baltico orientale, soprattutto nelle
insenature finlandesi. Si può rinvenire anche in laghi posti fino ad un’altitudine di
1.600 m. sul mare. In Europa manca nel nord della Scandinavia, nella Scozia
settentrionale, in Islanda e nelle isole del Mare del Nord, nonché in Dalmazia e in
Crimea, mentre è stata introdotta in Australia.
La tinca predilige acque temperate e ricche di vegetazione, a fondo melmoso; buoni
esemplari si sviluppano tuttavia anche in presenza di fondali ghiaiosi o sabbiosi.
Nei laghi vive perlopiù in prossimità di tappeti erbosi, teme la luce forte del sole e
si trova bene solo nella semioscurità crepuscolare. Si trattiene a mezz’acqua o in
profondità, avvicinandosi alle rive solo se la luce del sole non arriva a illuminarne i
fondali. Vive comunque dì preferenza sui fondali, che fruga alla ricerca di cibo,
scegliendo fra la vegetazione piccoli crostacei, molluschi, anellidi e larve di insetti
nelle loro numerose specie. Prospera negli scavi di torba, nelle cave di creta e di
argilla, dove il fondo sia soffice e il manto verde offra alimento e riparo. Le tinche
a volte salgono a rivoltarsi in superficie.
In inverno riposano in profondità su fondali melmosi, nei laghi almeno qualche
singolo esemplare resta attivo e riesce a catturare alimento anche a una temperatura
dell’acqua inferiore agli 8°C.
In primavera la tinca torna ad essere attiva già dalle prime tiepide giornate di marzo.
Nei mesi di maggio e giugno, a volte anche più tardi, la tinca depone le piccole
uova, dei diametro di 0.8-1 mm, ad una temperatura dell’acqua di circa 20°C.
Queste aderiscono alle piante acquatiche di zone costiere a basso livello d’acqua.
La posa delle uova avviene a intervalli di parecchi giorni e può protrarsi per
settimane. Si calcola un numero di 600.000 uova per ogni kg dì peso corporeo.
La maturazione sessuale avviene, di norma, dopo il terzo anno di vita per i maschi e
per le femmine generalmente un anno più tardi. Nella zona di Poirino è però
dimostrato che la maturazione sessuale può anticipare di un anno.
Ad una temperatura dell’acqua intorno ai 20°C, le uova si schiudono già dopo circa
3 giorni, liberando larve di 4-5 mm che aderiscono, con l’aiuto di ghiandole adesive
situate sul capo, alla vegetazione acquatica, evitando cosi di affondare nella melma.
Avannotti e giovani pesci vivono nell’intrico della vegetazione che costituisce una
difesa. La tinca, che vive normalmente appartata e nascosta fra la vegetazione,
assume, durante il periodo di fregola, un comportamento vivace e appariscente.
Dopo aver consumato il sacco vitellino, gli avannotti iniziano a cibarsi di plancton,
per poi passare a piccoli crostacei, larve, uova di crostacei e vegetali. Particelle di
fango e di sabbia, rinvenute nell’intestino, probabilmente vengono ingerite insieme
al cibo.
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Le tinche crescono lentamente, soprattutto quando sono presenti
numerose in uno stesso luogo, il loro sviluppo raggiunge le seguenti medie di
lunghezza e di peso: nella prima estate da 4 a l0 cm (da 5 a 10 g), nella seconda
estate da 10 a 15 cm (da 40 a 100 g), nella terza estate da 20 a30 cm (da 200 a 300
g). La lunghezza massima raggiungibile è di circa 70 cm, il peso massimo 7.5 kg;
una tinca di 1,5 kg è un pesce raro, un soggetto di 2 kg è considerato eccezionale.
Le tinche possono giungere ad un’età massima dì circa 25 anni.
Quando la temperatura dell’acqua raggiunge i 28-30°C la tinca cade in una sorta di
letargo estivo.
Nelle acque densamente popolate la tinca è spesso aggredita da parassiti; di questi il
principale responsabile di morie è Ergasilus sp., un genere di copepode, le femmine
del quale si attaccano alle branchie della tinca distruggendone lo strato cellulare
superiore e causando l’instaurarsi di micosi localizzate che comportano anche un
forte dimagrimento e spesso la morte.
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Capitolo Secondo
ALCUNE IPOTESI DI
VALORIZZAZIONE
1. Un patrimonio di straordinarie potenzialità.
La provincia di Torino - come abbiamo visto nelle pagine precedenti e come
ben evidenzia la Carta n. 1 - è costellata di produzioni tipiche, omogeneamente
distribuite su tutto il territorio provinciale.
Si va infatti dal Cavolo di Montalto Dora al Peperone di Carmagnola, dalla
Mela di Cavour alla Ciliegia di Pecetto, dalla Mica della Val di Susa alla Mocetta
del Canavese, dalla Mustardela delle Valli Valdesi al Salame di patate del
Canavese, dal Cevrin di Coazze al Murtret della Val Chiusella, dalla Menta di
Pancalieri al Nocciolino di Chivasso, dai Sangiorgini di Piossasco ai Canestrelli
dell’Eporediese, e via via saltabeccando qua e là per la provincia tra decine e
decine di prodotti, ognuno meritevole almeno d’una possibilità per un futuro che
vada oltre la mera sopravvivenza.
Se a ciò aggiungiamo che la presente ricerca, non avendo pretese di
esaustività, ne ha sicuramente scordato qualcuno, nascosto in qualche remota
località o tra i ricordi d’una qualche sperduta comunità locale, ne consegue la
scoperta di un patrimonio di straordinaria ricchezza e complessità, bisognoso
soltanto d’una efficace politica di sostegno e di valorizzazione.
La stragrande maggioranza delle produzioni censite in questa ricerca indipendentemente dalla notorietà e dai volumi produttivi - è comunque riuscita
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a crearsi un proprio mercato, che consente loro di esistere e di far campare, più o
meno bene a seconda dei casi, le famiglie che ancora vi si dedicano.
Una cosa quindi dev’essere subito chiarita: non siamo di fronte a dei
residui fossili o a dei brontosauri agonizzanti, siamo al contrario in
presenza di un patrimonio dalle potenzialità ingentissime, ancorché spesso
inespresse, caratterizzato, in taluni casi, da una vivacità persino sorprendente.
Ed è da questa scoperta che occorre partire per dar vita ad una politica di
sostegno e valorizzazione delle produzioni tipiche provinciali, che deve
innanzitutto consolidare l’esistente e quindi creare i presupposti per uno sviluppo
duraturo, in grado di ottenere un incremento produttivo ed occupazionale
significativo. Per far ciò occorre quindi:
•
caratterizzare meglio le produzioni tipiche censite, attraverso la
redazione di un disciplinare di produzione per ognuna di esse, che, pur tenendo
conto della loro intrinseca variabilità (cfr. Introduzione), stabilisca dei punti fermi
a tutela del consumatore e a garanzia della ripetibilità di quel “miracolo” (di per
sé irripetibile) chiamato prodotto tipico;
•
creare forme, concrete ed efficaci, di sostegno diretto alle imprese
produttrici già esistenti;
•
studiare e rendere operative nuove forme di commercializzazione
dei prodotti, aggregando un’offerta troppo spesso frammentata e disomogenea;
•
favorire quindi le forme di aggregazione delle imprese finalizzate ad
aumentare la capacità penetrativa sul mercato dei prodotti tipici;
•
promuovere una valorizzazione integrata di tutte le produzioni
tipiche esistenti;
•
individuare quei prodotti tipici che, per radicamento sul territorio e
volumi produttivi, sono potenzialmente in grado di ottenere un riconoscimento
comunitario e sostenerli durante il lungo ed oneroso iter per l’ottenimento del
marchio comunitario.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
In questo capitolo tenteremo di avanzare alcune ipotesi di valorizzazione
e, per alcuni prodotti particolarmente significativi, valuteremo la possibilità di
ottenere un marchio comunitario di qualità.
2. I sentieri del gusto.
Il prodotto tipico è il “testimonial” d’un territorio, è l’ambasciatore più
efficace per far scoprire al mondo le bellezze d’un comprensorio. Ben l’hanno
compreso le varie comunità locali, che sempre più spesso utilizzano il legame con
un prodotto come strumento promozionale in un crescente fiorire di sagre e
manifestazioni.
Del resto taluni abbinamenti, città-prodotto o viceversa, sono ormai
patrimonio
dei
nostri
meccanismi
mentali.
Se
diciamo
“peperone”,
immediatamente s’accende la lucina “Carmagnola” e così per altre celebri
accoppiate:
mela-Cavour,
ciliegia-Pecetto,
cardo-Andezeno,
pisello-
Casalborgone, menta-Pancalieri e via elencando.
Il tutto però è lasciato all’iniziativa delle singole municipalità, e spesso dei
singoli amministratori, senza alcun raccordo ed innescando sovente fenomeni di
sterile concorrenza tra località vicine, che avrebbero invece tutto l’interesse ad
unire gli sforzi e a concentrare le non molte risorse.
Il prodotto tipico - per quel suo caricarsi di valenze che trascendono il
puro consumo - è sicuramente il miglior volano possibile per la valorizzazione
turistica e complessiva di un territorio.
Ecco perché occorre sostenere la
creazione di un sistema economico locale in grado di utilizzare il prodotto tipico
come elemento fondante della volontà di valorizzare in modo integrato tutte le
risorse agricole, ambientali, culturali ed enogastronomiche che un territorio sa
esprimere. Innanzitutto dimenticando ogni sterile campanilismo.
In questo senso gli Enti pubblici maggiori - Regione, Provincia, Comunità
Montane - e le Organizzazioni di ampio respiro - Camere di Commercio,
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Organizzazioni Professionali, Associazioni di settore, ecc. - devono farsi carico di
una promozione complessiva delle produzioni più tradizionali, che consideri non
solo l’ambito agroalimentare, ma anche quello più ampio del turismo rurale, che
racchiude in sé il mondo dell’artigianato agricolo, della ristorazione e della
ricezione agrituristica.
La Carta n. 1, sulla quale abbiamo riportato la dislocazione di una
quarantina di prodotti tipici della provincia di Torino, evidenzia la ricchezza
dell’offerta di produzioni tipiche e l’omogeneità della loro distribuzione sul
territorio provinciale. Sovrapponendo ad essa analoghe cartine, riportanti per
esempio la distribuzione dell’offerta di ristorazione e ricezione agrituristica e la
dislocazione dei principali beni artistici ed ambientali della provincia, avremmo
l’immediata percezione di un patrimonio dall’ampiezza e dalle potenzialità
notevolissime.
Si potrebbero ad esempio istituire dei veri e propri sentieri del gusto, che
accompagnino il turista alla scoperta (in una vera e propria “caccia al tesoro”) di
produzioni tipiche, di squisitezze enogastronomiche, di vestigia del nostro
passato, di antichi mestieri, di ormai desueti modi di vivere, di incantevoli
paesaggi “guadagnati” con corroboranti cavalcate o rilassanti passeggiate.
Percorsi per tutte le esigenze e per tutte le tasche: per chi cerca la preziosa rarità e
per chi s’accontenta di mangiar sano e respirare meglio, per il gourmet e per il
“vorrei, ma non posso”.
Per rendere i sentieri del gusto fruibili ad un pubblico ampio e per
trasformarli in occasione di sviluppo, occorre: - studiare attentamente i percorsi;
- predisporre una segnaletica di circuito, che renda facilmente identificabile il
percorso e le opportunità offerte; - organizzare e migliorare l’efficienza e la
qualità dell’offerta e dell’accoglienza a livello locale; - pianificare un sistema
coordinato di comunicazione turistica e di marketing, che individui le specificità e
le condizioni di eccellenza del territorio e che predisponga gli strumenti idonei a
veicolarne l’immagine; - promuovere i sentieri del gusto, collegandoli ai circuiti
del turismo nazionale ed internazionale.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Questa proposta è stata avanzata da tempo dalla Coldiretti di Torino ed ha
trovato realizzazione, grazie al contributo della Camera di Commercio di Torino,
in una iniziativa editoriale denominata appunto I sentieri del Gusto di prossima
pubblicazione.
3.
Le DOP o IGP possibili.
Abbiamo ampiamente sottolineato in precedenza (cfr. Introduzione par. 4)
la “inadeguatezza” degli strumenti di tutela comunitari, poco elastici e troppo
onerosi per essere adattabili a produzioni locali e di nicchia come la stragrande
maggioranza delle produzioni tipiche italiane. Come pure abbiamo invitato a
ricercare strumenti più snelli ed idonei alla peculiare situazione italiana, assai
diversa da quella del nord Europa, che da sempre ispira la normazione europea.
Ciononostante, ed in mancanza di meglio, riteniamo comunque che
almeno una decina di prodotti tipici della nostra provincia abbiano le potenzialità
per ambire ad una DOP o ad una IGP. Solo però alla condizione che sappiano
rinunciare ai mille campanilismi o addirittura personalismi, che da sempre
frenano ogni possibilità di vero sviluppo.
Ad ognuno di essi dedichiamo a seguire un paragrafo, che ne illustri più in
dettaglio le possibilità attuali e le prospettive future.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
3.1 Il Peperone di Carmagnola.
Nel 1998, nell’ambito di un protocollo d’intesa tra il Comune di
Carmagnola e la Federazione Provinciale Coltivatori Diretti di Torino, è stato
costituito il Consorzio del Peperone di Carmagnola, primo passo per avviare la
procedura per l’ottenimento di un marchio comunitario.
Il Consorzio, che ha sede presso il Comune di Carmagnola, si è dotato di
un proprio logo ed ha predisposto un disciplinare di produzione, stabilendo tra
l’altro che la denominazione è riservata a quattro tipi morfologici - Quadrato,
Corno o Lungo, Trottola o Cuneo, Tumaticot produzione.
e definendo la zona di
Tale zona comprende i comuni di Carignano, Carmagnola,
Cercenasco, Isolabella, La Loggia, Lombriasco, Moncalieri, Nichelino, Osasio,
Pancalieri,
Poirino,
Pralormo,
Santena,
Scalenghe,
Trofarello,
Vigone,
Villastellone, Vinovo e Virle Piemonte in provincia di Torino, e Caramagna
Piemonte, Casalgrasso, Cavallerleone, Ceresole d’Alba, Murello, Racconigi e
Sommariva del Bosco in provincia di Cuneo.
Per quanto riguarda i volumi produttivi, secondo stime ISTAT per l’anno
2000, in provincia di Torino sono investiti a peperone circa 200 ha per una
produzione di circa 36.000 quintali.
Esistono quindi tutti i presupposti per giungere, in tempi relativamente
brevi, all’ottenimento di una IGP per il Peperone di Carmagnola, purché il
Consorzio riesca a raccogliere nel proprio ambito la maggior parte della
produzione e a strutturarsi in modo da giungere ad una effettiva
commercializzazione del prodotto a marchio.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Fig.1 – Distribuzione areale del Peperone di Carmagnola
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3.2
L’Asparago Torinese.
In provincia di Torino, come abbiamo visto nel Capitolo Primo (par. 1.4),
l’asparago ha trovato la sua culla d’elezione nella zona a sud ovest della città, in
quella striscia compresa tra Moncalieri e Poirino.
In particolare l’asparago è il vanto dei comuni di Cambiano, Santena e
Poirino, che ritengono ognuno di produrre un ortaggio dalle caratteristiche
inimitabili ed ineguagliabili. Quanto sia radicata, e da tempo, questa convinzione
è ben testimoniato da una lettera inviata, in risposta ad un articolo che indicava in
Santena la capitale dell’asparago, alla rubrica “Specchio dei tempi” del quotidiano
La Stampa all’inizio degli Anni Sessanta dal sig. Giovanni Melchiorre, che
testualmente recita:
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I prodotti tipici della provincia di Torino
«Vorrei soltanto chiarire una cosa, che per noi contadini di Poirino e per
l’economia di tutto il paese è di estrema importanza. Perché i giornalisti
continuano a dire che la capitale degli asparagi è Santena, mentre tutti sanno che
la sua terra, ormai sfruttata da anni, non ne produce che in piccola quantità? La
vera capitale degli asparagi è Poirino, sia per la quantità che per la bellezza e la
qualità, e basterebbe una piccola e disinteressata inchiesta per capire che non è
campanilismo, ma verità: Santena è stata capitale degli asparagi, come Torino è
stata capitale d’Italia. Venite a Poirino alla fiera di maggio e vedrete asparagi
meravigliosi e tinche dorate. E chiedete al Comune, chiedete ai contadini e agli
albergatori, chiedete ai negozianti e all’uomo di strada.».
Oggi (ed è già tardi) meglio sarebbe abbandonare queste diatribe di
campanile ed evitare di far fiorire marchi locali, buoni soltanto per curare, pro
domo propria, qualche piccolo orticello.
Come già sottolineato, una DOP o una IGP presenta dei costi fissi di puro
mantenimento insostenibili per produzioni limitate, frammentate e non
organizzate, per cui occorre preliminarmente abbandonare ogni presunzione di
primato ed aggregare quanta più offerta possibile.
A nostro avviso solo coagulando gli sforzi attorno ad un’unica
denominazione, che potrebbe essere “Asparago Torinese”, è possibile pensare
all’ottenimento di una IGP, sicuramente più rispondente alla realtà del prodotto
rispetto ad una DOP.
Il territorio di produzione dovrebbe comprendere i comuni di Cambiano,
La Loggia, Moncalieri, Nichelino, Poirino, Santena e Villastellone.
In provincia di Torino (stime ISTAT anno 2000) attualmente sono
investiti ad asparago circa 65 ha per una produzione annua di 2.500 q. circa
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Fig.2 – Distribuzione areale dell’Asparago Torinese
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3.4
La Mela Rossa dell’Ovest Piemonte.
Abbiamo già ampiamente sottolineato nel Capitolo Primo (par. 2.2.2)
l’importanza che le mele rosse hanno nell’Ovest Piemonte, avendo da secoli
accompagnato l’evoluzione della storia e delle tradizioni della melicoltura locale.
Al fine di valorizzare questa particolare vocazione, alcuni Enti ed
Associazioni della provincia di Cuneo si stanno adoperando per ottenere la IGP
“Mela rossa delle Valli Cuneesi”, la cui zona di produzione comprende anche
numerosi comuni della Provincia di Torino (la fascia pedemontana che da Cumiana
giunge a Cavour).
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Abbiamo già detto che, a nostro avviso, sarebbe sicuramente più rispondente
alla storia ed alla distribuzione territoriale la denominazione “Mela rossa dell’Ovest
Piemonte”.
Tale indicazione dovrebbe designare esclusivamente il frutto delle cultivar
appartenenti ai due gruppi varietali Red Delicious e Gala, coltivate nella fascia di
altipiano che si estende da Cuneo fino ai piedi delle Alpi Occidentali (Marittime e
Cozie), con altitudine compresa fra i 250 e 800 metri s.l.m.
Fig.3 – Distribuzione areale della Mela Rossa dell’Ovest Piemonte
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I prodotti tipici della provincia di Torino
La Mela di Cavour.
Cavour e le sue mele hanno ormai raggiunto una solida e ben meritata
notorietà, frutto anche del grande ventaglio di varietà coltivate nel suo territorio.
Nel cavourese infatti troviamo non solo le mele rosse, come abbiamo appena
visto nel paragrafo precedente, e quelle gialle, della famiglia delle Golden, ma
anche le renette ed un gran numero di varietà locali ancora ben presenti.
Attualmente la produzione di mele nel Cavourese è costituita per il 60%
da mele gialle, il 35% rosse ed il restante 5% da renette e varietà locali.
Nonostante una consistenza percentualmente così ridotta è, a nostro
avviso, proprio la presenza di un cospicuo e significativo numero di varietà locali
a caratterizzare e contraddistinguere la zona pedemontana, che va da Cumiana
alla Valle Po e che ha in Cavour il proprio centro naturale, da ogni altro luogo
vocato alla melicoltura.
Per tale motivo la IGP Mela di Cavour dovrebbe essere una indicazione
che designa i frutti appartenenti esclusivamente al gruppo varietale Renetta, ed in
particolare la Renetta Grigia di Torriana, ed a tutte le varietà locali descritte nel
Capitolo Primo (par. 2.2.1) - ossia Bella di Barge, Bianc brusc, Buras,
Champagne, Dominici, Furnas, Gamba fina, Gian d’Andre, Grenoble, Losa,
Magnana, Piatlin, Runsè, Rus Tumasin, Sapis, Sconosciuta Benech - ed a quelle
che eventualmente abbiamo dimenticato.
La zona di produzione della Mela di Cavour dovrebbe comprendere i
comuni di: Angrogna, Bibiana, Bricherasio, Buriasco, Campiglione Fenile,
Cantalupa, Cavour, Cumiana, Frossasco, Garzigliana, Luserna S. Giovanni,
Lusernetta, Macello, Osasco, Pinerolo, Piossasco, Prarostino, Roletto, S.
Secondo di Pinerolo, Scalenghe, Torre Pellice, Villafranca Pte e Villar Pellice in
Provincia di Torino e Bagnolo P.te, Barge, Brondello, Castellar, Envie,
Gambasca, Martiniana Po, Paesana, Pagno, Revello, Rifreddo e Sanfront in
Provincia di Cuneo.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
In questo modo il territorio del Cavourese e del Pinerolese potrebbe
beneficiare di due mele IGP, la Mela Rossa dell’Ovest Piemonte e la Mela di
Cavour, che ad oggi rappresentano congiuntamente circa il 40% della produzione
complessiva, percentuale che potrebbero incrementarsi ulteriormente sfruttando
l’effetto trainante della denominazione.
Dal punto di vista del mercato del resto, poco senso avrebbe perseguire un
eventuale marchio comunitario collegato alle mele gialle, essendo le Golden una
produzione “globalizzata” e quindi ben poco caratterizzante.
Una IGP invece che si connoti per tipicità e riscoperta di vecchie varietà,
renderebbe sicuramente la Mela di Cavour un prodotto in grado di caratterizzare
nel mondo un intero territorio e di farsi volano d’uno sviluppo integrato e
duraturo.
Fig.4 – Distribuzione areale della Mela di Cavour
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3.5
I prodotti tipici della provincia di Torino
La Ciliegia di Pecetto Torinese.
Nel Capitolo primo (par. 2.4.1) abbiamo già dato ampiamente conto delle
virtù della Ciliegia di Pecetto e sottolineato le potenzialità di questo frutto ben
diffuso su tutta la collina torinese ed in grado, a giusto titolo, di ambire
all’ottenimento di una IGP.
La produzione cerasicola della collina torinese infatti, secondo una ricerca
dell’Assessorato Agricoltura della Regione Piemonte (Alvisi et al., Produzione e
mercato dei prodotti frutticoli in Piemonte, 1993), era stimabile nel 1990 in circa 7.400 q.
annui, composta per il 95% da ciliegie dolci e per il restante 5% da ciliegie acide o
amarene.
La situazione odierna non è praticamente mutata, sicché possiamo
considerare tali dati ancora attuali.
Nella logica, già ampiamente sottolineata, di far convergere sotto un’unica
denominazione comunitaria prodotti tipici similari, al fine di aggregare quanta più
offerta possibile e di farne ricadere i benefici su un territorio omogeneo più vasto
possibile, ci pare produttivo ipotizzare di far confluire nella Ciliegia di Pecetto
anche
l’Amarena
di
Trofarello,
eventualmente
ricorrendo
ad
una
sottodenominazione.
La zona di produzione di una ipotetica Ciliegia di Pecetto IGP dovrebbe così
comprende i territori dei comuni di Andezeno, Arignano, Baldissero T.se,
Cambiano, Chieri, Gassino, Marentino, Moncalieri, Montaldo T.se, Pavarolo,
Pecetto Torinese, Pino Torinese, Rivalba, Sciolze e Trofarello.
La Ciliegia di Pecetto può inoltre avvalersi di una associazione di
produttori già operante da anni, la Facolt (Frutticoltori Associati della Collina
Torinese), che potrebbe fungere da ente promotore e gestore del marchio, alla
stregua di un Consorzio di Tutela.
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Fig.5 – Distribuzione areale della Ciliegia di Pecetto Torinese
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3.6
La Castagna delle Valli Torinesi.
Nel Capitolo Primo (par. 2.5) abbiamo visto come nell’intera provincia di
Torino sono investiti a castagneto da frutto circa 8.000 ettari di terreno, compresi
nella fascia altimetrica tra i 500 ed i 1.000 metri s.l.m. e distribuiti in tutte le vallate
che vanno dalla Dora Baltea al Pellice.
In particolare la provincia di Torino è conosciuta per la qualità di alcune
varietà pregiate, i cosiddetti “Marroni”, la cui produzione è limitata e concentrata
prevalentemente in un’area di poco superiore ai 1.000 ettari nei territori della Valle
di Susa e della Val Pellice.
La produzione totale di castagne è stimata intorno ai 35.000 quintali, mentre
quella di marroni intorno ai 5.000 quintali.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Stante queste dimensioni, appare assai poco produttivo ricercare una
valorizzazione attraverso denominazioni locali (Val Susa, Val Pellice, Valli di
Lanzo), mentre esistono sicuramente i presupposti per una IGP che raccolga
tutte le produzioni sparse per la provincia.
La denominazione più consona dovrebbe essere “Castagna delle Valli
Torinesi”, quella che consentirebbe di includere l’intera produzione e di
sostenere una eventuale sottodenominazione più specifica (per es. “Castagna
delle Valli Torinesi - Marrone Val Susa”).
Il territorio interessato dovrebbe includere l’intera provincia di Torino.
Fig.6 – Distribuzione areale della Castagna delle Vallate Torinesi
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3.7
I prodotti tipici della provincia di Torino
Il Salame Cotto Piemonte.
Del maiale, com’è noto, non si butta via niente, ma - l’abbiamo già
ricordato nel Capitolo Primo (par. 5.2.1) - come utilizzare nel migliore dei modi
le carni di seconda scelta? Per i norcini di buona parte del Nord Italia, e
specialmente per gli emiliani, la risposta è da sempre la mortadella; in Piemonte
invece è il salame cotto.
Il salame cotto è pertanto un’esclusiva assoluta del Piemonte e quindi
perché negare ad una regione, che è tra le principali produttrici di carne suina
(oltre un terzo dei prosciutti di Parma proviene da cosce prodotte nella pianura
compresa tra Torino e Cuneo!), la possibilità di fregiarsi di un marchio che
consentirebbe all’industria salumiera regionale di rispondere con un “unicum”
alle tante (troppe?) DOP o IGP emiliane e lombarde?
Al di là delle tante risposte possibili ad un simile perché, ciò che conta è
sforzarsi di superare ogni localismo per puntare dritti alla meta: la DOP/IGP
Salame Cotto Piemonte.
Un primo, e per ora unico, tentativo in questo senso venne fatto
dall’ASSICA (Associazione Industriali della Carne), che nel 1996 inoltrò al
Ministero delle Risorse Agricole domanda di riconoscimento della IGP “Salame
Piemonte”. Tale richiesta fu però rigettata dalla competente commissione
comunitaria, probabilmente per incompletezza della documentazione.
Da allora periodicamente si riparla di rinnovare ed integrare la richiesta,
coinvolgendo questa volta l’intera filiera produttiva. Finora però il tutto si è
ridotto ad alcuni incontri interlocutori, che hanno ribadito la validità
dell’iniziativa, senza per altro giungere ad un qualcosa di concreto.
Occorre perciò un deciso e pragmatico intervento, da parte di tutto il
settore e degli Enti Pubblici, Regione Piemonte su tutti, per rendere giustizia ad
un prodotto che - per storia, unicità e volume produttivo - sicuramente merita
di ottenere un marchio comunitario. Ciò in considerazione anche del fatto che,
tra le possibili DOP/IGP menzionate nel presente capitolo, il Salame Cotto
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Piemonte è indubbiamente quello che presenta la potenzialità produttiva
maggiore, che può sfruttare al meglio le sinergie tra allevamento e industria di
trasformazione e che può puntare decisamente ed in breve tempo - magari al
traino di qualche cugino più affermato - su un mercato internazionale.
Fig.7 – Distribuzione areale del Salame Cotto Piemonte
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3.8
La Ricotta Piemontese.
Tra i prodotti lattiero-caseari della provincia di Torino l’unico, Toma a
parte ovviamente, che, per diffusione e volumi produttivi, possa aspirare
all’ottenimento di un marchio comunitario è la Ricotta Piemontese.
In Piemonte la Ricotta è diffusa un po’ ovunque ed assume caratteri peculiari a
seconda della zona e della tipologia aziendale (alpeggio, allevamento stanziale di
pianura, ecc.)
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Al di là delle molteplici forme che le danno i singoli casari, la Ricotta
piemontese presenta caratteristiche comuni, così come descritto nel Capitolo Primo
(par. 6.2.8).
La Ricotta, nata come alimento secondario per lo più destinato al consumo
familiare, è andata col tempo assumendo una rilevanza, anche economica, sempre
crescente, al punto da essere oggi assai richiesta
- per le sue caratteristiche
dietetiche e per la sua capacità di costituire un ingrediente indispensabile in molte
preparazioni gastronomiche - e da costituire così una fonte di reddito tutt’altro che
trascurabile.
Per questa ragione potrebbe essere interessante ipotizzare una IGP
“Ricotta Piemontese”, che racchiuda tutta la produzione del Piemonte e tutte le
diverse tipologie che la contraddistinguono.
Tale denominazione dovrebbe perciò interessare l’intero territorio del
Piemonte ed includere le seguenti tipologie di prodotto:
•
la “Ricotta Piemontese Fresca”, la quale in termini quantitativi fa
sicuramente la parte del leone e dovrebbe caratterizzarsi
- dovendosi
contrapporre sul mercato alla Ricotta romana o a quella siciliana - per una
peculiare dolcezza e cremosità;
•
la “Ricotta Piemontese Seirass”, che dovrebbe indicare la ricotta
prodotta in alpeggio e potrebbe così racchiudere in sé, contemplando la
possibilità di sottodenominazioni, anche produzioni di nicchia come il Seirass del
fen o altre varianti locali;
•
la “Ricotta Piemontese Salignön”, che racchiuderebbe così
l’omonimo prodotto tipico descritto nel Capitolo Primo (par. 6.2.8.2) ed
eventualmente quelli simili che contemplano l’impasto della ricotta con aromi
naturali (pepe, peperoncino, aglio, cumino, ecc)
•
la “Ricotta Piemontese Stagionata”, che potrebbe racchiudere in
tale denominazione la ricotta salata e quella affumicata, eventualmente
contemplando la possibilità di sottodenominazioni in caso di aggiunta di aromi
(pepe, peperoncino, ecc.).
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I prodotti tipici della provincia di Torino
Perché tale ipotesi possa avere qualche possibilità di successo, occorre
però che attorno ad essa si coaguli (e mai verbo fu più azzeccato!) tutta la filiera
in uno sforzo congiunto che darebbe al Piemonte un prodotto dalle grandi
potenzialità, in grado di innescare un circolo virtuoso con l’industria
agroalimentare e gastronomica (che potrebbe senza sforzo “inventarsi” la Torta
di Ricotta Piemontese e l’Agnolotto alla Ricotta Piemontese e mille altre
ghiottonerie similari).
Fig.8 – Distribuzione areale della Ricotta Piemontese
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I prodotti tipici della provincia di Torino
La Tinca dorata del Pianalto di Poirino.
L’acquacoltura in Piemonte costituisce un settore non troppo significativo (vedere
se si trovano dati)
Se si eccettuano gli allevamenti di Trota, che qua e là punteggiano tutte le vallate
piemontesi, e taluni sporadici laghetti che abbinano l’allevamento alla pesca
sportiva, l’acquacoltura in Piemonte è tutta concentrata nelle peschere del
comprensorio attorno a Poirino, regno incontrastato di sua maestà la Tinca dorata.
La Tinca dorata è prodotta in quello che anticamente era chiamato il
“Pianalto di Poirino”, che comprende i comuni di Carmagnola, Isolabella,
Poirino, Pralormo, Santena e Villastellone in provincia di Torino, Cellarengo,
Dusino San Michele e Valfenera in provincia di Asti, Ceresole d’Alba, Montà,
Monteu Roero, Pocapaglia, Sanfrè, S. Stefano Roero, Sommariva del Bosco e
Sommariva Perno in provincia di Cuneo.
Attualmente in quest’area permangon un buon numero di peschere, oltre un
centinaio, nelle quali la Tinca dorata è ancora allevata, ma sono almeno 250, e non
più utilizzate, le cave idonee all’allevamento di questo pesce, il cui valore
commerciale è tra i più elevati fra tutti i pesci autoctoni di acqua dolce. Sui mercati
ittici nazionali la tinca spunta oggi prezzi attorno a 20-25.000 Lit./kg. vivo, inferiori
solo a quello dell’anguilla e dello storione, pari a quello del pescegatto e superiore di
circa il doppio a quello della trota e della carpa.
È anche in questa prospettiva che in Poirino si sta realizzando un
consorzio di allevatori, con lo scopo di rilanciare questa tradizionale e unica
forma di allevamento monocolturale della tinca, anche attraverso il recupero
degli invasi attualmente non utilizzati.
Tale attività sarà rivolta alla produzione di materiale qualitativamente
selezionato e in grado di soddisfare le esigenze di mercato, ma anche di produrre
ceppi idonei al ripopolamento in ambiente naturale.
Le prospettive di tali attività sono volte al ripristino della produzione, che garantiva,
nel solo comune di Poirino, sino alla metà degli anni ’50, circa 250-300 q. di
tinche/anno, contro i 70-80 o, forse, 100 q./annui attualmente stimati.
Se si calcola che l’areale di produzione comprende 17 comuni si può
ragionevolmente stimare la produzione di Tinca dorata in circa 1.000-1.500
quintali/anno. Produzione che sarebbe, sulla spinta di una denominazione e di una
politica di promozione adeguata, perlomeno triplicabile senza grande sforzo.
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Fig.8 – Distribuzione areale della Tinca dorata del Pianalto di Poirino
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I prodotti tipici della provincia di Torino
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La qualità ed i prodotti tipici sono divenuti il leit motiv degli ultimi anni. In
ogni ambito ed a tutti i livelli il termine qualità ha assunto i connotati d’una
bacchetta magica, d’una formuletta esoterica in grado di trasformare il rospo in
principe, abbagliando lo stranito consumatore.
E, quando la parolina magica ha
cominciato ad ansimare un poco, consunta da un uso smodato e spesso improprio,
ecco giungere in soccorso la cuginetta tipicità, ancora un poco incerta sulle gambe,
ma comunque decisa a recitare un ruolo di primo piano.
Fuor di metafora ed al di là degli inevitabili eccessi, è indubbio che il nostro
sistema agroindustriale ha subito un benefico impulso dall’applicazione diffusa del
concetto di qualità, intesa in tutte le sue sfaccettature (di sistema, di processo, di
prodotto). I primi a coglierne le opportunità sono stati ovviamente la grande
industria e la grande distribuzione organizzata, ma poco per volta anche le imprese
agricole ed artigianali si stanno adeguando.
La tipicità, come ampiamente rimarcato nell’Introduzione, può essere
considerata un attributo - non certo secondario - della qualità e, almeno in teoria,
dovrebbe caratterizzare le produzioni maggiormente legate al territorio e quindi al
mondo rurale e del piccolo artigianato, entrambi però, da sempre, bravissimi a
produrre, molto meno a vendere. Ed è proprio lì il punto: la valorizzazione delle
tipicità passa necessariamente attraverso il nodo della commercializzazione e del
marketing, altrimenti si ferma al livello delle pure intenzioni.
Ecco perché prima di tutto occorre organizzare l’offerta, aggregandola il più
possibile, e poi trovare forme di commercializzazione efficaci, che remunerino al
massimo gli sforzi di chi il prodotto tipico lo produce. Dopo di che si può pensare
alla promozione.
Mai come in questi ultimi tempi i prodotti tipici hanno goduto d’una
immagine incondizionatamente positiva, da più parti invocati come rimedio
principe alle “nefandezze” alimentari che sconvolgono l’Europa.
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I prodotti tipici della provincia di Torino
La Coldiretti ha intrapreso da tempo la strada della massima trasparenza nel
rapporto con il consumatore, dicendo un “no” deciso all’utilizzo di organismi
geneticamente modificati (con i progetti “semina sicura” e “allevamento sicuro”),
aprendo ai cittadini le porte delle proprie cascine, organizzando nelle piazze di
tutt’Italia le “Oasi dei prodotti tipici”, cercando di offrire prodotti che assicurino al
contempo le massime garanzie di salubrità, genuinità e sicurezza, ed il rispetto delle
grandi tradizioni alimentari del nostro paese.
In cambio chiede che venga
riconosciuto il ruolo insostituibile che l’agricoltura svolge nel salvaguardare il
territorio e l’ambiente e nell’assicurare la continuità delle tradizioni alimentari
attraverso le produzioni tipiche e di qualità.
Tutto ciò ha contribuito a porre il nostro patrimonio gastronomico al centro
dell’attenzione dei giornali, delle televisioni e del pubblico, il che fa sicuramente un
immenso piacere. Detto questo però, bisogna registrare che la confusione sotto il
cielo dei consumatori è ancora grande.
Comprendere cosa siano la Dop e l’Igp, le Doc e le Docg del vino, cosa
siano la miriade di marchi che affollano il mercato, comincia a diventare un
percorso arduo per il grande pubblico, che non ha tempo per “specializzarsi”,
che trova sui giornali delle suggestioni e vorrebbe poter provare i prodotti di
questa nuova frontiera della qualità.
Del resto solo il grande pubblico può dare valenza economica all’artigianato
di nicchia, così come a quello di massa. Per limitarci al Piemonte, pensiamo a cosa
significano come immagine e dal punto di vista economico il Gorgonzola (o il
Grana Padano se preferite) e il Castelmagno: l’uno gigante di fama mondiale, l’altro
gioiello da mantenere e difendere nella sua nicchia e con le sue modeste quantità
produttive. Entrambi danno lustro alla produzione alimentare italiana e regionale,
ma con missioni diverse.
E se poi, per esempio, il Consorzio del Grana Padano anziché restare chiuso,
come la gran parte dei Consorzi di Tutela, in una logica monolitica (regola prima:
esiste un solo Grana Padano, tutti i Grana Padano sono uguali) sposasse la logica
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del vino (esiste il Barolo, ma poi a ogni produttore la sua missione, sempre
all’interno della logica del disciplinare) la situazione potrebbe farsi diversa.
Troveremmo dei Grana Padano (o del Gorgonzola a due paste come un
tempo) a tre stelle, che costano “x” e vengono usati per degustazione, antipasto,
accompagnamento a grandi vini, formaggi per i quali ha senso la valorizzazione dei
mesi di invecchiamento, essendo chiaro a tutti che una stagionature di 18 o 24 mesi
costa di più ed è una cosa diversa da una di 8 o 12 mesi. In questa nuova logica,
che chiameremo aperta, esisteranno, poi, altri Grana Padano a due o una stella, che
costano meno e vengono usati in modo diverso, più semplice e meno costoso. Il
tutto alla luce del sole e senza “inganni”, evitando così di chiedere al consumatore
di trasformarsi in Sherlock Holmes per capire che razza di Grana si sta portando a
casa. Come si vede, dietro a un mondo in fermento come quello della produzione
di qualità si nascondono molte opportunità ancora tutte da sfruttare.
La qualità, poi, sta alla base di uno dei segmenti del turismo destinati ad
avere più sviluppo nei prossimi anni, il turismo enogastronomico. I consumatori,
infatti, dedicano sempre più i loro fine settimana o le brevi vacanze alla scoperta del
territorio e, come logica conclusiva, vogliono poi portarsi a casa un pezzo di quel
territorio, rappresentato di volta in volta da vino, formaggi, salumi, pane, dolci,
ortaggi ed altri prodotti.
Ecco allora che avere studiato dei percorsi turistici e gastronomici a un
tempo diventa un’offerta vincente, perché permette al consumatore di conoscere i
prodotti di un territorio e poi, una volta tornato nella sua città, continuare ad
acquistarli nei migliori negozi. Piacere e conoscenza si mescolano in una logica
virtuosa dove sono destinati a vincere quelli che hanno un’offerta vera (ossia
un’offerta seria, organizzata, costante).
Insomma, il futuro dei prodotti tipici si sposa strettamente alla
valorizzazione del territorio, tanto dal punto di vista turistico quanto da quello
agricolo-produttivo, e ad un utilizzo intelligente di tutte le nuove tecnologie. Nel
prossimo futuro infatti è facile ipotizzare che artigianato ed Internet la faranno da
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padroni (pochi anni fa soltanto, un’affermazione del genere sarebbe apparsa del
tutto incomprensibile).
Naturalmente ci vuole misura: non si può stancare il pubblico parlando solo
dei prodotti tipici, quasi fossero la panacea di tutti i mali. Oggi si parla molto, e
spesso superficialmente, di questi temi, ma forse bisognerebbe prestare più
attenzione al sistema nel suo insieme.
Un’offerta turistica nuova deve prevedere itinerari artistici, paesaggistici,
gastronomici e una struttura alberghiera che si rispetti: insomma, una gamma
completa. In questa offerta, ristorazione e accoglienza, cioè dove si mangia e
dove si dorme
per dirla concretamente (e soprattutto come), hanno
un’importanza cruciale.
Proprio la ristorazione dovrebbe essere la prima vetrina dei prodotti tipici
regionali, quindi non solo delle grandi DOP, dei grandi vini nostrani di fama
mondiale o dei sette-otto prodotti che non mancano mai, ma anche, ad esempio,
della Fragolina di San Mauro, dell’Insalatina di Castagneto Po, del Cavolo di
Montalto Dora, del Murtret della Val Chiusella, della Mustardela della Val Pellice,
della Mica della Val Susa, dei Torcetti di Lanzo, del Barathier di Pomaretto.
Perché i migliori ristoranti piemontesi non devono avere nei propri menù e
proporre nel corso dell’anno tutti questi prodotti? Perché non devono essere loro i
primi “promoter” delle produzioni tipiche, cioè coloro che illustrano al turista
alcuni degli incanti gastronomici della regione?
Spesso però i ristoratori di questa terra sono tutti presi dal proprio
particolare, poco propensi a valorizzare una cucina regionale di proposta che esca
dallo stereotipo dei soliti noti o che perlomeno li integri e li completi. Senza capire
che un turista - di Roma o di New York, non importa - considera il Piemonte un
tutt’uno e le uniche differenze che concepisce non sono certo quelle di campanile,
quanto piuttosto quelle dettate dai propri sensi, dal piacere che trae dall’assaggio.
Ed è proprio qui il punto. È noto fin dall’antichità che le decisioni più
importanti si prendono a tavola, perché il mangiar bene ed il bere meglio
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predispongono corpo e spirito alla tolleranza e placano ogni istinto bellicoso,
colorando il mondo a tenui tinte pastello.
Un motto caro al sindacalismo statunitense degli albori - e riscoperto da un
recentissimo film di Ken Loach - sostiene che ogni uomo sulla faccia del Terra ha
diritto a “bread and roses”, al pane ed alle rose, al sostentamento del corpo ed al
nutrimento dello spirito.
Ecco, il prodotto tipico ha proprio questa capacità:
racchiude nel suo scrigno di pane un cuore di rose.
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