RomanaGIURISPRUDENZA - Ordine Avvocati Roma

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RomanaGIURISPRUDENZA - Ordine Avvocati Roma
Romana
temi
rassegna
di dottrina
e giurisprudenza
DIRETTORE RESPONSABILE
Avv. Alessandro Cassiani
DIRETTORE SCIENTIFICO
Avv. Giovanni Cipollone
REDATTORE CAPO
Avv. Andrea Melucco
a cura del
Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Roma
quadrimestrale
anno LVI n°1-3
gennaio/dicembre 2008
COMITATO DI DIREZIONE
Avv. Cristiana Arditi
di Castelvetere
Avv. Antonio Conte
Avv. Rodolfo Murra
Avv. Pietro Di Tosto
Avv. Paolo Nesta
Avv. Goffredo Barbantini
Avv. Sandro Fasciotti
Avv. Livia Rossi
Avv. Federico Bucci
Avv. Francesco Gianzi
Avv. Mauro Vaglio
Avv. Donatella Cerè
Avv. Rosa Ierardi
PUBBLICAZIONE QUADRIMESTRALE • SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE, ARTICOLO 2, COMMA 20/C, LEGGE 662/96 D.C.I. DI ROMA
R
Romana
temi
quadrimestrale
anno LVI n°1-3
gennaio/dicembre 2008
COMITATO SCIENTIFICO
Prof. Avv. Pietro Adonnino
Prof. Avv. Giuseppe Bernardi
Prof. Avv. Riccardo Cappello
Prof. Avv. Piero D'Amelio
Avv. Carlo Martuccelli
Prof. Avv. Lucio Valerio Moscarini
Prof. Avv. Pietro Nocita
Prof. Avv. Leonardo Perrone
Prof. Avv. Giulio Prosperetti
Prof. Avv. Piero Sandulli
Prof. Avv. Franco Gaetano Scoca
Prof. Avv. Augusto Sinagra
Avv. Felice Testa
COORDINATORI DI SETTORE
Diritto Costituzionale
Prof. Avv. Romano Vaccarella
Prof. Avv. Giuseppe Marazzita
Diritto Civile e Processuale Civile
Prof. Avv. Giovanni Arieta
Avv. Rodolfo Murra
Avv. Laura Vasselli
Diritto Penale e Processuale Penale
Prof. Avv. Pietro Nocita
Prof. Avv. Stefano Preziosi
Prof. Avv. Nicola Pisani
Avv. Luigi Favino
Diritto Commerciale e Societario
Prof. Avv. Giovanni Figà Talamanca
Avv. Giorgio Della Valle
Avv. Fabrizio Ravidà
Diritto Fallimentare
Avv. Mario Guido
Diritto Amministrativo
Avv. Filippo Lattanzi
Avv. Marina Binda
Diritto del Lavoro
Avv. Luciano Tamburro
Diritto Tributario
Avv. Gianni Di Matteo
Diritto Internazionale
Avv. Antonio Manca Graziadei
Avv. Fabio Maria Galiani
Diritto Comunitario
Avv. Gianluca Contaldi
Avv. Filippo Malara
SEGRETARIA DI REDAZIONE
Avv. Samantha Luponio
Temi romana è anche on line all’indirizzo
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La Direzione e la redazione
sono presso il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Roma
Iscrizione Registro nazionale stampa
(Art. 11, legge 5 agosto 1981, n. 416)
n. 00023 vol.foglio 177 del 2 luglio 1982
Avv. Alessandro Cassiani responsabile
Stampa: Ulisse Editore srl
Grafica: Stefano Navarrini
Romana
temi
AVV. ALESSANDRO CASSIANI
GENNAIO/DICEMBRE 2008
INDICE DEL FASCICOLO
EDITORIALI
AVV. GIOVANNI CIPOLLONE
L'avvocato dotto: un suggerimento per le nuove generazioni di avvocati
Avv. Andrea FRONZETTI
Avv. Prof. Giovanni
FIGA'-TALAMANCA
Disegno, simulazione e business process re-engeneering del processo civile
di cognizione
Avv. Prof. Piero SANDULLI
Avv. Nicola PIPPIA
Avv. Vincenzo FERRAZZANO
Dott. Carlo CERUTTI
Avv. Paolo DE GREGORIO
Avv. Salvatore GOLINO
Avv. Pietro CARNEVALE
Dott.ssa Maria D'ANNIBALE
Avv. Nicoletta SCATTONE
Avv. Andrea MELUCCO
Avv. Filippo Maria SALVO
Dott. Giuseppe CARRIERO
Dott.ssa Francesca ZIGNANI
3
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DOTTRINA
Il diritto alla tutela giurisdizionale alla luce della dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948
Il regime giuridico delle centrali nucleari nella legislazione francese: un modello
per il sistema italiano
Studio sui sistemi elettorali
Brevi considerazioni sui rapporti tra usura penale ed usura civile.
I rimedi civilistici per la pattuizione di interessi usurari
7
23
33
53
64
False fatturazioni e configurabilità dei reati di associazione per delinquere e di riciclaggio 68
I contratti innominati e/o misti: funzione sperimentale e preparatoria del modello giuridico
in materia economico-sociale e la rilevanza nei rapporti tra privati ed istituzioni
78
Alcune considerazioni sui marchi di forma
Il diritto di asilo in Italia: luci ed ombre
Il patrocinio a spese dello stato nel giudizio civile
Le “nuove” cause di esclusione negli appalti pubblici parte prima: il collegamento sostanziale
Economia e legislazione: spunti di riflessione ed esercizi applicativi
Danni accessori: pluralità di fattispecie alla ricerca di nomen juris
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113
138
150
155
164
GIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PREVIDENZIALE E PROFESSIONALE
A cura di
Avv. Rodolfo MURRA
Avv. Andrea MELUCCO
Massimario 2007 delle pronunce di legittimità
Parte prima - massimario delle sezioni unite in materia disciplinare
Parte seconda - le pronunce di legittimità in materia previdenziale e professionale 198
175
Corte di Cassazione - sez. III
Sent. 23 gennaio 2009, n. 1691
Corte di Cassazione
sezioni unite
Sent. 11 gennaio 2008, n.584
Corte di Cassazione - sez. III
Sent. 30 ottobre 2007, n.22884
Corte di appello di Roma
Decr. 2 ottobre 2007
Tribunale di. Roma
Sent. 8 luglio 2008
Tribunale di Roma - sez. lavoro
Sent. 24 ottobre 2007
Tribunale di Roma - sez. fall.
Decr. 28 giugno 2007
Corte di Assise di Roma
Sez. III - Sent. 25 ottobre 2007
Corte di Cassazione - sez.I
Sent. 24 luglio 2008 n.31171
Nuovo revirement della corte di cassazione in tema di applicabilità dell'art.2051 cc
ai sinistri per le insidie stradali
207
Con il commento di Leonardo VECCHIONE “Il ritorno dell'art.2051 cod. civ”
GIURISPRUDENZA CIVILE
La responsabilita' della p.a. per infezioni contratte tramite emoderivati
215
Con il commento di Marzia BALLARANI
“Responsabilità civile per danni lungolatenti da somministrazione di emoderivati infetti”
La liquidazione mediante presunzioni del danno da fumo
251
Con il commento di Francesco SAVARESE “Il danno esistenziale nella nella evoluzione
del danno non patrimoniale, ed il diritto alla salute”
Le condizioni per la dichiarazione di fallimento
Con commento di Dario DI GRAVIO
“La dichiarazione di fallimento: alcune condizioni”
Clausola statutaria di prelazione e vicende traslative
Con commento di Domenico BENINCASA
“Effetti della clausola di prelazione e della sua violazione”
Scorrimento delle graduatorie e diritto soggettivo nei concorsi pubblici
Con il commento di Antonella ROBERTI
“Lo scorrimento delle graduatorie nelle aziende privatizzate”
Ricorso per fallimento proposto dal pm e prova dell'insolvenza
Con il commento di Dario DI GRAVIO
“Il furore del Pubblico ministero”
Difetto di giurisdizione nei confronti di militare estero: il caso Calipari
Con il commento di Caterina DI MARZIO
259
262
275
281
GIURISPRUDENZA PENALE
Corte di Cassazione - sez. I
Sent. 4 dicembre 2007, n.44991
Eccezionalita' delle deroghe nella disciplina di armi ed esplosivi
Con il commento di Luigi FAVINO
“Affollamento normativo in materia di armi e registro delle operazioni giornaliere”
Consiglio di Stato
Ad. Plen. 30 luglio 2008, n.9
GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
291
332
Contratti della p.a.: la reintegrazione in forma specifica
nel giudizio amministrativo
339
Con il commento di Marina BINDA “Adunanza plenaria 9/2008: la reintegrazione del
danno in forma specifica nel giudizio amministrativo”
Consiglio di Stato - sez. VI
Ordin. 27 settembre 2005
Consiglio di Stato - sez.VI
Sent. 23 gennaio 2006, n.182
Corte di Cassazione - sez. un.
Civ. - Sent. 8 luglio 2007 n.13398
Corte di Cassazione - sez. un.
Sent. 18 luglio 2008, n.19809
L'esecuzione coattiva dei provvedimenti di sospensiva
Con il commento di Marco Valerio SANTONOCITO
“L'ordinanza di sospensiva del TAR e del Consiglio di Stato: tra effetto conservativo
ed effetto anticipatorio dei benefici della sentenza”
356
La natura pubblicistica delle casse previdenziali
360
Con il commento di Andrea LUBERTI
“Natura e regime giuridico delle casse di assistenza e previdenza “privatizzate” degli ordini
professionali (e considerazioni sulle persone giuridiche di diritto pubblico)
Limiti alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullita' del matrimonio
per vizio del consenso
391
Con il commento di Pietro PULCINI
“Il procedimento di delibazione delle sentenze ecclesiastiche e la nullità ex canone 1098 del
codice di diritto canonico”
GIURISPRUDENZA ECCLESIASTICA E CANONICA
introduzione - Avv. Gianni di Matteo
DIRITTO TRIBUTARIO
Commissione regionale
tributaria di Roma - sez.I
Sent. 21 maggio 2008
Mancata indicazione del responsabile del procedimento e illegittimita' delle norme
“salva-cartelle”
416
Con il commento di Saman DADMAN e Andrea PASQUALINI
“Cartella esattoriale e omessa indicazione del responsabile del procedimento”
Osservatorio sulle sentenze delle commissioni tributarie in materia
di trasferimento all’estero della residenza
Avv. Giovanni CIPOLLONE
Avv. Giovanni TRANFO
Avv. Giovanni CIPOLLONE
Avv. Angelo MIELE
Avv. Marco Valerio
SANTONOCITO
Avv. Dario DI GRAVIO
415
Diritto penale canonico e diritto penale italiano: comparazioni
419
ATTUALITA' E RECENSIONI
Il P.M.: tempesta in atto e altre nubi all'orizzonte
La commedia specchio della quotidianità: da aristofane ai giorni nostri
Ancora sulla separazione delle carriere
Gli artt. 21 octies e nonies della legge 241/1990: un caso di serendipità
nel processo avanti al TAR
La revocatoria fallimentare per i pagamenti fatti all'estero
e la giurisdizione ratione loci
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436
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EDITORIALI
C
RomanaEDITORIALE
temi
ari Colleghi, le tante battaglie e vicissitudini della nostra Avvocatura nella quotidianità dell’impegno professionale rischiano talora -a causa delle asprezze e
difficoltà che dobbiamo tutti e ciascuno affrontare- di farci dimenticare i piccoli tesori di cui dobbiamo essere gelosi ed orgogliosi.
Ed è appunto con grande orgoglio che consegno a Voi il nuovo numero ordinario della Nostra TEMI ROMANA.
Questo numero unico 2008 -ponderoso e ricchissimo- non solo ci consente, a pochissimi
giorni di distanza dal precedente numero speciale su “arbitrato e conciliazione”, di recuperare
l’arretrato che si era determinato -essendo già in preparazione i numeri del 2009- ma e soprattutto di offrire a tutti i Colleghi contenuti ancor più ricchi ed approfondimenti su tematiche di
grandissima importanza e attualità per la nostra attività professionale, oramai sempre più caratterizzata dalla specializzazione.
In questa direzione si segnalano alcune importanti e ulteriori innovazioni, che
vengono a rendere ancor più attuale e indispensabile la Nostra Rivista, in un panorama editoriale sempre più caratterizzato dalla estrema sintesi e dalla forma elettronica dei contenuti, forme che -pur rispecchiando le tendenze dei tempi e le esigenze di celerità degli utenti- non sempre si coniugano perfettamente con la necessaria ponderazione che solo un compiuto e completo approfondimento può offrire.
Pur avendo “ringiovanito” ulteriormente la grafica e la presentazione delle
tematiche, questo Numero si segnala per la sempre più ricca offerta di contenuti: accanto al graditissimo ritorno della parte dedicata alla giurisprudenza ecclesiastica
e canonica ed alla conferma della attualissima parte di diritto tributario, ho condiviso ed apprezzato che la Direzione della Rivista abbia voluto introdurre una parte
speciale di giurisprudenza dedicata alla deontologia ed alle sentenza di legittimità
che riguardano la previdenza e la professione forense.
I temi specifici della nostra professione devono essere al centro della nostra
riflessione e dei nostri approfondimenti, pena lo scadimento dei costumi e della professione, contro cui tutti ci battiamo e ci batteremo, anche per mezzo degli strumenti culturali di cui (fieramente) disponiamo.
Grazie allora ed ancora a Giovanni Cipollone, ad Andrea Melucco ed a tutti
coloro che la Rivista pazientemente forgiano, opera unica del nostro ingegno professionale di cui sono -lo voglio ripetere ancora- e dobbiamo tutti essere straordinariamente fieri, non solo perchè è la Palestra nei nostri Giovani, ma perchè è il luogo libero ed indipendente da cui si sprigiona la nostra voglia di partecipare il sapere e comunicarlo al nostro esterno, allo stesso modo in cui -finalmente- anche gli strumenti elettronici di apprendimento a distanza stanno prendendo l’avvio, in un progetto comune con gli Ordini degli Avvocati di Milano e Napoli e i loro omologhi Ordini dei Dottori Commercialisti.
L’Avvocatura è pronta dunque per le sfide culturali del Futuro: con questa voglia andremo sicuramente lontano!
Vostro
Alessandro CASSIANI
3
RomanaEDITORIALE
temi
L'’A VVOCATO DOTTO:
UN SUGGERIMENTO PER LE NUOVE
GENERAZIONI DI AVVOCATI
A
ppare opportuno ribadire che tra gli scopi primari del nostro Consiglio vi sia
quello di valorizzare la nostra professione, oltre che di intraprendere tutte le
iniziative per creare nuovi servizi in favore dell'Avvocatura e di assicurare la formazione giuridica e forense dei giovani colleghi.
Le numerose scuole forensi di specializzazione sorte in questi ultimi anni, in
qualche modo rispondono alle esigenze di preparazione professionale, ma sarebbe
opportuno incrementare ancor più l'aspetto culturale generale.
Per tale motivo il nostro Consiglio ha provveduto ad organizzare convegni,
seminari di studio, tavole rotonde, i cui temi spaziano dalla letteratura a materie
apparentemente inconferenti, quali possono essere le specifiche discipline scientifiche.
Un avvocato completo non deve mai trascurare l'aspetto culturale poiché,
nell'esercizio della professione, dovrà affrontare problematiche che abbracciano il
vasto campo del sapere.
L'avvocato “doctus” è l'ideale da perseguire.
E' questa una prerogativa del mondo romano risalente all'epoca imperiale.
In quell'epoca l'oratore, prima di tutto, era destinato a fare l'avvocato.
In realtà, nella pratica si differenziava il lavoro del giurista da quello
dell'Avvocato.
Il primo preparava gli argomenti legali e valutava gli aspetti procedurali.
L'avvocato, al di fuori della specifica tecnica giuridica, aveva invece il compito di
approfondire e amplificare gli argomenti predisposti dal giurista, vero consigliere
tecnico denominato “pragmaticus” (come ci riferisce Cicerone) con lo scopo precipuo di presentarli al giudice con voce persuasiva predisponendo gli animi alla
commozione e distaccandosi dalla ambiguità della legge.
In realtà, il lavoro dell'avvocato era da considerarsi più letterario che giuridico.
Proprio a partire dall'epoca di Cicerone, si afferma la pedagogia giuridica
che prevede un insegnamento pratico “respondentes audire”, unito ad un insegnamento sistematico “instituere”, non tralasciando le altre discipline, quale la retorica e la filosofia greca.
Inorgoglisce l'apprendere che la nostra Scuola Forense è da considerarsi la
diretta discendente di quelle scuole di quell'antica Roma che erano accanto ai
maestosi templi.
Giovanni CIPOLLONE
4
DOTTRINA
RomanaDOTTRINA
temi
Disegno, simulazione
e business process
re-engeneering del processo civile
di cognizione
Avv. Andrea FRONZETTI,
Avv. Prof Giovanni
FIGÀ-TALAMANCA
l sistema giudiziario italiano sta affrontando un periodo di profonda crisi. Le diver-
introduzione
se letture a riguardo mostrano pareri antitetici, dovuti alle diverse concezioni circa il rapporto tra politica e giustizia, e tra giustizia e cittadino. Contemporaneamente, è ormai diffusa la concezione della giustizia come servizio pubblico e del cittadino come utente, con
conseguente innalzamento delle aspettative di efficienza nel soddisfacimento degli interessi di quest’ultimo.
Il noto problema dell’eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari scaturisce da
un disequilibrio tra quantità domandata ed offerta del servizio di giustizia. La quantità
offerta dipende da variabili quali il numero dei giudici e il grado di efficienza nell’organizzazione degli uffici giudiziari, oltre che dal lavoro svolto da ciascun magistrato. Peraltro
dal lato della domanda si è rilevata l’esistenza di una “componente patologica della domanda di giustizia”, che spinge anche i soggetti consci di essere in torto a ricercare, comunque,
un confronto in sede giudiziaria. Questo fenomeno si mostra legato e favorito dalle regole
sul tasso di interesse legale e sulla ripartizione delle spese processuali e dalle previsioni
sulla durata attesa per i processi civili. A sua volta la lunghezza dei processi si mostra criticamente influenzata dalle attuali regole processuali e dalle formule di determinazione
degli onorari degli avvocati. [1]
Osservando i tempi della giustizia, l’Italia è tra i paesi con la durata media complessiva del processo civile più lunga: oltre nove anni e mezzo per tutti e tre i gradi di giudizio, circa il 70% in più della media UE. La distanza dagli altri paesi europei si accumula soprattutto nei primi due gradi di giudizio. Tuttavia, la spesa pubblica per la giustizia non
è affatto bassa ed il nostro paese risulta disporre di un numero di magistrati per abitante
anche superiore a paesi che pure mostrano performance migliori del sistema giudiziario. [1]
L’esigenza di disporre di sistemi giudiziari efficienti è nota da tempo in tutta Europa
e sul tema sono più volte intervenuti la Commissione Europea per l’Efficienza della
Giustizia (CEPEJ) ed il Comitato dei Ministri d’Europa. La CEPEJ ha fornito alcuni strumenti di uso interno per la collezione di informazioni e per l’analisi degli aspetti riguardanti le durate dei procedimenti giudiziari [2],[3],[4].
Intervenire per migliorare le performance giudiziarie risulta fondamentale se si considera che il grado di efficienza della giustizia civile ha un forte impatto sul buon funzionamento del sistema economico: nel paradigma di efficienza del funzionamento del mercato è implicito che gli scambi avvengano in parità di forza contrattuale e che i costi di
transazione siano nulli. Il costo di accesso alla giustizia ed il tempo di attesa per la risoluzione delle controversie incidono su questi due aspetti e quindi influenzano l’efficienza del-
I
7
RomanaDOTTRINA
temi
l’equilibrio raggiunto dal mercato. La lentezza della giustizia può compromettere la concorrenzialità nel mercato producendo delle distorsioni assimilabili a barriere all’entrata.
Tutto ciò determina anche un aumento dei costi di transazione ed una consequenziale perdita di benessere per la collettività. [1]
Il lavoro di ricerca presentato in questa sede si è posto l’obiettivo di analizzare il rito
civile di cognizione, per comprenderne le dinamiche ed isolarne le criticità; la peculiarità
di questo studio consiste nell’utilizzo di tecniche di business process reengineering, solitamente applicate in campo industriale, e nella rappresentazione del rito mediante piattaforme informatiche di simulazione, quali il software Rockwell Arena 7.0. Simulare il processo giudiziario si rivela una pratica utile anche per testare, a monte, il successo di ogni iniziativa riformista che ne voglia modificare il corso.
La rappresentazione delle dinamiche di flusso del processo civile di cognizione,
mediante l’utilizzo di diagrammi a blocchi (si veda l’esempio in Figura 1), costituisce il
primo passo per la modellizzazione delle attività che si svolgono in corso di causa. Si possono, infatti, immaginare le cause civili come percorsi che, partendo dall’avvio del giudizio in primo grado, giungono attraverso una molteplicità di passaggi, verso l’estinzione del
giudizio stesso.
Disegno e modello delle dinamiche di flusso
convenuto
chiama in
causa un 3°
Art. 167
Art. 269
si
Differimento
Prima Udienza
no
il 3° ne
chiama
un altro
si
no
Comparizione
Art. 181
compaiono entrambi o
manca il convenuto
nessuno compare
manca l’attore
Nuova
udienza
decisione
convenuta
chiede di procedere
altrimenti
entrambi o solo
l’attore
chi
compare
nessuno
estinzione
chiede
di procedere
Attore
chiama in
causa un 3°
Art. 269
decisione altrimenti
convenuto
FIGURA 1: Porzione esemplificativa del diagramma di flusso del processo civile di
cognizione in primo grado di giudizio
8
Per la modellizzazione e il disegno vengono adottate alcune ipotesi semplificative con l’obiettivo di dare un maggior risalto alle fasi principali del rito, ponendo in secondo piano tutti quegli elementi che risultino accessori, per una loro
importanza marginale, per una loro scarsa ricorrenza, o per l’impossibilità di un
intervento migliorativo diretto ad opera del legislatore; in tal senso sono stati esclusi eventi quali, ad esempio, il decesso delle parti in causa, dei loro rappresentanti,
o dei giudici. Operare in tal modo permette, senza perdita di generalità, di interpretare i risultati in un’ottica di miglioramento delle performance e di intervento
diretto sui punti critici del processo, prescindendo da un’analisi minuta delle tempistiche all’interno delle micro-aree di processo.
Avere una globale ed omogenea visione delle dinamiche processuali, permette, già a livello strutturale, di identificare i punti soggetti a criticità quando la
domanda di giustizia è cospicua e le risorse giudiziarie sono disponibili in quantità limitata. Passare dalla rappresentazione statica dei diagrammi di flusso alla simulazione del rito, permette, invece, di comprendere gli andamenti reali e di isolare i
punti di maggiore inefficienza (colli di bottiglia) del processo. Simulare risulta,
altresì, essenziale per individuare le risorse necessarie per un corretto svolgimento
del rito, per avere una valutazione dei tempi e per testare l’efficacia degli interventi di riforma pregressi e futuri; il tutto anticipando di diversi anni il riscontro ottenibile da un’analisi statistica dei dati, peraltro molto onerosa sia dal punto di vista
dei tempi, che dei costi.
Domanda
di Giustizia
in Primo
Grado
Fase
iniziale
Numero cause avviate
Fase
istruttoria
0
Sentenza
di Primo
Grado
Decisione
della
Causa
Giorni trascorsi
0
% Cause giunte a sentenza di Primo Grado
0
.
0
0
0
% Cause estinte per mancata comparizione delle parti
0
.
0
0
0
% Cause estinte costituzione irregolare
0
.
0
0
0
% Cause estinte per concillliazione
0
.
0
0
0
numero cause avviate e non ancora estinte
0
FIGURA 2: Primo livello del modello di simulazione costruito tramite il software Rockwell
Arena 7.0
9
RomanaDOTTRINA
temi
Quando si parla di efficienza della giustizia civile, si fa riferimento a tre dimensioni
principali rispetto alle quali si può calcolare il grado di efficienza stessa: la verità, ovvero la
correttezza del giudizio, il tempo ed il costo pubblico e privato del giudizio. Si nota subito
come la prima dimensione sia poco compatibile con le atre due e come un’ottimizzazione
congiunta di tutte e tre non sia possibile. Si dovrà dunque trovare un giusto trade-off. Può
risultare ovvio che un’offerta di giustizia superiore alla domanda consentirebbe di risolvere
i processi in tempi più brevi, ma comporterebbe al contempo una sottrazione di risorse ad
altri servizi pubblici.
Invero, la ricerca della correttezza del giudizio si traduce nel garantire ad entrambe le
parti il diritto di portare all’attenzione del giudice tutte le argomentazioni e le prove a sostegno delle proprie ragioni. A parità di altre condizioni, quanto più ampie sono le garanzie di
questo diritto, tanto più lunghi sono i tempi necessari al giudice per esaminare la documentazione consegnata e per ascoltare parti e testimoni, più alta è la spesa che lo Stato deve
sostenere e più alti sono i costi privati delle parti [1]; di tutto ciò si deve tener conto durante gli interventi di business process reengineering, che non possono andare a discapito della
correttezza del giudizio. Nondimeno, il tempo emerge come fattore chiave per la valutazione dell’efficienza dei processi e quindi ci si concentra su di esso, e sulle variabili che lo
influenzano, per un’ottimizzazione nel rispetto di tutti gli elementi finora considerati.
Al fine di individuare i parametri necessari per un corretto funzionamento dei modelli realizzati, è stata condotta una campagna di misura, durante i mesi di agosto e settembre
2007, presso le sedi dei Tribunali civili di Roma e Pistoia. Nell’indagine, si è scelto di limitarsi a considerare lo svolgimento del primo grado di giudizio per le controversie aventi
come oggetto questioni di diritto societario ed industriale, focalizzandosi, in tal modo, su
quei contenziosi i cui esiti hanno un maggiore impatto sul sistema economico. Preso atto
delle disponibilità degli uffici giudiziari, sono state esaminate le cause iscritte a ruolo nell’anno 2000 presso il Tribunale di Roma e quelle iscritte a ruolo negli anni 1998,1999, 2000
e 2001 presso il Tribunale di Pistoia. Partendo dai dati raccolti è stato isolato un campione
di 150 cause, evidentemente non statisticamente significativo ma sufficiente a testare il
modello. Va evidenziato che le cause esaminate rientrano tra quelle iscritte a ruolo prima
dell’entrata in vigore, sia del nuovo rito societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5.), sia delle
numerose riforme susseguitesi negli anni 2005–2006 (L. 80 /2005; L. 263/2005; L. 51/2006;
D.lgs. 5/2006; D.lgs. 25/2006; D.lgs. 40/2006; d.lgs. 5 /2003). Gli impatti di tali interventi
legislativi, non possono, allo stato attuale, essere valutati attraverso un’indagine statistica e
meritano una riflessione separata che verrà illustrata a seguire.
I valori frutto della campagna di misura non hanno la pretesa di rivelarsi rappresentativi a livello nazionale, ma devono intendersi come supporto per l’illustrazione dell’approccio metodologico dei modelli. Nondimeno, ampliando il campione si dispone già degli
strumenti che permettono di progettare la reingegnerizzazione delle dinamiche processuali.
Ancora, le indicazioni statistiche finora raccolte si rivelano utili e permettono di esaminare
gli andamenti dei fenomeni alla base delle varie fasi del processo (si veda l’esempio in
Figura 3).
Esiti della campagna di misura.
10
Tra i numerosi dati raccolti è interessante soffermarsi: sulla durata media delle controversie, pari a circa 991 giorni; sul numero medio di udienze totali per processo, 6,57 circa;
sulla distanza media tra due udienze successive, pari a circa 148 giorni. Per quanto concerne le principali cause di estinzione riscontriamo che: circa il 57% dei processi esaminati è
giunto a sentenza di primo grado, circa il 37% si è estinto per mancata comparizione delle
parti e circa nell’1,5% dei casi si è arrivati ad una conciliazione giudiziale.
Durata delle cause
7
giorni 68
22
296
22
523
20
750
22
978
11
1205
12
1433
7
1660
4
1888
3
2115
3
2343
2570
FIGURA 3: Istogramma delle durate delle cause civili rispetto ai dati aggregati raccolti presso i
Tribunali di Roma e Pistoia (grafico proposto a titolo esemplificativo)
Esiti dei processi
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Sentenza
Cancellazione
Non estinte
Altro
FIGURA 4: Istogramma rappresentativo degli esiti dei processi rispetto ai dati aggregati
raccolti presso i Tribunali di Roma e Pistoia
11
RomanaDOTTRINA
temi
Le due principali cause d’estinzione sono risultate essere, dunque, la sentenza di primo grado e la cancellazione per non comparizione delle parti. Quest’ultimo
evento assume un’importanza notevole se si pensa che, nella pratica, quando cessa
la materia del contendere, oppure quando le parti decidono di accordarsi o di rinunciare alla lite, spesso viene “pianificata” di comune accordo la non comparizione;
si ottiene, così, la cancellazione della causa senza dover procedere per vie più formali ed onerose. Se si esaminano poi le tipologie di udienze in cui si è verificata
l’estinzione per mancata comparizione, si scopre come la maggior parte delle cancellazioni (oltre il 60%) si è concentrata verso la fine della fase istruttoria o quando le parti sono invitate alla precisazione delle conclusioni: in tali stadi, gli avvocati, che si sono presumibilmente già fatti un’idea riguardo i possibili esiti del contenzioso, possono trovare conveniente la cancellazione della lite, cercando una
soluzione alternativa fuori dalla sede giudiziaria. Le parti vengono, così, sollevate
dagli oneri del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica e
dalle attese per la decisione della causa e per l’attuazione della sentenza (che peraltro sarebbe soggetta ad impugnazioni). Ancora, circa il 30% delle estinzioni per
non comparizione si è verificata in prima udienza di trattazione; in questi casi si
può presumere una presa coscienza delle parti riguardo l’inconsistenza della lite.
Udienze in cui si verifica l’estinzione per mancata comparizione
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
Prima
Trattazione
Tipo di udienza
Istruttorie
Conclusioni
FIGURA 5: Istogramma rappresentativo delle udienze in cui si verifica l’estinzione della
contesa per mancata comparizione delle parti.
Le riflessioni appena riportate trovano conferma nei valori del numero medio
di udienze per processo (6,6 circa, stando alle analisi statistiche sul nostro campione), che risultano pressoché gli stessi, sia per le contese cancellate che per quelle
giunte a sentenza; la connessione è evidente se si pensa che l’udienza che di solito
viene utilizzata per rimettere la causa in decisione, nei procedimenti cancellati corrisponde a quella rinviata per mancata comparizione, in cui la causa si estingue.
12
Numero di udienze dei processi cancellati
25%
20%
15%
10%
5%
0%
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
Numero di udienze
FIGURA 6: Istogramma del numero di udienze dei processi estinti per cancellazione a
seguito della mancata comparizione della parti.
Numero di udienze dei processi a sentenza
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Numero di udienze
FIGURA 7: Istogramma del numero di udienze dei i processi giunti a sentenza.
Viceversa, i valori delle durate medie sono risultati inferiori del 19,54% per
i processi cancellati rispetto a quelli giunti a sentenza; tale discrepanza origina dal
venir meno, con la cancellazione, delle attese per il deposito delle sentenze e di
quelle associate al decorso dei termini propri della fase di decisione. Tale riduzione dei tempi si riflette anche in un minor carico di lavoro per magistrati ed avvocati.
13
RomanaDOTTRINA
temi
Questo tipo di esito del processo assume una notevole importanza e va, dunque, considerato attentamente, anche nella prospettiva di interventi di reingegnerizzazione; si noti come le udienze in cui nessuna parte si presenta costituiscano un
cattivo impiego delle risorse giudiziarie. Peraltro, la cancellazione deve considerarsi un evento positivo, non solo per la riduzione dei carichi di lavoro, ma anche come
riprova dell’efficacia del sistema giudiziario. Infatti, il sottoinsieme delle cause cancellate può intendersi costituito, in gran parte, da procedimenti per i quali si è giunti ad un accordo. E si può osservare che le regole processuali in questa prospettiva
possono fungere da cornice di negoziazione, spingendo le parti a produrre tutti gli
argomenti e gli elementi che poi consentiranno di trovare una via di soluzione della
controversia: non a caso la maggior parte delle estinzioni si verificano dopo la fine
dell’istruttoria.
Se a valle delle indagini statistiche si è giunti a considerazioni d’insieme interessanti, attraverso la simulazione si è potuta approfondire la dinamica del processo, per individuare i punti di maggiore criticità, nonché per una valutazione preliminare degli ultimi interventi di riforma, intervenuti negli anni 2005 e 2006. Si
osserva peraltro che gran parte della riforma è incentrata sulle regole, ignorando
nodi critici quali la carenza di risorse e la cattiva gestione di quelle esistenti ed
anche la mancanza di un’adeguata cultura dell’organizzazione.
Al fine di un’analisi comparativa sono stati costruiti due modelli: l’uno rappresentativo del processo civile di cognizione anteriore alle riforme degli anni
2005-2006, l’altro rappresentativo del rito di cognizione successivo a dette riforme.
Non viene presentato in questa sede il modello del rito societario attualmente in
vigore; infatti, l’assenza di una base di dati rilevante all’interno del nostro campione ne impedisce la validazione. Nondimeno, attraverso i due modelli in esame si
possono effettuare delle considerazioni di base estendibili al nuovo rito societario,
che potranno essere successivamente verificate mediante l’ampliamento dei modelli stessi.
Osservando i risultati della simulazione si nota come le numerose riforme del
codice di procedura civile non siano idonee a migliorare sostanzialmente la situazione preesistente; al contrario le durate dei contenziosi sembrano aumentare di
circa un mese. Per ciò che concerne le varie fasi, nel nuovo rito, i tempi che precedono la fase Istruttoria si riducono mediamente di circa il 21%, mentre quelli delle
fasi istruttoria e di decisione aumentano rispettivamente di circa l’11,8 ed il 14 percento; le riforme introdotte si rivelano, pertanto, inefficaci per la riduzione dei
tempi di processo. Sembra, allora, che gli incrementi di performance scaturenti dall’eliminazione della prima udienza di trattazione, che viene inglobata nella “Prima
comparizione delle parti e trattazione della causa”, siano solo fittizi: le “cause in
coda” che affollano le agende dei giudici sono, di fatto, slittate verso le udienze di
“Assunzione dei mezzi di prova” e successivamente verso quelle per la precisazioRisultati della simulazione.
14
ne delle conclusioni. Le riforme non hanno modificato in modo sostanziale le dinamiche procedurali, ma sembrano piuttosto aver incrementato le attese in condizioni di risorse scarse: il vecchio rito, infatti, risponde con tempi leggermente migliori rispetto al nuovo (anche in condizioni di risorse ottimali).
In entrambi i modelli la causa principale dell’allungamento dei processi risiede nella congestione delle agende dei giudici: la riprova è nella percentuale di
tempo medio in attesa1, rispetto alla durata totale del processo (la percentuale oscilla tipicamente tra il 73 e l’84 percento); più questo valore è alto, più si evidenzia la
relazione appena esposta.
Peso dei tempi medi di attesa rispetto ai tempi medi totali
84%
82%
80%
78%
76%
74%
72%
70%
68%
66%
4
5
6
7
8
9
FIGURA 8: Istogramma dei tempi medi di attesa per la disponibilità del giudice a ricevere le
parti in udienza.
Un’altra conferma si trova nell’aumento di dette percentuali al crescere degli
orizzonti di simulazione. Infatti, i tempi per il decorso dei termini di legge e quelli per lo svolgimento delle udienze rimangono pressoché costanti, mentre sempre
un maggior contributo alle durate viene prodotto dai tempi di attesa1. Studiando gli
andamenti delle durate totali dei contenziosi, al variare del periodo di simulazione,
si nota come si accumulino sempre più cause pendenti, che incrementano a loro
volta le attese, instaurando un circolo vizioso che si autoalimenta. Valori limite
delle durate sono già stati raggiunti ed è necessario intervenire tempestivamente per
1 Per “tempo medio in attesa” si intende quel tempo in
cui, decorsi gli eventuali termini disposti per legge, le
parti sono costrette ad attendere “passivamente”,
ovvero senza svolgere attività che rappresentino un
valore aggiunto per la contesa, la disponibilità del
giudice a riceverle in udienza.
15
RomanaDOTTRINA
temi
bloccare una situazione di crisi profonda, in cui le code sono destinate a crescere
all’infinito.
Andamento delle durate nel tempo
1600
1400
Durata dei processi (giorni)
1200
1000
800
600
400
200
0
4
nuovo rito
vecchio rito
5
6
7
8
9
Anni di simulazione
FIGURA 9: Istogramma delle durate delle cause civili all’aumentare
dell’orizzonte temporale di simulazione.
Per quanto riguarda le percentuali di tempo speso in udienza rispetto alle
durate totali, si vede come queste si attestino quasi sempre sullo 0,01% ed abbiano
quindi un peso molto ridotto. Tuttavia, la variazione dei tempi riservati alle udienze ha un forte impatto su tutto il sistema: allungarli, come avviene per la prima
udienza nel nuovo rito in vigore, significa consentire ai giudici di trattare giornalmente un numero inferiore di cause, andando ad aumentare anche di molto le code
nelle agende e le relative attese; nondimeno, prevedere udienze di durata troppo
breve va ad inficiare il fattore verità del giudizio e nega al giudice la possibilità di
prepararsi alla trattazione di ciascun contenzioso in tempi ragionevoli.
Dalla simulazione emerge chiaramente che il problema della durata del processo è determinato non tanto dall’inadeguatezza delle norme che regolano lo svolgimento del rito civile di cognizione, ma soprattutto dalla carenza di risorse all’interno dei tribunali. I modelli del nuovo e del vecchio rito civile reagiscono in modo
affine alla variazione delle risorse disponibili, per cui si stima per entrambi la
necessità dello stesso organico: riferendosi al campione su cui si è svolta la simulazione, il numero di giudici necessari ad evitare la formazione di code è pari ad un
16
giudice ogni 213 nuove cause iscritte a ruolo nell’anno solare. Disponendo di tali
risorse si potrebbero risolvere le contese in tempi ideali medi di 11 mesi circa, stabilizzando la lunghezza delle code su valori costanti e non più crescenti nel corso
del tempo. Inoltre, se si ottimizzano le risorse, le percentuali dei tempi di attesa si
riducono drasticamente. Con un numero sufficiente di giudici, è possibile gestire,
per un certo margine, anche arrivi imprevisti o contenziosi la cui trattazione risulti
più onerosa; parimenti, potrebbero essere gestite situazioni anomale di carico, grazie ad un piccolo sforzo di lavoro extra.
Un miglior impiego delle risorse potrebbe essere ottenuto anche solo ridistribuendo i magistrati tra le diverse sedi giudiziarie; si ridurrebbe così la necessità di lavoro straordinario ed il fabbisogno di nuovo organico. Un accorpamento di
alcune sedi sarebbe, altresì, auspicabile, per poter sfruttare gli effetti positivi delle
economie di specializzazione.[1]
La forte correlazione tra le durate ed il numero di risorse disponibili può
essere vista, sia come un vantaggio, che come un limite: da una parte è sufficiente
un aumento del numero dei magistrati per migliorare le performance giudiziarie,
senza dover ricorrere a complesse riforme del codice; dall’altra l’aumento degli
organici trova un limite nelle strutture e nei budget di spesa massimi, spesso già
superati. Nondimeno, un’ulteriore riforma delle regole procedurali, così come l’attuazione di una migliore politica amministrativa, potrebbero permettere il raggiungimento di rendimenti ideali con fabbisogni ridotti.
Lo studio finora condotto mostra come si rende sempre più necessario un
processo di monitoraggio continuo delle performance giudiziarie, per isolare di
volta in volta le criticità e prevedere misure correttive mirate e tempestive. Il supporto al controllo dovrà giungere da piattaforme informatiche più efficienti che
consentano analisi di dati automatiche ed in tempo reale; sarà utile, altresì, ricorrere alla simulazione per prevedere gli esiti di eventuali innovazioni e valutare al contempo l’evoluzione dei sistemi nel tempo. Il legislatore stesso quando si appresti ad
opere di riforma dovrebbe essere assistito da un team con competenze multidisciplinari, che lo aiuti a valutare gli impatti dei cambiamenti introdotti sotto differenti aspetti, se si vuole che la iniziative di riforma delle regole processuali e delle
politiche di gestione delle risorse siano coerenti con lo scopo del miglioramento dei
servizi offerti ai cittadini.
Da qui il suggerimento di alcuni spunti di base che potranno trasformarsi, in
proposte operative per nuovi intenti riformisti. Si propone:
u di minimizzare l’intervento del giudice nelle fasi dopo le quali le parti più spesso rinunciano al processo e di esternalizzare, al contempo, le attività che possono
essere svolte fuori udienza. Ridurre il numero di udienze è un passo importante per
decongestionare le agende dei giudici e per ridurre i relativi tempi di attesa. E’ fondamentale un’analisi dettagliata di ciascuna delle attività che si svolgono in udienProposte di re-engeneering.
17
RomanaDOTTRINA
temi
za per capire quali di queste potrebbero espletarsi in momenti differenti ed eventualmente prescindendo dalla presenza dei magistrati. Esempi di tali attività sono il
giuramento del CTU ed il deposito delle perizie, che forse non meritano un’udienza apposita, e potrebbero compiersi per iscritto con successivo deposito in cancelleria, salvo il diritto delle parti e del giudice di richiedere maggiori chiarimenti
riguardo le valutazioni del CTU. Allo stesso modo, quando le parti decidano di
giungere ad una conciliazione giudiziale, l’accordo potrebbe essere redatto e sottoscritto direttamente dagli avvocati e successivamente depositato in cancelleria,
senza ricorrere ad un’udienza in cui si forma processo verbale esecutivo: infatti, se
per il rito in vigore, viene simulato il provvedimento che rende possibile il raggiungimento di un’intesa tra le parti, senza dover passare per l’udienza di cui
all’art. 185 c.p.c., si riscontra una diminuzione dei tempi medi di processo pari a
circa il 2,6%. Il valore, benché non particolarmente elevato, rappresenta un piccolo passo verso la riduzione delle durate delle controversie;
u di ridurre il numero di rinvii nella fase istruttoria poiché tra le principali cause
di congestione nelle agende dei giudici. La frequenza delle disposizioni di rinvio
può essere abbattuta anticipando, come già avviene con le nuove norme, l’indicazione dei mezzi di prova e concentrando le prove da assumere in meno giornate.
Anche la presenza di cancellieri e di personale di supporto al giudice ed alle parti
può coadiuvare la riduzione del numero di udienze istruttorie. La simulazione
mostra come, ad esempio, già riducendo del 20% i rinvii connessi alle attività del
CTU ed alla necessità di proseguire nell’assunzione dei mezzi di prova (art. 202
c.p.c.), si ottiene una riduzione dei tempi medi totali di processo di circa l’8,6%;
u di rivedere la prassi associata alla non comparizione delle parti, quando questa
costringe i magistrati a dissipare il loro tempo presenziando a due udienze in cui
nessuna delle parti si presenta. Lo spazio riservato alla seconda udienza potrebbe
essere riallocato per la trattazione di altre cause. Si suggerisce di procedere con una
riforma che permetta al giudice di disporre la cancellazione della causa al primo
episodio di non comparizione congiunta delle parti. Ai contendenti, in caso di
assenza accidentale, verrebbe concessa la possibilità, entro trenta giorni, di chiedere la riassunzione. Se si analizzano, attraverso il simulatore, i vantaggi di tale riforma rispetto ad un orizzonte temporale di 5 anni, si ottiene una riduzione dei tempi
medi totali di processo di circa l’8,7%.
u E’ importante notare come alcuni tra gli spunti considerati già trovino applicazione nel nuovo rito societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n.5). Infatti, le nuove norme
procedurali si rivelano efficaci nell’escludere l’intervento dei giudici nelle fasi preliminari del processo, in cui le parti producono le domande, le eccezioni ed indicano i principali mezzi di prova. Si noti come il convenuto già nella comparsa di
risposta, ai sensi dell’art. 4 comma 1, deve «proporre tutte le sue difese prendendo
posizione sui fatti proposti dall’altra parte a fondamento della domanda, indicare
18
i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, a
pena di decadenza, deve proporre le domande riconvenzionali dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come
mezzo di eccezione e dichiarare di voler chiamare in causa i terzi ai quali ritiene
comune la causa o dai quali pretende di essere garantito precisandone le ragioni;
deve formulare le conclusioni». L’attore successivamente può «replicare con
memoria notificata al convenuto e depositata in cancelleria» (art. 6 comma 1) ed
ulteriori repliche possono seguire ai sensi dell’art. 7. In questo modo, i magistrati
vengono chiamati ad esaminare la documentazione presentata dalle parti e a decidere della causa, senza dover assistere ad serie di attività che possono essere svolte preventivamente dagli avvocati. La prima udienza sarà, dunque, un’udienza
istruttoria o, nella migliore delle ipotesi, di precisazione delle conclusioni. Tre i
principali effetti positivi:
u la non prosecuzione in giudizio di quelle domande che si rivelano inconsistenti
e che pertanto conducono ad una estinzione della contesa, presumibilmente, prima
di giungere all’istanza di fissazione di udienza;
u la riduzione delle problematiche connesse alla non comparizione delle parti.
Infatti, dovendo i contendenti anticipare per iscritto quasi tutto il materiale necessario alla trattazione, potranno, altresì, farsi un’idea dei possibili esiti della contesa anticipatamente la prima udienza; questo può spingere alla pianificazione di un
accordo prima dell’incontro con il giudice e può evitare, in molti casi, la cancellazione per non comparizione. Stando alle analisi sul campione, si ridurrebbe significativamente il numero di processi che richiedono l’intervento dei magistrati: del
38,35% considerando il totale dei processi estinti per non comparizione; o come
minimo del 14,29% considerando le cause estinte per non comparizione prima dell’inizio della fase istruttoria;
u il recupero di efficienza nell’impiego dei magistrati, sollevati da carichi di lavoro superflui e dagli sprechi di tempo lavorativo associati alle occorrenze di cui ai
primi due punti.
Coerentemente con quanto riscontrato dallo studio dei modelli oggetto di
questa ricerca, si possono prevedere per il nuovo rito societario un accorciamento
dei tempi di processo, una diminuzione delle congestioni nelle agende dei giudici
ed una maggiore efficacia del sistema nel filtrare le domande inconsistenti e nell’incentivare il raggiungimento di accordi tra le parti con l’impiego minimo della
risorsa giudice. Una conferma di quanto anticipato potrà ricercarsi in uno studio di
performance, da effettuare tramite il simulatore o tramite delle analisi statistiche
mirate, non appena si disponga di una base di dati significativa.
Le questioni finora rilevate richiedono un’attenzione prioritaria poiché sono
quelle che maggiormente contribuiscono alla generazione di condizioni di inefficienza e criticità. La rimozione delle sacche d’inefficienza del processo abbisogna
19
RomanaDOTTRINA
temi
di interventi mirati e tempestivi; a supporto di tali azioni possono aggiungersi altri
spunti di riforma già presenti in letteratura, tra i quali si segnalano:
u il bisogno di razionalizzare l’impiego delle risorse, giacché quelle attualmente a
disposizione delle sedi giudiziarie non sono sufficienti per uno smaltimento adeguato dei carichi di lavoro che si accumulano ogni anno. Vi è carenza di giudici,
cancellieri, personale del tribunale ed anche di strutture e di mezzi informatici. Il
mero aumento degli organici si rivela una soluzione insoddisfacente poiché, senza
eliminare alcuna criticità, va ad aumentare i costi, attingendo a risorse economiche
che non sono al momento disponibili. Allora è indispensabile riorganizzare l’esistente più che aggiungere del nuovo. Si potrebbe partire da una seria revisione della
geografia giudiziaria, accorpando più sedi e ridefinendo le distanze massime attualmente previste. Il tutto potrebbe essere attuato senza perdita di soddisfazione da
parte dei cittadini che, in virtù dell’evoluzione dei mezzi di trasporto, raggiungerebbero le sedi di appartenenza negli stessi tempi medi [1]. Tale accorpamento si
rivela fondamentale anche per favorire la specializzazione nell’attività dei magistrati, la cui crescita professionale è affidata, nel nostro ordinamento, principalmente a processi di learning by doing. Il tutto permetterebbe di trattare, con più
efficacia e rapidità, un numero maggiore di cause ogni anno, riducendo i procedimenti pendenti, ma soprattutto riducendo le percentuali di tempo speso per l’attesa
delle disponibilità dei giudici;
u la proposta di disporre il vaglio preventivo delle citazioni in giudizio, tramite un
magistrato preposto a tale compito, al fine di: filtrare tutta quella parte di domanda
di giustizia che si rivela pretestuosa o inconsistente; ciò consentirebbe di limitare i
passaggi di competenza e le sospensioni processuali che da essi originano e di allocare in maniera ottimale i carichi di lavoro;
u la necessità di adeguamento del tasso di interesse legale al tasso di mercato. Infatti,
esiste una componente “patologica” della domanda di giustizia quando la parte conscia di essere in torto trova convenienza nel farsi fare causa: dilazionando nel tempo
i pagamenti dovuti si possono ottenere sovrapprofitti, dati dalla disponibilità di capitale da investire. Per arginare tali comportamenti, il tasso di interesse legale dovrebbe essere adeguato ex-post ai tassi di mercato occorsi durante il periodo di trattazione (ad esempio a quelli dei Bot) [1];
u l’urgenza di ridefinire la tariffa forense, per poterla slegare dal numero di attività svolte nell’ambito del processo; tale legame, infatti, si rivela una determinante di
grande rilevanza della complicazione e della lunghezza delle cause, ma anche un
impedimento risolutivo nei tentativi di riforma del rito civile che comportano una
sostanziale riduzione del numero di udienze. Una formula efficace richiede che l’onorario sia in somma fissa, eventualmente subordinato alla vittoria della causa e
comunque proporzionato al valore della contesa. E’ di minore importanza se sia
20
libero o regolamentato, purché sia consentito al difensore di ottenere, in analogia a
quanto previsto nell’ordinamento tedesco, i due terzi dell’onorario relativo all’intera controversia se le parti giungono ad una transazione prima dell’avvio del processo o, al massimo, entro la prima udienza [1];
u l’intento di rivedere le politiche di ripartizione delle spese processuali in modo
tale che le eccezioni di cui all’art. 92 c.p.c., inerenti la compensazione delle spese
tra le parti, siano applicate solo per occorrenze straordinarie e dietro giustificato
motivo. Inoltre, quando si accerti la responsabilità aggravata, di cui all’art. 96
c.p.c., bisognerebbe prevedere pene pecuniarie molto più ingenti, definendo al contempo una soglia minima di risarcimento, da dividere tra le parti danneggiate e le
casse della sede giudiziaria coinvolta. I fondi così raccolti costituirebbero delle
risorse in più, da impiegare per il miglioramento dei servizi offerti.
u Infine, si consideri che i possibili interventi di riforma suggeriti in questa sede si
mostrano correlati l’un l’altro, per cui i benefici introdotti da ognuno crescono più
che proporzionalmente quando le azioni di risanamento coinvolgono più temi tra
quelli esposti. Le variabili, da considerare per la reingegnerizzazione, sono disposte in modo “circolare” e non “sequenziale”, essendo ognuna causa ed effetto delle
altre. Il legislatore dovrà seguire un approccio basato sul pensiero sistemico [5], non
potendo più prescindere da una valutazione degli impatti globali di ogni modifica
specifica delle norme procedurali.
L’articolo sesto della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali” recita: «Ogni persona ha diritto a che la
sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta.[…]». Quando l’articolo non
viene rispettato i cittadini ricorrono al Consiglio d’Europa e chiedono i danni; tra
gli stati europei l’Italia è prima in assoluto: 1648 condanne solo nel periodo 19992006 e quasi tutte a causa dell’eccessiva durata dei processi.
Il Comitato dei Ministri d’Europa, con la risoluzione del 14 febbraio 2007,
prende atto dei numerosi sforzi delle autorità italiane nel aver adottato molte riforme e misure specifiche per ridurre i tempi della giustizia, ma sottolinea che ancora
non si riscontra nessun risultato soddisfacente.
Nonostante le attese siano inevitabili, la durata dei procedimenti giudiziari
deve risultare prevedibile ai cittadini, quali utenti di un servizio. Le corti dovrebbero, inoltre, poter reagire in modo autonomo e più flessibile alle richieste, promovendo l’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche.
Le analisi portate a termine mostrano, come un approccio solamente giuridico non sia di per sé sufficiente, se non supportato da un agire fondato su basi scienConclusioni.
21
tifiche che permettano una gestione razionale delle politiche decisionali. Pertanto,
uno studio che segua un approccio sperimentale e multidisciplinare sembra condizione imprescindibile per il risanamento del sistema giudiziario italiano.
La nostra prima indagine sperimentale, focalizzata sul processo civile di
cognizione, evidenzia come le principali criticità risiedano nelle congestioni delle
agende dei giudici e siano dovute per lo più alla scarsità di risorse e solo parzialmente alle dinamiche indotte dalle norme procedurali: in mancanza di adeguati
interventi l’andamento crescente dei tempi di attesa e del conseguente accumulo di
code porterebbe, in estrema analisi, ad una durata infinita delle cause.
Peraltro, si sono individuati alcuni interventi puramente normativi che
potrebbero condurre a miglioramenti significativi senza incremento delle risorse
disponibili: ad esempio, si è visto come, rivedendo le prassi associate alla non comparizione delle parti ed alla disposizione dei rinvii per le udienze istruttorie, sia
possibile ottenere miglioramenti notevoli nei tempi di processo. Viceversa non
sembra che si possano ottenere risutlati con la mera la riduzione dei termini processuali. Infatti, è stato dimostrato come le criticità non risiedano nella lunghezza
di quest’ultimi quanto piuttosto nella carenza di risorse ed in quelle norme che troppo spesso agevolano i rinvii ad altra udienza.
L’uso delle tecniche di business process reengineering e della simulazione
potrà dare un contributo fondamentale alle iniziative di riforma, consentendo di
isolare le variabili che maggiormente incidono sulle performance giudiziarie e definendo, al contempo, i valori obiettivo delle stesse. Alle riforme del codice dovranno seguire interventi riorganizzativi profondi che interessino le sedi giudiziarie in
tutti i loro aspetti, sempre individuando con precisione le carenze poiché un contesto di risorse limitate richiede interventi accuratamente mirati.
Note
[1] Daniela Marchesi, “Litiganti, avvocati e magistrati. Diritto ed economia del processo civile”, Bologna, il Mulino, 2003
[2] European Commission for the Efficency of Justistice, A new objective for judicialsystems: the processing of each case
within an optimum and foreseeable timeframe, Strasburgo, 13 Settembre 2005
[3] European Commission for the Efficency of Justistice, Time management checklist, Strasburgo, 9 Dicembre 2005
[4] European Commission for the Efficency of Justistice, Pratical ways of combating delays in the justice system, excessive
workloads of judges and case backlogs, Strasburgo, 8 Aprile 2004
[5] Peter Senge, The Fifth Discipline: The art and practice of the learning organization, New York, Doubleday, 1990
22
RomanaDOTTRINA
temi
Il diritto alla tutela
giurisdizionale
alla luce della dichiarazione universale
dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948
Prof. Avv. Piero SANDULLI
1. Posizione del problema. – 2. Le ipotesi relative alla tutela contenute nella Dichiarazione. – 3. I principi relativi alla tutela contenuti nella nostra Carta costituzionale. – 3a. Il “Giusto processo” – regolato dalla legge. – 3b. La ragionevole
durata. – 3c. Il processo dovuto garantito dalla Costituzione Italiana. – 4. Conclusione.
Sommario:
ell’anno in cui contemporaneamente si ricordano i sessant’anni dall’entrata in
1. Posizione del problema.
vigore della Costituzione italiana (1° gennaio 1948)1 e la firma della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, avvenuta il 10 dicembre 19482, è
necessario interrogarsi sulla effettiva attuazione, in tema di tutela delle situazioni
giuridiche protette, delle norme contenute nelle disposizioni di tali normative.
E’ evidente, al riguardo, che la normativa approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1948, ha una portata precettiva più ampia,
essendo destinata a dettare i principi che stabiliscono i caratteri e le tutele dell’uomo libero, ma è altrettanto chiaro che, in tema di tutela delle situazioni giuridiche protette, l’attuazione di detti principi transita necessariamente attraverso la
normativa nazionale ed, in particolare, per quanto riguarda l’Italia, prende le
mosse da quanto prescrive la nostra Carta costituzionale.
N
2. Le ipotesi relative alla tutela contenute
nella Dichiarazione.
Gli articoli che riguardano la tutela dei diritti, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, vanno dal sei all’undici e devono essere esaminati puntualmente al fine di verificare quali essi siano in concreto.
L’articolo 6, nel ricordare che “ogni individuo ha diritto in ogni luogo al
riconoscimento della sua personalità giuridica”, sottolinea la necessità di assegnare una tutela piena ed illimitata ai diritti personalissimi dell’individuo, che non pos1 La Costituzione della Repubblica Italiana, approvata
dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947,
promulgata dal capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre
1947, è entrata in vigore il primo gennaio 1948.
2 L’Italia ha firmato la convenzione a Roma il 4 novembre
1950 e la ha ratificata, unitamente al protocollo
addizionale di Parigi del 20 marzo 1952, con la legge del 4
agosto 1955, n. 848. Successivamente, con la legge del 28
agosto 1997, n. 296 è stato recepito il protocollo del 1994,
n. 11, alla Convenzione, relativo alla revisione del
meccanismo di controllo.
23
RomanaDOTTRINA
temi
sono subire alcuna compressione o limitazione derivante da ragioni di sesso, razza
e religione.
Il successivo articolo 7 richiama, in parte, il concetto già espresso dall’articolo precedente ampliandone la portata oltre il limite dei diritti della persona;
esso, infatti, chiarisce che “tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto,
senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti
hanno un’eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente
Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione”. In tal
modo, la normativa in parola, non si limita a ribadire il principio fondamentale
della eguaglianza tra gli individui, ma richiama, anche, la necessità che venga
contestato il solo incitamento alla discriminazione da cui può derivare, nei fatti,
una intollerabile limitazione della libertà degli individui.
L’articolo 8 sancisce che “ogni individuo ha diritto ad una effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti
fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge”.
La norma citata traccia un rapporto consequenziale tra la Dichiarazione e
la normativa nazionale, ricordando come la effettiva tutela viene veicolata dai
giudici nazionali nei limiti della Costituzione e delle leggi dei singoli Stati. Tale
principio, in se di tutta evidenza (non potendo la Dichiarazione incidere sulla
sovranità nazionale degli Stati e non potendo non essere ascritta la tutela, in
materia di diritti dell’Uomo, al potere giurisdizionale che è attribuito per “legge
naturale” agli Stati), segnala, però, chiaramente, i limiti della Dichiarazione stessa, i cui dettami, per essere attuati, necessitano di essere recepiti dalle normative
dei diversi Stati.
In mancanza, finirebbero, fino a quel momento, per essere mere petizioni
di principio valide, sul piano filosofico tendenziale, a disegnare una “utopica
società”, ma prive di una loro immediata e concreta precettività.
L’analisi dei principi contenuti nella Dichiarazione dovrà essere, quindi,
effettuata alla luce delle capacità che ogni costituzione e/o normativa nazionale
ha, al fine di recepirne il contenuto e nella valenza stessa che la Dichiarazione
esercita, al fine di incidere sulla normazione dei singoli Stati, per determinarne
un contenuto atto a recepire ed enfatizzare i principi da questa dettati.
Prima di compiere tale analisi è, però, opportuno completare la disamina
degli articoli che la Dichiarazione del dicembre del 1948 dedica alla tutela delle
situazioni giuridiche protette.
L’articolo 9 chiarisce che “nessun individuo potrà essere arbitrariamente
arrestato, detenuto o esiliato”; mentre il successivo articolo 10 statuisce che
“ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un’equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale, al fine della
determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché delle fondatezza di ogni
accusa penale che gli venga rivolta”.
Con tale formulazione la norma, contenuta nell’articolo in esame, detta le
24
regole del processo dovuto (due process of law) da consumarsi nella piena equidistanza delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale, precostituito per
legge3.
In questa enunciazione, come sovente è possibile rilevare, l’attenzione del
Conditore è attratta in misura maggiore dal processo penale nel quale gli interessi in gioco (libertà personale dell’individuo) sono più evidenti, ma ciò non toglie
che i principi dettati non debbano trovare applicazione anche nel processo civile,
pur nel rispetto della natura dispositiva di esso.
Sempre con l’attenzione rivolta, in prevalenza, al giudizio penale sono
state dettate le regole contenute nell’ultimo degli articoli che più direttamente,
nella Dichiarazione, riguardano il tema della tutela delle situazioni giuridiche
protette (art. 11) che afferma: “Ogni individuo accusato di reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie per la sua difesa.
Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo ad
omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisce reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato
sia stato commesso”.
Tali norme, dettate per ricordare il tema della successione delle leggi nel
tempo, e la necessità che le sanzioni discendano da leggi vigenti nel momento in
cui si attua un comportamento sanzionabile, pur essendo state scritte con lo sguardo rivolto al solo processo penale vanno – come già ricordato in precedenza –
applicate anche al processo civile ed alle altre ipotesi di processo approntate dall’ordinamento, nei diversi Stati, per la tutela delle situazioni giuridiche protette.
3. I principi relativi alla tutela contenuti
nella nostra Carta costituzionale.
Come è stato ricordato in precedenza, la piena e concreta attuazione dei principi dettati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo passa, necessariamente, attraverso la normativa statuale contenuta nella Costituzione e nelle altre leggi dei singoli Stati.
Pertanto, al fine di verificare quale sia in Italia lo stato di attuazione delle
regole dettate dalla Dichiarazione, occorre muovere da una ricognizione (anche se
sommaria) dei principi contenuti nella nostra Costituzione in materia di tutela delle
situazioni giuridiche protette4.
Le norme, in tema di tutela, contenute nella Costituzione italiana sono –
3 Sul due process of law vedi N. Trocker, Il valore costituzionale
del giusto processo, in Il nuovo articolo 111 della
Costituzione e il giusto processo civile (a cura di CivininiVerardi), Milano 2001, p. 37. Vedi, inoltre, L. Lanfranchi, La
roccia non incrinata, Torino 2004, p. 492.
4 Sul punto, vedi: V. Andrioli, La convenzione europea dei
diritti dell’uomo e il giusto processo, in Temi Romana 1964,
p. 443.
25
RomanaDOTTRINA
temi
come si è ricordato in apertura di questa riflessione - pressoché coeve a quelle della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo; ciò, sotto il profilo terminologico e concettuale
facilita l’analisi5.
Inoltre, è necessario ricordare che i precetti in materia di tutela sono presenti
nelle tre parti di cui si compone la nostra Carta costituzionale: i principi fondamentali
(artt. 2 e 3); la prima parte: diritti e doveri dei cittadini (artt. 24, 25, 26 e 27); la seconda parte: ordinamento della Repubblica (artt. 101-113); infine è possibile individuare
norme relative alla tutela anche nell’ambito delle disposizioni transitorie e finali della
Costituzione (la disposizione VI).
Come è noto gli articoli 2 e 3 della Costituzione6, nel dettare le regole del principio di solidarietà “politica, economica e sociale” e del principio di eguaglianza, determinano i principi di carattere generale cui la tutela dei diritti e delle altre situazioni giuridiche protette deve ispirarsi assicurando ai cittadini, tanto il ricorso alla conciliazione
(art. 2)7, quanto l’utilizzazione di un processo basato sulla piena attuazione dell’equidistanza delle parti nei confronti del giudice e sul rispetto del principio del contraddittorio (art. 3).
Sulla stessa linea, tracciata nei principi fondamentali, si collocano gli articoli
contenuti nella prima parte della Costituzione ed in particolare l’articolo 24, con il suo
primo comma, individua le situazioni giuridiche protette che sono i “diritti soggettivi”
e gli “interessi legittimi”, accanto ai quali dottrina e giurisprudenza hanno collocato
anche gli interessi diffusi e quelli collettivi in una estensione della tutela che coinvolge
anche gli enti esponenziali. Inoltre, l’articolo 25 individua nel “giudice naturale”, precostituito per legge, quel giudice in grado di incarnare l’equidistanza e la terzietà che il
principio sancito dall’articolo 3 richiedeva.
Passando all’analisi della seconda parte della Costituzione, ai fini del presente
studio, è necessario fermare lo sguardo, in particolare, sul testo del novellato articolo
111, cui il legislatore ha di recente (legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999)
posto mano, astraendo da esso i dettami del “giusto processo”8.
L’esame dei cinque nuovi commi, che sono stati anteposti ai tre originari, è
a) Il “Giusto processo” – regolato dalla legge.
5 Al riguardo è necessario ricordare la introduzione alla
Costituzione Italiana, pubblicata (con grande diffusione)
dalle edizioni RAI nel 2008, di G. Zagrebelsky, p. 11.
6 Al riguardo è necessario ricordare che i due articoli
menzionati nel testo sono il frutto della elaborazione di G.
Dossetti approvata alla unanimità dai componenti della
Commissione dei settantacinque, nella seduta dell’11
settembre 1946. V., sul punto, Dossetti Melloni, La ricerca
costituente, Bologna 1994, p. 97.
7 La dottrina ha collocato nell’ambito dell’articolo 2 della
nostra Costituzione la radice costituzionale della
conciliazione, intesa come soluzione alternativa alla lite e
contrapposta, nell’ambito stesso delle alternative dispute
resolution (ADR), all’arbitrato che –come è noto – integra
26
una risoluzione alternativa della lite.
8 La modifica di tale articolo della nostra Costituzione si era
resa necessaria quando, con il fallimento dei lavori della
Commissione bicamerale, incaricata nel corso della XIII
legislatura della modifica della seconda parte della
Costituzione, non fu più possibile recepire il testo
dell’articolo 130, da essa elaborato, nel quale venivano
dettate le regole dei “giusti processi”. Il testo dell’articolo,
relativo al testo definitivo dei lavori della bicamerale,
pubblicati in data 4 novembre 1997, così recita: “La
giurisdizione si attua mediante giusti processi regolati dalla
legge, ispirati ai principi dell’oralità, della concentrazione e
dell’immediatezza. Ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità e
davanti a giudice terzo. La legge ne assicura la ragionevole
richiesto al fine di verificare se quella istanza di tutela promessa (in particolare dall’articolo 10) dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, nel nostro Paese trova, o no,
piena attuazione.
Il primo comma del nuovo testo dell’articolo 111 chiarisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Al di là della non felice terminologia adottata dal legislatore, che ha modificato la Costituzione, è necessario rilevare come il riferimento al giusto processo (rectius: dovuto processo), da attuarsi mediante la legge, offre alcuni spunti di riflessione.
Il primo, ricordato da autorevole dottrina9, relativo alla possibilità di dedurre,
anche dal precedente impianto costituzionale, la garanzia del “giusto processo”, basato sulla tutelabilità giurisdizionale dei diritti con “almeno un grado di cognizione
ordinaria, piena ed esauriente in fatto ed in diritto, seguita dall’ordinario controllo di
legittimità in Cassazione”, per sua stessa natura idoneo a perseguire il giudicato (artt.
324 c.p.c. e 2909 c.c.), che dall’attuale dettato della norma appare ulteriormente integrato e potenziato, tanto da far rilevare che “il giusto processo garantito dalla nostra
Costituzione, non solo non può creare o abolire quei diritti sostanziali che neppure lo
Stato può abolire o creare, perché propriamente sottratti alla stessa sovranità popolare illimitata, ma è regolato dalla legge processuale ordinaria individuata dal
Parlamento solo nei precisi limiti e scopi fissati dalla legge costituzionale”10.
Il secondo, legato alla natura stessa del riferimento: se esso integri, o meno,
una vera e propria riserva di legge con la conseguente limitazione, in termini di processo, degli stessi poteri discrezionali del giudice che, peraltro, è stato risolto dall’insegnamento del Proto Pisani11, secondo il quale la discrezionalità del giudice
nella conduzione del processo va limitata ai soli poteri che attengono al mero governo di esso, ma non possono che essere regolati dalla legge quelli che attengono al
contenuto della decisione12.
Pertanto, pur non potendosi propriamente parlare di riserva di legge, al riguardo, è evidente che la norma in parola ribadisce che i poteri discrezionali del giudice
restano limitati alla sola direzione del processo, mentre tutto ciò che più specificamente attiene alla tutela deve essere regolato dalla legge.
durata. Nel procedimento penale la legge assicura che la
persona accusata di un reato sia informata, nel più breve
tempo possibile, della natura e dei motivi dell’accusa
elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni
necessarie per preparare la sua difesa; abbia la facoltà di
interrogare o far interrogare dal suo difensore le persone
a discarico nelle stesse condizioni di quelle di accusa e
l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore;
sia assistita gratuitamente da un interprete se non
comprende o non parla la lingua impiegata. La legge
assicura che la custodia cautelare in carcere venga eseguita
in appositi istituti. La legge istituisce pubblici uffici di
assistenza legale al fine di garantire ai non abbienti il
diritto di agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.”.
Vedi, al riguardo, A. D’Aloia, Dilemmi della giustizia e
revisionismo costituzionale in La riforma della Costituzione
nei lavori della bicamerale, in Atti dell’incontro di studio,
a cura della prima cattedra di Diritto Costituzionale, Napoli
6-7 maggio 1998, Napoli 2000, p. 67.
9 Cfr. L. Lanfranchi, La roccia non incrinata, cit. p. 477.
10 Vedi L. Lanfranchi, cit., p. 495.
11 Cfr. A. Proto Pisani, Il nuovo articolo 111 della costituzione
e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi,
Milano 2001.
12 Vedi, sul punto, A. Andronio, Commento all’articolo 111, in
Commentario alla Costituzione a cura di R. Bifulco, A.
Celotto, M. Olivetti, Torino 2006, vol. III, p. 2113.
27
RomanaDOTTRINA
temi
Alla luce di quanto previsto nel primo comma del novellato articolo 111 della
Costituzione è possibile affermare che gli elementi essenziali del processo dovuto,
regolato dalla legge, sono individuabili in un contesto di un giudizio a cognizione
piena ed esauriente, che si svolga in almeno un grado di giudizio di merito, che comporti la ricorribilità in cassazione e nel quale la direzione di esso venga operata in base
al potere discrezionale di un giudice che, per quanto attiene al contenuto della sua
decisione, deve necessariamente riferirsi ad una norma di legge. Tale giudizio deve
essere, inoltre, particolarmente attento alla fase esecutiva che sola garantisce la piena
certezza del diritto.
Chiarito, in tal modo, il quadro all’interno del quale deve collocarsi il processo
è, ora, necessario valutare l’esatta portata della tempistica che il secondo comma del
novellato articolo 111 della Costituzione individua come “ragionevole durata del processo”.
Invero, la laconicità della formula utilizzata dal legislatore costituzionale impone al commentatore di verificare, in concreto, come debba “misurarsi” tale tempo del
processo.
Per far ciò non può prescindersi dall’analisi della prima parte del comma in
esame.
Il secondo comma dell’articolo 111 della nostra Carta costituzionale prescrive:
“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
La prima parte di questo secondo comma, anche esso dettato nel 1999, ricorda
quanto già desumibile dal coordinato disposto dagli articoli 3, 24 e 25 della nostra
Costituzione, circostanza che, peraltro, costituisce, da tempo, il patrimonio della
scienza processualistica, la quale, già in età intermedia, soleva rappresentare graficamente il processo come un triangolo equilatero atto a segnalare l’eguale distanza del
giudice rispetto alle parti e quella delle parti tra loro13.
Questa prima notazione, dunque, non costituendo una novità non necessita di
alcun ulteriore commento, se non la considerazione che con il testo del secondo
comma dell’articolo 111 Cost. è stata pienamente realizzata una identità di prospettazioni tra lo schema costituzionale e quello previsto dall’articolo 10 della
Dichiarazione del 1948.
Più interessante appare, invece, l’esame del tema contenuto nell’ultima parte del
secondo comma dell’art. 111 Cost. relativo alla “ragionevole durata” del processo.
Questo concetto pur entrando a far parte, in modo espresso, della Costituzione
solo con la legge costituzionale n. 2 del 1999 era stato però, in precedenza, utilizzab) La ragionevole durata.
13 Già intorno alla metà del dodicesimo secolo il giurista
Bulgaro, allievo di Irnerio, così rappresentava
geometricamente il processo. Vedi, al riguardo, la voce
28
Bulgaro dell’Enciclopedia Treccani, vol. VIII, p. 102, Sul
punto vedi G. Chiovenda, Principi di diritto processuale
civile, Napoli 1923, p. 662.
to dalla Corte costituzionale14 che già prima di detto inserimento faceva riferimento
al concetto della ragionevole durata dei processi.
Invero, l’inserimento in Costituzione di questo parametro oggettivo viene
salutato da rilevante dottrina15 esclusivamente come “indicazione programmatica dal
valore meramente esortativo”.
Pertanto, è necessario verificare se in base a detto principio, mutuato (ma non
pienamente riprodotto) dall’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali16, vi sia un’effettiva portata precettiva di esso, in un contesto nel quale non si attribuisce alle parti lese (da una
abnorme durata) un diritto soggettivo, ma soltanto rimedi necessari ad assicurare la
durata ragionevole dei giudizi17.
Invero, la norma non appare destinata ad incidere direttamente sulla tempistica dei giudizi, ma sembra dettata al fine di garantire, comunque, nel rispetto del principio del contraddittorio e della cognizione piena ed esauriente, tempi solleciti alla
definizione dei giudizi18.
Si tratta, come detto in precedenza, di un criterio oggettivo, mentre la tutela (a
posteriori) assicurata, caso per caso, in senso soggettivo, deriva dalla legge n. 89 del
2001 che garantisce un’equa riparazione nell’ipotesi di violazione del termine della
ragionevole durata del processo19.
14 Cfr. la decisione n. 388 del 22 ottobre 1998, in Giur. Cost.
1999, p. 2991, con nota di C. Pinelli.
15 Cfr. F. Tommaseo, Revisione della seconda parte della
Costituzione. Norme sulla giurisdizione, in AA.VV. La
garanzia della giurisdizione e del processo nel progetto
della Commissione bicamerale, Milano 1999, p. 182.
16 L’articolo 6, che reca la rubrica “diritto ad un equo processo”
così recita“1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine
ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale,
costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie
sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della
fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La
sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla
sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico
durante tutto o parte del processo nell’interesse della
morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in
una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei
minori o la protezione della vita privata delle parti in causa,
o nella misura giudicata strettamente necessaria dal
tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può
pregiudicare gli interessi della giustizia. 2. Ogni persona
accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la
sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In
particolare, ogni accusato ha diritto a: a) essere informato,
nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui
comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei
motivi dell’accusa elevata a suo carico; b) disporre del tempo
e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; c)
difendersi personalmente o avere l’assistenza di un
difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un
difensore, poter essere assistito gratuitamente da un
avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della
giustizia; d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico
ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a
discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; e)
farsi assistere gratuitamente da un interprete se non
comprende o non parla la lingua usata all’udienza.”.
17 La sentenza della Corte Costituzionale n. 39 del 27 febbraio
2008 (in Guida al diritto, 2008, fasc. 11, p- 22) si è occupata
delle procedure concorsuali in ottica di compatibilità di esse
con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, ma resta in ogni
caso irrisolta la tematica della loro durata. Sul punto vedi A.
Finocchiaro, Resta il rischio di condanna europea per
l’eccessiva durata della procedura, in Guida al diritto, cit., p.
26.
18 Cfr. Corte Cost. ordinanza n. 399 del 2001 in Il Merito, 2006,
5, p. 50 con nota di L. Petrillo.
19 La cosiddetta “legge Pinto” (89 del 2001) attribuisce alla
Corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice
competente a giudicare nei procedimenti riguardanti i
magistrati nel cui distretto si è svolto il procedimento
giurisdizionale che ha determinato la violazione. Invero, la
emanazione di siffatta legge si era resa necessaria dopo che
la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, con la pronuncia
emanata dalla Grande Camera il 26 ottobre 2000, aveva
ravvisato la violazione dell’articolo 13 della Convenzione
Europea dei diritti dell’Uomo che prescrive che i singoli
hanno diritto ad un mezzo effettivo in ambito nazionale per
lamentare la violazione dei diritti garantiti dalla
Convenzione Europea e conseguentemente anche del diritto
ad ottenere giustizia in tempi ragionevolmente brevi. Vedi,
al riguardo: Romano-Parrotta-Lizza, Il diritto ad un giusto
processo tra carta internazionale e corti costituzionali,
Milano 2002.
29
RomanaDOTTRINA
temi
La giurisprudenza della Suprema Corte20 ha tentato una definizione di sintesi affermando che al fine di determinare l’irragionevole durata del giudizio è necessario accertare la complessità della causa e, in relazione a questa, il comportamento delle parti, del giudice e di tutti quelli che sono chiamati a concorrere alla definizione21 di esso.
Alla luce di quanto contenuto nella nostra Carta costituzionale è possibile
individuare i caratteri fondamentali del giusto processo civile che lo Stato italiano
garantisce ed è, quindi, necessario parametrare tale offerta di giustizia alla concreta attuazione della tutela che la Dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo
garantisce ai cittadini dei popoli che hanno aderito ad essa.
In Italia, dunque, il “giusto processo” civile suscettibile di passaggio in giudicato (artt. 324 cpc e 2909 cc) si consuma nel rispetto del principio del contraddittorio (avendo cura di individuare esattamente e correttamente tutte le parti del
processo), innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, precostituito per legge (verificando, per i diritti disponibili, ipotesi di soluzioni alternative: alla lite e della lite),
che sia soggetto solo alla legge, la quale è chiamata a regolare il processo stesso
favorendo che esso si svolga e si concluda (anche esecutivamente) in tempi ragionevoli; inoltre perché possa definirsi utilmente reso il giudizio deve, necessariamente, consumarsi avendo almeno un grado di giudizio di merito pieno ed esauriente e la possibilità del ricorso per cassazione.
Questa è l’ offerta, teorica, relativa alla giustizia civile operata dalla nostra
Costituzione.
Tale offerta (pienamente in linea con i principi contenuti nella Dichiarazione
del 1948) non riceve, però, una attuazione pratica altrettanto rispettosa dei criteri
dettati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, in quanto,
sotto il profilo della tempistica con cui viene resa la giustizia civile nel nostro
Paese, non è certamente possibile ritenere che ci si trovi in presenza di decisioni
rese in un tempo ragionevole.
La relazione del Primo presidente della Suprema Corte di Cassazione relativa all’anno 200522, all’atto della inaugurazione dell’anno giudiziario 2006, lamentava la paralisi della giustizia civile ricordando che i tempi medi per giungere alla
conclusione di un giudizio civile sono di circa 12 anni (dal momento della prima
udienza del giudizio di primo grado, alla decisione della Cassazione) e tale situazione non è migliorata, poiché anche all’atto dell’inaugurazione dell’anno giudic) Il processo dovuto garantito dalla Costituzione Italiana.
20 Vedi, per tutte, Cass. 15 ottobre 2004, n. 20326, in CED,
Cassazione, 2004, inoltre, vedi la massima riportata in Il
civilista 2008, p. 48.
21 Vedi al riguardo G. Beatrice, Il risarcimento dei danni
conseguenti alla irragionevole durata dei processi, in Il
Civilista, 2008, p. 34.
30
22 Vedi N. Marvulli, Relazione sull’Amministrazione della
giustizia nell’anno 2005, in Giustizia Civile 2006, II, p.
141.
ziario 200823 il Primo Presidente della Suprema Corte lamentava la paralisi della
giustizia civile, soprattutto presso le Corti d’appello dove le stasi del processo
segue il suo tempo massimo.
Dalle analisi normative effettuate e dalle verifiche relative allo stato della
giustizia civile in Italia, emerge un evidente debito di tutela, sotto il profilo della
durata dei processi, che non può certamente dirsi “ragionevole”.
Come si è visto, amministrare giustizia in tempi non utili alla certezza del
diritto si traduce in una vera e propria ipotesi di denegata giustizia.
Purtroppo, la indicazione, soltanto tendenziale, contenuta nella nostra Carta
costituzionale, relativa alla ragionevole durata dei processi, non consente se non
un’analisi a posteriori, che, anche sotto il profilo della sanzione, appare scarsamente produttiva di effetti.
Al fine di tentare una soluzione che possa evitarci di esaminare, in modo rassegnato ed inerme, la situazione di fatto che si è venuta a creare, è necessario operare una lettura diversa del precetto contenuto nel secondo comma dell’articolo 111
della Costituzione.
Poiché la giurisprudenza della Suprema Corte, in precedenza ricordata24, ha
ritenuto che vi sia una irragionevole durata del giudizio tutte le volte in cui non ci
si trovi in presenza di fattispecie di eccezionale complessità; è, dunque, necessario
rimeditare sulla natura stessa dei termini ordinatori, i quali, come è noto, sono
destinati dal legislatore al giudice e sono privi di una specifica sanzione.
Poiché tali termini, essendo stati ragionevolmente dettati dal legislatore,
impongono il ritmo ordinario del processo, non può che discenderne la conclusione che il loro mancato rispetto, da parte del giudice, produce, necessariamente, un
allungamento irragionevole del giudizio, a meno che il giudice stesso, all’atto del
deposito di un provvedimento, sul mancato rispetto del termine, non motivi, in
modo esauriente, la causa che ha determinato detto slittamento.
Invero, in mancanza di una penalizzazione specifica, è possibile, in assenza
di una auspicata specifica normativa, far discendere detta sanzione dall’applicazione della legge n. 89 del 2001.
Inoltre, alla luce di quanto, sin qui, esaminato, deve essere effettuata una lettura delle norme dettate dal codice di procedura civile, onde verificare, in concreto, la loro utilità, sotto il profilo funzionale tendente all’accertamento del bene della
4. Conclusione.
23 Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo
Carbone, nella sua relazione sull’amministrazione della
giustizia nell’anno 2007, pronunciata in Roma il 25
gennaio 2008, ha esaminato nei paragrafi 2 e 3 i costi
della giustizia e i loro effetti sul sistema Paese,
ricordando i processi pendenti dinanzi alla Corte
Europea dei diritti dell’uomo e gli effetti della c.d.
legge Pinto (89/2001); ha, inoltre, illustrato le cause di
tale stato di cose e dettato i possibili rimedi, interni ed
esterni, per una migliore amministrazione della
giustizia.
Vedi, al riguardo, V. Carbone, Relazione
sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2007,
pubblicata sul sito www.cortedicassazione.it.
24 Cfr. Cass. 15 ottobre 2004, n. 20326, cit.
31
vita dedotto in giudizio, riconsiderando tutte quelle norme che essendo prive di una
specifica funzionalità sotto tale profilo appaiono in contrasto con la ragionevole
durata del giudizio; in particolare devono essere esaminati tutti i passaggi patologici del processo (sospensione, interruzione, estinzione) che non siano funzionali al
principio del contraddittorio ed all’accertamento della “verità”.
Infine, al di là del tentativo di incentivare la competitività, operato dalla
legge n. 80 del 2005, è necessario al fine di tutelare, in concreto, i diritti dell’Uomo,
relativi alla tutela delle situazioni giuridiche protette, è necessario interrogarsi sulla
effettiva funzionalità del rito civile, la cui molteplicità e complessità certamente
non aiuta a contenere, entro termini ragionevoli, la durata del giudizio; è necessario, altresì, ipotizzare una serie di soluzioni alternative alla lite, creando presso gli
Ordini professionali, le Camere di Commercio ed altri soggetti privati e pubblici
accreditati (erogatori, tutti in tal modo, di servizi pubblici), luoghi specifici per
operare la conciliazione delle liti, ipotizzando, accanto alla teoria del giusto processo, anche le regole di un “giusto procedimento”, di conciliazione. Operando in
tal modo, sarà forse possibile, erogare nel nostro Paese, a distanza di 60 anni dalla
sua entrata in vigore, una giustizia civile in linea con i dettami della Dichiarazione
universale dei diritti dell’Uomo.
32
RomanaDOTTRINA
temi
Il regime giuridico
delle centrali nucleari
nella legislazione francese:
un modello per il sistema italiano
Avv. Nicola PIPPIA
Avv. Vincenzo FERRAZZANO
Sommario:
Parte I: Le centrali nucleari nell’attuale sistema italiano: cenni
Premessa: Il contesto normativo; 1La fase localizzativa; 2 La fase autorizzativa
Un modello per lo sviluppo della legislazione italiana: il sistema francese
Parte II: La disciplina francese relativa alle centrali nucleari
Premessa: Le istituzioni principali del settore nucleare; Il contesto normativo
1. Code Santè Publique; 2. Code de l’Environnement;3. Loi n° 2006-686 du 13 juin
2006 relative à la transparence et à la sécurité en matière nucléaire
1. L’elenco delle INB; 2. La realizzazione di una INB; 3. Il Decreto di autorizzazione alla realizzazione; 4. L’esercizio dell’INB; 5. Le modificazioni delle INB; 6. L’arresto definitivo e lo smantellamento; 7. Il declassamento delle INB e le servitù di utilità pubblica; 8. Controlli, sanzioni, contenzioso
Parte III: Il regime delle Installazioni Nucleari di Base
PARTE I
Le centrali nucleari nell’attuale sistema italiano: cenni
Premessa
egli ultimi tempi, il rinnovato interesse della politica per l’energia nucleare ha
posto al centro dell’attenzione il dibattito su questa discussa fonte di energia, alimentato dal continuo e crescente prezzo del petrolio e suoi derivati.
In Italia, come noto, la produzione elettrica da fonte nucleare subì un arresto a
seguito del referendum c.d. “anti nucleare” del 8-9 novembre 1987.
Ad appena un anno e mezzo di distanza dal terribile incidente nucleare che investì la centrale di Chernobyl (26 aprile 1986) nell’allora Unione Sovietica, il popolo italiano - con una sorprendente “efficienza” organizzativa della macchina burocratica – fu
chiamato ad esprimere, in certo senso, la propria volontà in merito all’utilizzo dell’energia nucleare.
Il referendum sancì l’abbandono “di fatto” del ricorso al nucleare come forma di
approvvigionamento energetico nonostante i quesiti referendari fossero diretti ad abrogare specifiche norme non di vitale importanza per l’intero sistema regolatorio.
Fu così che nel 1988 il Governo italiano, in sede di approvazione del nuovo
«Piano energetico nazionale», deliberò la moratoria nell’utilizzo del nucleare.
N
33
RomanaDOTTRINA
temi
Il problema prioritario divenne, dunque, quello dello smantellamento delle centrali nucleari esistenti e della messa in sicurezza dei rifiuti e materiali radioattivi derivanti
dal funzionamento delle stesse. Varie delibere del Comitato Interministeriale per la
Programmazione Economica (CIPE) disposero la chiusura definitiva degli impianti interessati.
La strategia di uscita dal settore nucleare fu definita nel documento “Indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare” dell’allora Ministero dell’Industria, del
Commercio e dell’Artigianato del 14 dicembre 1999.
Nello specifico, il referendum abrogativo del 1987 prevedeva tre quesiti distinti ciascuno vertente su differenti aspetti della legislazione nostrana.
Il primo quesito mirava all’abrogazione della norma che attribuiva al Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica il potere di individuare le aree suscettibili di insediamento delle centrali elettronucleari in sostituzione del potere proprio degli
enti locali laddove questi non l’avessero esercitato nel termine stabilito. Si trattava, precisamente, del 13° comma dell’articolo unico della legge 10 gennaio 1983, n. 8 recante
“norme per l’erogazione di contributi a favore dei comuni e delle regioni sedi di centrali
elettriche alimentate con combustibili diversi dagli idrocarburi”.
Il secondo quesito aveva ad oggetto gli ulteriori commi dello stesso articolo unico
della legge 10 gennaio 1983, n. 8 che stabilivano il contributo finanziario da versare da
parte dell’Ente Nazionale dell’Energia Elettrica (ENEL), all’epoca ente di Stato monopolista per le attività elettriche, ai Comuni ed alle Regioni nel cui territorio erano ubicati gli
impianti elettronucleari in proporzione all’energia prodotta da tali impianti.
Il terzo quesito mirava ad abrogare la norma contenuta nell’art. 1 della legge istitutiva dell’ENEL (legge 6 dicembre 1962, n. 1643) che consentiva a tale ente di partecipare
ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero.
Inutile ricordare l’esito della consultazione che portò all’adozione dei D.P.R. del
9 dicembre 1987 n. 498, 499 e 500 con cui le tre norme vennero espunte dall’ordinamento giuridico italiano, sancendo “di fatto” l’abbandono della produzione energetica da
fonte nucleare.
Si è già accennato – e va qui conclusivamente ribadito – come il collegamento del
referendum all’abbandono del nucleare (forse, più propriamente, la moratoria), senz’altro logico sul piano “politico”, non abbia alcun fondamento sul piano giuridico, dato che
le tre norme sottoposte a referendum, e caducate all’esito di quello, riguardavano aspetti specifici del nucleare, non essenziali ai fini della istallazione e dell’esercizio di centrali
atomiche.
Ne consegue che tutta la (restante) legislazione nucleare italiana non è certo venuta meno, salvo in quegli aspetti, essenzialmente legali alla sicurezza, derivanti dall’appartenenza comunitaria dell’Italia.
La “legislazione nucleare” italiana, che è stata elaborata sostanzialmente nel
corso degli anni ’60 e ’70, si caratterizza per la sua sobrietà.
Il contesto normativo.
34
Su tale sostrato normativo si è inserita, a metà degli anni ’90, la normativa
derivante dal recepimento di alcune importanti direttive comunitarie.
I gangli di tale legislazione sono rappresentati da:
ula legge 31 dicembre 1962, n. 1860 recante “Impiego pacifico dell’energia
nucleare” che disciplina l’utilizzo pacifico dell’energia nucleare. La legge è stata
modificata dai Decreti del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1704
e 10 maggio 1975, n. 519 essenzialmente per tener conto degli sviluppi della normativa internazionale.
u La legge 6 dicembre 1962, n. 1643 recante “Istituzione dell’Ente nazionale per
la energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche” che riservava all’ENEL l’esercizio dell’attività elettrica nel territorio italiano e disponeva il trasferimento all’Ente delle imprese elettriche esistenti.
uIl decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 1964, n. 185, sulla
“Sicurezza degli impianti e protezione sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni
contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall’impiego pacifico dell’energia nucleare”, adottato sulla base della delega contenuta nella citata legge
1860/1962. Esso disciplinava la costruzione, l’esercizio e la disattivazione degli
impianti nucleari nonché tutte le pratiche che comportano un rischio dovuto a
radiazioni ionizzanti ed è stato abrogato e sostituito dal decreto legislativo 17
marzo 1995, n. 230 recante “Attuazione delle direttive 89/618/Euratom,
90/641/Euratom, 92/3/Euratom e 96/29/Euratom in materia di radiazioni ionizzanti”.
uLa legge 2 agosto 1975 n. 393 recante “Norme sulla localizzazione delle centrali elettronucleari e sulla produzione e sull’impiego di energia elettrica”. La legge
393/1975 ha, in sostanza, aggiunto una fase localizzativa antecedente all’iter realizzativo delle centrali nucleari.
uLa Legge 31 dicembre 1962, n. 1860 (capo II) prevede un penetrante controllo
pubblico sulla costruzione e gestione delle impianti nucleari. Essa rappresenta la
disciplina di riferimento anche per le centrali nucleari destinate alla produzione di
energia elettrica (art. 33). Rispetto a queste ultime centrali non trova, tuttavia,
applicazione l’art. 6 della legge 1860/1962 che prevede l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto da parte del Ministero dell’Industria, Commercio ed
Artigianato (ora Ministero dello Sviluppo Economico).
A tale disciplina si aggiunge quella relativa alla localizzazione delle centrali nucleari dell’ENEL destinate alla produzione di energia elettrica contenuta nella
legge 2 agosto 1975 n. 393 “Norme sulla localizzazione delle centrali elettronucleari e sulla produzione e sull’impiego di energia elettrica.
35
RomanaDOTTRINA
temi
Come detto, la legge 2 agosto 1975 n. 393 disciplina (art. 1) la localizzazione, l’autorizzazione e il nulla osta alla costruzione delle centrali elettronucleari
dell’ENEL.
La disciplina della fase localizzativa, introdotta negli anni ’70 per far fronte
alle difficoltà incontrate nell’insediamento degli impianti dal “neonato” Ente
Nazionale per l’Energia Elettrica, mira a garantire che il procedimento amministrativo porti effettivamente all’individuazione di un sito utile all’insediamento
della centrale.
Essa prevede (art. 2) che sia il Comitato interministeriale per la
Programmazione Economica (CIPE), in sede di approvazione del programma pluriennale dell’ENEL, a designare le regioni destinate ad ospitare le centrali nucleari. Saranno le stesse regioni ad indicare al Ministero dell’Industria, Commercio e
Artigianato - MICA (ora, come detto, Ministero dello Sviluppo Economico) due
aree al loro interno potenzialmente idonee all’insediamento, d’intesa con i Comuni
interessati. Il procedimento prevede anche i pareri del Ministero della Sanità (ora
Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali), del Comitato
Nazionale per l’Energia Nucleare – CNEN (ora ENEA), e dello stesso ENEL.
Laddove la Regione non avesse raggiunto l’intesa con i comuni interessati
nel termine di 150 giorni per l’individuazione delle due aree suscettibili di insediamento, l’art. 2 della legge 393/1975 prevedeva l’individuazione dell’area nel perimetro comunale tramite lo strumento legislativo su proposta del MICA di concerto con l’attuale Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Questa norma, contente il potere sostitutivo nell’individuazione delle aree
suscettibili di insediamento, era stata superata a seguito dell’entrata in vigore del
comma 13 dell’articolo unico della legge 10 gennaio 1983 n. 8. Tale articolo aveva
stabilito che, laddove non fosse stata perfezionata la procedura per la localizzazione delle centrali elettronucleari entro i termini fissati dall’articolo 2 della legge
393/1975, la determinazione delle aree suscettibili di insediamento sarebbe stata
effettuata dal CIPE, su proposta del MICA, tenendo presente le indicazioni eventualmente emerse nella procedura precedentemente esperita.
Proprio tale comma della legge 8/1983 è stato oggetto di abrogazione referendaria con DPR 489/1987 che ha di conseguenza eliminato il potere sostitutivo
del CIPE di determinare le due aree suscettibili di insediamento.
Una volta ultimata la fase preliminare alla localizzazione delle centrali
nucleari, grazie alla quale sono individuate due aree della regione suscettibili d’insediamento di centrali elettronucleari, l’ENEL è autorizzata dal MICA ad eseguire
le indagini necessarie per l’accertamento dell’idoneità tecnica delle aree prescelte
e, nell’ambito delle stesse, per la determinazione del luogo ove può essere ubicata
la centrale elettronucleare. A tal fine l’ENEL ha facoltà di accedere ai fondi compresi nelle aree.
Ai sensi dell’art. 4 della legge 393/1975 l’ENEL dispone di 12 mesi dall’acLa fase localizzativa,.
36
cesso ai fondi per trasmettere al MICA e alle Regioni interessate un rapporto sulle
ubicazioni proposte nell’ambito delle aree prescelte e sulle relative caratteristiche
tecniche e ambientali.
Il rapporto è, inoltre, inviato contemporaneamente all’ENEA (da leggersi
come autorità di sicurezza nucleare, dunque, come APAT) per l’istruttoria tecnica e
il relativo parere, limitatamente alla parte che riguarda l’ubicazione della centrale.
Il parere dell’APAT deve essere trasmesso al MICA e alle regioni interessate entro
otto mesi dalla ricezione del rapporto.
Successivamente, nei sessanta giorni dalla richiesta del MICA, le regioni,
d’intesa con il comune o i comuni interessati e sentito l’ENEL, determinano definitivamente la localizzazione della centrale.
In mancanza della decisione della regione nel termine suddetto, il CIPE
determina la localizzazione e la notifica alla regione e al comune interessati.
Il provvedimento che determina in via definitiva la localizzazione della centrale (proprio della regione o, in via sostitutiva, del CIPE) costituisce, nel caso in
cui sia necessario, variante del piano regolatore o del programma di fabbricazione
e sostituisce la licenza edilizia.
Dopo la localizzazione dell’impianto, il MICA può autorizzare l’ENEL all’esecuzione di opere preliminari di preparazione sotto la vigilanza tecnica dell’APAT.
Fa seguito alla definitiva localizzazione dell’impianto, la fase autorizzativa
dello stesso.
La disciplina è contenuta nella pluralità dei provvedimenti legislativi citati,
non sempre coerenti fra loro: la legge 31 dicembre 1962, n. 1860; il decreto legislativo 17 marzo 1995 n. 230; la legge 2 agosto 1975 n. 393.
Ai sensi dell’art. 5 della legge 393/1975 l’ENEL presenta al MICA il progetto di massima dell’impianto e della relativa rete di trasporto ad alta tensione,
corredati da adeguata documentazione tecnica e dal piano delle infrastrutture di
competenza dell’Ente.
Il progetto di massima deve essere sottoposto anche all’APAT per l’istruttoria tecnica e la relativa relazione. In tale relazione l’APAT esprime il proprio avviso circa l’ubicazione dell’impianto, le relative caratteristiche di sicurezza nucleare
e di protezione sanitaria nonché sul suo esercizio (art. 5 legge 393/1975 e artt. 37
e seg. D.lgs 230/1995).
Il MICA cura la trasmissione della relazione dell’APAT agli altri ministeri
interessati per l’espressione dei pareri sul progetto di massima e sull’ubicazione
dell’impianto.
La Commissione tecnica per la sicurezza nucleare e la protezione sanitaria
dell’APAT, tenuto conto delle eventuali osservazioni dei vari ministeri espresse nei
rispettivi pareri, redige un parere tecnico finale, specificando le eventuali prescrizioni da stabilire per l’esecuzione del progetto.
La fase autorizzativa.
37
RomanaDOTTRINA
temi
Ottenuto il parere tecnico finale, il MICA rilascia, con proprio decreto, l’autorizzazione alla costruzione dell’impianto e il nulla osta alla costruzione, sotto il profilo
della sicurezza nucleare e della protezione sanitaria (di cui all’art. 37 del decreto legislativo 230/1995 sostitutivo dell’art. 38 del DPR 13 febbraio 1964, n. 185).
Le operazioni di costruzione sono effettuate sotto il controllo dell’APAT che
approva i progetti particolareggiati (art. 41 D.lgs 230/1995). Tutta la costruzione viene
effettuata sotto il controllo tecnico dell’Agenzia che vigila sulla rispondenza della
costruzione stessa ai progetti approvati.
L’APAT sovraintende, ai sensi degli artt. art. 42 e seg., alle operazioni di collaudo che consistono tanto in prove nucleari, corredate da un piano per affrontare le situazioni di emergenza nucleare, che in prove non nucleari. Effettuati i collaudi, il MICA,
su parere dell’APAT, accorda la licenza di esercizio per fasi successive. Tale licenza
determina i limiti e le condizioni che l’esercente è tenuto ad osservare. Il fatto che la
licenza di esercizio sia accordata per fasi successiva importa che sia prevista un’apposita autorizzazione per la disattivazione degli impianti regolata dall’art. 55 del d.lgs.
230/1995 ed anch’essa di spettanza del MICA, sentite le altre amministrazioni e l’APAT.
Un modello per lo sviluppo della legislazione italiana:
il sistema francese.
Come si può constatare, la legislazione nucleare italiana, sommariamente descritta, non rappresenta sempre un corpus normativo unitario e coerente a causa delle note
vicende che hanno interessato il settore a partire dal referendum del 1987, rendendone
sporadico l’aggiornamento.
Accanto alle immancabili incoerenze dovute allo stratificarsi della normativa nel
tempo, ciò che risulta evidente è l’assenza di un’autorità di settore esclusivamente dedicata all’ambito nucleare. Un’autorità amministrativa indipendente che abbia come sua
finalità precipua la tutela della sicurezza nucleare.
Un importante filo conduttore per lo sviluppo della normativa nucleare italiana
potrebbe essere rappresentato, nel panorama della legislazione straniera, dalla legislazione francese.
Il sistema giuridico francese può porsi come modello di riferimento non solo per
la sua prossimità al sistema italiano ma anche e sopratutto per le dimensioni delle attività nucleari che è chiamato a governare, e quindi dell’esperienza operativa di cui ha
potuto avvalersi.
La Francia è il secondo produttore mondiale di elettricità nucleare ed oltre l’80%
del consumo energetico domestico è rappresentato da energia nucleare. Electricité de
France (EDF) rappresenta il primo operatore nucleare ed il primo produttore di elettricità al mondo.
Sulla base di tali considerazioni, il presente studio è finalizzato ad illustrare il
regime che governa le c.d. “installazioni nucleari di base” (INB) nel sistema giuridico
francese. Fra tali installazioni (rectius impianti) sono ricomprese le centrali nucleari di
potenza.
38
Parte II:
La disciplina francese relativa alle centrali nucleari.
Premessa:
Come si è già precisato, lo scopo del presente studio è quello di esaminare –
soprattutto nella prospettiva di un possibile ammodernamento della corrispondente
normativa nazionale, e quindi, in chiave comparatistica - il sistema giuridico francese che presiede alla costituzione, gestione e smantellamento degli impianti nucleari.
Per tale motivo, lo studio adotta un’ottica esplicativa e non tanto un taglio critico
sulle problematiche che possono delinearsi.
Nella legislazione francese gli impianti nucleari sono definiti “installazioni
nucleari di base” (INB). Tali INB possono essere definite, in generale, come quegli
impianti che utilizzano sorgenti particolarmente radioattive.
Sono INB gli impianti individuati come tali dalla Legge sulla Trasparenza e
Sicurezza in materia Nucleare (Legge TSN) e cioè, fra gli altri, i reattori nucleari, gli
impianti di preparazione, arricchimento, fabbricazione, trattamento, deposito, stoccaggio di combustibile nucleare e di rifiuti radioattivi.
E’ necessario precisare che la Legge TSN non esaurisce la disciplina giuridica
di tutte le attività nucleari. Essa rappresenta, all’interno di un sistema a cerchi concentrici delineante il regime di tutte le attività nucleari, il cerchio più interno e ristretto dell’intero sistema dedicato alle attività più “altamente nucleari”.
Un ambito, quello delle attività nucleari, che, dunque, appare governato da una
pluralità di fonti normative o codici di settore (Code de la Santé Publique, Code de
l’Environnement, Legge TSN), almeno a livello di normativa di principi.
Analogamente a quanto accade in Italia per la formazione dei Testi Unici, il
sistema giuridico francese ha conosciuto negli ultimi decenni un ampio fenomeno di
“codificazione” intendendosi per tale la volontà del Legislatore di accorpare attorno
a codici di settore tutta la normativa, legislativa e regolamentare, concernente una
certa materia.
Non sempre, tuttavia, è facilmente tracciabile il confine fra fattispecie ricadenti all’interno di un codice e fattispecie ricadenti all’interno di un altro codice.
L’esempio delle attività nucleari è in tal senso illuminante essendo tali attività trasversali e cioè contenute e disciplinate in parte nel Code de la Santé Publique, in parte
nel Code de l’Environnement e, infine, nella Legge TSN a seconda, essenzialmente,
di un coefficiente che rappresenta il volume totale della radioattività (indicato con la
sigla “Q”), come si vedrà meglio più oltre.
Infine, é da notare che il 2006 ha rappresentato un anno di svolta nella legislazione francese con l’adozione da parte del Parlamento, nella seduta del 13 giugno, di
due importantissime leggi nel settore nucleare:
1. la legge 686/2006 relativa alla Trasparenza e Sicurezza in materia Nucleare
(Legge TSN);
2. la legge quadro 739/2006 relativa alla gestione duratura delle materie e dei
rifiuti nucleari.
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RomanaDOTTRINA
temi
Le suddette leggi ed i relativi decreti applicativi hanno ridefinito ex novo il
regime delle attività nucleari nel sistema giuridico francese, sostituendo la precedente normativa e fornendo un quadro giuridico completo del settore nucleare.
Le autorità competenti nel settore nucleare sono individuate in funzione della
finalità del controllo (sicurezza, radioprotezione, ecc).
Le autorità ministeriali di riferimento in materia di sicurezza sono:
il Ministero dell’ecologia, dell’energia, dello sviluppo sostenibile e della
gestione del territorio;
il Ministero dell’Economia, dell’industria e dell’impiego.
I due ministeri definiscono la regolamentazione generale applicabile alle attività nucleari e adottano i provvedimenti particolari relativi alla costruzione, esercizio, arresto definitivo e smantellamento delle INB; possono altresì disporne la
sospensione dell’attività.
La Direzione Generale dell’Energia e delle Materie prime (DGEM), incardinata nella struttura del Ministero dell’Ecologia ma in collaborazione con il
Ministero dell’Economia, elabora e attua la politica energetica e di sicurezza industriale.
La Legge TSN ha dedicato il proprio Titolo secondo alla costituzione di
un’autorità amministrativa indipendente dal potere esecutivo specificamente dedicata al controllo della sicurezza nucleare degli impianti nucleari civili: l’Autorità
di Sicurezza Nucleare (ASN).
Essa ha sostituito nelle proprie competenze la Direzione Generale della sicurezza e radioprotezione nucleare (DGSNR) sottoposta a triplice controllo ministeriale.
L’ASN è incaricata di assicurare il controllo delle regole generali e delle prescrizioni particolari in materia di sicurezza nucleare e di radioprotezione.
Il Commissariat à l’Energie Atomique è un ente pubblico di ricerca a carattere scientifico, tecnico e industriale creato dal generale De Gaulle con ordinanza
n. 45-2563 del 18 ottobre 1945.
La sua missione, attualmente sancita dal Codice della ricerca, consiste nel
l perseguire la ricerca scientifica e tecnica;
l partecipare alla protezione delle persone e delle cose rispetto agli effetti dell’energia nucleare;
l esercitare le attività di ricerca, produzione, stoccaggio, trasporto, trasformazione
e commercio di materie prime nucleari.
Il CEA rappresenta l’Ente pubblico di promozione e sostegno all’industria
nucleare francese. In tale veste, il CEA è proprietario della maggioranza azionaria
(80% circa) del gruppo Areva.
Inoltre, il CEA persegue ulteriori missioni in ambito non nucleare ed esercita una generale funzione consultiva per il governo francese.
Le istituzioni principali del settore nucleare.
40
Infine, ampia parte della Legge TSN è consacrata alla trasparenza nucleare
ed alle relative istituzioni ed organismi.
La Legge, infatti, stabilendo il diritto del pubblico all’informazione nucleare
ed il dovere dello Stato di assicurare tale diritto, costituisce l’Alto Commissario per
la trasparenza e l’informazione nucleare (HCTISN) e conferisce rilievo legislativo
alle Commissioni locali di informazione (CLI).
L’HCTISN è un organismo amministrativo incaricato di garantire l’accessibilità alle informazioni nucleari e di proporre misure per tale scopo.
Le CLI sono create dai Consigli generali dei Dipartimenti in cui si trovano le
INB e il loro compito consiste nell’assicurare alle comunità locali le informazioni
e la concertazione in materia di sicurezza nucleare.
Costituisce principio generale della disciplina che governa le attività nucleari l’obbligo di autorizzazione (quindi di controllo) da parte dello Stato. Tale principio, come si vedrà, è sancito dal Codice della Salute Pubblica.
Corollario di tale principio generale è che una sola amministrazione dello
Stato debba effettuare tale controllo e rilasciare le relative autorizzazioni, salvo casi
particolari.
Come già precisato, le attività nucleari sono disciplinate da diverse fonti normative a seconda dell’attività totale dei radionuclidi indicata dal coefficiente Q. In
sostanza, le attività nucleari con minore radioattività ricadono nel regime previsto
dal Codice della Salute Pubblica; quelle maggiormente radioattive (in cui Q è superiore alle soglie fissate dal Codice dell’Ambiente) ricadono nella disciplina dettata
da quest’ultimo codice per le c.d. “installazioni classificate per la protezione dell’ambiente” (ICPE); quelle ancor più radioattive (in cui Q è superiore alle soglie
fissate dal decreto n. 830/2007) nella disciplina dettata dalla Legge TSN per le
INB.
Il contesto normativo.
La parte legislativa del Code Santè Publique (CSP) contiene la definizione
di “attività nucleari”.
In particolare la definizione è contenuta nella Parte prima (dedicata alla protezione generale della salute), Libro terzo (protezione della salute e dell’ambiente),
Titolo terzo (prevenzione dei rischi sanitari legati all’ambiente ed al lavoro),
Capitolo terzo (radiazioni ionizzanti).
L’articolo L. 1333-1 stabilisce che sono attività nucleari tutte le attività comportanti un rischio di esposizione delle persone alle radiazioni ionizzanti che promanano tanto da sorgenti artificiali quanto da sorgenti naturali.
Tali attività sono soggette a tre principi generali individuati dallo stesso art.
L. 1333-1 e ad un regime di autorizzazione o dichiarazione previsto dall’art. L.
1333-4.
1. Code Santè Publique.
41
RomanaDOTTRINA
temi
I principi generali, di cui all’art. 1333-1, che devono soddisfare le attività
nucleari sono i seguenti:
l principio di giustificazione, secondo cui un’attività nucleare non può essere
intrapresa se non è giustificata dai vantaggi che può comportare in materia sanitaria, sociale, economica o scientifica rispetto ai rischi di radiazioni ionizzanti per le
persone;
l principio di ottimizzazione, secondo cui l’esposizione delle persone alle radiazioni ionizzanti deve essere mantenuta al livello più ragionevolmente basso possibile tenendo conto dello stato della tecnica e dei fattori economici e sociali;
l principio di limitazione, secondo cui l’esposizione delle persone alle radiazioni
ionizzati in nessun caso può eccedere i limiti di dose fissati per via regolamentare,
salvi i fini di ricerca medica.
Tali principi sono richiamati dall’art. 2 della Legge TSN e costituiscono
quindi principi generali anche per la disciplina delle INB che – appunto – si ritrova in tale legge.
Il regime giuridico previsto per le attività nucleari è un regime di autorizzazione o dichiarazione a seconda delle caratteristiche e dell’uso delle sorgenti (art.
L. 1333-4). L’Autorità di riferimento per la concessione delle autorizzazione o per
la ricezione delle dichiarazioni è l’Autorità di Sicurezza Nucleare.
Il medesimo articolo prevede che la domanda di autorizzazione o la dichiarazione deve indefettibilmente indicare la persona responsabile delle attività.
Si prevede, inoltre, che alcune attività nucleari possano essere esentate da
tale regime allorché la radioattività delle sorgenti utilizzata (rappresentata da un
coefficiente Q) sia inferiore a determinate soglie fissate in via regolamentare.
In concreto, le attività nucleari che ricadono nel regime giuridico individuato dal CSP sono quelle attività nucleari destinate alla medicina, all’odontoiatria,
alla biologia umana e alla ricerca biomedica.
In particolare, soggiacciono al regime di autorizzazione / dichiarazione previsto dal CSP le attività di fabbricazione, utilizzo, detenzione, distribuzione,
importazione, esportazione di sorgenti che producono radiazioni ionizzanti nonché
i trasporti di sostanze radioattive.
E’ importante sottolineare, per comprendere il c.d. “sistema dei cerchi concentrici”, la previsione del terzo comma dell’art. L. 1333-4 secondo cui tengono
luogo delle autorizzazioni previste dal CSP quelle concesse ai sensi del Codice
dell’Ambiente e quelle concesse alle INB.
La norma rappresenta la cerniera fra il regime di base delle attività nucleari
contenuto nel Codice della Salute Pubblica, quello individuato dal Codice
dell’Ambiente e quello delle INB disciplinato dalla Legge TSN.
Ne deriva che le INB, pur soggette ai principi generali del CSP esposti sopra,
sono esentate dal regime di autorizzazione o dichiarazione posto dallo stesso CSP
in quanto rientrano nel più specifico regime autorizzativo dettato dalla Legge TSN.
42
Anche il Code de l’Environnement (CE) contiene una disciplina rilevante per
le attività nucleari.
Infatti, il CE dedica il proprio Libro V alle c.d. “Installazioni classificate per la
protezione dell’ambiente” (ICPE).
Le ICPE sono definite dall’art. L. 511-1 del Libro V del CE come quegli impianti che possono rappresentare un pericolo per la salute, la sicurezza, l’ambiente in generale. Tali impianti sono individuati nell’elenco (c.d. “nomenclatura” delle ICPE) stabilito dal CE. Il regime giuridico riconnessovi è quello dell’autorizzazione o della dichiarazione a seconda della gravità del pericolo .
L’elenco delle ICPE - di recente modificato (dal Decreto 1454 del 24 novembre
2006 attuativo della Legge TSN) per armonizzarlo con le disposizioni contenute nel
CSP – è contenuto in allegato al CE ed individua, classificandole sulla base del tipo di
sostanze utilizzate e del relativo volume trattato, le attività ritenute pericolose.
A titolo esemplificativo, costituiscono delle ICPE quegli impianti che utilizzano
sostanze tossiche, infiammabili, esplosive ovvero gli impianti ove si svolgono attività
industriali, agricole e animali, ovvero attività relative a rifiuti ma anche semplicemente
tessili.
Fanno parte del novero delle ICPE quegli impianti in cui si svolgono attività
nucleari ai sensi del CSP, in quanto vi si utilizzano sostanze radioattive.
Come ricordato, ai sensi dell’art. L. 1333-4 del CSP, le autorizzazioni concesse ai
sensi del CE per tali impianti (ICPE che utilizzano sostanze radioattive) tengono luogo
di quelle richieste per le attività nucleari dal CSP.
In particolare, fra le sostanze pericolose rilevanti per la protezione dell’ambiente
la rubrica 1715 dell’elenco delle ICPE individua le sostanze radioattive sotto forma di
sorgenti radioattive, sigillate o non sigillate. Le attività concernenti tali sostanze pericolose per l’ambiente sono la preparazione, fabbricazione, trasformazione, condizionamento, utilizzazione, deposito e lo stoccaggio.
Laddove si sia in presenza di tali attività su sostanze radioattive e laddove il volume di tali sostanze superi le soglie individuate sulla base del coefficiente totale di
radioattività Q, i relativi impianti saranno soggetti al regime di autorizzazione e dichiarazione stabilito dal CE per le ICPE.
Viceversa, se il volume delle sostanze non supera le soglie individuate dal coefficiente Q, il regime giuridico applicabile sarà quello previsto dal CSP.
Inoltre, si tenga presente che la rubrica 1715 esclude esplicitamente le INB dal
novero delle ICPE. Infatti, più oltre si vedrà come le INB sono quegli impianti che rientrano nell’elenco (“nomenclatura” delle INB) posta dalla Legge TSN e relativamente
alle quali il coefficiente Q (individuato dal decreto di attuazione della Legge citata) è
superiore a quello delle ICPE. Pertanto tali impianti esorbitano dal regime delle ICPE.
In sostanza, il CE fra i numerosi impianti classificati come rilevanti per la protezione dell’ambiente e sottoposti al regime di autorizzazione o dichiarazione, individua
anche quelli che utilizzano sostanze radioattive.
2. Code de l’Environnement.
43
RomanaDOTTRINA
temi
Tale regime dettato dal CE subentra a quello previsto per le attività nucleari
dal CSP nel momento in cui le attività interessanti sostanze nucleari sono poste in
essere in impianti classificati per la protezione dell’ambiente (ICPE) e tali attività
interessano sostanze nucleari il cui volume complessivo indicato dal coefficiente Q
oltrepassa le soglie indicate nel CE.
Esso, tuttavia, viene meno laddove nell’ambito delle ICPE che utilizzano
sostanze radioattive si sia in presenza delle 2 seguenti condizioni:
l l’impianto in questione rientri nell’elenco delle INB dettato dall’art. 28 della
Legge TSN;
l tale impianto utilizzi sostanze radioattive con coefficiente globale di radioattività Q superiore alle soglie indicate dal Decreto n. 2007-830 dell’11 maggio 2007 per
ciascuna categoria dell’elenco.
Sussistendo tali condizioni, il regime delle ICPE cede il passo a quello più
specifico delle INB di cui alla Legge TSN.
Ciò nonostante, continuano ad applicarsi alle INB, e più in generale alle attività nucleari come definite dal CSP, i principi individuati all’art. 2 della Legge TSN tramite rinvio all’art. 110-1 del CE (Libro I, Titolo I, Principi Generali). Tali principi che
si aggiungono a quelli già individuati dall’art. 1333-1 del CSP (di giustificazione,
ottimizzazione e limitazione) sono i seguenti:
l principio di precauzione, secondo cui l’assenza di certezze tecnico-scientifiche non
deve ritardare l’adozione di misure volte a prevenire il rischio di danni gravi e irreparabili all’ambiente ad un costo economico accettabile;
l principio di azione preventiva e di correzione dei rischi per l’ambiente tramite utilizzo delle migliori tecniche disponibili ad un costo economico accettabile;
l principio chi inquina paga, secondo cui i costi delle misure preventive, di riduzione e di lotta contro l’inquinamento devono essere sopportate dal soggetto che inquina;
l il principio di partecipazione, secondo cui ciascuno ha accesso alle informazioni
ambientali e la collettività è partecipe del processo di elaborazione dei progetti che
incidono sull’ambiente o sulla gestione del territorio.
Prima di analizzare nel dettaglio il regime delle INB, è necessario chiarire
sommariamente quello delle ICPE in cui possono ricadere alcune categorie di INB
laddove non siano superate le soglie di radioattività complessiva di cui al coefficiente Q.
Come precisato, le ICPE sono definiti dall’art. L. 511-1 del Libro V del CE
come quegli impianti che possono rappresentare un pericolo per la salute, sicurezza,
l’ambiente in generale. Il regime giuridico fissato dal CE è un regime di autorizzazione per gli impianti più pericolosi e di dichiarazione per quelli meno pericolosi.
L’Autorità di riferimento per l’autorizzazione o la dichiarazione relativa
all’impianto è il Prefetto. Tuttavia al Prefetto subentra l’ASN per le ICPE radioat-
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tive. Ciò in ossequio al principio generale secondo cui un’unica amministrazione
dello Stato deve essere competente al controllo ed al rilascio delle relative autorizzazioni.
In entrambi i casi é un atto amministrativo (arrété) prefettizio che fissa le prescrizioni generali applicabili. Nel caso di autorizzazione, questa é concessa previo
espletamento della procedura di inchiesta pubblica.
Nel corso della gestione, la persona fisica o giuridica titolare della licenza per
l’esercizio dell’ICPE é soggetta a controllo ispettivo per verificare la conformità
generale alle prescrizioni dettate con atto amministrativo (arrété) prefettizio.
Infine, è da notare che le prescrizioni tecniche a cui soggiace un impianto
soggetto ad autorizzazione si applicano anche agli impianti o attrezzature gestiti dal
titolare che, menzionati o meno nell’elenco, sono per loro natura o prossimità tali
da incidere sul pericolo legato all’impianto.
3. Loi n° 2006-686 du 13 juin 2006 relative à la transparence
et à la sécurité en matière nucléaire.
La Legge relativa alla Trasparenza ed alla Sicurezza Nucleare (Legge TSN)
contiene il regime giuridico più proprio degli impianti nucleari cioè quelle installazioni che per la loro natura utilizzano sostanze radioattive di più elevato grado.
La Legge TSN si compone di 5 titoli (definizioni e principi generali; autorità
di sicurezza nucleare; informazione del pubblico; installazioni nucleari di base ed
trasporti di sostanze radioattive; disposizioni varie).
Il Titolo primo - oltre a definire le nozioni di sicurezza, trasparenza e radioprotezione - delinea i principi generali del regime giuridico delle INB. L’art. 2 nel
ribadire la nozione contenuta nel Codice della Salute Pubblica di “attività nucleari”
richiama sia i principi posti da quest’ultimo (di giustificazione, ottimizzazione e
limitazione – v. sopra) sia quelli posti dal Codice dell’Ambiente (di precauzione,
azione preventiva, correzione, chi inquina paga e di partecipazione – v. sopra).
Lo stesso articolo sviluppa il principio di partecipazione ed il principio chi
inquina paga stabilendo il diritto di ciascuno alle informazioni di carattere nucleare (cui é consacrato il Titolo terzo della Legge) e l’obbligo dell’esercente di sopportare gli oneri delle misure di prevenzione e di riduzione del rischio.
Inoltre, l’art. 2 esplicita altri due principi generali – per altro già applicabili
alle attività nucleari – secondo cui la regolamentazione in materia di sicurezza
nucleare è di dominio statale e l’esercente nucleare é responsabile di tale sicurezza.
In attuazione del primo principio, la Legge TSN costituisce ex novo, sulla
base dell’originale Direzione Generale della sicurezza e radioprotezione nucleare
(DGSNR) sottoposta a triplice controllo ministeriale, un’Autorità amministrativa
indipendente dal potere esecutivo cioè l’Autorité de sureté nucléaire (ASN) cui é
dedicato il Titolo secondo della Legge.
Il Titolo terzo é, come detto, dedicato all’esplicitazione del principio di partecipazione tramite il diritto all’informazione, la previsione delle Commissioni
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RomanaDOTTRINA
temi
Locali di Informazione (CLI) e dell’Alto Comitato per la trasparenza e l’informazione sulla sicurezza nucleare.
Il Titolo quarto contiene il regime giuridico proprio delle Installazioni Nucleari di
Base, oggetto specifico del presente studio, nonché quello delle installazioni nucleari di
carattere militare, sul quale non ci si soffermerà.
Parte III:
Il regime delle Installazioni Nucleari di Base.
1. L’elenco delle INB.
La disciplina contenuta nel Titolo quarto della Legge TSN sostituisce la precedente disciplina di cui alla legge n. 61-842 del 2 agosto 1961 ed al relativo decreto d’applicazione n. 63-1228 del 11 dicembre 1963.
La Legge definisce le varie categorie di INB rinviando ad un decreto governativo
la definizione delle loro caratteristiche.
L’art. 28, comma 3, della Legge TSN stabilisce l’elenco (la c.d. “nomenclatura”)
delle INB statuendo che queste ultime sono:
l i reattori nucleari;
l gli impianti di preparazione, arricchimento, fabbricazione, di trattamento o di stoccaggio temporaneo di combustibile nucleare rispondenti alle caratteristiche fissate con
decreto approvato dal Governo su parere dal Consiglio di Stato o gli impianti di trattamento, stoccaggio temporaneo o definitivo di rifiuti radioattivi;
l gli impianti contenenti sostanze radioattive o fissili rispondenti alle caratteristiche fissate con decreto approvato dal Governo su parere del Consiglio di Stato;
l gli acceleratori di particelle rispondenti alle caratteristiche fissate con decreto approvato dal Governo su parere del Consiglio di Stato.
Il decreto di riferimento, citato nell’art. 28 della Legge TSN, é il Decreto n. 2007830 del 11 maggio 2007. Esso individua, tramite il coefficiente “Q” le soglie al di là delle
quali l’impianto è classificato come INB ai sensi della Legge TSN. Fornisce, inoltre, la
definizione di reattore nucleare.
Dal combinato disposto dell’art. 28 della Legge TSN e del Decreto n. 2007-830 si
delinea il perimetro della nozione di Installazione Nucleare di Base ai fini dell’applicazione del relativo regime.
Altro decreto rilevante ai fini dell’applicazione procedurale della Legge TSN é il
Decreto n. 1557 del 2 novembre 2007 relativo alla procedura.
La classificazione delle centrali nucleari di potenza all’interno delle INB comporta la loro sottoposizione al regime di autorizzazione previsto dalla Legge TSN. A differenza delle altre categorie di impianti fissate nella “nomenclatura” in cui si rinvia alla
definizione delle caratteristiche tecniche e delle soglie limite del coefficiente Q da parte
di un decreto approvato su parere dal Consiglio di Stato, i reattori nucleari costituiscono
sempre e necessariamente delle INB a prescindere dal calcolo del coefficiente Q.
Si tratta di un regime di autorizzazioni successive poiché ciascuna autorizzazione
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é concessa per fasi successive della vita dell’impianto.
In particolare, si prevede un’autorizzazione per la creazione, per la messa in servizio, per l’eventuale modificazione ed infine per l’arresto definitivo e lo smantellamento. Soltanto dopo lo smantellamento, l’impianto potrà essere declassata e quindi sottratta al regime proprio delle INB.
La costituzione di una INB necessita, come prima tappa, di una domanda di autorizzazione alla realizzazione presso i Ministeri competenti.
In realtà, sono preliminari al deposito di tale domanda, una serie di altre fasi
amministrative come la scelta del sito su cui costruire l’impianto e l’eventuale dibattito
pubblico.
Il potenziale esercente (sarà effettivamente tale solo al momento del deposito della
domanda di autorizzazione alla realizzazione) informa l’amministrazione (ASN,
Ministero dell’Ecologia e Ministero dell’Economia ed infine le autorità locali) del sito o
dei siti potenzialmente utili alla realizzazione. Per parte sua, l’amministrazione valuta gli
aspetti socio-economici e le caratteristiche del sito in relazione alla sicurezza.
Ai sensi degli artt. L. 123-1 e seguenti del Codice dell’Ambiente, il progetto di
realizzazione sia di ICPE che di INB è oggetto di inchiesta pubblica. Tale inchiesta è deliberata dal Presidente dell’organo rappresentativo della comunità o dell’organismo pubblico che realizza il progetto. Essa è condotta da un commissario o da una commissione
al fine di rendere partecipi le comunità locali dell’opera da realizzare.
Oltre all’inchiesta pubblica, nel caso di progetti di rilevante impatto socio-economico o particolarmente incisivi per l’ambiente ed il territorio, la legge n. 95-101 del 2
febbraio 1995 ha previsto un dibattito pubblico.
Fra i casi in cui è previsto tale dibattito pubblico, la legge contempla l’ipotesi di
realizzazione di nuovi siti di produzione nucleare o di nuovi siti non di produzione ma di
costo superiore a 300 milioni di euro.
In tali casi é obbligatorio un dibattito pubblico organizzato dall’apposita
Commissione Nazionale del Dibattito Pubblico (CNDP), divenuta autorità amministrativa indipendente a seguito della citata legge 95-101, incaricata di garantire le appropriate condizioni di informazione. Negli altri casi il dibattito é facoltativo ovvero può essere
sostituito, a scelta della CNDP, da una concertazione.
Una volta depositata la domanda presso le autorità competenti, il richiedente assume la qualifica di esercente e il relativo status giuridico.
La domanda di autorizzazione alla realizzazione, il relativo dossier di accompagnamento e una nota di accompagnamento sono inviati al Ministero dell’Ecologia ed al
Ministero dell’Economia nonché all’Autorità di Sicurezza Nucleare (ASN). Le autorità
dispongono di un termine di tre anni per istruire la domanda. Al termine dei tre anni, qualora non sia intervenuto il provvedimento autorizzativo l’istanza si ritiene caducata.
La domanda di autorizzazione alla creazione consiste in una normale lettera indirizzata alle autorità competenti.
2. La realizzazione di una INB.
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RomanaDOTTRINA
temi
Il dossier d’accompagnamento deve contenere:
l l’identità dell’esercente: persona fisica o giuridica;
l le informazioni concernenti l’impianto;
l la localizzazione dell’impianto tramite una mappa;
l la pianta del perimetro e dell’area intorno all’impianto;
l la pianta dettagliata dell’impianto;
l lo studio di impatto ambientale;
l il rapporto preliminare di sicurezza rispetto ai possibili rischi;
l lo studio di gestione del rischio;
l l’eventuale servitù di pubblica utilità (facoltativa);
l il piano di smantellamento dell’impianto;
l il resoconto del dibattito pubblico o della concertazione (facoltativo).
La nota di accompagnamento deve contenere essenzialmente la descrizione
delle capacità tecniche e finanziarie dell’esercente.
La determinazione del perimetro dell’impianto nucleare deve necessariamente precisare da una parte quali attrezzature e quali impianti sono necessarie all’esercizio dell’INB (comprese le ICPE e le IOTA) e dall’altra quali attrezzature e
impianti non siano necessarie a tal fine.
La differenza è di rilievo per il regime giuridico: le prime soggiacciono al
medesimo regime delle INB; le seconde restano soggette al CE. Per entrambe
l’ASN rappresenta l’autorità di riferimento.
La domanda è sottoposta ad inchiesta pubblica ad opera del prefetto ai sensi
dell’artt. R 123-1 e seguenti del CE. Il prefetto consulta le comunità locali, la
Comunità Locale di Informazione (CLI) ed eventuali altri soggetti e rimette nelle
mani dei ministri competenti il proprio parere e il risultato delle consultazioni.
I ministri elaborano una bozza di decreto di autorizzazione alla creazione che
è sottoposta all’esercente per osservazioni. In seguito, il progetto di decreto è sottoposto alla Commissione interministeriale Consultiva delle INB (CCINB). Infine
il progetto di decreto è sottoposto al parere dell’ASN.
Ai sensi dell’art. 37 del Trattato Euratom i progetti comportanti rigetto di
effluenti radioattivi devono essere comunicati alla Commissione Europea per il
parere di competenza.
Laddove si sia in presenza di nuove impianti, i progetti di investimento ricadenti nei settori enumerati dall’art. 41 del Trattato Euratom devono essere comunicati alla Commissione. Tali settori ricomprendono – fra l’altro - la costruzione di
reattori nucleari ed il trattamento dell’uranio. Il decreto autorizzativo non può essere reso senza il parere della Commissione.
Il Decreto di autorizzazione alla realizzazione (DAC) di una INB è adottato
sulla base del rapporto stilato dai ministri competenti sulla sicurezza nucleare. Esso
3. Il Decreto di autorizzazione alla realizzazione.
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deve contenere:
l l’identità dell’esercente, la natura e la capacità massima dell’impianto;
l la definizione del perimetro con la specificazione di quali impianti,
opere e attrezzature sono necessari all’esercizio dell’INB;
l l’eventuale durata dell’autorizzazione;
l il termine entro il quale l’INB deve essere messa in servizio;
l la fissazione degli elementi essenziali volti alla protezione degli interessi della
sicurezza, salute, sanità pubblica ed alla protezione della natura e dell’ambiente
(art. 28 Legge TSN);
l la periodicità del riesame di sicurezza.
Il DAC e il parere dell’ASN sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Francese. Il DAC é altresì notificato all’esercente e trasmesso al prefetto per
l’informazione delle popolazioni locali.
Un procedura più snella é prevista per le autorizzazioni di breve durata cioè destinata a INB il cui funzionamento é inferiore a sei mesi. In tali casi, l’autorizzazione é concessa tramite atto amministrativo (arrété) dei ministri competenti, previo parere
dell’ASN.
Dal momento che la maggior parte delle INB esistenti in territorio francese é stata
autorizzata ai sensi della precedente legge n. 61-842 del 2 agosto 1961 e del relativo
decreto d’applicazione n. 63-1228 del 11 dicembre 1963, la Legge TSN prevede – all’art.
62 – che le autorizzazioni e le prescrizioni concesse ai sensi della legge 61-842 e del
decreto 63-1228 valgono come autorizzazioni e prescrizioni ai sensi della Legge TSN.
Le prescrizioni generali concernenti la costruzione, l’esercizio, l’arresto definitivo e lo smantellamento delle INB come l’arresto definitivo e la conservazione in stato di
sorveglianza degli impianti di stoccaggio dei rifiuti radioattivi sono stabilite mediante
arrété ministeriale (art. 30 Legge TSN). Esse sono applicabili a tutte le INB o solo ad
alcune categorie.
Accanto alle prescrizioni generali dettate da arrété ministeriale, l’ASN può adottare decisioni a carattere tecnico per completare le modalità di applicazione dei decreti e
degli arrété in materia di sicurezza e radioprotezione. Gli arrété in materia di sicurezza
sono omologate dai ministri competenti, previo parere della Commissione interministeriale Consultiva delle INB (CCINB).
L’ASN ha un duplice ruolo durante l’esercizio dell’impianto: di controllo e di
regolamentazione.
Per quanto riguarda la prima funzione, l’ASN assicura il rispetto delle prescrizioni generali e particolari in materia di sicurezza e radioprotezione.
Per ciò che concerne la funzione di regolamentazione, l’ASN definisce, nel rispetto delle prescrizioni generali ministeriali, le prescrizioni particolari necessarie per l’applicazione del decreto di autorizzazione in materia di concezione, costruzione e gestione.
4. L’esercizio dell’INB.
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RomanaDOTTRINA
temi
L’arrété contenente tali prescrizioni particolari, prima della pubblicazione, deve
essere sottoposta all’esercente per osservazioni. Essa interviene necessariamente dopo
l’entrata in vigore del DAC.
Prima tappa fondamentale nell’esercizio dell’impianto é l’entrata in servizio.
Essa coincide con il primo funzionamento delle sostanze radioattive o fasci di
particelle nell’impianto.
L’entrata in servizio deve essere autorizzata con decisione dell’ASN previa
istruttoria, il cui termine é di 1 anno. L’ASN si pronuncia su un dossier redatto dall’esercente contenente il rapporto di sicurezza, le regole generali di esercizio, uno studio
sulla gestione dei rifiuti, il piano di emergenza interno e un aggiornamento del piano
di smantellamento.
Della decisione dell’ASN si dà notizia nel bollettino ufficiale dell’ASN; essa é
notificata all’esercente e comunicata ai ministri competenti.
Le operazioni di entrata in servizio devono concludersi entro il termine fissato
dal DAC. In casi di mancato rispetto del detto termine, l’ASN ne informa i ministri
competenti che, raccolte le osservazioni dell’esercente, emettono un decreto di conclusione dell’autorizzazione all’impianto.
L’art. 29 della Legge TSN prevede un periodico riesame di sicurezza dell’impianto ogni 10 anni di attività. Il relativo rapporto é inviato ai ministri competenti e
all’ASN.
In caso di gravi rischi per la sicurezza, la salute, la sanità pubblica e la protezione della natura e dell’ambiente (art. 28 Legge TSN), può essere richiesta la sospensione o l’arresto definitivo dell’impianto.
La sospensione dell’esercizio può essere disposta sia dai ministri competenti
tramite arrété previa informativa dell’ASN per il tempo necessario all’adozione delle
misure volte ad eliminare i rischi; sia direttamente dall’ASN, con successiva comunicazione ai ministri competenti ed al prefetto, in caso di rischi gravi e imminenti per un
periodo non superiore a 3 mesi.
Nel caso di rischi non fronteggiabili in maniera efficace, i ministri competenti,
previa consultazione del prefetto e del CLI e previo parere dell’ASN, emettono un
decreto motivato approvato dal Consiglio di Stato con cui si ordina l’arresto definitivo e lo smantellamento dell’impianto.
Tale decreto é soggetto alle medesime procedure di pubblicità previste per il
DAC. L’ASN fissa le prescrizioni tecniche per l’arresto definitivo e lo smantellamento.
Nel corso dell’esercizio può manifestarsi l’esigenza di modificare l’impianto
nucleare.
Differenti tipologie di modifiche possono essere realizzate:
l modifiche del perimetro dell’impianto;
l modifiche dell’esercente;
l modifiche sostanziali all’impianto;
5. Le modificazioni delle INB
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modifiche non sostanziali.
Ciascuna modifica comporta una procedura amministrativa presso i ministri
competenti e l’ASN.
La procedura più rigorosa è prevista in caso di modifiche sostanziali all’impianto.
Sono “modifiche sostanziali” ai sensi dell’art. 29, comma 2, della Legge TSN
quelle che comportano:
l un cambiamento della natura o un aumento della capacità massima dell’impianto;
l un’alterazione degli elementi essenziali per la protezione degli interessi di cui all’art.
28 della Legge TSN;
l l’aggiunta di un nuovo impianto nel perimetro dell’INB.
l
In tali casi, la Legge TSN prevede la presentazione di una domanda di autorizzazione secondo la medesima procedura prevista per la domanda di autorizzazione alla
realizzazione.
La procedura prevista per l’arresto definitivo e lo smantellamento dell’impianto
prevede la preventiva informativa dei ministeri competenti e dell’ASN. Tre anni prima
della data auspicata per l’arresto dell’impianto, l’esercente trasmette all’ASN un
aggiornamento del piano di smantellamento.
La procedura consta di una domanda di autorizzazione da depositare un anno
prima della data prevista per l’arresto definitivo presso i ministeri e presso l’ASN. La
domanda è corredata da un dossier e da una nota.
Tale domanda è soggetta a consultazione ed inchiesta pubblica al pari della
domanda di creazione.
Il termine di istruzione previsto è di tre anni decorsi i quali la domanda si intende caducata se non interviene il provvedimento autorizzativo.
In caso di esito positivo, l’istruttoria sfocia in un decreto di autorizzazione all’arresto definitivo ed allo smantellamento che – fra l’altro – fissa gli elementi essenziali
delle operazioni di smantellamento e il termine entro cui questo deve essere completato.
Le prescrizioni generali dell’ASN fissate in precedenza continuano ad applicarsi ma possono essere modificate ed integrate in funzione dello smantellamento.
Le regole generali di sorveglianza e gestione indicate nel dossier di domanda
d’autorizzazione si sostituiscono alle regole generali fissate durante la fase di esercizio.
Eventuali necessità di modifica dell’impianto per dar corso all’arresto definitivo
ed allo smantellamento seguono le regole generali già esaminate.
6. L’arresto definitivo e lo smantellamento.
Una volta smantellata l’impianto, l’esercente formula una domanda di declassamento all’ASN e ne informa i ministeri competenti. La domanda é accompagnata dal
relativo dossier.
7. Il declassamento delle INB e le servitù di utilità pubblica.
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L’ASN informa delle conseguenze del declassamento il prefetto competente che raccoglie il parere delle comunità locali. Dopo il parere della CLI, l’ASN trasmette il progetto di declassamento ai ministri competenti che raccolgono anche il parere della
Commissione Consultiva sulle INB.
La decisione recante il declassamento dell’impianto nucleare prende la forma di una
decisione dell’ASN soggetta ad omologazione ministeriale. Essa é notificata, comunicata e
pubblicata secondo le modalità proprie della domanda di autorizzazione alla creazione.
E’ possibile che l’ASN subordini l’entrata in vigore di una misura di declassamento
alla costituzione di una servitù di utilità pubblica.
Tali servitù possono consistere in limitazioni all’utilizzo del suolo su cui insiste l’impianto o all’esecuzione di lavori. Sono costituite ai sensi degli artt. da L. 515-8 a L. 515-12
del Codice dell’Ambiente.
Le servitù sono costituite su domanda dell’esercente, del sindaco o su propria iniziativa dal prefetto con arrété previo parere ASN. Il relativo progetto è soggetto ad inchiesta
pubblica.
Laddove si crei un pregiudizio ai proprietari dei terreni interessati, la servitù da luogo
al diritto all’indennizzo in favore di questi ultimi da parte dell’esercente.
I controlli relativi al rispetto delle regole generali ed alle prescrizioni particolari in
materia di sicurezza nucleare e di radioprotezione sono affidati ad ispettori designati
dall’ASN.
Gli ispettori della radioprotezione sono incaricati della verifica del rispetto delle
norme poste dal Codice del lavoro e dal Codice della salute pubblica. Tali ispettori, pur incaricati delle verifiche concernenti le regole di radioprotezione, non esautorano gli ispettori
del lavoro, incaricati della verifica del rispetto delle prescrizioni del Codice del Lavoro. Le
relative attribuzioni sono state chiarite da una circolare dell’ASN.
Gli ispettori possono in ogni momento visitare l’impianto e ricevono la più ampia
collaborazione da parte dell’esercente. L’ispezione si conclude con un verbale di ispezione,
comunicato dall’ASN all’esercente, su cui tale ultimo può formulare osservazioni.
L’ASN può imporre all’esercente di porre in essere determinate condizioni entro un
dato termine con l’avvertimento che in caso di mancata osservanza si procederà all’erogazione di sanzioni amministrative (pagamento di somme in denaro; esecuzione d’ufficio
di lavori; sospensione del funzionamento dell’impianto).
Inoltre, gli ispettori dell’ASN possono essere delegati dal Procuratore della
Repubblica alla verifica di eventuali reati.
Il contenzioso in materia di decisioni amministrative adottate ai sensi della Legge
TSN è devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
8. Controlli, sanzioni, contenzioso.
52
RomanaDOTTRINA
temi
Dott. Carlo CERUTTI
Studio sui sistemi elettorali
Sommario:
I Le nozioni generali – 1.1. Introduzione. – 1.2. Il sistema elettorale. – 1.3. Il
sistema a collegi plurinominali. – 1.4. Il sistema a collegi uninominali. – 1.5. Il
sistema a suffragio di lista. – 1.6. Il sistema a suffragio individuale. – 1.7. Il sistema a riparto di lista. – 1.8. Il sistema a riparto individuale.
II. Sistemi maggioritari – 2.1. Il sistema maggioritario. – 2.2. Il sistema che non
consente una rappresentanza alle minoranze. – 2.3. Il sistema che non consente una
rappresentanza alle minoranze. – 2.4. La lista maggioritaria. – 2.5. Il collegio uninominale. – 2.6. Il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze. – 2.7. Il voto limitato. – 2.8. Il voto cumulativo. – 2.9. La lista frazionaria. – 2.10. Il voto unico.
III. Sistemi proporzionali – 3.1. Il sistema proporzionale. – 3.2. Il sistema delle
liste concorrenti. – 3.3. La lista rigida. – 3.4. La lista semirigida. – 3.5. Segue. La
lista di tipo belga. – 3.6. Segue. Il sistema semirigido del voto graduale. – 3.7.
Segue. Il sistema del voto negativo. – 3.8. Segue. Il sistema del voto aggiunto. – 3.9.
La lista libera. – 3.10. Segue. Il sistema libero del voto di preferenza. – 3.11. Segue.
Il sistema libero del voto graduale. – 3.12. Segue. La lista di tipo svizzero. 3.13. Il
metodo del quoziente naturale e dei maggiori resti. – 3.14. Il metodo d’Hondt. –
3.15. Il sistema del voto trasferibile.
I. Le nozioni generali1
on sarebbe né possibile né utile trattare in modo obiettivo e completo tutti i
sistemi elettorali proposti o applicati, poiché essi, essendo stati previsti caso
per caso, per soddisfare sul piano tecnico esigenze spesso contrastanti sul piano
politico, appartengono a una famiglia numerosa e prolifica.
Nel presente studio, pertanto, saranno considerati i principali sistemi elettorali che hanno trovato attuazione nelle legislazioni positive delle democrazie
moderne e occidentali; ma, prima di fare ciò, occorre fissare in materia alcuni concetti fondamentali.
1.1. Introduzione.
N
1 AMBROSINI, G., Sistemi elettorali. Sistema
maggioritario, rappresentanza delle minoranze, sistema
proporzionale, Firenze, 1946, 14-21, 31-41, 44-53 e 167177; BISCARETTI DI RUFFÌA, P., Diritto costituzionale.
Istituzioni di diritto pubblico, Napoli, 1989, 307-309;
CERRI, A., Istituzioni di diritto pubblico: casi e materiali,
Milano, 2005, 103-107; FERRARA, G., Gli atti
costituzionali, Torino, 2000, 27-29; MARTINES, T., Diritto
costituzionale, Milano, 2005, 221; MORTATI, C.,
Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1991, 448-450;
SCHEPIS, G., I sistemi elettorali. Teoria, tecnica,
legislazioni positive, 1955, 5-7, 21-25, 29-33, 43-48, 51,
52, 58 e 59.
53
RomanaDOTTRINA
temi
Il sistema elettorale è l’insieme delle norme giuridiche che regolano la distribuzione dei seggi per la rappresentanza di un dato corpo elettorale.
Il sistema elettorale si distingue in maggioritario e proporzionale (come è
illustrato nei capitoli, rispettivamente, secondo e terzo della presente parte), a collegi plurinominali e a collegi uninominali, a suffragio di lista e a suffragio individuale nonché a riparto di lista e a riparto individuale; dove i collegi sono le ripartizioni degli elettori, il suffragio è l’espressione dei voti e il riparto è l’assegnazione dei seggi.
Nella formazione dei collegi, devesi tener presente, da una parte, l’esigenza
democratica, cioè la necessità che i collegi abbiano un’ampiezza demografica
sostanzialmente equivalente, e, dall’altra, l’esigenza organica, cioè la necessità che
i collegi abbiano una tradizione storica ben consolidata e una struttura geo-economico-sociale il più possibile omogenea.
I casi di inadempimento delle esigenze suddette sono, rispettivamente, la
malapportionment, cioè la formazione di collegi di ampiezza demografica diversa,
e il gerrymandering, cioè la formazione di collegi tale da concentrare il più possibile i presumibili suffragi favorevoli al partito avverso, in modo da fargli ottenere
poche vittorie schiaccianti e scarsamente fruttuose, a fronte delle molte vittorie
ottenute dal partito beneficiario di questo artifizio.
1.2. Il sistema elettorale.
Il sistema a collegi plurinominali è il sistema elettorale nel quale ogni collegio elegge più rappresentanti (il collegio plurinominale, che si distingue in unico e
plurimo, secondo che elegga o no tutti i rappresentanti).
Il sistema a collegi plurinominali è il sistema elettorale, quanto ai collegi, più
favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1) la probabilità che si verifichino compensazioni, sia pure empiriche, tra collegio e collegio, nel caso, che è poi quello normale, di una non uniforme distribuzione territoriale tra maggioranza e minoranza, è tanto minore quanto meno numerosi sono i collegi in cui è suddiviso il corpo elettorale (fino ad azzerarsi nel caso
del collegio plurinominale unico);
2) la probabilità che gli elettori conoscano adeguatamente i candidati da votare e, pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale (basata
principalmente sui candidati e, di conseguenza, sull’indipendenza degli eletti dai
partiti) piuttosto che ideale (basata principalmente sui programmi e, di conseguenza, sull’indipendenza degli eletti dagli elettori) è tanto minore quanto meno numerosi sono i collegi in cui è suddiviso il corpo elettorale.
1.3. Il sistema a collegi plurinominali.
Il sistema a collegi uninominali è il sistema elettorale nel quale ogni collegio
elegge un solo rappresentante (il collegio uninominale).
1.4. Il sistema a collegi uninominali.
54
Il sistema a collegi uninominali è il sistema elettorale, quanto ai collegi, meno
favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1) la probabilità che si verifichino le compensazioni suddette è tanto maggiore quanto più numerosi sono i collegi in cui è suddiviso il corpo elettorale;
2) la probabilità che gli elettori conoscano adeguatamente i candidati da votare e, pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale
piuttosto che ideale è tanto maggiore quanto più numerosi sono i collegi in
cui è suddiviso il corpo elettorale.
Il sistema a suffragio di lista è il sistema elettorale nel quale ogni elettore può
votare per più candidati (la lista di candidati o lista) (il suffragio di lista).
Il sistema a suffragio di lista è il sistema elettorale, quanto al suffragio, più
favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1) la probabilità che la maggioranza, per errori di valutazione delle proprie
forze o per mancata disciplina nei propri elettori, perda la sua posizione di
preminenza, accumulando troppo i voti su pochi candidati o disperdendo
troppo i voti tra molti candidati, è tanto minore quanto più numerosi sono i
voti di cui ogni elettore può disporre;
2) la probabilità che gli elettori conoscano adeguatamente i candidati votati e,
pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale piuttosto
che ideale è tanto minore quanto più numerosi sono i voti di cui ogni elettore può disporre.
1.5. Il sistema a suffragio di lista.
Il sistema a suffragio individuale è il sistema elettorale nel quale ogni elettore
può votare per un solo candidato (il suffragio individuale).
Il sistema a suffragio individuale è il sistema elettorale, quanto al suffragio,
meno favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1) la probabilità che la maggioranza, nel modo suddetto, perda la sua posizione di preminenza è tanto maggiore quanto meno numerosi sono i voti di
cui ogni elettore può disporre;
2) la probabilità che gli elettori conoscano adeguatamente i candidati votati e,
pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale piuttosto
che ideale è tanto maggiore quanto meno numerosi sono i voti di cui ogni
elettore può disporre.
1.6. Il sistema a suffragio individuale.
Il sistema a riparto di lista è il sistema elettorale nel quale i seggi sono assegnati prima alle liste e poi ai candidati (il riparto di lista).
Il sistema a riparto di lista è il sistema elettorale, quanto al riparto, più favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1.7. Il sistema a riparto di lista.
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RomanaDOTTRINA
temi
1) la possibilità che la maggioranza, nel modo suddetto, perda la sua posizio-
ne di preminenza è con esso annullata;
2) la possibilità che gli elettori votino efficacemente i candidati prescelti e,
pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale piuttosto
che ideale è con esso diminuita.
Il sistema a riparto individuale è il sistema elettorale nel quale i seggi sono
assegnati immediatamente ai candidati (il riparto individuale).
Il sistema a riparto individuale è il sistema elettorale, quanto al riparto, meno
favorevole alla maggioranza possibile, poiché:
1) la possibilità che la maggioranza, nel modo suddetto, perda la sua posizione di preminenza è con esso conservata;
2) la possibilità che gli elettori votino efficacemente i candidati prescelti e,
pertanto, favoriscano la formazione di una rappresentanza personale piuttosto
che ideale è con esso aumentata.
1.8. Il sistema a riparto individuale.
II. SISTEMI MAGGIORITARI2
II.I. Generalità.
2.1. Il sistema maggioritario.
Il sistema maggioritario3 è il sistema elettorale nel quale si tende a dare agli
elettori di maggioranza una forza rappresentativa (un rapporto tra il numero dei
seggi conquistati e la cifra elettorale, cioè il numero dei voti validi, ottenuta) superiore a quella degli elettori di minoranza e, di conseguenza, al partito di maggioranza una rappresentanza più che proporzionata alla relativa forza numerica.
Lo scopo principale del sistema maggioritario è quello di garantire la stabilità della rappresentanza (la governabilità).
I sistemi maggioritari sono il sistema che non consente una rappresentanza
alle minoranze e il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze.
II.II. I sistemi che non consentono
una rappresentanza alle minoranze.
2.2. Il sistema che non consente una rappresentanza alle minoranze.
Il sistema che non consente una rappresentanza alle minoranze è il sistema
maggioritario, a collegi plurinominali o a collegi uninominali, a suffragio di lista o
2 AMBROSINI, G., op. cit., 1-14, 23-30, 43, 47, 50 e 51;
BISCARETTI DI RUFFÌA, P., op. cit., 311-317; CERRI, A., op.
cit., 110, 111 e 113; FERRARA, G., op. cit., 29-32;
MARTINES, T., op. cit., 220 e 221; MORTATI, C., op. cit.,
448-450; SCHEPIS, G., op. cit., 5, 8-11, 15, 16, 19-21, 3743, 50, 51 e 54-57.
56
3 La nascita del sistema maggioritario si fa comunemente
risalire all’elezione dei parlamenti medievali, quando il
voto avveniva nell’ambito dei ceti, delle corporazioni
(secundum ordines) e, dunque, in assenza di contrasti di
interesse e di veri partiti, si trattava di designare il
notabile più influente.
a suffragio individuale e a riparto di lista o a riparto individuale, nel quale la maggioranza degli elettori può disporre della totalità dei seggi.
I sistemi che non consentono una rappresentanza alle minoranze sono la
lista maggioritaria e il collegio uninominale.
La lista maggioritaria è il sistema che non consente una rappresentanza
alle minoranze, a collegi plurinominali, a suffragio di lista e a riparto di lista, nel
quale:
1) per essere eletti, occorre ottenere:
a) la maggioranza relativa, cioè una cifra elettorale maggiore di quella
ottenuta da ogni altro concorrente (candidato o lista, unica o plurima), singolarmente considerato (la lista maggioritaria a maggioranza relativa o
lista maggioritaria di tipo inglese)4;
b) od, oltre alla maggioranza relativa, anche una data cifra elettorale (il
quorum) (la lista maggioritaria a maggioranza relativa con il quorum o
lista maggioritaria di tipo inglese con il quorum).
2.3. La lista maggioritaria.
2) se risultano seggi vacanti, si procede a una seconda elezione a maggioranza
relativa, si effettua il sorteggio tra le liste che hanno ottenuto la maggiore cifra
elettorale, si delega un Ufficiale elettorale a decidere l’elezione o si scelgono le
liste che posseggono particolari requisiti.
Il collegio uninominale è il sistema che non consente una rappresentanza
alle minoranze, a collegi uninominali, a suffragio individuale e a riparto individuale, nel quale:
1) per essere eletti, occorre ottenere:
a) la maggioranza relativa (il collegio uninominale a maggioranza relativa
o collegio uninominale di tipo inglese);
b) oltre alla maggioranza relativa, anche un quorum (il collegio uninominale a maggioranza relativa con il quorum o collegio uninominale di tipo
inglese con il quorum);
c) la maggioranza assoluta, cioè una cifra elettorale maggiore di quella
ottenuta da tutti gli altri concorrenti, complessivamente considerati (il collegio uninominale a maggioranza assoluta)5;
d) od, oltre alla maggioranza assoluta, anche un quorum (il collegio uninominale a maggioranza assoluta con il quorum).
2.4. Il collegio uninominale.
4 “Maior pars respectu partium minorum” dicevano i
giuristi medievali; “plurality system” dicono i giuristi di
lingua inglese.
5 “Maior pars totius collegi” dicevano i giuristi medievali;
“majority system” dicono i giuristi di lingua inglese.
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RomanaDOTTRINA
temi
2) se risultano seggi vacanti, si procede a una seconda elezione a maggioranza rela-
tiva, si effettua il sorteggio tra i candidati che hanno ottenuto la maggiore cifra elettorale, si delega un Ufficiale elettorale a decidere l’elezione o si scelgono i candidati che posseggono particolari requisiti.
II.III. I sistemi che consentono una rappresentanza alle minoranze.
2.5. Il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze.
Il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze è il sistema maggioritario, a collegi plurinominali, a suffragio di lista o a suffragio individuale e a
riparto individuale, nel quale la maggioranza degli elettori non può disporre della
totalità dei seggi.
I sistemi che consentono una rappresentanza alle minoranze sono il voto
limitato, il voto cumulativo, la lista frazionaria e il voto unico.
Il voto limitato6 è il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze e a suffragio di lista, nel quale ogni elettore può votare per una lista incompleta (contenente un numero di candidati minore di quello dei rappresentanti da eleggere)7.
2.6. Il voto limitato.
Il voto cumulativo8 è il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze e a suffragio di lista, nel quale ogni elettore può disporre di un numero di voti
eguale a quello dei rappresentanti da eleggere e può distribuire tali voti come
meglio crede.
2.7. Il voto cumulativo.
La lista frazionaria (o voto limitato plurimo o voto cumulativo plurimo)9 è il
sistema che consente una rappresentanza alle minoranze e a suffragio di lista, nel
quale ogni elettore può disporre di un numero di voti minore di quello dei rappresentanti da eleggere ma può distribuire tali voti come meglio crede.
2.8. La lista frazionaria.
Il voto unico10 è il sistema che consente una rappresentanza alle minoranze e
a suffragio individuale.
2.9. Il voto unico.
6 Il voto limitato fu proposto per la prima volta nel 1793,
in Francia, da Condorcet.
7 Il sistema suddetto, per funzionare correttamente,
richiede che i seggi assegnati al collegio siano almeno 3,
poiché, altrimenti, la maggioranza potrebbe perdere
facilmente la sua posizione di preminenza
8.Il voto cumulativo fu proposto per la prima volta nel
58
1850, in Inghilterra, dal Committee of the Privy Council
for Trade and Plantations.
9 La lista frazionaria fu proposta per la prima volta verso
la fine del XIX secolo, in Francia, da Severin de la
Chapelle.
10 Il voto unico fu proposto per la prima volta dagli uomini
della Rivoluzione francese.
III SISTEMI PROPORZIONALI11
III.I. Generalità
3.1. Il sistema proporzionale.
Il sistema proporzionale12 è il sistema elettorale nel quale si tende a dare a tutti
gli elettori una forza rappresentativa eguale (indipendentemente dal concorrente per il
quale hanno votato) e, di conseguenza, a tutti i partiti una rappresentanza proporzionata
alla relativa forza numerica.
Lo scopo principale del sistema proporzionale è quello di garantire la democraticità della rappresentanza (la rappresentatività).
Un sistema proporzionale può essere “corretto” in senso maggioritario sia da
soglie di sbarramento, cioè cifre elettorali al di sotto delle quali non è consentita la rappresentanza di concorrenti, che da premi di maggioranza, cioè insiemi di seggi ulteriori da assegnare al concorrente che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale.
Un sistema proporzionale puro, sotto il rigoroso profilo tecnico-scientifico, deve
ritenersi irrealizzabile, poiché, da una parte, esso dovrebbe soddisfare le seguenti condizioni:
1) a livello nazionale, la ripartizione dei seggi in base al quoziente elettorale13
nazionale;
2) a livello circoscrizionale, la ripartizione dei seggi in base al quoziente elettora-
le circoscrizionale e in modo che, nella circoscrizione, siano eletti tanti rappresentanti quanti le competerebbero secondo popolazione;
ma, dall’altra, tali condizioni risultano sempre inattuabili, in quanto, per il notevole scarto esistente da zona a zona nel rapporto tra abitanti ed elettori, tra elettori e
votanti o tra votanti e voti validi, il quoziente elettorale nazionale non corrisponde mai
ai vari quozienti elettorali circoscrizionali e questi, a loro volta, non corrispondono mai
tra loro: di modo che le zone dove minore è la percentuale degli elettori sugli abitanti,
dei votanti sugli elettori o dei voti validi sui votanti ottengono sempre un numero di rappresentanti minore di quello che competerebbe loro secondo popolazione.
I sistemi proporzionali sono il sistema delle liste concorrenti e il sistema del voto
trasferibile.
Il sistema delle liste concorrenti (o sistema della concorrenza delle liste) è il
sistema proporzionale, a collegi plurinominali, a suffragio di lista e a riparto di lista.
3.2. Il sistema delle liste concorrenti.
11 AMBROSINI, G., op. cit., 53-108, 163-167 e 177-204;
BISCARETTI DI RUFFÌA, P., op. cit., 315-319 e 321-324; CERRI,
A., op. cit., 111 e 112; FERRARA, G., op. cit., 32-36;
MARTINES, T., op. cit., 221; MORTATI, C., op. cit., 451-456;
SCHEPIS, G., op. cit., 63-122, 124-175, 177-202 e 205-210.
12 La nascita del sistema proporzionale si fa comunemente
risalire al 1780, quando il duca di Richmond ebbe a
sostenere alla Camera dei Lords la necessità di riformare il
sistema elettorale britannico con l’adozione del suffragio
universale e del metodo del quoziente.
13 Per la definizione di “quoziente elettorale” si rinvia al
par. 3.13..
59
RomanaDOTTRINA
temi
Il collegamento tra le liste (o imparentamento tra le liste o apparentamento tra
le liste o associazione tra le liste)14 è la formazione di un gruppo tra due o più liste,
affinché, nella ripartizione dei seggi spettanti a un collegio (il collegamento tra le
liste di tipo svizzero) o a più collegi (il collegamento tra le liste di tipo belga), non
esistano più le singole liste collegate, ma soltanto il relativo gruppo.
Il sistema delle liste concorrenti si distingue, quanto al tipo di suffragio, in lista
rigida, lista semirigida e lista libera e, quanto al tipo di riparto, in metodo del quoziente e dei maggiori resti e metodo d’Hondt.
La lista rigida (o lista bloccata)15 è il sistema delle liste concorrenti nel quale
l’ordine di precedenza tra i candidati, stabilito in partenza dai presentatori delle
liste, è sempre valido e non può essere modificato dagli elettori.
3.3. La lista rigida.
La lista semirigida è il sistema delle liste concorrenti nel quale l’ordine di
precedenza tra i candidati, stabilito in partenza dai presentatori delle liste, è sempre
valido ma può essere modificato dagli elettori.
La lista semirigida si distingue in lista di tipo belga, sistema semirigido del
voto graduale, sistema del voto negativo e sistema del voto aggiunto.
3.4. La lista semirigida.
La lista di tipo belga16 è la lista semirigida nella quale ogni elettore può
accettare l’ordine di precedenza tra i candidati della lista prescelta, tracciando un
segno in capo a essa (il voto di lista), o modificare tale ordine in favore di uno o
più candidati, tracciando un segno a fianco dei relativi nomi (il voto di preferenza).
3.5. Segue. La lista di tipo belga.
Il sistema semirigido del voto graduale è la lista semirigida nella quale ogni
elettore può esprimere un voto di lista o modificare l’ordine di precedenza tra i candidati della lista prescelta in favore di uno o più di essi, scrivendo i numeri 1, 1/2,
1/3, ecc. a fianco dei relativi nomi (il voto graduale).
3.6. Segue. Il sistema semirigido del voto graduale.
Il sistema del voto negativo è la lista semirigida nella quale ogni elettore può
esprimere voti sfavorevoli per uno o più candidati della lista prescelta, cancellando
dalla lista i relativi nomi (il voto negativo o cancellazione).
3.7. Segue. Il sistema del voto negativo.
14 Il collegamento tra le liste fu proposto per la prima
volta nel 1890, in Belgio.
15 La lista rigida fu proposta per la prima volta nel 1895,
in Belgio
60
16 .La lista di tipo belga fu proposta per la prima volta nel
1878, in Belgio, da V. d’Hondt.
Il sistema del voto aggiunto è la lista semirigida nella quale ogni elettore, se la
lista prescelta è incompleta, può esprimere voti favorevoli per uno o più candidati di
altre liste, aggiungendo nella lista i relativi nomi (il voto aggiunto o panachage).
3.8. Segue. Il sistema del voto aggiunto.
La lista libera è il sistema delle liste concorrenti nel quale l’ordine di precedenza tra i candidati, stabilito in partenza dai presentatori delle liste, è valido solo in
caso di parità di voti tra due o più candidati.
La lista libera si distingue in sistema libero del voto di preferenza, sistema
libero del voto graduale e lista di tipo svizzero.
3.9. La lista libera.
Il sistema libero del voto di preferenza è la lista libera nella quale ogni elettore può esprimere un primo voto di lista e un secondo voto di preferenza.
3.10. Segue. Il sistema libero del voto di preferenza.
Il sistema libero del voto graduale è la lista libera nella quale ogni elettore può
esprimere un primo voto di lista e un secondo voto graduale.
3.11. Segue. Il sistema libero del voto graduale.
La lista di tipo svizzero17 è la lista libera nella quale ogni elettore può esprimere
voti favorevoli per uno o più candidati di qualsiasi lista, componendo una propria lista
con i relativi nomi.
3.12. Segue. La lista di tipo svizzero.
Il metodo del quoziente naturale e dei maggiori resti è il sistema delle liste concorrenti nel quale la ripartizione dei seggi si svolge nelle seguenti fasi:
1) il calcolo della cifra elettorale necessaria e sufficiente a conquistare un seggio (il
quoziente elettorale), che si ottiene:
a) dividendo la cifra elettorale generale (la cifra elettorale conseguita da tutti i
concorrenti) per il numero dei seggi da ripartire (il quoziente naturale), per il
numero dei seggi da ripartire aumentato di una sola unità (il quoziente corretto)
o per il numero dei seggi da ripartire aumentato di più unità (il quoziente più che
corretto);
b) sottraendo a tale quoziente la sua eventuale parte frazionaria.
3.13. Il metodo del quoziente naturale e dei maggiori resti.
2) il calcolo del numero dei seggi da assegnare a ogni lista, che si ottiene:
a) dividendo la cifra elettorale della lista per il quoziente elettorale;
b) sottraendo a tale quoziente la sua eventuale parte frazionaria.
17 La lista di tipo svizzero fu proposta per la prima volta nel 1846, in Francia, da V. P. Considérant.
61
RomanaDOTTRINA
temi
3) l’assegnazione dei seggi alle liste.
4) se a una lista spettano più seggi di quanti sono i suoi candidati, l’assegnazione
dei seggi esuberanti con lo svolgimento di una seconda ripartizione dei seggi (fino
a questo punto, il metodo del quoziente naturale, il metodo del quoziente corretto
o metodo Hagenbach-Bischoff18 o metodo del più uno e il metodo del quoziente più
che corretto, secondo che si tratti di un quoziente naturale, corretto o più che corretto);
5) se risultano seggi vacanti, l’assegnazione di essi, successivamente:
a) alle liste che hanno ottenuto i maggiori resti (il metodo dei maggiori
resti)19;
b) alle liste che hanno ottenuto le maggiori cifre elettorali (il metodo delle
maggiori cifre elettorali);
c) alle liste che hanno ottenuto le minori cifre elettorali (il metodo delle minori cifre elettorali);
d) o alle liste individuate con il metodo d’Hondt applicato ai resti (il metodo
d’Hondt applicato ai resti).
Il metodo d’Hondt (o metodo del divisore comune)20 è il sistema delle liste
concorrenti nel quale la ripartizione dei seggi si svolge nelle seguenti fasi:
1) il calcolo del quoziente elettorale, che si ottiene:
a) dividendo la cifra elettorale di ogni lista, successivamente, per 1, per 2, per
3, ecc. fino al numero dei rappresentanti da eleggere;
b) allineando in ordine decrescente un numero di tali quozienti eguale a quello dei rappresentanti da eleggere;
c) sottraendo all’ultimo di tali quozienti la sua eventuale parte frazionaria.
3.14. Il metodo d’Hondt.
2) il calcolo del numero dei seggi da assegnare a ogni lista, che si ottiene:
a) dividendo la cifra elettorale della lista per il quoziente elettorale;
b) sottraendo a tale quoziente la sua eventuale parte frazionaria.
3) l’assegnazione dei seggi alle liste.
4) se a una lista spettano più seggi di quanti sono i suoi candidati, l’assegnazione
dei seggi esuberanti alle liste che seguono nella graduatoria dei quozienti.
18 Il sistema Hagen-bach-Bischoff fu proposto per la prima
volta nel 1889, in Svizzera, da E. Hagenbach-Bischoff.
19 L’operazione suddetta può svolgersi a livello collegiale
(il riparto dei seggi autonomo) o supercollegiale (il
62
riparto dei seggi con recupero dei resti).
20 Il metodo d’Hondt fu proposto per la prima volta nel
1878, in Belgio, da V. d’Hondt.
5) se risultano seggi appartenenti a più liste21, l’assegnazione di essi, successiva-
mente:
a) con il metodo dei maggiori resti;
b) con il metodo delle maggiori cifre elettorali;
c) con il metodo delle minori cifre elettorali;
d) o alle liste sorteggiate (il metodo del sorteggio).
Il sistema del voto trasferibile (o sistema Hare)22 è il sistema proporzionale,
a collegi plurinominali, a suffragio individuale e a riparto individuale, nel quale
ogni elettore può indicare a quali altri candidati il suo voto intende sia successivamente attribuito, nel caso in cui, a causa di un’eccessiva concentrazione di voti su
pochi candidati (il procedimento del trasferimento) o di un’eccessiva dispersione di
voti tra molti candidati (il procedimento dell’eliminazione), il suffragio da lui
espresso per il primo candidato, essendo, rispettivamente, non necessario o non
sufficiente ai fini del raggiungimento del quoziente elettorale da parte di quello,
debba rimanere inefficiente23.
3.15. Il sistema del voto trasferibile.
21 L’ipotesi suddetta si verifica quando, trattandosi di cifre
elettorali di lista eguali o tra loro in preciso rapporto di
proporzione aritmetica, il quoziente elettorale
appartiene a più di una lista.
22 Il sistema del voto trasferibile fu applicato per la prima
volta in Inghilterra, su proposta di T. Hare nel 1857.
23 Il sistema suddetto, peraltro, può presentare pericoli per
la segretezza del voto, a causa della numerosità e,
pertanto, della riconoscibilità delle “combinazioni” di
preferenze e delle disposizioni di ciascuna combinazione
che potrebbero essere sollecitate a ciascun elettore:
combinazioni, che risultano tanto più numerose quanto
maggiore è il numero dei candidati contenuti o
contenibili nella lista.
63
RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Paolo DE GREGORIO
Brevi considerazioni
sui rapporti tra usura
penale ed usura civile. I rimedi civilistici
per la pattuizione di interessi usurari
i considera usura la pratica consistente nel fornire prestiti a tassi di interesse tali da
Nozione di usura.
rendere il loro rimborso estremamente oneroso e spingendo perciò il debitore ad
accettare condizioni capestro poste dal creditore a proprio vantaggio.
Per tali ragioni l’usura oltre che condannata moralmente viene sanzionata penalmente con reclusione e multa ( art. 644 c.p.).
Non v’è dubbio comunque che la pattuizione di interessi usurari rappresenta una
condizione svantaggiosa o iniqua per il contraente che la subisce ed altera il sinallagma contrattuale con conseguente possibilità di chiedere la rescissione del contratto ai
sensi dell’art. 1448 c.c.
Ciò, ovviamente al ricorrere delle condizioni e dei presupposti richiesti per tale
azione (stato di bisogno, approfittamento di tale stato, lesione eccedente la metà del
valore della controprestazione o, come suol dirsi, “ultra dimidium”).
Proprio la peculiarità delle condizioni richieste per azionare il rimedio della rescissione rendevano problematica la compatibilità tra tale rimedio e la sanzione penale già prima dell’entrata in vigore della legge n° 108 del 7 marzo 1996.
L’art. 644 c.p. prevedeva infatti Chiunque fuori dai casi previsti dall’articolo precedente , approfittando dello stato di bisogno di una persona, si fa da questa dare o promettere sotto qualsiasi forma , per sé o per altri in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile , interessi o altri vantaggi usurari è punito...” Si riscontrava infatti che mentre ai fini della rescissione del contratto è necessario che la lesione
integri una sproporzione “ultra dimidium” tra le prestazioni per configurare il reato di
usura può essere sufficiente anche una sproporzione inferiore. Inoltre dalla formulazione
dell‘ articolo 1449 c.c.(in tema di prescrizione dell’azione di rescissione) emerge che
la lesione “può risolversi”, ma non “si risolve necessariamente”, in illecito penale.
S
La legge n° 108 del 7 marzo 1996 modificando sia l’ art. 644 c.p. sia l’art.
1815 c.c.. la quale prevede, con particolare riferimento al contratto di mutuo, la
nullità parziale della sola clausola usuraria, ha riacceso il dibattito circa i confini
tra usura “penale” ed usura “civile”.
Con la modifica dell’art. 1815 c.c. in particolare la nullità parziale della
clausola usuraria viene accompagnata non più della sostituzione dell’interesse
usurario con quello legale bensì dalla esclusione della debenza di alcun interesse.
La riforma.
64
La riforma ha prodotto due effetti principali.
Il primo è stato quello di svincolare la configurabilità dell’usura da ogni indagine di carattere soggettivo (l’approfittamento dello stato di bisogno).
Il secondo è stato quello di ampliare la sfera di operatività dell’usura.
Il nuovo art. 644 c.p. recita Chiunque fuori dai casi previsti dall’art. 643 si fa dare o promettere sotto qualsiasi forma per sé o per altri in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altre utilità , interessi o altri vantaggi usurari è punito..” (comma
primo) . La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi anche se inferiori a tale limite e gli altri vantaggi o compensi che , avuto riguardo alle concrete modalità del fatto o del tasso medio praticato
per operazioni similari risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di
denaro o di altra utilità ovvero all’opera di mediazione , quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria ” (comma 3).
Come si diceva quindi mentre in precedenza il reato era configurabile nel solo
caso di scambio di denaro (o altra cosa mobile) contro interessi e vantaggi economici
adesso la si è estesa ad “ogni utilità” e la controprestazione può consistere anche in vantaggi e compensi “ diversi” dagli interessi (rectius: prestazioni pecuniarie periodiche).
Accanto alla usura pecuniaria ad interessi , quella cioè caratterizzata dalla consegna di denaro a fronte della restituzione rateale di altro denaro sono infatti configurabili altre ipotesi di usura .
Si pensi al riconoscimento di un vantaggio diverso da somme di denaro corrisposte
periodicamente perchè ad esempio versate in unica soluzione o una tantum (usura pecuniaria rateale non ad interessi) oppure alle ipotesi in cui il vantaggio costituisce il corrispettivo di un bene diverso dal denaro quale ad esempio un bene immobile o una prestazione professionale (usura reale).
Dal raffronto tra la vecchia e la nuova formulazione emerge altresì che il legislatore non considera più quali elementi costitutivi del reato né lo stato di bisogno del contraente leso né l’approfittamento di tale stato essendo sufficiente ad integrare la fattispecie delittuosa il mero superamento del limite costituito dal 50% del tasso medio previsto dalla legge per il finanziamento erogato (art.2 comma 4 legge 108/1996).
Lo stato di bisogno non ha comunque perso del tutto rilievo allorché gli interessi,
anche se inferiori al limite stabilito dalla legge, risultano comunque sproporzionati avuto
riguardo alle condizioni economiche e finanziarie di chi li ha dati o promessi (comma 3°)
nonché ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui al comma. 5 numero 3).
Ciò posto il quesito che si pone è il seguente: è ammissibile la sussistenza di
una usura rilevante penalmente ma civilisticamente non sanzionabile?.
La domanda sorge spontanea se si considera quanto segue: se la lesione non
oltrepassa il dimidium o non è ravvisabile uno stato di bisogno o non vi è l’approfittamento dello stesso come potrà applicarsi l’art. 1448 c.c. di cui mancano i presupposti oggettivi o soggettivi?.
Gli aspetti problematici.
65
RomanaDOTTRINA
temi
Ed ancora: se non vi è usura pecuniaria ad interessi ma usura pecuniaria non
ad interessi o usura reale è applicabile l’art. 1815 c.c. dettata con riferimento solo al
primo caso?
Nel tentativo di rispondere a tale quesito si sono elaborate due tesi.
La prima sostiene che la norma penale costituisce sempre, sul piano civilistico, norma imperativa” con conseguente nullità della pattuizione di interessi usurari ex art 1418 c.c.( cause di nullità del contratto).
Si affermava in sostanza che il contratto stipulato a condizioni usurarie viene
a configurare una ipotesi speciale di contratto rescindibile colpita dalla più grave sanzione della nullità parziale in quanto lesiva di un interesse generale (tant’è che è sanzionata anche penalmente integrando una delle ipotesi tipiche di reato –contratto) .
La seconda tesi sosteneva invece che non è vero che la norma penale sia sempre “norma imperativa” ai fini della validità/ invalidità del contratto.
Ciò in realtà accade quando la norma penale vieta il contratto e cioè considera reato il contratto in se ( reato –contratto).
Lo stesso non accade quando non è vietato il contratto ma il comportamento precontrattuale costituente l’iter di formazione del contratto stesso ( reati in contratto).
In tali casi la violazione del precetto penale non impone l’applicazione dell’art.
1418 c.c. bensì delle regole sulla responsabilità precontrattuale o contrattuale o, in
caso di vizio della volontà, dell’annullamento del contratto secondo le comuni regole.
La seconda soluzione appare preferibile anche perché consente di superare le
osservazioni critiche che si ponevano alla prima fondata sull’equazione clausole usurarie = reato = contrarietà a norme imperative. Si è infatti osservato che stabilire la
automatica nullità del contratto a fronte della pattuizione di interessi usurari avrebbe causato effetti negativi anche per il mutuatario ( contraente debole) il quale si sarebbe visto revocare la somma concessa in prestito con conseguente obbligo di restituzione.
Considerare poi applicabile il rimedio della rescissione senza considerare la
novella legislativa e la conseguente oggettivazione dell’usura avrebbe costituito una
inammissibile forzatura dell’istituto in assenza di validi agganci normativi.
Inoltre , essendo l’art. 1815 norma a carattere eccezionale e riferita solo alle
ipotesi di contratti di mutuo , la sua applicabilità per analogia alle usure non ad interessi e alle usure reali deve ritenersi è certamente inammissibile.
In realtà concludendo si può affermare quanto segue: l’usura è fenomeno unitario; detto fenomeno conosce diverse tipologie di sanzioni : reclusione e multa sul
piano penale , nullità parziale della clausola usuraria per la più comune tipologia di
usura e cioè quella pecuniaria ad interessi , rescissione per lesione nei casi di usura
pecuniaria non ad interessi e usura reale
Il comportamento che integra il reato di usura è per definizione un illecito ciLa soluzione.
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vile precontrattuale indipendentemente dalla diverse tipologie di usura che integra e
come tale è sempre foriero di una obbligazione risarcitoria che nella fattispecie è pari all’usurarietà imposta e quindi all’eccessività del vantaggio spuntato rispetto a quello che si sarebbe consolidato se il comportamento fosse stato corretto. Il consumatore mutuatario azionando il rimedio risarcitorio ha il duplice vantaggio di conservare il mutuo o il diverso contratto in questione, e di cicatrizzare le conseguenze economiche negative.
67
RomanaDOTTRINA
temi
False fatturazioni
e configurabilità
dei reati di associazione per delinquere
e di riciclaggio
Avv. Salvatore GOLINO
na delle forme più diffuse di evasione è quella perpetrata attraverso l’emissione e l’uti-
Emissione di fatture per operazioni inesistenti.
lizzo di fatture per operazioni inesistenti. Si tratta di due distinte fattispecie di reato, previste rispettivamente dagli artt. 8 1 e 2 del D.Lgs. 10 Marzo 2000, n. 74:“Nuova disciplina
dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”, delle quali è utile delineare brevemente gli elementi caratterizzanti e differenziali, prima di entrare nell’argomento oggetto delle presenti riflessioni.
Il primo reato si realizza al momento della emissione del “documento” 2 , che va identificato nel momento della consegna o spedizione al destinatario e cioè nel momento in cui
lo stesso documento esce dalla sfera giuridica di chi lo ha redatto. Essendo sufficiente per la
sua consumazione il solo compimento dell’atto tipico, è da considerare un reato istantaneo
e di pericolo, atteso che non comporta di per sé alcun danno diretto e immediato al bene tutelato, in controtendenza rispetto al principio informatore della citata normativa sui reati tributari, che prevede negli altri casi solo reati di danno. A questo proposito, la Suprema Corte ha precisato che il reato di cui all’art. 8 non richiede che sia presentata la dichiarazione fiscale da parte del destinatario della fattura 3.
Un’altra peculiarità consiste nel fatto che l’emissione di plurime fatture nel “corso del
medesimo periodo d’imposta si considera come un solo reato” e ciò vale anche nel caso in
cui le fatture emesse siano state destinate a più utilizzatori. Questa disposizione, di particolare favore per il reo, comporta notevoli implicazioni, sia per quanto riguarda la non perseguibilità, per il principio del “ne bis in idem”, nei confronti di colui per il quale, già processato per avere emesso in un determinato anno d’imposta fatture per operazioni inesistenti
(anche solo una), si scopra successivamente che abbia emesso in quello stesso anno molte
altre fatture, sia ai fini della decorrenza dei termini di prescrizione, che iniziano a decorrere
dalla data di emissione dell’ultima fattura dell’anno considerato.
U
1 Art. 8 : Emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti.
1.E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle
imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti .
2. Ai fini dell’applicazione della disposizione prevista nel
comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o
documenti per operazioni inesistenti nel corso del
medesimo periodo d’imposta si considera come un solo
reato.
3. Se l’importo non rispondente al vero indicato nelle
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fatture o nei documenti è inferiore a lire trecento milioni
per periodo d’imposta
2 Per “documento” deve intendersi oltre la fattura redatta
secondo i requisiti previsti nell’art. 21 del D.P.R. n.
633/1972, anche sotto forma di nota, conto, parcella e
simili, ogni altro documento destinato a provare
l’avvenuta effettuazione di una operazione imponibile,
come le autofatture, le schede carburante, le note di
credito o di debito, i cosiddetti scontrini parlanti e simili.
3 Cass. Sent. n. 33891/2006, CED. Corte Cass. Rv.235115
Un ulteriore elemento che caratterizza la fattispecie in esame consiste nell’assenza di una soglia minima di punibilità, prevista, invece, per altre fattispecie di reato inserite nella stessa legge. Ne consegue che anche l’emissione di una sola fattura per un importo minimo concretizza il reato, seppur nella forma attenuata prevista nel comma 3 dell’art. 8 in esame, secondo la quale nel caso in cui “l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è inferiore a lire trecento milioni (pari a € 154.937)
per ciascun periodo d’imposta, si applica la reclusione da sei mesi a due anni” e non la
pena da un anno e sei mesi a sei anni prevista dal comma 1 dello stesso articolo. Da notare, a questo proposito, che l’importo delle fatture false emesse in uno stesso periodo d’imposta va calcolato includendo anche l’IVA esposta sui documenti in questione.
Un ultimo elemento da sottolineare consiste nell’elemento psicologico, atteso che,
come per tutti gli altri reati previsti nel decreto legislativo in esame, deve sussistere il dolo specifico, da individuare per questo reato “nel fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Ne consegue che l’emissione di una o più
fatture per operazioni inesistenti per conseguire una utilità propria dell’emittente e non
destinate a consentire ad altri l’evasione delle imposte non materializza il reato in questione.
E’ il caso di fatture emesse per far apparire più florida la situazione economica dell’impresa al fine di ottenere la concessione di fidi, ovvero di fatture emesse nei confronti di un non residente 4, ecc….. In questi casi, le fatture risulteranno emesse o nei confronti di controparti inesistenti o che, comunque, non ne faranno uso nella loro contabilità e, quindi, nella redazione della dichiarazione dei redditi. L’emittente, quindi, non si
prefigge il fine di consentire ad altri l’evasione delle imposte sul reddito o dell’IVA, ma
agisce per conseguire una utilità sua propria, attività che potrà realizzare altre ipotesi di
reato, ma non quella di cui si tratta.
Per quanto riguarda la seconda fattispecie prevista dall’art. 25 del D.Lgs. n.
74/2000 dal titolo “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, è utile sottolineare subito che si tratta di un reato
Dichiarazione fraudolenta.
4 E’ interessante a questo proposito la Sent. in data
12/11/2004 del Tribunale di Pesaro secondo la quale: “Il
reato di emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti …….. presuppone la sussistenza
dell’elemento soggettivo del dolo specifico, costituito dalla
finalità di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui
redditi o sul valore aggiunto. Non costituisce reato
l’emissione di fatture in favore di soggetti non residenti le
cui vicende giuridiche appaiono irrilevanti per la
legislazione italiana”. Fonte: Fisco, 2005, 1796, nota di
Pardi, Dir. e Prat. Trib. 2005, 2, 784.
Vedi anche la Sent. n. 66 in data 15/4/2005 della Comm.
Trib. Prov. di Frosinone, che esclude la sussistenza del reato
in questione nel caso di fatture emesse per essere
presentate a vari istituti di credito per l’accredito, salvo
buon fine, delle corrispondenti ricevute bancarie, ma mai
annotate e utilizzate.
5 Art. 2: Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o
altri documenti per operazioni inesistenti.
1. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei
anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o
sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle
dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi
passivi fittizi.
2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o
altri documenti per operazioni inesistenti quando tali
fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili
obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti
dell’amministrazione finanziaria.
3. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a
lire trecento milioni (¤ 154.937,07), si applica la r eclusione
da sei mesi a due anni.
69
RomanaDOTTRINA
temi
di danno perché si realizza nel momento della presentazione della dichiarazione dei
redditi, nella quale vengono recepiti i dati riportati nella contabilità “inquinata” dall’inserimento delle fatture false e, quindi, nel momento in cui si produce il danno all’erario, consistente nella dichiarazione di una base imponibile inferiore a quella reale e nel conseguente versamento di minore imposte rispetto a quelle dovute. Tanto è
vero che risultano ininfluenti, ai fini della responsabilità penale, gli atti posti in essere nelle fasi precedenti di redazione della contabilità, cosiddetti atti prodomici, che,
in vigenza della soppressa legge n. 516/1982, erano anch’essi penalmente rilevanti
perché le relative condotte realizzavano distinti reati di pericolo. Ciò rileva anche ai
fini della prescrizione, che, per esempio, per una fattura falsa registrata in contabilità nel gennaio di un determinato anno, inizia a decorrere dal mese di giugno o di luglio dell’anno successivo, atteso che il termine di presentazione della dichiarazione
relativa al periodo d’imposta dell’anno precedente scade appunto al trenta giugno o
al trentuno luglio dell’anno successivo, a seconda del soggetto passivo d’imposta, a
nulla influendo il fatto che la fattura sia stata contabilizzata nell’anno precedente 6.
Per quanto attiene all’elemento psicologico, anche in questo caso si richiede
che sussista il dolo specifico, che consiste però nel “fine di evadere le imposte sui
redditi e l’IVA” da parte di colui che produce la “dichiarazione fraudolenta”. Essendo la condotta finalizzata a conseguire una propria utilità, il reato non sussiste quando questo fine specifico non si realizza, come per le fatture relative ad operazioni
soggettivamente inesistenti. E’frequente il caso di operazioni effettuate da Tizio (venditore) nei confronti di Caio (acquirente), ma fatturate da Sempronio, senza che Caio
ne sia necessariamente a conoscenza (si pensi ad accordi intercorsi fra persone fisiche relativi ad una operazione poi fatturata da una persona giuridica, la cui denominazione sociale non è esattamente nota all’acquirente). Ma nulla cambia anche nel
caso che Caio ne sia consapevole. L’accordo fra Tizio e Sempronio consente al primo di non rilevare in contabilità la vendita e quindi il ricavo, mentre il secondo, formale emittente della falsa fattura nei confronti di Caio, di solito sparisce dopo breve tempo o si copre a monte con fatture di altri falsi fornitori. Nell’ipotesi considerata, l’operazione sottostante alla fattura “falsa”, perché emessa da un soggetto diverso dal vero contraente, è effettivamente avvenuta, sicchè Caio, sempre che abbia
ricevuto la merce nella quantità e al prezzo espressi in fattura, ha effettivamente sostenuto un costo ed ha corrisposto l’IVA relativa all’imponibile indicato sul documento.
Naturalmente, nella quasi totalità dei casi il tutto avviene per effetto di un preciso accordo fra tutti coloro che partecipano all’operazione, sicchè Caio è perfettamente a conoscenza della non corrispondenza fra colui che emette la fattura e il suo
effettivo fornitore, ma ha agito per consentire a Tizio di evadere e non per sottrarsi
6 Con la Sent. n. 19781 in data 29/4/2003, la Suprema
Corte ha chiarito che il reato in questione è un reato
istantaneo, per cui la presentazione di una successiva
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dichiarazione di rettifica, anche nei termini previsti dalla
legge, non costituisce causa di non punibilità.
egli stesso all’obbligo del versamento dei tributi. Ciò stante, non essendo previsto
dalla norma in esame il dolo a favore di terzi, come nel caso precedentemente esaminato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, il prevalente orientamento
della giurisprudenza sul punto7 è quello di non considerare sussistente in capo all’utilizzatore della fattura emessa da un soggetto diverso dall’effettivo contraente l’ipotesi di reato prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, sia per carenza dell’elemento
oggettivo, non essendo stati indicati in contabilità e recepiti in dichiarazione “elementi passivi fittizi”, sia per carenza dell’elemento soggettivo, non avendo l’utilizzatore agito “al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA”, come previsto dalla
norma incriminatrice. Quest’ultimo ha agito per consentire a terzi di evadere, ma tale condotta non è riconducibile alla fattispecie considerata. Ciò, tuttavia, non esclude che tale condotta sia censurabile sotto altri profili.
A diverse conclusioni si perviene8 nel caso opposto di fattura per operazione
inesistente perchè emessa dal vero venditore/prestatore nei confronti di un soggetto
diverso dal vero acquirente/fruitore, sussistendo in capo all’utilizzatore sia l’elemento
soggettivo, atteso che chi registrata la fattura si prefigge di conseguire un vantaggio
suo proprio attraverso un indebito risparmio d’imposta, sia l’elemento oggettivo, perché indicherebbe nella dichiarazione “elementi passivi fittizi”. E’ il caso dell’acquisto di un bene o di un servizio da parte di una persona fisica non imprenditore, che
non avrebbe, in quanto tale, diritto ad alcuna detrazione, fatturato (dal vero venditore) ad una impresa (falsa acquirente) collegata alla persona fisica; impresa che così
conseguirebbe un risparmio d’imposta attraverso l’inserimento in contabilità e,
quindi, in dichiarazione di un onere “fittizio”, in quanto mai sostenuto perché riferibile ad altro soggetto. In effetti, questo caso rientrerebbe fra le operazioni oggettivamente inesistenti, atteso che per colui che utilizza la fattura emessa dal vero fornitore l’operazione non è mai avvenuta. Egli opererebbe al fine di evadere le imposte, indicando in contabilità e nelle conseguente dichiarazione un costo mai sostenuto per un acquisto mai effettuato.
La più chiara conferma del principio ispiratore dell’intero impianto normativo, secondo il quale la responsabilità penale va collegata all’effettiva lesione dell’interesse dell’erario a riscuotere i tributi dovuti, si rinviene nelle deroghe apportate alle norme di diritto penale comune che regolano il concorso e il tentativo. Con
l’art. 9 del D.Lgs. n. 74/2000, in deroga a quanto previsto dall’art. 110 c.p., si è espressamente esclusa sia la possibilità che l’emittente delle fatture possa essere ritenuto
anche concorrente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzato7 Cfr. Tribunale di Pesaro Sent. n. 245, in data 17 Ottobre
2006, dep. in data 12 dicembre 2006, in “Il Fisco”
n. 7/2007, pag. 1044; Tribunale di Genova Ufficio GIP,
Sent. in data 12 Marzo 2003, dep il 24 Marzo 2003,
con nota di Andrea Perini, in “Il Fisco” n. 15/2003,
pag. 2331; Tribunale di Pinerolo Sent. 13 Giugno 2002,
in “Rassegna Tributaria” n. 6/2002, pag. 2129;
Tribunale di Milano Uff. G.I.P. decreto di archiviazione
in data 8 Giugno 2000.
8 In senso conforme, vedi Arturo Pardi: a commento della
Sent. Trib. di Pesaro n. 245 in data 12 dicembre 2006, in
“Il Fisco” n. 7/2007, pag. 1047; Marco Di Siena:
“Le fatture per operazioni soggettivamente inesistenti”,
in “ Il Fisco” n. 5/2002, pagg. 636 e sgg.
71
RomanaDOTTRINA
temi
re, sia la possibilità che quest’ultimo possa concorrere nel reato di emissione, perché
in questo caso si sarebbe anticipato il momento dell’insorgenza della responsabilità
penale, seppur a titolo di concorso in un diverso reato, all’atto dell’emissione e, quindi, ad una condotta antecedente a quella attraverso la quale si produce il danno. Al medesimo criterio risponde la norma ex art. 6 del D.Lgs. n. 74/2000, che, in deroga a quanto previsto dall’art. 56 c.p. che punisce il tentativo, esclude sia il tentativo nel reato di
dichiarazione fraudolenta per colui che emette la fattura, anche perché la sua condotta realizza di per sé un reato consumato, sia il tentativo di colui che registra in contabilità la fattura, nonostante si tratti di atti diretti in modo non equivoco a porre in essere la successiva dichiarazione fraudolenta, perché in questo caso si vanificherebbe
il principio secondo il quale vanno sanzionati penalmente solo le condotte che realizzano un danno effettivo 9.
Abbiamo detto sopra delle deroghe apportate al C.P. in materia di concorso e di
tentativo.
Tali deroghe, tuttavia, non escludono che, se esiste una organizzazione costituita
da soggetti che emettono solo le fatture false, da soggetti che, avvalendosi di dette fatture, producono solo dichiarazioni fraudolenti e da soggetti che collaborano con gli
uni e con gli altri per realizzare l’unitario disegno criminoso, tutti possano rispondere
del reato di associazione per delinquere. E’ il caso frequente di chi collabora con il finto acquirente, nel trasmettere al finto fornitore gli assegni emessi dal primo, a formale copertura contabile delle fornitura, e con il finto fornitore nel riscuotere la somma
in contanti da restituire all’emittente dell’assegno. A tal fine, anche se coloro che emettono e coloro che utilizzano i falsi documenti non possono rispondere nè per concorso né per tentativo nel reato complementare degli altri, la giurisprudenza è concorde
nel ritenere che tutti coloro che partecipano ad una struttura organizzativa che agevola gli associati nella commissione dei reati possono rispondere di associazione per delinquere. A questo proposito, il Tribunale di Milano così si esprime: “La non configurabilità del concorso fra emittente e utilizzatore di fatture per operazioni inesistenti non
esclude infatti che possa prospettarsi un’associazione per delinquere in cui taluni degli associati si propongano di commettere il (solo) reato di cui all’art. 2, mentre gli altri si propongano di commettere il (solo) reato di cui all’art. 8, gli uni e gli altri avvaAssociazione per delinquere finalizzata ai falsi nelle fatture.
9 Con Sentenza n. 49 del 15/3/2002, la Corte Costituzionale
ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità
degli artt. 6 e 9, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 74/2000, in
relazione all’art. 3 della Costituzione, sollevata dal GIP di
Brescia, secondo il quale doveva ravvisarsi una disparità di
trattamento fra l’emittente delle fatture false, punito a
titolo di reato consumato, fin dal momento dell’emissione
del documento e, quindi, prima che si realizzi il danno
all’Erario attraverso la presentazione della dichiarazione
fraudolenta da parte dell’utilizzatore della fattura emessa,
vero artefice, ispiratore e beneficiario della frode, e
72
quest’ultimo che va esente da pena, anche a titolo di
tentativo, quando annota le fatture in contabilità,
compiendo atti diretti in modo non equivoco a
commettere il reato di dichiarazione fraudolenta. La Corte
ha motivato la sua decisione affermando che la scelta di
ancorare l’insorgenza della responsabilità penale nei reati
tributari al verificarsi del danno derivante dalla violazione
dell’interesse tutelato, con l’eccezione del reato di
emissione di fatture false per la sua intrinseca pericolosità,
rientra nell’ambito della discrezionalità del legislatore in
materia di politica criminale.
lendosi, però, di una medesima struttura organizzativa che agevola gli associati nella
commissione dei reati” 10. In senso concorde, anche la Suprema Corte che, nell’esaminare la posizione di taluni sodali dediti al furto e di altri dediti alla ricettazione, che
ovviamente non possono concorrere in entrambi i reati, in relazione alla configurabilità dell’ulteriore reato di associazione per delinquere, così si esprime: “La sussistenza del delitto di associazione per delinquere non richiede che tutti gli associati siano
destinati ad agire per la stessa sfera delittuosa, potendo i partecipanti accordarsi per
commettere diversi delitti, purchè inclusi nel programma dell’associazione……… Pare, infatti, che “il fine di commettere più delitti” di cui all’art. 416 del codice penale
non presupponga necessariamente l’identità dei fini delittuosi perseguiti da ciascun associato, risultando sufficiente una comune appartenenza ad una struttura stabile” 11.
Considerato che sul piano logico e giuridico la tesi sostenuta dalla giurisprudenza
non può che essere pienamente condivisa, si può concludere nell’affermare che esiste
uno strumento efficace, non solo per colpire tutti i soggetti che collaborano con gli attori principali della frode, ma per chiamare a rispondere unitariamente tutti coloro che
partecipano al sodalizio criminale anche se con compiti e finalità diverse. Sicchè, del
reato di associazione per delinquere dovranno rispondere gli emittenti, gli utilizzatori, gli intermediari e comunque tutti coloro che danno il loro apporto alla consumazione dei reati in esame.
Il nostro Paese è stato il primo a dotarsi di una normativa antiriciclaggio, che si
è via via affinata nel tempo per contrastare più efficacemente i fenomeni criminali man
mano che si manifestavano nella loro capacità di costituire una minaccia al sistema
economico.
I passaggi fondamentali che hanno segnato l’evolversi della normativa in materia sono da individuare in tre momenti:
u nel 1978, quando fu varata la prima versione dell’art. 648 bis C.P. 12, il cui titolo
non conteneva ancora il “nomen iuris” di riciclaggio, ma così recitava: “Sostituzione
di denaro o valori provenienti da rapinava aggravata, estorsione aggravata, sequestro
di persona a scopo di estorsione”. Era una norma emanata, come spesso succede nella produzione di norme penali, sotto l’impulso emotivo originato dal fenomeno, allora inquietante, dell’incremento esponenziale dei sequestri di persona a scopo di estorsione e dei reati di rapina e di estorsione aggravate;
u nel 1990, quando ci si accorse dell’estrema limitatezza dello spettro operativo della norma, che addirittura non prevedeva fra i reati presupposti i reati in materia di sostanze stupefacenti, da cui originano le risorse più rilevanti per le organizzazioni criIl reato di riciclaggio e i proventi delle frodi fiscali.
10 Tribunale di Milano, Sez. XI pen., Ord. del 22 Marzo
2005, in “Il fisco”, n. 3/2006, pagg. 426 e sgg.
12 L’art. 648 bis C.P. fu introdotto con il D.L. 21/3/1978, n.
59, convertito in L. 18/5/1978, n. 191
11 Cass. Sez. I Sent. n. 220 del 1 Marzo 1979.
73
RomanaDOTTRINA
temi
minali, fu radicalmente modificato l’art. 648 bis 13, che assunse il titolo di “riciclaggio”, prevedendo fra i reati presupposti i reati connessi al traffico di sostanze stupefacenti e affiancando alla “sostituzione” e al “trasferimento” una distinta condotta “che
sia tale da frapporre ostacoli all’identificazione del denaro, dei valori o altro di provenienza illecita specifica”. Anche l’elemento materiale fu ampliato, sostituendo alla
dizione originaria di “denaro o valori”, la nozione di “denaro, beni o altre utilità” 14.
Nella stessa occasione fu prevista una nuova fattispecie di reato con l’inserimento dell’art. 648 ter C.P. , che ha per titolo “Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita”, che aggiunse anche la condotta volta ad impiegare “in attività economiche e
finanziarie” beni o altre utilità. E’ proprio questa ultima norma che tende a tutelare il
sistema economico dall’inquinamento dei capitali “sporchi”, chiamando in causa tutti i soggetti terzi, rispetto a coloro che hanno consumato i reati presupposti, che pongono in essere consapevolmente, al di fuori dei casi di concorso nel reato presupposto, azioni volte a riversare nell’economia legale risorse di provenienza illecita (intermediari finanziari, consulenti, amministratori di società, ecc…) 15. Si è così voluto intervenire sull’anello di chiusura del circuito, che avrebbe definitivamente attribuito una
parvenza legale al frutto di attività criminali;
u nel 1993, quando fu riformulato l’art. 648 bis, ampliando la sua sfera di applicazione dai pochi reati tassativamente previsti nella precedente stesura al denaro, ai beni o alle altre utilità provenienti da “delitto non colposo”16. La modifica si ritenne necessaria perché nella vigenza del precedente testo erano esclusi, per esempio, tutti i
proventi di attività illecite molto profittevoli e rientranti nella sfera di operatività della criminalità organizzata, come l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’usura, il traffico di armi, o i proventi di gravi reati contro la Pubblica Amministrazione, come la corruzione, la concussione, ecc….
A questo proposito, si sostiene in dottrina che l’attuale formulazione della norma, indubbiamente di maggiore efficacia rispetto alle precedenti due versioni17, proprio per la sua eccessiva dilatazione presenta dubbi di incostituzionalità, sia sotto il
74
13 La modifica dell’art. 648 bis e l’introduzione dell’art. 648
ter furono attuate rispettivamente dagli artt. 23 e 24
della L. 19/3/1990, n. 25
15 Vedi in proposito, Gaetano Nanula: “il Riclaggio. Un
quadro riepilogativo con autorevole conclusione”, in “Il
Fisco”, n. 37/2007, pagg. 5403 e sgg.
14 La modifica fu decisa per superare i dubbi sorti in
dottrina e in giurisprudenza sulla possibilità di includere
i beni immobili nel concetto di “valori”. In senso
positivo, vedi Dalia “L’attentato agli impianti e il delitto
di riciclaggio”, Milano, 1979, pag. 82; in senso contrario,
vedi Antolisei “Manuale di diritto penale”, Milano,
1986, pagg. 364 e 365. Secondo tale ultimo autore se il
legislatore avesse voluto includere nel concetto di
“valori” i beni immobili avrebbe impiegato il vocabolo
“cose”, che ha un significato più vasto.
16 A dimostrazione della scarsa efficacia della norma
secondo il testo varato nel 1990, circoscritta a pochissimi
reati, sta il fatto che la Corte di Cassazione se ne era
occupata solo in due occasioni: Sent. n. 2851 del
16/3/1992 e Sent. n. 7558 del 3/8/1993, in Anselmo
Manna “Riciclaggio e reati connessi…….”, citato, pagg.
75 e 76.
17 Amato, “Riciclaggio di denaro sporco: più efficaci le
norme sulle operazioni bancarie sospette”, in Guida al
diritto- Il Sole 24 Ore, 1996,n. 16, pag. 107
profilo della indeterminatezza del precetto18, sia sotto il profilo della sproporzione che
un’applicazione estensiva di questa potrebbe produrre fra la eccessiva entità della pena da irrogare per il delitto di riciclaggio, anche se nella misura minima, e l’esiguità
della pena per il delitto presupposto19. Secondo questo orientamento dottrinale 20 si sarebbe così svilita la ratio della norma che intende colpire gli ingenti proventi che derivano dall’esercizio di un’attività criminale organizzata secondo i parametri di valutazione dei sodalizi di stampo mafioso. Da tale impostazione si trae la conclusione,
condivisa dalla Suprema Corte 21, che la norma vada interpretata nel senso che il reato di riciclaggio richiede che le condotte previste di “sostituzione” e di “trasferimento” e “le altre operazioni” sono punibili solo se finalizzate ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dell’oggetto materiale del reato. Ciononostante, permangono tuttora incertezze, come si evince da molte pronunce in sede giurisdizionale, circa l’esistenza di una precisa linea di delimitazione fra il reato di riciclaggio e il
reato di ricettazione22.
In materia di reati tributari, il Dlgs n. 74/2000 prevede solo ipotesi delittuose e
di danno, salvo le eccezioni delle due fattispecie di reati di pericolo costituite dall’emissione di fatture per operazioni inesistenti e dall’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10. Sicchè, è teoricamente riconducibile al reato di riciclaggio qualsiasi provento che derivi dalla commissione di taluno di questi reati 23. Ma un
attento raffronto fra le norme sul riciclaggio e le norme che prevedono le fattispecie
di reato in materia tributaria portano ad un notevole ridimensionamento di tale possibilità. Come noto, l’evasione fiscale si attua di solito o con il fittizio ampliamento degli elementi negativi di reddito, attraverso, per esempio, l’annotazione in contabilità
di fatture per operazioni inesistenti, l’utilizzo di altri artifici, o la sovrafatturazione da
parte di fornitori compiacenti e la successiva dichiarazione che recepisce i dati contabili così alterati, o attraverso l’omessa fatturazione o sottofatturazione di elementi positivi (ricavi), seguita sempre dalla dichiarazione. Tuttavia, fra le forme di evasione testè illustrate, sul piano della responsabilità penale, esistono profonde differenze. Nel
caso di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti il reato si configura con l’annotazione (e la successiva dichiarazione)
di un documento di qualsiasi importo senza alcuna soglia minima di punibilità. Ne deriva che questo costo fittizio, rappresentato da una effettiva uscita di cassa, costituirà
18 Soprattutto per quanto riguarda le operazioni dirette
ad “ostacolare l’identificazione della provenienza
delittuosa di denaro, beni e altre utilità”, che
effettivamente risultano piuttosto evanescenti e
imprecise.
19 In taluni casi è stato ravvisato il delitto di riciclaggio
nella condotta di colui che, per occultare la provenienza
furtiva di un’autovettura, ne aveva sostituito le targhe e
alterato il numero di telaio.
20 Anselmo Manna, “Riciclaggio e reati connessi……”, cit.
pagg. 81 e sgg.
21 Cass., II Sez. Pen. n. 9026 del 4/10/1997, in Guida al
diritto – “ Il Sole 24 Ore”, 1997, n. 42, 80
22 Per una panoramica fra riciclaggio e reati similari di
ricettazione, favoreggiamento e appropriazione
indebita, vedi Pietro Magri: “Usura, appropriazione
indebita, ricettazione, riciclaggio”. Padova, Cedam,
2007;
23 Osvaldo Cucuzza: “Segreto Bancario criminalità
organizzata, riciclaggio, evasione fiscale in Italia”.
Cedam, Torino 20
75
RomanaDOTTRINA
temi
un utile occulto percepito dal soggetto che ha operato la frode e che potrà coinvolgere un terzo soggetto, estraneo al reato di frode fiscale, incaricato di sostituire, trasferire, occultare o impiegare il suddetto denaro. Costui, sempre che sia consapevole della
frode a monte, potrà quindi rendersi responsabile del reato di riciclaggio, qualsiasi sia
la somma da “riciclare” o da “impiegare”.
Nel secondo reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D.Lgs.
n. 74/2000, che potranno rinvenirsi nella tenuta di una doppia contabilità 24, nell’accensione di un conto bancario intestato ad un prestanome sul quale far affluire i proventi in nero, nell’attivazione di un magazzino in nero, ecc…., la condotta di riciclaggio sarà punibile solo nel caso in cui gli artifici posti in essere avranno consentito di superare una doppia soglia di punibilità: in termini di imposta evasa, che con riferimento a ciascuna delle imposte evase (IVA e imposte sui redditi) dovrà essere superiore a
77.460 euro, e in termini di elementi attivi sottratti all’imposizione, che dovranno superare il 5% degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, la somma di
€ 1.549.370,70. Lo stesso vale nei casi di dichiarazione infedele o omessa ex artt. 4 e
5, per i quali vigono soglie minime di punibilità, nel senso sopra indicato. Orbene, in
tutti questi casi è difficile ipotizzare che un soggetto, estraneo al reato fiscale, perché
altrimenti risponderebbe per concorso in quest’ultimo, e che, quindi, potrebbe non conoscere le modalità di evasione e la tecnica illecita impiegata nel caso specifico per realizzarla, possa essere ritenuto colpevole di riciclaggio qualora ponga in essere le condotte tipiche di questo reato. A questo proposito, l’Ufficio Italiano dei Cambi 25 si sarebbe espresso in senso contrario a ravvisare il reato di riciclaggio di denari provenienti
da evasione, nella considerazione che essi non rappresenterebbero una nuova e distinta ricchezza da riciclare ma maggiore disponibilità di risorse che rimangono confuse
nell’integralità della massa patrimoniale dell’evasore.
Anche la giurisprudenza di merito ha espresso dubbi sulla configurabilità del riciclaggio nei delitti di frode fiscale 26.
In dottrina si profilano due orientamenti: l’uno che ritiene che il risparmio d’imposta conseguito fraudolentemente non può identificarsi con “il denaro, i beni e la altre utilità” direttamente provenienti dai delitti ai quali si riferiscono le norme del C.P.
sul riciclaggio27; l’altro che ritiene possibile collegare direttamente il reato di riciclaggio con i proventi della evasione fiscale 28.
24 Cass. Sent. n. 13641 Aprile 2002
25 Chiarimenti 18 Maggio 2006, integrati in data 21 Giugno
2006 per i professionisti (aggiornati in data 20 Novembre
2006).
26 Tribunale di Milano Uff. GIP: Ordinanza in data 19
Febbraio 1999, in “Foro Ambrosiano”, 1999, n. 4, pag. 441.
27 Vedi fra tutti Assumma: “Riciclaggio di capitali e reati
tributari”, in “rassegna Tributaria, n. 11/1995, pag. 1973;
vedi anche Antonio Scialoja: “Le nuove norme
76
antiriciclaggio”, Maggioli Editore, 2006, pag. 137, secondo
il quale: “…nei delitti di frode fiscale questo ulteriore
requisito della “identificabilità” dell'arricchimento del reo,
di una ricchezza che si aggiunge a quella da lui posseduta
non sussiste. Nell'evasione abbiamo semmai l'occultamento
di un debito, e il vantaggio per l'evasore consisterà nel
mancato pagamento di quanto da lui dovuto……..”.
28 Vedi fra gli altri Izzo “La frode fiscale quale possibile
delitto presupposto del riciclaggio”, in “Il Fisco”, n.
21/1996, pag. 5293.
Quest’ultima tesi è condivisa dalla Guardia di Finanza e dalla Banca d’Italia. Nel
decalogo-ter l’Istituto di credito centrale ha espresso l’orientamento che “i delitti fiscali
configurano reati presupposto del riciclaggio”, ma ha precisato che: “per quanto concerne le operazioni sospette ricollegabili a profili fiscali, vanno tenute presenti le recenti modifiche al regime penale in materia tributaria. In tale contesto, per configurare l’ipotesi di delitti penali connessi alle dichiarazioni fiscali, occorrerebbe conoscere,
non solo i corrispettivi non dichiarati, ma anche la situazione soggettiva del contribuente
per “ricostruire” l’ammontare dell’imposta evasa, ovvero essere venuti a conoscenza
dell’inserimento di eventuali fatture false in dichiarazione”.
A nostro avviso, quindi, il problema non consiste nello stabilire se teoricamente i reati in materia fiscale possano o meno costituire reati presupposto del riciclaggio,
per il quale la soluzione non potrebbe che essere positiva, ma le difficoltà si evidenziano in sede probatoria, nel senso che in pratica è difficile provare che chi ricicla è perfettamente consapevole e a conoscenza non solo della “provenienza” della somma ma
anche della tecnica evasiva adottata nella circostanza e pienamente conforme a taluna
delle fattispecie previste nel D.Lgs. n. 74/2000.
77
RomanaDOTTRINA
temi
I contratti innominati
e/o misti: funzione
sperimentale e preparatoria del modello
giuridico in materia economica-sociale
e la rilevanza nei rapporti tra privati
ed istituzioni
Avv. Pietro CARNEVALE
n un recente scritto sui rapporti etico sociali e, in particolare, sulla preparazione del
modello giuridico concernente il rapporto di convivenza tra due persone in Italia1,
abbiamo segnalato l’esigenza di proseguire almeno per altri anni la sperimentazione
del predetto con un modello di contratto innominato in materia più completo ed idoneo a regolamentare i vari aspetti, elementi, requisiti, condizioni, casi di risoluzione,
possibilità e modalità di integrazioni di alcuni elementi nel corso del rapporto contrattuale, procedure alternative a quella contenziosa per la soluzione dei contrasti-conflitti tra le parti contrattuali, estensione al contratto de quo delle disposizioni legislative sui figli legittimi, sulle adozioni, successioni etc. Tutto ciò servirebbe per la più
perfetta regolamentazione dei rapporti tra soggetti con l’emanando modello giuridico e con le disposizioni che in esso dovrebbero essere contenute. Peraltro, il prolungarsi di tale sperimentazione, proposta da chi scrive, trova il proprio fondamento nel
concetto di “autonomia contrattuale”, di cui all’art. 1322 c.c. e nella specifica rilevanza degli interessi che le parti intendono realizzare con la stipula di un determinato contratto, anche ai fini della validità di questo, evidenziata in una recente sentenza della Corte di Cassazione2. In detta sentenza la Suprema Corte ha ampliato la nozione di causa del contratto rispetto a quelle tradizionali in materia, escogitate dalla
dottrina, sulla base anche di alcune sentenze dei tribunali di merito e dalla Suprema
Corte di Cassazione, (oggettiva, soggettiva, scopo economico-sociale del rapporto contrattuale, mista etc.) ed ha sottolineato l’importanza degli interessi che le parti intendono perseguire con il porre in essere un determinato contratto anche ai fini della validità di questo.
Tale orientamento giurisprudenziale stimola pure la continuazione dell’esperimento in materia di contratti innominati in altri settori, al fine di individuarne meglio
gli elementi, le condizioni, i modi di risoluzione, di revisione o di modifica di alcuni
I
1 P.Carnevale, I contratti innominati nell’Ordinamento
Giuridico Italiano. Possibile uso degli stessi per una
migliore e più incisiva disciplina legislativa della
convivenza tra due soggetti, in Giur.Amm. fasc. 7-8,
2007, IV° 259.
78
2 Cassazione Civile, sezione 3°, 8 maggio 2006 n. 10490,
in “I contratti”, fascicolo 7/2007, pag. 621; F. Rimoldi,
commento a suddetta sentenza, in “I Contratti”,
fascicolo 7/2007, pag. 624; F. Besozzi, “La causa in
concreto del Contratto”: un vero revirement? In “I
Contratti”, fascicolo 11/2007, pag. 1007.
dei predetti (elementi), etc., in modo da predisporre un modello giuridico più rispondente agli interessi che le parti intendono o possono perseguire, stipulando un contratto
conforme al modello giuridico in questione. Quest’ultimo, in concreto, dovrà corrispondere alle esigenze delle parti che stipuleranno un determinato contratto.
Di certo non bisogna dimenticare che molti contratti alquanto diffusi nel settore commerciale sono rimasti disciplinati come contratti innominati prima di essere regolamentati con apposite leggi speciali ed integrative, spesso delle disposizioni codicistiche in materia di contratti tipici.
In breve, l’utilizzazione della forma atipica per un certo periodo di tempo è servita al legislatore per la redazione migliore delle norme che disciplinano il contratto
tipico in materia. Tutto ciò evidenzia anche l’importanza delle disposizioni di cui agli
articoli 1322 e 1323 c.c. per la regolamentazione in un primo momento dei contratti
innominati e, successivamente, per la disciplina giuridica dei rapporti in precedenza
regolamentati dai predetti (contratti innominati). Inoltre, la sperimentazione auspicata servirà al legislatore ad individuare meglio tutti quegli elementi, requisiti, etc. necessari per la formulazione del modello giuridico più rispondente alle esigenze dell’Ordinamento, del mercato e delle parti alle esigenze dell’Ordinamento, del mercato
e delle parti nonché alla migliore esplicitazione del concetto di autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.3
In particolare, dovranno sperimentarsi con maggiore attenzione e ponderazione, prima della formulazione del modello giuridico, le clausole di revisione di alcuni
obblighi contrattuali di modalità di risoluzione dei conflitti tra le parti, dei casi di risoluzione dei contratti in questione, etc. per iniziativa di uno o di tutti i soggetti nel
contratto. In proposito, si ricorda l’importanza della clausola di revisione nel contratto di concessione petrolifera, per il quale assume particolare rilevanza per le parti, le
condizioni economiche, politiche e sociali, dello Stato nel quale si esegue detto specifico contratto. Non può, peraltro, sottovalutarsi la necessità di una più puntuale individuazione degli elementi che caratterizzano un determinato contratto tipico, anche
in considerazione dell’evoluzione della nozione di causa stimolata da varie recenti pronunce della Cassazione. Pertanto, nella redazione del modello giuridico di contratto
dovrà ben tenersi in evidenza la rilevanza degli interessi perseguite dalle parti, con la
stipula di un determinato contratto e la funzione di quest’ultimo, per la tutela dei predetti4.
L’ulteriore sperimentazione in materia economica-sociale del modello contrattuale innominato occorrerà anche al legislatore per verificare e individuare la priorità o meno della disciplina con legge dello stesso (contratto) e ciò per evitare che il
3 In proposito si evidenzia che essa trova conferma
nell’art. 41 della Costituzione italiana. In questo, infatti,
si afferma la libertà dell’iniziativa economica, alla quale
è posto il limite di non potersi svolgere in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana (artt. 1322 e 2082 c.c.). In
termini: A. Liserre, Costituzione e autonomia
contrattuale, in Corriere Giuridico 2008, pag. 153.
4Si ritiene doveroso ricordare che il modello giuridico di
un contratto è formulato dal legislatore con le varie
disposizioni che costituiscono l’apposita legge. In tal
modo si attribuiscono al contratto in questione le
caratteristiche della tipicità.
79
RomanaDOTTRINA
temi
modello giuridico, regolamentato con apposita legge, si dimostri bisognevole di modifiche ed integrazioni, dopo qualche anno dell’emanazione della legge che lo ha disciplinato (ad esempio il franchising). Ovviamente, tale prudenza servirà a compiere tutte le verifiche necessarie nella fase preparatoria del disegno (o proposta) di legge, volta alla migliore tutela degli interessi delle parti che stipuleranno il contratto e
dei terzi destinatari e/o utilizzatori dei fini del contratto, e di quelli che potranno subire delle conseguenze e/o effetti nocivi delle loro posizioni soggettive, durante l’esecuzione di determinati contratti.
Quanto fin qui esposto è avallato anche dalla considerazione che in Italia mantengono la forma contrattuale atipica o mista molti contratti di uso frequente e diffuso, fra i quali ricordiamo quelli di sponsorizzazione, di parcheggio, ormeggio, posteggio, di skipper (utilizzazione di tutte le piste di un territorio sciistico), di pubblicità, di global service (manutenzione di un immobile e relativi impianti installati nello stesso da una determinata Impresa), di locazione di un immobile ed erogazione dei
servizi alberghieri, di ristorazione, etc., per la migliore utilizzazione del bene locato.
In breve, la materia così vasta economico, sociale, politica, etc. impone di valutare sotto i vari aspetti gli interessi delle parti contrattuali e le finalità che le stesse intendono perseguire con un determinato contratto, sia per la validità della causa di questo, sia per la tutela in concreto del contratto stipulato in conformità delle
disposizioni contenute negli articoli 1322 e 1323 del c.c. e, comunque, secondo i principi sanciti dall’Ordinamento Giuridico.
In quest’ottica, prima di regolamentare con apposita legge, un determinato contratto e, quindi, di disporne il “modello tipico”, si dovrebbe accertare quali disposizioni previste dal codice civile per i contratti in generale e, quali elementi, requisiti propri del contratto da disciplinare con l’emananda legge, presentano una certa
affinità con quelli contenuti nei contratti tipici vigenti e, debbano quindi, essere estesi a quelli da regolamentare, inserendoli nella legge che disciplinerà i medesimi. A
titolo esemplificativo, per le locazioni finanziarie (le leasing) si ricorda l’applicabilità, affermata in molte pronunce di Tribunali di merito e della Corte di Cassazione, ai contratti in questione, delle disposizioni di cui agli articoli 1526 comma 2 e
1384 c.c., circa il potere del Giudice di ridurre l’indennità convenuta fra le parti, nel
relativo contratto per l’inadempimento del compratore e della penalità determinata
dalle stesse circa l’ammontare dei canoni, ancora da pagare5. Si potrebbero anche
sottolineare altre considerazioni o applicazioni delle norme esistenti del codice civile nella stessa materia ad altri contratti. Ad esempio per il contratto lease back (locazione finanziaria di ritorno) ed altri contratti recentemente disciplinati che si mostrano bisognevoli di integrazione della relativa disciplina giuridica. Peraltro, anche
per i contratti di convivenza tra due persone (o unione personale, distinta dal matrimonio) sarebbero necessari ulteriori accertamenti e verifiche, prima della redazio5 Cassazione civile, sezione 3°, 2 marzo 2007, n. 4469 in “I Contratti”, 2008, fascicolo 2, pag. 244.
80
ne di una proposta (o disegno) di legge, volta alla disciplina del medesimo. Sarebbe, altresì, necessario l’approfondimento in questione, al lume della normazione della stessa nei vari Paesi dell’Unione Europea, specialmente per l’adozione dei minori da parte dei conviventi, l’iscrizione in appositi registri dei relativi contratti, etc.
L’esposta proposta di proseguire nella sperimentazione con contratti innominati dei rapporti tra soggetti nella materia in esame è suffragata anche dalla configurazione della causa contrattuale come funzione economica individuale, perseguita
dalle parti, con l’accordo originante il contratto in questione. Tale configurazione
assume una particolare rilevanza anche per la valutazione della causa dei contratti
atipici o innominati. Infatti, per essi, il Giudice come è noto dovrà accertare se i medesimi siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’Ordinamento
Giuridico. In breve, detto accertamento giudiziario dovrà verificare se nel modello
di operazione economica, non previsto dalla legge (in quanto contratto innominato), attraverso la quale le parti hanno regolato i propri interessi, ricorra il requisito
della causa secondo l’accezione su esposta della stessa (causa) del contratto tipico.
Non bisogna, in proposito, dimenticare che il giudizio di meritevolezza, di cui all’articolo 1322 c.c. assume così la funzione di vaglio per l’immissione degli schemi contrattuali atipici nell’Ordinamento Giuridico6.
La verifica che il Giudice dovrà compiere circa la validità degli elementi del contratto, oggetto della controversia, assumerà in tal modo una particolare rilevanza per
suggerire una maggiore diffusione dei medesimi, redatti sulla base di modelli che contengono tutti gli elementi propri del contratto idoneo a perseguire gli interessi delle parti contraenti e sia conforme ai principi sui contratti generali, all’autonomia contrattuale, etc. e, cioè, sia stato stipulato secondo le regole desumibili dal codice civile, in materia. Peraltro, i contratti innominati se contengono tutti gli elementi, i requisiti, le modalità, etc. consentono di disciplinare meglio il rapporto giuridico che le parti hanno instaurato ponendolo in essere e, potrà essere utilizzato dal legislatore nella procedura legislativa, volta a tramutare il contratto de quo da innominato in tipico e, quindi, disciplinato dalle varie disposizioni della specifica legge in materia. Al perseguimento di
detti fini, nonché alla preparazione dei successivi e relativi disegni (o proposte) di legge daranno un contributo notevole i vari Ordini professionali (avvocati, commercialisti, etc.) e le Associazioni di categorie esperte in materia (Associazione Magistrati, consulenti del lavoro, operatori economici-finanziari, etc.) e specialmente i gruppi di lavoro che i predetti vorranno istituire allo scopo. Tale contributo sarà apprezzato particolarmente nell’auspicata fase di sperimentazione proposta, necessaria e precedente la
redazione del modello legislativo in materia, più completo sotto ogni aspetto e maggiormente rispondente agli interessi dei soggetti che utilizzeranno lo stesso, nella stipula del relativo contratto. Invero, i predetti Ordini professionali e Associazioni, nel re6 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, volume 2°,
CEDAM, pag. 172; idem, “Il Contratto”, CEDAM, 2007,
pag. 150; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi e
degli equilibri contrattuali, in “Contratto e Impresa”,
1987, pag. 422.
81
RomanaDOTTRINA
temi
digere il modello de quo dovranno valutare adeguatamente la meritevolezza degli interessi che le parti vorranno realizzare con la stipula del relativo contratto, utilizzando
lo stesso modello, anche al lume delle esigenze degli utenti e delle situazioni del mercato, etc. Parimenti, nello stesso modello proposto, si dovrà prevedere in apposita la
possibilità delle parti di rivedere, modificare e/o integrare alcuni elementi dello stesso
contratto, allorché ricorrano e/o si verifichino alcune circostanze o eventi. Inoltre, i modelli in questione dovranno contenere anche elementi e clausole variabili, a seconda delle esigenze delle utenze e del mercato, specialmente per la possibilità stabilita per le
parti, di rivedere, modificare e/o integrare alcuni elementi del contratto durante la vigenza di esso, allorché ricorrano sopravvenute esigenze non previste all’atto della conclusione del contratto. In quest’ottica dovrà anche stabilirsi una speciale procedura per
gli eventuali contrasti nascenti tra le parti, durante l’esecuzione del contratto o per l’interpretazione di alcune clausole di esse, prima di iniziare l’azione legale davanti al Giudice competente. La previsione di tale procedura dovrà costituire il contenuto di apposito elemento contrattuale, indicato nel modello auspicato. Di conseguenza, lo stesso
dovrà contenere tutti gli elementi necessari per la verifica della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, nonché per l’accertamento della validità delle clausole o
delle singole disposizioni contenute nel contratto innominato, in questione, nonché della causa dello stesso (contratto). In tal modo, il modello su menzionato contribuirà alla diminuizione del contenzioso e al perfezionamento degli elementi che si inseriranno nel disegno o proposta di legge, che al termine della relativa procedura legislativa
lo trasformeranno in tipico e, perciò, disciplinato espressamente dalla legge in materia.
Tale compito potrà essere svolto dagli Ordini professionali, anche per ciò che concerne la redazione di modelli di contratti innominati o misti e, ciò, al fine di agevolare l’esigenza del mercato e stimolare alcune attività economiche. In proposito, si ricorda che
i modelli dei contratti innominati o misti, appaiono di particolare attualità, per esortare gli utenti pubblici e privati ad un maggior uso delle fonti rinnovabili, costruendo impianti solari, eolici, di termovalorizzazione dei rifiuti, etc., cioè un settore di notevole
importanza per una maggiore produzione di energia pulita e per l’utilizzo più completo ed incisivo delle risorse nazionali in materia7. In Italia assumono una certa rilevanza fra le fonti rinnovabili le maree e il mare (le cui acque potranno anche essere potabilizzate per i vari usi) che dovranno essere oggetto di particolari ricerche, in quanto i
fondali marini contengono vari materiali, tra i quali il cobalto, utilizzabile nella fusione nucleare. Infine, non deve sottovalutarsi che le alghe potranno essere utilizzate come commestibili nella produzione di farmaci, nonché di biocarburanti, etc. Inoltre la
parte residua di esse (alghe), potrà essere immessa negli impianti di termovalorizzazione dei rifiuti per la produzione di energia.
7 Non bisogna sottovalutare l’esigenza che le fonti
rinnovabili e il nucleare da fusione dovranno costituire
in un futuro prossimo, le fonti prevalenti per la
produzione di energia in Italia e in Europa, al fine di
consentire ad entrambi i Soggetti, di poter svolgere un
82
ruolo indipendente nei confronti degli altri Stati e di
non essere condizionati nello svolgimento della loro
politica economica e sociale, nonché internazionale,
dall’oscillazione brusca del prezzo del petrolio e dei
carburanti in genere.
I modelli di contratti innominati redatti dagli Ordini professionali, con la collaborazione degli operatori dei vari settori economici, contribuiranno anche ad intensificare i rapporti tra Istituzioni pubbliche e Aziende private nella realizzazione delle “grandi opere” . In proposito si ricorda che i quotidiani del marzo 2008 hanno diffuso la notizia che la linea D della metropolitana di Roma, sarà realizzata in project financing (con
finanziamenti pubblici e privati) i quali saranno remunerati per le spese sostenute tramite i flussi di cassa della futura gestione delle opere realizzate. Anche in tale settore,
i contratti misti o innominati potranno offrire un utile supporto alla realizzazione delle
attività integrative delle opere realizzate in project financing e, stimolare a tal fine, le
opportune modifiche del vigente modello legislativo di detto contratto, usato diffusamente in materia di opere pubbliche. In quest’ottica, ai fini della redazione del modello testè ipotizzato, bisogna evidenziare l’esigenza della tutela adeguata, della posizione dei diritti lesi o turbati durante l’esecuzione dello stesso contratto, etc. Peraltro, la
stessa nozione di project financing è stata mutuata dalla dottrina ed esperienza anglosassone e trasfusa nella nostra legislazione in materia di lavori pubblici, come forma di
finanziamento di essi, attraverso l’impiego di capitali privati, i quali a loro volta, sono
remunerati, mediante l’affidamento della gestione dell’opera realizzata8. In proposito
si evidenzia che sotto l’aspetto amministrativo il project financing può essere considerato un sistema per la realizzazione dei lavori pubblici che si basa sulle comuni norme
che regolano la concessione in detto comparto amministrativo9.
Quanto sin qui esposto, circa la prosecuzione della sperimentazione dei contratti innominati, in materia economico-politica e sociale, bisogna sottolineare che essa è
pure finalizzata a stimolare i Soggetti - interessati alla preparazione del disegno o proposta di legge, avente per oggetto la disciplina del modello giuridico del relativo contratto - a valutare adeguatamente le norme comunitarie e le esperienze di altri Paesi dell’Unione Europea, nelle stesse materie. Inoltre, i contratti innominati, soprattutto quelli riferibili ai lavori pubblici eseguiti in project financing potranno disciplinare le attività integrative delle opere pubbliche realizzate nel modo anzidetto, ad esempio parcheggi adiacenti alle strade pubbliche, alle stazioni ferroviarie, ai porti, etc. In tal modo e attraverso dette iniziative economiche sarà offerta un’apprezzabile collaborazione dei soggetti privati alle Istituzioni pubbliche che hanno eseguito determinate opere
pubbliche. In proposito, appare utile ricordare la necessità di realizzare adeguati parcheggi attigui alle stazioni ferroviarie della maxi opera ferroviaria europea Berlino-Palermo, che come noto, prevede la costruzione del tanto anelato Ponte sullo stretto di
8 La complessa disciplina dei lavori pubblici realizzati in
project financing può desumersi dalla normative in
materia, reperibile nel nuovo codice dei Contratti di
lavori pubblici, etc., edizione CEDAM, 2007, pag. 1023 e
seguenti.
9 TAR Toscana, sezione 2°, 18 ottobre 2007, n. 3282, in
Giur. Amm. 2007- parte 2°, pagg. 2022. Si ricorda che il
piano economico-finanziario che il promotore è
obbligato a presentare, ai sensi dell’articolo 37 bis,
comma 1 della legge 11/2/1994 n. 109, deve esporre le
previsioni dei costi dell’intervento e dei ricavi derivanti
dalla gestione dell’opera. Il relativo programma deve
essere asseverato da un Istituto di credito a garanzia
della sua attendibilità e la sua congruenza rappresenta
una condizione preliminare ed essenziale per assicurare
l’attendibilità della proposta e la concreta fattibilità di
essa (in termini: Cons. Gius. Amm. Reg. Sic. 5/12/2007, in
n. 1088 in Giurisd. Amm. 2007, parte prima, 1943).
83
RomanaDOTTRINA
temi
Messina, e agli impianti industriali e commerciali installati o da installare nella zona
adiacenti o viciniori a detto Ponte, al fine di agevolare la circolazione delle autovetture, il passaggio dei pedoni, etc.
Le argomentazioni su esposte sinteticamente ed altre che potranno trarsi dalle medesime, nonché dalla pratica ed esperienza quotidiana dei componenti il gruppo (o i gruppi) di lavoro, che sarà costituito presso gli Ordini professionali e le Associazioni anzidette, per redigere il proposto modello di contratto innominato in materia, rafforzano
l’esigenza che quest’ultimo contenga tutti gli elementi (essenziali e accidentali), requisiti,
clausole, condizioni e modalità di risoluzione dei conflitti tra le parti, etc. rispondenti
pienamente o tendenzialmente alla realizzazione degli interessi che stipulano il contratto
in questione. Tutto ciò occorrerà anche per utilizzare più proficuamente nella successiva sede legislativa i risultati di detta sperimentazione e di ottenere così un modello
giuridico di contratto, più rispondente alle esigenze e agli interessi del momento e di
un prevedibile prossimo futuro. In tal modo, si potranno incrementare i rapporti giuridici in materia tra soggetti privati e pubblici, in Italia, nell’Unione europea e in campo
internazionale, con effetti concentrati per lo sviluppo economico di tutti gli Stati interessati, nonché per la conseguente costituzione di nuovi posti di lavoro in vari settori
attigui o comunque riferibili a quelli economici-sociali, oggetto della presente indagine. Inoltre, bisogna evidenziare che i modelli di contratti innominati, predisposti dagli
Ordini professionali e dalle Associazioni anzidette potranno, anche per iniziativa dei
medesimi, potranno essere esaminati dalle Comunità ai vari livelli in apposite riunioni. In queste si verificheranno gli elementi essenzialmente del modello di contratto proposto e si valuteranno gli interessi, le esigenze e le situazioni economiche del momento. A conclusione delle medesime si redigerà una relazione circa gli elementi da considerare essenziali o accidentali, le clausole, requisiti, etc., nel modello di contratto che
costituirà la base della proposta o disegno di legge. Quest’ultimo costituirà oggetto della procedura che si concluderà con l’apposita legge in materia. Nella relazione testé indicata (che sarà inviata in copia dagli Organizzatori delle anzidette riunioni al Parlamento, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri della Giustizia e dello Sviluppo Economico, etc.) si riassumeranno le osservazioni dei vari partecipanti alla medesima riunione, anche ai fini di una maggiore ponderazione che gli interessi delle parti potranno realizzare, con la stipula di un specifico contratto. Invero, essi rappresentano pure lo scopo pratico del contratto in questione concluso tra le parti, nonché la causa di esso; tutti elementi che saranno valutati dal Giudice nella procedura contenziosa,
ai fini dell’accertamento della validità dello stesso contratto10. Dette relazioni - unitamente ai modelli di contratto esaminati con le relative integrazioni e con le eventuali
proposte di modifica - potranno inoltre essere inviate dagli organizzatori predetti, alle
altre Istituzioni pubbliche e private operanti nel territorio in cui assedia la Comunità,
10 Si ricorda la già citata sentenza della Cassazione Civile,
sezione III, 8 maggio 2006 n. 10490, che ha dichiarato la
nullità del contratto concluso tra le parti per carenza di
84
causa nell’accezione di scopo pratico del negozioaccordo concluso tra le part
presso la quale si sono svolte le predette riunioni, per l’ulteriore esame finalizzato alla
predisposizione di proposte o disegni di legge in materia, alla diffusione di tutta la documentazione su indicata, nonché allo stimolo dell’interesse dei vari destinatari alle varie problematiche circa i contratti in materia, nonché alla collaborazione con il legislatore, specialmente nella fase preparatoria della relativa normativa. In tal modo sarà possibile contribuire al miglioramento e all’incremento dei rapporti fra i vari soggetti in
materia, sia in Italia che nell’Unione europea, etc. e dare uno stimolo significativo alla crescita economica e sociale dei medesimi Stati, per effetto del maggiore utilizzo dei
contratti che i soggetti interessati stipuleranno in materia.
Peraltro, detti contratti miglioreranno in Italia i rapporti fra i soggetti privati (persone fisiche e/o società) e la Pubblica Amministrazione, specialmente dopo l’ampliamento dell’attività privatistica di quest’ultima, stabilita dalle leggi n. 15 e n. 80 del 2005,
che hanno modificato ed integrato molte disposizioni della legge sul procedimento amministrativo 7 agosto 1990 n. 241.
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RomanaDOTTRINA
temi
Dott.ssa Maria D’ANNIBALE
Alcune considerazioni
sui marchi di forma
1. Il marchio di forma come marchio di fatto. 2. Secondary meaning e volgarizzazione. 3. La licenza del marchio di forma. 4. La contraffazione del marchio di forma.
Sommario
l consumatore che si aggira tra gli scaffali di un supermercato è spesso alla ricerca
1. Il marchio di forma come marchio di fatto.
di un determinato prodotto, del quale magari non si ricorda il nome ma che riconosce facilmente dalla sua particolare forma; quante volte questo consumatore ha cercato di farsi aiutare da un commesso imitando o addirittura disegnando la forma di
un prodotto per individuarne il nome! Esempi di vita quotidiana se ne potrebbero fare moltissimi, visto che la capacità distintiva di un prodotto sembra molto spesso legata alla sua particolare forma, che per ricevere protezione deve rispondere ai requisiti di novità, originalità e capacità distintiva1.
Il marchio di forma nasce normalmente come marchio di fatto anche se poi si
cerca di registrarlo o di registrarlo al momento in cui viene contraffatto.
Non mancano i casi in cui il marchio di forma nasce come marchio. Non vogliamo parlare solo dei marchi figurativi perché anche forme tridimensionali sono registrate come marchi anche prima di essere messi in commercio i prodotti che questi contraddistinguono.
La tutela marchio di fatto, secondo la vecchia giurisprudenza precedente al 1992,
avrebbe avuto un carattere personale e avrebbe presupposto una confondibilità dei
prodotti, mentre quella del marchio registrato sarebbe stata di carattere reale per tutti le classi di prodotti che la registrazione copriva. La giurisprudenza, nella sua grande maggioranza, affermava che l’azione di contraffazione od usurpazione aveva carattere reale e poteva essere iniziata anche se mancava un rapporto di concorrenza fra
i prodotti o fra le attività delle rispettive imprese e se mancava un pericolo di confusione fra il pubblico2.
I
1 App. Torino, 2 gennaio 2004, in Giur. it, 2005, 1867. La Corte è stata chiamata a decidere sulla possibilità di assicurare
protezione al titolare di marchi costituiti da una forma a parallepipedo rifinito con taglio lineare e dalla successione di colori marrone-bianco-marrone di una merendina dal nome
“Kinder fetta al latte”. La decisione della Corte è stata nel
dichiarare l’invalidità dei marchi registrati, tenuto conto
della banalità della forma, anche in considerazione del fatto che la successione dei colori è imposta dalla natura stessa del prodotto (due fette di pasta dolce lievita al cacao e
quindi inevitabilmente di color cioccolato). La corte torinese si limita a richiamare il requisito della “ significanza nel
86
senso che la forma tutelata deve presentare una valenza specifica rispetto al prodotto che la incorpora; deve cioè presentare i requisiti della novità e della originalità di per sé”.
2 Cass. 2 aprile 1982, n. 2024, con nota di Franceschelli, Sul
marchio di fatto illecito, in Riv. dir. ind., 1983, II, 3; Cass.
27 marzo 1998, n. 3236, in Foro it., 1998, I, 1396. v. anche
Cass. 1966/2514; Cass. 1965/1033; Cass. 1964/1410.
Sull’argomento v. Mangini, Il marchio e gli altri segni
distintivi, in Trattato Galgano, 1982; Ascarelli, Corso di
diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa,
Milano 1962
Parte della dottrina si opponeva a questa tendenza della giurisprudenza e riteneva che anche l’azione di contraffazione od usurpazione presupponesse per lo meno una
confondibilità fra i prodotti.
Dopo la riforma della legge marchi del 1992 la tutela del marchio registrato era
stata ritenuta più ampia, vista anche la formulazione delle lettere a), b) e c) dell’art. 1
della legge marchi novellata. In particolare la lettera b) dell’art. 1 prevedeva il rischio di
associazione fra i due segni che andava al di là del rischio di confusione3.
Il diritto sul marchio di fatto trovava invece la sua tutela nel n. 1 dell’art. 2598 c.c.
che non aveva subito modifiche e pertanto si riteneva che questa tutela si differenziasse
in modo più evidente da quella del marchio registrato.
L’entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale ha rafforzato l’equiparazione fra marchio di fatto e marchio registrato poiché il combinato disposto fra l’art 1
e 2 del c.p.i. inserisce il marchio di fatto fra i diritti di proprietà industriale e la Relazione Governativa al Codice afferma espressamente sia che “il diritto alla lealtà della concorrenza nei suoi tratti essenziali e nel corredo sanzionatorio non differisce né punto né
poco dai diritti di proprietà industriale” sia in particolare che “il marchio di fatto costituisce oggetto di proprietà industriale non diversamente di come lo è un marchio registrato”.
D’altra parte la giurisprudenza aveva già riconosciuto in precedenza che i marchi
di forma sono tutelabili come marchi di fatto4.
Tra i requisiti di validità del marchio, vuoi che sia registrato vuoi che sia soltanto
usato dall’avente diritto, vi è la funzione distintiva che il marchio deve svolgere, ciò che
avviene d’altronde per tutti i segni distintivi. Per funzione distintiva s’intende la caratteristica che il segno deve presentare per essere idoneo ad essere identificato al pubblico.
Per i marchi di forma và altresì evidenziato che “una forma può essere validamente registrata come marchio nel solo caso in cui essa sia inconsueta, arbitraria, di mera fantasia (o meglio gratuita, capricciosa), e ad essa siano del tutto estranei dei compiti estetici o funzionali, o comunque di utilità particolare”. La forma per presentare una
valenza di segno distintivo deve essere tale da consentire al consumatore di cogliere le
varianti di forma, indipendenti dalla natura, dalla funzione e dalla sostanza del prodotto, tale da estrinsecarsi in un quid che la rende idonea ad essere apprezzata e riconosciuta
nel pubblico come elemento sintomatico di provenienza del prodotto cui accede da una
determinata impresa” 5.
La tutela come marchio della forma di un prodotto ha subito negli anni una variegata interpretazione da parte della dottrina, negandola o limitandola sia in virtù di un
3 Ricolfi, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti,
in A.V., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e
concorrenza, Torino, 2005, 168
4 Trib. Napoli, 5 novembre 1998, in GADI, 1998, 939
5 “ Il contesto concreto di uso, di pubblicizzazione, di
conoscenza, fa si che la forma di una cosa, pur
continuando inevitabilmente ad essere tale, diventi
(eventualmente attraverso un processo di “secondary
meaning”) anche altro da sé, vale a dire compendio di
conoscenze, di suggestioni, di comunicazioni: in una
parola, un marchio”: Trib. Napoli, 26 luglio 2001, con
nota di Giudici, Alcune riflessioni sui marchi di forma,
alla luce della nuova disciplina dei disegni e modelli, in
Riv. dir. ind., 2002, II, 153
87
RomanaDOTTRINA
temi
incompatibilità fra il marchio di forma e il c.d. principio dell’estraneità del marchio al
prodotto, sia in virtù di una possibile interferenza fra la disciplina dei marchi e quella di
altri diritti di esclusiva.
La difficoltà manifestata in relazione al principio dell’estraneità del marchio rispetto
al prodotto è stata, già con la legge marchi, del tutto superata e ciò risulta confermato nell’attuale disciplina del Codice della proprietà industriale, visto che l’art. 7 c.p.i., individua chiaramente tra i marchi registrabili i marchi di forma, ossia quelli costituiti dalla
forma o dalla confezione del prodotto, anche detti tridimensionali, rinviando alle limitazioni poste dall’art. 9 c.p.i.6.
Dottrina e giurisprudenza prima dell’introduzione del Codice della proprietà industriale apparivano abbastanza concordi nel distinguere tra forme naturali e forme necessarie; tra le prime rientrerebbero quelle standardizzate, le forme comuni del prodotto, ossia quelle che non presentano alcun aspetto arbitrario, mentre tra le forme necessarie devono essere annoverate quelle dettate esclusivamente dalla funzione o destinate a
conferire maggiore comodità d’uso o di impiego al prodotto. Per entrambe queste forme
non si ravvisava la protezione come marchio. L’art. 18 n. 1 lett. c) l.m. vietava la registrazione dei soli segni esclusivamente costituiti dalla forma imposta dalla natura stessa
del prodotto e dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico mentre, invece, le forme che presentavano, insieme ad aspetti standardizzati o dettati dalla
funzione, elementi di indubbia portata distintiva potevano accedere alla registrazione. Da
notare tuttavia che la norma vietava la registrazione delle forme necessarie per ottenere
un risultato tecnico e non di tutte le forme che, se pur utili, non erano strettamente necessarie. In questa prospettiva si insinuava una parte della dottrina, minoritaria, che sosteneva che doveva ammettersi “la registrazione di segni distintivi costituiti da una forma che, oltre agli aspetti necessitati, presenti varianti indipendenti se ed in quanto la forma svolga essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva”7. A conforto di tale impostazione anche una parte della giurisprudenza8, distaccandosi dall’orientamento
consolidato, ha ritenuto che, mentre la forma tecnicamente necessaria non può essere registrata come marchio, né protetta dalla normativa concorrenziale, visto che risulta indispensabile al raggiungimento del risultato tecnico, la forma, seppur utile, può essere marchio, se è distintiva la funzione che prevalentemente essa svolge.
Indicazioni in tal senso sembrano venire dallo stesso art. 9 del c.p.i., e piu’ precisamente dalla prima limitazione, ossia dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto. La previsione normativa fa riferimento oltre che alla forma dei prodotti naturali,
anche a quelli con forma standardizzata, ossia tali secondo l’opinione pubblica. Si cerca
6 L’esclusione della registrabilità come marchio delle forme
suscettibili di brevettazione risulta oggi ancor più necessaria
“… specie ora che i marchi di forma sono incontestabilmente
ammessi dalla legge, ed occorre non limitare eccessivamente
e inutilmente lo spazio da concedere a questi marchi.”:
Vanzetti – Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano,
2005, 147
88
7 Sena, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e
marchio comunitario, Milano, 2001, 28 e ss.; Perugini, Il
marchio di forma: dall’esclusione della forma utile od
ornamentale al criterio del valore sostanziale, in Riv. dir. ind.,
1992, I, 96 e ss..
8 Trib. Milano, 26 giugno 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1997,
3762; Trib. Napoli, 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, 153
infatti di evitare che questo genere di forma del prodotto o della sua confezione non sia
un valido marchio perchè in tal caso non vi sarebbe funzione distintiva. In tal modo si
eviterebbe di confondere la mera forma di un prodotto standardizzato con la forma che
costituisce il segno distintivo e questo per evitare l’ovvia conseguenza di considerare la
forma del prodotto come marchio del prodotto medesimo9. Infatti dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel ritenere che una forma, standardizzata non possa essere considerata come marchio di forma 10. Pertanto le limitazioni presenti, prima nell’art. 18 lett.
c) l.m., ed oggi nell’art 9 c.p.i., sono volte ed evitare che la concessione della tutela del
marchio alla forma standardizzata del prodotto si risolva in un diritto di esclusiva, non
già su un segno al distintivo del prodotto, ma su qualità o pregi del prodotto stesso, traducendosi in una privativa sul prodotto in contrasto con le finalità proconcorrenziali del
diritto di marchio.
Pertanto, qualora il marchio coincida con la forma conferita ad un prodotto, sarà
necessario verificare vuoi, che la forma conferita al prodotto non sia quella comunemente
realizzata in relazione al prodotto o al tipo di materia lavorata, vuoi verificare se in concreto detta forma soddisfi la funzione distintiva, o meglio se sia tale da soddisfare anche
le esigenze di consumo in base al settore merceologico al quale appartiene il prodotto11
La Corte di Giustizia e il Tribunale di prima istanza dell’Unione Europea, negli ultimi anni, si sono pronunciati più volte in merito alla registrabilità o meno dei
marchi di forma, legando tale evento alla presenza o meno del carattere distintivo12.
Per i giudici comunitari una forma presenta un carattere distintivo qualora sia in grado di distinguere i prodotti o servizi per i quali è chiesta la registrazione del marchio da quel9 L’art. 2 della direttiva 89/104 e l’art. 4 del RMC prevedono la
registrabilità come marchio della forma del prodotto o della
confezione di esso a differenza di quanto dispone la
normativa nazionale che ammette tale registrazione a
condizione che la forma non sia esclusivamente la forma del
prodotto. v. Trib. I grado Comunità Europee, 24 novembre
2004, n. 393/02.
10 Il requisito dell’estraneità del marchio al prodotto “….
postula l’esigenza che il segno distintivo risulti astrattamente
scindibile dalla forma necessitata o standardizzata del
prodotto, senza mutamento o pregiudizio della natura e
della funzionalità di quest’ultimo; devono pertanto
considerarsi nulli quei marchi il cui nucleo ideologico e
sostanziale corrisponda e si risolva nella forma propria di un
prodotto…..da tempo standardizzata nel settore”: Cass. 23
novembre 2001, n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, 329.
Conforme in tal senso App. Milano, 7 maggio 2002, in Giur.
it., 2002, 2346.
11 App. Torino, 2 gennaio 2004, con nota di Toni, Brevi note in
tema di novità e capacità distintiva del marchio di forma, in
Giur. comm. 2005, II, 603: l’autore avvicina questa doppia
verifica anche al caso preso in esame dalla sentenza della
Corte torinese, ossia ad un prodotto amorfo, estendendo,
inoltre, alla problematica della successione cromatica,
quanto evidenziato dalla sentenza di Cassazione del
14marzo 2001, n. 3666 (in Giur. it., 2001, 1801: “…..anche un
colore può costituire un marchio brevettabile purchè non
abbia funzione intrinsecamente descrittiva del prodotto, ma
sia collegato ad esso da un accostamento di pura fantasia
con carattere originale ed efficacia individualizzante…..”) ,
ossia occorre fare riferimento al colore del prodotto e non a
quello utilizzato nel marchio in quanto tale.
12 Tra le sentenze più significative in cui i giudici comunitari
hanno negato la registrabilità del marchio per carenza del
carattere distintivo, si segnalano le seguenti:
Trib. U.E. 2001 – forme di pasticche rettangolari depositate
come marchio per distinguere detersivi;
Trib. U.E. 9.10.2002 – piccoli motivi ripetuti all’infinito sulla
superficie di una lastra di vetro per contraddistinguere vetri;
Trib. U.E. 30.04.2003 – forme di sigaro di colore bruno e di
lingotto d’oro per contraddistinguere cioccolato;
Trib. U.E. 05.03.2003 – forme di pasticche ovoidali per
lavastoviglie per contraddistinguere detersivi;
Trib. U.E. 24.11.2004 – confezioni a forma di carena di
imbarcazione per contraddistinguere formaggi;
Trib. U.E. 10.11. 2004 – forma di caramella per
contraddistinguere caramelle;
Trib. U.E. 29.04.2004 – bottiglie a collo lungo con fetta di
limone per birra;
Corte U.E. 07.10.2004 – forme di lampada tascabile
cilindriche;
Corte U.E. 29.04.2004 – forme di pasticche rettangolari
bicolori per contraddistinguere detersivi
89
RomanaDOTTRINA
temi
li di altre imprese. Sarà quindi possibile richiedere la registrazione della forma di un prodotto come marchio nel caso in cui si differenzi dall’aspetto comune del prodotto e della
confezione, tenendo conto della percezione del consumatore13.
Il carattere distintivo, deve infatti essere valutato tenendo a riferimento alcune circostanze, come ad esempio la quota di mercato detenuta dal marchio, l’estensione geografica, la durata dell’uso di tale marchio, l’ampiezza degli ambienti interessati, le quali devono essere accertate dal giudice avendo a riferimento l’aspettativa del consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente avveduto, dei prodotti o servizi.
Tale orientamento sembra essere stato sposato anche dalla Corte Europea nel caso
Koninklijke Philips Electronics NV contro Remington Consumer Products Ltd14, la quale
interrogata se l’uso su larga scala di un segno, derivante dal monopolio nella fornitura di
prodotti contrassegnati e consistente nella forma del prodotto, è sufficiente ad attribuire al
segno un carattere distintivo, ha ritenuto che tale utilizzazione sia sufficiente quando, in conseguenza dell’uso, “una parte sostanziale degli ambienti interessati associa a tale forma del
prodotto a quell’operatore ad esclusione di qualsiasi altra impresa o, in assenza di contraria indicazione, crede che i prodotti aventi tale forma provengano da quest’ultimo.”15
L’attuale disciplina sui disegni e modelli sembra togliere ogni dubbio su un possibile cumulo con la disciplina dei marchi di forma. Infatti la tutela dei disegni e modelli, prescinde dalla considerazione dell’elemento estetico-ornamentale e dalla filosofia che ne presupponeva l’esigenza di caduta in pubblico dominio, e di acquisizione al patrimonio culturale collettivo. Il cambiamento con la precedente disciplina è stato evidenziato dalla soppressione del termine di brevettazione e l’introduzione di quello di registrazione. Per poter
essere registrati, i disegni e modelli di forme di prodotti, devono possedere il carattere individuale, ossia “se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno e modello
che sia stato divulgato prima della data di presentazione della domanda di registrazione o,
13 Si riportano di seguito alcuni casi nei quali i giudici
comunitari hanno dato parere favorevole alla registrabilità:
Trib. U.E. 06.03.2003 – si è ritenuto che la forma di una
calandra di veicolo fosse dotata di carattere distintivo e
registrabilità come marchio, visto che la calandra è divenuta
un elemento essenziale dell’aspetto dei veicoli e della
differenziazione tra i modelli esistenti sul mercato realizzati
dai vari costruttori, ed inoltre la calandra non era di aspetto
usuale;
Trib. U.E. 03.12.2003 – si è ritenuto che la forma di una
bottiglia con stella in rilievo e tappo blù fosse dotata di
carattere distintivo grazie al suo aspetto particolare
d’insieme;
Trib. U.E. 24.11.2004 - si è ritenuto che la forma
particolarmente insolita di un flacone bianco e trasparente
per sapone e profumi fosse dotata di carattere distintivo
sempre in considerazione al suo aspetto d’insieme
14 La materia del contendere riguardava la società Koninklijke
Philips Electronics NV che nel 1985 aveva depositato un
marchio consistente nella rappresentazione grafica della
parte superiore di un rasoio dalla stessa ideato nel 1966,
costituito da tre testine circolari a lame rotanti, disposte a
90
forma di triangolo equilatero, marchio che è stato dalla
stessa registrato a seguito dell’uso. Nel 1995 la società
Remington Consumer Products Ltd aveva iniziato la
produzione e la commercializzazione nel Regno Unito di un
rasoio con una configurazione molto simile a quella del
Philips.
15 Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, disponibile sul web. A
commento della sentenza è stato osservato che forme
veramente sostanziali sono molto rare, tenuto conto che
genericamente sulla forma sostanziale prevale il marchio
celebre. “Sostanziale” vorrebbe dire che la “sostanza
oggettuale” della forma prevale ontologicamente e
funzionalmente sul carattere distintivo di quella forma:
quella forma è in sostanza un oggetto, un bene, non un
Marchio……Una forma sostanziale è quindi una forma
talmente pregiata da determinare l’acquisto a prescindere
dal Marchio denominativo, dal prezzo, dalla qualità del
bene: una forma esclusivamente sostanziale, un puro
oggetto insomma, come non esclusivamente funzionale
deve essere una forma per essere valido Marchio.”: Galli,
Nuovo regime dei marchi di forma (anche avanti alla
Commissione dei ricorsi) e dei Design, disponibile sul web.
qualora si rivendichi la priorità, prima della data di quest’ultima”16. Tale carattere individuale è la chiave di volta per inquadrare una forma di un prodotto tra la disciplina dei disegni e modelli o tra quella dei marchi di forma. Infatti tale carattere altro non è se non un carattere distintivo riferibile, anziché al consumatore medio, come accade in materia di segni
distintivi, alla figura dell’utilizzatore informato, con particolare riguardo all’impressione generale, ossia un designer esperto capace di cogliere differenze che al consumatore medio
sfuggono. Tale configurazione del carattere individuale, quale differenza percepibile a livello qualificato permette la registrazione di modelli che sarebbero confondibili a livello
medio, attribuendo una tutela a forme che non potrebbero qualificarsi come marchi di forma per mancanza del requisito dell’originalità. Del tutto opposta a quanto sopra detto è il
caso in cui le differenze oltre che dall’esperto sono avvertire anche dal consumatore medio.
In questo caso potrà crearsi un cumulo, e quindi duplicazione, di tutela, ossia una tutela del
modello registrato e tutela del segno distintivo o del marchio registrato17.
Nel vigore del vecchio art. 18 della legge marchi, l’orientamento giurisprudenziale
era del tutto costante nel considerare non tutelabile come marchi d’impresa le forme che
conferivano uno speciale ornamento al prodotto su cui erano apposte. Tra i criteri per valutare tale speciale ornamento la giurisprudenza era orientata verso il c.d. criterio del market approach18, ossia le forme che, per la loro gradevolezza estetica, determinano il consumatore all’acquisto del prodotto, tali da essere suscettibili di tutela brevettuale quale modello e non come marchio registrato. In sostanza il marchio di forma veniva situato in un
ambito delle forme definito da due limiti; il primo costituito dalla usualità e banalità della
forma, ed il secondo costituito dalle forme brevettabili come modello ornamentale19.
Prima dell’entrata in vigore del d.lg. 2 febbraio 2001, n. 95 attuativo della direttiva
98/71/CE, che ha profondamente modificato l’istituto dei brevetti per disegni e modelli ornamentali, poteva porsi un problema di compatibilità fra il sistema dei marchi registrati, a
proposito delle forme utili ornamentali, e il sistema brevettuale, mentre attualmente ciò sembra del tutto superato. Infatti i disegni e modelli registrabili, attualmente previsti dalla legge, possono avere carattere ornamentale, escludendo ai sensi dell’art. 36 , comma 1 c.p.i.
unicamente le forme che siano determinate unicamente dalla funzione tecnica del prodotto. D’altra parte è ammessa la cumulabilità della tutela di una forma come modello registrato con la tutela come marchio di forma quando il carattere individuale della stessa forma risulta rilevante al livello della capacità distintiva secondo il canone del consumatore
medio. Solo in tal caso il legislatore si preoccupa di evitare la monopolizzazione perpetua
di forme che possiedono carattere ornamentale quando questo ecceda la normalità di un aspetto semplicemente gradevole del prodotto, tale da influenzare o addirittura determinare le
scelte di acquisto. In tal senso appare coerente il disposto dell’art. 9 c.p.i che prevede l’e16 Art. 33 comma 1 D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30
17 Vanzetti – Di Cataldo, Manuale di diritto industriale,
Milano, 2005; Cartella, Marchi di forma o marchi
deformi?, in Riv. dr. ind., 1977, II, 39 e ss.
18 Sarti, La tutela dell’estetica del prodotto industriale,
Milano, 1990, 120 e ss; Franzosi, Sui marchi d’estetica, in
Riv. dir. ind., 1977, II, 502; Trib. Genova, 4 gennaio 1997,
con nota di Toni, Mon Cheri e marchio di forma, in Dir.
ind., 1997, 851 e ss
19 Trib. Milano, 8 aprile 1991, in Giur. ann. Dir. ind., 1991,
2, 2659
91
RomanaDOTTRINA
temi
sclusione della registrabilità come marchio delle forme che diano al prodotto un valore sostanziale, tra le quali comprendere le forme ornamentali il cui valore estetico supera una determinata soglia.20 A tale impostazione si è obiettato che tali forme non esauriscono quelle
che danno un valore sostanziale al prodotto, tenuto conto inoltre che non sempre lo speciale ornamento influenza in maniera rilevante l’appetibilità dei prodotti. Pertanto escludendo
che il valore sostanziale riguardi l’utilità tecnica della forma21 (carattere già ricompresso espressamente nell’elencazione negativa dell’art. 9 c.p.i.) al di là della gradevolezza estetica, non
sembra che rimangano molti altri elementi formali al quale attribuire la capacità di influenzare o determinare le scelte d’acquisto, e qualora presenti andranno ricondotti sicuramente
alla formula dell’aggiunta di valore sostanziale.
Si considereranno insuscettibili di registrazione come marchio anche i disegni ornamentali al prodotto qualora attribuiscano allo stesso un valore sostanziale, ossia quando costituiscano elemento influente sulla scelta di acquisto.
Abbiamo già discusso dell’esclusione dalla registrabilità come marchio della forma
imposta dalla natura stessa del prodotto, (altro carattere ricompresso nell’elencazione dell’art. 9 c.p.i.) nel senso che il legislatore sembra abbia voluto riferirsi al genere, al tipo di
prodotto ed alla forma essenziale che lo caratterizza, impedendone in tal modo la monopolizzazione di un tipo di prodotto. E’ stato riscontrato in tale ipotesi un certo parallelismo tra
l’art. 9 e l’art. 13 comma 1 c.p.i., tanto da far ritenere la prima norma del tutto superflua, visto che, come si è detto, si tratta di forme prive del carattere distintivo. In questa prospettiva si dovrebbe ritenere che la forma, nel momento in cui presenta accanto ai caratteri essenziali al tipo di prodotto, anche elementi aggiunti non essenziali, potrebbe essere tutelata
come marchio debole.
I segni, per poter costituire oggetto di tutela come marchio, devono presentare certi requisiti di validità, in quanto la loro mancanza determina la nullità del marchio. La mancanza di
tali requisiti con riferimento al momento della registrazione può costituirne impedimento, come previsto dallo stesso art. 3 c.p.i e dalla direttiva 89/104/CEE.
La capacità distintiva costituisce il requisito principe che deve possedere un marchio per
poter essere registrato. Infatti la disciplina vigente contempla due ipotesi di mancanza di tale
requisito. La prima evocata nell’art. 7 c.p.i., secondo il quale i segni, che vengono elencati nella stessa norma, per poter essere registrati devono essere “atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”. La seconda ipotesi è contemplata nell’art. 13, comma 1 c.p.i. secondo il quale “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio di
impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quan2. Secondary meaning e volgarizzazione.
20 In tal senso Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano, 2005,
149
92
21 La legge si preoccupa di escludere la registrabilità della
forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato
tecnico.
tità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del
prodotto e della prestazione del servizio altre caratteristiche del prodotto o servizio”22.
Gli impedimenti alla registrazione costituiscono difetti originali dell’atto di registrazione
e come tali devono essere valutati nello specifico momento della domanda di registrazione.
Tuttavia le vicende antecedenti e successive alla domanda di registrazione possono divenire
rilevanti per la valutazione della capacità distintiva del marchio. Due opposti fenomeni sono
disciplinati dalla legge: il c.d. secondary meaning23 e la c.d. volgarizzazione.
Il primo fenomeno riguarda le fattispecie in cui al momento della domanda di registrazione il marchio possiede un significato del tutto generico e grazie all’uso dello stesso si
aggiunge un secondo significato idoneo a ricollegare quel marchio al prodotto.
L’istituto del secondary meaning, che ha avuto completo riconoscimento all’interno
del nostro ordinamento dopo la riforma del 199224, richiede sia un comportamento incisivo
di colui che adotta quel segno per individuare i propri prodotti, sia una risposta da parte del
mercato che riconosce, in quel nome comune o descrittivo, non la parola in sé da un punto
di vista semantico, ma nuovo significato tale da individuare un determinato prodotto o servizio.
22 E’ stato sostenuto da alcuni che l’art. 7 c.p.i. non godeva
di alcuna autonomia rispetto alla previsione di cui all’art.
13, comma 1 c.p.i., vedendo il requisito della capacità
distintiva unicamente nella non descrittività del segno. A
tale impostazione vi è chi, sostiene che le due fattispecie
vengano trattate separatamente, e che ad ognuna venga
attribuito uno specifico significato, tenuto conto che il
dettato della direttiva 89/104/CEE, ascendente dell’attuale
disciplina marchi, le contrappone, rispettivamente agli
artt. 3, comma 1 lett. b) e 3, comma 1 lett.c), come distinti
“impedimenti alla registrazione o motivi di nullità”,
mentre all’art. 2 della direttiva viene trattata isolatamente
della capacità distintiva.
“….cio considerato, è opportuno che le due fattispecie
vengano trattate separatamente, e ce ad ognuna venga
attribuito uno specifico significato. Ciò è tanto più vero in
quanto recentemente la Corte di Giustizia CE e il Tribunale
di prima istanza hanno individuato in modo convincente
delle ipotesi di mancanza di carattere distintivo diverse
dalla descrttività. Sulla scia della decisione di questi
Giudici, si potrà dunque sostenere che debbano
considerarsi privi di capacità distintiva i segni che vengono
percepiti dal pubblico non come segni distintivi, bensì
come elementi strutturali del prodotto cui sono pertinenti.
In particolare tali possono essere soprattutto considerati
certi colori e certe forme dei prodotti”, Vanzetti – Di
Cataldo, op. cit., Milano, 2005, 155
23 “L’espressione secondary meaning è stata coniata del
diritto anglossassone e americano per individuare un
fenomeno riguardante i marchi costituiti da parole
all’origine prive di capacità distintiva, ma che in seguito
la acquistano a seguito dell’uso persistente e conosciuto
che ne venga fatto, accompagnato anche da un
penetrante sostegno pubblicitario; grazie al quale, “la res
communis può divenire proprietà”: Ghidini, - de
Benedetti, Codice della proprietà industriale, Il Sole 24
Ore S.P.A., 2006, 47
24 Nel vigore della normativa precedente alla riforma del
1992 vi era una giurisprudenza costante nel ritenere che
esistesse un fenomeno di trasformazione di un marchio
originariamente senza capacità distintiva, e quindi nullo,
in segno valido, grazie ad un “fenomeno di
consolidazione, opposto a quello della volgarizzazione
del marchio” tenuto conto che “il fenomeno del
secondary meaning …..” era da ritenersi”…estraneo alla
tradizione giuridica italiana” : Trib. Bologna, 17
settembre 1982; Trib. Milano, 18 maggio 1962; Trib.
Milano, 21 ottobre 1991. Veniva sostenuto a gran voce
che “Espressioni comuni e meramente descrittive
dell’attività svolta non possono…..acquistare, sol per
effetto della loro diffusione, quell’originalità che loro
manca, giacchè la loro notorietà nulla aggiunge al
significato descrittivo dei termini usati e alla genericità
delle frasi” da quei termini composte: Trib. Catania, 22
novembre 1982. Vi era tuttavia anche una parte della
giurisprudenza che sembrava orientata nel riconoscere il
fenomeno del secondary meaning, così come è oggi
accolto nella disciplina riformata. In tal senso Trib.
Milano, 27 settembre 1976; Trib. Milano, 23 marzo 1989;
Trib. Milano 27 gennaio 1972. Da segnalare che agli inizi
degli anni settanta la Corte di Cassazione sembrò voler
dirimere il contrasto in seno alla giurisprudenza di
merito, la quale riconobbe come criterio giuridico “….il
carattere distintivo del marchio deve essere affermato, o
negato, attraverso un giudizio relativo, e non assoluto,
cioè attraverso un giudizio “a posteriori” che tenga conto
della concreta situazione commerciale esistente nel
momento al quale si riferisce l’esame comparativo, e di
tutte le circostanze che caratterizzano il detto momento”:
Cass., 29 ottobre 1971, n. 3025. Questa sentenza diede
spunto ad entrambi gli orientamenti per avvalorare le
proprie tesi, anche se entrambi riconobbero “che il
marchio è una realtà essenzialmente dinamica e tale è
considerato nella disciplina giuridica”.
93
RomanaDOTTRINA
temi
Pertanto è l’uso che produce il fenomeno della secondary meaning, grazie al quale il
segno aggiunge al proprio significato generico anche un secondo significato idoneo a ricollegare certi beni e servizi all’impresa titolare del segno.
L’applicazione delle disposizioni in materia di secondary meaning ai marchi di forma è stata questione molto dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza tanto da sfociare in due
opposti orientamenti.
L’interpretazione dominante a livello comunitario era nella completa esclusione dell’istituto della secondary meaning ai marchi di forma, tenuto conto il confronto letterale degli artt. 7, comma 2 lett. b) e l’art. 7 comma 2 lett. e) RMC, che avevano l’equivalente nella legge marchi negli art. 19 e 47bis, che richiamavano gli artt. 17, comma 1 lett. a) e 18,
comma 1 lett. b), ma non facevano cenno all’art. 18, comma 1, lett. c). Ciò costituiva un
ostacolo insormontabile, secondo questo orientamento25, tenuto conto che il fenomeno del
secondary meaning andava ad incidere sui valori funzionali del marchio26.
Pertanto il fenomeno del secondary meaning risultava applicabile esclusivamente ai
segni denominativi, tenuto conto che la ratio del divieto di registrazione delle forme funzionali e di quelle estetiche, atte a conferire un valore sostanziale al prodotto, deve essere
ricercata nell’esigenza di evitare che si alteri l’equilibrio funzionale fra privative configurabili sulla medesima forma, in relazione alle forme imposte dalla natura del prodotto; il riconoscimento dell’acquisizione di un secondary meaning importerebbe il riconoscimento
di un inammissibile diritto di monopolio sul prodotto.
Autorevole dottrina27 ha messo in luce l’inopportunità di utilizzare, anche da un punto di visto terminologico, la dizione di secondary meaning qualora si prenda ad esame la capacità distintiva dei marchi non denominativi, tenuto conto che gli stessi non sono suscettibili di poter acquistare un significato secondario, essendo sforniti sin dall’origine di qualsiasi significato primario. Per questa tipologia di marchi apparirebbe più opportuno utilizzare il termine di riabilitazione del segno attraverso l’uso. A favore della scelta di conservare la dizione di secondary meaning anche per questi marchi, è la considerazione sia della “vischiosità del linguaggio, ancorché si tratti di termini non pienamente corretti sotto il
profilo concettuale, che spinge verso il mantenimento delle formule consolidate, le quali,
meglio di altre, consentono l’immediata comprensione del tema affrontato”28, sia della datazione dell’uso di tale termine, proprio con riferimento a segni distintivi non denominativi29, da parte dell’ordinamento americano che conosce e regola questo fenomeno.
25 “ l’istituto del secondary meaning di cui agli art. 47bis e 19
l.m. non si applica ai marchi di forma, mancando in queste
disposizioni, insuscetibili di estensione analogica per il loro
carattere derogatori, ogni richiamo all’art. 18.1 lett.c)”:
Trib. Milano, 2 luglio 1996, in Giur ann. dir. ind., 1997, 238;
Conforme in tal senso App. Milano, 7 maggio 2002:
“l’istituto del c.d. seondary meaning non trova applicazione
nei riguardi dei marchi di forma alla cui registrazione
ostino gli impedimenti previsti dall’art. 18, lett. c), legge
marchi”.
26 “l’istituo del secondary meaning non si applica ai marchi di
forma esclusi dalla registrazione per la presenza di compiti
94
funzionali od estetici”: App. Milano, 18 luglio1995, in Giur.
ann. dir. ind., 1995, 1162
27 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano 2005, 141-142
28 Frassi, Due attuali questioni in tema di marchi, in Riv. dir.
ind., 2001, 2, 270
29 Viene definito trade dress, ossia la forma della confezione o
packaging del prodotto, la configurazione del prodotto
stesso. Tale definizione non risulta essere presente nel
Lanham Act del 1946.
Si ritiene, inoltre, che il secondary meaning può riabilitare un marchio o una
forma in origine privi di carattere distintivo, non una forma che non può diventare
marchio – non perché non possegga un carattere distintivo – ma perché è una forma sostanziale30.
E’ proprio dalla contestazione delle impostazione sopra accennate, che una
parte della dottrina e giurisprudenza31, partendo dall’assunto che, nel nostro ordinamento, il problema dell’idoneità della forma alla registrazione come marchio deve essere distinto da quello della capacità distintiva dello stesso, ed essendo il fenomeno del secondary meaning incidente sulla capacità distintiva e non sui valori
funzionali del marchio, ha ritenuto possibile ricondurre tale fenomeno anche ai marchi di forma.
Pertanto l’incertezza manifestata in merito all’applicazione della secondary
meaning ai marchi di forma doveva essere contestata sia nel vigore della legge marchi, ed ancor più oggi con il c.p.i., visto che il richiamo effettuato dagli artt. 19 e
47bis l.m. della sola lett. b) dell’art. 18 era da considerarsi del tutto corretto e non
invece indice di una volontà di esclusione, da parte del legislatore, della forza distintiva di una forma che possa modificarsi nel tempo. La correttezza di tale impostazione risiede proprio nella stessa definizione del fenomeno del secondary meaning, ossia quella di incidere sul carattere distintivo e non certo su valori funzionali in modo da rendere registrabile una forma che deve rimanere nel patrimonio comune, e quindi non registrabile per l’art. 9 c.p.i.. Pertanto l’art. 18, lett c) e l’attuale art. 9 c.p.i., non possono essere considerati ostativi all’applicazione del secondary meaning.
Se a tale conclusione era possibile giungere quando era in vigore la legge marchi, oggi viene esplicitamente confermata nell’art. 13 comma 1 c.p.i., il quale si riferisce a tutti i segni, non solo quelli denominativi. Ed è proprio in merito all’espressa previsione della categoria dei segni privi di capacità distintiva che non può
esserne rifiutata la registrazione o dichiarata la nullità a seguito dell’acquisto di carattere distintivo. Il Codice ha infatti innovato in merito alle cause di nullità del marchio tanto da riguardare indistintamente tutti i marchi, anche quelli registrati anteriormente.
30 “Non mi sembra corretta quella dottrina che ritiene che il
secondary meaning possa riabilitare genericamente un
marchio di forma e che quindi gli artt. 19 e 47bis avrebbero
dimenticato di elencare l’art. 18c. dalle fattispecie di
riabilitazione: le forme riabilitabili mediante secondary
meaning sono infatti solo quelle previste dall’art. 16 legge
marchi, non quelle previste dall’art. 18 c., ed è quindi giusto
che gli artt. 19 e 47bis legge marchi non abbiano incluso
l’art. 18c. nei casi di marchio possibilmente convalidabile
mediate l’uso.
I detrattori del marchio di forma concludono che con la
convalida non è possibile perché l’art. 19 lm (convalida) non
richiama la lettera c) dell’art. 18, mentre l’art. 47bis, che
anch’esso non richiama la lettera (c) dell’art. 18, si
applicherebbe solo previo intervento del giudice.”: Galli,
Nuovo regime dei marchi di forma (anche avanti alla
Commissione dei ricorsi) e dei Design, disponibile sul web.
31 Frassi, Forma del prodotto, secondary meaning e
standardizzazione, in Riv. dir. ind., 1999, I, 142; Sena, op.
cit., Milano, 2001, 54; Frassi, L’acquisto della capacità
distintiva delle forme industriali, in Atti del Convegno di
Milano, 16-17 giugno 2000, Milano, 2001; Trib. Genova, 4
gennaio 1997, 851; Trib Milano, 30 dicembre 1999, in Riv.
dir. ind., 2001, II, 265. La sentenza della Corte di Appello di
Torino, 2 gennaio 2004, in Giur. it, 2005, 1867, permette di
intravedere la possibilità che il marchio di forma debole, in
quanto descrittivo, ma non nullo, acquisti un secondary
meaning, grazie ad un uso consistente del canale
pubblicitario.
95
RomanaDOTTRINA
temi
Dello stesso indirizzo sembra essere orientata la prassi sia dell’ufficio per l’armonizzazione del mercato interno (UAMI), il quale si occupa della concessione dei marchi
comunitari, che il Tribunale di primo grado CE32.
Interessante notare la posizione della Commissione Ricorsi, la quale ha sancito, in
numerose occasioni, che una riabilitazione attraverso il secondary meaning può essere
proposta e dimostrata dal titolare della domanda di marchio di forma a condizione che
non lo faccia per la prima volta avanti alla Commissione Ricorsi, dovendolo invece eseguire avanti all’UIBM33. Sempre la Commissione Ricorsi, investita della questione in altre occasioni ha ritento che durante la procedura di registrazione la prova della convalida di un marchio di forma mediante l’uso può essere fornita dall’interessato anche successivamente al deposito della domanda di marchio di forma.
Il decorso del tempo può produrre il fenomeno opposto al secondary meaning, ossia il c.d. processo di volgarizzazione.
Secondo l’ex art. 41 lett. a) l.m. per volgarizzazione del marchio s’intende il fenomeno in cui lo stesso, dotato di capacità distintiva al momento della registrazione, nonché in seguito, “sia divenuto nel commercio, per il fatto dell’attività o inattività del suo
titolare, denominazione generica del prodotto o del servizio”, perde la sua capacità distintiva, provocandone la decadenza dello stesso.
Tale fenomeno è abbastanza ricorrente soprattutto nel caso in cui un prodotto o un
servizio, non corrispondente ad una tipologia già nota nel linguaggio comune, e pertanto privo di un significato genericamente conosciuto, riscuote un ampio successo nel mercato sotto il marchio scelto dal produttore per contraddistinguerlo, o pur non riferendosi
ad un marchio brevettato, incontra un tale successo tra il pubblico da giungere a designare quella tipologia di prodotto o servizio34. Sino al momento in cui i questi prodotti o
servizi, che possiamo definire nuovi, sono coperti da privativa industriale e vengono offerti sul mercato in forma esclusiva dall’impresa produttrice, il fenomeno di volgarizzazione non si verifica, dato che non si possono generare ipotesi di confusione con prodotti e servizi offerti da altri produttori. Il fenomeno della volgarizzazione si verificherà
nel momento in cui quel marchio tende a divenire la denominazione del nuovo tipo di
prodotto o servizio, perdendo la caratteristica originaria di denominazione specifica di
un prodotto o un servizio proveniente da un determinato imprenditore, perdendo inevi32 Il Tribunale di primo grado CE, 16 febbraio 2000, nella
causa T-122/99, Procter & Gamble Co. C. UAMI, in
occasione di un ricorso contro una decisione dell’Ufficio
che aveva rifiutato la registrazione di un marchio di
forma consistente nella forma di una saponetta, in
quanto privo del carattere distintivo ex art. 7, comma 1
lett. b) reg. m.c., ha annullato tale decisione perché
l’Ufficio non aveva messo specificatamente al corrente il
richiedente del motivo di rifiuto non dando in tal modo
la possibilità allo stesso di provare l’acquisto della
capacità distintiva del suo marchio di forma ex art. 7
comma 3. La prima Commissione di Ricorso dell’UAMI
ha confermato integralmente la ricostruzione proposta,
e cioè la portata generale dell’art. 7 comma 1 b) reg.
m.c..
96
33 L’UIBM ha sancito che i documenti necessari per provare
l‘uso vanno depositati contestualmente alla domanda di
marchio e non invece successivamente, dopo la
domanda ma prima della registrazione.
34 Ricolfi, op. cit., in A.V., Diritto industriale. Proprietà
intellettuale e concorrenza, Torino, 2005
35 Casi di decadenza di marchio per volgarizzazione si
sono avuti ad esempio con la generalizzazione del
marchio “cellophane”, “biro”, “thermos”,
“premaman”; tutti marchi che hanno perso la loro
capacità distintiva della quale viene preso atto
disponendo la loro decadenza.
tabilmente la sua capacità distintiva35. Da sottolineare che l’ipotesi di decadenza del marchio, così come disciplinata negli artt. 13, 4 comma e 26 lett. a) c.p.i. risultano a tutela
della concorrenza nel mercato36, confermata dalla volontà del legislatore nel sancire la
non registrabilità come marchi di denominazioni generiche.
Prima della riforma del 1992 la decadenza del marchio per volgarizzazione era legata ad un dato oggettivo, prendendo in considerazione esclusivamente il fenomeno nella sua consistenza oggettiva, non ponendo alcuna attenzione al comportamento dei concorrenti nell’appropriarsi del segno del titolare, nonché all’inerzia o attività di quest’ultimo. Tale impostazione veniva appoggiata dalla giurisprudenza dominante37. Da non dimenticare tuttavia che una minoritaria giurisprudenza aveva posto le basi della teoria soggettiva, che di lì a venire avrebbe preso il sopravvento, ritenendo che fosse da escludere
la decadenza del marchio quando il titolare dello stesso si fosse adoperato in ogni maniera per impedirlo38.
Infatti la riforma del 1992 ha segnato la fine della teoria oggettiva e l’introduzione di quella soggettiva39, oggi ripresa e confermata nell’art. 13, comma 4 c.p.i.. Ciò che
diviene rilevante per il giudizio di decadenza del marchio per volgarizzazione risulta essere il comportamento del titolare, inteso quale inattività o attività dello stesso, non avendo più alcun valore la c.d. generalizzazione del marchio legata esclusivamente ad un fenomeno di linguaggio.
Se l’attività o l’inattività del titolare del marchio si pongono come cause nel giudizio di decadenza del marchio per volgarizzazione, risulta fondamentale capirne ed interpretarne il significato.
36 La decadenza del marchio per volgarizzazione risponde
ad un duplice ordine di considerazioni; infatti “da un
lato la volgarizzazione distrugge gli investimenti fatti
sul marchio e sull’avviamento che esso incorpora: da qui
la comprensibile resistenza dei titolari ad accettarla. E
l’attuale disciplina, invertendo l’indirizzo prima (della
riforma del 1992 della l.m.) dominante, premia appunto
l’interesse alla conservazione di un marchio pur
obbiettivamente generalizzato. Sull’altro piatto della
bilancia, sta l’interesse dei concorrenti a valersi del
principio di non appropriabilità dei termini descrittivi, e
quindi a fornire ai consumatori altri prodotti con quella
stessa denominazione; e sta pure l’interesse di questi a
“riconoscere” e quindi comparare, prodotti della stessa
natura offerti da imprese diverse. Un interesse
ricollegabile hoc ipso ance ad una tendenziale riduzione
del livello dei prezzi, qualora – come è peraltro insito
nella generalizzazione dell’uso del nome – la “domanda
merceologica” del pubblico si appunti proprio su quella
denominazione”: Ghiaini, Profili evolutivi del diritto
industriale, Milano, 2001.
37 “La decadenza del brevetto del marchio di impresa per
essere il marchio divenuto denominazione generica di
un prodotto(….) si verifica per il fatto obiettivo e nel
momento della avvenuta volgarizzazione (….)
indipendentemente dal concorso dell’inattività del
titolare del brevetto”: Cass., 11 dicembre 19978, n.
5833; conforme in tal senso Cass., 23 ottobre 1984, n.
372; Cass., 18 giugno 1990, n. 6119
38 “….non può aversi decadenza del brevetto per marchio,
per essere questo divenuto denominazione generica
del prodotto, se a ciò non abbia concorso l’inattività del
titolare di fronte alle usurpazioni di esso da parte di
terzi, in quanto non può ammettersi decadenza da un
diritto nel caso in cui il titolare abbia fatto
tempestivamente ricorso ai mezzi offertigli dalla legge
per difenderlo.”: Cass., 30 gennaio 1946, n. 861;
conforme in tal senso: Cass., 2 agosto 1956, n. 3018;
Cass., 18 gennaio 1960, n. 28; App. Bologna, 2 maggio
1973; Trib. Torino 22 luglio 1974; App. Roma 27
febbraio 1977
39 “L’innovazione tiene conto di un certo senso di disagio
che si incontrava nell’applicare rigorosamente l’istituto –
di sapore, se non in sostanza, sanzionatorio – della
decadenza anche quando il titolare avesse fatto tutto
quanto era in suo potere per evitare la volgarizzazione.
Sembrava infatti paradossale (e forse anche ingiusto)
vedere lo stesso segno passare dall’altare del massimo
successo commerciale alla polvere della libera
appropriabilità da parte di qualsiasi concorrente”:
Ricolfi, op. cit, in A.V., Diritto industriale. Proprietà
intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, 83.
Sull’argomento v. Liuzzo, Il ritorno alla teoria soggettiva
nel fenomeno estintivo della volgarizzazione, in Riv. dir.
ind., 1994
97
RomanaDOTTRINA
temi
Se risulta abbastanza semplice rintracciare la causa dell’inattività del titolare del
marchio che porta alla volgarizzazione dello stesso e la sua conseguente decadenza, lo
stesso non si può dire per l’attività messa in campo del titolare40.
Nella prima ipotesi, l’attività posta in essere da parte dei terzi che cominciano ad
utilizzare il segno per indicare i loro prodotti analoghi a quelli del titolare del marchio,
risulta essere il momento determinante per comprendere se il titolare del marchio inizia o meno a reagire, anche giudizialmente, a tutela dello stesso41.
Se, come abbiamo detto, risulta abbastanza semplice e lineare accertare l’inattività da parte del suo titolare, di difficile determinazione risulta essere la generalizzazione da attribuirsi alla attività del titolare. Infatti l’attività del titolare del marchio consistente ad esempio nell’aver “battezzato un prodotto nuovo, magari da lui brevettato,
con quel marchio (ed averlo) presentato sul mercato senza che questi ne conoscesse
una (diversa) denominazione generica”.
In questa ipotesi il processo di generalizzazione del marchio risulta inevitabile,
ma il ritenere l’attività del titolare dello stesso quale causa del processo medesimo significherebbe “affermare la presenza del requisito del comportamento attivo del titolare medesimo in quasi tutte le ipotesi di generalizzazione: le quali, in effetti, raramente
o forse mai si sono verificate quando si trattava di un prodotto già noto al mercato con
una propria denominazione generica” .42
Alla teoria soggettiva, così come recepita dall’attuale disciplina, è stata mossa la
critica di consentire al titolare di un marchio di continuare a monopolizzare lo stesso
anche quando perde la capacità distintiva. In risposta a ciò è stato anche rilevato che, il
titolare del marchio in pericolo di decadenza adoperandosi, in ogni possibile occasione, nel mettere in luce che esistono delle differenze tra il suo prodotto e quello della
classe di prodotti di cui lo stesso, ricordano agli utilizzatori che sul mercato sono presenti non solo beni contraddistinti dal suo marchio ma anche altri ad esso sostituibili,
apre la via ad un esito positivo da un punto di vista concorrenziale.
Pertanto l’attuale disciplina, del combinato disposto dagli artt. 13, 4 comma e 26
e 27 c.p.i, risulta essere sotto il segno di un rafforzamento delle esclusive43, e ciò risulta ancor più evidente nell’abbracciare non solo i marchi denominativi, ma anche quelli figurativi e di forma, in linea con quella dottrina e giurisprudenza prevalente44 ante
40 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano, 2005,251
41 Il titolare dl marchio potrebbe adoperarsi in maniera
che sia sempre riconoscibile come tale,
accompagnandolo, ad esempio dal simbolo della
registrazione (una “R” maiuscola in un cerchio), oppure
avendo cura di ricordare nella pubblicità dei suoi
prodotti che si tratta di un marchio registrato.
continui a trovare tutela anche nel momento in cui lo
stesso ha cessato di svolgere la propria funzione
distintiva. Ciò risulta in linea con la norma comunitaria
(art. 10 r.m.c.) che conferisce al titolare del segno la
possibilità di opporsi ad un suo uso non da parte di
concorrenti ma all’interno di “un’enciclopedia o in
un’analoga opera di consultazione” ed il diritto di
esigere dall’editore l’inserzione dell’indicazione che si
tratta di un marchio registrato.
42 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano, 2005,252
43 Questo rafforzamento delle esclusive, presente nella
modifica legislativa, fa si che l’investimento
pubblicitario fino a quel momento effettuato sul segno,
98
44 Mayr, Commento all’art. 41 l.m., in Ubertazzi,
Commentario breve al diritto della concorrenza –
Appendice di aggiornamento, Padova, 2005; App.
Milano 18 luglio 1995
riforma del 2005. Ecco quindi che la disciplina di cui all’art. 9 c.p.i., che definisce in
termini negativi quali siano i marchi di forma, sembra perfettamente in linea e compatibile con quanto affermato nell’art. 13, 4 comma c.p.i., e forse, secondo autorevole dottrina, “con formulazione infelice”, tenuto conto che la parola “comunque” è stata per
errore materiale inserita dopo la prima e non la seconda “o”45.
Il marchio è, dopo la riforma del 1992, soprattutto inteso quale strumento di attrazione e comunicazione nei confronti di un prodotto o di un servizio che lo qualifica
come collettore di clientela connesso alla mera notorietà del segno come è percepito dai
consumatori e non più quale portatore di un messaggio al pubblico di provenienza del
prodotto o servizio da parte di una determinata impresa, visto che è possibile per il titolare del marchio di mantenere l’uso nella propria impresa per prodotti e servizi da lui
stesso realizzati e nel contempo autorizzarne l’uso in una diversa impresa.
Prima della riforma, si sosteneva che il divieto di trasferire il marchio senza l’azienda, o con un ramo particolare di essa, rilevante ai fini della qualificazione del prodotto contraddistinto, rispondeva ad un’esigenza di tutela del consumatore, il quale poteva essere confuso da tale scissione, andando ad incidere su quel messaggio di verità
insito nel marchio. La legge marchi prima e il codice della proprietà industriale poi, hanno cambiato sostanzialmente indirizzo nel prevedere la possibilità di utilizzazione del
marchio separato dall’impresa che ne ha la titolarità pur circoscrivendolo di particolari
cautele, con il preciso intento, di evitare che il marchio fosse portatore di messaggi ingannevoli nel pubblico, senza tuttavia, limitarne la libera circolazione e contrattazione
nel mercato. Gli artt. 2573 c.c. e 23 del c.p.i. risultano rispondenti a tale impostazione,
che nelle sue forme, risponde alle continue esigenze del mercato.
Il titolare del marchio, quindi, oltre al diritto di goderne in via esclusiva ha il potere di disporne, mediante cessione totale o parziale o attraverso contratti di licenza.
E’, infatti, possibile concedere licenze di marchi anche per parte dei prodotti o
servizi per i quali il marchio è registrato (licenza esclusiva parziale)46 e perfino per parte del territorio nel quale il marchio è utilizzato (licenza esclusiva limitata territorialmente)47.
In merito a quest’ultimo istituto, è opportuno segnalare che è anche consentita la
licenza non esclusiva e cioè una licenza che attribuisce al licenziatario o ai licenziatari
il diritto ad usare il marchio senza spogliare il licenziante del suo diritto ad usarne con3. La licenza del marchio di forma.
45 Ricolfi, op. cit., in A.V., Diritto industriale. Proprietà
intellettuale e concorrenza, Torino, 2005, 82
46 La giurisprudenza sembra concorde nel riconoscere la
licenza parziale, limitandola, tuttavia alle sole categorie
di prodotti non omogenei, tenuto conto che non risulta
possibile parlare di cessione territoriale parziale, visto
che non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento
a causa di un sistema di pubblicità nazionale ma anche
e soprattutto perché andrebbe ad intaccare il principio
cardine sul quale poggia tutta la disciplina del marchio,
ossia quella che lo individua quale portatore di un
messaggio veritiero e non ingannatorio sulla
provenienza o qualità dei prodotti o servizi sul quale
viene apposto. In tal senso v. Trib. Torino, 14 aprile
1996, con nota di Giudici, Osservazioni in tema di
provvedimenti cautelari, in Riv. dir. ind., 1996, II, 387;
Trib. Como, 13 ottobre 1997, in Giur. it., 1999, 342.
47 Sena, op. cit., Milano, 2001, 180
99
RomanaDOTTRINA
temi
temporaneamente evitando, tuttavia, il rischio di inganno del pubblico (art. 23 c.p.i.)
Il contratto di licenza rende possibile l’incontro di due opposte esigenze, entrambe
comunque volte alla massimizzazione del profitto d’impresa48. Infatti con il contratto
di licenza il concedente realizza la propria strategia di mercato, grazie alla collaborazione del licenziatario, fissando le modalità, le caratteristiche e la qualità dei prodotti
e/o servizi che potranno essere coperti dal marchio dato in uso, lasciandogli poteri di
regolamentazione e controllo sull’uso del marchio. Poteri che si spingono al punto
di riconoscere al concedente, non solo la risoluzione del contratto nel caso in cui il
licenziatario non usi il marchio secondo quanto fissato nel contratto, ma anche attraverso l’azione di contraffazione, nel caso in cui il licenziatario violi le obbligazioni
contrattuali legate alle caratteristiche e qualità dei prodotti e/o servizi contraddistinti dal marchio concesso in uso49.
Il contratto di licenza si differenzia dalla cessione; infatti in questa ultima ipotesi il titolare si spoglia in via definitiva e piena del diritto e lo trasferisce al cessionario che subentra in tutti i poteri che formano il contenuto del diritto50, mentre nel
contratto di licenza il titolare conserva la titolarità del diritto e attribuisce al licenziatario solo il diritto di usare il marchio nei limiti di tempo e di contenuto indicati
nel contratto. Da sottolineare inoltre che mentre il contratto di licenza è un contratto
che dà vita ad un rapporto di durata ad effetti obbligatori, il contratto di cessione è un
contratto ad effetti reali.
Parte della dottrina51 ha individuato una tipologia di contratti di licenza basando
tale distinzione unicamente sul carattere esclusivo o non esclusivo del diritto conferito al licenziatario, mentre vi è chi individua uno schema contrattuale ricorrente nella
maggior parte dei contratti di licenza tanto da assumere una “certa tipicità sociale”52.
L’art. 23 del c.p.i, che ha sostituito l’art. 15 l.m., individua due ipotesi di licenza, ossia in esclusiva e non in esclusiva, nelle quali è possibile inquadrare il fenomeno del merchandising. Con tale termine si và ad indicare l’accordo con il qua48 Attraverso tale schema contrattuale il titolare del
marchio si prefigge di valorizzare l’avviamento
incorporato nel marchio in settori merceologici e/o
mercati diversi da quelli in cui è abitualmente presente,
senza dover incrementare la propria attività produttiva
e/o distributiva, mentre il licenziatario potrà svolgere la
propria attività produttiva e distributiva traendo
profitto dall’avviamento del concedente, ossia dalla
notorietà del marchio, diminuendo anch’esso gli
investimenti e soprattutto i rischi d’impresa legati al
lancio nel mercato dei prodotti e servizi. “Insomma, il
contratto di licenza presuppone che il marchio che ne è
l’oggetto incorpori già (o eventualmente possa acquisire
sulla base di un progetto industriale o di marketing) un
avviamento dovuto sia ai pregi dei prodotti o servizi
contraddistinti sia alla notorietà e reputazione del
marchio”: Auteri, La licenza di marchio e il
merchandising, in Segni e forme distintive, Giuffrè,
2001, 160
49 Il termine marchio diviene sempre più indice di qualità
100
lasciando il vecchio sinonimo di indicatore della
provenienza.
50 La licenza deve avere ad oggetto un’intera categoria di
prodotti affini, al fine di evitare la coesistenza in capo a
soggetti diversi di marchi fra loro interferenti. Vi è chi
ha correttamente messo in luce che tale conclusione
deve essere contemperata con la crescente
specializzazione produttiva, che rende la nozione di
affinità tra prodotti estremamente ampia. Sul punto v.
Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano 2005.
51 Ammendola, Licenza di marchio e tutela
dell’avviamento, Padova, 1984. L’autore opera una
distinzione interessante tra licenza con esclusiva e
licenza d’uso. In tal senso anche Zorzi, Il marchio come
valore di scambio, Padova, 1995, il quale sostiene che il
contratto di licenza sia un contratto tipico o nominato.
52 Auteri, op. cit., in Segni e forme distintive, Giuffrè, 2001,
157 e ss.
le il titolare del marchio, sfruttando la capacità attrattiva o evocativa dello stesso,
concede ad uno o più soggetti, dietro pagamento di royalties, il diritto di usare il marchio stesso, con o senza esclusiva, al fine di contraddistinguere e promuovere la vendita di prodotti e servizi per lo più appartenenti a generi del tutto diversi da quelli per
i quali il marchio è stato usato all’origine ed ha acquistato celebrità53.
In passato il contratto di merchandising si differenziava dal semplice contratto di licenza di marchio, visto che in quest’ultima ipotesi il marchio contraddistingueva beni e servizi dello stesso genere di quelli per cui era stato usato dal titolare.
Attualmente la dottrina sembra concorde nel riconoscere che il merchandising sia inquadrabile come licenza parziale esclusiva, “la cui parzialità corrisponderà abitualmente ad un frazionamento merceologico estremamente spinto”54, escludendo in
maniera radicale il suo avvicinamento alla licenza non esclusiva.
Infatti merita ricordare che, mentre la licenza parziale è una licenza esclusiva
ricomprendente un intero genere di prodotti , la licenza non esclusiva si ha nell’ipotesi in cui il licenziante concede a più soggetti di usare il marchio per gli stessi prodotti, o nel caso in cui il concedente dia licenza del marchio ad un terzo per determinati prodotti lasciando in capo a sé il diritto di adoperarlo per gli stessi prodotti.
In questi casi si è in presenza di un marchio speciale destinato a contraddistinguere
uno specifico prodotto.
La stessa evoluzione del merchandising, nonché la forte specializzazione produttiva hanno determinato “linee di frazionabilità fra prodotti e servizi nell’ambito
di articoli che un tempo si sarebbero detti senz’altro affini (….)” come ad esempio”nell’ambito stesso dei prodotti di abbigliamento fra abbigliamento normale ed
abbigliamento sportivo, oppure fra orologeria e gioielleria”55 .
Interessante notare la posizione di chi56, partendo dall’assunto che più imprese utilizzano lo stesso marchio per prodotti diversi, ma che vengono recepiti dal pubblico dei consumatori provenienti dalla stessa fonte, anche grazie al sistema pubblicitario che viene realizzato, il contratto di merchandising vada inquadrato come licenza non esclusiva.
Infatti anche se uno marchio va a contraddistinguere prodotti diversi il pubblico li ricollega in termini di provenienza ad una stessa azienda con aspettative in
termini di standards qualitativi, di tecnologia impiegata, di design. Se è vero che l’autonomia contrattuale delle parti risulta del tutto libera, portando il concedente ad non
operare alcun controllo sull’attività del licenziatario, questa incontra il limite nella
53 “Da un punto di visto economico, tale pratica è una
ulteriore dimostrazione del fatto che il marchio,
affermato sul mercato, ha un valore in sé, come
strumento di comunicazione, indipendentemente dal
riferimento a determinati prodotti”: Sena, op. cit.,
Milano 2001, 184
sostiene che il “merchandising costituisce, in ogni caso,
un contratto di licenza parziale, perché riferita ad una
determinata categoria di prodotti; costituisce inoltre, di
regola, un contratto di licenza esclusiva……”
55 Vanzetti, op. cit., Milano 1993, 64.
54 Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano 1993, 64. In
tale senso Sena, op. cit., Milano 2001, 184, il quale
56 Auteri, op. cit., in Segni e forme distintive, Giuffrè,
2001, 171 e ss.
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RomanaDOTTRINA
temi
regola secondo la quale “in ogni caso ….dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”. Questo significa che non solo il pubblico deve essere informato con l’apposizione di adeguate indicazioni sul prodotto che risulta fabbricato su licenza, ma l’applicazione da parte del concedente di tutte le misure atte ad assicurare che i prodotti corrispondano agli standards qualitativi che il pubblico si aspetta dall’impresa del titolare del marchio.
Nella legge marchi prima e nel codice della proprietà industriale attualmente, esistono vari punti che in un certo senso legittimano i contratti di merchandising, come ad
esempio l’inciso “salvo il proprio consenso” di cui all’art. 20, comma 1 del codice e nell’art. 1 della abrogata legge marchi57.
Ciò sta a rilevare che la funzione dei contratti di merchandising è in parte diversa da quella della licenza. Infatti la finalità perseguita con il contratto di merchandising,
da entrambe le parti, è essenzialmente quella di sfruttare la notorietà e la forza attrattiva
del marchio, e cioè una finalità prevalentemente promozionale, che sarà tanto più prevalente quanto maggiore è la distanza dei prodotti per i quali il marchio viene dato in licenza da quelli del titolare. Tale funzione sarà massima nel caso dei segni che hanno acquistato notorietà nell’ambito di un’attività non commerciale, come ad esempio in un’attività sportiva, artistica o culturale e saranno registrati come marchi al solo fine di essere sfruttati in funzione di merchandising58.
Tuttavia la distinzione fra contratti di licenza e contratti di merchandising non è
sempre così netta come potrebbe apparire a prima vista. Infatti non ci troveremo sempre e comunque di fronte ad un contratto di merchandising quando il suo oggetto è un
marchio rinomato e destinato ad essere utilizzato per prodotti non affini a quelli per cui
è utilizzato dal titolare, potendo lo stesso essere applicato anche a contratti aventi ad oggetto marchi non rinomati destinati ad essere utilizzati per prodotti non del tutto affini a
quelli per cui sono utilizzati dal titolare ed anche notevolmente diversi da questi.
In una prospettiva economica, la concessione di una licenza comporta, attraverso
un atto di scambio, la realizzazione, tramite terzi, del valore d’uso del marchio, investendo il licenziatario nel diritto del titolare con modi e ampiezza diversa, che tuttavia si
riferiscono allo stesso marchio; viceversa gli accordi di coesistenza non trasferiscono alcun valore imprenditoriale o monetario da un soggetto all’altro, andando ad incidere sulle facoltà di uso di marchi differenti, che appartengono a titolari differenti, i quali vogliono, con tali atti, evitare che l’immagine dei propri prodotti e servizi interferisca con
quella di altri titolari, creando inevitabilmente confusione nel mercato, ma soprattutto
inquinamento nel messaggio contenuto nel proprio marchio, il quale rischia di offuscarsi
57 Prima della riforma del 1992 si dubitava
sull’ammissibilità dei contratti di merchandising per un
duplice ordine di considerazioni. Nell’ipotesi in cui il
marchio veniva dato in licenza per prodotti non affini a
quelli per cui era tutelato, il contratto risultava privo
dell’oggetto, mentre se il marchio veniva dato in uso
per prodotti affini risultava impossibile rispettare
102
quanto previsto nell’art. 15 l.m.
58 Atti del Convegno tenuto dall’ATRIP a Lubiana 11-13.
07.1994, I nomi e i segni distintivi notori delle
manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del
nome e quella del marchio, in NGCC, 1995, I, 105
e confondersi con quello di altri. Tutto ciò ovviamente non avviene nel contratto di licenza, dove il licenziatario ha tutto l’interesse a mantenersi agganciato al titolare.
Le differenze appena evidenziate da un punto di vista economico, si riflettono in
una diversa disciplina giuridica, che trova un punto d’incontro, per le due fattispecie, nel
sottolineare, nell’art. 23, 4 comma c.p.i., che da tali accordi “non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”.
Se la disciplina dettata nell’art. 23 c.p.i. sembra ritagliata per le ipotesi di contratto
di licenza, ciò non è vero per gli accordi di coesistenza, visto che le parti usano segni diversi. Infatti mentre nei contratti di licenza c’è un solo diritto di marchio autonomo, negli accordi di coesistenza i marchi autonomi sono almeno due, rimanendo le parti ciascuna titolare di un diritto indipendente, che potrà far valere indipendentemente contro
i terzi.
Queste differenze, ed in particolare per quelle licenze che si dicono apparenti, alcune volte finiscono per confondersi, come è stato messo in luce dalla dottrina tedesca59
riguardo alla licenza apparente o all’accordo di coesistenza apparente60; in tali casi risulta difficile individuare la disciplina applicabile.
Per patti di coesistenza61 s’intende identificare quegli accordi per mezzo dei quali il titolare del marchio riconosce la legittimità di un marchio potenzialmente confondibile e si impegna a non esercitare il proprio diritto esclusivo nei confronti del titolare
del secondo marchio.
In Italia gli accordi di coesistenza62 non hanno mai dato alla giurisprudenza modo di esprimersi, visto che il contendere tra le parti - da un lato chi richiede l’osservanza del patto di coesistenza e dall’altro chi ne contesta la validità - è stato sempre risolto
in via transattiva63. Da registrare inoltre che, non esistendo una disciplina propria del con59 Neubauer, Markenrechtliche
Abgrenzungsvereinbarungen aus rechtsvergleichender
Sicht, Koln, Berlin, Bonn, Munchen, 1983, traduzione di
Spolidoro, Il consenso del titolare e gli accordi di
coesistenza, in A.V., Segni e forme distintive. La nuova
disciplina, Milano, 2001, 217
60 Per licenza apparente s’intende quella licenza che in
realtà è inesistente e le parti realizzano in via indiretta
la stessa finalità pratica di un accordo di coesistenza.
Per accordo di coesistenza apparente s’intende
quell’accordo in cui i marchi sono talmente simili e
coprono prodotti e servizi talmente vicini che è possibile
concludere che il marchio è uno solo e che uno dei
contraenti ha concesso e l’altro ha ricevuto una licenza
d’uso.
61 L’esperienza straniera ha registrato in più di una
occasione, che il significato concreto di tali atti varia a
seconda dei settori di attività; risultano più importanti
nelle classi più affollate di registrazioni nelle quali i
marchi sono espressivi di caratteristiche o funzioni del
prodotto o del servizio contrassegnato. In Italia i
maggiori accordi di coesistenza riguardano il settore
tessile i cui marchi risultano legati a imprese familiari di
notevole rilievo economico, che nel corso del tempo si
sono divise in diverse imprese autonome.
62 La dottrina tedesca ha coniato una definizione dei patti
di coesistenza che potrebbe bene adattarsi anche in
Italia, con l’accortezza che ciò deve essere inteso in via
del tutto teorica, visto che nella pratica ci si discosta
notevolmente. Pertanto “l’accordo di coesistenza è un
contratto, per mezzo del quale viene risolto
durevolmente un (almeno non palesemente
insussistente) conflitto giuridico tra marchi
reciprocamente indipendenti, grazie ad una
determinazione concreta dei diversi ambiti di tutela dei
singoli marchi”: Neubauer, op. cit., Koln, Berlin, Bonn,
Munchen, 1983, traduzione di Spolidoro, Il consenso del
titolare e gli accordi di coesistenza, in A.V., Segni e
forme distintive. La nuova disciplina, Milano, 2001, 217
63 I patti di coesistenza, potendo essere registrati a tempo
determinato, sono volti ad una sistemazione stabile del
conflitto tra i titolari dei segni in contrasto. Interessante
in tal senso il Lodo arb. 2 settembre 1998, in Giur. ann.
Dir. ind., 1998, 3837/3.
103
RomanaDOTTRINA
temi
tratto legislativamente tipizzata, la valutazione della validità di tali atti deve essere condotta ai sensi dell’art. 1322, 2 comma c.c..
Alla luce di ciò vi è chi ha sostenuto che tali accordi non sono altro che patti che
mettono fine, in via transattiva, a liti giudiziarie o mirano a prevenirne il sorgere64.
Da rilevare tuttavia, che un accordo di coesistenza, viene posto in esser indipendentemente dal sorgere o prevenire un lite, tanto da renderne riduttivo un simile
inquadramento, rilevandosi al contrario, come manifestazione dell’autonomia privata e dell’iniziativa economica dei titolari dei marchi. Quindi se è possibile dire che
gli accordi di coesistenza sono anche delle transazioni è possibile anche dire che gli
stessi danno vita a rapporti del tutto atipici.
Il contenuto degli accordi di coesistenza è di diversa natura, andando ad incidere sia sull’impegno reciproco di non attaccare le rispettive registrazione, sia sul consenso che le parti si scambiano alla registrazione ed all’uso dei rispettivi marchi a particolari condizioni e per un certo tempo. Per quanto concerne il c.d. patto di non aggressione è da ritenersi del tutto valido, rientrando in quella libertà riconosciuta a chiunque di valutare il proprio interesse a non instaurare una lite. A simile conclusione si
deve pervenire nella considerazione della durata del patto, che normalmente è particolarmente lunga. Infatti l’accordo di coesistenza non generando alcun effetto traslativo o costitutivo di diritti reali sul marchio, contribuisce esclusivamente a delineare
i confini temporali e di uso che lo stesso titolare desidera circoscrivere, rientrando
ciò nella sua piena autonomia.
Se la validità ed efficacia di tali atti di disposizione deve essere coordinata con
la non decettività del marchio, impedendo che lo stesso si risolva in una fonte di confusione tra il pubblico circa la natura, la qualità o provenienza dei prodotti o servizi
sui quali esso è apposto, risulta opportuno analizzarne i pregi e difetti.
La dottrina sembra abbastanza concorde nel ritenere che i vantaggi superano
di gran lunga i rischi di abuso ai danni dei consumatori e dei concorrenti, i quali possono esser neutralizzati sia con le norme specifiche di repressione degli illeciti concorrenziali, sia con la norma relativa alla decadenza per uso decettivo del marchio.
La validità ed efficacia degli accordi di coesistenza, che permettono il convivere di marchi simili per prodotti affini, deve essere valutata tenendo in considerazione il possibile rapporto tra questi e i contratti di licenza di marchio, sia da un punto di vista economico che giuridico.
Il processo legislativo di rafforzamento della protezione del marchio ha portato ad una variazione dei criteri impiegati per l’accertamento della contraffazione. L’art.
20 del c.p.i. riproduce il contenuto del precedente art. 1 l.m.. disciplinando il contenuto del diritto del titolare del marchio, ossia delimitando l’ambito di rilevanza del4. La contraffazione del marchio di forma.
64 Secondo un autore francese gli accordi di coesistenza
“sont de véritables transactions au sens des articles 2044
104
et suivants du Code Civil”: Bertrand, Le droit des
marques et des signes ditinctifs, Paris, 2000, 425
la privativa agli usi del marchio da parte di terzi nell’attività economica 65.
La facoltà di fare “uso esclusivo del marchio”, riconosciuto al suo titolare dalla registrazione, è correttamente analizzata in termini negativi, proprio come possibilità di vietare ai terzi determinati comportamenti, così come elencati nell’art. 20
c.p.i., “salvo il consenso” dello stesso. E’proprio intorno a questa facoltà riconosciuta
al titolare del marchio, che è possibile registrare un duplice orientamento dottrinale.
E’ stato rilevato, da autorevole dottrina, che ciò deve essere inteso come semplice assenza della “volontà di far valere l’esclusiva, cioè come mera tolleranza della contraffazione”, risultando la norma del tutto pleonastica, in quanto la stessa richiama un consenso esplicitamente manifestato dal titolare, con tutte le caratteristiche di precarietà e quindi di revocabilità ad nutum che caratterizzano il c.d. consenso dell’avente diritto66.
A commento, e in piena contrapposizione di opinione67, vi è chi intravede nella norma in esame i c.d. accordi di delimitazione o di coesistenza. Tale impostazione è stata giustamente criticata, tenuto conto che il consenso di cui all’art. 20 c.p.i.,
può essere inteso solo ed esclusivamente di natura contrattuale, e non certo quale legittimazione di comportamenti confusori che si generano attraverso la coesistenza
di marchi eguali e confondibili.
I comportamenti posti in essere da terzi, nei diversi modi elencati nell’art. 20
c.p.i., consistono in generale nell’uso di un marchio identico per prodotti identici, e
risultano vietati, a tutela del diritto esclusivo posto in capo al titolare del marchio, a
prescindere da qualsiasi rischio di confusione che possa generarsi, che può consistere
anche in un rischio di associazione fra i due segni. Infatti la valutazione sulla confondibilità dei segni deve essere operata indipendentemente dagli elementi differenziatori posti in essere, andando a scongiurare tutte quelle operazioni di agganciamento parassitario.
Perché possa verificarsi confusione è necessaria la contemporanea presenza di
due elementi; identità o somiglianza fra i segni da un lato e identità o affinità fra prodotti contrassegnati. Il rischio di confusione quindi, concerne l’origine dei prodotti
o sevizi, e ciò in linea con la stessa funzione del marchio, trovando conferma nel fatto che la stessa legge pone su piani diversi l’identità o somiglianza fra segni - ossia
la confondibilità fra segni - e la identità o affinità fra prodotti – ossia la confondibilità fra prodotti - dalla confondibilità come elemento costitutivo della fattispecie generatrice del “rischio di confusione per il pubblico”.68
65 Il riferimento all’attività economica rappresenta una vera
e propria novità del c.p.i. – anche se alcuni ritengono
una semplice precisazione – la quale conferisce espresso
riconoscimento alla liceità degli usi c.d. civili del marchio,
ossia a quelli che non avvengono nell’esercizio di
un’attività economica.
66 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano 2005, 211 e ss.
67 Olivieri, op. cit., in A.V., Commento tematico della legge
marchi, Torino, 1998, 40 e ss.; Sena, Nullità assoluta o
relativa per difetto di novità del marchio, in Riv. dir. ind.,
1994, I, 639, 643.
68 “Si avrà dunque un comportamento vietato in quanto si
possa ritenere che l’uso da parte del terzo di un segno
eguale o simile per prodotti uguali o affini possa indurre
il pubblico a ritenere che i suoi prodotti provengano in
realtà dall’impresa del titolare del segno” : Vanzetti – Di
Cataldo, op. cit., Milano 2005, 213
105
RomanaDOTTRINA
temi
Da sottolineare che in giurisprudenza si registrano due diversi orientamenti. Il primo, tenuto conto che la funzione essenziale del marchio è quella di distinguere prodotti e
servizi in relazione alla loro fonte di provenienza, sostiene che il giudizio di confondibilità dovrebbe essere operato in concreto. Infatti, il giudizio di confondibilità dovrebbe essere rivolto al modo e al contesto in cui i marchi sono usati e cioè tenendo conto di tutto
ciò che possa influenzare l’opinione del pubblico nel caso concreto69. Anche la giurisprudenza comunitaria sembra orientata in tal senso, trovando conferma di ciò nell’affermazione che, la valutazione del rischio di confusione nella mente del pubblico, deve essere
operata in maniera globale, tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie,
tra i quali figurano la notorietà del marchio d’impresa sul mercato, l’associazione che può
essere fatta tra il marchio d’impresa e il segno usato o registrato, il grado di somiglianza
tra il marchio d’impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati. La chiave di lettura
di tale impostazione risiede proprio nella percezione complessiva dei consumatori.70
In contrapposizione a tale tesi vi è chi, tenuto conto che il marchio attribuisce al titolare un diritto assoluto, fissa che il giudizio di confondibilità deve essere condotto in astratto; ciò stà a significare che lo stesso deve essere effettuato con esclusivo riferimento alle
risultanze del registro, senza che rilevino il modo e il contesto in cui i marchi sono usati né
l’esistenza di una confondibilità tra prodotti, la quale risulterebbe rilevante solo sotto il profilo della concorrenza sleale71.
A conferma del fatto che il giudizio sul rischio di confusione deve essere valutato
in astratto a prescindere dall’uso che del segno viene fatto in concreto da parte del presunto
contraffattore, risiede proprio nell’identità di locuzione usata sia nell’art. 20 che nell’art.
12 c.p.i., in tema di novità, rendendo applicabile l’azione di contraffazione anche ai marchi di forma. Infatti sostenere che il rischio di confusione deve essere valutato in concreto precluderebbe la possibilità di applicazione dell’art. 20 c.p.i. ai marchi di forma, ossia
“ogniqualvolta la forma distintiva risulta essere accompagnata da un marchio denominativo o figurativo diverso da quello usato dal titolare, e cioè praticamente sempre”72. Pertanto un giudizio sul rischio di confusione deve essere sempre condotto al di fuori della
106
69 Cass. 25 gennaio 1983, n. 691, in Giur. it., 1983, I, 1,
1098; Trib. Torino, 11 maggio, 1987, in GADI, 1987, 245;
Trib. Napoli 26 giugno 1997, in Dir. ind., 1997, 931; Trib.
Napoli, 5 novembre 1998, in Riv. dir. ind., 1999, II, 243;
Trib. Grosseto, 18 luglio 2001, in Giur. it., 2001, 2087
tenendo conto che, in relazione alle varie categorie di
marchi (di fatto, certi segni si prestano meno di altri a
fungere da marchi) essa potrà atteggiarsi in modo
differente in ragione dei diversi modi con cui i diversi
tipi di marchi sono percepiti dal pubblico”.
70 Secondo l’orientamento della Corte europea condizione
specifica della tutela del titolare del marchio è la
sussistenza di un rischio di confusione, inteso ai sensi
dell’art. 5 n. 1 lett. b) della direttiva , quale rischio
percepito dal pubblico nel credere che i prodotti o
servizi provengano dalla stessa impresa o da imprese
economicamente collegate. In tal senso v. Corte CE C251/95, punti 18 e ss.; C-39/97, punti 16 e 28 e ss.; C342/97, punti 16 e ss.; C-425/98, punti 34 e ss.. In tal
senso anche Sironi, La “percezione” del pubblico
interessato, in Il dir. ind., 2007, 121 e ss., il quale
sostiene che “La capacità istintiva andrà valutata, in
concreto, con riferimento alla percezione del pubblico
71 Cass. 1986/1080; Cass. 1998/ 9617; Cass. 1999/13592; Trib.
Milano, 30 dicembre 1999, in GADI, 2000, 593; App.
Milano, 6 luglio 2001, in Giur. it., 2002, 326; Trib. Torino,
19 dicembre 2002, in Giur. it., 2003, 956; Sena, op. cit.,
Milano, 2001, 71 e ss. ; Vanzetti – Di Cataldo, op. cit.,
Milano, 2005, 215 e ss.
72 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano, 2005, 214. Si
pensi alla forma caratteristica di una bottiglia o di un
contenitore per prodotti che viene registrato come
marchio di forma, al quale si appone un’etichetta; la
diversità di questa legittimerebbe sempre
l’impossessamento del marchio di forma altrui.
singola fattispecie concreta, nella ricerca in astratto della percezione del pubblico in relazione ad un raffronto tra i due segni. Ciò determina, ovviamente un’estensione della tutela del marchio al di là della sua funzione distintiva tipica.73
Tra le ipotesi di confusione deve essere annoverato il “rischio di associazioni” tra i
due segni.
L’interpretazione della nozione di rischio di associazione è stato al centro di un lungo dibattito dottrinario e giurisprudenziale non solo nazionale ma anche comunitario.
Secondo l’impostazione originaria, sposata anche dalla giurisprudenza comunitaria74, il rischio di associazione deve essere inteso come sottospecie del rischio di confusione sull’origine dei beni e servizi, visto che la ratio della norma risiede nell’estensione
della tutela contro la contraffazione a quelle fattispecie in cui il pubblico, pur consapevole di trovarsi di fronte a beni provenienti da due imprese differenti, è portato a ritenere che
esistano dei rapporti contrattuali o di gruppo75.
In contrasto con quanto appena detto è l’orientamento di quella dottrina che vede
nel rischio di associazione un quid novi rispetto alla tradizionale confusione sull’origine,
il quale deve essere inteso in senso molto ampio, tanto da comprendere, non solo l’ipotesi in cui il pubblico sia indotto a ritenere che i prodotti del contraffattore provengano in
realtà dall’impresa del titolare del segno, o da un’impresa in qualche modo legata a quella del titolare da rapporti contrattuali o di gruppo, ma anche come mero agganciamento
non confusorio, ossia come semplice richiamo alla memoria del pubblico dell’altro marchio76. Simile orientamento è stato giustamente criticato dall’impostazione tradizionale,
visto che la legge parla sempre di “rischio di associazione” come ipotesi del “rischio di
confusione per il pubblico”, escludendo a priori che si possa trattare di associazione non
confusoria.
La ratio dell’azione di contraffazione risiede, infatti, in un duplice ordine di tutela,
legate tra loro nel salvaguardare la stessa funzione distintiva del marchio nel mercato. Se
da una parte si và a tutelare il titolare del marchio da offensive di terzi, dall’altra si vuole
evitare un pregiudizio ai consumatori, i quali perderebbero la certezza che quel determi73 Trib. Napoli, 1 giugno 2007, in Il dir. ind. 2007, 537 e ss.:
Tale sentenza ha sancito il principio secondo il quale il
marchio di forma è registrabile solo se presenta il
carattere distintivo, ossia se possiede un aspetto
inconsueto idoneo ad attirare l’attenzione del
consumatore medio che è in grado di distinguere tale
forma da quella di prodotti dello stesso tipo con diversa
provenienza commerciale. “I criteri di valutazione del
carattere distintivo dei marchi tridimensionali non
differiscono da quelli applicabili alle altre categorie di
marchi. Tuttavia, in sede di applicazione di tali criteri, la
percezione del pubblico destinatario non è
necessariamente la stessa nel caso di un marchio
tridimensionale”
74 La giurisprudenza comunitaria è orientata nel ritenere
che il rischio di associazione è una specificazione del
rischio di confusione sull’origine la cui esistenza è
presupposto indettabile per aversi contraffazione e la
mera associazione tra due marchi, operata dal pubblico
a causa della concordanza nel loro contento semantico,
non è elemento sufficiente per ritenere che sussista un
rischio di confusione. In tal senso Corte CE C- 252/95,
punto 18; C-39-/97, punto 18; C- 342/97, punto 17; C25/98, punto 34.
75 Tale fenomeno viene anche detto confusion in a wider
sense. In tal senso Di Cataldo, I segni distintivi, Milano
1993, 96; Mansani, La nozione di rischio di associazione
fra segni nel diritto comunitario dei marchi, in Riv. dir.
ind., 1997, I, 133; A.V, Diritto industriale, in Trattato di
diritto commerciale, vol. II, Torino, 2001.
76 Franzosi, Sulla funzione del marchio e sul rischio di
associazione, in Riv. dir. ind., 1999, II, 279; Casaburi,
Rischio di associazione: tutela avanzata del marchio, in
A.V:, Segni e forma distintive , Milano 2001, 47 e ss.
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RomanaDOTTRINA
temi
nato prodotto o servizio provenga da una determinata fonte produttiva, nella quale essi ripongono fiducia, non permettendo agli stessi di fare affidamento sui marchi nel compiere le loro scelte di acquisto.
Il rischio di confusione implica inevitabilmente un giudizio di confondibilità, che
sarà abbastanza semplice ed immediato se il marchio usato dal terzo è identico a quello del
titolare, mentre, comporterà l’adozione di criteri di valutazione certi qualora il marchio adottato dal terzo risulta essere simile a quello del titolare. La giurisprudenza nazionale risulta essere abbastanza concorde nell’individuazione di tali criteri, sostenendo che il giudizio di confondibilità deve essere dato tenendo conto dell’impressione di insieme che il raffronto fra i due segni può suscitare, mediante un apprezzamento complessivo che tenga
conto degli elementi salienti dotati di potenzialità evocativa nella memoria dei consumatori in relazione al normale grado di percezione delle persone alle quali il prodotto è destinato77, e non attraverso una separata valutazione di ogni singolo elemento78. Da tenere
presente, inoltre, che la valutazione deve tener conto non solo della cultura del pubblico,
ma anche dell’importanza del prodotto o servizio che il marchio contraddistingue. Infatti
per prodotti di largo consumo e di prezzo modico, il consumatore presterà meno attenzione che nell’accingersi all’acquisto di beni ad alto prezzo e non di prima necessità. La giurisprudenza nazionale e comunitaria sembrano concordi nel ritenere che il parametro di riferimento nel giudizio di confondibilità, risiede nella figura del consumatore medio79 al
quale è rivolto il prodotto. Tale analisi deve essere contestualizzata al tipo di clientela al
quale il prodotto è destinato80.
Un recente orientamento, prendendo le mosse dalle considerazioni appena esposte delle due diverse tesi, ritiene che la contrapposizione tra esame analitico e sintetico non deve essere posta in termini rigidamente alternativi, ma in termini di complementarità; ossia nel senso di rendere necessaria, in presenza di molteplici elementi
formali, una prima fase di comparazione delle singole caratteristiche, ed una secon77 App. Milano, 17 luglio 1998, in GADI, 1999, 540; App.
Bologna, 17 giugno 1986, in GADI, 1986, 562; Trib.
Napoli, 26 giugno 1997, in Dir. ind., 1997, 931; Trib.
Lanusei, 16 novembre 2000, in Riv. giur. sarda, 2001,
501; Cass. 9 febbraio 1995, n. 1473, in Mass. Giust. Civ.,
1995, 318, Cass. 22 gennaio 1993, n. 782, in Mass. Giust.
Civ., 1993, 109; Cass. 4 dicembre 1999, n. 13592, in Mass.
Giust. Civ., 1999, 2449; App. Milano, 14 maggio 2004, in
Foro it., I, 2491
L’orientamento giurisprudenziale nazionale sembra in
linea con quello comunitario, il quale sostiene che il
giudizio il confondibilità deve fondarsi sull’impressione
complessiva prodotta dai marchi, tenuto conto degli
elementi distintivi e dominanti degli stessi marchi. In tal
senso v. Corte CE C-251/95, punto 22; Corte CE C-342/97,
punto 25; Trib. I grado CEE, 1 febbraio 2005, n. 57, in
Dir. e Giust. 2005, 14, 9.
78 Si ritiene che l’attività propedeutica al giudizio di
confondibilità deve essere per forza di cose analitica sui
singoli elementi, per comprendere, non solo tutte le
somiglianze e diversità presenti, ma anche per accertare
108
quali di questi risultano salienti e quali di minor rilievo.
Tale particolareggiata attività non inficia il fatto che il
giudizio di confondibilità deve essere effettuato in via
unitario e sintetico.
79 Per consumatore medio s’intende un soggetto dotato di
medie capacità di diligenza e avvedutezza nell’acquisto
di un prodotto. In tal senso Trib. Napoli, 26 giugno
1997, in Dir. ind., 1997, 91; Trib. Napoli, 5 novembre
1998, in Riv. dir. ind., 1999, I, 2, 321.
80 E’ stato rilevato che anche se il consumatore medio è di
norma informato e ragionevolmente attento, è
necessario tener presente che i consumatoti raramente
hanno la possibilità di porre a confronto diretto due
marchi e ce molto spesso la comparazione avviene tra
un marchio che si ha di fronte ed il mero ricordo
mnemonico dell’altro. In tal senso Trib. Roma, 29
ottobre 2001, in Giur. it., 2002, 1445. Per la
giurisprudenza comunitaria v. Corte Ce C-210/96, punto
3; C-342/97, punto 26.
da fase di sintesi dei risultati acquisiti. In tal modo l’esame analitico, quale elemento di apertura nella valutazione, e quello sintetico, che rappresenta elemento di chiusura nell’analisi, vanno a rappresentare due momenti necessari nel giudizio di confondibilità81.
Se le considerazioni appena fatte possono essere valide per marchi denominativi82, ritengo che ciò non sia del tutto confacente nel caso in cui il giudizio di confondibilità ha ad oggetto due marchi di forma. Infatti un marchio di forma, per la sua
particolare natura, porta il pubblico ad un’associazione immediata verso un determinato prodotto ed una determinata azienda produttrice. L’analisi che il consumatore esegue nel momento dell’acquisto è molto più istintiva e forse superficiale che nel
momento in cui si accinge all’acquisto di prodotti coperti da marchi denominativi.
Ciò determina, inevitabilmente, maggior confondibilità tra prodotti coperti da marchi simili. Il giudizio di confondibilità dovrà infatti, essere operato, non mediante un
apprezzamento complessivo e quindi in via unitaria e sintetica, ma in via analitica,
attraverso una particolareggiata disamina ed una separata valutazione di ogni singolo elemento saliente o meno.
Tale valutazione sembra essere ancora più necessaria nel momento in cui esistono marchi di forma di prodotti di largo consumo e a basso costo, magari venduti
nei supermercati ed acquistati velocemente e senza particolare attenzione. In tal caso è stato messo in evidenza dalla giurisprudenza83 l’importanza della forma che và
ad assumere una funzione distintiva cruciale poiché nell’ambito dei prodotti di uso
quotidiano svolge un ruolo attrattivo di notevole rilievo84.
81 App. Milano, 22 dicembre 1987, in GADI, 1987, 871; App.
Palermo, 17 febbraio 1994, in GADI, 1994, 641; Trib.
Napoli, 5 novembre 1998, in Riv. dir. ind., 1999, II, 243
82 La giurisprudenza nazionale e comunitaria sembrano
concordi nel ritenere che la comparazione tra marchi
deve avere ad oggetto sia l’elemento grafico che quello
fonetico, ed ovviamente anche quello concettuale,
tenendo conto le concordanze presenti anziché le
differenze. In tal senso App. Roma, 24 novembre 1997,
in GADI, 1998, 458; Cass. 1995/1473; C-342/97, punto 27.
Per i marchi costituiti da una espressione denominativa e
da elementi figurativi e grafici, il giudizio di
confondibilità potrà rivolgersi anche ad uno solo di tali
elementi.
83 Trib. Napoli, 5 ottobre 2001 confermata Trib. Napoli, 26
luglio 2001 in Riv. dir. ind., 2002, II, 153 3 ss. Con nota di
Giudici.
84 Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 18920/2004
si è conclusa la lunga battaglia giudiziaria tra Eliocell srl
e Tavola SPA, iniziata nel 1996 dinanzi al Tribunale civile
di Milano per accertare la validità del marchio della
Eliocell e conseguente mancata contraffazione del
marchio, e atto di concorrenza sleale. La Tavola Spa,
licenziataria dal 1975, per il territorio italiano dei marchi
di deodoranti per auto a forma di pino, denominati
Arbre magique, per conto della Car Freshener
Corporation del marchio di Seamann, si è trovata a
dover operare nel medesimo territorio con la Eliocell srl,
società nata nel 1982 nella produzione di deodoranti, la
quale nel 1994 ha chiesto la registrazione di un marchio
d’impresa complesso formato dalle parole “Four seasons
airfreshener’s oaks” e dal disegno stilizzato di una foglia
di quercia, utilizzato per produrre un deodorante per
auto.
Entrambi i prodotti risultavano legati a diverse
profumazioni tipiche dell’ambiente naturale.
La sentenza di primo grado85 ha accertato la validità
del marchio della Eliocell srl e l’assenza di
contraffazione da parte di questa ultima. Infatti il
marchio della parte attrice presenta le caratteristiche di
un marchio complesso, elementi denominativi e
figurativi, del tutto diversi da quelli della Tavola Spa,
“non solo nelle parole utilizzate ma anche nella grafica
in concreto utilizzata”.
Anche la Corte di Appello di Milano con sentenza n.
1845/01, chiamata a pronunciarsi, ha riconfermato i
contenuti della sentenza di primo grado, precisando che
“non basta un’efficace campagna pubblicitaria per
attribuire agli appellanti un monopolio su ogni segno
che faccia riferimento al mondo vegetale”. La Corte ha
inoltre osservato che i marchi della Tavola Spa non sono
marchi di forma, ma marchi complessi e come tali non
interessa ai fini del giudizio “il paragone tra la concreta
forma utilizzata per i prodotti deodoranti della Eliocell e
la concreta forma accreditata sul mercato per i prodotti
109
RomanaDOTTRINA
temi
Confondibilità fra segni presuppone che ci trovi con un’identità o affinità fra
prodotti o servizi, visto che da solo non è sufficiente ad ingenerare ipotesi di violazione del diritto di marchio. Quanto espresso viene definito principio della c.d. relatività o specialità della tutela del marchio85.
Se il marchio registrato viene tutelato ogni qualvolta un segno uguale o simile viene adottato da altri per quel prodotto o per prodotti che ad esso possono ritenersi affini, risulta decisivo comprendere quando un prodotto può ritenersi affine ad
un altro86.
Secondo un orientamento giurisprudenziale sono da ritenersi affini tra loro quei
prodotti o servizi che, per la loro intrinseca natura, per la loro destinazione alla stessa clientela e alla soddisfazione degli stessi bisogni, sono ricollegabili al prodotto o
al servizio protetto dal marchio.
distribuiti da Tavola” mentre ciò che si pone interessante
e “l’utilizzo o meno, da parte della Eliocell di segni che
possano creare confusione nel consumatore in relazione
ai noti marchi Seamann”. Potrebbe pertanto essere
interessante ipotizzare, ai fini di una piu’ efficace tutela
dei prodotti della Tavola, la registrazione degli stessi
come marchi di forma. Ma ciò appare impossibile per
carenza del requisito della distintività. Infatti il
consumatore medio non opera un’analisi dettagliata
della forma e del colore del prodotti, elementi ai quali
riserva scarsa attenzione e pertanto inidonei ad
assumere la richiesta qualità di segni distintivi. E’ ciò che
si evince in moltissime sentenze e non da ultimo quella
del Tribunale di primo grado delle Comunità europee
del 28 gennaio 2004, con la quale è stata preclusa la
registrazione di contenitori per bevande a forma di
sacchetto proprio perché privi del carattere distintivo,
affermando che “la percezione da parte del pubblico
interessato non è necessariamente la stessa nel caso di
un marchio tridimensionale costituito dall’assetto stesso
del prodotto che nel caso di un marchio denominativo,
figurativo e tridimensionale non costituito da tale
aspetto. Infatti, mentre il pubblico abitualmente
percepisce subito tali ultimi marchi come segni che
identificano il prodotto, ciò non accade necessariamente
quando il segno si confonde con l’aspetto del prodotto
stesso.”
Le considerazioni fatte nei gradi precedenti sono state
riconfermate dalla Corte di Cassazione che ha
riconosciuto la liceità e validità del marchio della Eliocell
non costituendo lo stesso contraffazione del marchi della
Seamann e del licenziatario per l’Italia della Tavola spa.
Interessante notare in tale vicenda come i giudici hanno
sempre valutato come elemento utile ai fini della
decisione la capacità distintiva del marchio nei confronti
del consumatore medio del prodotto, anche se appare
necessario rilevare come oggi tale capacità sembra
ridursi per lo stesso consumatore. Infatti se prima del
1992 il consumatore ricollegava la provenienza di un
prodotto e quindi anche la sua qualità, ad una precisa
azienda, oggi con la possibilità data al titolare del
marchio di consentire a terzi il suo utilizzo, la tutela del
consumatore medio potrebbe essere compromessa.
85 Il principio della relatività della tutela espresso
110
chiaramente nell’art. 2569 c.c., secondo il quale il
titolare del marchio “ha diritto di valersene in modo
esclusivo per i prodotti o i servizi per i quali è stato
registrato”, viene ripreso nell’art. 20, comma 1 c.p.i. sia
nella lett. a), nella parte in cui si vieta ai terzi l’uso di
un segno identico “per prodotti o servizi identici”, che
nella lett. b) dove si sancisce che il titolare ha il diritto
di vietare a terzi di usare un segno simile al suo “per
prodotti o servizi identici o affini”. Tale concetto è
ribadito anche nell’art. 15, comma 3 c.p.i. che dispone
che “la registrazione esplica effetto limitatamente ai
prodotti o servizi indicati nella registrazione stesa ed ai
prodotti o servizi affini”
86 La domanda di registrazione di marchio deve contenere,
ai sensi dell’art. 156, comma 1 lett. d) c.p.i. “l’elenco dei
prodotti o dei servizi che il marchio è destinato a
contraddistinguere, raggruppati secondo le classi della
classificazione di cui all’Accordo di Nizza sulla
classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai
fini della registrazione dei marchi, testo di Ginevra del
13 maggio 1997, ratificato con la legge 27 aprile 1982,
n. 243”. Il raggruppamento dei prodotti e servizi in una
stessa classe segue fino ad un certo punto il principio
dell’omogeneità. I criteri di classificazione non si basano
su criteri scientifici esatti, in quanto ciò dipende dai
materiali con cui i prodotti sono fabbricati, dalla
destinazione dei prodotti o servizi medesimi,
comportando la necessità di rivolgersi, molto spesso il
ricorso alle note pubblicate dall’OMPI per una corretta
classificazione . Una tale situazione rende evidente
come i criteri di affinità dei prodotti e servizi, al quale
ci si rivolge per determinare una possibile violazione di
un diritto di marchio, non sono esaustivi. Infatti alla
classificazione di Nizza viene riconosciuto valore
soltanto ad un fine fiscale nel senso che la legislazione
nazionale, come avviene in Italia, può esigere che venga
pagata una tassa supplementare per ogni classe oltre la
prima in cui ricadono i prodotti e i servizi indicati nella
domanda di marchio. Ne consegue che, il criterio
interpretativo per stabilire se i prodotti e servizi di un
marchio sono affini ai prodotti e servizi di una altro
marchio non può basarsi sulla semplice constatazione
che in ambedue i casi i prodotti o servizi ricadono o
meno nella stessa classe.
Tale impostazione è stata contestata in quanto risulta essere piuttosto ambigua
e fuorviante, essendo i tre criteri presi a riferimento, del tutto generici tanto da portare a considerare affini dei prodotti in realtà lontanissimi tra loro. Si è ritenuto, più
rispondente alla legge87, ricostruire il giudizio di affinità tenendo a riferimento, oltre ai criteri sopra indicati dalla tesi giurisprudenziale, la funzione di indicazione di
origine del marchio, come tutela contro la possibile confusione circa la fonte di provenienza del prodotto88.
In linea con questa ultima impostazione sarà possibile stabile se vi sia affinità tra i prodotti, valutando “lo specifico contesto socio-culturale in cui i prodotti si
inseriscono, nonché la prassi di mercato attinente a quei settori ed i conseguenti specifici convincimenti del pubblico“89.
Si ha contraffazione qualora la condotta posta in essere è tale da ingenerare
confusione nell’uomo medio, tanto da indurlo in errore scusabile. Tale condotta è da
ritenersi illecita nel momento in cui, la violazione dell’altrui diritto di marchio, si verifica con l’adozione, per contrassegnare prodotti dello stesso genere o di genere affine, di un marchio uguale o simile90.
Vi è chi ha voluto operare una distinzione tra contraffazione ed alterazione, intendendo con il primo termine l’intenzione dell’autore del fatto di ricreare un marchio simile all’originale. Con il termine alterazione, invece, si fa riferimento alle ipotesi in cui l’autore della condotta illecita agisca su di un contrassegno originale già
87 Tale teoria, risulta, infatti aderente al tessuto
normativo, la quale estende la tutela del marchio ad
ogni ipotesi di possibilità di confusione, non lasciando
spazio ad ambiguità e arbitrarietà.
88 In applicazione di tale teoria, la giurisprudenza è giunta
a ritenere affini tra loro prodotti come l’abbigliamento
da un lato e i gioielli dall’altro, che pur
merceologicamente diversi, vengono percepiti dal
pubblico come provenienti da una stessa azienda e
quindi marcati da uno stesso marchio.
89 Vanzetti – Di Cataldo, op. cit., Milano 2005, 225.
90 Interessante rilevare come nuovi strumenti di tutela
sono stati introdotti con la legge Finanziaria 2004 ed i
Regolamenti comunitari 1383/2003, 1891/2004, che
hanno attribuito nuovi poteri all’Agenzia delle dogane
al fine di prevenire e reprimere violazioni ai diritti della
proprietà industriale., tutelando il corretto svilupparsi
del libero scambio senza dover pregiudicare la fluidità
degli scambi intra-comunitari.
Attraverso la creazione di un sistema di tecnologia web
si è provveduto alla creazione di un progetto
denominato FALSTAFF (Fully Automated Logical System
to Against Forgeries & Fraud), con il quale si è creata un
banca dati dei prodotti autentici a cui si può accedere
per il tramite del sistema A.I.D.A. (Automazione
Integrata Dogana Accisa). Tale sistema può essere
utilizzato da quelle aziende che richiedono l’intervento
della Dogana per la salvaguardia e la tutela del proprio
prodotto contro il pericolo di contraffazione. Sarà
necessario infatti, inserire una propria scheda con cui
sarà descritto minuziosamente il prodotto, affinchè la
stessa sia consultata con facilità e rapidità dai
funzionari doganali in tutti quei casi dubbi circa
l’autenticità di merce in transito, provvedendo
direttamente al sequestro della merce o richiedendo
l’intervento della Guardia di Finanza, o di tecnici
specializzati.
Da tener presene inoltre che in ambito europeo esiste
un Circuito doganale di Controllo nel quale
confluiscono le dichiarazioni di import-export dei singoli
prodotti a ciascuno dei quali viene attribuito un codice
identificativo, I.T.V. unico nel territorio comunitario, il
quale ne consentirà una tutela generalizzata all’interno
della U.E.
Il Regolamento 1383/2003 permette alle autorità
doganali, che sospettino la contraffazione della merce
di adottare la misura cautelare della sospensione per un
termine massimo di 10 giorni, in attesa di informare
l’Autorità Garante e il titolare del diritto leso, affinché
quest’ultimo si attivi al fine di impedire lo svincolo della
merce. Sempre il Regolamento all’art. 11, attribuisce alle
autorità doganali, previo consenso del detentore, del
dichiarante o del proprietario, il potere di distruggere
la merce contraffatta. Con il nuovo testo del D.lgs.
262/2006 la procedura di distruzione della merce sarà
molto più veloce, grazie alla facoltà data all’autorità
doganale di prendere una decisione unilaterale di
carattere amministrativo, sempre che vi sia il consenso
del titolare del diritto, del dichiarante, detentore o
proprietario e che alcuni campioni di merce vengano
conservati per l’instaurando provvedimento giudiziario.
111
esistente, modificandolo nei suoi caratteri essenziali così che agli occhi del consumatore appaia diverso dall’originale. Da rilevare, tuttavia che il termine più usato è
quello di contraffazione
La contraffazione rappresenta la violazione della posizione di esclusiva nell’uso del segno, ossia tutti quei comportamenti attraverso i quali si verifica un’ingiustificata intromissione nell’ambito della esclusiva del titolare. L’art. 20 c.p.i., nell’elencare in maniera molto ampia ciò che il titolare può vietare ai terzi, illustrandone il contenuto del diritto di esclusiva, fornisce una nozione di contraffazione che
abbraccia numerose fattispecie.
112
RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Nicoletta SCATTONE*
Il diritto di asilo in Italia:
luci ed ombre
1. Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano – 2. Le norme sul diritto d’ingresso e il procedimento per l’esame della domanda di asilo – 3. Alcune osservazioni sul d.p.r. 16 settembre 2004, n. 303 – 4. Le fonti di diritto comunitario derivato che regolano la materia dell’asilo – 4.1. Il d.lgs. n. 140/2005 di attuazione della direttiva 2003/9/CE sulle norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti
asilo – 4.2. Il d.lgs. n. 251/2007 che ha recepito la direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale – 4.3. Il d.lgs. n. 25/2008 di adeguamento alla direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato – 5. Considerazioni conclusive.
Sommario:
a Costituzione italiana nel sancire all’art. 10, terzo comma, che «Lo straniero, al qua-
1. Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano.
le sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge», riconosce un diritto soggettivo all’ingresso e al soggiorno nel territorio nazionale, diversamente dalla condizione in cui si trovano gli altri stranieri i quali possono vantare nei confronti dello Stato un mero interesse legittimo. La riserva di legge assoluta prevista dalla norma costituzionale risponde, infatti, ad una duplice ratio: da un lato,
rappresenta il corollario della riserva di legge stabilita al comma 2 dello stesso art. 10, così
da definire un disegno generale nel quale il Costituente ha inteso sottrarre all’autorità amministrativa il compito di regolamentare sia le questioni riguardanti la condizione dello straniero, sia il diritto d’asilo per gli stranieri ai quali sia negato di fatto l’esercizio delle libertà
democratiche; dall’altro, si conforma alle disposizioni costituzionali concernenti i diritti di
libertà per i quali è stabilita una riserva assoluta di legge tale da sottrarre la competenza in
materia al potere discrezionale dell’autorità amministrativa.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo della disposizione sull’asilo, occorre considerare se il testo costituzionale quando fa riferimento allo straniero con ciò intenda solo chi, non essendo cittadino italiano, abbia la cittadinanza di un altro Paese o se, piuttosto, vi ricomprenda anche gli apolidi1. Sebbene sul punto non vi sia un unanime orientamento dottrinale, la tesi che include gli apolidi tra i soggetti che possono richiedere l’asi-
L
* Dottore di ricerca in Diritto pubblico comparato.
1 Sulla possibilità di interpretare la volontà dei Costituenti alla
luce dell’ampia formulazione del diritto di asilo, cfr. F.
RESCIGNO, Il diritto d’asilo tra previsione costituzionale,
spinta europea e “vuoto” normativo, in Politica del diritto,
2004, p. 153. Tra i sostenitori della tesi contraria all’estensione
della tutela anche agli apolidi, si veda, per tutti, A. VALENTI,
Il “diritto costituzionale di asilo” sancito dal terzo comma
dell’art. 10 della Costituzione italiana è attualmente valido e
applicabile?, in Divenire sociale e adeguamento del diritto.
Studi in onore di Francesco Capotorti, I, Milano, 1999, p. 568,
113
RomanaDOTTRINA
temi
lo, si fa preferire in quanto più aderente alla volontà del Costituente di fornire un’ampia
tutela nei confronti di coloro che non possano esercitare, di fatto, i diritti di libertà nello
Stato di residenza.
Altra questione è quella concernente il soggetto dal quale deve derivare il rischio
di persecuzione, per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 19512, o al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, nella nozione di diritto di asilo secondo l’ordinamento italiano,
laddove è necessario stabilire se possa essere solo lo Stato di provenienza o anche «agenti non statali», quali potrebbero essere le forze militari (o paramilitari) che svolgono parimenti attività persecutorie. Sul punto, la disposizione costituzionale italiana sembra ricomprendere anche tali ipotesi, data la mancanza di una distinzione circa i soggetti dai
quali l’impedimento all’esercizio delle libertà possa dipendere. Del resto, è lo stesso testo costituzionale a non precisare, quale condizione per il riconoscimento del diritto di asilo, l’origine statale dell’abuso, se è vero che è sufficiente il concreto impedimento dell’esercizio delle libertà democratiche. Va detto, tuttavia, della differente declinazione che del
diritto di asilo si è avuta in ambito nazionale da parte di altri Stati membri, rispetto a quella comunitaria che ha adottato un’interpretazione restrittiva, ritenendo degni di tutela i soli richiedenti lo status di rifugiato per i quali la persecuzione sia stata operata «in genere»
dallo Stato e, dunque, escludendo dal novero dei soggetti “attivi” quelli non statali3. Inusecondo il quale i due requisiti essenziali sarebbero, a livello
soggettivo, il risultare cittadini di uno Stato diverso da quello
italiano e, sotto il profilo oggettivo, l’impedimento
«effettivo», cioè reale e dimostrabile, all’esercizio delle libertà
democratiche. Restano, pertanto, esclusi gli stranieri che siano
già residenti nel territorio italiano e gli ex cittadini italiani o i
cittadini stranieri di origine italiana, per i quali opererebbe
un’assimilazione con i cittadini italiani.
2 La Convenzione adottata dall’Organizzazione delle Nazioni
Unite, alla quale si deve la definizione del termine di
“rifugiato”, è entrata in vigore il 22 aprile 1954
successivamente al deposito del sesto strumento di ratifica. Ai
sensi dell’art. 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra, il
rifugiato è «colui che temendo a ragione di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,
appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue
opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e
non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi
della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la
cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva
residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o
non vuole tornarvi per il timore di cui sopra». A comporre la
figura del rifugiato concorrono, pertanto, due categorie di
elementi: una prima categoria relativa agli elementi di natura
soggettiva, basati sulle dichiarazioni fornite dall’interessato –
laddove la Convenzione di Ginevra fa riferimento al «timore
di persecuzione» – e una seconda categoria di elementi
oggettivi valutati in relazione alla reale situazione presente
nel Paese di origine del richiedente, giacché la disposizione di
cui all’art. 1, specifica che il timore deve essere fondato, come
evidenziato dall’espressione «to well-founded». Tuttavia, la
Convenzione si colloca nella scia dei trattati conclusi
anteriormente al conflitto mondiale per risolvere specifiche
priorità e, pertanto, non ha alcuna pretesa di introdurre un
regime permanente ed universale. Lo scopo era, infatti,
114
quello di superare una questione contingente per la quale si
era reso necessario prevedere delle soluzioni
geograficamente e temporalmente limitate. Come
dimostrano le tappe storiche che hanno portato alla
Convenzione, alla fine degli anni Quaranta, si poneva il
problema se fosse indispensabile approvare un testo che
contenesse un catalogo dei diritti per i rifugiati, secondo il
modello fornito dalla Dichiarazione universale del 1948
oppure se potesse rivelarsi sufficiente estendere il campo di
applicazione della Convenzione di Ginevra sullo status
internazionale dei rifugiati del 28 ottobre 1933. La
Convenzione di Ginevra, resa esecutiva in Italia con l. 22
luglio 1952, n. 722, è stata successivamente integrata dal
Protocollo di New York del 31 gennaio 1967.
3 E’ frutto di una tale politica restrittiva, la Posizione comune
dell’Unione europea del marzo 1996 nella quale è fatto
espresso riferimento alla sola persecuzione di origine statale.
Giova, sull’argomento, ricordare i rilievi mossi dall’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, I rifugiati
nel mondo. Cinquant’anni di azione umanitaria, a cura della
Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento per
l’informazione e l’editoria, Roma, 2000, p. 162, che, sulla
disparità di trattamento da parte degli Stati membri tra
quanti sono propensi a riconoscere anche le persecuzioni
realizzate ad opera di agenti non statali, e quanti si limitano
a quelle statali, fa notare come a livello internazionale né la
Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene
crudeli, disumani o degradanti del 1984, né la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali del 1950 «fanno alcuna distinzione fra
lo Stato e altri soggetti responsabili della tortura o di altri
trattamenti disumani o degradanti», ritenendo di estendere
la protezione «contro tali trattamenti, chiunque ne sia
l’esecutore».
tile dire quanto una simile limitazione produca ingiustificate disparità nei confronti di quei
soggetti deboli che, in molti casi, subiscono la persecuzione da parte di milizie o gruppi
che gestiscono il potere, solo formalmente non riconducibili nel novero delle entità statali, ma, di fatto, ad esse equiparabili4.
In relazione all’elemento oggettivo presente nella disposizione costituzionale, è sufficiente che l’esercizio effettivo delle libertà democratiche sia impedito di
fatto, non rilevando un’eventuale loro formulazione legislativa. La limitazione deve
avere un carattere generale, non potendo riguardare solo talune libertà, né il grado di
esercizio che, seppure attenuato, non rientra nella fattispecie dell’impedimento del
godimento. Inoltre, è necessario che l’impossibilità di esercitare le libertà democratiche sia la causa principale della richiesta di asilo, a tal fine non rilevando altre eventuali motivazioni che non trovano una “copertura” costituzionale. Pertanto, le condizioni che devono essere soddisfatte dallo straniero affinché possa essere ammesso a godere del diritto d’asilo nell’ordinamento italiano si sostanziano nell’impedimento effettivo di esercitare le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, laddove il riferimento alle libertà fondamentali proclamate dal testo costituzionale italiano ha fatto sì che in dottrina si tendesse ad escludere dal beneficio dell’asilo quanti abbiano agito per finalità contrarie alla Costituzione del Paese d’origine5. Un orientamento dottrinale destinato ad essere superato in quanto ciò che rileva ai fini della concessione del diritto d’asilo non è lo scopo per il quale il soggetto ha agito, bensì il fatto che lo Stato estero riconosca o meno un effettivo esercizio
delle libertà democratiche. In questo modo, non sarà concesso il diritto d’asilo allo
straniero che ha agito contro una Costituzione democratica se, ed in quanto, la stessa sia in concreto applicata. Inoltre, l’impedimento all’esercizio effettivo delle libertà
democratiche deve rappresentare il motivo per il quale viene richiesto l’asilo in Italia, escludendo un uso strumentale della norma qualora lo scopo perseguito dal richiedente sia solo quello di sottrarsi alla giustizia del proprio Paese invocando il diritto d’asilo, sia pure ammettendo il rischio di abusi che dovrebbero trovare una limitazione nelle regole stabilite dalle disposizioni legislative in materia senza, tuttavia, tradire le intenzioni del Costituente che, invece, ha respinto l’adozione di formulazioni maggiormente restrittive del diritto stesso6. Sotto il profilo dell’applicazione territoriale, la disposizione costituzionale sembrerebbe escludere il diritto di
asilo extraterritoriale, il quale trova fondamento nel diritto internazionale, se (e nella misura in cui) è garantito dalle leggi adottate in conformità delle norme e dei trattati internazionali ex art. 10, comma 2, della Costituzione.
Ben più complesso è considerare se la norma di cui all’art. 10, comma 3, Cost.,
abbia un valore meramente programmatico o se sia immediatamente precettiva. Al
5 In questi termini, cfr. C. ESPOSITO, Asilo (diritto di). d)
diritto costituzionale, in Enciclopedia del diritto, III,
Milano, 1958, p. 223.
italiano e sul riconoscimento del diritto di asilo, si veda
F. VASSALLO PALEOLOGO, Immigrati e rifugiati
nell’ordinamento italiano, in C. ZANGHI (cur.), Immigrati
e rifugiati nel Mediterraneo, Torino, 2003, p. 43 ss.
6 Sulla condizione giuridica dei rifugiati nell’ordinamento
115
RomanaDOTTRINA
temi
riguardo, il revirement giurisprudenziale e dottrinale in favore della tesi dell’immediata precettività ha avuto il merito di non vincolare la portata della norma costituzionale alla volontà del legislatore ordinario, sebbene si dimostri determinante stabilire fino a che punto possa estendersi la competenza del legislatore ordinario in tema di asilo. Di certo, non può giungere fino alla negazione del diritto affermato in
Costituzione, né limitarne la portata rendendo la condizione giuridica del richiedente asilo meno favorevole di quella riconosciuta agli stranieri che non hanno i requisiti per beneficiare dell’asilo7. Né si può condividere la tesi della mera programmaticità, giacché equivarrebbe a condizionare l’effettività di una disposizione costituzionale alla volontà del legislatore ordinario di darvi, o meno, attuazione.
Detto ciò che non compete alla legge ordinaria, si può riconoscere l’attribuzione al legislatore ordinario della disciplina relativa alle condizioni di ammissione
e soggiorno nel territorio italiano. Spetta, infatti, alla legge stabilire le procedure per
7 E’ paradossale pensare che la sola decisione con la
quale la Corte costituzionale si è interamente dedicata
al diritto di asilo ha riguardato il riconoscimento a chi
gode di tale diritto della libertà di manifestazione del
pensiero a mezzo stampa ai sensi dell’art. 21, comma 1,
della Costituzione. Nella nota quanto oramai risalente
sentenza n. 11/1968, la Corte, chiamata a sindacare la
legittimità costituzionale di una disposizione legislativa
che stabiliva il criterio di reciprocità ai fini dell’esercizio
della professione giornalistica per i non cittadini, ha
riconosciuto soltanto ai beneficiari del diritto di asilo (e
non agli stranieri tout court) il diritto di esercitare la
professione giornalistica senza che a ciò ostasse la
condizione di reciprocità richiesta a livello legislativo;
per un commento si veda G. ZAGREBELSKY, Questioni di
legittimità costituzionale della l. 3 febbraio 1963 n. 69,
istitutiva dell’ordine dei giornalisti, in Giurisprudenza
costituzionale, 1968, p. 350. Come risulta dalle
argomentazioni svolte dalla Corte, l’esercizio di una
professione non può essere legittimamente
condizionato se la ragione per la quale il richiedente
asilo ha lasciato il Paese di origine risiede proprio nella
negazione della libertà di manifestazione del pensiero a
mezzo stampa, condizione questa che integrerebbe
l’impedimento di quell’effettivo esercizio delle libertà
democratiche costituzionalmente garantito
dall’ordinamento italiano a norma dell’art. 10, comma
3, della Carta costituzionale. Per tornare al paradosso di
cui si diceva, nonostante la Corte abbia con tale
pronuncia spianato la strada verso la definizione della
posizione giuridica riconosciuta a chi ottiene il diritto di
asilo in Italia, non sono seguite altre pronunce che
potessero fare luce su quali altri diritti i beneficiari
dell’asilo potrebbero esercitare, al di là della
professione giornalistica. Tuttavia, merito della Corte è
stato quello di precisare nella medesima sentenza la
necessità di attribuire ai beneficiari del diritto di asilo
«tutti quei fondamentali diritti democratici che non
siano strettamente inerenti allo status civitatis». In tal
modo, viene confermato il favor accordato a chi ottiene
asilo rispetto alla più ampia categoria degli stranieri
che, se da un lato, può giustificarsi in virtù del peculiare
riconoscimento del diritto di asilo operato dalla
Costituzione, dall’altro potrebbe portare ad operare –
almeno teoricamente – una serie di distinguo
inaccettabili. Invero, non pare che nel nostro
116
ordinamento si sia corso un tale rischio, piuttosto lo
stesso è stato, al contrario, evitato operando un
livellamento verso il basso, vale a dire che sia lo status
di cui godrebbero gli stranieri che quello riconosciuto (o
sarebbe più opportuno dire “disconosciuto”) a quanti
abbiano diritto di asilo in Italia, sia stato, di fatto,
equiparato. E ciò, ancora una volta, a discapito dello
straniero che vanti nei confronti del nostro
ordinamento un diritto costituzionalmente garantito,
quale è il diritto di asilo. Peraltro, se il riferimento è
fatto con riguardo ai diritti inviolabili dell’uomo, allora
dovrà ritenersi superato anche il parametro dello status
civitatis, dal momento che, secondo un orientamento
consolidato dei giudici costituzionali, è oramai pacifico
che lo stesso principio di eguaglianza, sia pure
espressamente riferito solo ai cittadini, dispieghi il suo
valore anche nei confronti degli stranieri quando serva
a colpire disposizioni discriminatorie che incidono sui
diritti fondamentali della persona. Sulla questione si
vedano, fra tutte, le sentenze della Corte costituzionale
n. 120/1967, n. 144/1970, n. 177/1974, n. 54/1979, n.
199/1986, n. 219/1995, n. 198/2000, n. 252/2001, nonché,
in maniera ancora più estensiva, n. 432/2005. A livello
dottrinale, cfr., in senso favorevole e fra i molti, A.S.
AGRÒ, Art. 3, 1° comma, in G. BRANCA (cur.),
Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975,
p. 127 ss.; A. CERRI, Uguaglianza (principio
costituzionale di), in Enciclopedia giuridica, Roma, 1994,
XXXII, p. 7 ss.; U. ALLEGRETTI, Costituzione e diritti
cosmopolitici, in G. GOZZI (cur.), Democrazia, diritti,
Costituzione, Bologna, 1997, p. 148 ss.; G.U. RESCIGNO,
Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana, in
Annuario 1998. Principio di eguaglianza e principio di
legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici,
Padova, 1999, p. 93 ss.; A. CELOTTO, Art. 3, 1° co., in A.
CELOTTO, M. OLIVETTI, R. BIFULCO (cur.), Commentario
alla Costituzione, Torino, 2006, I, p. 69 ss.; mentre di
contrario avviso sono, tra gli altri, C. ESPOSITO,
Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in
C. ESPOSITO, La Costituzione italiana, Padova, 1954, p.
24; G. ZAGREBELSKY, Questioni di legittimità
costituzionale della l. 3 febbraio 1963 n. 69, istitutiva
dell’ordine dei giornalisti, cit., p. 350-351, nonché A.
PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte
generale, Padova, 2003, p. 316-317.
la richiesta di esame della domanda, i documenti rilasciati dallo Stato nel corso (e a
conclusione) della procedura per il riconoscimento dell’asilo, gli organi competenti
a decidere sull’istanza, quelli a cui è affidato il controllo, nonché la competenza a
pronunciarsi sui ricorsi, oltre alle ipotesi di limitazione al diritto d’ingresso e soggiorno per motivi di sicurezza nazionale, di ordine pubblico o qualora lo straniero,
condannato per un reato grave contro la pace o l’umanità, rappresenti una minaccia
per lo Stato di asilo. Al contrario, non potrà essere impedito l’ingresso né il soggiorno
dello straniero che si trovi nelle condizioni per richiedere l’asilo, in considerazione
del fatto che lo status dell’asilante configurerebbe un diritto soggettivo perfetto, con
il conseguente obbligo, per lo Stato di asilo, di non negare l’effettività di tale diritto
mediante provvedimenti di respingimento alla frontiera o di allontanamento dal territorio nazionale. Tuttavia, nei casi in cui il respingimento, l’espulsione o l’estradizione siano necessari per salvaguardare la sicurezza interna e personale, occorrerà
operare un bilanciamento tra la potestà punitiva statale e la tutela dello straniero, poiché l’allontanamento non potrà essere, comunque, disposto verso quei Paesi nei quali sussiste un pericolo per la sicurezza dello straniero. Proprio al fine di garantire una
tutela per l’asilante, il sistema italiano prevede che l’ammissione nel territorio nazionale sia immediata, mentre la fase degli accertamenti sia rinviata ad un momento successivo, in occasione dell’esame della domanda di asilo.
Per di più, siffatte limitazioni mal si conciliano con il diritto d’ingresso che deriverebbe dalla normativa costituzionale8. L’asilo politico costituzionalmente previsto affonda le sue origini storiche nella volontà del costituente di fornire una risposta, appunto, politica alla comunità internazionale. Si può in parte attribuire al fatto
che l’asilo politico sia caduto ormai in desuetudine, l’assenza di una normativa di attuazione del disposto costituzionale. Più attuale si dimostra, invero, una diversa for8 Sulla configurabilità delle norme introdotte in materia
d’asilo dalla l. 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta “legge
Bossi-Fini” – pubblicata in G.U. n. 199 del 26 agosto
2002, S.O. n. 173/L – come misure volte ad ostacolare i
flussi dell’immigrazione clandestina più che a garantire
il riconoscimento di un diritto costituzionalmente
sancito, si veda A. MANTOVANO, Asilo ai rifugiati, non
agli immigrati irregolari, in Amministrazione civile,
2004, p. 23. Sull’argomento, non si può non richiamare
la relazione introduttiva all’articolato presentato al
Consiglio dei ministri il 14 febbraio 2001, nella parte in
cui si legge: «In attesa di una disciplina organica in
materia di diritto di asilo, che si ritiene comunque di
rinviare a quando saranno definite le procedure minime
[…] attualmente in discussione a Bruxelles […], il
Governo ha ritenuto almeno di risolvere il problema
costituito dalle domande di asilo realmente strumentali,
ossia presentate al solo scopo di sfuggire all’esecuzione
di un provvedimento di allontanamento ormai
imminente». Sorprende constatare come l’inerzia del
legislatore nell’approvare una legge organica sull’asilo
sembri addebitabile, ai sensi della relazione
sovramenzionata, alle more del processo di
approvazione della normativa comunitaria in materia,
con ciò confermando una tendenza al ribasso durante il
processo di definizione della legislazione sull’asilo che,
anziché anticipare il legislatore comunitario,
riservandosi ogni ulteriore intervento correttivo solo in
caso la normativa nazionale accordasse una tutela
inferiore a quella stabilita dalle norme comunitarie, ha
atteso la conclusione del processo di armonizzazione
per poi riprodurre nell’ordinamento interno gli
standards minimi decisi a livello europeo. Tuttavia,
l’efficacia delle misure introdotte con la legge Bossi-Fini
allo scopo di contrastare la prassi dell’asilo strumentale
non sembra trovare conferma nei dati relativi all’anno
2005 sull’esito delle domande presentate dai richiedenti
asilo, in base ai quali è risultato che oltre il 46% dei
richiedenti ha visto accordarsi una qualche forma di
protezione nonostante la drastica diminuzione delle
domande presentate, soltanto 9.346, rispetto al 2004
quando le domande furono ben 14.189, ma a conferma
di un trend discendente che va dalle 19.704 domande
del 2002 alle 15.179 del 2003; secondo i dati elaborati
dall’ICS (Consorzio italiano di solidarietà) e per i quali si
veda M.S. OLIVIERI (cur.), L’utopia dell’asilo. Il diritto di
asilo in Italia nel 2005, Torino, 2006, p. 15, nonché, più
diffusamente, p. 35 ss., che individua, tra le cause alle
quali sia imputabile il decremento delle richieste, le
difficoltà connesse all’individuazione della questura
competente e alla gestione da parte della stessa della
procedura.
117
RomanaDOTTRINA
temi
ma di asilo, quello umanitario, che caratterizza il fenomeno delle migrazioni di massa. Alla luce dell’evoluzione che ha subito l’asilo territoriale potrebbe, in parte, spiegarsi la scelta del legislatore di considerare attuativi dell’art. 10, comma 3, Cost., i
provvedimenti adottati in materia di rifugiati.
2. Le norme sul diritto d’ingresso e il procedimento
per l’esame della domanda di asilo.
Le norme sull’ingresso dello straniero sono regolate dal testo unico in materia
di immigrazione, adottato con il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 2869 e, fino alle modifiche
introdotte dal d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 2510, dall’art. 1 della l. 28 febbraio 1990, n.
3911, (cosiddetta “legge Martelli”) recante norme urgenti in materia di asilo politico,
di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato, che convertiva
con modificazioni il d.l. 30 dicembre 1989, n. 416. La normativa procedimentale è
stata modificata dal d.lgs. n. 25/2008 che ha abrogato gli articoli 1, commi 412, 513 e
614, 1-bis15, 1-ter16, 1-quater17 e 1-quinquies18 del d.l. n. 416/1989. Per quanto riguarda
la normativa internazionale, le due norme rilevanti sono contenute nell’art. 3 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (anche CEDU), ratificata e resa esecutiva in Italia con
la legge 4 agosto 1955, n. 848 – così come interpretato nella giurisprudenza della Corte omonima – e nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra19.
9 G.U. n. 191 del 18 agosto 1998, S.O. n. 139.
10 G.U. n. 40 del 16 febbraio 2008.
11 G.U. n. 49 del 28 febbraio 1990.
12 L’art. 1, comma 4, come cause ostative all’ingresso nel
territorio italiano del richiedente lo status di rifugiato,
prevedeva il precedente riconoscimento dello status da
parte di un altro Stato, ovvero il soggiorno dello straniero
in uno Stato, diverso da quello di appartenenza, che avesse
aderito alla Convenzione di Ginevra.
13 Secondo quanto previsto dall’abrogato art. 1, comma 5, e
fatto salvo il disposto di cui al comma 3, ai fini del
riconoscimento dello status di rifugiato, lo straniero «deve
rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile,
documentata all’ufficio di polizia di frontiera». Il questore
territorialmente competente, quando non ricorrevano le
ipotesi previste negli articoli 1-bis e 1-ter, rilasciava, su
richiesta, un permesso di soggiorno temporaneo valido fino
alla definizione della procedura di riconoscimento.
14 Il comma 6 del medesimo articolo ammetteva il ricorso
giurisdizionale contro la decisione di respingimento
eventualmente adottata.
15 L’art. 1-bis, comma 1, prevedeva, come principio generale,
che il richiedente asilo non potesse essere trattenuto al solo
fine di esaminare la domanda di asilo, sebbene fosse lo
stesso articolo, alle lettere a), b) e c), ad introdurre delle
eccezioni in base alle quali il trattenimento del richiedente
poteva essere disposto. Inoltre, il secondo comma dell’art. 1-
118
bis, diversamente da quanto previsto dal comma 1 del
medesimo articolo con riguardo ai casi di trattenimento
discrezionale, configurava due ipotesi tipizzate di
trattenimento obbligatorio del richiedente asilo: qualora il
richiedente fosse stato «fermato per avere eluso o tentato
di eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o,
comunque, in condizioni di soggiorno irregolare», ovvero se
fosse «già destinatario di un provvedimento di espulsione o
respingimento», al riguardo rilevando solo che i
provvedimenti di espulsione o respingimento fossero
anteriori alla presentazione della domanda di asilo.
16 L’art. 1-ter disciplinava la procedura semplificata per l’esame
delle domande presentate dai richiedenti asilo nei confronti
dei quali fosse stato disposto il trattenimento obbligatorio
nei centri di permanenza temporanea.
17 Con l’art. 1-quater era disposta l’istituzione delle
Commissioni territoriali, dettandone altresì le disposizioni
riguardanti la composizione, le competenze ed il
funzionamento.
18 Ai sensi dell’art. 1-quinquies si provvedeva alla
trasformazione della Commissione centrale per il
riconoscimento dello status di rifugiato in Commissione
nazionale per il diritto di asilo, fissandone il ruolo di
indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali,
nonché gli ulteriori poteri ed attribuzioni in materia di
revoca e cessazione degli status.
19 La CEDU, nel riconoscere espressamente molti dei diritti
sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, anche al fine di definire meccanismi
Nell’ordine, l’art. 1, comma terzo, del T.U. fa salve le disposizioni internazionali «più favorevoli comunque vigenti nel territorio dello Stato». Ciò significa
che, almeno per quanto riguarda le disposizioni del T.U., non si pone un problema
di compatibilità tra normativa interna e normativa internazionale: dove la prima
sia meno favorevole, essa deve essere integrata dalla seconda. La clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1, tuttavia, non esime dal procedere a un confronto
tra diritto internazionale e diritto interno: innanzitutto, poiché non tutte le norme
sull’ingresso sono contenute nel T.U.; inoltre, anche ove ciò accada – come per l’espulsione – occorre comunque integrare il T.U. con le disposizioni più favorevoli
previste dal diritto internazionale. Il primo comma dell’art. 19 del T.U. recita: «In
nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo
straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o
sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non
sia protetto dalla persecuzione». Il tenore della disposizione induce a ritenere che
si tratti di un divieto assoluto. Se così fosse, la normativa interna in materia d’ingresso accorderebbe una tutela addirittura maggiore di quella prevista in sede internazionale. L’art. 3 della Convenzione di Roma sancisce, infatti, un divieto di refoulement degli individui per i quali è possibile prevedere che si realizzi una grave violazione dei diritti dell’uomo. Pertanto, se da una parte i divieti coinciderebbero, dall’altra la categoria di persone che si gioverebbero della tutela indiretta sarebbe più ampia di quella prevista dall’art. 3, dal momento che, secondo un rapporto di genere a specie, il rischio di persecuzione assicura una tutela più ampia
rispetto a quella offerta da una norma che richiede la violazione dei diritti dell’uomo.
internazionali che ne monitorassero l’applicazione, non
contiene alcuna disposizione specifica relativa al diritto
di asilo. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo, che si è andata formando negli
anni successivi, ha provveduto ad elaborare dei principi
per la tutela dei diritti dei rifugiati. Sebbene l’art. 1
della Convenzione fissi un limite territoriale per
l’applicabilità della stessa, in base al quale «Le Alte Parti
Contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla
loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo
I della presente Convenzione», l’art. 3 sancisce un
divieto assoluto che non ammette alcuna limitazione, né
deroga, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione – neppure
in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la
sicurezza nazionale – laddove afferma che «Nessuno
può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti
inumani o degradanti». Se, da una parte, né la
Convenzione né i suoi successivi Protocolli consacrano e
garantiscono il diritto di asilo, è senz’altro assicurato, in
base a quanto disposto dall’art. 3, il diritto di essere
protetti dal refoulement ai sensi dell’art. 33 della
Convenzione di Ginevra che fa divieto agli Stati di
rinviare lo straniero verso uno Stato in cui sussista una
minaccia alla vita o alla libertà per motivi di razza,
religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato
gruppo sociale o a causa delle opinioni politiche. Dal
confronto delle due disposizioni normative emergono
alcune significative differenze: ai fini dell’art. 3 è,
infatti, sufficiente stabilire se il pericolo sia o meno
reale, restando del tutto irrilevante sia l’indagine circa
l’estensione di tale pericolo ad altri soggetti, sia i motivi
di detto pericolo, non essendo richiesto, ai fini della
protezione garantita dalla CEDU, l’esistenza di un
timore di persecuzione individuale, presente invece
nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Più ampia si
dimostra anche la protezione dall’espulsione, in quanto
l’art. 3 non solo vieta il refoulement dello straniero
verso il Paese di origine, ove sussista il pericolo di essere
sottoposto a pene e trattamenti inumani, ma anche
verso qualsiasi altro Paese dal quale questi possa essere
successivamente respinto verso quello di origine.
Un’ulteriore differenza riguarda i soggetti destinatari
delle due norme: se, infatti, l’art. 33 trova applicazione
nei confronti dei soli rifugiati, come definiti dalla
Convenzione di Ginevra, l’art. 3 della CEDU prevede una
tutela verso ogni soggetto che, indipendentemente
dalle circostanze, possa correre il rischio di subire
torture, pene o trattamenti inumani o degradanti.
Inoltre, nessuna limitazione di natura soggettiva è
prevista dall’art. 3 della CEDU che, viceversa, garantisce
protezione, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte
europea di Strasburgo, anche agli individui condannati
per reati comuni.
119
RomanaDOTTRINA
temi
Ancora più efficace sarebbe la tutela accordata dall’art. 19 rispetto a quella prevista dall’art. 33, comma 1, della Convenzione di Ginevra: l’art. 19, infatti, non menziona le eccezioni al divieto previste dal secondo comma dell’art. 33 che, invece,
ammette il refoulement del richiedente lo status di rifugiato qualora «vi siano gravi motivi per ritenerlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova» oppure «essendo stato oggetto di una condanna passata in giudicato per un crimine o
un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato». In altre parole, lo straniero non potrebbe essere in nessun caso respinto
verso uno Stato in cui possa subire persecuzioni.
Inoltre, l’art. 10 del T.U. fa salve le norme in materia d’ingresso previste «dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi
umanitari». In sostanza, non si applicano a queste categorie di individui tutte quelle norme che prevedono una serie di vincoli all’ingresso dello straniero, quali il visto d’ingresso o la disponibilità di mezzi di sussistenza, non essendo assimilabile
lo status di rifugiato o di richiedente asilo a quello degli altri stranieri20.
Si dirà ora, brevemente, delle principali norme stabilite dal regolamento di
cui al d.p.r. 16 settembre 2004, n. 30321, che ha equiparato i casi di trattenimento,
eliminando il distinguo tra ipotesi che danno luogo a trattenimento discrezionale
(art. 1-bis, comma 1) e quelle che comportano il trattenimento obbligatorio (art. 1bis, comma 2). Occorre, tuttavia, precisare che tali norme trovano attuazione nelle more dell’adozione del regolamento di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 25/2008 ed in
quanto compatibili con siffatto decreto.
Innanzitutto, a norma dell’art. 2 del d.p.r. n. 303/2004, recante norme in tema di «istruttoria della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato», è previsto il trattenimento in via obbligatoria a seguito della presentazione dell’istanza
di riconoscimento dell’asilo. Quanto previsto dall’art. 1-bis, comma 1, presupponeva l’eventuale trattenimento durante la fase anteriore all’esame nel merito della domanda, mentre in conseguenza della modifica il trattenimento sarebbe disposto per l’intera durata del procedimento. Inoltre, a rendere ancora più controversa
la norma di assimilazione delle due fattispecie, si dimostra l’assenza di qualsiasi
forma di controllo del provvedimento di trattenimento, laddove, rispetto al precedente caso di trattenimento discrezionale, verrebbe meno anche l’obbligo di motivazione e l’indicazione della durata della misura, in precedenza limitata al «tempo strettamente necessario» al rilascio del permesso di soggiorno. Per molti versi,
le disposizioni previste in materia di trattenimento dei richiedenti asilo nei centri
3. Alcune osservazioni sul d.p.r. 16 settembre 2004, n. 303.
20 Per una ricostruzione delle principali tappe che hanno
caratterizzato la definizione della normativa in materia
di asilo, si veda C. ORLANDI, Evoluzione della disciplina
dell’asilo in Italia, in La rivista delle politiche sociali,
120
2004, p. 157 ss.
21 Il d.p.r. n. 303/2004 è stato pubblicato sulla G.U. n. 299
del 22 dicembre 2004.
a ciò adibiti non risultano conformi alla normativa comunitaria prevista dalla direttiva 2003/9/CE22, recepita nell’ordinamento italiano con d.lgs. 30 maggio 2005,
n. 14023, che all’art. 7, comma 1, afferma, quale principio generale, quello della libera circolazione nel territorio dello Stato membro o nell’area assegnata non pregiudicando, in alcun caso, «la sfera inalienabile della vita privata», e consentendo
«un campo d’azione sufficiente a garantire l’accesso a tutti i benefici della presente
direttiva». Le limitazioni a tale principio possono essere introdotte dal legislatore
nazionale solo per casi tassativamente disciplinati. La normativa comunitaria ammette la possibilità di limitare la libertà di circolazione del richiedente asilo solo
«ove risultasse necessario» e purché la decisione di «confinare il richiedente asilo in un determinato luogo», secondo quanto richiesto dal secondo comma dell’art.
7, sia afferente alla fase precedente l’avvio della procedura per la concessione dell’asilo. Di contro, la vigente normativa italiana appare, per quanto fin qui detto,
non conforme ai principi e alle garanzie previste dalla normativa comunitaria, specie considerando che il trattenimento nei centri è, di prassi, generalizzato ed in contrasto con quell’esigenza di non arrecare alcun pregiudizio alla sfera privata dello
straniero.
Un ulteriore profilo problematico è rappresentato dagli organi competenti ad
esaminare la domanda di asilo. A norma dell’art. 12 del d.p.r. n. 303/2004, spetta
alle Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato – ora
denominate, Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale24 – procedere alla trattazione delle richieste di asilo, modificando la previgente disciplina che attribuiva la competenza esclusiva ad una Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato, ora Commissione nazionale per
il diritto di asilo, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 25/2008. La modifica introdotta
dalla legge Bossi-Fini si spiega in ragione dell’esigenza di rendere più celeri i tempi di esame delle richieste di asilo25, pur garantendo la presenza anche nelle Commissioni territoriali – analogamente a quanto avveniva per la Commissione centrale – di un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR).
22 Pubblicata in G.U.U.E. n. L 31 del 6 febbraio 2003.
23 Pubblicato in G.U. n. 168 del 21 luglio 2005.
24 I membri delle Commissioni territoriali, nominate con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su
proposta del Ministro dell’interno, sono presiedute da
un funzionario della carriera prefettizia e composte da
un funzionario della Polizia di Stato, da un
rappresentante dell’ente territoriale designato dalla
Conferenza Stato-Città ed Autonomie locali e da un
rappresentante dell’ACNUR. A fronte di un positivo
radicamento nella realtà territoriale dove è istituita la
Commissione, desta qualche perplessità la presenza di
un funzionario della Polizia di Stato che prenda parte
alla delibera sul riconoscimento dello status di rifugiato
e, più in generale, preoccupa il grado di limitata
indipendenza di cui godono tali organismi. La norma
che prevedeva le Commissioni era l’art. 1-quater del d.l.
n. 416/1989, mentre oggi la disposizione cui si deve fare
riferimento è l’art. 4 del d.lgs. n. 25/2008.
25 Va tenuto presente un dato piuttosto allarmante
relativo alle procedure che hanno un esito negativo in
conseguenza della irreperibilità del richiedente asilo,
determinata in buona parte dai tempi intercorrenti tra
la presentazione della domanda e l’audizione presso la
Commissione territoriale competente, mediamente di
circa un anno e mezzo. Sulle ipotesi di “diniego per
irreperibilità”, si veda C. TOMESANI, Gli esiti delle
richieste d’asilo a Venezia e in Italia. Numeri, inferenze
e ipotesi per una lettura delle decisioni della
Commissione, in Gli stranieri, 2005, p. 301.
121
RomanaDOTTRINA
temi
4. Le fonti di diritto comunitario derivato che regolano
la materia dell’asilo.
Prima di entrare nel merito delle novità introdotte dalle tre direttive comunitarie adottate in materia d’asilo, s’intende fornire un quadro della normativa approvata sulla base delle disposizioni di cui al Titolo IV del Trattato di Amsterdam recante
norme in materia di «Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone» e che attualmente regola la disciplina del diritto d’asilo.
In primis, ai sensi dell’art. 63, comma 1, lett. a), del Trattato sono stati emanati quattro regolamenti comunitari: il regolamento 2725/200026, il primo dei quattro in ordine di tempo, con il quale è stato istituito il sistema Eurodac per il raffronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo, nonché il relativo regolamento di applicazione 407/200227; il regolamento 343/200328, cosiddetto regolamento Dublino
II, del 18 febbraio 2003, con il quale sono stati fissati i criteri e i meccanismi per la
determinazione dello Stato responsabile dell’esame della domanda d’asilo e il regolamento 1560/200329 recante norme di attuazione del regolamento Dublino II. In ossequio a quanto disposto dalla lett. b) dell’art. 63, comma 1, è stata emanata, la già
richiamata direttiva 2003/930 per l’accoglienza dei richiedenti asilo (anche nota come Direttiva Condizioni di ricevimento), cui ha fatto seguito, ex art. 63, comma 1,
lett. c), la direttiva 2004/8331 (o Direttiva Qualificazioni) relativa alle norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di
persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul
contenuto della protezione riconosciuta. Sul tema delle procedure, il cui fondamento giuridico è rintracciabile nella lett. d) dell’art. 63, comma 1, è intervenuta la direttiva 2005/8532 (cosiddetta Direttiva Procedure) recante norme minime per le pro26 Il regolamento 2725/2000, dell’11 dicembre 2000, è
pubblicato in G.U.C.E. n. L 316 del 15 dicembre 2000.
27 Il regolamento 407/2002 è stato emanato il 28 febbraio
2002 e pubblicato in G.U.C.E. n. L 62 del 5 marzo 2002.
Oltre a fissare norme tecniche per la trasmissione per
via elettronica dei dati digitalizzati, l’art. 2, comma 3,
precisa che il numero di riferimento deve garantire
«l’attribuzione univoca dei dati a una persona e allo
Stato membro che trasmette i dati», consentendo altresì
di stabilire se tali dati riguardano un richiedente asilo o
uno straniero fermato all’atto dell’attraversamento
irregolare via terra, mare o aria della frontiera di uno
Stato membro, ovvero se trattasi di uno straniero
illegalmente presente nel territorio di uno Stato
membro che abbia in precedenza presentato una
domanda d’asilo in un altro Stato membro.
28 G.U.U.E. n. L 50 del 25 febbraio 2003.
29 Adottato il 2 settembre 2003, il regolamento 1560/2003
è pubblicato in G.U.U.E. n. L 222 del 5 settembre 2003.
30 La disposizione di cui all’art. 63, comma 1, lett. b),
rappresenta il fondamento giuridico della decisione del
122
Consiglio 2000/596, del 28 settembre 2000, con la quale
è stato istituito il Fondo europeo per i rifugiati per il
periodo 2001-2004, in G.U.C.E. n. L 252 del 6 ottobre
2000. Inoltre, per il quinquennio 2005-2010 è stata
adottata la decisione 2004/904 del 2 dicembre 2004,
pubblicata in G.U.U.E. n. L 381 del 28 dicembre 2004.
31 Per il testo della direttiva 2004/83, del 29 aprile 2004, si
veda in G.U.U.E. n. L 304 del 30 settembre 2004. L’Italia
ne ha disposto l’attuazione a norma della delega
contenuta nell’art. 1, comma 1, della legge 25 gennaio
2006, n. 29.
32 L’approvazione della direttiva, pubblicata in G.U.U.E. n.
L 326 del 13 dicembre 2005, è stata caratterizzata da un
iter piuttosto lungo, conclusosi il 1° dicembre 2005. Per
un ampio commento sui complessi negoziati che hanno
portato all’approvazione del testo definitivo della
direttiva, si rinvia a D. ACKERS, The Negotiations on the
Asylum Procedures, in European Journal of Migration
and Law, 2005, p. 1 ss. Per quanto riguarda
l’ordinamento italiano, l’attuazione della direttiva è
stata prevista ai sensi della delega di cui all’art. 1,
comma 1, della legge 6 febbraio 2007, n. 13.
cedure applicate ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Con
riferimento alle altre forme di protezione, va dato atto dell’adozione, sulla base del
combinato disposto delle disposizioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 63, comma 2,
della direttiva 2001/5533 sulle misure di protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri
che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi. Inoltre, a norma dell’art. 66, nonché degli artt. 179, comma 1, e 181 A, sono stati rispettivamente adottati i seguenti atti: la decisione 2002/46334 che istituisce un programma d’azione finalizzato alla cooperazione amministrativa nei settori delle frontiere
esterne, dei visti, dell’asilo e dell’immigrazione (Programma ARGO), e il regolamento
491/200435 che istituisce un programma di assistenza finanziaria e tecnica ai Paesi
terzi in materia di migrazione e asilo (AENEAS).
In ultimo, sia pure a livello marginale, va menzionata la direttiva 2003/8636 sul
diritto al ricongiungimento familiare che rileva, ex art. 63, comma 3, lett. a), limitatamente ai casi in cui sia stato riconosciuto, ad un membro della famiglia, lo status
di rifugiato. A disciplinare le norme sul ricongiungimento familiare dei rifugiati provvede il Capo V che tuttavia dispone, all’art. 9, comma 2, una limitazione nell’applicazione della normativa della direttiva ai soli rifugiati i cui vincoli familiari siano anteriori al loro ingresso nel territorio dello Stato membro. Quando la richiesta non è
presentata entro tre mesi dalla concessione dello status di rifugiato, tornano ad essere applicabili le condizioni più rigorose stabilite dall’art. 7, comma 137, mentre sarà
inoperante per i rifugiati la disposizione di cui all’art. 8 che riconosce agli Stati mem33 L’approvazione della direttiva 2001/55 reca la data del
20 luglio 2001 ed è stata pubblicata in G.U.C.E. n. L 212
del 7 agosto 2001. Nell’ottica di un potenziamento della
rete informativa sui dati riguardanti l’immigrazione, si
veda anche la decisione del Consiglio 2005/267, del 16
marzo 2005, relativa alla creazione sul web di una rete
di informazione e coordinamento sicura per i servizi di
gestione dell’immigrazione degli Stati membri; in
G.U.U.E. n. L 83 del 1° aprile 2005.
34 La decisione 2002/463, del 13 giugno 2002, in G.U.C.E. n.
L 161 del 19 giugno 2002, ha consentito l’istituzione del
cosiddetto programma ARGO, resasi necessaria a
seguito della conclusione del programma Odysseus,
adottato sulla base dell’art. K 3 del TUE e dell’azione
comune 98/244/GAI del 19 marzo 1998, pubblicata in
G.U.C.E. n. L 99 del 31 marzo 1998, con la quale è stato
istituito un programma di formazione, di scambi e di
cooperazione nei settori delle politiche dell’asilo e
dell’attraversamento delle frontiere. La decisione
2002/463 è stata successivamente modificata dalla
decisione 2004/867, del 13 dicembre 2004, in G.U.U.E. n.
L 371 del 18 dicembre 2004.
35 Il regolamento 491/2004, del 10 marzo 2004, è
pubblicato in G.U.U.E. n. L 80 del 18 marzo 2004.
36 La direttiva 2003/86, emanata il 22 settembre 2003 e
pubblicata in G.U.U.E. n. L 251 del 3 ottobre 2003,
prevede all’art. 3, comma 1, l’applicazione delle norme
sancite nella direttiva stessa «quando il soggiornante è
titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno
Stato membro per un periodo di validità pari o
superiore a un anno, e ha una fondata prospettiva di
ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile, se i
membri della sua famiglia sono cittadini di Paesi terzi,
indipendentemente dal loro status giuridico». Di
conseguenza, ex art. 3, comma 2, non si applica quando
il soggiornante, pur avendo chiesto il riconoscimento
dello status di rifugiato, non abbia ancora ottenuto una
decisione definitiva sulla domanda, ovvero nei confronti
di chi abbia il permesso a soggiornare in uno Stato
membro in ragione di una protezione temporanea o di
forme sussidiarie di protezione, oltre ai casi in cui si
tratti, come previsto dal comma 3, di familiari di
cittadini dell’Unione.
37 Si tratta di oneri piuttosto gravosi che incombono sulla
persona che ha richiesto la riunificazione alla quale lo
Stato membro può domandare di dimostrare che il
familiare soggiornante disponga di un alloggio
considerato normale per una famiglia analoga nella
stessa regione e che abbia i requisiti minimi richiesti
dalle norme generali di sicurezza e di salubrità al
momento in vigore (lett. a), che abbia un’assicurazione
contro le malattie che copra tutti i rischi per sé e per i
propri familiari di quella di cui godono i cittadini dello
Stato membro (lett. b), che disponga di risorse stabili e
sufficienti per garantire il mantenimento del proprio
nucleo familiare senza dover ricorrere al sistema di
assistenza sociale (lett. c)
123
RomanaDOTTRINA
temi
bri la facoltà di richiedere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai familiari, abbia soggiornato legalmente nello Stato per un periodo non superiore a due
anni. La tematica del diritto al ricongiungimento familiare assume un particolare rilievo quando si affronta il tema dei rifugiati, essenzialmente perché mira a realizzare quell’obbligo di protezione e di rispetto della vita familiare sancito sia a livello
internazionale che comunitario (in particolare, dall’art. 8 della CEDU, nonché dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea38), ma in parte si scontra con la
resistenza degli Stati membri ad accettare che l’ingresso di uno straniero nel proprio
territorio possa comportare anche l’arrivo dei suoi – molto spesso numerosi – familiari dato l’effetto moltiplicativo degli oneri di assistenza che lo Stato ospitante deve sostenere39.
4.1 Il d.lgs. n. 140/2005 di attuazione della direttiva 2003/9/CE
sulle norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo.
La Commissione europea, dopo il vertice di Laeken, tenutosi nell’aprile 2001,
elaborò una proposta di direttiva sulle norme minime di accoglienza. La direttiva,
discussa ed emendata dal Consiglio europeo GAI (Giustizia ed Affari Interni) nell’incontro tenutosi in Lussemburgo nell’aprile 2002, e definitivamente adottata il 27
gennaio 2003 dal Consiglio dei ministri dell’Unione europea, è stata recepita nell’ordinamento italiano con il già richiamato d.lgs. n. 140/2005.
La direttiva in questione – che prende a modello l’Immigration Asylum Act,
adottato dal Regno Unito ed entrato in vigore nell’aprile del 2000, con riguardo alle misure da introdurre per stabilire limitazioni alla libertà di movimento dei richiedenti asilo – in base all’art. 63, comma 1, punto 1, lett. b), e alle conclusioni (punti
13 e 14) cui si è giunti nel Consiglio di Tampere per l’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, mira ad introdurre norme di armonizzazione delle
condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo per arginare il fenomeno dei movimenti
migratori secondari degli asilanti dovuti alle differenti disposizioni sull’accoglienza
vigenti negli Stati membri. Nel prevedere uno standard minimo comune, l’art. 4 del38 L’art. 8, dopo l’affermazione del diritto al rispetto della
vita privata e familiare e del connesso divieto di
ingerenza da parte dell’autorità pubblica, ammette
delle limitazioni quando, a norma del comma 2, «tale
ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una
misura che, in una società democratica, è necessaria alla
sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere
economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla
prevenzione dei reati, alla protezione della salute o
della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà
altrui». Anche l’art. II-67 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione sancisce il rispetto della vita
privata e familiare analogamente a quanto espresso
dalla norma della CEDU.
39 Agli Stati membri è, inoltre, rimessa la decisione circa la
riunificazione familiare di parenti in linea diretta
ascendente, dei figli maggiorenni ma non ancora
124
coniugati, dei partners non coniugati o la cui relazione
si registrata, ovvero, per i matrimoni poligami, dei figli
minorenni avuti da un altro coniuge. E’ comunque
possibile introdurre delle misure restrittive con riguardo
alle richieste di ricongiungimento avanzate da membri
appartenenti ad una famiglia poligama. Se, come si
legge al punto 4 del considerando, il ricongiungimento
familiare costituisce un valido strumento per la
creazione di una stabilità socioculturale in grado di
favorire un’integrazione dei cittadini di Paesi terzi
all’interno dell’Unione europea, è altrettanto
indispensabile che gli Stati membri si assicurino che la
persona che ottenga la riunificazione familiare non
costituisca un pericolo per l’ordine pubblico o per la
sicurezza nazionale dello Stato richiesto, in
ottemperanza alle condizioni stabilite dall’art. 6 della
direttiva.
la direttiva afferma che «gli Stati membri possono stabilire o mantenere in vigore
disposizioni più favorevoli sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e di
parenti stretti dei richiedenti asilo presenti nello stesso Stato membro»40. A beneficiare della normativa comunitaria, sono i cittadini di Paesi terzi e gli apolidi che presentino domanda di asilo alla frontiera o nel territorio di uno Stato membro, a condizione che siano autorizzati a soggiornare nel territorio nazionale in qualità di richiedenti asilo, dato che la direttiva in esame non trova applicazione qualora sia richiesta un’altra forma di protezione internazionale, come nel caso della direttiva
2001/55/CE del Consiglio del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati41.
Il Capo II della direttiva, «Disposizioni generali sulle condizioni di accoglienza»,
fissa alcune norme minime con riguardo all’obbligo di informazione dei richiedenti asilo42 (art. 5), al rilascio di documenti necessari a certificarne lo status di asilante (art. 6), alle limitazioni alla libertà di circolazione e all’individuazione del luogo
di residenza43 (art. 7), al rispetto dell’unità del nucleo familiare (art. 8), ad eventuali esami medici da disporre per ragioni di sanità pubblica (art. 9), alle condizioni di
accesso al sistema educativo44 (art. 10), al mercato del lavoro45 (art. 11) e alla for40 Sul riconoscimento del diritto d’asilo anche ai familiari
dell’asilante, l’art. 4 stabilisce, quali condizioni, che i
parenti siano dipendenti dal richiedente asilo oppure vi
abbia diritto per motivi umanitari e purché tali
disposizioni siano compatibili con la direttiva stessa.
41 A norma dell’art. 3, comma 4, della direttiva 2003/9, è
consentito agli Stati membri di applicare la stessa
direttiva anche per i procedimenti di esame di domande
relative a forme di protezione diverse da quella concessa
ai sensi della Convenzione di Ginevra per i cittadini di
Paesi terzi o apolidi cui sia stato negato lo status di
rifugiato. Pertanto, sulla base di tale clausola residuale, è
autorizzata l’applicazione della direttiva a condizione che
lo Stato decida in questo senso e purché manchi una
normativa comunitaria o nazionale concernente la
regolamentazione delle procedure per la concessione di
differenti forme di protezione internazionale.
42 Agli Stati membri è fatto obbligo di informare i
richiedenti asilo, entro un termine ragionevole non
superiore a quindici giorni dalla presentazione della
domanda d’asilo e in una lingua che sia comprensibile
per l’asilante, sui benefici riconosciuti, sugli obblighi
relativi alle condizioni di accoglienza, nonché sulle
organizzazioni che forniscono assistenza legale e
assistenza sanitaria.
43 Dopo l’affermazione generale di cui all’art. 7, comma 1,
che riconosce il diritto di circolazione dei richiedenti asilo
nel territorio dello Stato membro, è altresì attribuita allo
Stato la facoltà di assegnare una specifica area ai
richiedenti asilo – senza, tuttavia, pregiudicare la sfera
inalienabile della vita privata – o la possibilità di stabilire
un luogo di residenza per motivi di pubblico interesse,
ordine pubblico o per agevolare l’esame della domanda.
44 Ai figli minori di richiedenti asilo e ai richiedenti asilo
minori è consentito l’accesso al sistema educativo a
condizioni simili a quelle dei cittadini dello Stato membro
ospitante, fino a quando non sia data esecuzione al
provvedimento di espulsione nei confronti dell’asilante
minorenne o dei suoi genitori. Se, in linea di principio, è
stabilito che l’accesso non può essere differito di oltre tre
mesi dalla data di presentazione della richiesta di asilo,
sono comunque fatti salvi i casi in cui il termine debba
essere esteso ad un anno affinché sia impartita
un’istruzione specifica volta a facilitare l’accesso al
sistema educativo (art. 10, comma 2) o qualora si renda
necessario offrire altre modalità d’insegnamento (art. 10,
comma 3).
45 Spetta agli Stati membri fissare un periodo durante il
quale è negato all’asilante l’accesso al mercato del
lavoro. Tuttavia, una volta decorso il termine di un anno
dalla presentazione della richiesta d’asilo e qualora il
ritardo non sia dipeso dall’asilante, compete agli Stati
membri decidere le condizioni per l’accesso (art. 11,
comma 2). Rispetto al diritto al lavoro, tale direttiva
prevede pertanto un diritto che potremmo dire
“affievolito” in quanto, una volta decorso il lungo
periodo di attesa di un anno, gli Stati membri non sono
comunque obbligati a riconoscere il diritto al lavoro.
Inoltre, ai sensi dell’art. 11, comma 3, l’accesso al mercato
del lavoro non può essere revocato nelle more del
procedimento di ricorso, dato l’effetto sospensivo dello
stesso, fino a quando non intervenga la notifica della
decisione negativa sul ricorso. Sull’estensione del diritto
al lavoro anche ai beneficiari di altre forme di
protezione, si rinvia ai contributi di C. SCACCO, Status di
rifugiato, richiedente asilo e accesso al mercato del
lavoro, in Lavoro e previdenza oggi, 2004, p. 1879 ss., e
di M. SIDERI, I richiedenti asilo e l’accesso al mercato del
lavoro in Italia tra legislazione internazionale, progetti di
riforma e prassi quotidiana, in Diritto delle relazioni
industriali, 2005, p. 863 ss.
125
RomanaDOTTRINA
temi
mazione professionale46 (art. 12), nonché introduce disposizioni generali47 (art. 13)
e modalità relative alle condizioni materiali di accoglienza48 (art. 14) e all’assistenza sanitaria49 (art. 15).
In ossequio al disposto della direttiva comunitaria, l’art. 3 del d.lgs. n. 140/205
prevede che la questura alla quale sia stata presentata la domanda di asilo fornisca
all’interessato, entro i successivi quindici giorni, ogni informazione in ordine alle condizioni di accoglienza degli asilanti. A tal fine, l’art. 4 opera una distinzione a seconda se sia disposto, o meno, il trattenimento dello straniero, giacché la questura
competente sarà tenuta a rilasciare, entro tre giorni dalla presentazione della domanda
un attestato nominativo con il quale è certificata la qualità di richiedente asilo specificando, in caso di trattenimento, il centro di identificazione ovvero di permanenza temporanea; mentre entro venti giorni dall’istanza dovrà essere rilasciato il permesso di soggiorno per richiesta di asilo allo straniero non trattenuto50. Il diritto al46 L’autorizzazione all’accesso dei richiedenti asilo alla
formazione professionale può essere rilasciata
indipendentemente dal fatto che all’asilante sia
consentito l’accesso al mercato del lavoro.
47 All’art. 13 sono enunciati i principi che devono regolare
le condizioni materiali d’accoglienza dei richiedenti
asilo, ai quali deve essere assicurata, in base al comma 2
dello stesso articolo, una qualità di vita adeguata per la
salute ed il sostentamento, anche tenuto conto delle
particolari esigenze di cui necessitano gli asilanti. I
richiedenti asilo possono essere chiamati a sostenere o a
contribuire a sostenere i costi delle condizioni materiali
di accoglienza e dell’assistenza sanitaria (fornite in
natura o sotto forma di sussidi economici o di buoni)
nelle ipotesi in cui dispongano di sufficienti risorse o
abbiano avuto un’occupazione per un ragionevole
periodo. A ben vedere le condizioni materiali di
accoglienza vengono ridotte alla minima sussistenza del
richiedente asilo, circa l’obbligo degli Stati membri di
fornire vitto, alloggio e vestiario, mentre viene
soppresso il contributo per un alloggio indipendente
consentendo allo Stato di determinare modalità di
alloggio diverse, il che lascia spazio ad un ampio
margine di abuso statale.
48 L’art. 14 stabilisce, al comma 1, le modalità con le quali
è fornito in natura l’alloggio per i richiedenti asilo
prevedendo, a tal fine, l’utilizzo di appositi locali, centri
di accoglienza, case private, appartamenti, alberghi o
altre strutture idonee a garantire, ex comma 2, la tutela
della vita familiare e la possibilità di comunicare con i
parenti, i consulenti giuridici ed i rappresentanti
dell’ACNUR o di organizzazioni non governative
riconosciute, essendo a questi ultimi consentito l’accesso
ai centri o alle strutture alloggiative per fini di
assistenza dei richiedenti asilo. E’, tuttavia, previsto che
in via eccezionale gli Stati membri possono determinare
differenti modalità riguardanti le condizioni materiali di
accoglienza purché si tratti di un periodo di breve
durata e qualora sia necessario procedere ad una prima
valutazione delle esigenze specifiche del richiedente
asilo, se le condizioni di accoglienza non siano
disponibili in una determinata area geografica, ovvero
nei casi in cui le capacità di alloggio siano
126
temporaneamente esaurite o il richiedente asilo sia
trattenuto o confinato in posti di frontiera.
49 In merito all’assistenza sanitaria, l’art. 15 stabilisce
l’obbligo per gli Stati membri di garantire almeno le
prestazioni di pronto soccorso e il trattamento
essenziale delle malattie (comma 1) fornendo
l’assistenza medica ai richiedenti asilo che presentino
particolari esigenze (comma 2).
50 Sorgono non poche difficoltà nel tentare di ricondurre a
sistema la condizione giuridica nella quale viene a
trovarsi lo straniero ammesso provvisoriamente a
permanere nel territorio nazionale durante l’esame
della domanda di asilo, come risulta dall’attestato
nominativo rilasciato ai fini della certificazione della
qualità di richiedente protezione internazionale.
Tuttavia, la natura di tale attestato e la condizione alla
stregua della quale debba considerarsi il richiedente
asilo non sembrano affatto chiare. Ci si chiede, in altri
termini, se tra la condizione di soggiorno regolare e
quella di irregolarità sia configurabile un tertium genus,
con ciò intendendo quella particolare situazione nella
quale verrebbe a trovarsi il richiedente asilo la cui
presenza può dirsi senz’altro regolare ma non fino al
punto di consentire il rilascio di un “regolare” permesso
di soggiorno. Sembrerebbe, piuttosto, che lo Stato
tenda a “tollerare” la presenza (e non il soggiorno)
dello straniero permettendogli di considerare il
territorio nazionale come un’area entro la quale è
ammesso per il tempo strettamente necessario a
concludere l’esame della richiesta, riservandosi, sulla
base dell’esito della stessa, di decidere se autorizzarne il
soggiorno previo rilascio del relativo permesso ovvero se
procedere al suo allontanamento dal territorio fino a
quel momento considerato un mero luogo di transito.
Forse, la diffidenza statale verso il rilascio di un regolare
permesso di soggiorno trova una spiegazione
nell’intenzione di sottrarre lo straniero dal godimento
dei diritti riconosciuti a chi soggiorna regolarmente nel
territorio italiano. Il rischio è quello di assimilare il
richiedente asilo alla condizione dell’immigrato
irregolare, finendo per negare l’applicazione all’asilante
di una normativa ad hoc, soprattutto in termini di diritti
relativi all’assistenza sanitaria, laddove ai richiedenti
l’accoglienza è attualmente garantito ai beneficiari di protezione internazionale
dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), anche attraverso forme di collaborazione tra lo Stato e gli enti locali.
Invero, il d.lgs. n. 25/2008 ha innovato prevedendo, ai sensi dell’art. 20, comma 2, il trattenimento nei centri di accoglienza dei richiedenti asilo (CARA) in
tutte quelle ipotesi in cui era previsto il trattenimento facoltativo nei centri di identificazione, vale a dire quando è necessario verificare o determinare la nazionalità o l’identità del richiedente in quanto sprovvisto dei relativi documenti, ovvero
qualora abbia presentato documenti falsi o contraffatti; quando la domanda è stata presentata solo dopo che lo straniero è stato fermato per avere eluso o tentato
di eludere il controllo alla frontiera ovvero risulti in condizioni di soggiorno irregolare; nonché nelle ipotesi in cui sia già destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento. Limitatamente al trattenimento per fini di identificazione,
il richiedente sarà tenuto a permanere nel centro per non più di venti giorni, mentre negli altri casi il periodo di trattenimento non può essere superiore al tempo
strettamente necessario all’esame della domanda e, comunque, non oltre trentacinque giorni. In tali casi è rilasciato al richiedente un permesso di soggiorno temporaneo con validità di tre mesi, rinnovabile fino alla decisione della domanda.
Diversamente, il trattenimento nei centri di permanenza temporanea (CPT)
è disposto a norma dell’art. 1, paragrafo F, della Convenzione di Ginevra, in caso di condanna in Italia per uno dei delitti indicati dall’articolo 380, commi 1 e 2,
del codice di procedura penale, ovvero per reati inerenti agli stupefacenti, alla libertà sessuale, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e
dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, o quando lo straniero sia
destinatario di un provvedimento di espulsione. Rispetto alla normativa precedente,
l’allontanamento ingiustificato dal centro non comporta l’automatica rinuncia alla domanda di protezione, bensì determina la cessazione delle condizioni di accoglienza51. Le innumerevoli problematiche che interessano il sistema di accoglienza
non possono essere in questa sede opportunamente indagate, sebbene un giudizio
sull’adeguatezza delle norme in materia dipenda proprio dalla capacità di funzionamento delle misure di accoglienza. La direttiva comunitaria precisa, al riguarasilo non dovrebbe essere riconosciuto solo l’accesso ai
trattamenti sanitari urgenti o comunque essenziali,
spettanti a tutti gli stranieri presenti nel territorio
nazionale – anche se irregolarmente –, bensì dovrebbe
essere consentita l’iscrizione – sia pure provvisoria – al
servizio sanitario nazionale. Sull’effettività, nella prassi,
del diritto di accesso alle procedure per i richiedenti
asilo, si veda FIDH – Federazione internazionale dei
diritti dell’uomo, Il diritto di asilo in Italia: accesso alle
procedure e trattamento dei richiedenti asilo, in I Diritti
dell’uomo: cronache e battaglie, 2005, p. 5.
51 Tale modifica ha introdotto un importante correttivo
rispetto al sistema previgente in cui l’allontanamento
dello straniero dal centro presso il quale era trattenuto,
senza la necessaria autorizzazione, produceva
automaticamente la rinuncia alla richiesta di asilo. Il
meccanismo del comportamento concludente che in
questo caso finiva per trovare applicazione, risultava
non poco problematico, specie considerando come la
rinuncia al riconoscimento di un diritto soggettivo,
quale è quello di asilo, non possa conseguire se non da
una volontà espressa ed univoca.
127
RomanaDOTTRINA
temi
do, che gli Stati membri possono disporre la riduzione o la revoca delle condizioni
di accoglienza, nonché rifiutare le stesse a seguito dell’impossibilità per il richiedente
asilo di dimostrare che la domanda sia stata presentata non appena ciò fosse stato possibile, sebbene l’art. 16 stabilisca che le decisioni di ridurre, revocare, rifiutare le condizioni di accoglienza, o d’irrogare sanzioni per gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza o per comportamenti gravemente violenti devono essere necessariamente motivate ed adottate, a norma del comma 4, «in modo individuale, obiettivo ed imparziale», sulla base del principio di proporzionalità. Il successivo Capo IV della direttiva ha ad oggetto «Disposizioni a favore di
persone portatrici di esigenze particolari», stabilendo, quale principio generale,
l’obbligo per gli Stati membri di tenere conto, nel dare attuazione alle disposizioni
di cui al Capo II, della particolare situazione nella quale si trovino i soggetti vulnerabili, «quali i minori52, i minori non accompagnati53, i disabili, gli anziani, le
donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale».
Quanto ai mezzi di ricorso contro le decisioni negative riguardanti la concessione del beneficio o quelle con le quali sono introdotte limitazioni alla libertà di circolazione dei richiedenti asilo, l’art. 21 lascia agli Stati membri il compito di determinare le modalità da seguire per le impugnazioni, prevedendo, tuttavia, che almeno in ultimo grado sia consentito di ricorrere, o di chiedere la revisione della decisione negativa impugnata, davanti a un organo giudiziario. Lo spirito di cooperazione cui è ispirato il Capo VI, concernente «Azioni volte a migliorare
l’efficienza del sistema di accoglienza», è sancito dall’art. 22 della direttiva sulla base del quale gli Stati membri sono chiamati a comunicare periodicamente alla Commissione i dati relativi al numero di asilanti ai quali sono applicate le condizioni di accoglienza54, nonché le informazioni sulle tipologie di documenti rilasciati ai richiedenti asilo.
52 L’art. 18 individua nel «prevalente interesse del minore»
un criterio fondamentale che deve guidare gli Stati
membri nel dare attuazione, a livello nazionale, alle
disposizioni previste dalla direttiva con riguardo ai
minori, garantendo agli stessi l’accesso ai servizi di
riabilitazione qualora abbiano subito forme di abuso,
negligenza, sfruttamento, tortura, trattamento crudele,
disumano o degradante o nei casi di provenienza da
zone colpite da conflitti armati.
53 Per i minori non accompagnati che abbiano presentato
istanza d’asilo, l’art. 19 prevede che gli Stati membri
adottino misure in grado di assicurarne un’adeguata
forma di rappresentanza (comma 1) e soluzioni di
128
alloggio che tengano conto della peculiare situazione
dell’asilante (comma 2). Spetta, inoltre, agli Stati
membri cercare di rintracciare i familiari del minore
facendo in modo che, laddove sussistano rischi per la
vita o l’integrità del minore o dei propri familiari, i dati
e le informazioni riguardanti tali persone siano trattati
in maniera da non costituire un rischio per la loro
sicurezza personale.
54 Il successivo art. 23 prevede quanto segue: «Gli Stati
membri, nel debito rispetto della loro struttura
costituzionale, assicurano adeguate misure di
orientamento, sorveglianza e controllo del livello
qualitativo delle condizioni di accoglienza».
4.2 Il d.lgs. n. 251/2007 che ha recepito la direttiva 2004/83/CE
recante norme minime sull’attribuzione della qualifica di rifugiato o di
persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale.
La direttiva 2004/83 del Consiglio, approvata il 29 aprile 2004, introduce norme per garantire ai cittadini di Stati terzi e agli apolidi un livello minimo di diritti
connessi al riconoscimento dello status di rifugiato o richiedente asilo. Lo scopo della direttiva è quello di assicurare, ai cittadini di Stati terzi e agli apolidi, la possibilità di beneficiare della protezione internazionale qualora sussistano fondati timori
del richiedente di essere perseguitato, nel Paese di origine, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica. Se lo Stato al quale è stata presentata la domanda, non riscontra la fondatezza
del timore di persecuzione e ritiene impossibile rinviare il richiedente in un’altra parte del Paese di origine in cui non esiste il rischio di persecuzione (ex art. 8), deve
concedere la protezione internazionale.
L’Italia ha recepito la direttiva con il d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, entrato in vigore il 19 gennaio 200855, con il quale è stata introdotta la possibilità di riconoscere lo status di persona ammissibile alla protezione sussidiaria in mancanza
dei requisiti per il riconoscimento della qualifica di rifugiato, qualora vi siano – a
norma dell’art. 2, comma 1, lett. g) – «fondati motivi di ritenere che, se ritornasse
nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un
grave danno […] e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi
della protezione di detto Paese». Ai sensi dell’art. 14 del decreto, sono ritenuti danni gravi ai fini della concessione della protezione sussidiaria: la condanna a morte
o all’esecuzione della pena di morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento
inumano o degradante; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Una significativa novità è data dal riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare anche a favore dello straniero ammesso alla protezione sussidiaria56, in analogia con quanto disposto per i rifugiati, sebbene sui beneficiari di
protezione sussidiaria gravi l’ulteriore onere di provare il possesso dei requisiti stabiliti dall’art. 29 del d.lgs. n. 286/199857. Ad ogni modo, il permesso di soggiorno
per motivi umanitari continuerà ad essere rilasciato quando, pur non sussistendo mo55 G.U. n. 3 del 4 gennaio 2008.
56 L’estensione del diritto al ricongiungimento familiare è
prevista dall’art. 22 del d.lgs. n. 251/2007, ai sensi del
quale la circolare del Ministero dell’interno, del 5 marzo
2008, ha precisato che gli Sportelli Unici per
l’immigrazione potranno rilasciare il nulla osta al
ricongiungimento anche ai possessori di permesso di
soggiorno per motivi umanitari, fino a quando il titolo
di soggiorno non sarà convertito in protezione
sussidiaria.
57 Si fa riferimento a quanto disposto dal comma 3
dell’art. 29 per lo straniero che richieda il
ricongiungimento familiare il quale, salvo si tratti di
rifugiato, «deve dimostrare la disponibilità: a) di un
alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla
legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale
pubblica, ovvero, nel caso di un figlio di età inferiore
agli anni 14 al seguito di uno dei genitori, del consenso
del titolare dell’alloggio nel quale il minore
effettivamente dimorerà; b) di un reddito annuo
derivante da fonti lecite non inferiore all’importo
annuo dell’assegno sociale se si chiede il
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RomanaDOTTRINA
temi
tivi di persecuzione né un pericolo di danno grave, si ritenga non opportuno procedere all’espulsione dello straniero58. L’art. 7 del d.lgs. n. 251/2007, ai sensi dell’art.
9 della direttiva, riconosce quali atti di persecuzione ai fini del riconoscimento della qualifica di rifugiato, le violazioni gravi dei diritti umani fondamentali, gli atti di
violenza fisica o psichica, i provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e
giudiziari che siano discriminatori, azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie incluse le azioni promosse a seguito del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto che possa comportare la commissione di crimini di guerra o contro l’umanità, nonché atti specificatamente diretti contro un sesso o contro
l’infanzia.
La direttiva consente, comunque, agli Stati di negare il riconoscimento di entrambi gli status a coloro che siano responsabili di un crimine di guerra o contro l’umanità o contro la pace, di un reato grave di diritto comune o di atti contrari ai principi delle Nazioni Unite, salva la possibilità di procedere all’impugnazione della decisione con la quale si escluda il richiedente dalla protezione internazionale (artt. 12
e 17). Sia la protezione sussidiaria che lo status di rifugiato possono essere revocati, rispettivamente, in ragione delle mutate condizioni nel Paese di origine o qualora il rifugiato abbia acquisito una nuova cittadinanza, o sia stato rimpatriato volontariamente nel Paese di origine. Spetta, in ogni caso, allo Stato membro provare che
il rifugiato non soddisfi più i requisiti necessari per beneficiare della protezione internazionale59. In ogni caso, la cessazione dello status riconosciuto può essere disposta al termine di un procedimento che valuti individualmente la situazione dello
straniero con riferimento alle ipotesi contemplate dalla Convenzione di Ginevra60.
ricongiungimento di un solo familiare, al doppio
dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il
ricongiungimento di due o tre familiari, al triplo
dell’importo annuo dell’assegno sociale se si chiede il
ricongiungimento di quattro o più familiari. Ai fini della
determinazione del reddito si tiene conto anche del
reddito annuo complessivo dei familiari conviventi con il
richiedente».
58 Secondo l’art. 34, che detta le disposizioni transitorie e
finali, allo straniero con permesso di soggiorno
umanitario rilasciato a norma dell’articolo 5, comma 6,
del d.lgs. n. 286/1998, e successive modificazioni, sono
riconosciuti gli stessi diritti previsti a favore dei
beneficiari dello status di protezione sussidiaria e,
all’atto del rinnovo, è rilasciato il permesso di soggiorno
per protezione sussidiaria. Il permesso di soggiorno
umanitario può essere rilasciato dal questore di propria
iniziativa o su proposta dei servizi sociali degli enti
locali o delle associazioni, enti ed altri organismi iscritti
al registro di cui all’art. 52, comma 1, lett. c), del
regolamento d’attuazione, convenzionati con l’ente
locale, ovvero del Procuratore della Repubblica qualora
sia stato avviato un procedimento penale relativamente
a fatti di violenza o di grave sfruttamento. In questi
casi, è necessario il previo accertamento delle situazioni
di violenza o di grave sfruttamento nei confronti dello
straniero o l’esistenza di un concreto pericolo per la sua
incolumità.
130
59 Dalla concessione della protezione internazionale, la
direttiva riconosce, dall’art. 21 all’art. 34, al rifugiato e
al beneficiario di protezione sussidiaria, il diritto di non
respingimento, il diritto di ricevere comunicazioni nella
propria lingua, il diritto al mantenimento del nucleo
familiare, il diritto ad un permesso di soggiorno valido,
per i beneficiari dello status di rifugiati, per un periodo
di almeno tre anni – eventualmente rinnovabile –
mentre, per i beneficiari della protezione sussidiaria, la
validità è per un periodo non inferiore ad un anno,
anch’esso rinnovabile, il diritto ad un documento di
viaggio sostitutivo del passaporto nazionale, il diritto di
esercitare un’attività dipendente o autonoma, la
possibilità di seguire corsi di formazione professionali,
nonché il diritto di accesso all’istruzione,
all’aggiornamento e al perfezionamento, all’assistenza
sociale, all’assistenza sanitaria, il diritto alla libera
circolazione nel territorio dello Stato membro,
garantendo l’integrazione all’interno della società
oppure agevolando il rimpatrio volontario.
60 L’art. 10 prevede quanto segue: «Lo straniero è escluso
dallo status di rifugiato se rientra nel campo
d’applicazione dell’articolo 1 D della Convenzione di
Ginevra, relativo alla protezione o assistenza di un
organo o di un’agenzia delle Nazioni Unite diversi
dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati. Quando tale protezione o assistenza cessa per
Nonostante la differenza dei soggetti che possono beneficiare dei due diversi
tipi di protezione, la direttiva precisa, all’art. 20 e seguenti, come la posizione riconosciuta a quanti siano ammessi alla protezione sussidiaria non risulti sostanzialmente
dissimile da quella accordata ai rifugiati, finendo per estendere la tutela offerta dagli ordinamenti interni degli Stati membri61. Infine, il rilascio dei permessi di soggiorno, la cui durata è di cinque anni per i rifugiati e di tre anni per i beneficiari della protezione sussidiaria, entrambi rinnovabili, permette agli stranieri di avere accesso
al mercato del lavoro, all’istruzione e all’assistenza socio-sanitaria.
4.3 Il d.lgs. n. 25/2008 di adeguamento alla direttiva 2005/85/CE
recante norme minime per le procedure applicate ai fini
del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
La direttiva comunitaria, cui è stata data attuazione nel nostro ordinamento con
il d.lgs. n. 25/2008 entrato in vigore il 2 marzo 2008, si occupa di uno dei profili più rilevanti in materia di asilo in un’ottica di armonizzazione delle procedure previste dai
singoli Stati membri ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e della concessione dell’asilo. Come stabilito nei considerando iniziali, per l’esattezza al punto 11, il
criterio al quale la normativa si ispira è quello della celerità dell’esame in merito alle
domande di asilo, sia nell’interesse degli Stati membri che in quello del richiedente, lasciando tuttavia discrezionalità agli Stati sulle scelte riguardanti l’organizzazione delle procedure e la possibilità di prevedere procedure semplificate. Le principali norme
introdotte dalla direttiva consentono allo Stato di esigere che la domanda sia personalmente introdotta dal richiedente asilo per poi affermare, all’art. 6, comma 2, il diritto di
accesso alla procedura per il riconoscimento dello status che può, dunque, essere regolato ma non negato. Dopo aver richiamato l’obbligo per lo Stato di assicurare che le
autorità competenti siano in grado di fornire indicazioni circa le modalità e le sedi dinanzi alle quali presentare la domanda, l’art. 7 stabilisce in via generale il diritto dei riqualsiasi motivo, senza che la posizione di tali stranieri
sia stata definitivamente stabilita in conformità delle
pertinenti risoluzioni adottate dall’assemblea generale
delle Nazioni Unite, essi hanno pieno accesso alle forme
di protezione previste dal presente decreto. 2. Lo
straniero è altresì escluso dallo status di rifugiato ove
sussistono fondati motivi per ritenere: a) che abbia
commesso un crimine contro la pace, un crimine di
guerra o un crimine contro l’umanità, quali definiti
dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini; b)
che abbia commesso al di fuori del territorio italiano,
prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità
di rifugiato, un reato grave ovvero che abbia commesso
atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un
dichiarato obiettivo politico, che possano essere
classificati quali reati gravi. La gravità del reato è
valutata anche tenendo conto della pena prevista dalla
legge italiana per il reato non inferiore nel minimo a
quattro anni o nel massimo a dieci anni; c) che si sia
reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi
delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli
articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite. 3. Il
comma 2 si applica anche alle persone che istigano o
altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati
o atti in esso previsti».
61 In particolare, si noti come nel caso dell’ordinamento
italiano, una tale normativa consenta di sopperire anche
alla limitata operatività del diritto di asilo di cui all’art.
10, comma 3, Cost., in un sistema che, paradossalmente,
«per dare una più ampia attuazione […] ad un precetto
contenuto tra i “Principi fondamentali” della
Costituzione italiana, ci si è dovuti affidare al legislatore
europeo, il cui intento precipuo, oltretutto, è stato
quello di fornire “norme minime” di protezione,
avendo cura di precisare che “gli Stati membri hanno
facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni
più favorevoli», purché, resta inteso, siano compatibili
con le disposizioni stabilite in ambito comunitario; così,
P. PASSAGLIA, Il diritto di asilo tra riconoscimento
costituzionale, (in)attuazione legislativa e prospettive
comunitarie, in Il rispetto delle regole. Scritti degli
allievi in onore di Alessandro Pizzorusso, Torino, 2005,
p. 72-73.
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RomanaDOTTRINA
temi
chiedenti ad ottenere l’autorizzazione a permanere nello Stato membro fino all’adozione della decisione che conclude il procedimento di primo grado, salvo casi eccezionali
consentano di derogarvi62. Nel disporre che sia garantito un congruo esame63 delle domande di asilo, l’art. 8 stabilisce che le decisioni sul merito siano adottate in modo «individuale, obiettivo ed imparziale», specie con riguardo alle fonti di reperimento delle
informazioni concernenti la situazione esistente nel Paese di origine, allo scopo di arginare una diffusa prassi che ha visto il respingimento “in massa” delle domande di asilo e che ha portato all’esecuzione di espulsioni collettive di stranieri dal nostro Paese.
Ciò riveste una particolare importanza in considerazione della disposizione di cui all’art. 9, comma 2, sull’obbligo di motivazione de jure e de facto della decisione, in modo da consentire l’individuazione dei motivi d’impugnazione del provvedimento64.
In linea con quanto detto, il d.lgs. n. 25/200865 afferma il diritto all’esame della
domanda66, superando la procedura semplificata prevista dalla legge n. 39/1990 e sancendo l’obbligo per le competenti Commissioni territoriali67 di dichiarare l’inammissibilità quando ricorrano i casi di cui all’art. 29 del decreto68, a tal fine venendo meno il
requisito della tempestività della domanda69. E’, invece, sancito all’art. 28, un esame
prioritario se la domanda risulti palesemente fondata o sia presentata da una persona ri62 Ai sensi dell’art. 7, comma 2, gli Stati membri possono
non autorizzare la permanenza dello straniero quando
si tratti della presentazione di una domanda reiterata ai
sensi dell’art. 32 della stessa direttiva – con la
conseguenza per lo Stato di accertare in via preliminare
se siano emersi o siano stati addotti nuovi elementi o
risultanze rilevanti ai fini dell’esame della qualifica di
rifugiato – ovvero qualora s’intenda consegnare o
estradare lo straniero in uno altro Stato membro, o in
un Paese terzo ovvero presso una Corte o un Tribunale
penale internazionale in base agli obblighi derivanti
dall’emissione di un mandato d’arresto europeo, di cui
alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13
giugno 2002, pubblicata in G.U.C.E. n. L 190 del 18
luglio 2002.
63 In merito alle prove richieste allo straniero, da sempre
uno dei punti più delicati e decisivi del procedimento di
riconoscimento, il d.lgs. n. 251/2007 ha stabilito
all’ultimo comma dell’art. 3 che qualora alcuni aspetti
non siano suffragati da prove, l’autorità preposta possa
ritenerli veritieri se riconosce che l’asilante «ha
compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la
domanda» o se ha comunque fornito «tutti gli elementi
pertinenti in suo possesso» ovvero abbia addotto
«idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri
elementi significativi»; o ancora quando tali
dichiarazioni non siano contraddittorie e risultino
plausibili, al riguardo rilevando anche la tempestività
con la quale la domanda è stata presentata, e se dai
riscontri effettuati emerga una generale attendibilità
del richiedente.
64 Sarà ritenuta infondata la domanda di asilo qualora
l’autorità competente abbia eluso l’attribuzione della
qualifica di rifugiato al richiedente, ex art. 28 della
direttiva. In senso critico, cfr. P. BALBO, Rifugiati e asilo.
Il diritto reale soffocato: excursus tra direttive europee
e leggi nazionali, Matelica, 2007, p. 65.
132
65 Per un primo commento al decreto, cfr. E. CODINI, La
commissione territoriale competente deve pronunciarsi
sull’inammissibilità, in Il Sole-24Ore – Guida al Diritto,
2008, n. 10, p. 36 ss., che fa opportunamente notare la
mancanza di una volontà politica da parte del
legislatore italiano di colmare quegli spazi lasciati dalla
direttiva comunitaria in modo da definire una
normativa sul diritto di asilo più conforme al dettato
costituzionale.
66 Un’eccezione all’obbligo di esaminare l’istanza di
protezione ricorre quando sia competente un altro
Stato membro in attuazione dei criteri di
determinazione dello Stato competente di cui al
regolamento (CE) n. 343/2003. In tali ipotesi, la
Commissione territoriale sospenderà l’esame della
domanda e, una volta individuato lo Stato membro
competente, dichiarerà l’estinzione del procedimento.
L’autorità a ciò preposta è l’Unità Dublino, istituita
presso il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del Ministero dell’interno.
67 Attualmente sono presenti sul territorio nazionale sette
Commissioni, ma il decreto prevede l’istituzione fino ad
un numero massimo di dieci.
68 La domanda sarà dichiarata inammissibile quando il
richiedente sia stato già riconosciuto rifugiato da uno
Stato firmatario della Convenzione di Ginevra e possa
avvalersi di tale protezione ovvero se il richiedente ha
presentato un’identica domanda senza addurre nuovi
elementi in ordine alle sue condizioni personali o alla
situazione esistente nel Paese di origine.
69 Come stabilito dall’art. 8 del decreto, le domande non
possono essere respinte «per il solo fatto di non essere
state presentate tempestivamente».
tenuta vulnerabile ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 140/2005, ovvero quando sia stata disposta l’accoglienza o il trattenimento del richiedente in un centro70, salvo tale limitazione sia preordinata all’accertamento dell’identità dello straniero. Fino alla conclusione del procedimento dinanzi alla Commissione territoriale71, il richiedente ha diritto di
soggiornare in Italia, prevedendo il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo della validità di tre mesi rinnovabile nelle more della decisione sull’istanza.
L’istruttoria del procedimento di protezione internazionale ha inizio con la presentazione della domanda alla questura del luogo di dimora o all’ufficio di polizia di
frontiera cui fa seguito l’invio della richiesta alla questura territorialmente competente.
All’atto della consegna è redatto dall’ufficio ricevente il verbale delle dichiarazioni rilasciate dallo straniero72. La decisione è adottata dalla Commissione territoriale entro
tre giorni dall’audizione del richiedente, da tenersi entro trenta giorni dal ricevimento
della domanda, salvo sussistano sufficienti motivi per l’accoglimento dell’istanza, in tal
caso il colloquio potrà essere omesso. Al richiedente è consentito produrre memorie e
ogni altra documentazione in ciascuna fase del procedimento, potendo esercitare il diritto di accesso agli atti in applicazione della normativa di cui alla legge n. 241/1990.
Competente ad elaborare i dati sulla situazione esistente nel Paese di origine e negli eventuali Paesi di transito dei richiedenti asilo, è la Commissione nazionale73 sulla base delle informazioni trasmesse dall’ACNUR e dal Ministero degli affari esteri.
In caso di respingimento della domanda, la Commissione territoriale dovrà motivare in punto di fatto e di diritto, altresì indicando i possibili mezzi di impugnazione. Dal tenore letterale della norma si desume che l’obbligo di motivazione sussiste
70 Compete al questore adottare il provvedimento di
trattenimento ex art. 14 del d.lgs. n. 286/1998,
chiedendo Tribunale in composizione monocratica – se il
trattenimento è già in atto – una proroga per ulteriori
trenta giorni al fine di consentire l’espletamento del
procedimento. Il questore provvede alla trasmissione
della documentazione alla Commissione territoriale che,
entro sette giorni dal ricevimento della stessa, dispone
l’audizione del richiedente. La Commissione è tenuta ad
adottare la decisione entro i successivi due giorni.
Tuttavia, contro il provvedimento di trattenimento
disposto dal questore non è previsto alcun mezzo di
tutela giurisdizionale ad hoc, determinando una
restrizione della libertà personale nel corso (e per tutta
la durata) del procedimento di valutazione nel merito
della domanda di asilo, in evidente contrasto con il
principio generale sancito dall’art. 20, comma 1, del
d.lgs. n. 25/2008 secondo il quale «il richiedente non
può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua
domanda» (con ciò riproducendo quanto stabiliva il
comma 1 dell’art. 1-bis della precedente normativa),
nonché con gli artt. 13 e 113 della Costituzione. Ad
ogni modo, spetterebbe alla giurisdizione ordinaria
procedere alla verifica della misura che va ad incidere
sulla libertà personale dello straniero.
71 Deroghe al diritto di permanenza nel territorio
nazionale sono previste dal decreto legislativo che
riproduce quanto stabilito dal già ricordato art. 7,
comma 2, della direttiva.
72 Se a presentare la richiesta è un minore non
accompagnato, i commi 5 e 6 dell’art. 26 prevedono
norme di tutela del minore: dalla nomina del tutore da
parte del giudice tutelare, entro le quarantotto ore
successive alla comunicazione del questore, all’adozione
di adeguate misure di accoglienza.
73 La Commissione nazionale è presieduta da un prefetto
ed è composta da un dirigente in servizio presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri, da un funzionario
della carriera diplomatica, da un funzionario della
carriera prefettizia in servizio presso il Dipartimento per
le libertà civili e l’immigrazione e da un dirigente del
Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero
dell’interno. Spettano alla Commissione, oltre ai compiti
di indirizzo e coordinamento delle Commissioni
territoriali, di formazione e aggiornamento dei
componenti, nonché di raccolta di dati statistici, di cui
già era titolare in precedenza, significativi poteri
decisionali in materia di revoca e cessazione degli status
riconosciuti. La revoca e la cessazione della protezione
internazionale concessa può essere disposta al termine
di un procedimento del quale deve essere informato
per iscritto l’interessato il quale può esporre, in
un’audizione o per mezzo di memorie, i motivi che
ostano alla revoca o alla cessazione del beneficio. E’
ammesso ricorso contro la decisione che dispone la
revoca o la cessazione del beneficio, ai sensi dell’art. 35,
comma 2, del decreto.
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RomanaDOTTRINA
temi
solo in caso di rigetto tout court di una forma di protezione, non rilevando se al richiedente lo status di rifugiato sia stata concessa la protezione sussidiaria. In questa
ipotesi, infatti, sia pure in presenza di una decisione favorevole al riconoscimento di
uno status, corrisponde un diniego della domanda diretta ad ottenere il più ampio beneficio dello status di rifugiato. Ci si domanda, allora, se non debba considerarsi il
diniego come una decisione sostanzialmente di rigetto con il conseguente obbligo di
motivazione. Infatti, sebbene l’art. 35, comma 1, consenta il ricorso anche in tali casi, sarebbe stato più opportuno disporre l’obbligo di motivazione a seguito del mancato accoglimento della domanda di rifugio74. Lo straniero la cui domanda sia stata
rigettata e che non ottenga il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari è, di norma, tenuto ad allontanarsi dal territorio nazionale, salvo gli effetti sospensivi
che si producono a seguito d’impugnazione della decisione di diniego. In merito al
diritto del richiedente di presentare ricorso avverso la decisione emessa dall’autorità competente, l’art. 39 della direttiva si limita a sancire il riconoscimento del diritto d’impugnare dinanzi ad un giudice il quale sia chiamato ad esprimersi tanto sugli
elementi di fatto quanto su quelli di diritto, ma lasciando agli Stati membri un’ampia
discrezionalità e con ciò allontanandosi sensibilmente da quanto era stato in un primo tempo previsto nel testo della proposta originaria75. Sempre sul delicato tema dei
ricorsi, non meno preoccupazioni ha destato la modifica intervenuta all’atto dell’approvazione del testo definitivo della direttiva rispetto alla questione dell’effetto sospensivo del ricorso. In un primo momento, è stata introdotta la regola della sospensione dell’esecuzione del provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale
fino alla pronuncia dell’autorità competente, mentre successivamente si è giunti ad
affermare, all’art. 39, comma 3, della direttiva che spetta agli Stati membri decidere
se concedere o meno il beneficio della sospensione nelle more della decisione sul riesame76.
Avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale è possibile presentare ricorso, entro trenta giorni dalla comunicazione, al Tribunale del capoluogo di distretto di Corte d’appello dove la Commissione ha sede77. Il procedimento si svolge davanti al Tribunale in composizione monocratica con un’udienza in ca74 Peraltro, la disposizione trova fondamento nell’art. 9,
comma 2, della direttiva secondo il quale gli Stati «non
sono tenuti a motivare il rifiuto di riconoscere lo status di
rifugiato in una decisione con la quale al richiedente è
riconosciuto uno status che offre gli stessi diritti e gli stessi
vantaggi che il diritto nazionale e quello comunitario
riconoscono allo status di rifugiato». La scelta del legislatore
italiano, sia pure legittima, non soddisfa le superiori
esigenze di tutela dei richiedenti lo status di rifugiato anche
quando siano riconosciute altre forme di protezione che,
tuttavia, riteniamo non essere tra loro del tutto
equiparabili.
75 Si tratta della disposizione che prevedeva, nel testo della
proposta di direttiva del 20 settembre 2000, pubblicata in
G.U.C.E. n. C 62E del 27 febbraio 2001, la possibilità per il
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richiedente di ottenere un doppio livello di riesame: da un
lato quello delle autorità amministrative e, dall’altro, quello
delle competenti autorità giudiziarie.
76 Sulla base dell’art. 39, comma 3, lett. b), è peraltro previsto
che lo Stato membro possa disporre un mezzo di
impugnazione giurisdizionale qualora quello promosso
contro la decisione di diniego dell’asilo non consenta al
richiedente di restare nel territorio dello Stato in attesa di
conoscerne l’esito.
77 In caso di trattenimento del richiedente, il termine per
presentare ricorso è di quindici giorni dalla comunicazione
del provvedimento, con competenza del Tribunale che ha
sede nel capoluogo di distretto di Corte d’appello in cui si
trova il centro.
mera di consiglio da fissare entro cinque giorni dal deposito del ricorso. La principale novità introdotta è la sospensione dell’efficacia del provvedimento di rigetto impugnato e la permanenza dello straniero nel territorio italiano fino alla conclusione
del giudizio. Oltre alla sospensione obbligatoria disposta in caso di impugnazione
del provvedimento di diniego dello status, è prevista una sospensione facoltativa che
il giudice ordinario può disporre in caso di ricorso avverso un provvedimento d’inammissibilità della domanda, previa richiesta del ricorrente e qualora sussistano gravi e fondati motivi. Il giudizio di impugnazione deve concludersi entro tre mesi dalla presentazione del ricorso con sentenza che può essere impugnata davanti alla Corte d’appello dal ricorrente e dal pubblico ministero, entro dieci giorni dalla notificazione o dalla comunicazione. In questo caso, il ricorso non sospende gli effetti della sentenza salvo la sospensione dell’esecuzione sia disposta con ordinanza non impugnabile. Entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza che conclude il giudizio d’appello, può essere proposto ricorso per Cassazione.
Volendo provare a tracciare alcune conclusioni, emerge in tutta chiarezza come l’approccio comunitario alle tematiche dell’asilo abbia contribuito a definire un
sistema normativo comune che, se da un lato ha avuto il merito di superare le differenze esistenti tra le normative nazionali e di ripartire gli oneri tra gli Stati membri
a seguito del venir meno del cosiddetto fenomeno di “asylum shopping” incoraggiato dalla ricerca della normativa più favorevole, dall’altro ha portato ad un livellamento al ribasso delle soluzioni elaborate dai singoli Paesi membri a livello nazionale.
Ebbene, il momento di confronto a livello comunitario non ha prodotto, come sarebbe
stato auspicabile, un ripensamento di quelle “worst practices” adottate in taluni Stati membri e che avrebbero fatto sperare in interventi correttivi delle prassi più restrittive,
bensì ha favorito un diffuso consolidamento delle stesse. Tali considerazioni valgono soprattutto se si richiamano alcune soluzioni adottate a livello nazionale e poi fatte proprie dal legislatore comunitario che restano tuttora fonti di preoccupazione e
di polemiche, come il ricorso a liste di Paesi terzi (o di origine) “sicuri”, all’uso troppo spesso indiscriminato dei centri di trattenimento ai quali sono coattivamente assegnati gli stranieri non soltanto quando ciò sia necessario per procedere ad identificazione o quando sussistano concrete esigenze di ordine pubblico e di sicurezza,
ma anche in attesa che la procedura di esame della richiesta di asilo giunga a conclusione, o ancora a seguito delle difficoltà connesse all’applicazione del principio
di “one chance rule” – in base al quale ogni individuo, all’interno del territorio dell’Unione, può avere accesso ad un’unica procedura di esame della domanda – e alla controversa istituzione di centri di transito nei quali procedere all’esame delle domande cosiddette “off shore”, vale a dire valutate all’esterno dei confini comunitari. Cionondimeno, la normativa comunitaria ha inciso in maniera positiva sugli ordinamenti di alcuni Stati membri, come l’Italia, dove le pur minime previsioni maturate a livello comunitario non hanno potuto che innalzare la soglia di tutela nor5. Considerazioni conclusive.
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RomanaDOTTRINA
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mativa, sia alla luce della mancata approvazione di una legge sull’asilo costituzionalmente inteso che in considerazione della lacunosa quanto confusa normativa vigente in materia, per certi versi tacciata persino di incostituzionalità. Allo stato dell’arte, il quadro normativo italiano, grazie all’adozione dei tre decreti legislativi di
attuazione delle rispettive direttive comunitarie, si presenta più completo ed organico sebbene ancora lontano dalla portata del diritto di asilo come delineato dalla nostra Carta costituzionale. Tuttavia, anche le norme che riconoscono maggiori garanzie ai richiedenti asilo – prima fra tutte quella che afferma il diritto di ingresso nel
territorio italiano a chi intenda presentare istanza di asilo – finiscono per scontrarsi
con la prassi. In questo senso, un caso emblematico che ha interessato lo Stato italiano e che vale la pena richiamare è quello del Cap Anamur, l’imbarcazione che in
acque internazionali tra la Libia e l’isola di Lampedusa vide fronteggiarsi, nell’estate
del 2004, l’Italia, la Germania e Malta in ordine alla presa in carico dei trentasette
naufraghi africani. In quell’occasione le norme comunitarie in materia di Stati responsabili della domanda di asilo si sono dimostrate non del tutto efficienti e certamente incapaci di assicurare un adeguato esame delle richieste di asilo se l’espulsione è stata eseguita in tempi così rapidi da rendere la decisione del competente Tribunale di Roma, che autorizzava la permanenza nel territorio italiano, di fatto inutiliter data poiché veniva tardivamente adottata ad espulsioni già avvenute78.
Se al banco di prova della prassi, spesso anche le norme adottate con le migliori intenzioni finiscono per rivelare più di un cono d’ombra, non minori problemi presenta la politica di partenariato promossa ed incoraggiata a più riprese in ambito comunitario. L’aspetto si presenta tanto più discutibile ed attuale se si considera che il partenariato e la cooperazione con i Paesi terzi risultano inclusi tra gli strumenti idonei a gestire i flussi di richiedenti asilo o altre forme di protezione. Nel valutare quelli che sembrerebbero dei punti di forza nella strategia di partenariato, occorrerebbe considerare se ai fini della valutazione della cooperazione instaurata tra
uno Stato membro ed un Paese terzo, il Paese terzo possa dirsi realmente “sicuro” o
se, piuttosto, lo strumento del partenariato non rappresenti un modo per risolvere la
questione dell’immigrazione, senza che rilevi se tra questi vi siano anche potenziali beneficiari di protezione internazionale. Al riguardo, può ricordarsi il controverso
78 In particolare, gli stranieri che si dichiararono cittadini
sudanesi furono trasferiti presso il Centro di
permanenza temporanea e di accoglienza (CPTA) di
Caltanissetta da dove presentarono domanda d’asilo.
Competente ad esaminare le istanze presentate era
l’allora Commissione centrale che, il 17 luglio 2004,
rigettò le richieste d’asilo avanzate dai ventidue
stranieri, mentre i restanti, identificati come nigeriani,
venivano trasferiti a Roma (presso il CPTA di Ponte
Galeria) per eseguirne l’espulsione. Per gli stranieri
raggiunti da un provvedimento d’espulsione furono
presentati ricorsi in urgenza dinanzi al Tribunale di
Roma e, per tutti, fu avviata una procedura davanti alla
Corte europea dei diritti dell’uomo. Sebbene, il 22
luglio, la Corte di Strasburgo avesse chiesto al Governo
136
italiano una sospensione delle espulsioni fino alla
conclusione dell’esame sul ricorso ed il Tribunale di
Roma avesse acconsentito al riesame delle istanze
d’asilo, alcun seguito ebbero le procedure in tali sedi
avviate dal momento che le autorità italiane avevano
già provveduto ad eseguire l’espulsione dei richiedenti
asilo. Un’unica pronuncia in sede cautelare fu adottata
dal giudice ordinario che, il 30 luglio, concedeva
l’autorizzazione a permanere nel territorio italiano fino
alla conclusione del giudizio di merito. L’epilogo si ebbe
il 9 settembre 2004 quando il Tribunale di Roma accolse
il reclamo promosso, ex art. 669-terdecies c.p.c.,
dall’Avvocatura generale dello Stato contro il decreto
d’autorizzazione provvisoria al soggiorno nel territorio
italiano.
caso dei 1.153 immigrati clandestini sbarcati a Lampedusa nell’ottobre 2004 e respinti verso la Libia sulla base dell’accordo bilaterale tra lo Stato italiano e quello libico concluso nell’ambito di una collaborazione tra i due Paesi finalizzata al contrasto dell’immigrazione illegale79. Sull’episodio è in seguito intervenuto il Parlamento
europeo che, con la Risoluzione 14 aprile 200580, ha condannato la prassi delle espulsioni collettive di stranieri disposte dalle autorità italiane da ottobre 2004 a marzo
2005 in violazione delle norme di diritto internazionale e di quanto stabilito dal Protocollo IV della CEDU. In parte differente si profila, invece, la questione del partenariato con i Paesi e le regioni di transito dove un rafforzamento della cooperazione
può tradursi in un ausilio offerto a quegli Stati che, geograficamente collocati alle
frontiere meridionali ed orientali dell’Unione europea, possono in tal modo migliorare la capacità di gestire i flussi migratori ed assicurare un più alto standard di protezione ai rifugiati.
In definitiva, i problemi con i quali gli Stati membri sono chiamati a confrontarsi, attraversano trasversalmente la materia dell’immigrazione, dell’asilo e della protezione umanitaria e sono stati, per certi versi, amplificati dalla standardizzazione che
hanno ricevuto in sede comunitaria; ma la comunitarizzazione realizzata ha segnato, comunque, un momento di svolta, sotto molti aspetti inevitabile, poiché la questione della protezione da offrire ai richiedenti asilo o ai rifugiati nonché a quanti si
trovino a lasciare il proprio Paese per cercare condizioni di vita e di lavoro migliori, ha perso la dimensione nazionale (che non sembra avere mai avuto) e si è sempre
più proiettata in quella sovranazionale, così che le risposte da fornire ad un fenomeno globale non possono che essere, a loro volta, globali.
79 Sugli accordi di partenariato e di cooperazione conclusi
con Paesi, quali la Libia, che non sembrano
propriamente qualificabili come dei “Paesi terzi sicuri”,
si rinvia a F. MESSINEO (cur.), Lampedusa: ingresso
vietato, Torino, 2005.
80 Si fa riferimento al Documento P6_TA-PROV(2005)0138.
Ciò ha dimostrato, ancora una volta, come in via di
prassi si sia giunti a contravvenire il divieto di
refoulement che, invece, dovrebbe trovare applicazione
non soltanto quando vi sia stato un riconoscimento
formale dello status di rifugiato, ma anche nei confronti
delle cosiddette “displaced persons”, essendo in
entrambe le ipotesi indispensabile accertare che le
persone espulse non siano minacciate in caso di
rimpatrio nel Paese di origine. Sul rinvio forzato verso
la Libia aveva espresso forte preoccupazione anche
l’ACNUR, nel comunicato stampa del 18 marzo 2005,
con il quale si denunciava la prassi dei sistematici
rimpatri di massa di stranieri verso i Paesi di origine
senza il rispetto della dignità umana e dei diritti
fondamentali della persona, affermando che la Libia
non può essere ritenuto un Paese d’asilo sicuro
137
RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Andrea MELUCCO
Il patrocinio a spese dello
Stato nel giudizio Civile
1. La normativa in esame e le sue evoluzioni - 2. Il potere di nomina del difensore ed
i suoi limiti - 3. L’ambito oggettivo di applicabilità della norma - 4. L’iscrizione e la
tenuta degli elenchi - 5. Diniego e cancellazione dall’elenco - 6. L’ammissione del
cliente al patrocinio - 7. Il diniego all’ammissione - 8. La revoca del beneficio e le
false dichiarazioni - 9. Il rapporto tra il professionista ed il cliente - 10. Il patrocinio a spese dello stato come sottotipo contrattuale - 11. Il procedimento per la liquidazione delle somme - 12. Il reclamo avverso il provvedimento di liquidazione
Sommario:
La normativa in esame e le sue evoluzioni. L’attuale disciplina del patrocinio a
spese dello stato è frutto di una più recente rielaborazione – avvenuta peraltro
in più fasi - di Istituti oramai risalenti e bisognosi di adeguamento alle mutate necessità
ed esigenze della tutela giurisdizionale in favore dei soggetti meno abbienti, anche
alla luce ed in conformità dei precetti costituzionali.
L’originario sistema era contenuto nel R.d.lgs. 30 dicembre 1923, n. 3282 (sul
gratuito patrocinio).
Era previsto che «decretata l’ammissione al gratuito patrocinio», aveva «luogo la destinazione del difensore d’ufficio». «Nelle materie civili e, quando occorra,
nelle materie amministrative», infatti, «tale destinazione» veniva fatta «dalla Commissione per il gratuito patrocinio. Nelle materie penali», invece, essa veniva «fatta
dall’autorità giudiziaria davanti alla quale la causa deve essere trattata, salvo le disposizioni del c.p.p. intorno alla difesa officiosa».
Il primo momento di riforma si è avuto con la legge 30 luglio 1990, n. 217.
In virtù degli artt. 9 (per il «patrocinio a spese dello stato nei giudizi penali»)
e 15 duodecies (per il «patrocinio a spese dello stato nei giudizi civili ed amministrativi»)
della nuova disciplina, chi, nei giudizi penali, era stato «ammesso al patrocinio a spese dello stato» poteva «nominare un difensore scelto tra gli iscritti ad uno degli albi
degli avvocati e procuratori del distretto di corte di appello nel quale ha sede il giudice davanti al quale pende il procedimento» e chi, nei giudizi civili ed amministrativi, era stato «ammesso al patrocinio a spese dello stato» poteva «nominare un difensore scelto tra gli iscritti ad uno degli albi degli avvocati».
L’individuazione del difensore era dunque liberamente affidata alla parte, che
non aveva altro vincolo se quello della iscrizione del professionista in uno degli albi
del distretto di Corte di appello in cui aveva sede il Giudice avanti al quale la causa
era incardinata.
Tale sistema è stato ulteriormente riformato dapprima con il d.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di
1.
138
giustizia), ed ancora successivamente in virtù della legge 24 febbraio 2005, n.25.
La nuova disciplina (del 2002) introduceva una restrizione a carattere qualitativo, prevedendo (art.80 - rubricato «Nomina del difensore») che «chi è ammesso al
patrocinio può nominare un difensore scelto tra gli iscritti negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello stato, istituiti presso i consigli dell’ordine del distretto di corte di appello nel quale ha sede il magistrato competente a conoscere del
merito o il magistrato davanti al quale pende il processo. Se procede la Corte di cassazione, il Consiglio di stato, le sezioni riunite o le sezioni giurisdizionali centrali presso la Corte dei conti, gli elenchi sono quelli istituiti presso i consigli dell’ordine del
distretto di corte di appello del luogo dove ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato».
2. Il potere di nomina del difensore ed i suoi limiti. Alla luce dell’appena esposto quadro normativo, è possibile affermare, innanzitutto, che, per quanto riguarda il
rapporto interno tra parte e difensore, si è passati dal sistema del «gratuito patrocinio» (di cui al R.d.lgs. 30 dicembre 1923, n. 3282), che non prevedeva, in capo alla
parte ad esso ammessa, il potere di scelta del difensore da nominare, ad un sistema quello introdotto con il «patrocinio a spese dello stato» - che, invece, ha previsto, in
capo alla parte, il potere di scelta del difensore da nominare.
Come appena cennato, in virtù della più recente disciplina, il potere di scelta
del difensore può esplicarsi unicamente verso difensori «iscritti negli elenchi degli
avvocati per il patrocinio a spese dello stato, istituiti presso i consigli dell’ordine del
distretto di corte di appello». e l’iscrizione in tali elenchi ed il loro mantenimento è
di competenza dei consigli dell’ordine, i quali sono chiamati a verificare la sussistenza,
in capo al difensore, dei requisiti e delle condizioni che sono stati previsti dall’art. 81
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Il tutto con l’evidente finalità di garantire uno standard minimo qualitativo della consulenza resa dal difensore in favore del cittadino
ammesso al patrocinio a spese dello stato.
Soltanto sull’ambito dell’esercizio di tale potere di scelta del difensore è andato, quindi, ad incidere l’art. 80, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 prevedendo, oltre
alle previgenti limitazioni - per così dire di tipo meramente «territoriale» - dell’ambito di esercizio del potere di scelta in questione, anche limitazioni di tipo «qualitativo» all’esercizio di tale potere.
La limitazione territoriale, tuttavia, è stata successivamente soppressa: l’art.1
della legge 24 febbraio 2005, n.25 ha introdotto (con decorrenza dal 17 marzo 2005)
un nuovo terzo comma che dispone “Colui che e’ ammesso al patrocinio può nominare un difensore iscritto negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello
Stato scelto anche al di fuori del distretto di cui ai commi 1 e 2”.
A prescindere dalla condivisibilità della tecnica legislativa, la norma – nella nuova (e piuttosto pleonastica formulazione) – consente ora una libera scelta del difensore, senza relazione diretta con gli albi distrettuali. Ciò è da mettere in relazione alla acquisita integrale libera circolazione dei professionisti, conseguente (anche in at-
139
RomanaDOTTRINA
temi
tuazione e conformità della normativa comunitaria) alla abolizione dell’albo dei procuratori1.
Permane dunque il solo requisito della iscrizione nel registro, quale che sia l’ordine forense di appartenenza.
3. L’ambito oggettivo di applicabilità della norma. Il patrocinio a spese dello
Stato è riconosciuto in relazione alle esigenze di difesa giudiziale. Non è dunque prevista per l’attività stragiudiziale. Ne consegue che la giurisprudenza ha sinora sempre dichiarato inammissibile il ricorso presentato per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti relativi a un procedimento definito con una transazione formalizzata con scrittura privata2.
Seppure tale limitazione deve essere posta in relazione all’intendimento del legislatore (e dell’interprete) di evitare abusi nel ricorso all’istituto, non di meno l’esclusione suscita delle perplessità laddove costituisce una seria remora per la classe
forense a perseguire sempre ed in ogni caso la strada conciliativa e transattiva. Inoltre, perplessità suscita anche la circostanza che la definizione del gravissimo arretrato
che affligge tutti i tribunali nazionali non può non passare da uno sviluppo, un consolidamento ed una affermazione degli strumenti alternativi di definizione delle controversie (comunemente noti come ADR), come anche il legislatore si sta avvedendo. In questo quadro si pone dunque la necessità che – se allo stato non è possibile
ovviarvi in via meramente interpretativa – il legislatore intervenga nelle sedi normative opportune (è allo studio una legge quadro sulla mediazione / conciliazione) in
modo da eliminare anche in sede stragiudiziale e di definizione pre-contenziosa le
disuguaglianze economiche tra le parti (alla cui eliminazione è ovviamente volta la
disciplina oggetto del presente contributo).
4. L’iscrizione e la tenuta degli elenchi. L’elenco è formato sulla base di una delibera dal consiglio dell’ordine, il quale è chiamato a verificare che gli avvocati che
hanno presentato la domanda abbiano i previsti requisiti.
attitudini ed esperienza professionale;
assenza di sanzioni disciplinari;
anzianità professionale non inferiore a due anni (così modificato rispetto agli
originari sei anni dall’art.2 della legge 24 febbraio 2005, n.25).
L’inserimento nell’elenco è revocato in qualsiasi momento se interviene una
sanzione disciplinare. (art. 81 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115).
Nella sua originaria formulazione, la norma determinava perplessità interpretative, che erano superate – in base ad una esegesi rigorosa e di stretta interpretazione –
I requisiti sono:
1 Novità che, tuttavia, risale al 1998 , facendo propendere
per l’interpretazione che la novellazione del 2005 sia
volta a correggere una svista o una ingiustificata
140
limitazione operata dal legislatore del 2002
2 cfr. Tribunale Torino, 17 febbraio 2006.
ritenendosi applicabile per i provvedimenti a partire dalla censura, essendo pacificamente escluso che l’avvertimento costituisca una vera e propria sanzione disciplinare.
Il legislatore è poi intervenuto, novellando il terzo comma dell’art.813, e precisando (in conformità della sopra cennata interpretazione) la rilevanza delle sanzioni
disciplinari superiori all’avvertimento e limitando in ogni caso all’ultimo quinquennio.
I requisiti per l’iscrizione nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato sono previsti in modo tassativo dall’art. 81 comma 2 d.P.R. 30 maggio 2002
n. 115; pertanto non può essere iscritto nel predetto elenco, l’avvocato a cui sia stata
inflitta una sanzione disciplinare, non potendosi applicare a questa ipotesi l’istituto della “purgazione” (T.A.R. Sardegna Cagliari, 08 maggio 2003, n. 578).
Nella originaria formulazione, la norma andava interpretata nel senso che nel computo della anzianità (che, come detto, era prevista di anni sei) dovesse essere compreso non soltanto il periodo di iscrizione all’albo degli avvocati, ma anche il periodo in
cui il praticante, ai sensi dell’art. 8 r.d. 27 novembre 1933 n. 1578, ha esercitato il patrocinio davanti al Giudice di pace ed al tribunale in composizione monocratica (art. 7
l. 16 ottobre 1999 n. 479), atteso che il praticante aveva comunque svolto in tale periodo una vera e propria “attività forense” (T.A.R. Abruzzo Pescara, 09 gennaio 2003,
n. 166).
I requisiti per l’iscrizione nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello stato sono diversi da quelli richiesti per essere inseriti negli elenchi dei difensori d’ufficio:
l nel primo caso, infatti, il Consiglio dell’Ordine dovrà formare l’elenco, inserendovi soltanto gli avvocati che ne abbiano fatto domanda e che siano in possesso dei
requisiti espressamente individuati dall’art. 81, comma 2 del T.U.
l nel secondo caso, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 60/2001, per l’iscrizione nell’elenco è necessario alternativamente:
a) il conseguimento di attestazione di idoneità rilasciata dall’ordine forense di
appartenenza al termine della frequenza di corsi di aggiornamento professionale organizzati dagli ordini medesimi (oppure, ove costituita dalla camera penale territoriale ovvero dall’unione camere penali);
b) la dimostrazione di avere esercitato la professione in sede penale per almeno due anni (Consiglio nazionale forense, circolare 21 settembre 2002).
5. Diniego e cancellazione dall’elenco. Vi è contrasto in giurisprudenza circa l’individuazione della giurisdizione sulla controversia circa la legittimità del diniego di iscrizione di un avvocato nell’elenco per il patrocinio a spese dello Stato.
Secondo un primo orientamento, infatti, la questione, pur se relativa a diritti soggettivi, attiene pur sempre alle modalità organizzative di un’attività professionale svol3 Sempre con l’art.2 della legge 24 febbraio 2005, n.25
141
RomanaDOTTRINA
temi
ta nell’interesse della collettività e concerne attività e prestazioni rese nell’espletamento di pubblici servizi: ne conseguirebbe la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 33 comma 2 lett. e) d.lg. 31 marzo 1998, n. 80 e successive modifiche e integrazioni (così T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, 26 gennaio 2004, n. 14;
T.A.R. Abruzzo Pescara, 09 gennaio 2003, n. 166 ).
Secondo un diverso orientamento, invece, la controversia che ha ad oggetto la domanda di annullamento della deliberazione con la quale il Consiglio dell’Ordine degli
avvocati cancella i ricorrenti dagli elenchi dei difensori ammessi al patrocinio a spese
dello Stato “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, poiché le richieste dei ricorrenti sono riconducibili a posizioni di diritto soggettivo, non prevedendo la normativa vigente una valutazione discrezionale da parte dell’Amministrazione”(così T.A.R.
Veneto Venezia, sez. I, 01 marzo 2003, n. 1576).
L’alternativa a parere di chi scrive sembra mal posta e deve essere risolta nell’ottica
delle funzioni attribuite al Consiglio dell’Ordine ed ai rimedi previsti dall’ordinamento avverso i suoi provvedimenti relativi alla tenuta degli albi.
Più che di evidenziare il (peraltro labile) collegamento con l’esercizio di un pubblico servizio, ovvero di dare rilevanza alla natura di diritto soggettivo perfetto della posizione del professionista, infatti, si deve ritenere che il controllo del Consiglio dell’Ordine
sui requisiti per l’iscrizione in un albo siano sostanzialmente gli stessi, sia che si tratti
dell’albo “principale” e “generale”, sia che si tratti degli albi (o più rettamente, registri
od “elenchi”) di volta in volta previsti dalla legge (si pensi al registro dei praticanti, ovvero all’elenco dei professionisti delegati alla vendita degli immobili, istituito recentemente dall’art.179 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile).
Non a caso, la stessa legge professionale attribuisce al meccanismo amministrativo/giurisdizionale non solo la valutazione dei provvedimenti a contenuto disciplinare, ma anche i provvedimenti relativi alla cancellazione dall’albo per mancanza dei requisiti.
La competenza sarà dunque del Consiglio Nazionale Forense in sede di impugnazione e della Cassazione in successiva sede di legittimità.
Non pare contrastare con questa ricostruzione, la circostanza che il TAR ha ritenuto la propria competenza (giurisdizionale) in sede di impugnativa del mancato rilascio da parte del Consiglio dell’Ordine del certificato di compiuta pratica necessario alla iscrizione alla sessione di esame per l’abilitazione alla professione di avvocato (così
Tar Lazio, sent. 4 maggio 2005, n.3312).
In alternativa, se si ritiene che una questione di giurisdizione non possa essere risolta sulla base della applicazione analogica di una norma speciale, vi è ad osservare
che l’atto avente natura amministrativa potrà comunque essere impugnato direttamente avanti al competente TAR.
6. L’ammissione del cliente al patrocinio. Sotto il profilo della determinazione dell’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione della norma si possono svolgere alcune interessanti considerazioni.
142
Al di là infatti della evidente ammissibilità delle persone fisiche al beneficio in
esame, si è posto il problema della applicabilità dell’istituto anche alle persone giuridiche.
La soluzione positiva, riconosciuta oramai pacificamente (e con una certa frequenza) per le procedure fallimentari prive di attivo, si è affacciata in giurisprudenza
anche per gli enti senza fine di lucro, ai quali è stato consentito di beneficiare, ricorrendone i presupposti, del patrocinio a spese dello Stato sia se intendono promuovere un giudizio civile, sia nell’ipotesi in cui l’azione civile venga esercitata nel processo
penale, attraverso la costituzione di parte civile. Non è invece consentito agli enti suddetti, in difetto di una espressa previsione di legge, accedervi durante la fase delle indagini preliminari, perché fino all’apertura dell’udienza preliminare non è ammessa
la costituzione di parte civile (Tribunale Milano, sez. III, 14 dicembre 2004, n. 739).
In relazione alla posizione dello straniero la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 102 del Dpr n. 115 del 2002, nella parte in cui non prevede, per lo straniero ammesso al patrocinio a spese dello stato che non conosce la
lingua italiana, la possibilità di nominare un proprio interprete. (Corte Costituzionale - Sentenza 6 luglio 2007, n. 254).
Sotto il profilo strettamente cronologico, l’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato intervenuta dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni produce effetti con riferimento all’attività professionale svolta anteriormente dal difensore nel
medesimo procedimento, e ciò anche tenuto conto del principio di postnumerazione
del compenso immanente all’attività svolta dal professionista d’opera intellettuale.
(in tal senso cfr. Tribunale Napoli, 11 marzo 2004).
Si deve infine segnalare che – in tema di condizioni economiche di ammissibilità della domanda – il legislatore è più volte ed anche recentemente intervenuto4,
di talchè le stesse, all’art.76 sono ora così regolate:
l può essere ammesso al patrocinio chi è titolare di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a
euro 9.723,84 (1).
l salvo quanto previsto dall’articolo 92, se l’interessato convive con il coniuge o
con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel
medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l’istante.
l ai fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi
che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) o
che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ovvero ad imposta sostitutiva.
l si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti
della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in
conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi.
4 Da ultimo con l’art.12-ter del decreto legge 23 maggio 2008 n.92 (c.d. pacchetto sicurezza), convertito con modifiche
dalla legge 24 luglio 2008, n.125
143
RomanaDOTTRINA
temi
Per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di associazione a
delinquere di matrice mafiosa (416-bis del codice penale), associazione per contrabbando nei tabacchi esteri (291-quater T.U. 23 gennaio 1973, n. 43), nonchè per i reati
commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero
al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli
fini della presente decreto, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti, introducendosi quindi una presunzione juris et de jure.
l
7. Il diniego all’ammissione. Il procedimento di reclamo avverso il provvedi-
mento di diniego alla ammissione del cliente al beneficio è disciplinato dall’art. 99
d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e rientra nell’ambito della giurisdizione civile.
Ciò si desume dalla circostanza che il ricorso al presidente del tribunale deve
essere notificato all’ufficio finanziario competente, instaurandosi in tal modo un procedimento contenzioso ove al soggetto che richiede di fare carico allo Stato delle spese del proprio processo si contrappone l’amministrazione finanziaria, che tali spese
dovrebbe sopportare.
Il provvedimento del Tribunale è soggetto a ricorso per cassazione (ex art.111
cost.), del quale deve avere forma, contenuti e requisiti, risultando pertanto inammissibile l’impugnazione priva dei detti requisiti del ricorso per cassazione e non risulti notificata ad alcuno (Cass., sez. I, 23 settembre 2005, n. 18670).
8. La revoca del beneficio e le false dichiarazioni. La revoca ex officio del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello stato costituisce espressione del potere di autotutela della pubblica amministrazione e, come tale, è da ritenere ammissibile anche al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 112 del Dpr 30 maggio 2002 n.
115, quando il giudice ritenga di aver disposto l’ammissione al patrocinio in assenza delle condizioni di legge.
Contro tale provvedimento non è esperibile per saltum il ricorso per cassazione, ma unicamente il reclamo di cui all’articolo 99 del Dpr 115/2002 davanti allo stesso ufficio giudiziario nell’ambito del quale questo è stato emesso (articolo 99, comma 1): una tale conclusione, nonostante una non perspicua formulazione normativa,
discende dalla considerazione che, poiché la situazione che viene a determinarsi a seguito della revoca è analoga a quella scaturente dall’originale diniego di ammissione del beneficio (si veda l’efficacia retroattiva della revoca di cui all’articolo 114, comma 2, del Dpr 115/2002), deve ritenersi che il provvedimento sia reclamabile con le
stesse modalità previste per tale ultimo istituto.
Il ricorso immediato in cassazione è invece espressamente previsto solo nell’ipotesi di revoca del decreto di ammissione disposta su richiesta dell’ufficio finanziario ex articolo 113 del Dpr 115/2002 (Cass. Civ. 14 novembre 2003, n.43702).
Il tribunale può revocare il beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’art. 112 d.lg. 115/02, o quando vi sia stata richiesta in tal senso
dell’amministrazione finanziaria, ovvero quando la dimostrata mancanza delle con-
144
dizioni per l’ammissione al beneficio sia emersa in esito alle integrazioni richieste ai
sensi dell’art. 96 commi 2 e 3 d.lg. 115/02.
Il provvedimento di revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato può
essere adottato solo nei casi strettamente previsti dalla legge. Non può quindi essere
disposto quando la notizia della capacità reddituale del beneficiario sia stata acquisita “aliunde”. (Cassazione penale, sez. IV, 13 ottobre 2005, n. 42651), né allorchè il
provvedimento abbia ormai esaurito i suoi effetti e nessuna impugnazione vi sia stata, né per il caso di espletamento dell’incarico già avvenuto, quando si riscontri successivamente che l’iscrizione del predetto professionista negli appositi elenchi sia avvenuta solo dopo la nomina e la liquidazione del compenso da parte del giudice (così la recente Cass. 30 maggio 2008, n.14594).
Il reato di false dichiarazioni concernenti le condizioni reddituali ai fini dell’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello stato (ora previsto dall’articolo
95 del Dpr 30 maggio 2002 n. 115) è configurabile anche allorquando il reddito realmente percepito avrebbe ugualmente consentito l’ammissione del soggetto al beneficio. (Corte di Cassazione Sezione 5 penale - Sentenza 14 novembre 2007, n. 42060).
In caso di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello stato, le spese liquidate sono recuperate «nei confronti dell’interessato»5, non essendo tenuto il difensore a restituire l’importo delle competenze eventualmente già liquidate in suo favore
(Cass. Pen. 30 marzo 2007, n. 13199).
Viene quindi ad essere significativamente rimarcata la differenza che corre tra l’ipotesi in esame e quella della riforma o cassazione della pronuncia che abbia liquidato
le spese di lite direttamente in favore del difensore che si sia dichiarato antistatario.
In questa ultima ipotesi, infatti, il venir meno del titolo esecutivo emesso direttamente in favore del difensore, lo individua quale legittimato passivo della richiesta
di restituzione della somma percepita (ex multis, cfr. Cass.11 maggio 2007, n.10827).
9. Il rapporto tra il professionista ed il cliente. La nomina, ove accettata dal di-
fensore, darà vita, tra quest’ultimo ed il cittadino ammesso al patrocinio a spese dello
stato, a quel contratto di affidamento dell’incarico di prestazione professionale che la Corte regolatrice - con un orientamento che non appare superato dalla sopra evidenziata evoluzione del quadro normativo - considera distinto dalla procura ad litem, negozio unilaterale - e non bilaterale - che conferisce al difensore la rappresentanza della parte che sta
in giudizio e permette di riferire a quest’ultima gli effetti dell’attività procuratoria espletata.
In questo meccanismo, la nomina del patrocinante è lasciata alla libera iniziativa
dell’interessato e nessun preventivo controllo è richiesto al Giudicante, anche per quanto riguarda l’avvenuta nomina del difensore esclusivamente tra quelli iscritti negli elenchi degli avvocati per il patrocinio a spese dello stato, perché è solo in sede di liquida5 Come testualmente affermato dall’art.86 del dPR 30 maggio 2002, n.115
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RomanaDOTTRINA
temi
zione del compenso per l’attività professionale espletata che si esplica il controllo anche
di merito da parte del giudicante ai sensi dell’art. 82 del d.P.R. n. 115/2002.
Il principio opererebbe anche nell’ipotesi in cui la nomina del difensore - «di
ufficio», in questo caso, e non, invece, «di fiducia» - non fosse stata effettuata dal cittadino ammesso al patrocinio a spese dello stato, ma dall’«ufficio centralizzato» di
cui al secondo comma dell’art. 97 c.p.p., o dal «giudice», dal «pubblico ministero e
la polizia giudiziaria» nei casi previsti nel quarto comma del medesimo art. 97.
Se è vero, infatti, che il patrocinio a spese dello stato viene «assicurato» da quest’ultimo, è anche vero che lo stato «assicura» al cittadino il patrocinio a sue spese, unicamente in caso di rispetto delle condizioni - oggi - previste nella parte terza del d.P.R.,
30 maggio 2002, n. 115.
Tra queste condizioni, come si è visto, vi è quella dell’effettuazione della nomina, esclusivamente da parte del cittadino ammesso al patrocinio a spese dello stato, non,
invece, il caso dell’effettuazione della nomina, da parte di soggetti diversi dal cittadino
ammesso al patrocinio a spese dello stato, come quelli indicati nell’art. 97 c.p.p.
Ne discende, innanzitutto, che, senza una nomina effettuata nel rispetto dell’art.
80, d.P.R., 30 maggio 2002, n. 115 dal cittadino ammesso al patrocinio a spese dello
stato, alla difesa d’ufficio non risulterà applicabile la disciplina del patrocinio a spese
dello stato.
Inoltre, poiché, in ragione dell’effettuazione della nomina in questione, difficilmente potrà sostenersi che non si sia instaurata «fiducia» tra l’ammesso al patrocinio a
spese dello stato ed il difensore già nominato «d’ufficio» dai soggetti previsti dall’art.
97 c.p.p., e poiché «il difensore di ufficio cessa dalle sue funzioni se viene nominato
un difensore di fiducia» (art. 27, ultimo comma, c.p.p.), si può concludere, affermando che, se si esclude il fatto che le modalità di calcolo dell’onorario e delle spese del
difensore previste dall’art. 82, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 sono le stesse a cui si riferiscono gli artt. 115, 116, 117 e 118 del medesimo d.P.R., non esistono punti di contatto tra la disciplina del patrocinio a spese dello stato e la disciplina della difesa d’ufficio.
In ragione della nomina effettuata ex art. 80, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 infatti, cessa la difesa «d’ufficio» ed inizia la difesa «di fiducia», a spese dello stato.
Si deve tuttavia segnalare come, agli albori dell’applicazione della nuova disciplina, sia emerso anche un orientamento di segno diametralmente opposto, espresso da
quella giurisprudenza che ha “escluso che sia possibile dichiarare inammissibile l’istanza
corredata da nomina di un non iscritto agli elenchi, ed escluso che il non iscritto agli
elenchi possa non essere liquidato ex art. 82 d.P.R. n. 115 del 2002”, con la conseguenza
che ”il combinato disposto degli art. 80 e 81 stesso d.P.R. finisce con l’avere una rilevanza tutta interna all’ordinamento della professione forense, per effetto dell’indiretta
creazione di null’altro che di una norma deontologica relativa alle modalità di acquisizione della clientela che impone ai non iscritti agli elenchi di cui all’art. 81 di non accettare incarichi fiduciari da chi chiede di essere ammesso al patrocinio a spese dello
Stato (così Tribunale Roma, 05 ottobre 2002).
146
10. Il patrocinio a spese dello stato come sottotipo contrattuale. Ciò premesso, si
può affermare che la nomina effettuata nel rispetto dell’art. 80, d.P.R. 30 maggio 2002, n.
115 dal cittadino ammesso al patrocinio a spese dello stato, costituisce l’elemento che caratterizza un sottotipo contrattuale che, introdotto dal legislatore con il d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115 si differenzia dal tipo «contratto di affidamento dell’incarico di prestazione
professionale», individuato anche dalla Corte di Cassazione.
In particolare, si può affermare che la nomina effettuata nel rispetto dell’art. 80, d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115 caratterizza la formazione dell’«accordo» che dà vita al sottotipo
contrattuale in questione, sì da rendere tale «requisito del contratto», quello che identifica
il sottotipo «patrocinio a spese dello stato», delineato dal legislatore nella terza parte del
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (sul punto diffusamente, Frittelli A. V. in Guida al Diritto 2,
2005).
Nel caso, dunque, che manchino gli elementi per ritenere operante il sottotipo contrattuale evidenziato, si dovrà affermare che il contratto concluso tra il cliente e l’avvocato
è un «contratto di affidamento dell’incarico di prestazione professionale» e non, invece, un
negozio del sottotipo «patrocinio a spese dello stato», escludendosi quindi e per conseguenza
l’applicazione della particolare disciplina dettata nella terza parte del d.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115.
Non sembra poi superfluo osservare che parti del contratto di patrocinio a spese dello stato sono soltanto il cliente ed il difensore.
Lo stato, infatti, si limita ad assumere la posizione di debitore - di quanto dovuto secondo l’art. 82, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - in un rapporto obbligatorio intercorrente
con il difensore creditore, nonché a svolgere un’attività di generale controllo del rispetto
delle condizioni previste dal medesimo d.P.R., in cui può farsi rientrare l’attività di verifica, in sede di liquidazione del compenso.
Si deve pertanto escludere che il cittadino possa rivolgere allo stato una domanda di
indennizzo per arricchimento senza causa. Ciò in quanto «nessun arricchimento o utilità
sono derivati al Ministero della Giustizia a seguito delle prestazioni professionali rese».6
11. Il procedimento per la liquidazione delle somme. In tema di patrocinio a spese dello stato, secondo il regime di cui al d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113 deve ritenersi che la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore officiato del gratuito patrocinio, per il ministero prestato nel giudizio di cassazione, spetti al giudice
di rinvio o a quello la cui pronuncia è divenuta irrevocabile a seguito dell’esito del
giudizio di legittimità ed al quale, quindi, l’interessato ha l’onere di presentare istanza, così come prevedeva la norma contenuta nell’art. 15 quattuordecies della legge
30 luglio 1990, n. 217, giacché la circostanza che nell’art. 82 del citato d.lgs. n. 113
del 2002 (riprodotto nell’art. 82 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) la previsione di
quella norma non sia stata espressamente riprodotta, deve ritenersi frutto di un errore, in quanto, posto che contro la liquidazione è ammessa opposizione nelle forme
6 Così Frittelli, A.V., cit.
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RomanaDOTTRINA
temi
della legge 13 giugno 1942, n. 794 dinanzi al tribunale o alla corte d’appello, è inconcepibile che l’opposizione alla liquidazione effettuata dalla Corte di cassazione possa svolgersi dinanzi ai giudici di merito (Cass. Civ. 25 luglio 2006, n. 16986).
Nell’ipotesi che l’istanza di liquidazione sia proposta dopo la cancellazione, ma
prima del decorso del termine per l’estinzione, il Giudice non può liquidare onorari,
diritti e spese spettanti al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ma può provvedervi una volta che è decorso tale termine e dopo che il difensore
ha riassunto la causa al fine di far valere l’estinzione del processo per inattività delle
parti ex art. 307 c.p.c. (Tribunale Torino, sez. II, 29 giugno 2005).
Allorquando l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato intervenga nel corso
del giudizio di cassazione, dopo che la parte ammessa al beneficio abbia già nominato
un difensore, diverso da quello a spese dello Stato, e questi abbia svolto attività difensiva (nella specie, redazione e deposito del controricorso), la regola posta dall’art. 133 d.lg.
30 maggio 2002 n. 115, secondo cui, in caso di ammissione al patrocinio a spese dello
Stato, la condanna alle spese della parte soccombente va fatta in favore dello Stato, le
spese possono essere liquidate per una quota in favore della parte, per provvedere al pagamento del difensore che ha svolto attività difensiva, e nella restante parte in favore dello Stato. (Cassazione civile , sez. I, 21 gennaio 2005, n. 1345).
Per importi spettanti al difensore ai sensi dell’art. 130 del D.P.R. n. 115/2002 devono intendersi sia gli onorari che i diritti di procuratore.
Ciò si evince chiaramente dal fatto che il citato articolo 130 del D.P.R. n. 115/2002
è intestato Compensi al difensore, dell’ausiliario del magistrato e del consulente tecnico di parte sicché tre circostanze depongono univocamente per l’interpretazione data alla norma:
1) il fatto che nell’intestazione della norma si usi l’espressione compensi, che è
volutamente genericissima e comprende certamente nella sua univoca area semantica
sia gli onorari di avvocato che i diritti di procuratore;
2) il fatto che nel testo della norma si usi l’espressione importi, che è addirittura,
semanticamente ancora più estesa e definitivamente omnicomprensiva di compensi;
3) il fatto che vengano disciplinati in maniera identica i compensi dovuti all’avvocato, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte, con ciò risultando evidente che il legislatore ha inteso introdurre un criterio di liquidazione generale che prevede il dimezzamento delle somme previste da tutte le tariffe che
possano venire in discussione in una liquidazione. Dunque la norma non contiene alcun riferimento a un qualsivoglia possibile diverso regime - nell’ambito dei
compensi e degli importi - fra somme dovute per onorari di avvocato e somme
dovute per diritti di procuratore.
La c.d. tassa di parere pagata al Consiglio dell’ordine va rimborsata al difensore
di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato nella misura corrispondente al valore dell’onorario effettivamente liquidato, e non a quello richiesto dal difensore. (Tribunale Napoli, 10 marzo 2005).
148
In materia di patrocinio dei non abbienti a spese dello Stato, nella liquidazione
del compenso al difensore deve essere ricompreso anche l’importo della tassa richiesta dal consiglio dell’ordine per rilasciare il parere sulla congruità degli onorari professionali, trattandosi di spesa ripetibile ex art. 1196 c.c., secondo cui sono a carico del
debitore le spese di pagamento (Cassazione penale, sez. I, 12 maggio 2004, n. 25682).
12. Il reclamo avverso il provvedimento di liquidazione. In tema di patrocinio a
spese dello Stato e nel regime di cui al d.P.R. n. 115 del 2002, avverso il provvedimento di liquidazione degli onorari al difensore nominato in un procedimento per causa di
lavoro, è proponibile opposizione dinanzi al presidente dell’ufficio giudiziario competente, attesa l’incidentalità necessaria del relativo procedimento e di quello col rito del
lavoro dal quale esso deriva, mentre contro l’ordinanza che definisce l’opposizione è proponibile ricorso per cassazione nelle forme e nei termini previsti dal codice di procedura ciivle. Ne consegue che il deposito dell’eventuale ricorso per cassazione dev’essere
preceduto a pena d’inammissibilità dalla notificazione a coloro che rivestono, ai sensi
dell’art. 170 del t.u. n. 115 del 2002, richiamato dall’art. 84, la qualità di parti necessarie del giudizio d’opposizione. (Cassazione civile, sez. II, 13 marzo 2007, n. 5881).
L’opposizione, proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese
dello Stato, attraverso la quale viene contestato il decreto di pagamento degli onorari,
non può essere accolta quando il provvedimento di ammissione interviene successivamente alla pronunzia della sentenza, non essendo stata espletata alcuna attività difensiva (Tribunale Cosenza, 25 novembre 2003 - Giur. merito 2004, 1682).
Anche in assenza di espressa previsione normativa (dell’art. 180 del d.P.R. n. 115
del 2002) si deve ritenere che il difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato possa proporre direttamente opposizione al decreto di liquidazione degli onorari. Questi, infatti, ai sensi dell’art. 84 del medesimo testo unico, una volta ottenuta l’ammissione al patrocinio, è titolare della legittima aspettativa ad essere “beneficiario” di
un provvedimento favorevole di pagamento (Tribunale Cosenza, 25 novembre 2003).
I provvedimenti emessi dal tribunale o dalla Corte d’appello in sede di opposizione o reclamo avverso il decreto di liquidazione del compenso al difensore sono ricorribili per cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art. 111 cost. in quanto, pur
non essendo formalmente qualificati come sentenze, hanno carattere decisorio e capacità di incidere in via definitiva su diritti soggettivi (Cassazione penale, sez. un., 28 maggio 2003, n. 25080).
Nelle ipotesi di ricorso avverso il rigetto delle istanze di ammissione al patrocinio a spese dello stato e per i procedimenti di opposizione ai decreti di pagamento previsti dall’ art. 170 del citato Testo Unico sulle spese di giustizia è dovuto il pagamento
del contributo unificato, previsto dall’ art. 13, lett. a) del medesimo Testo Unico, pari
ad euro 62. I detti ricorsi devono essere iscritti nel «ruolo generale degli affari civili non
contenziosi e da trattarsi in camera di consiglio» (art. 13, n. 18, D.M. n. 264 del 27 marzo 2000). Così si è espressa la risoluzione 6 maggio 2003, n. 1/5830/U/03 del Ministero della Giustizia.
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RomanaDOTTRINA
temi
Avv. Filippo Maria SALVO
Le “nuove” cause di
esclusione dagli appalti
pubblici
Parte prima: il collegamento sostanziale.
n che modo l’entrata in vigore del Codice degli appalti pubblici ha cambiato – se lo ha
fatto – la configurazione giuridica delle cause di esclusione dalle gare? Quali sono le
problematiche che attualmente sono più dibattute e quali quelle che maggiormente si profilano all’orizzonte come terreno di confronto tra stazioni appaltanti e concorrenti?
Questa breve rassegna si prefigge di fare il punto della situazione in materia, offrendo spunti e soluzioni interpretative, relativamente alle vicende sopra descritte.
I
1. Il collegamento sostanziale negli appalti pubblici.
1.a. Cenni storici: nascita del concetto di collegamento sostanziale.
In base all’art. 10, comma 1 bis della l. 7 febbraio 1994, n. 109, “non possono partecipare alla medesima gara imprese che si trovino fra di loro in una delle situazioni di
controllo di cui all’articolo 2359 del codice civile”.
L’art. 2359 anzidetto dispone che: “sono considerate società controllate:
1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Ai fini dell’applicazione dei nn. 1 e 2 del primo comma si computano anche i voti
spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi”.
Lo stesso articolo, poi, attribuisce rilievo anche alle situazioni di collegamento c.d.
“civilistico” tra due o più imprese, nel senso che “sono considerate collegate le società
sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un
decimo se la società ha azioni quotate in borsa”.
Nel caso degli appalti pubblici, la lettera dell’art. 10, comma 1 bis summenzionato, rinviava espressamente all’art. 2359 Cod. civ., nel suo complesso, dunque, sia alla situazione di controllo, sia alla situazione di collegamento “civilistico”.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa si era consolidata nel senso di attribuire rilevanza – ai fini dell’esclusione di due o più ditte da una gara pubblica – non solo alla situazione di controllo (e/o di collegamento civilistico, nel senso sopra detto), ma anche a situazioni “diverse”, etichettate come “collegamento sostanziale”.
150
Anzi, a dir di più, il collegamento sostanziale rappresenta il 41,2% delle cau-
se di esclusione di ditte da gare pubbliche, secondo la comunicazione 16 marzo
2005 dell’Autorità (dato significativo, se si pensa che, ad esempio, il fallimento del-
l’appaltatore si colloca a “centro classifica”!).
Per riassumere, due o più imprese possono essere estromesse da una gara
pubblica d’appalto se si trovano in una delle seguenti situazioni:
Controllo
Art. 2359,
commi 1 - 2
Collegamento “civilistico”
Art. 2359,
comma 3
Collegamento sostanziale
Esclusione dopo che si sia
rilevato ed acclarato
il collegamento.
Esclusione “automatica” (o “juris et de jure”)
Ma, all’atto pratico, in cosa consiste questa situazione di “collegamento
sostanziale”? In breve: da quali elementi si “capisce” che due o più imprese sono
collegate in senso sostanziale?
Lo spiega l’Autorità per la vigilanza sui LL.PP. (ad es.: delib. n. 101/2004) e la
Giurisprudenza amministrativa di riferimento, pronunciatasi e consolidatasi nel corso degli anni (tra le tantissime, si vedano, ad es.: sent. Cons. Stato, VI, n. 6367/2004; idem,
n. 923/2002). In sintesi (e per esigenze di chiarezza e di brevità), valga il seguente schema riassuntivo, nel quale il concetto di collegamento sostanziale è analizzato dal punto
di vista della giurisprudenza e dal punto di vista dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici.
Elementi del collegamento comuni all'interpretazione
della giurisprudenza e dell'autorita'
1.
Polizze fidejussorie rilasciate dalla stessa compagnia;
2.
intrecci parentali o di organi rappresentativi;
3.
modalità di presentazione dell'offerta;
4.
identità di sede/utenze…
Attualmente, l’art. 34 u.c. del Codice dei contratti pubblici impone alle stazioni appaltanti di escludere le ditte concorrenti ad una gara che denotino univoci elementi di collegamento, tali da ricondurle tutte ad un unico centro di imputazione di interessi.
In definitiva, oggi il Codice dei contratti pubblici impone alle stazioni appaltanti di
estromettere le ditte collegate.
Invero, il Codice dei contratti pubblici adotta una formulazione più ampia quanto alla individuazione delle fattispecie che possono portare alla esclusione di due o più concorrenti da una gara, prevedendo espressamente che “non possono partecipare alla medesima
gara concorrenti che si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo di cui all’articolo 2359 del codice civile. Le stazioni appaltanti escludono altresì dalla gara i concorren1.b. Attuale situazione normativa.
151
RomanaDOTTRINA
temi
ti per i quali accertano che le relative offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale, sulla base di univoci elementi”.
Dunque, il legislatore ha inteso dettare una disposizione di ampio respiro, tale
da portare alla esclusione delle ditte concorrenti le offerte delle quali (verrebbe da dire, “per un motivo o per un altro” ed indipendentemente dal nomen juris attribuito alla relazione giuridica individuata) siano “sono imputabili ad un unico centro decisionale, sulla base di univoci elementi”.
Con buona approssimazione, può dirsi che il requisito della “unicità del centro
decisionale” rilevato a fronte di univoci elementi, può tradursi con quattro espressioni: controllo, collegamento “civilistico”, collegamento sostanziale e turbativa d’asta.
In effetti, tali istituti giuridici e figure patologiche individuano tutte le possibili correlazioni (“unicità del centro decisionale”) tra due o più concorrenti, correlazioni sorgenti ora da accordi contrattuali (controllo e collegamento civilistico), ora da vicende più articolate e complesse (collegamento sostanziale), ora da una unicità di intenti nella commissione di un reato (turbativa).
Come si fa ad individuare ed a verificare se due ditte concorrenti sono o non sono collegate in senso sostanziale?
A sommesso avviso dello scrivente, la questione può risolversi in modo molto
semplice e pratico, secondo il seguente prospetto:
1.c. Le forme del collegamento sostanziale.
Collegamento sostanziale: tipologie
“Interno” Quando attiene agli elementi costitutivi delle imprese collegate (ad es.:
composizione dell'azionariato, partecipazioni incrociate; patti parasociali, sede comune,
titolare comune, organi tecnici o rappresentativi comuni o incrociati, utenze, marchi e
segni distintivi, certificati SOA, qualità o CCIIAA).
“Esterno” Quando non attiene agli elementi costitutivi, ma al modo di prendere parte
alla gara ovvero agli elementi di gara (ad es.: la garanzia rilasciata dalla stessa
assicurazione o banca nello stesso giorno, le modalità di presentazione “grafica” delle
offerte, la collaborazione con consulenti esterni che preparano le offerte o l'utilizzo
dello stesso spedizioniere, ribassi “a catena”, eventuali segnalazioni delle ditte per
collegamento sostanziale già disposte da precedenti stazioni appaltanti).
Misto: il collegamento sostanziale “statisticamente” si appalesa
non tanto in una forma o nell'altra, ma in un insieme di elementi comuni alla
tipologia “interna” ed alla tipologia “esterna” (ad es.: due o più ditte hanno sede
nello stesso indirizzo, presentano cauzioni rilasciate dalla stessa compagnia di
assicurazioni e si avvalgono dello stesso spedizioniere)
152
Attenzione, però: il grafico semplifica il problema, ma non lo risolve del tutto. Infatti, se può dirsi che, in presenza di una serie di elementi sopra riportati può “presumersi” che
un collegamento vi sia, nondimeno è possibile che – soprattutto per quel che riguarda gli elementi di collegamento “esterno” – le analogie tra le offerte presentate dalle concorrenti possano trovare una plausibile spiegazione ben diversa dall’accordo illecito finalizzato all’aggiudicazione della gara.
Un esempio chiarirà. Si ipotizzi che due ditte presentano la cauzione rilasciata dalla stessa compagnia di assicurazioni, con numeri di polizza sequenziali. L’ipotesi può denotare un
collegamento sostanziale, ma potrebbe anche non essere decisiva, se il motivo di stipula della polizza presso lo stesso assicuratore risiede nel fatto che questo pratica un prezzo molto competitivo sul mercato o nel fatto che, in un piccolo centro, la agenzia di assicurazioni è l’unica
della zona autorizzata a rilasciare polizze ai fini della partecipazione a gare (o è agenzia generale, unica competente per un determinato territorio). La stessa cosa può dirsi per quanto riguarda il certificato SOA (collegamento esterno).
In definitiva, secondo logica, la stazione appaltante non dovrebbe mai limitare la propria indagine a verificare la sussistenza degli “univoci elementi” sopra descritti, dovendo quanto meno dare alle due concorrenti la possibilità di esporre le ragioni delle somiglianze evidenziatesi
in sede di gara (magari, nei modi e nelle forme dell’art. 10 bis l. 7 agosto 1990, n. 241).
In un tale contesto, per motivi di intuitiva comprensione, possono giocare un ruolo fondamentale, nel senso della insussistenza degli elementi di collegamento sostanziale la predisposizione di regolamentazione interna alle imprese, tale da scongiurare o fortemente limitare l’esistenza di collegamenti. Ci si riferisce, fondamentalmente, alla predisposizione di un
regolamento ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni…”) e di un d.p.s. ex d.lgs. 30
giugno 2003, n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”).
Il collegamento sostanziale è una situazione giuridica sanabile in ogni momento, mediante l’eliminazione degli elementi che lo hanno evidenziato.
Ad esempio, se due concorrenti sono state escluse da una gara perché aventi la stessa
sede, le stesse utenze e perché il sig. Caio, amministratore dell’una, era direttore tecnico dell’altra, sarà sufficiente che il Caio rinunci ad una delle due cariche, che una delle due ditte
sposti la sua sede sociale e che le utenze in comune siano disattivate.
A tali operazioni deve conseguire una istanza, rivolta alla stazione appaltante che aveva determinato la annotazione nel casellario informatico dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, di “presa d’atto” della cessazione degli elementi di collegamento e contestuale richiesta alla Autorità medesima di cancellare l’annotazione di collegamento o ri-annotare le due o più ditte come “non più collegate”. Segue l’atto di ri-annotazione/cancellazione
dell’Autorità (c.d. “ripulitura” o “purgazione” della annotazione).
Ovviamente, la “riannotazione” o la cancellazione della annotazione non mette le ditte già collegate al riparo da ulteriori esclusioni ed annotazioni qualora reiterino – magari con
forme diverse – il comportamento ascrivibile a collegamento.
1.d. Come si elimina la situazione di collegamento sostanziale.
153
1.e. Le conseguenze anticoncorrenziali
del collegamento sostanziale.
Conclusioni.
Per quale motivo, infine, la situazione di collegamento sostanziale rappresenta un comportamento anticoncorrenziale?
Per rispondere a questo quesito, occorre, prima di tutto, ricordare quanto affermato
dalla giurisprudenza, dall’Autorità e dalla dottrina di riferimento (Giovannini – Cianflone,
L’appalto di opere pubbliche, XI ed., Giuffrè, pagg. 305 segg., e giurisprudenza ivi citata in
nota 68), in merito al già ricordato art. 10, c. 1 bis, l. n. 109/1994 (oggi, come già ricordato, art. 34, u.c., Cod. Contr. Pub.):
“…si tratta di una norma di ordine pubblico che trova applicazione indipendentemente
da una specifica previsione in tal senso da parte dell’amministrazione appaltante: l’oggetto giuridico tutelato è quello del corretto e trasparente svolgimento delle gare per l’appalto
dei lavori pubblici nelle quali il libero gioco della concorrenza e del libero confronto,
finalizzati – come delineato - alla scelta del “giusto” contraente, risulterebbero irrimediabilmente alterati dalla eventuale presentazione di offerte che, pur provenendo formalmente
da due o più imprese giuridicamente diverse, siano sostanzialmente riconducibili ad un medesimo centro di interessi…” (Cons. Stato, VI, n. 6367/2004 cit.).
Fondamentalmente, dunque, la situazione di collegamento sostanziale di due o più imprese che partecipano alla stessa gara d’appalto rappresenta un illecito concorrenziale, sussumibile nella fattispecie dell’intesa restrittiva della concorrenza.
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RomanaDOTTRINA
temi
Dott. Giuseppe CARRIERO
Economia e legislazione:
spunti di riflessione
ed esercizi applicativi.
Sommario:
1. Premessa metodologica; 2. Gli economici del nuovo diritto societario; 3. Quelli
della disciplina italiana delle azioni collettive.
.Indagare gli effetti economici della legislazione suppone preliminarmente chiari-
re il nesso epistemologico che attraversa i due termini del sintagma. Cosa cioè
debba intendersi per “effetto economico”; con riguardo a quali destinatari; attraverso quali unità di misura valutarlo; quale parte della legislazione considerare. Ma, prima e soprattutto, se possa imputarsi all’attività legislativa il fine ultimo di produrre
o non produrre effetti economici piuttosto che di disciplinarli, a fronte dell’insopprimibile contenuto descrittivo della norma giuridica che tradizionalmente sottende
una sua irenica funzione di composizione dei conflitti in quanto tecnica ordinatrice
dell’agire umano. I suoi predicati di astrattezza e generalità, nell’indicare fatti senza nome e senza volto, vale a dire schemi tipici ripetibili in un numero indefinito di
casi, ne esalterebbero infatti consustanziali caratteri di neutralità.
Così impostata, la questione rischia da subito di trascinarsi nelle secche dell’antitesi tra naturalità ed artificiosità della legislazione e, più in generale, dello stesso diritto. Potrà intanto osservarsi che risulta oggi dominante l’orientamento che assegna alla legge la scelta certo non neutrale dei modi attraverso cui regolare i conflitti, con ciò espressamente riconoscendo il carattere politico delle soluzioni giuridiche, secondo alcuni addirittura istitutive dell’ordine giuridico del mercato (Irti). E
tuttavia, anche convenendo con tale impostazione, a quali teorie economiche fare riferimento per la valutazione degli effetti? l’analisi economica del diritto è suddivisa in scuole di pensiero spesso antitetiche; misura gli effetti microeconomici delle
scelte; è spesso a ragione imputata di pan - efficientismo, che non è considerato criterio idoneo a spiegare tutti i fenomeni giuridici. Per contro, l’approccio macroeconomico che ispira valutazioni e graduatorie dei principali organismi sovranazionali
trascura sovente le differenze tra gli ordinamenti giuridici, privilegiando i caratteri
imperialistici della common Law. E ancora, nel valutare gli effetti economici della
legislazione, quali beni giuridici occorrerà ritenere prioritari? La norma che, fin dagli inizi degli anni novanta del secolo trascorso, ha sottratto all’eccezione propria delle obbligazioni naturali gli strumenti finanziari derivati prestati quali servizi d’investimento è stata un potente motore di sviluppo dei relativi mercati e, in questi termini, fattore di crescita economica (della economia finanziaria) e di ricchezza. Ha tuttavia prodotto anche, per il tramite della nuova funzione creativa e non solo distri-
1
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temi
butiva dei beni assegnata al contratto (i prodotti finanziari “derivati” sono invero creati e costituiti da contratti), l’aumento e la disseminazione del rischio finanziario tra
fasce crescenti di operatori economici e risparmiatori, i cui effetti sono oggi drammaticamente evidenti.
Come conciliare le due esigenze meritevoli di tutela? Con quali strumenti?
Vale, conclusivamente sul punto, intanto qui ribadire che la funzione della legislazione non può ridursi alla mera sua dimensione economica, altri (e socialmente più rilevanti) essendo i valori che essa mira ad affermare e proteggere, valori che
investono le radici del vivere civile, la stessa intima essenza del “contratto sociale”.
Nelle pagine che seguono, che vogliono rappresentare un mero (e provvisorio) esercizio applicativo, si proverà a effettuare una valutazione degli effetti economici relativi a due importanti segmenti delle legislazione nuova assumendo quali dichiaratamente minimali parametri di riferimento gli incentivi/disincentivi forniti dal
legislatore alla libertà di iniziativa economica privata e alla tutela dei diritti. Ciò nel
presupposto che, indipendentemente da questioni di metodo e di misura, incentivare o disincentivare comportamenti economicamente rilevanti significa, nel mercato
globale delle regole (Zoppini), favorire o ostacolare la concorrenza nella produzione di beni, servizi, opere dell’ingegno. Significa esaltare l’innovazione, l’assunzione del rischio in condizioni di incertezza, la crescita economica ovvero, all’incontro, garantire collusioni, rendite di posizione, extra profitti. Come avvertito, la norma giuridica non può e non deve ridursi ad ancillare strumento di efficienza economica. Aver chiara la sua funzione promozionale negli ambiti considerati è tuttavia
indispensabile per evitare disuguaglianze, iniquità, abusi derivanti da ostacoli alla
concorrenza a carico di imprese, cittadini, consumatori. Per fare cioè in modo che
l’evoluzione dell’ordinamento si radichi sui saperi piuttosto che su sterili e preconcetti ideologismi.
Appunterò, in siffatta chiave interpretativa e con la sintesi imposta dalle circostanze, l’attenzione sul nuovo diritto societario e sulle azioni collettive.
2. La riforma del diritto societario (intendendosi per tale quella portata dal d.lgs.
n.6 del gennaio 2003 e dai successivi decreti “correttivi” n. 37 del febbraio e n. 310
del novembre 2004) ha modificato, quasi capovolto, l’impostazione del codice civile del 1942. In questo dominava, quasi ossessivamente, un unico modello contrattuale con comunione di scopo (sempreché possa, per la società di capitali, farsi sul
piano euristico riferimento al contratto), predeterminato dal legislatore nei contenuti (o almeno nella gran parte di essi) a fini di tutela di interessi generali spesso diversi da quelli dell’impresa; connotato perciò da prescrizioni prevalentemente imperative; con notevoli restrizioni tanto riguardo alle fonti di finanziamento, quanto
a funzioni del patrimonio sociale diverse da quelle di mera tutela dei creditori. Le
uniche differenze hanno, a partire dalla prima metà degli anni settanta del secolo trascorso, nella legislazione speciale riguardato le sole società con titoli quotati e si sono infine riflesse nell’autonoma collocazione e rubrica nel Capo Il del Testo unico
dell’intermediazione finanziaria.
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Per converso, la novella del codice civile ha, in parte qua, sancito la semplificazione del diritto vigente, esaltata l’autonomia statutaria, valorizzato il carattere
imprenditoriale delle società, estesi i canali di finanziamento, graduato l’imperatività e l’inderogabilità delle relative disposizioni in via decrescente con riguardo
alle due tipologie disciplinari nelle quali si articola ora la fattispecie società per
azioni (cfr. art. 2325 - bis cod. civ.) a seconda che l’impresa faccia o no ricorso al
mercato del capitale di rischio e perciò solleciti esigenze di protezione degli azionisti - risparmiatori più
l meno intense. Il c.d. decalogo delle libertà (Alpa) abbraccia, in sintesi estrema,
la libertà di costituire società unipersonali per azioni; le libertà statutarie; le libertà di clausole atipiche, un tempo guardate con sospetto; le libertà di scegliere tre
diversi modelli di amministrazione e controllo; la libera configurazione dei diritti azionari; la libera gestione dell’impresa da parte degli amministratori in quanto affrancata dall’assemblea; la libera conclusione di patti parasociali; la libertà
nel recesso; la libera costituzione di patrimoni
l finanziamenti destinati; infine, il libero ricorso all’arbitrato per la risoluzione
delle controversie tra soci
l tra questi e la società. Nella società a responsabilità limitata la destrutturazione è massima. Al punto che la elevata disseminazione di norme dispositive ha
addirittura fatto revocare in dubbio l’appartenenza di questo tipo societario al
genus società di capitali, prevalendo le caratteristiche di una società personale
basata sul legame fiduciario tra i soci.
Il presupposto risiede nel mutamento di prospettiva in ordine alle ragioni che
giustificano l’intervento del legislatore in materia societaria e nella stessa essenza
delle relative prescrizioni. Se la domanda tesa a conoscere a cosa servano le leggi
sulle società di capitali poteva, nella vigenza della disciplina codicistica del 1942,
pacificamente venire soddisfatta attraverso il richiamo ai bisogni di tutela soprattutto degli azionisti e dei creditori quale contropartita alla finzione giuridica attributiva della “personalità” e perciò all’esigenza di “apprestare salde garanzie contro le speculazioni avventate e insidiose” (così nella relazione al codice di commercio del 1865), l’attendibilità (o, quanto meno, l’esaustività) di tale risposta risulta dubbia dopo la riforma. Se infatti il superamento della “tentazione dirigistica” del previgente sistema “che rimetteva al legislatore piuttosto che alle imprese
e, in ultima analisi, al mercato, la decisione su ciò che alle imprese giova oppure
nuoce” (Galgano) rappresenta la cifra distintiva dell’intervento legislativo, la risposta breve non può che essere ora molto simile a quella fornita, in altri ordinamenti, dalla letteratura di law & economics , e cioè che “il diritto delle società di
capitali costituisce” attraverso la fitta trama di nome dispositive e, soprattutto, suppletive “un insieme di regole disponibili senza fatica, cosicché i partecipanti possono risparmiare i costi di contrattazione” (Easterbrook - Fischel), risultando l’intervento con severe norme imperative limitato “solo là dove occorreva prevenire
abusi o distorsioni” (Galgano).
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RomanaDOTTRINA
temi
Le ragioni di tale radicale mutamento di prospettiva sono efficacemente illustrate dalla legge di delega con specifico riferimento agli obiettivi di favorire, attraverso la riforma, tra l’altro “la nascita, la crescita, la competitività delle imprese”; di
valorizzarne “il carattere imprenditoriale”; di semplificarne la disciplina, tenendo conto “del mercato concorrenziale”; di “ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria”;
di “adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, anche in
considerazione-delle modalità di finanziamento” (art. 2 I. 2 ottobre 2001, n. 366).
Ma quali tangibili effetti economici ha prodotto questa innovativa legislazione?
La risposta non è facile, anche in quanto i mutamenti legislativi scontano risultati misurabili solo nel medio - lungo termine. Basti osservare, in chiave comparata, che l’introduzione nell’ordinamento francese della società per azioni semplificata (avvenuta con una legge del 1994) ha comportato significative modifiche nel
tessuto imprenditoriale del paese solo a distanza di un decennio. Si aggiunga che,
dopo la riforma del diritto societario, l’evoluzione della disciplina giuridica dell’impresa
ha fatto registrare orientamenti ondivaghi quando non veri e propri ripensamenti. A
fronte dei gravi episodi che, muovendo dal dissesto di importanti società, hanno interessato i mercati finanziari, la risposta dell’ordinamento è infatti consistita - attraverso la legge sulla tutela del risparmio n. 262/05 - in una parziale ma importante rivisitazione dell’assetto legislativo della corporate governance, segnatamente dell’impresa con titoli quotati. Dalla rinnovata composizione degli organi amministrativi e di controllo ai limiti del cumulo degli incarichi; dalle azioni di responsabilità
alle disposizioni sui conflitti d’interesse; dalla responsabilità dei dirigenti preposti
alla redazione dei documenti contabili al sistema dei controlli esterni, alla stessa disciplina delle autorità di vigilanza settoriale, i meccanismi giuridici preesistenti sono risultati profondamente modificati. Più in generale, questa legge - come il Sarbanes - Oxley Act americano, al quale sostanzialmente si ispira - ha posto in rilievo
la tendenza a una maggiore durezza dell’assetto legislativo a scapito dell’autonomia
statutaria, in parte così contraddicendo alcune importanti modifiche introdotte dalla
riforma del diritto societario. Il successivo decreto di coordinamento (d. lgs. n.
303/2006) ha in parte mitigato l’estremo rigore formale di alcune disposizioni della
legge sul risparmio, apportando importanti modifiche a istituti per vero difficilmente giustificabili (si pensi all’obbligo del voto a scrutinio segreto per l’elezione delle
cariche sociali, che configgeva col principio di trasparenza e con l’identificabilità dei
soci favorevoli, astenuti o dissenzienti anche ai fini dell’impugnazione della delibera assembleare). Resta tuttavia sullo sfondo la percezione di una politica legislativa
incerta, attraversata da generosi slanci di aperture al mercato internazionale e da repentini pentimenti che non può non riflettersi sul “diritto vivente”, rendendo altrettanto ondivaghi gli orientamenti della dottrina e, soprattutto della giurisprudenza. Il
clima di incertezza che da ciò deriva certo non favorisce l’impresa. Incide infatti sulla stabilità delle leggi che, per l’impresa come per il cittadino, rappresenta un valore, una precondizione della loro effettività. L’essere le norme in esame di lunga durata costituisce invero la condizione fondamentale che assicura certezza ai soggetti
158
coinvolti negli scambi anche in termini di prevedibilità circa le aspettative riposte nell’attività negoziale nonché le conseguenze legate alla violazione delle medesime regole. Al tempo stesso, la non modificabilità di tali norme di ordine pubblico economico “preserva l’uniforme regolamentazione di tutte le operazioni che si svolgono
nel mercato” (Jannarelli)
La cautela imposta dalle considerazioni che precedono non esclude, tuttavia,
che possa intanto provarsi a identificare un qualche risultato economicamente rilevante.
Provo a segnalarne tre, che mi sembrano sufficientemente consolidati.
Un primo risiede nella espansione ormai irreversibile dell’area dell’autodisciplina. Nel rinnovato ambiente economico, la formazione negoziale del diritto è senz'altro
chiamata a svolgere, con maggiore forza e, soprattutto, con maggiore incisività, la
sua tradizionale funzione additiva rispetto alle fonti che sono espressione del principio di sovranità. Di ciò costituisce importante testimonianza la rimessione all’autodisciplina (da parte tanto del legislatore domestico quanto di quello comunitario) di
funzioni integrative se non addirittura sostitutive di quelle proprie degli Stati o dell’Unione. Il nuovo diritto societario non è avaro di disposizioni della specie. II codice di autodisciplina delle società quotate rappresenta una importante fonte integrativa della norma primaria. I codici deontologici adottati da importanti imprese e gruppi italiani principalmente al fine di individuare “modelli di organizzazione e di gestione” in grado di circoscrivere la responsabilità amministrativa delle società per i
reati ex d. lgs. n. 231/01 estendono la loro portata da tale nucleo minimo alla promozione di regole di condotta nella conduzione degli affari rilevanti a fini di competizione sovranazionale. Non sembra perciò azzardato affermare che tra autopoiesi
e regolamentazione eteronoma (primaria e secondaria) del mercato, il rapporto possa concepirsi in termini di sussidiarietà, giustificandosi la compressione dell’autonomia
dei privati, degli accordi associativi, solo in presenza di beni pubblici essenziali, ovvero a fronte dell’inerzia o dell’insufficienza di iniziative della specie. In tale direzione spinge anche il rango costituzionale recentemente conferito a questo principio
dalla Carta fondamentale (cfr. art. 118, co. 4) oltre che dal Trattato. Sotto il versante
economico, è appena il caso di osservare che l’area negoziale del diritto favorisce, in
assenza di confini territoriali, regole di condotta tese a livellare il terreno di gioco, e
perciò concorrenza e allargamento dei mercati, da un lato; riduce, attraverso norme
di default, costi transattivi di elevato ammontare in sede di conclusione del contratto come di sua esecuzione, dall’altro. Più in generale, attraverso la standardizzazione dei relativi principi, delle relative regole di comportamento, risponde a criteri di
efficienza economica, produce valore, crea ricchezza.
Un secondo, importante effetto economico indotto dalla libertà di scegliere tra
i tre diversi modelli di amministrazione e controllo consiste, per un verso, nella conformazione dell’impresa italiana a modelli di governance in uso in mercati internazionali e, per altro verso, nella possibilità di modulare l’organizzazione dell’impresa agli obiettivi economici concretamente perseguiti e alle modalità prescelte per per-
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RomanaDOTTRINA
temi
seguirli. Mi spiego: convenendo con l’avviso di poter ravvisare nella società per azioni una tecnica di organizzazione delle modalità di finanziamento, della gestione e del
rischio/responsabilità nell’esercizio dell’impresa in forma collettiva (da ultimo,
Chiappetta), il ricorso a un modello organizzativo (quale quello monistico) fondato
sulla dialettica “interorganica” (interna cioè all’organo amministrativo) tra chi gestisce e chi controlla piuttosto che sulla rigida separazione dei ruoli ovvero al modello duale, che tende a trasferire i contenuti di un patto parasociale all’interno della società (più precisamente, nel consiglio di sorveglianza), o infine al tradizionale
modello latino sottende una previa valutazione tanto degli assetti proprietari quanto
delle forme più idonee a realizzare creazione di valore a favore dei protagonisti (di
tutti i protagonisti, total value creation) della iniziativa economica. Ciò dischiude maggiori possibilità di competere nel mercato globale, facilitando - a seconda dei casi fenomeni aggregativi, disgregativi, comunque riorganizzativi. La testimonianza più
evidente è rappresentata dalle recenti fusioni bancarie. Indipendentemente da valutazioni inerenti alla idoneità delle singole operazioni a realizzare un efficace contemperamento degli interessi in gioco e, per questa via, un efficiente governo societario, non pare dubbio che aver assicurato all’imprenditore bancario più ampi margini di libertà nell’adozione delle forme organizzative abbia potuto favorire (attraverso la scelta del modello simil renano) processi di aggregazione altrimenti maggiormente complessi se affidati alla sola disponibilità della tradizionale ripartizione
delle competenze tra consiglio di amministrazione e collegio sindacale.
Il terzo (e, nell’analisi proposta, ultimo) effetto economico è di tipo empirico
- descrittivo. Dati Unioncamere del 2007 (vale a dire di tre anni successivi all’entrata in vigore della riforma) segnalano che seppure oltre 24 mila società per azioni
confermano il tradizionale sistema di governance, un numero crescente di società presceglie il sistema dualistico (342), mentre quello monistico mostra chiare difficoltà
ad affermarsi (n. 143 società). Il risultato non è comunque al momento significativo
sia per la naturale ritrosia a modificare assetti statutari (e conseguenti equilibri) consolidati nel tempo, sia per la timidezza del legislatore ad esaltare le differenze tra i
diversi modelli. Non aiutano infine le incertezze sui confini tra amministrazione e
controllo, segnatamente nel modello duale.
3. Sull’azione collettiva risarcitoria, introdotta dalla I. 24 dicembre 2007, n.244
(legge finanziaria per il 2008) attraverso l’inserimento nel codice del consumo di un
art. 140- bis, si sono succeduti, sulle principali riviste giuridiche come sulla stampa,
molteplici autorevoli e qualificati interventi tesi a illustrare, sul piano generale come su quello applicativo, le principali caratteristiche della disciplina, la sua importanza, i suoi limiti. L’attenzione è giustificata dai potenziali benefici (diffusamente
illustrati dalla letteratura economica) ascrivibili ad un efficiente uso dell’istituto, segnatamente in punto di riduzione dei costi di accesso alla giustizia per i singoli danneggiati; di snellimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari per effetto della
concentrazione di una pluralità di istanze; di predeterminazione del danno a carico
dell’impresa; di deterrenza nei confronti degli operatori economici.
160
Solo per finalità di corretto inquadramento, nell’ordinamento vigente, di tale
nuova disciplina, mette conto chiarire che le esigenze di tutela collettiva possono, in
primo luogo, consistere in quelle di una pluralità di soggetti esposti al rischio della
lesione dei propri diritti o della propria sfera patrimoniale: in tal caso si tratta di prevenire l’illecito dannoso ovvero di limitarne le conseguenze, evitando il protrarsi dell’illecito. Le azioni collettive di questo primo tipo (nell’esperienza americana le c.d.
injuntive class actions) sono già presenti e note alla, nostra esperienza giuridica. Basti pensare alla tutela dell’ambiente e della salute nei rapporti di vicinato e nei luoghi di lavoro, all’annullamento delle clausole abusive o vessatorie, alla cessazione
della pubblicità ingannevole, alla repressione dei comportamenti anti sindacali e così via. Diverse da queste sono le azioni collettive tese a tutelare le esigenze di coloro che abbiano già subito un danno e pretendano di essere risarciti (c.d. damages class
actions). Nel primo caso l’interesse collettivo assume effettiva rilevanza sul piano
formale perché la cessazione della condotta plurioffensiva è idonea a soddisfare congiuntamente ciascuno e tutti gli interessati. Nel secondo si è invece in presenza di
una pluralità di interessi individuali. Sebbene la fonte del danno sia unica e comune
a tutti, la soddisfazione di ciascuno implica la reintegrazione dei singoli patrimoni.
Operazione questa all’evidenza maggiormente complessa tanto strutturalmente quanto, prima ancora, ontologicamente. E’precisamente questa seconda tipologia di azione collettiva l’oggetto specifico della norma in rassegna.
Prescelta la strada (maggiormente vicina alle esperienze europee) della legittimazione da parte degli enti esponenziali piuttosto che quella delle azioni instaurate dal singolo nell’interesse anche di una pluralità di soggetti (e cioè dell’azione di
classe, meglio nota, nell’esperienza statunitense, come class action) i maggiori rilievi problematici hanno, a ragione, investito i criteri di accertamento della rappresentatività da parte di soggetti diversi dalle associazioni dei consumatori riconosciute
dal codice del consumo e le questioni inerenti la retroattività/irretroattività della norma. Le scelte del legislatore non brillano infatti per chiarezza e lungimiranza sotto
entrambi i considerati versanti. Quanto al primo, la decisione dell’ultima ora (frettolosa quanto e più dell’intera norma di legge) è consistita nel rimettere al tribunale
il vaglio della “adeguata rappresentatività” dell’ente (che si assume) esponenziale
degli interessi in gioco. Essa evoca i criteri utilizzati dalle corti americane per la certification delle azioni “di classe”. E tuttavia, diversamente da quelle, non si riferisce
alla legittimazione di singoli danneggiati ma soltanto ad associazioni e comitati adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. Ciò rende, di fatto,
tali criteri difficilmente utilizzabili a fronte della diversa fattispecie sulla quale sono
destinati ad incidere, non occorrendo molta fantasia per la costituzione di un’associazione o di un comitato per la tutela di specifici interessi. La conseguente genericità della norma può determinare effetti distorsivi del mercato per effetto di fenomeni di forum shopping rivenienti da eventuali giustapposti orientamenti giurisprudenziali (agli estremi molto rigorosi o laschi) in ordine al riconoscimento della legittimazione ad agire, e così recare pregiudizio contemporaneamente ad imprese ed
161
RomanaDOTTRINA
temi
associazioni. Aggiungasi che i tempi lunghi della giustizia civile italiana certo non
aiutano a definire in maniera efficace l’assetto della controversia ove solo si consideri, da un lato, che l’ordinanza sull’ammissibilità è reclamabile al collegio e, in quanto decisoria e definitiva, dovrebbe risultare anche ricorribile per cassazione; dall’altro che il giudice può differire la pronuncia se è in corso un’istruttoria davanti a un’autorità indipendente. Il differimento (che non può essere inteso come sospensione del
giudizio per pregiudizialità o per litispendenza) non prevede un termine massimo decorso il quale l’azione può essere comunque utilmente esercitata. E questo, oltre a
ritardare la decisione, corre il rischio di addossare indirettamente all’autorità procedente, chiamata a svolgere compiti diversi da quelli riconducibili all’azione risarcitoria collettiva, sollecitazioni incompatibili con il suo ruolo. Ricordo solo, su questo
versante che, nel corso di un convegno organizzato da Codacons, ebbi modo di rappresentare l’importanza (purtroppo disattesa) delle regole con cui vengono allocati
poteri e responsabilità tra i distinti soggetti che partecipano al procedimento, segnalando come indispensabile introdurre a tal fine adeguati sistemi di governance e di
controllo interno che assicurino un effettivo allineamento di interessi tra gli enti ai
quali è riconosciuta la legittimazione all’azione collettiva e i soggetti nell’interesse
dei quali la medesima è attribuita. Per queste ragioni ho poi prodotto, in un gruppo
di lavoro del Consiglio Nazionale Forense, un possibile emendamento alla prima versione della norma, teso ad attribuire a un decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sentite le competenti commissioni
parlamentari, la predeterminazione delle associazioni legittimate.
Ma l’incertezza circa il definitivo esito del giudizio deriva (anche e soprattutto) dal fatto che l’efficacia del giudicato riguarda gli utenti che sono intervenuti o
hanno aderito all’azione collettiva, essendo espressamente fatta salva la possibilità
dell’azione individuale da parte di consumatori o utenti non aderenti o non intervenienti. La ricorrenza del principio costituzionale sulla tutela dei diritti preclude infatti l’estensione del giudicato (segnatamente di quello di rigetto) dell’azione collettiva
nei confronti di quanti non abbiano preso parte al giudizio. Ciò determina, per l’impresa, una sorta di “storia infinita” che in altri ordinamenti (segnatamente della famiglia di common law) è rigorosamente preclusa.
Secondo versante. Non è chiaro se la disciplina, che diverrà operativa nel luglio prossimo, sia o no retroattiva abbracciando così, nell’affermativa, anche i recenti
gravi episodi che, muovendo dal dissesto di società con titoli quotati, hanno interessato il mercato finanziario (Parmalat, Cirio) legandosi cronologicamente ad altri eventi di grande rilievo (dall’insolvenza di Stati sovrani al collocamento di sofisticati prodotti finanziari). La natura processuale della norma sembrerebbe escluderne il carattere retroattivo. Ma trattasi davvero di norma meramente procedimentale? Il dubbio è lecito. Non lo è invece l’incertezza.
Almeno sui riferiti aspetti si impone perciò l’esigenza di un intervento correttivo che, quanto al secondo, può limitarsi a un mero chiarimento; riguardo al primo
dovrebbe invece, come già esposto, interrogarsi sull’opportunità di attribuire, anzi-
162
ché al giudice, ad una fonte secondaria il potere di specificare quali associazioni o
comitati aggiuntivi rispetto a quelle del codice del consumo siano titolari della legittimazione in discorso e, soprattutto, quali criteri di governance, di democraticità,
di rappresentatività consentono l’effettivo allineamento degli interessi.
Un’ultima considerazione si impone. La legge non distingue tra controversie
seriali risarcitorie e controversie seriali riconducibili a fenomeni di microconflittualità (c.d. small claims). Ai fini di un efficiente funzionamento della disciplina delle
azioni collettive che selezioni le controversie da sottoporre al giudice togato rispetto a quelle che possono trovare sbocco in sistemi di giustizia stragiudiziale, tale distinzione è tuttavia essenziale. Non a caso, ad esempio, le difficoltà a rendere alla
collettività giustizia con rapidità determinarono, nell’esperienza statunitense, l’adozione - fin dal 1990 - di una legge in forza della quale si prevedeva il ricorso obbligatorio a procedure di. c.d. alternative dispute resolution rivelatesi in grado di decongestionare i tribunali. Ciò accresce l’importanza di iniziative autopoietiche quali l’Ombudsman bancario che introita e decide ogni anno circa 4.000 reclami che, in
sua assenza, affollerebbero (almeno in parte) i ruoli del giudice ordinario e rende lungimirante la scelta effettuata nella legge sulla tutela del risparmio di istituire procedure di conciliazione ed arbitrato in materia di intermediazione mobiliare. Resta invece maggiormente esposto a rischio il settore assicurativo che non possiede, nonostante il maggior numero di controversie, organismi analoghi, viceversa esistenti in
altri paesi europei. E’ una lacuna importante alla quale il settore di riferimento dovrebbe al più presto provvedere.
Come più generale considerazione relativa all’impatto di questa disciplina, mette infine conto sottolineare che tutti gli indicatori forniti da studiosi e da organismi
sovranazionali collocano lo stato di efficienza/inefficienza della giustizia civile in Italia a livelli prossimi alle ultime posizioni dei paesi più industrializzati. Ove l’avvento
delle azioni collettive dovesse gravare ancora di più sul lavoro ordinario del giudice, con effetti paralizzanti rispetto ai modi, ai termini, alle forme in cui si svolge la
giustizia in Italia, ciò determinerebbe grave danno a carico proprio dei soggetti più
deboli, e cioè di coloro che questo nuovo istituto intende tutelare. Esattamente per
questa ragione in Germania si è ritenuto opportuno, in considerazione delle incognite
legate all’introduzione di questo tipo di azione, impiegare la tecnica legislativa della “legge a tempo”, caratterizzata dalla previsione di un termine finale decorso il quale la legge cessa di avere efficacia (I. Kapitalannleger - Musterverfahrensens - gesetz, entrata in vigore il I° novembre 2005).
163
RomanaDOTTRINA
temi
Danni accessori:
pluralità di fattispecie
alla ricerca di nomen juris.
Dott.ssa Francesca ZIGNANI
n premessa è opportuno rilevare che la legge vigente non fornisce alcuna defini-
zione di danno accessorio. È nella sistematica del codice civile l’utilizzo di clausole generali. Del resto, in esso non si ritrova neppure la definizione di danno patrimoniale benché questo possa facilmente intendersi quale danno al patrimonio provocato da un atto o un fatto che ne riduce la consistenza in parti o beni singoli e/o
nel complesso, cagionando una diminuzione valutabile in termini pecuniari1.
Considerazioni dissimili devono essere svolte in relazione al danno non patrimoniale. Il danno alla persona è categoria, prima che legislativa, dottrinaria e giurisprudenziale in continua evoluzione, costruzione concettuale ancora “in fieri”2. Il
punto di arrivo, per vero ancora lontano, è costituito dalla unificazione concettuale
e risarcitoria del danno alla persona senza distinguo di sorta tra danno patrimoniale
e non patrimoniale auspicata anche nella Risoluzione n. 7-75 del 14 marzo 1975 del
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa relativa ad un progetto di diritto comune europeo sul “dommage corporel”3. Altro elemento portante nella costruzione
della categoria è la nozione di “diritto alla salute” che ha evidenti riflessi nella eventuale fase risarcitoria. La salute è stata definita, infatti, come “un complesso stato di
benessere fisico, mentale e sociale e non la mera assenza di malattia” (la definizione è data dall’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità). Nell’ultimo trentennio
si è verificata una profonda evoluzione della nozione di danno non patrimoniale, dei
suoi presupposti e delle tecniche risarcitorie con una generale tendenza ad ampliare
tale voce di pregiudizio adeguandola alle concrete esigenze di una società dinamica
sempre più attenta a tutelare, oltre al benessere fisico, il benessere psichico ed esistenziale e, conseguentemente, ampliando la stesso concetto di salute. Questo ritenuto comprensivo anche della sfera interiore ed intima dell’uomo4. Simile amplia-
I
1 Lillo E., “Sulla estensibilità del danno non patrimoniale
a fatti (atti e comportamenti) che non costituiscano
reato”, in Giuristi Zaleuco, 20-12-02.
2 Chindemi D., “Danno biologico nel nuovo codice delle
assicurazioni – Metamorfosi del danno biologico”, in
www.Lapraticaforense.it, 1-25.
3 La Risoluzione è un documento che, pur non vincolante
e nonostante siano ormai trascorsi diversi anni dalla sua
approvazione, risulta ancora importante quale base di
confronto per le future prospettive di armonizzazione
del danno alla persona a livello europeo (Bona M.,
“Risoluzione n. 7-75 del 14 marzo 1975 del Comitato
164
dei Ministri del Consiglio d’Europa”, in
www.dannoallapersona.it); inoltre, alcuni suoi principi
possono costituire ancora un utile punto di riferimento
avendo la Cassazione affermato la “valenza
interpretativa” degli stessi (Cass. Sez. III, 11-4-97, n.
3170).
4 Franzoni, “Il danno non patrimoniale, il danno morale:
una svolta per il danno alla persona”, in Corr. giur.
2003, 1039; Procida Mirabelli Di Lauro, “Il danno
ingiusto (Dall’ermeneutica bipolare alla teoria generale
e monocentrica della responsabilità civile)”, in Riv. crit.
dir. priv. 2003, 221.
mento ha provocato reazioni e atteggiamenti restrittivi; in particolare, quella degli
assicuratori esposti a più rilevanti e numerose forme di risarcimento. Una maggiore
tutela del danneggiato è incoraggiata, tuttavia, alla luce delle esigenze di salvaguardia del valore dell’uomo, sebbene emerga di pari passo l’esigenza di predisporre accorgimenti idonei e sufficienti ad evitare abusi e truffe ai danni del danneggiante e
del rispettivo assicuratore.
Punto di partenza dei nuovi orizzonti risarcitori è costituito dalle fondamentali sentenze della Corte di Cassazione5 e della Corte Costituzionale6 che hanno profondamente innovato l’impianto risarcitorio della responsabilità7 civile sino a quel
momento definito dalla giurisprudenza di legittimità8. Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo - il danno non patrimoniale deve
essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un
valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo. La
lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai
come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi) ma, soprattutto, come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, che
va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile
solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui
ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d’animo) nonché del danno esistenziale e, cioè, dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente
protetto. Ne deriva che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori il giudice, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla per5 In particolare le sentenze n. 8827 e n. 8828 del 31-052003. Per un disamina completa si considerino pure le
massime successive quali Cass. 14-6-06, n. 13754; Cass.
28-11-07, n. 24753; Cass. 7-11-03 n. 16716; Cass. 2-3-04,
n. 4186; Cass. 3-5-04, n. 8333; Cass. 20-10-05, n. 20323;
Cass. 14-6-07, n. 13953; Cass. 14-2-06, n. 3181).
6 La sentenza n. 233 del 11-7-2003.
7 Scarpello A., “Danno esistenziale e sistema del danno
alla persona: la Cassazione, la Consulta e l’art. 2059
c.c.”, in La Nuova Giur. Civ. comm. 2004, II, 2, 1, pag.
233; Suppa M.P., “La svolta della Cassazione in tema di
danno non patrimoniale: la nuova valenza dell’art. 2059
c.c.”, in Giur. It. 2004, 1, pag. 259; Bona M., “L’ottava
vita dell’art. 2059 c.c., ma è tempo d’addio per le
vecchie regole!”, in Giur. It. 2004, 6, pag. 1129; Procida
Mirabella Di Lauro A., “L’art. 2059 c.c. va in paradiso”,
in Danno e resp. 2003, 8, pag. 831; Franzoni M. “Il
danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta
per il danno alla persona”, in Il Corr. Giur. 2033, 8, pag.
1017; Navaretta Emanuela, “Danni non patrimoniali: il
dogma infranto e il nuovo diritto vivente”, in Il Foro it.
2003, 9, 1, pag. 2273; Ponzanelli G. “Ricomposizione
dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di
Cassazione”, in Danno e resp. 2003, 8, pag. 819.
8 Bona-Monateri, “Il nuovo danno non patrimoniale”,
Milano 2004; Franzoni “Fatti illeciti, artt. 2043, 20562059”, in Commentario del Codice Civile, di ScialojaBranca, Libro IV, Supplemento; Ponzanelli, “Il nuovo
danno non patrimoniale”, Padova 2004; Berti-PecceniniRossetti, “I nuovi danni non patrimoniali”, Milano 2004;
Navarretta “I danni non patrimoniali. Lineamenti
sistematici e guida alla liquidazione”, Milano 2004;
Castronovo “Il danno alla persona tra essere e avere”,
in Danno resp. 2004, 237; Scalisi, “Il danno esistenziale:
la svolta della Suprema Corte avallata ‘quasi in
simultanea” dalla Corte Costituzionale”, in Nuova giur.
civ. comm. 2004, 58; Gazzoni, “L’art. 2059 c.c. e la Corte
Costituzionale: la maledizione colpisce ancora”, in Resp.
civ. prev. 2003, 1292.
165
RomanaDOTTRINA
temi
sona, non può non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto a titolo di
danno morale soggettivo, pure esso risarcibile, quando vi sia la lesione di un tale tipo di interesse, ancorché il fatto non sia configurabile come reato. Di tal che il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla
persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. e non suppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo
l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento nella Carta costituzionale, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
Attualmente la struttura del sistema risarcitorio risulta articolata, pertanto, nella tradizionale bipartizione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale quest’ultimo tripartito, tuttavia, nelle categorie di danno morale, biologico ed esistenziale.
Nel variegato e complesso sistema risarcitorio testé descritto il compito di individuare la nozione o l’esatto significato da attribuire al concetto di danno accessorio risulta, per vero, estremamente arduo. Non tanto e non solo per l’esistenza di molteplici e sottili differenze ontologiche caratterizzanti i concetti delle distinte specie
di danno - elaborate dalla dottrina o rinvenute dalla giurisprudenza - quanto, piuttosto, per l’assenza di uno specifico nomen juris qualificante il thema oggetto di indagine ovvero di categorie normative all’interno delle quali poter ricondurre la pluralità di fattispecie accessorie del danno. Ciononostante un tentativo deve essere esperito.
A parere di chi scrive la nozione di danno accessorio costituisce categoria concettuale bipartisan oltreché categoria subordinata o derivata rispetto a quella di danno c.d. principale9. Può definirsi bipartisan poiché l’esistenza di un danno accessorio può essere riconosciuta tanto in relazione alla sussistenza di un danno patrimoniale quanto a quella di un danno non patrimoniale. Essa costituisce, inoltre, categoria subordinata o derivata in riferimento a quella di c.d. danno principale giacché
non gode in re ipsa di alcuna autonomia rispetto a quest’ultimo ovvero al bene della vita preteso in giudizio. In altri termini, potrà essere riconosciuta la risarcibilità di
un danno accessorio solo quale forma di ulteriore pregiudizio ovvero di ingiusta conseguenza e/o di effetto negativo derivanti dell’esistenza di una lesione ad un diritto
soggettivo o interesse legittimo principale.
In tal senso la Corte di Cassazione in ordine al tema del risarcimento del danno degli accessori del credito ha affermato che questo si estende a tutte “le situazioni giuridiche direttamente collegate con il diritto stesso e costituenti il suo contenuto economico, le quali risultino prive, altresì, di profili di autonomia rispetto alla concreta situazione giuridica”10. Allo stesso modo in ambito penalistico la domanda di
166
rimborso delle spese presentata dalla parte civile per l’attività svolta nel processo penale costituisce danno accessorio rispetto a quello principale derivante dal reato11.
Quanto precede riceve conferma anche dagli esiti della giurisprudenza comunitaria. Emblematico è stato un caso deciso dalla Corte di Giustizia12 concernente la
ipotesi di responsabilità per restituzione di tributi indebitamente percepiti dallo Stato nazionale. Nella specie esaminata dal Giudice comunitario la società ricorrente,
pur avendo conseguito il risarcimento della maggior parte del danno mediante esperimento del mezzo di impugnazione dinanzi al giudice del proprio territorio, rivolse
istanza alla Corte europea al fine di ottenere il risarcimento di danni aventi natura
diversa. Essa chiese, infatti, a) il risarcimento del danno causato dall’obbligo in cui
si era trovata di remunerare un istituto bancario per la concessione di una garanzia;
b) il risarcimento dei danni per la prestazione economica fornita allo studio legale
ed ai consulenti incaricati della difesa dei propri interessi nonché, infine, c) il risarcimento del lucro cessante per la diminuzione di patrimonio sofferto a causa della
somma indebitamente versata all’amministrazione nazionale. La Corte adita provvedendo sul ricorso declinò la propria competenza individuando i descritti pregiudizi quali species di danni accessori del danno principale - costituito dall’indebita
corresponsione dei tributi - e poiché privi di autonomia rispetto all’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite per tributi, statuì che la competenza
giurisdizionale era di pertinenza del giudice nazionale.
Il medesimo carattere di accessorietà del danno può essere ravvisato nelle ipotesi dei contenziosi per oneri accessori in materia previdenziale ed assistenziale13 ovvero per tardivo pagamento del quantum dovuto14. Lo stesso dicasi per gli interessi
secondari o accessori i quali si calcolano solo sugli interessi principali già scaduti15, producendo a loro volta interessi.
La domanda risarcitoria del danno accessorio deve essere distinta, pertanto,
da quella relativa agli interessi principali ed è soggetta alla prova del maggior danno rispetto a quello costituito dall’omesso pagamento degli interessi legali posto che
la pretesa volta al riconoscimento della specie di maggior danno che si assume causato dalla svalutazione monetaria deve formare oggetto di domanda specifica poiché verte su una pretesa accessoria non automaticamente riconoscibile né implicita nell’atto con cui si fa valere la pretesa principale16.
9 Zignani F., “Danno al patrimonio e danno accessorio” in
“Il risarcimento del danno nel nuovo Codice delle
Assicurazioni”, Casa Ed. La Tribuna Juris 2008, pag. 52.
10 Cass. 15-09-1999, n. 9823.
11 Cass. Pen. 1927-06-70, n. 788.
12 Causa C-282/90 del 16-01-1992. Industrie en
Handelsonderneming Vreugdenhil c/ Commissione delle
Comunità Europee (regime delle merci di ritorno invalidità per incompetenza di un atto della
Commissione - ricorso per responsabilità).
13 Francaviglia R., “Le misure deflative di cui alla legge n.
326/03 relativamente al contenzioso per oneri accessori
in materia previdenziale ed assistenziale. Profili di
responsabilità amministrativa per danno erariale”, in
www.Diritto&Diritti.it, 1-4.
14 Corte dei Conti 27-11-03, n. 55/04 con nota di
Francaviglia R., in www.Diritto&Diritti.it, 23-02-06, 1-5.
15 Cass. 18-07-02, n. 10434.
16 Cass. 26-02-02, n. 2823; Cass. 2-08-01, n. 10659.
167
RomanaDOTTRINA
temi
Il danno accessorio17 è identificabile e risarcibile, altresì, quale forma di maggior danno derivante da inadempimento o ritardato adempimento di obbligazione pecuniaria il cui credito soggiace allo stesso termine di prescrizione previsto per l’obbligazione principale cui accede18. È noto, infatti, che se il debitore è inadempiente
al pagamento di un debito pecuniario (liquido ed esigibile) il creditore ha diritto di
pretendere il pagamento sulla somma dovuta dei c.d. interessi moratori purché richieda
ritualmente al debitore di adempiere l’obbligazione. L’obbligo accessorio di pagare
interessi moratori nasce una volta che il debitore sia stato debitamente messo in mora; da tale giorno sono dovuti gli interessi al tasso legale (art. 1224, 1° co., c.c.). Se,
tuttavia, prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale
gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Ancor più importante è che al
creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore19 spetta l’ulteriore risarcimento salvo che sia stata convenuta la misura degli interessi moratori (art. 1224, 2°
co., c.c.) e, cioè, salva l’ipotesi che le parti abbiano regolamentato in sede contrattuale l’eventuale inadempimento20.
Forme di danni accessori possono essere ravvisate anche nei casi di mala gestio degli enti assicurativi. Come è noto, sugli istituti di assicurazione gravano diverse
obbligazioni. La prima è la prestazione principale dedotta nel contratto di assicurazione; ad esempio, nella r.c.a. l’obbligo consiste nel risarcire il terzo dei danni subiti
per il comportamento colpevole dell’assicurato ed ha natura di obbligazione di valuta21. Essa trova la propria fonte nel contratto ed il suo ammontare deve considerarsi,
stante la previsione del massimale, predeterminato ed insuperabile. La presenza del
massimale non impedisce, tuttavia, l’esistenza a carico dell’assicuratore di ulteriori
obbligazioni a carattere accessorio22. Innanzitutto l’eventuale ritardo dell’assicuratore nel risarcire il danneggiato si traduce nell’accessorio obbligo di risarcire anche
gli interessi moratori ed il maggior danno derivante da svalutazione monetaria ex art.
1224 c.c.23, salvo che l’assicuratore dimostri che detto ritardo non sia a lui imputabile. Il computo degli interessi moratori e del maggior danno vanno calcolati ben oltre il massimale24. Distinta dall’obbligazione principale nonché da quella per interessi moratori e da svalutazione monetaria è poi l’ulteriore obbligazione accessoria
ravvisabile nell’ipotesi in cui la mala gestio assicurativa abbia provocato un danno
all’assicurato (e/o al danneggiato) o lo abbia esposto ad una responsabilità ovvero
ad una sofferenza economica e/o indebitamento patrimoniale cui egli si sarebbe sot17 Carbone V., “Recentissime dalla Cassazione”, in Giur. it.
1999, fasc. nn. 8-9, 155-158.
18 Cass. 25-06-93, n. 7045.
danneggiato”, in www.Diritto&Diritti.it, 10-11-00.
22 Durante A., “Assicurazione della responsabilità
imprenditoriale”, in Arch. resp. civ. 1972, fasc. n. 1, 1332.
19 Cass. 2-08-01, n. 10569; Cass. 21-07-01, n. 9965.
23 Cass. n. 1285/1988.
20 Corte Costituzionale n. 82/98.
21 Quadrelli M., “La mala gestio assicurativa ed il ritardo
nel risarcimento nei confronti dell’assicurato e del
168
24 Cass. 29-02-88, n. 2120, in Arc. circ. 1988; Cass. n.
3491/1984; Cass. n. 2872/1984; Cass. n. 5218/1983.
tratto se l’assicuratore si fosse attivato con doverosa diligenza, trovando tale obbligazione accessoria il suo fondamento nell’importantissima clausola di buona fede e
correttezza, caratterizzante le obbligazioni e i contratti, di cui al combinato disposto
degli artt. 1175, 1176, 1218 e 1375 c.c.25.
Un ulteriore contributo nell’indagine relativa al danno accessorio deriva dalla
fattispecie di erronea segnalazione effettuata da un istituto bancario alla Centrale dei
rischi26, quest’ultima istituita presso la Banca d’Italia. Invero, la erronea indicazione di una presunta “sofferenza economica-patrimoniale” effettuata da un istituto di
credito all’Organismo di controllo dei sistemi bancari e finanziari è idonea a realizzare una lesione all’esercizio dell’attività dell’imprenditore atteso che per esso costituisce fonte di difficoltà insormontabili allorché voglia accedere al credito bancario, potendo addirittura determinare la revoca di quello già concesso27. Quello descritto
rappresenta il danno principale subìto dall’impresa ma in tale fattispecie illecita possono individuarsi ulteriori danni accessori. Innanzitutto l’errata segnalazione può avere riflessi sul regime di libera concorrenza e sullo stesso sistema creditizio: il mancato accesso al credito di un’impresa o la revoca degli affidamenti già conseguiti porta ad avvantaggiare le altre imprese operanti nel medesimo settore ed, altresì, può
essere fuorviante per le stesse o altre banche, condizionandone la loro politica economica. Ma vi è di più. Il danno da informazione inesatta non può individuarsi solo
nel mero diniego di concessione di nuove linee di credito (danno patrimoniale), ergo nella concreta possibilità di determinare l’effettivo collasso dell’ordinaria gestione dell’azienda bensì anche e, soprattutto, nell’irrimediabile danno morale e/o economico costituito dalla perdita di immagine, di competitività sul mercato, del discredito
della propria reputazione patrimoniale con possibilità di determinare una situazione
di insolvibilità a sua volta causa del fallimento dell’azienda e della conseguente perdita di posti di lavoro. Tali pregiudizi devono considerarsi danni irreparabili se non
altro in quanto beni di impossibile esatta valutazione economica ed indiscutibile è la
grave responsabilità dell’azienda di credito verso il soggetto ingiustamente ed antigiuridicamente segnalato alla centrale dei rischi28. Il danno accessorio causato al cliente si presume in re ipsa29 e lo legittima al risarcimento senza che incomba su di lui
l’onere di fornire la prova dell’esistenza di tale pregiudizio30. Restando nel settore
bancario è significativa, per lo studio del carattere accessorio del danno, la fattispe25 Cass. 14-05-98, n. 4870; Cass. 23-04-1981, n. 2426.
Speciale R., “Responsabilità dell’assicuratore oltre il
massimale e principio di buona fede contrattuale”, in
Giur. mer. 1982, I, 594; Ruta S., “Responsabilità per mala
gestio”, in Resp. civ. prev. 1994, 459.
26 Tanza A., “Il danno in re ipsa nell’illegittima
segnalazione alla centrale rischi”, in www.Filodiritto.it,
12-03-06, 1-9.
27 Trib. Brindisi, 10-07-99, T.F. Teconologie per il Futuro c/
Banca del Salento, in www.studiotanza.it.
28 Trib. Bari, G.U. dott. Cirillo, sent. 22-12-00.
29 Trib. Vibo Valentia 16-01-06, n. 23.
30 Cass. 19-01-01, n. 4881; Cass. 5-11-98, n. 1103. Tale
orientamento è stato seguito anche nelle Corti di
merito ove è stato affermato che “l’accertamento di
una lesione della onorabilità della persona determina in
re ipsa anche l’accertamento di un danno risarcibile da
liquidarsi equitativamente indipendentemente dalla
prova di un concreto nocumento agli interessi
commerciale patrimoniale del soggetto leso” (Trib.
Milano, ord. 19-02-01).
169
RomanaDOTTRINA
temi
cie concernente il trattamento illecito dei dati. In una recente statuizione31 il giudice del merito ha ritenuto che la condotta tenuta dal dipendente dell’istituto di credito, autore del fatto illecito, ha costituito comportamento in contrasto tanto con la dovuta correttezza nell’esecuzione del rapporto contrattuale (danno patrimoniale principale) atta ad imporre l’adozione di obblighi comportamentali di prudenza e discrezione quanto con la normativa sulla privacy (l. n. 675/96) tesa a tutelare, ex multis, il diritto alla dignità delle persone fisiche (danno non patrimoniale accessorio).
Ulteriori forme di danno accessorio sono ravvisabili nell’ipotesi di perdita di
chance conseguente alla mancata aggiudicazione di una gara di appalto32. In sede di
merito, ad esempio, nella determinazione del risarcimento è stato riconosciuto, a titolo di danno emergente, l’ammontare delle spese e dei costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla gara nonché il pregiudizio per la perdita di chance derivante dall’impossibilità di far valere, nelle future partecipazioni,
l’interesse economico legato alla realizzazione dei lavori in questione (pregiudizio
liquidato in via equitativa). A queste voci di danno è stato aggiunto, inoltre, quale
forma di lucro cessante l’utile economico che sarebbe derivato all’impresa dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione. Peraltro, trattandosi di somme da liquidarsi a titolo di risarcimento e costituenti, perciò, debito di valore sulle stesse è
stata considerata la rivalutazione monetaria ed, inoltre, sulle somme rivalutate anche gli interessi legali. L’accertamento dell’illecito descritto può evidenziare, altresì, l’esistenza di un ulteriore pregiudizio avente natura accessoria rispetto al danno
principale, costituito anche dal danno all’immagine33: l’interesse al conseguimento
di un appalto nella vita di un’impresa va ben oltre quello all’esecuzione dell’opera
in sé ed al relativo beneficio economico. Alla mancata esecuzione possono collegarsi,
infatti, nocumenti indiretti all’immagine della società nonché la perdita di radicamento
dell’azienda nel mercato concretantesi nella mancata acquisizione di credenziali e di
qualificazioni idonee per gareggiare in eventuali successive gare di appalto34. Detto
danno accessorio è pienamente risarcibile ma, ovviamente, deve essere rigorosamente
provato35.
L’accessorietà del danno può individuarsi anche nelle fattispecie dannose derivanti da dequalificazione professionale36 ovvero demansionamento37. L’esistenza
di tale specie di illecito vale ad individuare, innanzitutto, una forma di responsabilità datoriale di natura contrattuale cioè quella attinente alla lesione della professio31 Trib. Venezia 30-092005 con nota di Mascia A., “Rispetto
della privacy, ambito bancario e trattamento illecito dei
dati”, in www.filodiritto.com, 1-4.
32 Tar Molise, 12-01-05, n. 140/05.
33 Petrone I., “Il risarcimento del danno per equivalente: il
quantum risarcitorio”, in www.Filodiritto.com, 1-12.
35 Tar Lombardia, Milano 5-06-01, n. 4215, in Tar 2001, I, 1153.
36 Cass. 26-05-04, n. 10157 con nota di Sabetta S. “Danno da
dequalificazione professionale”, in
www.lavoroeprevidenza.com., osservatorio di diritto del
lavoro e della previdenza sociale, 1-2.
37 Cass. S.U. 24-03-06, n. 6572.
34 Caringella F. e Garofoli R., “Riparto di giurisdizione e prova
del danno dopo la sentenza n. 500/99”, in www.giust.it.
170
nalità (c.d. danno principale) ma anche una ulteriore forma di responsabilità discendente
dal pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore. Nel primo caso il danno
deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’art. 2103 c.c. (divieto di dequalificazione) mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087
c.c. (tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore). Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di affermare che dall’inadempimento datoriale possono scaturire astrattamente una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore quali, ad esempio, il danno professionale, il danno biologico, il
danno alla vita di relazione, il danno all’immagine (c.d. danno esistenziale) che possono anche coesistere l’uno con l’altro. Tuttavia, l’attore è gravato dall’onere di allegazione dei danni lamentati non essendo sufficiente e bastevole la mera e generica richiesta risarcitoria38.
Danni accessori sono rinvenibili, altresì, nelle ipotesi di danno da vacanza rovinata39 ove accanto al risarcimento dei danni patrimoniali sofferti dagli attori-viaggiatori per effetto dell’inadempimento del contratto intercorso tra costoro e la società
organizzatrice–venditrice (pacchetto di viaggio “tutto compreso”) è possibile individuare l’esistenza di danni non patrimoniali aventi natura accessoria differenti dal
danno economico-contrattuale e costituiti, per l’appunto, dalla sofferenza nonché dal
disagio sopportati dal turista oltreché dal mancato godimento delle proprie ferie.
Nel vasto panorama concernente l’individuazione delle forme di danno accessorio un ulteriore esempio può essere rinvenuto nel pregiudizio economico sopportato per l’acquisto di strutture tecniche anti-sonore dirette ad offrire protezione
dal danno causato da inquinamento acustico. Trattasi di pregiudizio avente indubbiamente natura accessoria posto che si aggiunge alla sofferenza per il malessere psichico ed al mancato godimento di utilità della propria vita ed in quella di relazione40
(danno principale) patiti dai soggetti a causa delle reiterate e propagate immissioni
sonore eccedenti la normale tollerabilità.
L’accessorietà può individuarsi, infine, anche in fattispecie caratterizzate da
comportamenti c.d. plurioffensivi. In una recentissima pronuncia la Corte di legittimità41, nell’esaminare una fattispecie concernente il danno esistenziale derivante da
uccisione di un congiunto, ha affermato che il danno patito dai parenti superstiti costituisce non già un danno “riflesso” o “di rimbalzo” bensì un danno diretto cioè sofferto iure proprio in quanto l’evento morte è in re ispa plurioffensivo. Esso causa
l’estinzione, in primis, della vita della vittima primaria (danno principale) che subisce il massimo sacrificio del relativo diritto personalissimo42, ma determina, altre38 Cass. S.U. 24-03-06, n. 6572.
loc. 1992, 496; Corte App. Torino, 4-11-92, in Giur. mer.
1993, 949; Cass. n. 3367/1988.
39 Cerruti S., “Danno da vacanza rovinata: commento alla
sentenza n. 2169/00 del Tribunale di Venezia”, in
www.Diritto&Diritti.it, 01-01, 1-5.
41 Cass. S.U. 12-06-06, n. 13546. Successive: Cass. 31-108, n.
2379; Cass. 6-02-07, n. 2546; Cass. 19-01-07, n. 1203.
40 Trib. Milano 21-10-99, in Nuov. giur. civ comm. 2000, I
558; Corte App. Milano, 17-07-92, in Arch. giur. cond.
42 Pace L., “Il danno da lutto”, in Giust. civ. 2007,5, I, pag.
1097.
171
RomanaDOTTRINA
temi
sì, l’estinzione del rapporto parentale con i congiunti della vittima, a loro volta lesi
nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla scambievole solidarietà che connota la vita familiare (danno accessorio)43. Il danno da uccisione
consiste, pertanto, “non già nella violazione del rapporto familiare quanto piuttosto
nelle conseguenze che dall’irreversibile venir meno del godimento del congiunto e
dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali discendono”.
Si è escluso, infatti, che questo tipo di danno sia configurabile in re ipsa con la evidente conseguenza che dovrà necessariamente essere allegato e provato da chi vi abbia interesse senza che risulti precluso il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obiettivi forniti dal soggetto interessato.
43 Cass. 31-05-03, n. 8827; Cass. 31-05-03, n. 8828. V. anche
Cass. 31-108, n. 2379; Cass. 6-02-07, n. 2546; Cass. 19-01-
172
07, n. 1203 (citate).
GIURISPRUDENZA
DISCIPLINARE,
PROFESSIONALE
e PREVIDENZIALE
DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
Romana GIURISPRUDENZA
e PREVIDENZIALE
temi
A cura dell’Avv.
Rodolfo MURRA
e dell’Avv.
Andrea MELUCCO
Q
Giurisprudenza disciplinare
e in materia professionale
rassegna 2007
uesta nuova rubrica della Nostra Rivista è intesa a dare maggior risalto
alle tematiche relative sia alla disciplina che agli aspetti “propri” della nostra
attività professionale, affinché le questioni più rilevanti o più dibattute abbiano – per
il tramite di uno strumento che consenta anche degli approfondimenti – la dovuta
diffusione e risonanza tra i colleghi.
Per il numero unico del 2008, abbiamo ritenuto utile prendere l’avvio da una
rassegna di tutte le pronunce rese dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione –
cui come noto è devoluta la cognizione dei ricorsi proposti avverso le decisioni rese
in materia disciplinare (e non solo, proprio come si avrà occasione di vedere)
dal Consiglio Nazionale Forense.
Accanto alla rassegna di principi oramai consolidati, sia di carattere sostanziale
che processuale, si segnalano aspetti peculiari meritevoli di attenzione e studio,
di quello speciale procedimento “amministrativo – giurisdizionale” che vede gli
Ordini territoriali primi protagonisti di una “autonomia” da tante parti messa in
discussione, ma che dalla propria tradizione e dalla persistente volontà di
aggiornamento ed adeguamento può trovare linfa vitale per riaffermare la propria
funzione e la propria centralità.
RM - AM
parte prima
la giurisprudenza delle sezioni unite in materia disciplinare
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - impugnazioni – autonomia delle rationes
decidendi – impugnazione – ammissibilità - conseguenze - fattispecie
Cassazione civile sez. Un. Sent. 5 gennaio 2007 n. 36
In materia di impugnazione di decisioni disciplinari ove la pronuncia del Consiglio
nazionale forense si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione di questa, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito
positivo, con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo stesso
dell’impugnazione, la quale è intesa alla cassazione della sentenza nella sua interezza o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che, autonomamente, l’una
o l’altra sorreggano (1).
175
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
(1) La Suprema Corte ribadisce anche in materia disciplinare un principio ora-
mai costante nella propria giurisprudenza: ove una sentenza (o un capo di questa) si
fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario - per
giungere alla cassazione della pronunzia - non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella
sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione. Questa, infatti, è intesa alla cassazione della sentenza in toto,
o in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro
sorreggano. E’ sufficiente, pertanto, che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola
delle dette ragioni, perchè il motivo di impugnazione debba essere respinto nella sua
interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni (In tale senso, ad esempio, tra le tantissime, Cass. 18 maggio 2005, n. 10420;
Cass. 4 febbraio 2005, n. 2274; Cass. 26 maggio 2004, n. 10134).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Individuazione delle regole di deontologia professionale - Omissione - Questione di legittimità costituzionale delle norme
dell’ordinamento professionale forense - Manifesta infondatezza.
Cass. Sez. un. Sent. 5 gennaio 2007, n.37
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Amministratore delegato di una Compagnia lavoratori portuali - Incompatibilità con l’esercizio della professione forense
ex art. 3 r.d.l. n. 1578 del 1933 - Configurabilità - Sussistenza - Condizioni - Fondamento.
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Archiviazione del Consiglio dell’Ordine - Effetto preclusivo di successivo esercizio dell’azione disciplinare per lo stesso
fatto - Esclusione.
Il principio di legalità è sancito dall’art. 24 cost. con esclusivo riferimento alla materia penale; in materia di responsabilità disciplinare del professionista la predeterminazione delle figure di illecito può perciò legittimamente ricollegarsi a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività di riferimento. È, pertanto, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 r.d.l. 27
novembre 1933 n. 1578, per preteso contrasto con l’art. 25 cost., nella parte in cui
omette una precisa individuazione delle regole di deontologia professionale forense assistite da sanzione disciplinare (1).
In tema di ordinamento professionale forense, il legale che ricopra la qualità
di presidente del consiglio di amministrazione o di amministratore delegato o unico di una società commerciale si trova, ai sensi dell’art. 3, comma 1, n. 1, r.d.l. 27
176
e PREVIDENZIALE
novembre 1933 n. 1578, in una situazione di incompatibilità con l’esercizio della professione forense (esercizio del commercio in nome altrui), qualora risulti che tale carica comporti effettivi poteri di gestione o di rappresentanza, ed a prescindere da
ogni indagine sulla consistenza patrimoniale della società medesima e sulla sua conseguente esposizione a procedure concorsuali; pertanto, tale situazione di incompatibilità non ricorre quando il professionista, pur rivestendo la qualità di presidente
del consiglio di amministrazione, sia stato privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri di gestione dell’attività commerciale attraverso la nomina di un amministratore delegato (2).
L’archiviazione del procedimento disciplinare da parte del Consiglio dell’Ordine, in quanto atto amministrativo, non è preclusivo del successivo esercizio
del potere disciplinare da parte dello stesso Consiglio per i medesimi fatti.
(1) Il dettato dell’art 649, c.p.p. (“l’imputato prosciolto o condannato con sen-
tenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto ...”) non può trovare applicazione – secondo la S.C. – alla diversa ipotesi in cui il Consiglio dell’Ordine di appartenenza si è
limitato a “archiviare” le denunzie a suo tempo presentate nei confronti dell’incolpato (Cfr., sempre in questo senso, con riguardo al decreto di archiviazione, Cass.
pen., sez. 1^, 2 febbraio 2005, n. 10426; Cass. pen., sez. 6^, 15 febbraio 1994, Di
Matteo; Cass. pen., sez. 5^, 21 aprile 1993, Tamburino).
(2) In relazione alla questione della incompatibilità, si segnale come la giurisprudenza della S.C. (nonchè del Consiglio Nazionale Forense) è costante nel ritenere che la situazione d’incompatibilità con l’esercizio della professione forense, prevista del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art 3, comma 1, per il caso di “esercizio del commercio in nome altrui” ricorre nei confronti del professionista che assuma la carica di amministratore delegato di una società commerciale, ove risulti che
tale carica, in forza dell’atto costitutivo o di delega del consiglio di amministrazione, comporti effettivi poteri di gestione e di rappresentanza, ed a prescindere da ogni
indagine sulla consistenza patrimoniale della società medesima e sulla sua conseguente
esposizione a procedure concorsuali (in termini, ad esempio, Cass., sez. un., 24 marzo 1977, n. 1143).
In altri termini, il professionista che ricopra la carica di Presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore unico o di amministratore delegato di una
società commerciale si trova in una situazione di incompatibilità (esercizio del commercio in nome altrui) prevista R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, situazione di incompatibilità che, invece, non ricorre quando il professionista pur ricoprendo la carica
di Presidente del consiglio di amministrazione, sia stato privato, per statuto sociale
o per successiva deliberazione, dei poteri di gestione dell’attività commerciale, attraverso la nomina di un amministratore delegato (cfr. Cons. Naz. For. 20 settembre
2000, n. 90; Cons. Naz. For. 12 novembre 1996).
177
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
A norma del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, comma 1, la situazione di incompatibilità all’esercizio della professione forense discende obiettivamente dalla assunzione di una carica sociale, quale quella di amministratore delegato di
una società commerciale, che comporti poteri di gestione e di rappresentanza (Cass.,
sez. un., 24 marzo 1977, n. 1143, specie in motivazione).
Avvocato – procedimento disciplinare – avanti al consiglio dell’ordine - invariabilità del collegio – necessità - esclusione
Cassazione civile sez. un., sent. 22 febbraio 2007, n. 4114
In tema di procedimenti disciplinari a carico degli avvocati, il principio dell’invariabilità del collegio giudicante si applica soltanto nel procedimento giurisdizionale davanti al C.n.f. (che è organo giurisdizionale) mentre non può essere esteso - per mancanza di una disposizione “ad hoc” - al procedimento di fronte al Consiglio dell’ordine; quest’ultimo non ha natura giurisdizionale e svolge un’attività che
ha una funzione amministrativa (1)
(1) Costituisce orientamento consolidato delle Sezioni Unite che il principio della invariabilità del collegio giudicante, sancito dal già vigente art. 473 c.p.p., è applicabile, in base al richiamo del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 63, comma 3, solo nel procedimento giurisdizionale dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, che è
organo giurisdizionale, e non può essere esteso, in mancanza di specifica disposizione,
al procedimento dinanzi al Consiglio dell’ordine, considerate la natura non giurisdizionale di detto organo e la funzione amministrativa dell’attività da questo svolta, mentre è indispensabile che il requisito del quorum prescritto per la validità delle deliberazioni dal citato R.D. n. 37 del 1934, art. 43 sia rispettato, ancorchè tale
quorum sia costituito in concreto con la partecipazione alla fase deliberativa di alcuni soltanto dei componenti che abbiano assistito all’audizione dell’interessato (v.
per tutte SU 2002 n. 17548; 2001 n. 8748).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Impugnazioni - Decisione del
Consiglio nazionale forense - Accertamento del fatto e valutazione della sua
rilevanza disciplinare - Controllo in sede di legittimità - Limiti.
Cassazione civile sez. un., sent. 23 marzo 2007, n. 7103
Poiché le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art.
56, comma 3, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, conv., con modificazioni, dalla l. 22
gennaio 1934 n. 36, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle im-
178
e PREVIDENZIALE
putazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità,
salvo che si traducano in palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (1).
(1) In materia disciplinare, per consolidata giurisprudenza di legittimità (vedi
tra le tante Cass. S.U. n. 10046/96), è insuscettibile di ulteriore valutazione l’accertamento compiuto dal giudice disciplinare in ordine alla materialità dei fatti contestati all’incolpato e alla loro idoneità a ledere gli interessi protetti dalla legge professionale essendo precluso alla Corte di Cassazione il riesame dei fatti e delle risultanze istruttorie, la cui valutazione spetta esclusivamente all’organo giudicante disciplinare, il quale ha solo l’obbligo di fornire una motivazione adeguata ed esente
da vizi logici e giuridici, in presenza di una congrua esplicitazione delle ragioni del
proprio convincimento in ordine alla responsabilità disciplinare dell’incolpato da parte del CNF (che ha utilizzato lecitamente quale fonte di esso anche prove raccolte in
giudizio penale ancorché conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione - Cass. S.U. n. 4667/98), la pronunzia si sottrae alle critiche
del ricorrente tendenti inammissibilmente ad una ricostruzione “ad usum delfini” della fattispecie in esame.
Ne consegue che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e in generale la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede
di legittimità non traducendosi in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del
potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Vedi
Cass. S.U. n. 5038/2004, n. 4802/2005).
Avvocato - Prescrizione - Inquadramento generale della pretesa disciplinare esercitata dai Consigli degli ordini - Termine quinquennale di prescrizione dell’azione disciplinare - Portata - Regola dell’interruzione ad effetto istantaneo - Operatività - Ambito. Revocazione (giudizio di) - Documenti decisivi - Preesistenza del documento
alla sentenza impugnata - Necessità.
Cassazione civile sez. un., sent. 25 luglio 2007, n. 16402
La pretesa punitiva esercitata dal Consiglio dell’Ordine Forense in relazione agli
illeciti disciplinari commessi dai propri iscritti ha natura di diritto soggettivo potestativo che, sebbene di natura pubblicistica, resta soggetto a prescrizione quinquennale,
tale dovendosi intendere il termine di cui all’art. 51 r.d. 1578/1933, suscettibile dell’interruzione ad effetto istantaneo di cui all’art. 2943 c.c. anche per effetto dei successivi
atti compiuti dal titolare dell’azione disciplinare in pendenza del relativo procedimento. E poiché il giudizio che segue alla conclusione della fase amministrativa dinanzi al
Consiglio dell’Ordine, ha come oggetto non un mero sindacato di legittimità sull’atto
179
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
di applicazione della sanzione disciplinare, ma la relazione tra il potere disciplinare e
la soggezione a tale potere, resa concreta dall’incolpazione contestata, come si desume dai poteri di indagine del Consiglio Nazionale Forense (r.d. 1578/1933, art. 63, comma ult.), anche alla fase giudiziale del procedimento si estende la norma sulla prescrizione, che ha la funzione di escludere che l’infrazione possa ancora avere rilevanza (1).
(1) La Corte conferma l’orientamento (Cass. 4 maggio 1989, n. 2095) secondo cui
il termine di prescrizione di soli cinque anni è diretto a sollecitare l’inizio del procedimento disciplinare senza porre peraltro termini per la sua definizione. Al regime della
prescrizione estintiva è stato per lungo tempo ritenuta applicabile la disciplina dettata
dal codice civile, considerata espressione dei principi generali della materia, e quindi
la disposizione dell’art. 2945 cod. civ. civ., secondo cui, se l’interruzione consegue al
compimento di uno degli atti di esercizio di un’azione giudiziaria, la prescrizione non
corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, salvo il caso dell’estinzione del giudizio (da ultimo: Cass. 15 ottobre 1992, n. 3284).
Tale orientamento è stato però abbandonato in quanto contrario all’esigenza, imposta dai principi costituzionali di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica
amministrazione, che i procedimenti disciplinari trovino la loro definizione in un congruo termine; è stato, così, affermato che la previsione di un termine quinquennale di
prescrizione non solo delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare, ma vale anche ad assicurare il rispetto dell’esigenza che il tempo dell’applicazione della sanzione non si protragga in modo indefinito, poichè al procedimento sanzionatorio amministrativo è da ritenersi applicabile non già la regola dell’effetto interruttivo permanente
della prescrizione sancito dall’art. 2945 cod. civ., bensì quello dell’interruzione con effetti istantanei (SS.UU. 22 maggio 1995, n. 5603). Si è ulteriormente specificato che il
giudizio che segue alla conclusione della fase amministrativa dinanzi al Consiglio dell’Ordine non ha come oggetto un mero sindacato di legittimità sull’atto di applicazione della sanzione disciplinare, ma ha ad oggetto la relazione tra il potere disciplinare e
la soggezione a tale potere, resa concreta dall’incolpazione contestata, come si desume
dal rilievo che il Consiglio Nazionale Forense può procedere, su richiesta delle parti o
d’ufficio, a tutte le ulteriori indagini ritenute necessarie per l’accertamento dei fatti (R.D.L.
27 novembre 1933, n. 1578, art. 63, u.c.) e può annullare, revocare o modificare la Deliberazione impugnata: ne consegue che si ha applicazione della sanzione non solo da
parte del Consiglio dell’Ordine, ma anche da parte del Consiglio Nazionale Forense,
sicchè anche alla fase giudiziale del procedimento si estende la norma sulla prescrizione che ha la funzione di escludere che l’infrazione possa ancora avere rilevanza (SS.UU.
4 luglio 2002, n. 9694).
E’ stato, peraltro, osservato che la potestà di infliggere sanzioni disciplinari, in
quanto diretta a perseguire interessi pubblicistici, non può essere regolata unicamente
dalle norme del diritto civile in quanto non sono suscettibili di applicazione al procedimento disciplinare le norme che disciplinano la sospensione e l’interruzione della prescrizione di cui agli artt. 2941 e 2945 cod. civ., e quindi si afferma l’estensione a tutta
180
e PREVIDENZIALE
la materia punitiva alle norme contenute nell’art. 160 cod. pen., che collegano l’interruzione della prescrizione ad atti di natura propulsiva del procedimento, come gli atti
di impugnazione, ovvero di natura probatoria o decisoria, i quali dimostrano l’interesse all’applicazione della sanzione disciplinare, pur non potendo trovare applicazione il
prolungamento oltre la metà del termine di prescrizione anche in caso di interruzione
(Cass. 18 aprile 1968, n. 1158, 23 ottobre 1979, n. 5523; 7 marzo 1985, n. 1884). La
specialità della materia giustifica anche l’efficacia interruttiva di atti provenienti dal soggetto passivo diversi dal riconoscimento e intesi, anzi, a contestare il diritto, come l’impugnazione della decisione del Consiglio dell’Ordine (in tal senso, più diffusamente e
con ampi richiami della giurisprudenza sui singoli punti, vedi SS.UU. 26 marzo 1997,
n. 2661; 26 febbraio 1999, n. 372).
A conforto di tale interpretazione la Corte richiama gli argomenti secondo cui il
legislatore, non solo non ha posto nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati un termine di durata insuperabile, ma neppure ha stabilito, con una norma di rinvio
di carattere generale, l’osservanza generale delle forme del processo penale che consenta di desumere una parificazione a tutti gli effetti dell’illecito disciplinare, avente
natura di illecito amministrativo, all’illecito penale.
Nè, infine, può farsi riferimento alla disciplina specifica dettata per altri ordinamenti professionali che contengono una espressa disciplina della prescrizione (L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 146, sulla professione di notaio, come sostituito dal D.Lgs. 1 agosto 2006, n. 249, art. 29; della L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 58, sulla professione di
giornalista; della L. 7 gennaio 1076, n. 3, art. 45, sulla professione di dottore agronomo; della L. 15 gennaio 1994, n. 59, art. 37, sulla professione di tecnologo alimentare)
poichè la giurisprudenza della Corte ha reiteratamente dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità della normativa che, per talune categorie professionali non prevede - analogamente a quanto previsto per gli appartenenti ad altri ordini
professionali - termini di prescrizione dell’azione disciplinare, in considerazione dell’ampia sfera di indipendenza e discrezionalità riconosciuta dall’ordinamento agli ordini professionali nel governo dei rispettivi iscritti, con la conseguente scelta libera ed
autonoma, all’interno di ciascuno di essi, dell’opportunità di prevedere termini prescrizionali o di decadenza con riferimento all’azione disciplinare a seconda della ritenuta prevalenza dell’interesse irrinunciabile dell’ordine alla repressione degli abusi dei
rispettivi appartenenti ovvero all’interesse del professionista a non essere più perseguito
a notevole distanza di tempo dai fatti addebitatigli (SS.UU. 19 luglio 1982, n. 4210).
Ribadita l’efficacia interruttiva istantanea degli atti autoritativi di natura propulsiva del procedimento, va riconosciuta tale natura ai numerosi atti che,dopo l’exordium
praescriptionis (data conclusiva di commissione dell’illecito),sono stati chiara manifestazione del persistente interesse ad infliggere la sanzione (delibera di apertura del procedimento disciplinare; notifica della prima decisione del CNF; notifica della successiva sentenza del CNF a seguito di impugnazione per revocazione) susseguitisi ad intervalli infraquinquennali, così da aver impedito la maturazione della prescrizione (vedi anche Cass. S.U. n. 26182/2006).
181
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Denuncia da parte di un privato - Giudizio
disciplinare conseguente - Impugnazione del provvedimento emesso dal Consiglio dell’Ordine - Legittimazione del privato - Insussistenza.
Cassazione civile sez. un., ordin. 31 luglio 2007, n. 16874
L’art. 50 del r.d.l. n. 1578 del 1933 indica, come soggetti legittimati ad impugnare con ricorso davanti al Consiglio nazionale forense - introduttivo di una fase giurisdizionale - le decisioni in materia disciplinare dei Consigli dell’ordine locale, “l’interessato” - con ciò chiaramente facendo riferimento al professionista sottoposto a procedimento disciplinare - e il p.m. presso la Corte d’appello. Ne consegue che l’eventuale denunciante, cui non è riconosciuta la qualità di parte, non è legittimato al ricorso, ferma restando la facoltà di rivolgersi al giudice civile o penale per far valere
i propri interessi (1).
(1) Il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 50, indica, come soggetti legittimati ad impu-
gnare con ricorso davanti al Consiglio nazionale forense - introduttivo di una fase giurisdizionale - le decisioni in materia disciplinare dei Consigli dell’ordine locale “l’interessato” - con ciò chiaramente facendo riferimento al professionista sottoposto a procedimento disciplinare - e il pubblico ministero presso la Corte d’appello. Ne consegue che l’eventuale denunciante, a cui non è riconosciuta la qualità di parte, non è legittimato al ricorso (come già affermato da Cass. Sez. un. 2 dicembre 1992 n. 12865,
che ha osservato che rimane salva la facoltà del denunciante di rivolgersi al giudice civile o penale per far valere i propri interessi).
Pertanto correttamente il Consiglio nazionale forense aveva ritenuto inammissibile il ricorso davanti ad esso proposto, in quanto la questione relativa alla legittimazione
all’impugnazione aveva rilievo assolutamente pregiudiziale a prescindere dalla natura dei vizi con la stessa impugnazione dedotti.
Professionisti (disciplina delle professioni) - Sanzioni disciplinari - Procedimento - Contestazione degli addebiti - Fatto descritto nell’incolpazione - Esposizione minuta, completa e particolareggiata - Esclusione - Valorizzazione di elementi non desumibili direttamente dal testo della formale incolpazione - Ammissibilità - Limiti - Fattispecie.
Cassazione civile sez. un., sent. 22 agosto 2007, n. 17827
In tema di giudizio disciplinare nei confronti di professionista, la formale incolpazione non richiede una minuta, completa e particolareggiata esposizione delle
modalità dei fatti che integrano l’illecito e l’indagine volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non va fatta alla stregua di un
confronto meramente formale, dovendosi piuttosto dare rilievo all’iter del procedimento e alla possibilità che l’incolpato abbia avuto di avere conoscenza dell’addebito e di discolparsi. Tuttavia, anche se sono valorizzabili elementi non desumibili
182
e PREVIDENZIALE
direttamente dal testo della formale incolpazione, è necessaria una adeguata ricognizione dei medesimi e una valutazione della loro idoneità ad esplicitare ed integrare il capo di incolpazione, ipotesi che non sussiste nel caso in cui nei confronti
di un avvocato, incolpato dei fatti di cui al capo di imputazione formulato in sede
penale dai quali sia stato assolto, oltre che della condotta tenuta in relazione e in dipendenza dei fatti medesimi, connessi e consequenziali, sia applicata la sanzione disciplinare per i fatti accessori contestati (1).
(1) La pronuncia richiama e ribadisce la propria giurisprudenza in materia (Cass.
S.U. n. 8482/1994, che ha dato rilievo al fatto che il contenuto dell’atto - contenenti frasi diffamatorie - era ben noto all’interessato e Cass. S.U. n. 289/2000, 10396/2001,
5038/2004, che attribuisce particolare rilievo all’iter del procedimento e alla possibilità che l’incolpato abbia avuto di avere conoscenza dell’addebito e di discolparsi).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Procedimento - Fase del dibattimento Attività istruttorie - Assunzione dei testi ritenuti utili - Indicazione nella sola citazione dell’incolpato - Esclusione - Indicazione da parte dello stesso incolpato o del
p.m. nel termine loro concesso - Ammissibilità.
Cassazione civile sez. un., sent. 28 settembre 2007, n. 20360
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Procedimento - Davanti al consiglio dell’ordine territoriale - Allegazione di vizi del procedimento - Deducibilità sotto il profilo del vizio di “nullità della sentenza o del procedimento” (art. 360 n. 4, c.p.c.) Esclusione - Fondamento - Sindacabilità sub specie di vizio di motivazione della decisione del Consiglio nazionale forense - Legittimità.
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Azione disciplinare - Rilevanza disciplinare
della condotta - Apprezzamento - Competenza esclusiva degli organi disciplinari forensi - Sussistenza - Controllo in sede di legittimità - Limiti - Fattispecie in tema di
abuso di diritto di difesa.
In tema di azione disciplinare nei confronti di avvocati, nel procedimento innanzi al Consiglio dell’Ordine - che è introdotto dalla deliberazione di apertura e
che si articola nelle successive cadenze degli atti preparatori del dibattimento, del
dibattimento e dell’adozione del provvedimento finale, secondo il modello del rito
penale - la fase del dibattimento è dedicata non solo all’interrogatorio dell’incolpato (citato a comparire per difendersi, di persona o con l’assistenza di un difensore, e legittimato ad indicare ulteriori testimoni, oltre quelli citati “ex officio”) ed alla discussione delle parti, ma comprende anche, secondo la disposizione espressa
dell’art. 48 r.d. n. 37 del 1934, propriamente l’assunzione dei testi ritenuti utili, elen-
183
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
cati già nella citazione dell’incolpato, ovvero indicati dallo stesso incolpato o dal
p.m. nel termine loro concesso (1).
I vizi del procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato, svoltosi dinanzi al consiglio dell’ordine territoriale, stante la natura amministrativa e non giurisdizionale dello stesso, non sono sindacabili dalle Sezioni Unite in sede di ricorso
avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, a meno che non si alleghi che
essi abbiano dato luogo ad un vizio di motivazione della stessa decisione (2).
Il termine di sessanta giorni per la pubblicazione della sentenza resa dal Consiglio nazionale Forense, ha carattere meramente ordinatorio (3).
(1) La Corte ribadisce, per il procedimento disciplinare avanti al Consiglio dell’Ordine, l’inapplicabilità delle norme del codice di rito civile (richiamando ex plurimis: Cass., S.U., n. 15404/2003), e, quindi, in particolare dell’art. 274 c.p.c. (nella parte in cui essa dispone che il giudice, innanzi al quale sono pendenti procedimenti distinti, ne dispone, nei casi di connessione, la riunione), osservando che la regolarità del procedimento può essere sindacata dal Supremo Collegio soltanto sotto
l’aspetto del vizio di motivazione della decisione del Consiglio Nazionale Forense
e non, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, come “nullità della sentenza o del
procedimento” davanti al Consiglio territoriale (Cass., S.U. n. 9561/2003), per concludere che la mancanza di un formale provvedimento di riunione non invalida, comunque, la trattazione congiunta di diversi procedimenti, poichè la decisione unitaria e contestuale lascia sostanzialmente inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto
quanto concerne la posizione che, in ciascuno di essi, viene assunta dalle parti.
(2) Inoltre, viene ribadita la piena legittimità della possibilità, nel procedimento disciplinare, che nella fase innanzi al Consiglio dell’Ordine locale dedicata al dibattimento possano anche essere compiuti ulteriori atti d’istruzione consistenti nell’assunzione di deposizioni testimoniali.
In realtà, nel procedimento innanzi al Consiglio dell’Ordine - che è introdotto dalla deliberazione di apertura e che si articola nelle successive cadenze degli atti preparatori del dibattimento, del dibattimento e dell’adozione del provvedimento
finale, secondo il modello del rito penale - la fase del dibattimento è dedicata non solo all’interrogatorio dell’incolpato (citato a comparire per difendersi, di persona o
con l’assistenza di un difensore, e legittimato ad indicare ulteriori testimoni, oltre quelli citati ex officio) ed alla discussione delle parti, ma comprende anche, secondo la
disposizione espressa della norma di cui al R.D. n. 37 del 1934, art. 48, propriamente
l’assunzione dei testi ritenuti utili, elencati già nella citazione dell’incolpato ovvero
indicati dallo stesso incolpato o dal Pubblico Ministero nel termina loro concesso.
(3) L’inosservanza del termine stabilito per il deposito della sentenza, trattan-
184
e PREVIDENZIALE
dosi di termine ordinatorio, non da luogo a nullità della sentenza medesima, ma configura al riguardo un dovere di comportamento importo al giudice, e la regola, secondo il principio di carattere generale della risalente giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 2558/67; Cass., n. 2262/78; Cass., n. 4053/81; Cass., n. 7000/86), non
può che trovare applicazione anche in tema di sentenza emessa dal Consiglio Nazionale Forense nella materia della responsabilità disciplinare dell’avvocato.
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Procedimento - Consigli dell’ordine - Funzioni esercitate - Natura amministrativa - Procedura istruttoria ex art. 47 del r.d. n.
37 del 1934 - Obbligo di informare l’incolpato - Sussistenza - Esclusione.
Cassazione civile sez. un. Sent. 5 ottobre 2007 n. 20843
Avvocato - Prescrizione - Fatto oggetto di imputazione in sede penale - Termine di
decorrenza della prescrizione - Passaggio in giudicato della sentenza penale - Periodo decorso dalla commissione del fatto fino all’instaurazione del procedimento penale - Irrilevanza - Fattispecie.
Le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli locali dell’Ordine
degli avvocati, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, sicché la disciplina procedimentale non è mutuabile, nelle sue forme,
dal c.p.p. e, in particolare, non è prevista né la fase delle indagini preliminari, conseguente alla ricezione della notizia dell’infrazione disciplinare , né una fase istruttoria vera e propria. Ne consegue che, nel caso in cui il Consiglio dell’Ordine proceda a raccogliere informazioni e documentazione, ex art. 47 r.d. n. 37 del 1934, non
sussiste alcun obbligo di informarne l’incolpato con avvisi o convocazioni, prima
dell’atto di citazione di cui al successivo art. 48 (1).
Nel caso dell’azione disciplinare a carico di un avvocato , esercitata per fatti costituenti reato per i quali sia iniziata l’azione penale, la prescrizione decorre dal
passaggio in giudicato della sentenza penale, restando irrilevante, alla luce della
disciplina dell’art. 44 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, il periodo decorso dalla commissione del fatto fino all’instaurazione del procedimento penale, anche ove, nelle
more, il Consiglio dell’Ordine, avutane notizia, abbia avviato il procedimento disciplinare , per poi sospenderlo a fronte dell’esercizio dell’azione penale (2).
(1) La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha ripetutamente affermato che in materia di giudizi disciplinari, i Consigli dell’ordine degli avvocati esercitano funzioni
amministrative e non giurisdizionali, svolgendo i relativi compiti nei confronti dei
professionisti appartenenti all’ordine forense e, quindi, all’interno del gruppo costituito dai professionisti stessi e per la tutela degli interessi della classe professionale
rappresentata a quel livello; per cui, anche il relativo procedimento disciplinare ri-
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RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
sulta manifestazione di un potere amministrativo ed è specificamente disciplinato dalle disposizioni contenute nel R.D.L. n. 1578 del 1933, e nel regolamento attuativo
appr. con R.D. n. 37 del 1934, che prevedono proprio la scansione semplice della delibera consiliare di apertura del procedimento disciplinare contenente le incolpazioni, ricavabile dal disposto menzionato R.D.L. n. 1578, art. 38 (regolarmente notificata alla ricorrente ex art. 47 Reg. il 7 dicembre 2000: pag. 14 dec.); e del successivo atto di citazione,di competenza proprio del Presidente del Consiglio forense, che
deve necessariamente contenere tutte le indicazioni riportate nel successivo art. 48
(Cass. Sez. Un. 6213/2005; 6404/2004; 1904/2002; 10956/2001).
La S.C. ne trae le ulteriori conseguenze che:
A) nel procedimento in questione non è prevista (tanto meno a pena di nullità)
la fase delle indagini preliminari, conseguente alla ricezione della notizia dell’infrazione disciplinare, nè una istruttoria vera e propria, rimessa al potere discrezionale
del Consiglio dal menzionato art. 47, secondo cui “lo stesso Presidente, o un componente del Consiglio da lui delegato, raccoglie quindi le opportune informazioni ed
i documenti che reputa necessari ai fini del procedimento nonchè le deduzioni che
gli pervengano dall’incolpato e dal pubblico ministero, stabilisce quali testimoni siano utili per l’accertamento dei fatti e provvede ad ogni altra indagine”;
B) pur se tali informazioni e tale documentazione vengano raccolti dal Consiglio, durante le relative operazioni non è stabilita alcuna partecipazione dell’incolpato; e deve escludersi, stante l’inapplicabilità delle diverse regole del processo penale, l’obbligo del Consiglio dell’ordine, nella fase delle indagini preliminari, sia di
informarlo con avvisi o convocazioni degli atti istruttori che si intendono compiere,
sia di comunicargli le risultanze acquisite: come d’altra parte conferma il disposto
del successivo art. 48 sub 5 del Regolamento che prevede che (solo) nell’atto di citazione sia indicato il termine entro il quale l’incolpato, il suo difensore e il pubblico ministero potranno prendere visione degli atti del procedimento, proporre deduzioni ed indicare testimoni. Ed in tale ottica perfino la mancata immediata comunicazione all’interessato dell’apertura del procedimento disciplinare, prescritta dal menzionato art. 47 non comporta nullità del procedimento e della decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati allorchè la fase delle indagini preliminari, conseguente
alla ricezione della notizia dell’infrazione disciplinare, non necessiti di alcuna istruttoria e questa non venga concretamente effettuata, in tal caso essendo possibile notificare all’incolpato la delibera di apertura del procedimento contestualmente alla
citazione a giudizio (Cass. Sez. Un. 5072/2005; 20024/2004; 1998/1998);
C) in detto procedimento non è perciò ipotizzabile un provvedimento di rinvio
a giudizio, neppure richiamando il disposto dell’art. 45 che concorre a confermarne
l’esclusione stabilendo che “il Consiglio dell’ordine non può infliggere nessuna pena disciplinare senza che l’incolpato sia stato citato a comparire davanti ad esso, con
l’assegnazione di un termine non minore di dieci giorni, per essere sentito nelle sue
discolpe”; e perciò ribadendo che dopo la delibera di avvio del procedimento (Cass.
Sez. Un. 1102/2002), l’unico presupposto cui è subordinata la legittimità della san-
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e PREVIDENZIALE
zione disciplinare inflitta dal Consiglio è rappresentato dalla citazione a comparire
davanti ad esso. Pertanto in tale fase del procedimento il suo diritto di difesa trova
adeguata tutela nella comunicazione di detto atto, nonchè nella concessione in esso
di un termine minimo inderogabile di almeno dieci giorni per comparire all’indicata udienza “per essere sentito sulle sue discolpe; e di altro termine da indicare (pur
inferiore a dieci giorni) a norma dell’art. 48 del regolamento di cui al R.D. n. 37 del
1934, entro il quale l’incolpato medesimo (o il suo difensore) potranno prendere visione degli atti del procedimento, proporre deduzioni ed indicare testimoni (Cass. Sez.
Un. 6406/2004; 5394/1995;6129/1988);
D) il procedimento in esame, pur nella parte in cui non prevede che il materiale probatorio debba essere effettivamente acquisito dall’organo decidente e posto
a disposizione dell’interessato prima di disporne il rinvio a giudizio, nonchè la necessaria sussistenza di un provvedimento (collegiale) di rinvio a giudizio, non si pone in contrasto con i precetti degli art. 24 e 111 Cost., alla stregua dei quali la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge, con necessità che
ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, assicurandone il diritto di difesa pur nella fase istruttoria: per l’affermata natura amministrativa e non giurisdizionale delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai
Consigli dell’Ordine degli avvocati, e del relativo procedimento che rende pertinente
il parametro, attesa la riferibilità della norma costituzionale evocata alla sola attività giurisdizionale (Cass. Sez. Un. 10842/2003; 10688/2002; 1903/2002);
(2) In relazione al punto della prescrizione dell’azione disciplinare di cui al R.D.L.
n. 1578 del 1933, art. 51, le Sezioni Unite ribadiscono che occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall’art. 44, in cui il procedimento
disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale: in quanto l’azione disciplinare prevista dall’ art. 38 è collegata ad
ipotesi generiche ed a fatti anche atipici (nonostante il tentativo di tipizzazione degli illeciti realizzato con l’adozione, da parte del Consiglio nazionale forense, il 17
aprile 1997, di un “codice deontologico forense”), e contempla un potere d’iniziativa abbastanza discrezionale, esercitabile con il solo riferimento alla condotta tenuta
dall’iscritto, con la conseguenza che il termine prescrizionale comincia a decorrere
dalla commissione del fatto.
Al contrario, l’azione disciplinare prevista dall’art. 44 è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perchè il fatto non sussiste o perchè l’imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il
quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto; con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè
dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla con-
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RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
dotta (Cass. Sez. Un. 2762/1993; 5717/1990). E che resta irrilevante, secondo la disciplina dell’art. 44, il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurazione del procedimento penale, anche se in tale periodo il Consiglio dell’Ordine, venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare, per poi sospenderlo
di fronte all’avvenuto inizio dell’azione penale.
Cassazione civile - Ricorso - Indicazione dei motivi e delle norme di diritto Ricorso avverso un provvedimento disciplinare emesso dal Consiglio nazionale forense - Enunciazione del quesito di diritto relativo a ciascuna censura - Necessità Sussistenza.
Cassazione civile sez. un., Ord. 19 ottobre 2007, n. 21864
La previsione dell’art. 366 bis c.p.c., a norma del quale l’illustrazione di ciascun motivo di ricorso per cassazione si deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione del quesito di diritto, si applica anche nei confronti del ricorso avverso i provvedimenti disciplinari emessi dal Consiglio nazionale forense e
pubblicati in data successiva al 2 marzo 2006; va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso nel quale l’illustrazione dei motivi di violazione di legge non si concluda con una specifica formulazione di un quesito di diritto per ciascuna censura
e il motivo di difetto di motivazione non indichi con chiarezza il fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume carente (1).
(1) Anche in materia disciplinare, ai provvedimenti pubblicati in data successiva
al 2 marzo 2006, si applicano le disposizioni dettate dal D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40,
recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per Cassazione; ciò
in ragione del fatto che la proposizione dell’impugnazione contro sanzione irrogata ad
un avvocato dal Consiglio dell’ordine di appartenenza, è regolata dalle norme del processo civile, applicabili quando non sia diversamente stabilito dall’ordinamento professionale (Cass. S.U. n. 17002 del 2006, in motivazione).
Secondo l’art. 366 bis c.p.c. - introdotto dall’art. 6 del citato decreto legislativo i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto e, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, n. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di
ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre,
nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve
contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Alla luce di tale quadro normativo, deve essere dichiarato la inammissibilità
del ricorso se:
a) la illustrazione dei motivi di violazione di norme di diritto non si conclude
con la esplicita formulazione del quesito, dando risposta al quale la decisione avreb-
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e PREVIDENZIALE
be dovuto essere cassata in base ad un corrispondente principio di diritto. Va in proposito ribadito che il quesito di diritto deve essere formulato separatamente rispetto
a ciascuna censura formulata, come si evince nell’interpretare l’art. 366 bis c.p.c.,
sia dall’indicazione separata nella norma dei singoli motivi di ricorso, sia dall’espressione “ciascun motivo”, che si legge nel suo comma 2 (Cass. n. 27130 del 2006):
il quesito deve essere espressamente formulato, non potendosi esso “desumere dalla formulazione del motivo di impugnazione, poichè una siffatta interpretazione si
risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione che ha introdotto, a pena di inammissibilità, il rispetto di un requisito formale che deve esprimersi nella formulazione di un esplicito quesito di diritto tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte, quesito che deve trovare la sua collocazione a conclusione dell’illustrazione di ciascun
motivo di ricorso che, da sola, non è perciò sufficiente ai fini del rispetto della norma in esame” (Cass. S.U. n. 7258 del 2007, in motivazione);
b) il motivo di difetto di motivazione non indica con chiarezza il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume “carente”, nè spiega le ragioni
per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare una decisione diversa nè individua prove che, non prese in considerazione, se lo
fossero state avrebbero reso illogica la decisione assunta.
La previsione dell’art. 38 r.d.l. n. 1578/1933 di una fattispecie disciplinare a forma
libera non si pone in contrasto con l’art. 25 cost. per la mancata definizione di tutti i comportamenti lesivi del decoro e della dignità professionale forense e della sanzione per ciascuno applicabile in quanto la detta previsione è integrata, ai fini della certezza dell’incolpazione, dal rinvio a concedere diffusi e generalmente condivisi dalla collettività in cui il professionista forense e il giudice disciplinare operano. Pertanto, nel provvedimento disciplinare il contradditorio è garantito da una chiara contestazione dei fatti addebitata non avendo peraltro alcun rilievo l’omessa o
erronea indicazione delle norme violate(1).
Cassazione civile sez. un., sent. 16 novembre 2007, n. 23728
(1) La S.C. ribadisce in questa pronuncia il proprio orientamento, secondo cui,
anche in tema di illeciti disciplinari, stante la stretta affinità delle situazioni, deve valere il principio - più volte affermato in tema di norme penali incriminatrici “a forma libera” - per il quale la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono
validamente affidate ai detti diffusi e condivisi concetti. Pertanto in tema di procedimenti disciplinari quello che è necessario ai fini di garantire il diritto di difesa all’incolpato - e di consentire, quindi, allo stesso di far valere senza alcun condizionamento (o limitazione) le proprie ragioni - è una chiara contestazione dei fatti addebitati non assumendo, invece, rilievo la sola mancata indicazione delle norme violate e/o una loro erronea individuazione, spettando in ogni caso all’organo giudicante
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RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
la definizione giuridica dei fatti contestati e configurandosi una lesione al diritto di
difesa solo allorquando l’incolpato venga sanzionato per fatti diversi da quelli che
gli sono stati addebitati ed in relazione ai quali ha apprestato la propria difesa. Da
ciò consegue che la contestazione disciplinare nei confronti di un avvocato, che sia
adeguatamente specifica quanto all’indicazione dei comportamenti addebitati, non
richiede altresì nè la precisazione delle fonti di prova da utilizzare nel procedimento disciplinare, nè la individuazione delle precise norme deontologiche che si assumono violate (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 5/5/2005 n. 9097; 10/7/2003
n. 10842; 19/7/2000 n. 506).
Inoltre, l’accertamento concreto se una determinata condotta posta in essere
da un professionista integri, o meno, la violazione di un determinato precetto deontologico costituisce una valutazione di fatto, come tale non suscettibile di sindacato
in sede di legittimità. In particolare la valutazione del consiglio nazionale forense in
ordine alla sussistenza dell’illecito disciplinare addebitato al professionista - ed alla
contrarietà dei fatti contestati al decoro ed alla dignità della professione forense - è
incensurabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata ed immune da errori. Quindi l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede di
legittimità, salvo che si traducano in palese sviamento di potere, ossia nell’uso del
potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (sentenze 23/3/2005 n. 6215; 2/7/2004 n. 12140; 4/6/1999 n. 5452; 26/3/1997 n. 2661).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Procedimento - Innanzi al Consiglio Nazionale Forense - Istanza di astensione o ricusazione di alcuni componenti dell’organo - Potere decisorio - Spettanza - Al Consiglio nazionale Forense - Applicazione
dell’art. 53 c.p.c. - Sussistenza - Partecipazione del componente ricusato alla decisione - Esclusione - Conseguenze.
Cassazione civile sez. un. Sent. 16 novembre 2007, n. 23729
Nel procedimento innanzi al Consiglio nazionale forense, in sede di ricorso
contro le deliberazioni del Consiglio dell’ordine territoriale, qualora l’incolpato abbia avanzato istanza di ricusazione di alcuni dei componenti dell’organo decidente,
la competenza a decidere è del medesimo C.n.f.; ai sensi dell’art. 53 c.p.c. è, però,
necessario, pena la nullità dell’attività svolta, che del collegio che decide sull’istanza
di ricusazione non facciano, comunque, parte i componenti ricusati (1).
(1) Come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 21/3/2002 n. 78,
la disposizione dettata dall’art. 53 c.p.c. - nella parte in cui attribuisce al collegio la
competenza a decidere sulla ricusazione quando sia ricusato uno dei componenti del
collegio giudicante - deve essere intesa, secondo l’unica interpretazione conforme
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e PREVIDENZIALE
ai principi costituzionali, nel senso che del collegio che decide sull’istanza di ricusazione non debbano comunque far parte il giudice o i giudici ricusati. La stessa Corte Costituzionale ha anche dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 52 c.p.c., comma 3, nella parte in cui, prevedendo che “la ricusazione sospende il processo”, imporrebbe al giudice la sospensione anche quando l’istanza appaia carente dei requisiti formali di ammissibilità e tenda al solo fine
di procrastinare o paralizzare l’attività giurisdizionale, in quanto - nonostante l’apparente rigidità della formula - la norma (secondo la giurisprudenza di legittimità di
gran lunga prevalente e le osservazioni di diffusa dottrina) si presta ad una lettura diversa e consente al giudice della causa - “obbligato in ogni caso a dare corso all’istanza di ricusazione trasmettendo il relativo fascicolo al giudice competente” - di
delibare preventivamente i presupposti formali di una valida ricusazione ai fini della sospensione del giudizio, per cui un’istanza di ricusazione presentata senza rispettare
le condizioni e i termini prescritti non produce la sospensione del processo (ordinanze
della Corte Costituzionale 18/3/2005 n. 115; 23/7/2002 n. 388).
Va inoltre segnalato che la S.C. ha già avuto modo di esaminare la questione
della ritualità o meno della composizione del collegio chiamato a decidere sulla fondatezza di una istanza di ricusazione e sui riflessi della eventuale irregolarità sulla
stessa sentenza che chiude la fase della cognizione. La detta questione è stata risolta con l’affermazione che sussiste la violazione dell’art. 51 c.p.c. allorchè l’istanza
di ricusazione venga “decisa” in contrasto con l’art. 53 c.p.c. con ordinanze emesse
- come appunto nel caso di specie - da un collegio “composto dagli stessi magistrati che erano stati ricusati”, con la conseguenza che “l’eventuale vizio causato dall’incompatibilità del giudice ricusato, che abbia preso parte a un atto del procedimento
e financo alla propria ricusazione, diviene motivo di nullità dell’attività da lui spiegata e quindi motivo di gravame della sentenza” (nei sensi suddetti sentenza 23/6/2003
n. 9967 con richiamo a precedenti pronunzie).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Procedimento - Apertura del procedimento
- Comunicazione all’incolpato - Istanza di revoca - Provvedimento di revoca del consiglio dell’ordine - Impugnabilità del p.m. - Ammissibilità - Fondamento.
Cassazione civile sez. un., sent. 28 novembre 2007, n. 24662
In tema di procedimento disciplinare a carico di un avvocato, il p.m. può proporre ricorso al Consiglio nazionale forense - ai sensi dell’art. 50 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 conv. con modifiche nella l. 22 gennaio 1934 n. 36 - contro il provvedimento con il quale il Consiglio dell’ordine dopo la comunicazione all’incolpato dell’apertura del procedimento, revochi, su istanza del medesimo incolpato, l’apertura del procedimento, in base al riesame degli elementi sui quali era stata fondata la contestazione dell’addebito, atteso che il provvedimento di revoca ha l’effetto di definire il procedimento disciplinare (1).
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RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
(1) In base alla legge professionale, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, quan-
do ne ravvisa le condizioni, delibera di procedere disciplinarmente nei confronti di un
avvocato, di ufficio o su richiesta del pubblico ministero, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 19933, n. 1578, art. 38 (conv. con mod. in L. 22 gennaio 1934, n. 36). Secondo quanto stabilito dal R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 47: a) il Presidente del Consiglio dell’ordine deve dare immediata comunicazione all’interessato ed al pubblico ministero dei
procedimenti disciplinari che siano stati iniziati a termini del citato art. 38, con l’enunciazione sommaria dei fatti per i quali il procedimento è stato iniziato (art. 47, comma
1); b) lo stesso presidente, o un componente da lui designato, raccoglie informazioni, documenti e le deduzioni che gli pervengano dall’incolpato o dal pubblico ministero, individua i testimoni e provvede ad ogni altra indagine (art. 47, comma 2); c) il presidente
nomina poi il relatore tra i componenti del Consiglio e fissa la data della seduta per il giudizio, ordinando la citazione dell’incolpato (art. 47, comma 3).
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il provvedimento con il quale il
consiglio dell’ordine deliberi l’apertura del procedimento medesimo non implica, neppure implicitamente, alcuna pronuncia sulla colpevolezza del professionista, ma costituisce mero atto preliminare della decisione, da adottarsi dopo l’espletamento dell’istruttoria
ed in esito al dibattimento (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 1979 n. 5573).
La Suprema Corte, ha sino al 2008 ritenuto che non si potesse ricorrere al Consiglio Nazionale Forense contro le deliberazioni con le quali il Consiglio dell’Ordine stabilisce di iniziare il procedimento disciplinare, affermando che, ai sensi del citato R.D.L.
n. 1578 del 1933, art. 50 il ricorso al C.N.F. è proponibile unicamente contro le statuizioni dei Consigli dell’Ordine che definiscono il procedimento disciplinare (Cass. Sez.
Un. 27 ottobre 1976 n. 3897).
Poiché il provvedimento di revoca dell’apertura del procedimento disciplinare ha
l’effetto di definire un procedimento disciplinare già iniziato, sicchè contro tale provvedimento poteva essere proposto ricorso al Consiglio Nazionale Forense da parte del pubblico ministero, indipendentemente dalla fase del procedimento disciplinare in cui tale
revoca è intervenuta.
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - Rivelazione di notizie riguardanti un giudizio
in corso - Mancata doglianza delle parti - Irrilevanza - Illecito disciplinare - Sussistenza.
Cassazione
civile
sez.
un.,
sent.11
dicembre
2007,
n.
25816
La propalazione di notizie relative a una controversia in corso, da parte di un
avvocato che vi svolge il suo patrocinio, è di per sè lesiva dell’interesse di ognuna
delle parti alla non pubblicizzazione delle vicende giudiziarie che le riguardano, sicchè non rileva che nella specie una di esse non se ne fosse lamentata. Ma costituisce
comunque una scorrettezza che pregiudica, anche e soprattutto, la dignità della professione, la cui immagine resta offuscata dall’ombra che comportamenti di tal fatta
proiettano sull’intera classe forense.
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e PREVIDENZIALE
Avvocato - Consiglio nazionale forense - Giurisdizione - Iscrizione, rifiuto di iscrizione, cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, esercizio del potere disciplinare - Controversie
relative - Devoluzione - Fattispecie.
Cassazione civile sez. un. Ordin. 11 dicembre 2007, n.25831
A norma degli art. 24, 31, 35, 37, 50 e 54 r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, sono devolute alla giurisdizione del Consiglio nazionale forense tutte le controversie relative alla
iscrizione, al rifiuto di iscrizione, nonché alla cancellazione dall’albo professionale degli
avvocati, così come quelle relative all’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei medesimi. (Nella specie, le S.U. hanno dichiarato la giurisdizione del C.N.F. in relazione al ricorso presentato da un avvocato contro la delibera del locale Consiglio dell’ordine che,
disponendo l’archiviazione di un esposto del medesimo contro un collega, aveva confermato l’iscrizione all’albo di quest’ultimo, rigettando la relativa richiesta di cancellazione).
Avvocato - Giudizi e sanzioni disciplinari - codice deontologico - Art. 49 - Iniziative giudiziali - Ambito - Atti di precetto - Ricomprensione - Configurabilità. Avvocato - Giudizi e
sanzioni disciplinari - Norme del codice deontologico forense - Natura - Fonti normative
integrative del precetto legislativo - Fondamento - Conseguenze - Interpretazione della Cassazione - Ammissibilità.
Cassazione civile sez. un., sent. 20 dicembre 2007, n. 26810
In materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, posto che le norme del codice deontologico forense sono fonti normative, l’art. 49 del suddetto codice - secondo il
quale l’ avvocato non può aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni della parte assistita - deve essere interpretato nel senso che l’espressione “iniziative giudiziali” si
riferisce a tutti gli atti aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo, suscettibili di aggravare la posizione debitoria della controparte, e quindi anche agli atti di precetto, pur
non costituenti atti di carattere processuale (1).
(1) L’art. 49 del Codice deontologico forense, rubricato “Pluralità di azioni nei confronti della controparte”, vieta all’avvocato di aggravare la situazione debitoria della controparte con onerose e plurime iniziative giudiziarie quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita. Poichè, a norma dell’art. 491 c.p.c., l’espropriazione forzata inizia con il pignoramento, si poneva la questione se i plurimi precetti azionati
rientrassero nella previsione disciplinare dell’art. 49, in quanto non costituiscono iniziative
giudiziarie.
La Corte muove dalla considerazione che nella giurisprudenza di legittimità è
possibile rinvenire due orientamenti.
Secondo il primo e tradizionale orientamento, le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini (o dai collegi) professionali, se non recepite diretta-
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RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
mente dal legislatore, non hanno nè la natura nè le caratteristiche di norme di legge,
come tali assoggettabili al criterio interpretativo di cui all’art. 12 preleggi, ma sono
espressione di poteri di auto-organizzazione degli ordini (o dei collegi), si da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che i suddetti ordini (o collegi) emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare.
Ne discende che le suddette disposizioni vanno interpretate nel rispetto dei canoni ermeneutici fissati all’art. 1362 c.c., e segg..
Ne consegue ulteriormente che con il ricorso per cassazione è denunciabile, ex
art. 360 c.p.c., n. 3, non solo la violazione o falsa applicazione dei suddetti canoni
della interpretazione dei contratti, ma altresì, ex art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di motivazione (da ultimo Cass. Sez. un. 10 luglio 2003 n. 10482).
L’esposto orientamento è contrastato da Cass. 23 marzo 2004 n. 5776 e Cass.
14 luglio 2004 n. 13078.
Mentre la prima delle due sentenze si limita a dare atto che si va delineando
nella giurisprudenza della Corte un indirizzo secondo cui, nell’ambito della violazione
di legge, va compresa anche la violazione delle norme dei codici deontologici degli
ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito
disciplinare, la seconda (Cass. 13078/2004) sviluppa un ampio ed articolato esame
critico del primo orientamento, i cui argomenti fondamentali si possono così riassumere:
1 I consigli nazionali degli ordini professionali previsti dal D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, costituiscono organi speciali di giurisdizione nella materia disciplinare per i rispettivi iscritti, previsti dalla sesta disposizione transitoria della costituzione.
Ne consegue che i ricorsi per cassazione avverso tali decisioni sono proposti
ai sensi dell’art. 111 Cost., ammessi soltanto per violazione di legge, per cui non è
consentita la deduzione di vizi di motivazione previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5;
L’interpretazione delle clausole contrattuali costituisce una quaestio facti perchè ha per oggetto “la comune intenzione delle parti” (art. 1362 c.c.,), e cioè la loro
volontà, la cui indagine rientra nel merito della causa. Il codice deontologico contiene, invece, norme giuridiche, sia pure (normalmente) rilevanti nel solo ordinamento
interno dell’ordine professionale che le ha approvate.
Rispetto alle norme giuridiche non rileva l’indagine sulla volontà di chi le ha
emanate, ma valgono i diversi criteri elaborati per l’”interpretazione delle norme giuridiche, e cioè per la soluzione delle questioni di diritto.
Secondo la Suprema Corte l’interpretazione diretta della norma del codice deontologico, da parte della Corte di legittimità, non viola l’autonomia dell’ordine professionale. Questa autonomia si estrinseca nell’approvazione del codice deontologico (consentita dall’ordinamento generale in modo espresso od implicito), codice che,
una volta emanato, costituisce una autoregolamentazione vincolante nell’ambito dell’
194
e PREVIDENZIALE
ordinamento di categoria (Cass. 6 giugno 2002 n. 8225), e quindi sia per i singoli
professionisti che per gli organi dell’ordine.
L’orientamento tradizionale che qualifica in ogni caso l’interpretazione del codice deontologico come quaestio facti non permetterebbe il sindacato di legittimità
da parte della S.C. su detta interpretazione se non sotto l’aspetto della mera esistenza di una motivazione a suo sostegno. Viene così a mancare una effettiva garanzia
dell’incolpato che ritenga di avere rispettato la norma del codice deontologico e non
si realizza la funzione del codice deontologico di autoregolamentazione vincolante
non solo per il singolo professionista, ma anche per lo stesso ordine professionale.
Una conferma indiretta dell’assetto insoddisfacente, sotto l’aspetto della tutela giurisdizionale del professionista, derivante dall’orientamento tradizionale può trarsi proprio dalla sentenza delle Sez. un. 10 luglio 2003 n. 10842, perchè detta sentenza ha analiticamente considerato l’art. 15 del codice deontologico forense sulla
ed. tassa parere per la liquidazione degli onorari da parte del consiglio dell’ordine
(3.4 e 3.5 della motivazione) in modo ben più ampio di quanto richiesto dalla mera
constatazione che l’interpretazione datane dalla decisione impugnata era motivata in
modo rispettoso dell’art. 1363 c.c., e segg., finendo in effetti con il convalidare con
la propria diretta interpretazione della norma deontologica la interpretazione datane
dal Consiglio nazionale forense, ai fini della sussistenza del (confermato) illecito disciplinare del professionista, che contestava detta interpretazione.
La Corte ritiene preferibile dunque il secondo orientamento, per i seguenti motivi:
1. Mentre i Consigli dell’Ordine territoriali esercitano funzioni amministrative, anche quando operano in materia disciplinare, il Consiglio Nazionale Forense,
allorchè pronunzia in materia disciplinare, è un organo giurisdizionale (ex pluribus,
da ultimo, SS.UU. 23 1 aprile 2004 n. 6406, 23 gennaio 2004 n. 1229, 22 luglio 2002
n. 10688, 11 febbraio 2002 n. 1904 e, nello stesso senso, Corte cost. 12 luglio 1967
n. 110, 6 luglio 1970 n. 114 in motivazione, 2 marzo 1990 n. 113).
2. Il D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, che detta norme sulle funzioni dei
consigli degli ordini professionali in materia disciplinare, si applica anche (artt. 18
e segg.) alle professioni di avvocato (e prima di procuratore), ed al Consiglio nazionale forense contestualmente istituito dal D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, art.
21.
3. La sesta disposizione transitoria della Costituzione prevede la revisione degli organi speciali di giurisdizione al momento esistenti. Tale norma è stata interpretata
dal giudice delle leggi (Corte Cost. sent. 19 dicembre 1986 n. 284) nel senso che il
termine di revisione non è perentorio; pertanto, mentre per gli ordinamenti professionali posteriori alla Costituzione (entrata in vigore il 1 gennaio 1948) vige il divieto posto dall’art. 102 Cost., comma 2, di istituire nuove giurisdizioni non solo straordinarie ma anche speciali, per quelli anteriori all’emanazione della carta costituzionale (tra i quali rientra il Consiglio nazionale forense, di cui al precedente D.Lgs.Lgt.
23 novembre 1944, n. 382) continua a trovare applicazione la sesta disposizione trans-
195
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
itoria, secondo cui gli organi di giurisdizione speciale già esistenti nel nostro ordinamento continuano ad essere operanti.
4. Pertanto il Consiglio nazionale forense, allorchè pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D.Lgs.Lgt.23 novembre 1944, n. 382,
e tuttora legittimamente operante.
Le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei
componenti del Consiglio nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si
svolge, assicurano per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al
secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M.
il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo all’indipendenza del giudice, all’imparzialità dei giudizi e
alla garanzia del diritto di difesa. (Cass. Sez. un. 23 marzo 2005 n. 6213).
Quello che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense è un giudizio di
carattere giurisdizionale e si conclude con sentenza, pronunciata in nome del Popolo Italiano (R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, come successivamente modificato), impugnabile davanti alle Sezioni Unite: del citato R.D. n. 1578 del 1933, art. 56,
comma 3, (Sezioni Unite: sent. 10 maggio 2001, n. 187, 2 aprile 2003 n. 5072).
5. Le norme del codice deontologico forense in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, elencanti i comportamenti che il professionista deve tenere con i colleghi, con la parte assistita, con la controparte, con i magistrati ed i terzi,
costituiscono esplicitazioni dei principi generali, contenuti nella legge professionale forense (Sezioni Unite 6 giugno 2002 n. 8225).
6. L’indiscusso carattere giurisdizionale del processo avanti al Consiglio nazionale forense in sede disciplinare non implica di per se che tutti i criteri decisori
del giudice speciale siano costituiti da norme di legge.
Detto carattere deriva alle norme del codice disciplinare dalla delega loro effettuata dalla legge statale (nella specie R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 e
D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382) e dalla loro funzione di parametro normativo generale alla stregua del quale valutare la condotta dei professionisti iscritti. Trattasi di un processo di formazione legislativa, attraverso il rinvio alle determinazioni
dell’autonomia collettiva, che assumono così, per volontà del legislatore, una funzione integrativa della norma legislativa in bianco, ampiamente studiata e sostenuta
dalla dottrina ed applicata nei vari campi del diritto. In particolare tale processo formativo del precetto legislativo è frequente nella disciplina del lavoro e previdenziale: ad esempio in tema di minimi contributivi (D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1,
convertito, con modificazioni, nella L. 7 dicembre 1989, n. 389); in tema di deroga
alla tutela della professionalità prevista dall’art. 2103 c.c., comma 2, (per la quale il
comma 3, sancisce la sanzione di nullità di qualsiasi accordo contrario), consentita
viceversa agli accordi collettivi, indipendentemente dal consenso del lavoratore affetto, e dalla stessa iscrizione al sindacato stipulante, in caso di crisi aziendale, dallA L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 11.
In tali casi, ed altri numerosi consimili, la Corte di legittimità procede all’esa-
196
e PREVIDENZIALE
me diretto dell’intero precetto legislativo, quale risulta dalla norma di rinvio e dalla
fonte collettiva che lo integra, la quale, nel caso citato, non avrebbe di per sè nessun
altro titolo per essere vincolante nei confronti del destinatario (per la prima fattispecie: Cass. 7 marzo 2002 n. 3311; Cass. 7 novembre 2003 n, 16762; Cass. 26 settembre 2005 n. 18761; per la seconda: Cass. 7 settembre 2000 n. 11806). La fonte pattizia, nel momento in cui assume valore di legge, entra in questa categoria normativa e ne segue i criteri interpretativi, Una diversa opinione, che demandasse al giudice del merito l’esame della fonte contrattuale che integra il precetto di legge, priverebbe la Corte di legittimità della sua funzione nomofilattica ed esporrebbe i cittadini alla possibilità di esiti giurisprudenziali contrastanti, ove si segua quella giurisprudenza diffusa, la quale sostiene che i criteri logici che presiedono al vaglio della correttezza interpretativa ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile, possono legittimamente lasciar filtrare interpretazioni dei giudici del merito contrastanti
ed opposte della medesima clausola contrattuale.
Tale esito non sembra ammissibile in presenza di un codice deontologico che
può incidere, come ad esempio con la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo, su diritti soggettivi sorti sulla base di norme di legge. D’altra parte, poichè il controllo di legittimità è limitato alla constatazione della assenza di motivazione o alla
presenza di una motivazione puramente apparente (ex pluribus Cass. Sez. un. 2 aprile 2003 n. 5072) e non può estendersi all’apprezzamento della rilevanza del fatto assunto nel capo di incorporazione (Cass. 11 marzo 2004 n. 5038), la negazione di un
potere di interpretazione diretta della norma incriminatrice priverebbe il controllo di
legittimità di qualsiasi contenuto.
La Corte afferma dunque che le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative di precetto legislativo, che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale
appartenente all’ordinamento generale dello Stato, come tali interpretabili direttamente
dalla corte di legittimità.
Alla luce di tale principio la Corte procede ulteriormente ad esaminare l’art.
49 del Codice deontologico.
Mentre il corpo della norma parla di iniziative giudiziarie, la sua intitolazione
parla di pluralità di azioni nei confronti della controparte. Questa discrasia terminologica viene superata dalla Corte ricorrendo al criterio ermeneutico funzionale. Poiché le norme del codice deontologico forense costituiscono l’esplicitazione esemplificativa dei principi generali contenuti nella legge professionale forense (Cass.
5038/2004 cit.), l’art. 49 in esame va interpretato nel senso che l’espressione iniziative giudiziali va riferita a tutti gli atti, anche aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo, suscettibili, per il loro carattere plurimo non necessario, di aggravare
la posizione debitoria della controparte.
Pertanto in tale previsione normativa rientrano anche gli atti di precetto, nonostante
che questi, per giurisprudenza costante, non costituiscono un atto di carattere processuale (Cass. 19 dicembre 2003 n. 199512, Cass. 24 febbraio 1996 n. 1471).
197
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
Parte seconda
Le pronunce di legittimita' in materia professionale
e previdenziale
Spese giudiziali in materia civile - Condanna alle spese - Soccombenza - Mancanza
della procura “ad litem” - Conseguenze - Condanna del difensore alle spese del giudizio - Ammissibilità - Condizioni - Fondamento.
Cassazione civile sez. lav., sent. 26 gennaio 2007, n. 1759
In tema di disciplina delle spese processuali, l’attività del difensore senza procura, che non può riverberare alcun effetto sulla parte, resta attività processuale di
cui egli solo assume la responsabilità anche in ordine alle spese del giudizio. Conseguentemente, il giudice si trova di fronte ad una questione rilevabile d’ufficio di
natura pregiudiziale - la non corrispondenza a vero che l’avvocato sia munito di procura - e a soccombere sulla questione pregiudiziale, l’unica in base alla quale sarà
definito il procedimento con relativa declaratoria di inammissibilità, è soltanto l’avvocato che ha sottoscritto, e fatto notificare, l’atto introduttivo del giudizio, né può
trovare applicazione l’esonero dalle spese processuali, previsto dall’art. 152 disp.
att. c.p.c., per “il lavoratore soccombente”, non rientrandosi, nella specie, in tale
categoria (1).
(1) La Corte ritiene che quella della validità ed esistenza della procura alle liti
costituisca questione rilevabile di ufficio di natura pregiudiziale (idonea cioè a definirlo) che consiste nel verificare se è vero che l’avvocato è munito di procura, per
quel giudizio.
Con la conseguenza che se si accerta che ciò non è vero, è evidente che a soccombere sulla questione pregiudiziale, che è l’unica questione in base alla quale sarà definito il procedimento (con la declaratoria di correlativa inammissibilità) è proprio e soltanto l’avvocato che ha sottoscritto e fatto notificare l’atto introduttivo del
giudizio - e che, nei confronti del giudice e delle controparti, afferma di essere munito di procura -; e non certo il soggetto da lui nominato (che, se non ha conferito la
procura, nulla può avere affermato in proposito).
La Corte conclude quindi che, nel caso di azione o impugnazione promossa
dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui
nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (sulla
base, come nella specie, di una procura inesistente o, ad esempio, falsa, o rilasciata
da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di
processo diverse da quello cui l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera
alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio (Cass. Sez. Unite n. 10706/2006).
198
e PREVIDENZIALE
Avvocato - Onorari - Procedimento di liquidazione - Sommario - Provvedimento
di liquidazione - Forma - Ordinanza - Erronea adozione con sentenza - Conseguenza
- Nullità - Inconfigurabilità - Mezzo di impugnazione - Ricorso straordinario per
cassazione - Sussistenza - Fondamento.
Ai sensi degli art. 29 e 30 l. 13 giugno 1942 n. 794, il procedimento per la liquidazione di onorari di avvocato si svolge in camera di consiglio e deve essere
deciso con ordinanza non impugnabile con i mezzi ordinari, essendo ammesso soltanto il ricorso straordinario per cassazione alla stregua dell’art. 111 cost., per quanto desumibile dallo stesso art. 30 della legge citata, il quale prevede che l’opposizione formulata ai sensi dell’art. 645 c.p.c. è decisa, appunto, con ordinanza non
impugnabile secondo il rito camerale. Tale provvedimento conclusivo non muta la
sua natura giuridica di ordinanza non impugnabile anche quando la decisione sia
stata emessa in forma di sentenza senza l’adozione del rito camerale, poiché l’inosservanza delle disposizioni che regolano la disciplina di questo procedimento
non determina la nullità della decisione, non essendo in alcun modo prevista tale
sanzione, avuto riguardo all’applicazione del principio generale di tassatività delle nullità ricavabile dall’art. 156 del codice di rito (1).
Cassazione civile sez. II sent. 07 febbraio 2007, n. 2623
(1) Ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, artt. 29 e 30, il procedimento per
la liquidazione di onorari di avvocato si svolge in Camera di consiglio e deve essere deciso con ordinanza non impugnabile,essendo ammesso soltanto il ricorso
straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.. In particolare, l’art. 30 della legge
citata prevede che l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ., è decisa con ordinanza non impugnabile secondo il rito camerale. Il provvedimento conclusivo non muta la sua natura di ordinanza non impugnabile anche quando la decisione sia stata emessa in forma di sentenza senza l’adozione del rito camerale.
L’inosservanza delle disposizioni che regolano la disciplina del procedimento non
determina la nullità della decisione,non essendo in alcun modo prevista tale sanzione,atteso che,ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., non può essere pronunciata la
nullità se la stessa non è comminata dalla legge. Con la conseguenza che, allorché
il procedimento sia deciso con sentenza anziché con decreto, non muta né la natura del provvedimento (in conformità del principio più volte affermato della prevalenza della sostanza sulla forma), né la disciplina delle impugnazioni.
Lavoro subordinato (rapporto di) - Retribuzione - Esercizio della professione
forense nell’interesse esclusivo del datore di lavoro - Pagamento della quota
annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati Diritto al rimborso delle spese sostenute - Insussistenza - Fondamento Fattispecie.
Cassazione civile
sez. lav., sent. 20 febbraio 2007, n. 3928
199
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
Il pagamento della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell’interesse esclusivo
del datore di lavoro è rimborsabile dal datore di lavoro, non rientrando né nella disciplina positiva dell’indennità di toga (art. 14, comma 17, d.P.R. n. 43 del 1990) a carattere retributivo, con funzione non restitutoria e un regime tributario incompatibile
con il rimborso spese, né attenendo a spese nell’interesse della persona, quali quelle
sostenute per gli studi universitari e per l’acquisizione dell’abilitazione alla professione
forense (1).
(1) La particolare questione è risolta dalla S.C. sulla scorta dell’interpretazione
esegetica della norma di cui al D.P.R. 13 gennaio 1990, n. 43, art. 14, comma 17; b).
La motivazione muove dal richiamo della interpretazione resa dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui la cd. indennità di toga da essa prevista costituisce una posta remuneratoria fissa e continuativa, seppure non stipendiale (Consiglio di Stato, sez. 6^, 6 maggio 2002 n. 2463, idem 26 giugno 2003 n. 3832). Richiama poi un un orientamento risalente, secondo cui il criterio discretivo tra retribuzione e rimborso spese risiederebbe nell’interesse soggettivo alla spesa (Cass. 23
settembre 1966 n. 2385, Cass, 2 luglio 1980 n. 4198), aggiungendo tuttavia che ma
tale criterio debba essere ulteriormente precisato:
a) l’interesse soggettivo va valutato in relazione alla spesa specifica, e non può
risiedere nel vitale ma generico interesse della persona a realizzare qualsiasi condizione richiesta e necessaria a fini occupazionali;
b) esso va ancora individuato in relazione alla spesa specifica per il singolo datore di lavoro, in relazione alle condizioni lavorative comuni a tutti i lavoratori, anche distinti per categorie.
Nella giurisprudenza richiamata dalla S.C. tale distinzione è già presente:
costituisce retribuzione il rimborso delle spese di trasporto casa-ufficio che tutti i lavoratori sono tenuti a sopportare, costituisce rimborso spese il rimborso del costo di uno specifico viaggio di trasferta (Cass. 2385/1966 cit.);
così è retribuzione il pagamento delle spese di vestiario comune, rimborso spese quello di tute specifiche richieste dalle condizioni di lavoro (Cass. 5 novembre
1998 n. 11139, in tema di oneri del lavaggio degli indumenti in aziende di nettezza
urbana; Cass. 28 maggio 2004 n. 10367, in tema di rimborso spese telefoniche necessaria per assolvere all’obbligo di reperibilità); se la spesa nell’interesse del datore di lavoro copre parzialmente una spesa propria del lavoratore, vi può esser concorso nella spesa (Cass. 20 novembre 2003 n. 17639, in tema di vestiario uniforme
obbligatorio per autisti azienda municipalizzata di trasporto pubblico). Cass.
11139/1998 cit. è particolarmente significativa, perchè, anche se sotto il profilo degli obblighi di sicurezza, pone a carico del datore di lavoro il costo di tutte le condizioni specifiche necessarie per l’espletamento dell’attività lavorativa.
Nel nostro caso sono nell’interesse della persona le spese per gli studi universitari e l’acquisizione dell’abilitazione alla professione forense; una volta questa ac-
200
e PREVIDENZIALE
quisita, le spese necessarie per l’esercizio della professione nell’interesse esclusivo
del datore di lavoro anno per anno non attengono più, come si esprime il ricorrente,
all’acquisizione dello “”status”.
Sulla scorta di tali valutazioni, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la
quale aveva affermato che l’iscrizione all’albo speciale consente l’esercizio della professione forense esclusivamente a favore dell’Inail.
Avvocato - Previdenza - Prescrizione dei contributi ed accessori dovuti alla
Cassa nazionale - Art. 19 della legge n. 576 del 1980 - Disciplina Individuazione - Distinzione, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale,
tra omessa comunicazione e comunicazione inveritiera della dichiarazione di cui
agli art. 17 e 23 di detta legge - Conseguenza - Fattispecie.
Cassazione civile sez. lav., sent. 17 aprile 2007, n. 9113
L’art. 19 l. 20 settembre 1980 n. 576, che contiene la disciplina della prescrizione dei contributi, dei relativi accessori e dei crediti conseguenti a sanzioni dovuti in favore della Cassa nazionale forense, individua un distinto regime della prescrizione medesima a seconda che la comunicazione dovuta da parte dell’obbligato, in relazione alla dichiarazione di cui agli art. 17 e 23 della stessa legge, sia stata omessa o sia stata resa in modo non conforme al vero, riferendosi solo al primo
caso l’ipotesi di esclusione del decorso del termine prescrizionale decennale, mentre, in ordine alla seconda fattispecie, il decorso di siffatto termine è da intendersi
riconducibile al momento della data di trasmissione all’anzidetta cassa previdenziale della menzionata dichiarazione. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha confermato l’impugnata sentenza con la quale era stata accolta
l’eccezione di prescrizione dei crediti previdenziali azionati dalla Cassa nazionale
forense nei confronti di alcuni avvocati sul presupposto che l’erroneità e l’infedeltà
della comunicazione effettuata dai professionisti non avrebbe potuto determinare lo
spostamento del termine iniziale di decorrenza della prescrizione di cui all’art. 19
della citata legge n. 576 del 1980, riferito dalla data di trasmissione della comunicazione prevista dall’art. 17 della medesima legge).
Avvocato - Attività professionale svolta da ex magistrato - Disciplina ex art. 26 r.d.l.
n. 1578 del 1933 - Divieto per un biennio di esercizio di attività professionale dinanzi all’ufficio giudiziario di provenienza dell’ex magistrato - Ambito applicativo
a seguito dell’unificazione delle professioni di avvocato e procuratore legale - Distinzione tra funzioni esercitate - Applicabilità alle sole funzioni attribuite al procuratore legale - Sussistenza.
Il divieto posto dall’art. 26, comma 3, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 a coCassazione civile sez. I sent. 06 luglio 2007 n. 15299
201
RomanaGIURISPRUDENZA DISCIPLINARE, PROFESSIONALE
temi
loro che siano stati magistrati dell’ordine giudiziario, di svolgere la professione di
procuratore davanti alla stessa autorità giudiziaria presso la quale abbiano esercitato negli ultimi tre anni le loro funzioni se non sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione delle stesse, doveva ritenersi limitato, secondo l’esplicito richiamo della norma, alle sole funzioni attribuite al procuratore legale(1).
(1) Il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 26, regolava l’iscrizione all’albo dei procura-
tori legali, all’epoca distinto da quello degli avvocati. A norma dell’art. 26, avevano
diritto a iscriversi nell’albo dei procuratori legali, fra gli altri, coloro che per cinque
anni almeno fossero stati magistrati dell’ordine giudiziario, militare o amministrativo. L’articolo prevedeva che costoro non potessero “svolgere la professione di procuratore” davanti all’autorità giudiziaria presso la quale avessero esercitato, negli ultimi tre anni, le loro funzioni, se non fosse trascorso un biennio dalla cessazione delle funzioni medesime. Analoga norma non si rinviene in detto R.D.L., nè in relazione all’iscrizione nell’albo degli avvocati (regolata dall’art. 30), ed all’esercizio della relativa professione, allora distinta da quella di procuratore, nè in relazione all’iscrizione all’albo speciale per il patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione e alle altre giurisdizioni previste dal citato R.D.L., art. 4, nel quale possono essere iscritti, tra
gli altri, a norma dell’art. 34, coloro che abbiano esercitato le funzioni di Consigliere di Cassazione, di Consigliere di Stato o di consigliere della Corte dei Conti, senza che nessuna restrizione di ordine temporale risulti posta all’esercizio della professione
forense dinanzi alla magistratura in cui si siano in precedenza esercitate funzioni giudiziarie.
Ne deriva che il divieto previsto dall’art. 26, doveva ritenersi limitato, secondo l’esplicito dettato della norma, alle sole funzioni attribuite al procuratore legale
quali erano disciplinate dal R.D.L. del 1933, in cui la norma era inserita. E fra tali
funzioni non rientrava la sottoscrizione del ricorso per cassazione, riservata sia dal
R.D.L. n. 1573 del 1933, sia successivamente dagli artt. 82 e 365 c.p.c., agli avvocati iscritti nell’albo speciale (di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 33). Nè la norma poteva applicarsi per analogia, trattandosi di norma eccezionale, in quanto restrittiva
per una particolare categoria d’iscritti ad un determinato albo dello jus postulando
generalmente riconosciuto a tutti gli altri iscritti, e non ricorrendo comunque, in relazione alla peculiarità degli organi giurisdizionali di cui al R.D.L. n. 1578, art. 4,
(ciascuno accentrato ed unico a livello nazionale), per ogni altro verso, le condizioni per la sua applicazione analogica. Unificate le professioni di avvocato e procuratore ad opera della L. n. 48 del 1997, con la soppressione dell’albo dei procuratori e
la concentrazione in capo agli esercenti la professione di avvocato anche delle funzioni in precedenza riservate ai procuratori legali, il divieto previsto dall’art. 26, continua ad applicarsi a tali funzioni, ora esercitabili dagli avvocati iscritti agli albi ordinari (Cass. 21 aprile 2000, n. 5268 e Cass. sez. un. 16 ottobre 2006, n. 22218), nei
limiti in cui lo era in precedenza, non avendo la nuova disciplina in alcun modo innovato la precedente normativa al riguardo. Con la conseguente sua inapplicabilità
202
e PREVIDENZIALE
al patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione ed alle altre giurisdizioni superiori per
il quale titolo abilitante è l’iscrizione nell’albo speciale di cui all’art. 33.
Avvocato - Previdenza - Pensione di anzianità - Decorrenza - Disciplina prevista
per i lavoratori autonomi iscritti all’a.g.o. - Applicabilità.
Cassazione civile
sez. lav. Sent. 3 agosto 2007, n. 17072
Ai fini della decorrenza del diritto alla pensione di anzianità di avvocato iscritto alla Cassa nazionale forense, trova applicazione la previsione dell’art. 59 l. n.
449 del 1997, che differisce di quattro mesi l’accesso alla pensione nel periodo 1°
gennaio 1998 - 31 dicembre 2000 (1).
(1) Con la sentenza in rassegna la Corte ha esaminato la disciplina dettata in
materia di accesso alla pensione di anzianità dalla L. n. 449 del 1997, art. 59, con
specifico riguardo al regime transitorio, relativo ai trattamenti decorrenti dal 1 gennaio 1998, delle “uscite programmate” (cd. finestre).
La S.C. ritiene - per l’univoco significato del riferimento alla categoria dei
“lavoratori autonomi” destinatari della previsione della citata della L. n. 335 del
1995, art. 1, comma 28 - che il richiamo a questa disposizione comporta l’estensione agli iscritti alla Cassa Forense della disciplina dettata per la medesima categoria (e cioè i lavoratori autonomi iscritti all’assicurazione generale obbligatoria)
dalla L. n. 449 del 1997, art. 59, anche se designata in termini diversi nei commi 6
e 8 (rispettivamente “lavoratori autonomi” e “lavoratori che conseguono il trattamento di pensione a carico delle gestioni per gli artigiani, i commercianti e i coltivatori diretti”).
Il diverso assunto secondo cui la disposizione della L. n. 335 del 1995, art.
1, comma 2 (riportata sub 4.) impedirebbe di riconoscere gli effetti modificativi introdotti, quanto al regime delle finestre di accesso, dalla successiva Legge del 1997,
non convince il Collegio. Posto che il precetto enunciato con questa disposizione
non può comunque vincolare la discrezionalità del legislatore per successivi interventi normativi, la volontà di modificare l’assetto normativo di tale regime, con
specifico riferimento ai trattamenti pensionistici di anzianità decorrenti dal 1 gennaio 1998, risulta – ad avviso della Corte - chiaramente espressa nella Legge del
1997 con le disposizioni esaminate, che si inseriscono nel quadro già delineato dalla precedente riforma del 1995 - senza modificarne l’impianto complessivo - dettando in particolare regole specifiche destinate a trovare applicazione transitoria
in un arco di tempo determinato.
La particolare natura degli enti previdenziali privatizzati risulta espressamente
considerata dalla Legge del 1997, art. 59, comma 20, sicchè la distinzione della natura delle forme di previdenza da essi gestite rispetto a quelle dell’assicurazione
obbligatoria non può assumere alcun rilievo ai fini della ricostruzione del sistema,
203
che non utilizza alcun criterio di interpretazione estensiva o analogica.
Istruzione pubblica - Istituti superiori ed università - Università - Natura di Ente
pubblico autonomo - Dopo la riforma introdotta dalla l. n. 168 del 1989 - Rappresentanza e difesa in giudizio - Può essere assegnata anche ad un avvocato del libero foro previa motivata deliberazione.
Consiglio Stato
sez. VI, sent. 29 gennaio 2007, n. 332
Alle università, dopo la riforma introdotta dalla l. 9 maggio 1989 n. 168, non
può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di Ente pubblico autonomo, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio e le università
possono avvalersi dell’opera di avvocati del libero foro previa motivata deliberazione(1).
(1) Ai sensi degli art. 56 r.d. 31 agosto 1933 n. 1952 (testo unico sull’istruzione
superiore) e 43 r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611 (testo unico sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello stato), come modificato dall’art. 11 l. 3 aprile 1979 n. 103, la rappresentanza e difesa in giudizio di una università degli studi statale, ove non sussista conflitto con lo stato o con le regioni, spetta ope legis all’avvocatura dello stato,
mentre può essere eccezionalmente affidata ad un difensore del libero foro in forza
di apposita e motivata delibera, da sottoporre agli organi di vigilanza (Cass. civ., sez.
I, 22 dicembre 2005 n. 28487).
Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi su tale significativa questione
ha infatti richiamato la giurisprudenza della Cassazione a sezioni unite, secondo cui
«alle Università, dopo la riforma introdotta dalla legge 9 maggio 1989, n 168, non
può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di ente pubblico
autonomo, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato dagli artt.
da 1 a 11 del r.d 30 ottobre 1933 n. 1592, bensì, in virtù dell’art. 56 del r.d. 31 agosto 1933 n. 1592, non abrogato dalla legge n. 168 del 1989, il patrocinio autorizzato disciplinato dagli artt. 43, r.d. n. 1611 del 1933, e 45 r.d. citato, con i limitati effetti previsti per tale dorma di rappresentanza: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvi i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato
con apposita e motivata valutazione» (Cass. civ., sez. un. 13 giugno 2006 n. 13659).
Pertanto, le università possono avvalersi dell’opera di avvocati del libero foro previa motivata deliberazione (C. conti, sez. contr., 4 luglio 1985 n. 1571).
204
GIURISPRUDENZA
CIVILE
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Nuovo revirement della corte di cassazione
in tema di applicabilita' dell'art.2051 cc
ai sinistri per le insidie stradali
CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. III – SENT. 23 GENNAIO 2009,
N. 1691 – PRES. FILADORO – REL. FEDERICO
a presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno
in custodia, stabilita dall’art. 2051 c.c., è applicabile nei confronti dei comuni,
quali proprietari delle strade del demanio comunale, pur se tali beni siano oggetto
di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo che sia idoneo ad
impedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi (1).
L
la sentenza così motiva:
(Omissis)
Con atto notificato il 17.3.98 A.V., premesso che il giorno (OMISSIS) circolava in (OMISSIS) alla guida del proprio ciclomotore e che, giunto all’altezza
di via (OMISSIS) (direzione (OMISSIS)), in una curva sinistrorsa il motociclo scivolava sul gasolio presente sul manto stradale, travolgendo esso esponente, che riportava gravi lesioni giudicate guaribili in 40 gg. s.c., conveniva in giudizio dinanzi
al Tribunale di Roma il Comune di Roma per sentirlo condannare al risarcimento
di tutti i danni subiti in conseguenza di detto sinistro.
Si costituiva il Comune di Roma, che in via preliminare chiedeva di essere
autorizzato a chiamare in causa l’impresa (OMISSIS), appaltatrice dei lavori di manutenzione stradale all’epoca del sinistro ed unica responsabile dell’evento per cui
era causa, ed instava che fosse manlevato e/o rimborsato di quanto si dovesse versare a chicchessia per sorte, interessi e spese.
Si costituiva anche l’Impresa (OMISSIS), chiedendo il rigetto della domanda di manleva e di garanzia proposta dal Comune e di quella principale proposta
dall’attore.
Espletata l’istruzione, l’adito Tribunale rigettava la domanda dell’ A.: interposto appello da parte di quest’ultimo, si costituivano sia il Comune, che chiedeva il rigetto del gravame e proponeva appello incidentale condizionato per la condanna dell’Impresa (OMISSIS) a manlevarlo e garantire, che quest’ultima impresa, che concludeva per il rigetto di entrambe le domande.
Con sentenza depositata il 5.7.04 la Corte di appello di Roma rigettava entrambi gli appelli, e contro tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’ A.,
Svolgimento del processo
207
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
con due motivi, mentre sia il Comune di Roma che l’Impresa (OMISSIS) hanno
resistito con controricorso, con cui hanno sollevato ricorso incidentale condizionato.
Va disposta preliminarmente la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c..
Motivi della decisione
A) Ricorso n. 27669/04. 1. Il primo motivo, con cui il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 2051 c.c., dell’art. 14 C.d.S., dell’art. 1655 c.c. e segg., nonchè illogica, apodittica ed omessa motivazione su più punti decisivi della controversia, avendo la Corte di merito erroneamente ritenuto - pur avendo riconosciuto
come provata la preesistenza di gasolio sparso sulla strada, nonchè la circostanza
che analoghi spargimenti in passato avevano dato luogo a vari sinistri - che al caso di specie non potesse applicarsi il disposto dell’art. 2051 c.c., deve ritenersi fondato.
Giustamente, infatti, la ricorrente si duole che in ordine ai danni subiti dall’utente in conseguenza dell’omessa o insufficiente manutenzione delle strade pubbliche la Corte territoriale abbia in modo aprioristico ritenuto che il referente normativo per l’inquadramento della responsabilità della P.A. è costituito, non dall’art.
2051 c.c. (che sancirebbe una presunzione inapplicabile nei confronti della P.A. con
riferimento ai beni demaniali quando siano oggetto di un uso generale ed ordinario da parte dei terzi), ma dall’art. 2043 c.c., che impone invece, nell’osservanza
della norma primaria del “neminem laedere”, di far sì che la strada aperta al pubblico transito non integri per l’utente una situazione di pericolo occulto.
In realtà, la Corte di merito ha fatto proprio un orientamento giurisprudenziale ormai obsoleto e che non tiene conto dell’evoluzione della giurisprudenza in
subiecta materia a partire dalla nota pronuncia n. 156 del 10.5.1999 della Corte costituzionale.
La quale ebbe, infatti, ad affermare il principio che alla P.A. non era applicabile la disciplina normativa dettata dall’art. 2051 c.c. solo allorquando “sul bene di sua proprietà non sia possibile - per la notevole estensione di esso e le modalità di uso, diretto e generale, da parte di terzi - un continuo, efficace controllo,
idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti”.
Ne deriva che, secondo tale autorevole interprete, il fattore decisivo per l’applicabilità della disciplina ex art. 2051 c.c. debba individuarsi nella possibilità o
meno di esercitare un potere di controllo e di vigilanza sui beni demaniali, con la
conseguenza che l’impossibilità di siffatto potere non potrebbe ricollegarsi puramente e semplicemente alla notevole estensione del bene e all’uso generale e diretto da parte dei terzi, considerati meri indici di tale impossibilità, ma all’esito di
una complessa indagine condotta dal giudice di merito con riferimento al caso singolo, che tenga in debito conto innanzitutto gli indici suddetti.
In questa direzione si è orientata anche negli ultimi anni la giurisprudenza di
208
questa Corte, i cui più recenti arresti hanno segnalato, con particolare riguardo al
demanio stradale, la necessità che la configurabilità della possibilità in concreto
della custodia debba essere indagata non soltanto con riguardo all’estensione della strada, ma anche alle sue caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che lo connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico appresta, in quanto tali caratteristiche acquistano rilievo condizionante anche delle
aspettative degli utenti, rilevando ancora, quanto alle strade comunali, come figura sintomatica della possibilità del loro effettivo controllo, la circostanza che le stesse si trovino all’interno della perimetrazione del centro abitato (v. Cass. n.
3651/2006; n. 15384/2006).
Questo procedimento di verifica in merito all’esistenza del potere di controllo
e vigilanza, di cui si discute, è stato invece totalmente omesso dalla Corte di merito, che si è trincerata dietro l’inapplicabilità in via di principio dell’art. 2051 c.c.
alla manutenzione delle strade da parte della P.A..
Alla luce delle considerazioni che precedono va, dunque, affermato il principio che la presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si
hanno in custodia, stabilita dall’art. 2051 c.c., è applicabile nei confronti dei comuni, quali proprietari delle strade del demanio comunale, pur se tali beni siano
oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un continuo ed efficace controllo che sia idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi.
Sintomatico, in questo senso, deve considerarsi la circostanza, anch’essa tenuta presente dalla Corte di merito (ma da questa non valorizzata ai fini della riconducibilità della responsabilità del Comune di Roma nell’ambito di cui all’art.
2051 c.c.), che ha riguardo alla suddivisione in “zone” della manutenzione delle
strade del territorio comunale, affidata in appalto a varie imprese, tra cui quella V.A..
E’ indubbio, infatti, che, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza gravata, tale “zonizzazione” comporta per il Comune, sul piano meramente fattuale,
un maggiore grado di possibilità di sorveglianza e di controllo sui beni del demanio stradale, con conseguente responsabilità del Comune stesso per i danni da essi cagionato, salvo ricorso del caso fortuito.
Nè può sostenersi che l’affidamento della manutenzione stradale in appalto
alle singole imprese sottrarrebbe la sorveglianza ed il controllo, di cui si discute,
al Comune, per assegnarli all’impresa appaltatrice, che così risponderebbe direttamente in caso d’inadempimento: infatti, il contratto d’appalto per la manutenzione
delle strade di parte del territorio comunale costituisce soltanto lo strumento tecnico - giuridico per la realizzazione in concreto del compito istituzionale, proprio
dell’ente territoriale, di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade di sua proprietà ai sensi dell’art. 14 C.d.S. vigente, per cui deve ritenersi che l’esistenza di tale contratto di appalto non vale affatto ad escludere la responsabilità
del Comune committente nei confronti degli utenti delle singole strade ai sensi dell’art. 2051 c.c..
209
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
2. Il secondo motivo, con cui viene dedotta la violazione dell’art. 2043 c.c. e
dell’art. 115 c.p.c. nonchè illogica, apodittica ed omessa motivazione circa un punto decisivo, per non avere la Corte di merito spiegato adeguatamente le ragioni per
cui era stata esclusa la sussistenza di un’insidia o trabocchetto, resta assorbito in
conseguenza dell’accoglimento del primo motivo.
B) Ricorso n. 1573/05 e ricorso n. 1701/05.
Sia il ricorso incidentale condizionato, con cui il Comune di Roma, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso principale, ripropone la questione dell’obbligo dell’Impresa (OMISSIS) a manlevarlo, stante la sua responsabilità nella produzione dell’evento dannoso, che quello incidentale, sempre condizionato all’accoglimento del
ricorso principale, con cui l’Impresa predetta deduce l’insussistenza del diritto del
Comune di Roma ad essere garantito e manlevato, con la condanna di chi di dovere alla rifusione in suo favore delle spese di tutti i gradi di giudizio, restano assorbiti a seguito dell’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.
C) In conclusione, viene accolto il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo, ed assorbiti altresì i ricorsi incidentali condizionati, e conseguentemente la sentenza impugnata va cassata in relazione, con rinvio della causa dinanzi alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione che, oltre che uniformarsi al principio di diritto enunciato al punto 1. della presente sentenza, provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
(1) Il ritorno dell'art.2051 cod. civ
Avv. Leonardo VECCHIONE
a sentenza in esame conferma l’evoluzione giurisprudenziale nel settore deli-
catissimo della responsabilità da fatto illecito ed in particolare della responsabilità della P.A. per omessa o insufficiente manutenzione delle strade pubbliche.
Si deve, infatti, registrare da parte dei giudici di legittimità la volontà di esigere una maggior responsabilità della P.A. al fine di evitare che dalla carenza di manutenzione del bene pubblico o di vigilanza sulle imprese che ricevono in appalto
la manutenzione di strade e marciapiedi possano verificarsi eventi lesivi.
La responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. trova, infatti, applicazione anche con
riferimento ai beni demaniali venendo di fatto equiparati i soggetti pubblici a quelli privati eliminandosi quell’ingiustificato privilegio di cui godevano le Pubbliche
Amministrazioni.
Statuisce, infatti, ora la Suprema Corte che la P.A., nella fattispecie il Comune,
risponde di eventuali danni cagionati dalle cose che ha in custodia ai sensi dell’art.
2051 c.c. e non in ragione del generale principio del “neminem laedere” posto dal-
L
210
l’art. 2043 c.c. “pur se tali beni siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei cittadini, qualora la loro estensione sia tale da consentire l’esercizio di un
continuo ed efficace controllo che sia idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di
pericolo per i terzi”.
Il presupposto per applicabilità della responsabilità per i danni cagionati dalle cose in custodia resta, comunque, individuato nella possibilità da parte della P.A.,
anche in ragione dell’estensione del bene, di esercitare un controllo su di esso.
L’onere di provare l’impossibilità di esercitare il debito controllo sui beni in
custodia incombe naturalmente sulla P.A.
L’accertamento di tale possibilità di controllo è devoluto di volta in volta al
giudice di merito il quale non si dovrà basare soltanto sull’estensione territoriale
del bene e sull’uso generale e diretto da parte di terzi ma, soprattutto, sulla natura
e sulla tipologia delle cause che hanno cagionato il danno.
Nel corso di tale accertamento dovranno, dunque, assumere rilievo i vizi strutturali del bene e le situazioni estemporanee di pericolo create da terzi.
L’inquadramento della responsabilità sotto l’art. 2051 c.c. comporta, una responsabilità oggettiva della P.A. e, conseguentemente, il soggetto danneggiato ha
il solo onere di dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento lesivo subito dal momento che si prescinde per l’accertamento della responsabilità da un’indagine sul dolo o sulla colpa.
La P.A. per andare esente da responsabilità deve fornire la prova liberatoria
del caso fortuito ovvero, del verificarsi di un evento idoneo ad interrompere il nesso causale.
Detto evento può consistere sia nel fatto di un terzo e sia nel fatto dello stesso danneggiato (ad es. la volontaria e consapevole esposizione al pericolo da parte del danneggiato) e deve essere imprevedibile ed eccezionale o comunque autonomo e quindi di per sé sufficiente a causare l’evento1 .
Nel caso di concorso del soggetto danneggiato nella causazione dell’evento
il risarcimento sarà valutato ai sensi dell’art. 1227 c.c.2
Si potrebbe, quindi, ravvisare il caso fortuito nell’ipotesi in cui l’evento lesivo si verificato in un periodo di tempo ragionevolmente insufficiente perché la
P.A. venga a conoscenza del pericolo e possa intervenire per eliminarlo.
Non si può non rilevare, poi, che la prova liberatoria del caso fortuito da parte della P.A. debba essere valutata in base a criteri più ampi ed elastici di quelli che
valgono per i beni privati essendo comunque i beni della stessa particolarmente esposti a fattori di rischio non prevedibili e non controllabili perché posti in essere da
una generalità di terzi che il custode non può escludere dall’uso del bene e solo entro certi limiti può sorvegliare3.
1 Cfr. Cass. n. 4279/08; Cass. n.20427/07; Cass. n. 5326/95.
3 Cfr. Cass. n. 15042/08.
2 Cfr. Cass. n. 17377/07.
211
La recente sentenza del Supremo Collegio è comunque una pietra miliare nell’ambito della responsabilità civile in quanto sancisce un vero e proprio progresso
nell’inquadramento della responsabilità della P.A.
Invero la Suprema Corte non solo ha confermato in capo alla P.A. una responsabilità oggettiva ma ha anche sancito il principio che la stessa P.A. non possa invocare un trasferimento dell’obbligo di custodia e sorveglianza dei beni demaniali in capo all’impresa appaltatrice della manutenzione al fine di escludere la
sua responsabilità.
Ed, infatti, l’obbligo di custodia non può essere derogato stante l’esistenza
di una norma, l’art. 14 del Codice della Strada, che pone in capo all’Ente proprietario il dovere di sorveglianza del bene demaniale.
Infine di non poco rilievo è la conferma, con riferimento alle strade comunali, della circostanza che ove le stesse si trovino all’interno della perimetrazione
del centro abitato tale fatto costituisce di per sè sintomo ed indice della possibilità di svolgere su di esse un effettivo controllo4.
L’evoluzione giurisprudenzale:
tra responsabilità ex Art.. 2043 C.C.ed Art. 2051 C.C.
La responsabilità della P.A. per omessa o insufficiente manutenzione del manto stradale ha nel corso degli anni dato vita diversi orientamenti giurisprudenziali.
Un primo orientamento, di maggior favore per le Amministrazioni, individuava la fonte della responsabilità nel principio generale in materia di illeciti extracontrattuali previsto dall’art. 2043 c.c.
Veniva, pertanto, affermata la responsabilità risarcitoria della medesima
P.A. solo qualora l’opus pubblicum costituisse un’insidia od un trabocchetto (cd.
responsabilità da insidia o trabocchetto) ovvero un pericolo occulto5.
La sussistenza dell’insidia era ravvisata nel fatto che la situazione di pericolo presentava il requisito oggettivo della non visibilità e quello soggettivo della non
prevedibilità. L’evitabilità della stessa veniva parametrata all’ordinaria diligenza
e prudenza dell’utente la strada.
Tale accertamento veniva devoluto al Giudice di merito con la conseguenza
che in virtù di tale impostazione sul soggetto danneggiato incombeva l’onere probatorio di dover dimostrare gli elementi costitutivi del fatto, il nesso di causalità,
il danno ingiusto e l’imputabilità soggettiva dell’evento alla P.A.
In altre parole occorreva dimostrare l’esistenza di un’insidia o di un trabocchetto stradale non visibile e non prevedibile ed il comportamento colposamente
omissivo dell’Amministrazione costituito dal non aver tempestivamente rimosso
o segnalato l’insidia pur avendone avuto notizia.
La condotta omissiva veniva imputata alla P.A. dal momento che su di essa
4 Cfr. Cass. n. 15384/06.
212
5 Cfr. ex multis Cass. n. 22592/04; Cass. n. 21686/05; Cass.
n. 12314/98; Cass. n. 9915/98.
incombeva un obbligo di garanzia e, quindi, l’obbligo giuridico del soggetto, che
dispone dei poteri necessari, di attivarsi per impedire l’evento offensivo dei beni
affidati alla sua tutela.
Un secondo successivo orientamento6 riteneva invece applicabile nei confronti della P.A. l’art. 2051 c.c. relativamente ai beni demaniali soltanto quando,
per la ridotta estensione del bene fosse possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della p.a., tale da impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti.
Una recentissima giurisprudenza della Suprema Corte7 ancor più rigorosa rispetto a quella che si annota afferma, invece, che il presupposto dell’applicabilità
dell’art. 2051 c.c. nei confronti della P.A. si fonda solo sul rapporto che esiste tra
il custode ed il bene.
Affinché sussista il rapporto di custodia è necessario, pertanto, che il soggetto custode possa esplicare sulla cosa un potere di sorveglianza, un potere di modificarne lo stato eliminando la situazione di pericolo insita nella medesima ed anche quello di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla stessa nel momento in
cui si è prodotto il danno.
Avendo la P.A., e più precisamente l’ente proprietario di una strada tali poteri risponderà sempre quale custode del bene e sarà obbligato pertanto a controllare lo stato della cosa e a mantenerla in condizioni ottimali di efficienza quale ne
sia la sua estensione salvo che provi “di non aver potuto far nulla per evitare il danno”.
La sentenza del 23 gennaio 2009, n. 1691 invece stabilisce che, ferma restando
la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia, questa non potrà applicarsi agli enti pubblici allorquando il bene, demaniale o patrimoniale, non possa in
concreto essere oggetto di custodia o vigilanza.
Tale impossibilità, però, deriverebbe non soltanto e semplicemente dalle caratteristiche stesse del bene e quindi dall’elevata estensione della strada e dalle modalità di uso della stessa e, quindi da una utilizzazione generale e diretta da parte
di terzi, costituendo tali elementi soltanto indici di impossibilità di custodire, ma
da un accertamento del giudice di merito sulla natura e sulla tipologia delle cause
che hanno determinato il danno8.
L’accertamento dovrà, quindi, investire anche le caratteristiche del bene, la
posizione, i sistemi di assistenza che lo connotano, gli strumenti che il progresso
tecnologico appresta, costituendo detti elementi fattori condizionanti le aspettative degli utenti sul bene9.
Infine qualora non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051
c.c., non ravvisandosi la possibilità di custodia del bene, il danneggiato potrà co6 Cfr. Cass. n. 20827/06; Cass. n. 15779/06; Cass. n. 15383/06;
8 Cfr. Cass. n. 15042/08.
7 Cfr. Cass. n. 20427/08.
9 Cfr. Cass. n. 23924/07.
213
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
munque agire per il risarcimento dei danni nei confronti della P.A. ai sensi dell’art.
2043 c.c. dovendo però in tal caso dare piena prova dell’esistenza di un’insidia o
trabocchetto e del comportamento colposo della P.A.10.
10 Cfr. Cass. n. 5308/07; Cass. n. 15383/06; Cass. n. 15384/06.
214
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
La responsabilità della p.a. per infezioni
contratte tramite emoderivati
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE SENT. 11 GENNAIO 2008,
N.584 PRES. CARBONE REL. SEGRETO
Anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve affermarsi
la sussistenza di un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue
umano da parte del Ministero della Sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria (1)
Sussiste la responsabilità extracontrattuale del Ministero della Sanità per l’omissione di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere (concernente la tutela della salute pubblica), quando dalla violazione del vincolo interno costituito dal dover di vigilanza nell’interesse pubblico, il
quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti
soggettivi dei terzi (2)
La diversa natura giuridica dell’attribuzione indennitaria ex. L. n. 210 del 1992,
e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da HIV ed HCV a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal
soggetto contagiato nei confronti del Ministero della Sanità, non osta a che l’indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe
di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo
interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute allo stesso soggetto
(il Ministero della Salute) ed aventi causa del medesimo fatto (trasfusione di sangue
o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del
soggetto tenuto al pagamento (3)
Gli interessi c.d. compensativi sui debiti di valore devono essere computati o
con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente del bene
perduto si incrementa nominalmente (per effetto dei prescelti indici di rivalutazione),
ovvero in base ad un indice medio, egualmente applicabile dal Giudice, tenuto conto
che detta liquidazione del danno da ritardo, per quanto effettuata secondo la tecnica
degli interessi, rientra pur sempre nello schema liquidatorio del danno di cui all’artt.
2056 c.c. (tra cui il potere equitativo ex art. 1226 c.c.) (4).
Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona pur
dovendosi distinguere dalla c.d. causalità generale (l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe su popolazioni indagate, cioè su gruppi e non su singoli individui) dalla c.d. causalità individuale o del
singolo caso (relativa alla probabilità ragionevole della concretizzazione del singolo
215
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
caso della legge causale generale) va rilevato che questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva, che presenti i requisiti dalla gravità, precisione e concordanza (5).
Ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità civile,
diversamente da quella penale dove vige la regola della prova “Oltre il ragionevole
dubbio”, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che
non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e
l’equivalenza di quelli in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco del processo civile tra le due parti contendenti (6).
Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti valutativi; in primo luogo occorre che il Giudice
valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino un positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi. E’pertanto viziata da errore di diritto e
censurabile in sede di legittimità – a tale sindacato sottraendosi l’apprezzamento circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte di presunzione e la loro concreta rispondenza ai requisiti di legge soltanto se il relativo giudizio non risulti viziato a illogicità o da erronei criteri giuridici – la decisione in cui il Giudice si sia limitato a negare il valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare
trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (7).
La responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni
da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati negli intervenuti trasfusionali appare inquadrarle nella violazione della causalità generale di cui
all’art. 2043 c.c. e non in quella di cui all’art. 2050 c.c. (8)
L’individuazione del dies a quo per la prescrizione può essere ancorato al parametro dell’“esteriorizzazione del danno”, con la precisazione che tale indagine deve
incentrarsi sul passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili, conducendo una rigorosa analisi delle informazioni,
cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non
solo limitatamente al danno, ma anche al nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) (9)
216
La sentenza così motiva:
(Omissis)
in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori E. e Fr. con atto notificato il 10.3.1997 conveniva in giudizio l’Università degli Studi La Sapienza dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni ( da responsabilità extracontrattuale ex art, 2043 e
2050 c.c. nonché contrattuale) subiti:
a) quali eredi, essendo il primo marito della defunta B.L. e gli altri i figli della medesima, delle somme dovute a quest’ultima a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali, biologici e morali, conseguenti alla patologia (AIDS), derivatale in seguito alla
somministrazione di emoderivati ed emotrasfusioni, che ne aveva causato la morte;
b) iure proprio al risarcimento dei danni patrimoniali, biologico e non patrimoniali,
subiti a seguito della morte della B., intervenuta nel 1996;
c) il solo G.F. in proprio al risarcimento dei danni derivatigli dal contagio dell’Aids
tramite i rapporti sessuali con la defunta moglie.
Assumevano gli attori che la B., emofiliaca, si era sottoposta a somministazione
di emoderivati ed emotrasfusioni, che ne aveva casato la morte.
L’Università chiamava in garanzia il proprio assicuratore.
Veniva chiamato iussu iudicis anche il Ministero della Sanità, nei cui confronti gli attori estendevano le domande a titolo di responsabilità extracontrattuale. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 0902 del 2001, respingeva tutte le domande. In particolare rigettava le eccezioni di prescrizione, ma accoglieva quella sollevata dall’Università e relativa alla responsabilità extracontrattuale. Il Tribunale di Roma, con
sentenza n. 20902 del 2001, respingeva tutte le domande. In particolare rigettava le
eccezioni di prescrizione, ma accoglieva quella sollevata dall’Università e relativa
alla responsabilità extracontrattuale fatta valere iure hereditatis dagli attori, in quanto riteneva che l’accertamento del contagio risaliva al 1985. Riteneva che mancava
la prova della colpevolezza, necessaria sia ai fini della responsabilità extracontrattuale del Ministero ex art. 2043 c.c., sia per la stessa responsabilità che per quella contrattuale dell’Università.
Successivamente al deposito della sentenza, la sieropositività del G. degenerava in AIDS. Gli attori proponevano appello.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 2127, depositata il 16.05.2005,
accoglieva in parte l’appello, condannando in solido il Ministero (per responsabilità
ex art. 2050 c.c.) e l’Università (per responsabilità ex art.2043 e 2050 c.c.) a pagare
agli appellanti il solo danno morale per la morte della B., liquidato in Euro 50.000,00
oltre interessi dalla data della pubblicazione della sentenza. Condannava l’assicuratrice a manlevare l’Università di quanto avrebbe dovuto pagare.
In particolare il Giudice di Appello rigettava l’eccezione di prescrizione quinquennale avanzata dall’Università (in relazione al danno subito dalla B.), rilevando
Svolgimento del processo
G.F.
217
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
che la B. solo il 02/04/1992, a seguito di certificazione della sezione di ematologia,
aveva avuto conoscenza della gravità della malattia e della sua eziologia. Riteneva
sussistente la responsabilità di entrambi gli appellanti a norma dell’art. 2050 c.c. e
della sola Università anche a norma dell’art. 2043. La Corte territoriale non riteneva sufficientemente provato il nesso di causalità tra i danni dedotti dal G. alla sua
persona ed i comportamenti omissivi delle amministrazioni convenute, in quanto il
certificato emesso nel 1996 alle divisioni di ematologia dell’Università La Sapienza, attestava solo un giudizio di verosimiglianza della dipendenza del contagio dalla malattia della B. Gli attori hanno proposto ricorso per cassazione articolato in 5
motivi ed hanno anche presentato memoria. Resiste con controricorso l’Assitalia S.p.A.
Il Ministero della Salute e l’Università la Sapienza resistono con controricorso ed
hanno proposto anche ricorso incidentale, articolato in 8 motivi, a cui resistono con
controricorso i ricorrenti principali.
La causa è stata rimessa alle Sezione Unite, presentando questioni di massima
di particolare importanza relative al nesso causale in tema di responsabilità civile,
segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento
dei danni lungo latenti; alla responsabilità della struttura sanitaria e del Ministero della Salute per danno da sangue infetto; al rapporto tra indennizzo ex L. n. 210 del 1992,
e risarcimento del danno.
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Sempre preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di difetto di legittimazione passiva avanzate dai ricorrenti incidentali con i primi tre motivi del loro ricorso
incidentale. Con il primo motivo l’Università La Sapienza lamenta la violazione e
falsa applicazione dei principi di cui la D.L. 1 ottobre 1999, n. 341, conv. In L. 3 dicembre 1999, n.453, in punto di legittimazione passiva dell’Università per effetto dell’istituzione dell’Azienda Policlinico Umberto I, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3
nonché il difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n.5.5.
Il motivo è infondato.
Il citato D.L. n. 341 del 1999, ha costituito l’Azienda Policlinico Umberto I
quale ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, precisando che detto ente succede “all’omonima azienda universitaria nei rapporti in corso relativi alla gestione dell’assistenza sanitaria con utenti, autorità competenti e altre amministrazioni,
nei contratti in corso per la costruzione di strutture destinate ad attività assistenziali, nonché nei contratti in corso per la fornitura di beni o servizi destinati all’assistenza sanitaria” (art. 1)
La successione in tali termini disposta non è stata, pertanto, a carattere universale e non ha quindi avuto alcuna incidenza sui processi pendenti che, conseguentemente proseguono tra le parti originarie (art. 111 c.p.c., comma 1). Secondo
quanto originariamente stabilito dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, i “policlinici
universitari” costituivano aziende “dell’università” dotate “di autonomia organizzaMotivi della decisione
218
tiva, gestionale e contabile”, ma prive di personalità giuridica (art. 4, comma 5), a
meno che non fossero costituite in “azienda con personalità giuridica pubblica”, secondo quanto previsto dal comma 1 e dal comma 3, dello stesso articolo.
Tale duplicità di regime è stata mantenuta anche nel nuovo testo del D.Lgs. n.
502 del 1992, art. 4, introdotto dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 4.
La costituzione in ente avente personalità giuridica di diritto pubblico dell’azienda universitaria “Policlinico Umberto I” è stata effettuata, per la prima volta, con
il citato D.L. n.341 del 1999. E’ quindi evidente che, in precedenza, i rapporti derivanti dall’utilizzazione di tale struttura sanitaria potevano essere legittimamente riferiti all’Università “La Sapienza” di Roma della quale il Policlinico costituiva parte integrante, ancorché dotata di “autonomia organizzativa, gestionale e contabile”
(Cass. 26.03.2003, n. 4456).
Pertanto il presente giudizio, avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante sia da responsabilità contrattuale che extracontrattuale, essendo stato correttamente instaurato con citazione del 10.3.1997 nei confronti dell’Università La Sapienza, è correttamente continuato nei confronti di detta Università, anche a seguito
dell’entrata in vigore del D.L. n. 341 del 1999. 3. Con il secondo motivo di ricorso
il ricorrente incidentale Ministero della Salute lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi di cui al D.Lgs. n. 112 del 1998, integrato del D.P.C.M. 25 maggio 2000, e dell’accordo Governo – Regioni dell’8.8.2001, in tema di legittimazione passiva delle Regioni nel campo della salute umana, nonché il difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c, nn. 3 e 5.
Assume il ricorrente Ministero che per effetto della suddetta normativa i compiti amministrativi in tema di salute umana sono stati trasferiti alle Regioni.
Il motivo è infondato, in quanto, a parte altri profili, si fonda su un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni sulla base di legislazione degli anni 1998
e seguenti, mentre nella fattispecie i fatti attengono a date precedenti e la stessa citazione è dal 10 marzo 1997. 5. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente Ministero lamenta la violazione e falsa applicazione del D:P.R. n. 4 del 1972, del D. Lgs. N.
616 del 1977, e della L. n. 833 del 1978, con specifico riferimento alla competenza
istituzionale del Ministero della Salute e conseguente difetto di legittimazione dello
stesso, nonché il difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. 6. Il
motivo è infondato.
Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l’attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di emoderivati all’epoca dei fatti.
La L. n. 592 del 1967, (art.1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per
l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei sui derivati e ne esercita la vigilanza, nonché (art.
21) il compito di autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei
suoi derivati per uso terapeutico.
219
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2,3, 103, 112).
La L. n. 519 del 1973, attribuisce all’Istituto Superiore di Sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.
La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione
del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli
emoderivati (art. 6, lett. B, c), mentre l‘art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interessa
nazionale.
Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla cd. “farmacosorveglianza” da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti
cautelari sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990,
n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente,
un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del
Ministero della Sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere
(qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dover di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
Completato l’esame delle questioni pregiudiziali sollevate nel ricorso incidentale, può passarsi all’esame dei motivi del ricorso principale.
Con il primo motivo i ricorrenti principali lamentato la violazione degli artt.
99, 100, 112, 342 e 346 c.p.c., nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione,
ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assumono i ricorrenti che erratamente la sentenza impugnata ha considerato
implicitamente abbandonata la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale dell’Università; che essi avevano agito in primo grado sia per responsabilità contrattuale che extracontrattuale dell’Università; che il primo Giudice
aveva rigettato entrambe le domande per mancanza della colpa necessaria ad integrare entrambe tali ipotesi di responsabilità; che essi avevano proposto l’appello per
vedersi accogliere la domanda così come proposta in primo grado, sviluppando nei
motivi, segnatamente quello contraddistinto con la lettera D), le ragioni a sostegno
dell’esistenza della colpa in relazione ad entrambi i tipi di responsabilità; che, così
220
operando, la Corte di Appello aveva omesso di pronunziarsi sulla responsabilità contrattuale dell’Università.
Va, anzitutto, esaminato se nell’atto di appello era stata abbandonata la domanda
di responsabilità contrattuale dell’Università e se era stato impugnato il rigetto della stessa in primo grado con specifico motivo.
L’art. 346 c.p.c., così recita: “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.
In mancanza di una norma specifica sulla forma nella quale la parte, che voglia evitare la presunzione di rinuncia di cui alla ricordata disposizione deve reiterare le domande e le eccezioni, in senso proprio, non accolte in primo grado è pacifico – presso una più che consolidata giurisprudenza di legittimità – che queste possono essere riproposte in qualsiasi forma idonea ad evidenziare la volontà di riaprire la discussione e sollecitare la decisione su di esse. La proposizione, tuttavia, per
se libera da forme, deve essere fatta in modo specifico, non essendo sufficiente un
generico richiamo alle difese svolte e alle conclusioni prese davanti al primo giudice (Cass. S.U. 23/12/2005, n. 28498; Cass. 11/05/2005, n. 9878; cfr, altresì Cass. 20
febbraio 1998 n. 1798, nonché Cass. 17 dicembre 1999 n. 14267).
I motivi di appello sono specifici, nel senso voluto dalla prima parte dell’art.
342 c.p.c., se si traducono nella prospettazione di argomentazioni contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette ad incrinarne il fondamento logico giuridico (Cass. S.U., 29/01/2000, n. 16).
Qui non si tratta di un problema di interpretazione dell’atto introduttivo del
giudizio di appello e quindi delle “domande” proposte al giudice dell’impugnazione, sulle quali, per quanto a seguito di errata interpretazione ed individuazione del
richiesto, si sia poi il giudice stesso pronunziato. In questa ipotesi, essendovi in ogni
caso stata una pronunzia del Giudice sulla domanda, la doglianza non può essere prospettata sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c., n.4 mentre la parte che
lamenti tale errata interpretazione del richiesto deve farla valere nei termini di cui
all’art. 360 c.p.c., n. 5. Allorché, invece, come nella fattispecie, il giudice ritenga che
la domanda non gli sia stata proprio proposta (a cui è da assimilare negli effetti l’ipotesi in cui ritenga che la domanda, per quanto proposta, non sia ammissibile) e quindi, sia pure per tale ragione, non si pronunzi, la mancanza di decisione sulla domanda concretizza il vizio di cui all’art. 112 c.p.c.. In altri termini l’error in procedendo
può sussistere non solo nell’ipotesi in cui il giudice nulla dica in merito ad una domanda, ma anche allorché egli espressamente la escluda nell’an, mentre nell’ipotesi in cui la questione attiene al “qualis” della domanda, la decisione è sindacabile in
sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo motivazionale.
Nella fattispecie dell’esame dell’atto di appello emerge con chiarezza che gli
appellanti richiedevano la condanna dell’Università al risarcimento del danno sia per
Il motivo è fondato e va accolto.
221
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
responsabilità contrattuale che extracontrattuale. Poiché il rigetto di tale domanda sotto entrambi i profili era avvenuto da parte del Tribunale per la ritenuta mancanza di
colpa, con il motivo D) dell’atto di appello gli appellanti specificamente si dovevano, con argomentazione che si contrapponeva a quella effettuata dal primo Giudice,
che tale colpa esisteva con riferimento ad entrambe le ipotesi di responsabilità, assumendo che, per quanto riguardava la responsabilità contrattuale, competeva alla debitrice Università fornire la prova liberatoria della non imputabilità dell’inadempimento.
Ne consegue che la Corte di Appello, la quale erratamente ha ritenuto che la
domanda di responsabilità contrattuale dell’Università fosse stata abbandonata implicitamente con l’atto di appello (id est : non fosse stata riproposta al Giudice di Appello), è incorsa in un’omessa pronunzia sul motivo di censura avverso la statuizione
del primo Giudice che aveva rigettato tale domanda.
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia sulla responsabilità del Ministero a norma dell’art. 2043 c.c..
Assumo ricorrenti che, pur avendo essi proposto la domanda al giudice di primo grado per risarcimento dei danni a carico del Ministero sia ai sensi dell’art. 2043
c.c., che dell’art. 2050 c.c., e pur avendo ribadito tale richiesta con l’atto di appello,
la Corte di Merito aveva ritenuto la responsabilità dell’Università per entrambi i titoli, mentre, per quanto riguardava il Ministero essa si era limitata a pronunziarsi solo
sulla responsabilità ex art. 2050 c.c., (riconoscendola), omettono ogni pronunzia rispetto all’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c..
Va, anzitutto, osservato che permane l’interesse processuale dei ricorrenti a coltivare tale motivo di impugnazione della sentenza di appello, pur in presenza di una
statuizione di responsabilità extracontrattuale (quindi della stessa natura) sia pure solo ex. Art. 2050 c.c., in quanto, non essendo la decisione sul punto passata in giudicato, la fruttuosa impugnazione della stessa da parte del Ministero (come in effetti avviene infra in accoglimento del motivo quinto del ricorso incidentale) precluderebbe
il riesame della questione della responsabilità extracontrattuale del Ministero ex art.
2043 c.c., in assenza di impugnazione.
Con l’atto di appello i ricorrenti hanno richiesto la riforma della sentenza del
Tribunale anche sul punto del rigetto della domanda di responsabilità del Ministero
ex art. 2043 c.c., per mancata prova della colpa.
Ed in effetti il Giudice di Appello (pag.10) individua il “thema decidendum”, a
lui sottoposto, nell’esistenza o meno della colpevolezza del comportamento tanto dell’Università quanto del Ministero ai fini della responsabilità aquiliana di cui all’art.
2043 c.c., Sennonché nello sviluppo dell’argomentazione il Giudice di Appello, che
pur ritiene tale colpevolezza per l’Università, adottando argomentazioni riferite a volte anche al Ministero, dimentica di pronunziarsi sul medesimo punto, quanto alla poIl motivo è fondato.
222
sizione del Ministero, omettendo in merito ogni decisione (anche se il Ministero nel
ricorso incidentale – motivo n.4 - pare ritenere che ci sia stata un’affermazione della
sua responsabilità anche ex art. 2043 c.c.).
Ne consegue che sul punto la sentenza impugnata ha violato l’art. 112 c.p.c.,
per omessa corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato.
Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione del disposto
dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, per nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia, per violazione ed errata applicazione degli artt. 1223, 1226, 1241, 2043
e 2059 c.c., dell’art. 185 c.p., e degli artt. 2, 29, 30 e 32 Cost., nonché per omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione.
Assumono i ricorrenti che essi, sia con la citazione in primo grado, sia con l’atto di appello avevano richiesto il risarcimento del danno patrimoniale, biologico e
morale, subiti dalla B.L. e loro spettante iure hereditatis, nonché del danno patrimoniale
e non patrimoniale da loro subito per la morte della rispettiva madre e coniuge, loro
spettante iure proprio; che la Corte di Appello aveva liquidato esclusivamente Euro
50.000.,00 a titolo di danno morale (senza specificare se trattavasi di quello iure proprio o iure hereditatis) da dividersi secondo le quote ereditarie, danno liquidato equitativamente e tenuto conto che vi era stato un indennizzo già di L. 150.000.000 da
parte dello Stato; che era stata omessa ogni decisione in merito alle altre voci di danno; che tale non poteva considerarsi l’espressione “in difetto di prova di ulteriori pregiudizi”; che in ogni caso tale motivazione era insufficiente, avendo essi attori provato, ai fini del danno biologico la lunga degenza della congiunta fino alla morte;
che essa era casalinga; che essi attori erano conviventi con la rispettiva madre e moglie; che in ogni caso era errata la compensatio lucri cum damno effetuata; che la liquidazione del danno morale della B. era insufficiente.
A tal fine va osservato che il risarcimento del danno morale, del danno biologico e di quello patrimoniale compete “iure successionis” ai prossimi congiunti della persona deceduta, che abbiano agito in qualità di eredi e nei limiti della relativa
quota, onde ottenere la riparazione dei danni sofferti in vita dal defunto e così da far
valere il diritto al risarcimento già entrato a far parte del patrimonio del defunto.
Ciò presuppone che sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse ed il danno (sia biologico che morale) va
liquidato in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica del soggetto leso per il periodo di tempo indicato e il diritto del danneggiato a conseguire il
risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti
del danneggiante “iure hereditatis” (Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131; Cass. 10 febbraio 1999, n. 1131; Cass. 26 settembre 1997, n. 9470). La proposizione di domanda risarcitoria al suindicato titolo non è peraltro preclusa dalla presentazione di altra
domanda volta a conseguire, nella qualità di prossimi congiunti del defunto, il risarIl motivo è parzialmente fondato.
223
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
cimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali, a ciascuno di essi spettante “iure
proprio” a causa della morte del congiunto (cfr. Cass. 09/03/2004, n. 4754; Cass.
07/03/2003, n. 3414).
Nella fattispecie gli attori, attuali appellanti, avevano richiesto iure hereditatis il risarcimento sia dei danni subiti dalla B. dalla data dell’insorgenza dell’infezione
(anni 1983/1985) al momento del decesso ((OMISSIS)), sia i danni subiti iure proprio per la morte della rispettiva madre e moglie.
La Corte di Merito si è limitata a liquidare la somma di Euro 50.000,00 agli appellanti, quali eredi della de cuius (pag.16, 1^ rigo). Quindi ha liquidato il solo danno morale iure hereditatis.
Tale liquidazione è stata effettuata, tenendo conto che il Ministero aveva già corrisposto la somma di L. 150.000.000 a titolo di indennizzo.
Questo specifico punto è impugnato dai ricorrenti sia perchè ritengono esigua la
somma sia perché assumono che tale compensazione non potesse effettuarsi.
Questa censura, relativa al danno morale iure hereditatis, va rigettata.
Quanto allo scomputo operato dal Giudice di Appello va osservato che la diversa natura giuridica dell’attribuzione indennitaria ex. L. n. 210 del 1992, e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta
da HIV ed HCV a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei confronti del Ministero della Sanità, per aver omesso di adottare adeguate
misure di emovigilanza, non osta a che l’indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in
caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo,
in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni
patrimoniali dovute allo stesso soggetto (il Ministero della Salute) ed aventi causa del
medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento.
Avendo quindi la sentenza impugnata correttamente ritenuto che nella fattispecie vada effettuato lo scomputo, esso opera anche nei confronti dell’Università, poiché, a parte altri possibili rilievi, nella fattispecie trattasi di obbligazione solidale e quindi avente ad oggetto la medesima prestazione.
Quanto alla censura di insufficienza della somma liquidata a tale titolo di danno morale subito dalla de cuius, che dopo 12 anni di malattia lasciava 2 figli minori
ed un coniuge da lei infettato, va osservato che in tema di determinazione del danno
morale, è censurabile in sede di legittimità l’esercizio del potere equitativo del Giudice di Merito solo quando la liquidazione del danno stesso appaia manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura ed all’entità
del danno dal medesimo Giudice accertate (Cass. 02/03/2004, n. 4186; Cass. 08/03/2006,
n. 4980; Cass. 12/05/2006, n. 11039).
Nella fattispecie non può ritenersi “simbolica” la somma liquidata a tale titolo,
considerato che è stata liquidata la somma di Euro 50.000,00 proprio perché è stata
già scomputata la somma di cui all’indennizzo.
224
Egualmente infondato è il ricorso sotto il profilo dell’omessa pronunzia, e quin-
di di violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il giudice rigettato la domanda di risarcimento
in merito alle altre voci di danno, sia pure con la formula “in difetto di prova di ulteriori pregiudizi”. Infatti, a parte l’aspetto motivazionale, una pronunzia vi è stata.
Fondato è invece il ricorso nella parte in cui censura l’impugnata sentenza per vizio motivazionale, quanto al rigetto delle ulteriori domande risarcitorie con la suddetta
motivazione.
Trattasi di motivazione assolutamente apparente ed in parte anche contraddittoria. Infatti, quanto al danno biologico subito dalla B., avendo la Corte di Merito ritenuto che la stessa sera era stata infettata dal virus dell’HIV per effetto di assunzione di emoderivati e di plasma con sangue infetto tra il 1983 ed il 1985, poi degenerato in AIDS
conclamato, che portava a morte il (OMISSIS), è contraddittorio ritenere che non sussiste un danno biologico durante tale periodo, peraltro in assenza di consulenza medicolegale, pur richiesta.
Quanto al danno patrimoniale subito dalla B., la sentenza omette di valutare le
prove sull’attività di casalinga della de cuius, prodotte dagli attori, e le conseguenze della patologia su tale attività.
Chi svolge attività domestica (attività tradizionalmente esercitata dalla “casalinga”), benché non percepisca reddito monetizzato, svolge tuttavia un’attività suscettibile
di valutazione economica; sicché quello subito in conseguenza della Riduzione della
propria capacità lavorativa, se provato, va legittimamente inquadrato nella categoria del
danno patrimoniale (come tale risarcibile, autonomamente rispetto al danno biologico,
nelle componenti del danno emergente ed, eventualmente, anche del lucro cessante). Il
fondamento di tal diritto – che compete a chi svolge lavori domestici sia nell’ambito di
un nucleo familiare (legittimo o basato su una stabile convivenza) sia soltanto in favore
di sé stesso – è difatti pur sempre di natura costituzionale, ma a differenza del danno biologico, che si fonda sul principio della tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.), riposa
sui principi di cui gli artt. 4, 36 e 37 Cost., (che tutelano rispettivamente, la scelta di qualsiasi forma di lavoro e di diritto del lavoratore e della donna lavoratrice) (Cass. 20.10.2005,
n. 20324, Cass. 09.02.2005, n. 2639).
Quanto al danno patrimoniale subito iure proprio dagli attori, la Corte di Merito,
per poter affermare il difetto di prova di ulteriori pregiudizi, avrebbe dovuto adeguatamente argomentare che la scomparsa della madre e moglie, casalinga nella fattispecie,
non aveva prodotto alcun danno patrimoniale agli attori, che invece avevano offerto documentazione su tale attività familiare della de cuius.
La giurisprudenza di questa Corte è, invece, correttamente orientata nel ritenere
che in caso di morte della casalinga, i congiunti conviventi hanno diritto al risarcimento del danno subito per la perdita delle prestazioni attinenti alla cura e assistenza da essa fornite. Tali prestazioni, benché non produttive di reddito, sono valutabili economicamente, facendo riferimento al criterio del triplo della pensione sociale o sulla base del
reddito di una collaboratrice familiare con gli opportuni adattamenti per la maggior ampiezza di compiti della casalinga (Cass. 12.09.2005, n. 18092; Cass. 10.09.1998, n. 8970).
225
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
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Quanto al danno non patrimoniale subito dai congiunte jure proprio per la perdita della rispettiva madre e moglie, è meramente apparente la motivazione di rigetto
della domanda del risarcimento sotto il solo rilievo del “difetto di prova di ulteriori
pregiudizi”.
E’ vero che la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, in termini di automatismo o anche solo di notorio, occorrendo di volta in volta verificare l’intensità oltre all’attualità del legame affettivo e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia
inciso sulla relazione con il congiunto, fino a comprometterne lo svolgimento, secondo un accertamento rimesso ai poteri esclusivi del Giudice del Merito (e ciò sia sotto
il profilo del c.d. danno morale soggettivo che del danno da perdita del rapporto parentale) (Cass. 04.11.2003, n. 16525). Esso, quale tipico danno conseguenza, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, potendosi tuttavia ricorrere a valutazioni prognostiche e presunzioni sulla base degli elementi obiettivi forniti dal danneggiato, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti, la compromissione delle esigenze di questi ultimi (Cass. 15.07.2005 n.
15022),
Nella fattispecie pur avendo gli attori fornito la prova del rapporto di parentela
in linea retta e di coniugo, dell’età di tutte le parti e del rapporto di convivenza, la Corte di Appello non ha preso in considerazione tali elementi.
Pertanto, in relazione a queste censure di vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, nella parte in cui ha rigettato l’appello in merito del danno patrimoniale e biologico richiesto iure hereditatis ed al danno patrimoniale e non patrimoniale richiesto
iure proprio con il decesso della B., il motivo di ricorso va accolto.
Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2056
e 1223 c.c. nonché il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza per aver la corte
territoriale riconosciuto la decorrenza degli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza e non da quella del fatto illecito.
Il motivo è fondato.
Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (ex multis. Cass. 3.08.2005,
n. 16237; Cass. 10.03.2006, n. 5234), che fa capo alla decisione della S.U. 17 Febbraio 1995, n. 17212, gli interessi c.d. compensativi sui debiti di valore devono essere computati o con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente del bene perduto si incrementa nominalmente (per effetto dei prescelti indici
di rivalutazione), ovvero in base ad un indice medio, egualmente applicabile dal Giudice, tenuto conto che detta liquidazione del danno da ritardo, per quanto effettuata
secondo la tecnica degli interessi, rientra pur sempre nello schema liquidatorio del danno di cui all’artt. 2056 c.c. (tra cui il potere equitativo ex art. 1226 c.c.).
Ritenuto che gli interessi in questione adempiono solo alla funzione di tecnica
liquidatoria del danno da ritardo, detto danno in luogo degli interessi legali può esse-
226
re liquidato anche equitativamente dal Giudice, o, come si suol dire, con la liquidazione equitativa di detti interessi, ed anche il Giudice può effettuare una liquidazione
equitativa globale, in un’unica somma, comprendente sia la prestazione cd. principale, che la rivalutazione monetaria e gli interessi, ove anche per tali voci ricorrano le
condizioni di cui all’art. 1226 c.c., (richiamato dall’art. 2056 c.c.) proprio per la natura unitaria dell’obbligazione di valore, senza necessità di specificare i singoli elementi della liquidazione (Cass. 24.3.2003 n. 4242; Cass. 13 marzo 1995, n. 2910).
E’ tuttavia necessario che il Giudice specifichi se tale liquidazione investa solo la somma capitale ovvero essa è la rivalutazione (generalmente tradotta nella locuzione che la liquidazione è effettuata “all’attualità” o “in moneta attuale”) ovvero
che comprenda anche il danno da ritardo (funzione altrimenti assolta dagli interessi
c.d. compensativi).
Nella fattispecie, la Corte di Merito si è limitata a dire che il danno era liquidato all’attualità, ma non anche nella somma liquidata era compreso il danno da ritardo. Ciò comporta che erratamente essa ha liquidato tale danno, con la tecnica degli interessi, solo a decorrere dalla data della pubblicazione della sentenza e non dalla data del fatto dannoso.
Con il quinto motivo di ricorso il solo ricorrente G. F. lamenta la violazione
dell’art. 342 c.p.c., artt. 2043, 2056, 1223 c.c., artt. 40 e 41 c.p., art. 116 c.p.c., artt.
2727 e 2729 c.c., nonché il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza per avere
rigettato la domanda di risarcimento del danno da lui proposta, danno subito a seguito del contagio da AIDS dovuto dai rapporti sessuali con la moglie, in periodo
precedente all’avvenuta consapevolezza della patologia contratta da questa.
Assume il ricorrente che l’appello presentava una specifica doglianza in merito al rigetto di tale domanda; che sussisteva il nesso causale tra il comportamento
omissivo dei convenuti, il contagio della moglie ed il contagio suo a seguito dei rapporti sessuali (tra l’atro la moglie aveva procreato due figli ed avuto due aborti); che
il rapporto sessuale era un veicolo di trasmissione dell’infezione; che non era stata
dedotta dai convenuti all’esistenza di fatti o elementi probatori di segno contrario;
che il certificato della sezione di ematologia dell’Università di Roma del (omissis)
dichiarava verosimile che la causa del contagio era costituita dai rapporti sessuali con
la moglie, portatrice dell’infezione; che il contagio era stato accertato nel 1993, mentre la moglie aveva riportato l’HIV per assunzioni di emoderivati e plasma, avvenute tra il 1983 e 1985; che quindi sussisteva il nesso causale posto in dubbio dalla Corte di Merito.
Va, anzitutto, escluso, come sostenuto dalla Corte di Merito che il motivo di
appello del G. fosse sul punto generico.
La sentenza del Tribunale aveva, infatti, rigettato tutte le domande sotto il proIl motivo è fondato.
227
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
filo della mancanza di colpevolezza dei convenuti e non sotto il profilo della mancanza di nesso causale.
Con l’appello il G. ha impugnato anzitutto alla motivazione fondante il rigetto della domanda (e cioè l’assenza di colpevolezza) e nel motivo lett. G) dell’appello ha censurato specificamente la sentenza di primo grado di merito al mancato accoglimento della sua domanda di risarcimento del danno per infezione da HIV.
Fondata è anche la censura in merito alla violazione dei principi che regolano
i criteri di accertamento del nesso, una volta ritenuto che il comportamento omissivo dei convenuti era causa del contagio da HIV, subito dalla moglie del G.
La Corte di Merito ha provato il nesso causale tra il comportamento omissivo
dei convenuti ed il contagio della B, ma ritiene che non sia ulteriormente provato il
segmento causale che va dal contagio di quest’ultima al contagio del coniuge G.
Riservandosi di tornare più dettagliatamente sui principi che regolano il nesso di causalità tra evento e comportamento omissivo, allorché si esaminerà il IV motivo del ricorso dei ricorrenti incidentali, va qui solo rilevato che il problema che si
pone non è se il comportamento dei convenuti abbia dato causa al contagio della B.,
che per la Corte è un dato positivamente accertato, ma se quest’ultimo a sua volta sia
eziologicamente collegato al contagio del coniuge.
In altri termini qui non è in rilievo il nesso causale tra un comportamento omissivo dei convenuti ed un primo evento (subito dalla B.), ma il problema è l’assoluta
mancanza di prove sul nesso causale tra quest’ultimo e l’evento dannoso subito dal
G., il quale attraverso tale collegamento causale, finirebbe per essere imputabile ai
convenuti.
Pertanto, essendo certo che il G. è affetto da AIDS, la questione è se tale malattia l’abbia conseguita da rapporto sessuale con la moglie, nel qual caso sarebbe
accertata la responsabilità dei convenuti, ovvero da causa rimasta ignota.
Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona va tenuta distinta la c.d. causalità generale dalla cd. causalità individuale o del singolo caso.
La causalità generale è un’espressione che ha fatto ingresso nel mondo giuridico sotto l’impulso di moderne scienze, come l’epidemiologia o la biologia animale: essa sta ad indicare il rischio che incombe su popolazioni indagate (cioè su gruppi e non su singoli individui). Essa si fonda su un giudizio di probabilità scientifica
e si contrappone alla causalità individuale, cioè al nesso di condizionamento tra esposizione a rischio e singolo evento lesivo. Anche questa non sempre può essere sostenuta da un giudizio di certezza assoluta, ma di probabilità scientifica, ma trattasi
in questo caso di probabilità relativa alla concretizzazione del singolo caso della legge causale generale.
Questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza
di fattori alternativi, può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva, che
presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Infatti la prova presuntiva è mezzo non regolato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia del-
228
le prove, cui il Giudice può far ricorso anche in via esclusiva per la formazione del
suo convincimento, secondo le regole di cui all’art. 2727 c.c., (Cass. S.U. 24.03.2006,
n. 6572).
Il principio in tutti questi casi continua ad essere quello per cui l’attore è tenuto a provare il nesso di causa, ma si tratta di una prova che può essere caratterizzata da meccanismi di tipo presuntivo.
Quanto alla censura di violazione degli artt. 2727, 2729 c.c., e di vizio motivazionale, osserva questa Corte che secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, nella ricerca e nella valutazione degli elementi presuntivi del proprio convincimento, il Giudice del Merito è investito del più ampio potere discrezionale, nel senso che è libero di scegliere gli elementi che ritiene maggiormente attendibili e meglio rispondenti all’accertamento del fatto ignoto ed a valutarne la gravità e la concludenza.
Il Giudice deve comunque procedere ad un esame organico e complessivo (globale) degli elementi di fatto presi in considerazione, cioè esprime un ragionamento
non viziato dall’ illogicità o da errori giuridici, quale l’esame isolato dei singoli elementi presuntivi, al fine di ritenerne l’irrilevanza caso per caso (Cass. 13.10.2005,
Cass. 106.61995, n. 6556).
E’ ovvio poi che, se in tema di prove di presunzione, il controllo della Corte
di Cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi indiziari o presuntivi, convincimento che costituisce indubbiamente un giudizio di fatto, può tuttavia incidere sulla congruità e logicità della motivazione posta a base del suaccennato convincimento. La sentenza potrà, se del caso, essere censurata sotto il solo profilo della insufficiente motivazione
consistente nella mancata rilevazione, da parte del giudicante, del fatto che gli elementi noti e non considerati deponevano, con il dovuto grado di probabilità, nel senso della ricorrenza del fatto ignoto (Cass. 04.03.1998, n. 2393).
Nella fattispecie il Giudice di Appello ha apoditticamente affermato che l’unico elemento di prova sul nesso causale era rappresentato dal certificato della sezione ematologica dell’Università di Roma del (omissis) e che, contenendo esso solo
un giudizio di verosimilanza sul contagio del G. per i rapporti sessuali con la moglie
ammalata, non consentiva di raggiungere certezza probatoria necessaria per il nesso di causalità, senza neppure ammettere la consulenza tecnica richiesta dall’attore.
Come correttamente rilevato dal ricorrente, non ha valutato la Corte d’Appello che la B. era contagiata dal (omissis); che il contagio del G. fu accertato nel (omissis); che i coniugi avevano avuto due figli e due aborti, che era notorio che i rapporti sessuali sono uno dei veicoli principali di diffusione dell’HIV; che, soprattutto, non
erano stati individuati e neppure dedotti dai convenuti altri ipotetici fattori alternativi di infezione.
Così operando il Giudice di Merito da una parte non ha valutato complessivamente i vari elementi di fatto, in violazione dell’art. 2729 c.c., e dall’altra ha dato
una motivazione insufficiente.
229
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Va quindi accolto il motivo di ricorso e vanno affermati i seguenti principi di
diritto:
A) “Nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona
pur dovendosi distinguere dalla c.d. causalità generale (l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe su popolazioni
indagate, cioè su gruppi e non su singoli individui) dalla c.d. causalità individuale o
del singolo caso (relativa alla probabilità ragionevole della concretizzazione del singolo caso della legge causale generale) va rilevato che questa causalità specifica, in
presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva, che presenti i requisiti dalla gravità, precisione e concordanza”.
B) “Ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità
civile, diversamente da quella penale dove vige la regola della prova “Oltre il ragionevole dubbio”, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e
difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e
l’equivalenza di quelli in gioco del processo civile tra le due parti contendenti”.
C) “Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per
presunzioni si articola in due momenti valutativi; in primo luogo occorre che il Giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino un positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve
procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una
valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi. E’ pertanto viziata da errore di diritto e censurabile in sede di legittimità – a tale sindacato sottraendosi l’apprezzamento circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte di presunzione e la loro concreta rispondenza ai requisiti di legge soltanto se il relativo giudizio non risulti viziato a illogicità o da erronei criteri giuridici – la decisione in cui il Giudice si sia limitato a
negare il valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi,
quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento”.
L’accoglimento dei predetti motivi di ricorso comporta l’assorbimento del sesto motivo relativo alla statuizione sulle spese processuali.
Con il quarto motivo del ricorso incidentale i ricorrenti Università e Ministero
della Salute lamentano la violazione e falsa applicazione dei principi in materia di
responsabilità extracontrattuale, difetto di prova del nesso di causalità, violazione del-
230
l’art. 2043 c.c., e della responsabilità aquiliana da comportamento omissivo, difetto
dell’elemento colposo, difetto di motivazione a norma dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assumono i ricorrenti incidentali che non sussiste alcun nesso di causalità tra
il loro ritenuto comportamento omissivo e l’infezione della B., in quanto essendo la
stessa avvenuta nei primi anni (omissis), allorché era ancora conosciuto il virus dell’HIV, la mancata conoscenza di questo virus e di strumenti idonei ad individuarlo
rileva sia sotto il profilo dell’inesistenza del nesso causale che della colpevolezza.
liana.
Va esaminato la questione del nesso casuale in ipotesi di responsabilità aquiIl motivo è infondato.
Osserva preliminarmente questa Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al
“fatto illecito”, divenuto “fatto dannoso”.
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il
cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso casuale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno
e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un “fatto” è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga,
giacché l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’art. 2043 c.c. e segg. le quali si risolvono nella descrizione di un
nesso, che le leghi storicamente ad un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di
altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.
Il “danno” rileva così sotto due profili diversi, come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente
il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno – conseguenza, non vi è
l’obbligazione risarcitoria.
Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, della causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p. e di danno rileva
solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell’art. 1223 c.c. (richiamato
231
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
dall’ art. 2056 c.c.) per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalità giuridica), per cui
esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.
Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente,
da un lato il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi a monte una responsabilità “strutturale” (Haftungsbegrundende Kausalitat)
e, dall’altro, il nesso che collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalität).
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nell’art. 1227 c.c., 1 e 2 comma. Il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il comma 2 attiene al rapporto evento – danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.
Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” è addebitata a chi “cagiona ad altri un danno ingiusto”, o , come afferma l’art. 1382 Code Napoleon “qui cause au autrui un dommage”.
Un’analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non
è richiesta in tema di responsabilità c.d. contrattuale o da inadempimento, perché in
tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il
debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta.
E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall’ovvio presupposto di dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover
optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno”,
cui è dedicato l’art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del
terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il
profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o
extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c. è composto dagli artt.
1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla
disposizione dell’art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’art. 1221 c.c. che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettiva avvenuta.
Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli
artt. 40 e 41 c.p. ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, fer-
232
me restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (ed. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di casualità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art.
41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere
irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n.
1929; Cass. 10.03.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).
Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una casualità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cu si produce l’evento
causante non appaiono del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non
del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex mult. Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006,
n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152M Cass. 10.05.2000
n. 5962).
Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze
della sua condotta, attiva od omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al
momento nel quale ha gito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili.
Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè
con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è
stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne
sarebbe potuta discendere una data conseguenza.
La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina
italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove
venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell’uomo
medio, ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché, non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).
In altri termini ciò che rileva è che l’evento sia prevedibile non da parte del-
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l’agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità delle stesse discende una parte un giudizio di non improbabilità dell’evento.
Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da un riferimento soggettivo) tra comportamento ed
evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito.
Inoltre se l’accertamento della prevedibilità dell’evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del
tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento nel senso che, quanto
maggiore è quel tempo, tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze
scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza
illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).
Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento (Cass. N. 20328 del 2006; Cass.
N. 21894 del 2004; Cass. 22.10.2003 n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia
una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza
di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’art 40 c.p., comma 2.
Poiché l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinata del processo dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in
relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di
tenere la condotta omessa in capo al soggetto.
L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non
si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.
234
La causalità dell’omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil fit.
Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale dell’omissione e non la causalità normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’art.
40 c.p.) fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perché l’evento
potesse realizzarsi.
La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto è per sé un comportamento antigiuridico), ma perché quell’omissione non è causa del danno lamentato.
Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità
ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.
L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato
“contro fattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal
danneggiato.
Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto
sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla “regolarità
causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tanto vale certamente allorché all’inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’artt. 2043 c.c.
Né può costituire valida obiezione la pur esatta considerazione delle profonde
differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicità dell’illecito, essendo
possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.
La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicità dell’illecito.
Altra parte della dottrina, sulla base delle considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’art. 1223 c.c.), per cui
un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e danno è tutto normativo.
Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p. temperati dalla “regolarità cau-
235
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
sale”, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata dalle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è
successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare.
Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.
E’ vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato,
mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni peraltro in assenza
del premio.
L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base
del criterio di imputazione.
E’ vero altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole, ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la
necessità del nesso di causalità di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico
– logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva.
E’ esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un’allocazione
del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una
condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: ohne Schuld keine Haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio
di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost – benefit analysis, per cui deve sopportare la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel
modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un’opzione per il
medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonché il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche
costituire un supporto argomentativo ed un orientamento nell’applicazione delle regole del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli
sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l’ingiustizia del danno.
Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di
imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svol-
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gono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è
propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della
sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della
responsabilità.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare responsabile”.
Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì, o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con
una condotta, ma con un concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve
mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale
segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento
e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del
danno.
Sennonché detto ciò, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità del criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra
l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c.
comma 4), posti all’inizio della serie causale.
Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e
l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la
particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di
imputazione e l’evento dannoso.
In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può
essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma
le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative,
rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del
costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accettare la causalità
237
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile.
Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e
quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre
il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che
non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo
senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.04.2007, n. 9238; Cass.
05.09.2006, n. 19047; Cass. 04.03.2004, n. 4400; Cass. 21.01.2000, n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione
delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili).
Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di
eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere in
conferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili
in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla
base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).
La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.
A parte il rilievo che l’evento dannoso è costituito nella fattispecie dalla lesione all’integrità fisica per effetto della trasfusione di sangue infetto, per cui la prevedibilità di
tale lesione andrebbe retrodatata al momento in cui era stata individuata tale possibile veicolazione di virus, indipendentemente dal punto se trattavasi di virus dell’epatite B o C o
dell’HIV, tuttavia, per rimanere nell’impostazione argomentativo – fattuale in cui si è sviluppato il giudizio tra le parti, va osservato che, con accertamento di merito rientrante nella sua esclusiva competenza, il Giudice di Appello ha rilevato che, come emergeva dalla
circolare n. 64 del 1983 del Ministero della Sanità, questi, sia pure in ritardo rispetto ad
autorità sanitarie straniere, già in quell’anno segnalava il rischio Aids per coloro che erano esposti a frequenti trasfusioni e somministrazioni di emoderivati.
Ne consegue che, poiché quanto meno da quell’anno anche il virus dell’Hiv era no-
238
to, non può sostenersi una mancanza di nesso causale (secondo il principio della c.d. “regolarità causale”) sotto il profilo che l’evento infettivo (Aids) era del tutto inverosimile.
La Corte di Merito con congruo accertamento ha stabilito che nel giugno del 1983 la B.
non era contagiata, come risultava dal “check up” effettuato in quella data, e che quindi,
tenuto conto di questo dato, del fatto che l’accertamento della sieropositività avvenne nel
(OMISSIS) nonché dell’attestazione rilasciata dalla sezione ematologia dell’Università di
Roma del 02.04.1992, il contagio da emotrasfusione avvenne tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), biennio nel quale, conoscendosi l’esistenza e la pericolosità delle trasfusioni ai fini
del contagio da virus HIV, ormai noto, l’evento dannoso non era per la scienza (e per la
regola statistica) imprevedibile e, quindi, improbabile.
Ne consegue che correttamente è stato affermato il nesso di causalità tra i comportamenti (dovuti ma omessi) del Ministero e dell’Università e l’evento dannoso subito dalla B.. Poiché l’elemento materiale nella fattispecie è unico, sia nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2043 c.c., che in quello ex art. 2050 c.c., l’accertamento in questione dell’elemento materiale (nelle sue tre componenti di comportamento omissivo, nesso causale ed
evento dannoso-contagio) produce i suoi effetti ai fini ricostruttivi di entrambe le ipotesi
di responsabilità. La Corte d’Appello ha altresì rilevato che sussiste la colpevolezza dell’Università, esclusa dal primo Giudice, per cui ne ha affermato la responsabilità sia a norma dell’art. 2043 c.c., che a norma dell’art. 2050 c.c..
Quanto al Ministero, pur dando atto dell’esistenza del motivo di appello relativo alla ritenuta non colpevolezza e pur sviluppando un’argomentazione sulla presenza in concreto (e non presunta) di tale colpevolezza con riferimento anche all’attività del Ministero, tuttavia la sentenza impugnata conclude poi sulla responsabilità ex art. 2043, della sola Università, senza alcuna pronunzia sul punto per il Ministero ( donde la ritenuta presenza della violazione dell’art. 112 c.p.c. fatta valere dai ricorrenti principali con il motivo n.2).
Il Ministero ha interpretato, contrariamente ai ricorrenti, la sentenza come se essa
contenesse anche un’affermazione della sua responsabilità ex art. 2043 c.c. poiché tanto
non è, proprio perché, fermo l’accertamento positivo dell’elemento materiale, la Corte d’Appello non si è pronunciata sull’elemento della colpevolezza in concreto del Ministero, escluso dal Tribunale, tale censura relativa all’elemento della colpevolezza in concreto del Ministero, escluso dal Tribunale, è inammissibile, non essendovi stata sul punto soccombenza.
La censura va, invece, esaminata solo in relazione alla posizione dell’Università.
Aderendosi ad una concezione oggettiva (o sociale) della colpa e quindi ad un apprezzamento in abstracto della diligenza ordinaria, il modello di comportamento richiesto non
può non definirsi che con riferimento alle condizioni concrete nelle quali la condotta dannosa è tenuta, ciò segnatamente allorché sia stato causato da un comportamento omissivo di un obbligo comportamentale.
In questo caso la responsabilità da omissione sorge, secondo l’ordinario criterio
della colpa, ogni volta che il danno poteva essere previsto ed evitato adottando l’ordinaria diligenza.
239
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
La Corte di Merito ha ritenuto, con motivazione esente da vizi, (pag.10 e segg.)
che “ elementari ragioni di prudenza avrebbero dovuto indurre l’Università ad esercitare i poteri di vigilanza e controllo di loro competenza nelle emotrasfusioni”.
Con il quinto motivo del ricorso incidentale il solo ricorrente Ministero della Salute lamenta la violazione dell’art. 2050 c.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto
che costituisse esercizio di attività pericolosa quella di emovigilanza da lui esercitata.
Sull’esistenza di obblighi normativi a carico del Ministero della Salute per la vigilanza e controllo nell’ambito dell’uso terapeutico di sangue umano, si è già detto sopra.
Tuttavia la pericolosità della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e
dell’uso degli emoderivati ( riconosciuto dal D.M. Sanità 15 gennaio 1991, art. 19, come non esente da rischi è già nota nella remota sentenza delle S.U. 19.6.1936, in
giur.it.1936, 866) non rende ovviamente pericolosa l’attività ministeriale, la cui funzione apicale, è solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie
o le autorizzazioni per l’importazione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma
di un’attività in senso lato imprenditoriale (ritenuto da parte della dottrina elemento necessario per la responsabilità ex art. 2050 c.c.), in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per
la collettività.
La responsabilità del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica e sugli emoderivati negli intervenuti trasfusionali appare inquadrarle nella violazione della causalità generale di cui all’art. 2043 c.c.
Il motivo è fondato.
Con il sesto motivo di ricorso i ricorrenti incidentali lamentano la violazione e
falsa applicazione dei principi in materia di prescrizione ex art. 2947 c.c. e segg., ed il
difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n.3.
Con i predetti due motivi i ricorrenti lamentano la violazione dei principi in materia di prescrizione ed in particolare la mancata applicazione dell’art. 2947 c.c., secondo il quale la semplice e soggettiva ignoranza del danneggiato sull’esistenza del danno da lui subito non è idonea a produrre il decorso della prescrizione.
Negano inoltre che si possa applicare il più lungo termine di prescrizione previsto per eventuale illecito penale di epidemia colposa o lesioni colpose, che in ogni caso non sussisteva alcun reato per mancanza dell’elemento soggettivo e per la presenza di cause di giustificazione e che, in ogni caso, la prescrizione non poteva decorrere
dalla data del verbale redatto dalla Commissione medica ex lege.
240
I due suddetti motivi, stante la connessione, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono inammissibili quanto alla posizioni del Ministero.
Infatti il Tribunale dichiarò che l’eccezione del Ministero di prescrizione era stata tardivamente proposta. L’eccezione non fu riproposta in appello ex art. 346 c.p.c.,
per cui correttamente la corte di Merito si è limitata a decidere esclusivamente sull’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università, accolta dal Tribunale ed impugnata
dagli attori appellanti.
Ne consegue che i suddetti motivi di ricorso, attinenti alla prescrizione da parte del Giudice di Appello è stata affermata sulla base del normale termine di cui all’art. 2947 c.c. comma 1, e non di quello più lungo, equiparato alla prescrizione penale, di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, con la conseguenza che le censure fondate
su tale ultima norma (ipotesi di reato) sono inammissibili perché non conferenti. Infatti le censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata
è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n.4,
con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio ( ex multis,
Cass. 07/11/2005, n.21490; Cass. 24/02/2004 n.3612; Cass. 23/05/2001 n. 7046).
Quanto al termine di prescrizione ordinaria quinquennale, tenuto conto che la
citazione è stata notificata il 10.03.1997 correttamente la Corte di Merito ha distinto i danni richiesti dagli attori iure proprio per il decesso della congiunta (avvenuto
nel (omissis) e per i quali, quindi, non vi è spazio per una problematica di prescrizione) e quelli richiesti iure hereditatis a seguito di tale decesso, ovvero quelli richiesti
dal G.F. per il proprio contagio.
Il punto di maggior rilievo è l’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione della pretesa risarcitoria che inizia a decorrere, a norma dell’art.
2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che
produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia viene percepita o
può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o
colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio,
la prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabili ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare il “fatto”
che dell’art. 2947 c.c.; (Cass. 21/02/2003 n.2645; Cass 05/07/2004 n. 12287; Cass.
08/05/2006 n. 10493).
Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “responsabilità causale”.
Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro “esteriorizzazione del danno” può, come visto, rilevarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti.
E’ quindi del tutto evidente come l’approccio all’individuazione del dies a quo
venga a spostarsi da una mera disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo del-
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RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
le conseguenze lesive del fatto illecito o dell’inadempimento e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle
sue componenti essenziali ed irreversibili ad una rigorosa analisi delle informazioni,
cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio ( non solo
il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo
eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medical malpractice).
Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium prescriptionis, non
apre alla rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro al livello di
conoscenze scientifiche dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un’indagine di tipo psicologico. In particolare per quanto riguarda
l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in
relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio
si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in
merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si
è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.
Nella fattispecie, la sentenza impugnata, con accertamento fattuale esente da censure in questa sede di sindacato di legittimità, ha accertato che la B. solo con la certificazione rilasciatale dalla Sez. Ematologia dell’Università di Roma il 02.04.1992 ebbe cognizione che la sua sieropositività fosse riconducibile alle emotrasfusioni effettuate, mentre la citazione davanti al Tribunale è stata notificata il 10.03.1997.
Peraltro la ricorrente Università non assume di aver prodotto (o che in ogni caso esistevano agli atti) altre prove, non valutate dal Giudice di Appello, da cui risultava una diversa data della conoscenza da parte della B., della sua malattia e della probabile causa della stessa da individuarsi in un comportamento colposo di un terzo.
Va a tal fine rilevato che il debitore, che eccepisce la prescrizione, ha l’onere di
provare la stessa (quale fatto estintivo del diritto azionato) e quindi anche la data di decorrenza (Cass. 13.12.2002, n. 17832; Cass. 05.02.2000, n. 1300).
Con l’ottavo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa ap-
plicazione dei principi in materia di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi
dell’art. 2059 c.c. e art. 185 c.p., nonché il difetto di motivazione in relazione all’art.
360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assumono i ricorrenti che erratamente è stato riconosciuto il risarcimento del danno morale, pur in presenza di una presunzione di responsabilità oggettiva (quale sarebbe quella di cui all’art. 2050 c.c.) e non una presunzione di colpa a carico dei ricorrenti.
242
Infatti, a parte il rilievo che la responsabilità della Università è stata affermata anche a norma dell’art. 2043 c.c., va osservato che l’infondatezza del motivo discende dal nuovo orientamento interpretativo dell’art. 2059 c.c., adottato da questa
Corte con le sentenze 31.05.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass.
27.06.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito non è
soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata
all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come
reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non
patrimoniale ben può essere riferito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento,
nella Costituzione, nei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno
non patrimoniale.
Nella fattispecie si verte appunto in tema di lesione di valori costituzionalmente
garantiti attinenti alla persona umana, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale, a prescindere dalla limitazione posta dall’art. 185 c.p..
Il motivo è infondato.
Pertanto vanno accolti il primo, il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale e, parzialmente, anche il terzo, assorbito il sesto.
Quanto al ricorso incidentale va accolto il quinto motivo e vanno rigettati i restanti.
Va cassata, in relazione ai motivi accolti, l’impugnata sentenza e va rinviata la
causa, anche per le spese di giudizio di Cassazione, ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma che si uniformerà ai principi esposti ai punti: 14.1 e 16.6.
(Omissis)
1) Responsabilità civile per danni lungolatenti
da somministrazione di emoderivati infetti
Avv. Marzia BALLARANI
na signora emofiliaca si sottoponeva a somministrazione di emoderivati e pla-
Il Caso
sma dal 1973 al 1992 presso la sezione di Biopatologia Umana dell’Università
la Sapienza di Roma, convenuta in giudizio.
In seguito a questi trattamenti la signora risultava prima sieropositiva all’HIV,
quindi decedeva nel 1994 a causa di una AIDS conclamata.
U
243
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Il coniuge superstite, in proprio e quale genitore esercente la patria potestà
sui figli minori, conveniva l’Università la Sapienza di Roma dinnanzi al Tribunale
di Roma chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali, biologici e morali subiti dalla loro congiunta da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ex art. 2043 c.c. e 2050 c.c. subiti quali eredi delle somme dovute alla defunta a titolo di risarcimento dei danni.
Iure proprio, venivano richiesti i danni patrimoniali, biologico e morale subiti a causa della sopravvenuta morte della loro congiunta.
Quindi il coniuge, in proprio, chiedeva il risarcimento dei danni per essere
stato contagiato dal virus dell’HIV a seguito dei rapporti sessuali avuti con la defunta moglie.
Nel corso del giudizio veniva chiamato in causa il Ministero della Sanità nei
cui confronti gli attori estendevano le loro domande a titolo di responsabilità extracontrattuale per avere omesso quei controlli che si rendevano necessari al fine di
evitare il contagio.
Tra i punti più importanti esaminati dalla Corte in questa sentenza e che sono oggetto di commento:
l il nesso casale in caso di comportamento omissivo,
l la responsabilità del Ministero della Salute per danno da sangue infetto,
l il dies a quo della prescrizione nei casi di risarcimento per danni lungolatenti.
Anche se l’argomento non è strettamente esaminato dalla sentenza de quo
può essere utile farvi un breve accenno.
La responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, sia per le
ipotesi di fatto commissivo che di fatto omissivo riconducibile alla condotta del sanitario, alla luce delle più recenti pronunce della Corte di Cassazione, ha natura contrattuale, sulla base della considerazione che l’accettazione del paziente in una struttura sanitaria per un intervento o una visita ambulatoriale, comporta la conclusione in un contratto, detto contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria tra il paziente e la struttura sanitaria, astrattamente riconducibile alla locatio
operis, ma molto più complesso di questo e con contenuto atipico
Il contenuto di questo contratto è riferibile all’ente direttamente e consiste,
tra l’altro, in prestazioni alberghiere, messa a disposizione di personale ausiliario
paramedico, forniture di medicinali e di ogni attrezzatura necessaria per fronteggiare
aggravamenti o altre complicazioni, con la conseguenza che un eventuale inadempimento del contenuto delle obbligazioni di cui sopra, è autonomamente valutabile dalla condotta del personale sanitario ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Si supera, così, l’idea che la responsabilità della struttura sanitaria debba essere disciplinata sulla base dell’applicazione analogica del rapporto medico-paziente
che riconduceva la responsabilità della struttura sanitaria a quella del medico, dovendosi, di conseguenza, accertare l’esistenza di un comportamento colposo da parte del medico ai fini dell’imputazione di responsabilità civile della struttura sanitaria anche per le obbligazioni di cui sopra.
244
A tal fine, non rileva in alcun modo il fatto che la struttura sia pubblica o privata, convenzionata o meno, in considerazione del fatto che il bene della salute è
un diritto fondamentale costituzionalmente garantito. Non possono pertanto prevedersi limitazioni della responsabilità o diversi regimi risarcitori in ragione della natura pubblica o privata, convenzionata o meno della struttura sanitaria.(Cass. Civ.
S.U. 11 gennaio 2008 n.577)
Anche le obbligazioni assunte dal medico dipendente della struttura sanitaria si fondano su un “contatto sociale” e, quindi, hanno natura contrattuale. Si configura un contratto che consente di fondare altresì la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 senza operare alcun richiamo alla disciplina del contratto d’opera professionale.
Questo inquadramento giuridico consente meglio di rispondere alle esigenze di tutela del diritto alla salute anche sotto il profilo probatorio. Ad un primo periodo, infatti, in cui il problema dell’onere probatorio nel campo della responsabilità medica veniva risolto ricorrendo alla distinzione tra prestazioni di facile esecuzione e prestazioni c.d. difficili con problemi tecnici di particolare difficoltà ( per
cui sulla base dell’art 2236 c.c. se l’intervento era di facile esecuzione, in caso di
insuccesso o di peggioramento delle condizioni del paziente operava una presunzione di negligenza da parte del medico- principio res ipsa loquitur o “dell’evidenza circostanziale che crea una presunzione di negligenza” si veda Cass. 21 dicembre 1978 n. 6141), si sostituisce nel 2004 (Cass. 2004 n. 11488, Cass. 2004 n.10297
e Cass. 2004 n. 9471 e Cass. Civ. 2004 n.4400 in cui la prova della mancanza di colpa per la morte del paziente deve essere fornita dal debitore della prestazione e, dell’eventuale situazione di incertezza sulla stessa, si deve giovare il creditore e non il
debitore.
Nel caso di specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che non aveva fatto corretta applicazione dell’onere della prova in un caso in cui al paziente, presentatosi
al pronto soccorso, non era stato diagnosticato sulla base del solo esame clinico un
aneurisma addominale e nell’incertezza circa la presenza di acuti dolori addominali che avrebbero consentito la diagnosi immediata, il medico era stato considerato
esente da colpa) un diverso indirizzo giurisprudenziale in cui si afferma che il paziente deve provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della sua situazione
patologica, il sopraggiungere di altre patologie, o il risultato anomalo o anormale
dell’intervento dl medico in ragione dello scostamento da una legge di regolarità
causale fondata sull’esperienza ( Cass. 2007 n. 8826 in cui in un caso di intervento
chirurgico di settorinoplastica il paziente non aveva appieno recuperato la capacità respiratoria è stata riconosciuta la responsabilità del medico). Spetta, invece, al
medico provare la dovuta diligenza dell’esecuzione o dell’evento imprevisto o imprevedibile, tenendo presente che per il creditore l’allegazione consiste nella mera
“contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non professionista” ( Cass. 2004 n. 9471).
245
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Nel caso di specie, la defunta veniva contagiata da sangue infetto a seguito di
una trasfusione.
Si configura, dunque, una responsabilità civile conseguente ad una condotta
omissiva consistente, quest’ultima, nella mancanza di effettuazione dei controlli necessari ad evitare il contagio da HIV.
Affinché si configuri una responsabilità civile in capo al convenuto occorre che
la condotta sia condicio sine qua non dell’evento causativo del danno ( ossia un evento è causativo di un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato senza il secondo), ma non vi sono sempre stati in giurisprudenza,
tuttavia, caratteri univoci sul grado di certezza richiesto in ordine al nesso causale.
Da principio si riteneva che il nesso causale dovesse basarsi sul grado di probabilità del nesso fra condotta ed evento, ma quando, ossia in quale percentuale il
grado di probabilità poteva ritenersi sufficientemente elevato per portare al risarcimento del danno, poteva essere valutato soltanto sulla base della scienza statistica,
ritenendosi necessario che la percentuale della sussistenza del nesso causale tra evento e danno dovesse portare, in relazione al singolo caso concreto, ad un giudizio di
probabilità più che ad uno di possibilità o mera possibilità. In base alle leggi statistiche, infatti, si possono costruire nessi causali che dalla probabilità giungono sino
a percentuali via via decrescenti al limite del diverso criterio della possibilità. Si veda in proposito la sentenza della Cass., sez un. 19 giugno 1936 che in relazione proprio ad una trasfusione da sangue infetto rilevava che: “ di comune esperienza la trasfusione di sangue rimedio prezioso per casi clinici a volte disperati, è anche il mezzo sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto”. (Si vedano inoltre: Cass.
Pen, sez. IV, 28 nov. 2000, n.2123 – Cass. Pen sez. IV 28 settembre 2000 n. 1688,
Cass. Pen sez IV 15 ottobre 2000 n. 7026).
Il criterio possibilistico non consentiva di accertare il nesso causale in maniera scientifica e sufficientemente certa secondo regole generali applicabili a qualsiasi caso ( Cass. Pen. Sez. IV 28 settembre 2000, n.1688).
Per questo successive pronunce giurisprudenziali hanno sancito che il giudizio finale deve verificare la sussistenza del nesso causale in base al requisito della
certezza scientifica secondo le conoscenze umane e razionali (Cass.pen sez IV 28
settembre 2000 n.2123).
Le Sezioni Unite penali della Cassazione con la nota sentenza Franzese, Cass.
Sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328,( fattispecie nella quale è stata ritenuta legittimamente affermata la responsabilità di un sanitario per omicidio colposo dipendente dall’omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza ed imperizia e del conseguente intervento che, se effettuato tempestivamente, avrebbe potuto salvare la vita
del paziente) hanno sottolineato che sussiste un nesso causale tra condotta omissiva
ed evento dannoso quando il primo costituisce condizione necessaria del secondo con
“alto ed elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”, non essendo sufficiente basarsi su un coefficiente di probabilità statistica.
2) Il nesso causale e la responsabilità per condotta omissiva
246
L’orientamento delle Sezioni Unite penali non è stato tuttavia condiviso dalle
sezioni civili le quali hanno continuato ad adottare il criterio probabilistico nelle ipotesi di responsabilità civile soprattutto in caso di illecito anche omissivo con un grado di accertamento, quindi meno elevato di quello richiesto in sede penale ( Cass.
Civ sez III 19 maggio 2006, n. 11755).
Nel caso di specie il Supremo Collegio ha specificato che “ ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità civile, diversamente da quella penale dove vige la regola della prova oltre ogni ragionevole dubbio, vige la regola della preponderanza e dell’evidenza o “del più probabile che non” stante la diversità dei valori in gioco”, (si veda anche Cass.S.U.11-01-08 n.576) confermandosi l’orientamento già espresso in precedenti pronunce tra i quali ricordiamo Cass. cv.,
sez.III 04-03-2004 n.4400 in cui, con riferimento alla responsabilità contrattuale dell’ente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente prestazione medica da parte di un proprio dipendente, diligenza che deve essere valutata alla stregua
della diligenza particolarmente qualificata richiesta per lo svolgimento della professione medica, si ravvisa un nesso causale tra il comportamento anche omissivo e il
pregiudizio subito da un paziente, qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico si ritenga che l’opera del professionista, se correttamente e prontamente
svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il verificarsi del danno. Si veda in proposito anche Cass civ. Sez. III 1610/2007 n.21619 (in cui la S.C.
Ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato il nesso causale tra il comportamento omissivo del sanitario che aveva ritardato di inviare il paziente presso
un centro di medicina iperbarica e l’aggravamento delle lesioni subite dal paziente
che probabilmente avrebbe potuto essere evitato)
Ancora, la Suprema Corte, nella sentenza de quo, afferma che: “detto standard
di certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente
alla determinazione quantitativa- statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente,
ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di
conferma e nel contempo di esclusioni di altri possibili alternativi disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi
sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. Evidence and inference nei sistemi
anglosassoni).”.
Quanto alla prova, nell’accertamento del nesso causale, con riferimento ai danni alla persona, pur dovendosi distinguere la così detta causalità generale dalla così
detta causalità individuale o del singolo caso, va rilevato che questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva che presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza: “ in primo luogo occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli privi di rilevanza
e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della pre-
247
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
cisione e della gravità.......Successivamente, deve procedere ad una valutazione
complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva.”
Quindi, prosegue la Sprema Corte nella sentenza de quo, “ è viziata da errore di diritto la decisione del Giudice che si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi assunti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla, ove valutati nella loro sintesi, nel senso
che ognuno avrebbe potuto trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento”.
3) Responsabilità del Ministero della salute per danno
da sangue infetto.
Quanto poi alla responsabilità extracontrattuale da condotta omissiva del Ministero della Salute per mancanza dei controlli atti a garantire l’idoneità e la sicurezza del sangue offerto in trasfusione, nella sentenza de quo, il Supremo Collegio
ha legittimamente affermato la responsabilità del Ministero ex art. 2043 c.c., stante
il quadro normativo vigente al momento del verificarsi del fatto lesivo, poiché le leggi esistenti configuravano in capo al Ministero uno specifico dovere di controllo in
materia. La Corte Corte esaminava la L. n. 592 del 1967 che attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento
dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale; il DPR .1256 del 1971 che attribuiscono al Ministero compiti di controllo e vigilanza in materia, la L. n.519 del 1973 che attribuisce
all’Istituto Superiore di Sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica, la L.23
dicembre 1978 del 1971 attribuisce al Ministero importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione, commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati, con la conseguenza che anche prima della L. 4 maggio 1990 n.107 contenente la
disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, sussistesse in
capo al Ministero un obbligo di controllo, direttivo e di controllo in materia di sangue umano.
La responsabilità da omissione sorge secondo l’ordinario criterio della colpa
quando il danno poteva essere previsto ed evitato adottando l’ordinaria diligenza.(Cass
n.576-2008 in cui è riconosciuta la responsabilità del Ministero della Salute per mancata vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano a scopo terapeutico nei casi in cui, a seguito di trasfusione, insorga una patologia da virus da HIV,
HBV o HCV)
Nel caso di specie data la conoscenza del virus dell’HIV ai tempi delle trasfusioni a cui era sottoposta la de cuis, della sua pericolosità e delle modalità della sua
diffusione e l’accertamento del periodo di contagio a seguito degli esami a cui la de
cuis si sottopose, si afferma correttamente la responsabilità del Ministero e dell’Università per il danno derivato alla de cuis Sig.ra B. per i comportamenti dovuti, ma
omessi.
248
Secondo l’art. 2935 c.c. la prescrizione della pretesa risarcitoria decorre dal
giorno in cui il diritto può essere fatto valere, quindi non dal momento in cui il diritto è violato ma da quando del diritto se ne può sperimentare la tutela e quindi essendo attuale l’interesse del titolare, questi non si attivi per realizzare il suo interesse. L’’art. 2947 ribadisce, poi, che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.
Ormai per consolidato indirizzo giurisprudenziale, per fatto, non si intende soltanto il momento in cui l’agente compie l’illecito, ma il momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno divenendo percepibile e riconoscibile secondo
l’ordinaria diligenza quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o
colposo di un terzo (Cass. 9 Maggio 2000 n. 5913, Cass. 28 Luglio 2000 n. 9927),
così che per fatto non si intende solo il comportamento doloso o colposo ma anche
l’evento dannoso. E’ questo il criterio della ragionevole conoscibilità del danno, che
corregge l’assunto che la semplice e soggettiva ignoranza del danneggiato sull’esistenza del danno nonché idonea a produrre il decorso della prescrizione.
Nel caso di malattia da contagio da sangue infetto a causa di un comportamento
doloso o colposo di un terzo, il dies a quo della prescrizione comincia a decorrere
non dal momento in cui si è verificato il fatto produttivo del danno, ne dal momento in cui la malattia si manifesta con chiarezza, bensì dal momento in cui, utilizzando dell’ordinaria diligenza e facendo riferimento alla diffusione delle conoscenze scientifiche dell’epoca, il contagiato può percepire la malattia come danno ingiusto riconducibile al comportamento di un terzo.
Anche la consapevolezza, infatti, che il danno sia riconducibile al comportamento doloso o colposo di un soggetto specifico, principio della rapportabilità causale, appare necessario per determinare l’esordio del dies a quo della prescrizione
poiché, diversamente, non sarebbe individuabile il soggetto nei confronti del quale
rivolgere l’azione, quindi, in concreto, far valere il diritto al risarcimento del danno
( Si veda Cass. 6 febbraio 1982 n. 685 in cui il danno consisteva nella lesione di un
immobile. Si veda altrsì Trib. Roma 14 giugno 2001 che in relazione a domande di
risarcimeno del danno da contagio determinato dalla somministrazione di sangue
ed emoderivati infetti promosse nei confronti del Ministero della Sanità ha ritenuto
che la prescrizione del diritto degli attori dovesse decorrere dalla data in cui questi
ultimi avevano ottenuto da parte delle commissioni mediche ospedaliere istituite dalla legge n.210/92 la certificazione relativa all’esistenza del nesso causale tra le trasfusioni o la somministrazione di emoderivati ed il contagio senza che rilevasse la
circostanza che, anteriormente a tale certificazione, il soggetto potesse essere venuto a conoscenza della sua infezione mediante accertamento sierologici di laboratorio sulla considerazione che proprio le CMO avevano consentito alle persone
di conoscere la rapportabilità causale delle loro infezioni alle trasfusioni di cui erano stati oggetto.) e questo, a correzione di un indirizzo giurisprudenziale precedente e più restrittivo che faceva decorrere la prescrizione anche ove il danneggiato igno4) Il dies a quo per la prescrizione dei danni lungolatenti
249
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
rasse l’identità dell’autore dell’illecito ( Cass. 29 settembre 1964 n. 2457 ).
I criteri ai quali la Suprema Corte fa riferimento sono l’ordinaria diligenza e
le conoscenze scientifiche esistenti e diffuse all’epoca. L’ordinaria diligenza di cui
si parla è spesso raffrontata alla Constructive Knowledge. Per Constructive Knowledge
di cui parla la Section 14A del Latent Damage Act inglese del 1986, ci si riferisce alla consapevolezza che ci si sarebbe potuti ragionevolmente attendere che il danneggiato acquisisse, sia da fatti osservabili e accertabili direttamente da se, sia da fatti
accertabili con l’ausilio dell’esperto che, nel caso di specie, egli avrebbe dovuto ragionevolmente consultare.
Tuttavia si rilevi che è’ il convenuto a dover provare l’esistenza dei fatti sui
quali si fonda la prescrizione della pretesa risarcitoria attorea e la prova non è agevole, per cui su questo punto il convenuto è spesso soccombente. Per quanto riguarda il parametro delle conoscenze scientifiche ossia la dimostrazione della possibilità scientifica della conoscibilità del danno, questa potrà essere offerta in giudizio producendo articoli scientifici oppure attingendo alle cognizioni di un esperto che saprà illustrarli in giudizio, ma fornire prova degli elementi in base ai quali, secondo
l’ordinaria diligenza l’attore avrebbero dovuto allertarsi e porre in essere tutte quelle attività idonee a verificare l’eventualità di aver subito un danno risarcibile, è molto più difficile, perché questi elementi spesso sono conoscibili solo dall’attore medesimo. Nel caso di specie, tuttavia, la Suprema Corte ritiene che entrambi i parametri, quello dell’ordinaria diligenza e quello del livello di conoscenze scientifiche
dell’epoca, siano accertabili dal Giudice “senza scivolare verso un’indagine di tipo
psicologico. In particolare per quanto riguarda l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo
presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia
era ragionevole richiedere in data epoca ai soggetti a cui si è rivolta o avrebbe dovuto rivolgersi la persona lesa. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha accertato che la defunta Sig.ra B. solo con la certificazione rilasciatale dalla sezione ematologica dell’Università di Roma il 02.04.1992 ebbe cognizione che la sua sieropositività fosse riconducibile alle emotrasfusioni effettuate, mentre la citazione davanti
il Tribunale è stata notificata il 10.03.1997”.
250
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
La liquidazione mediante presunzioni
del danno da fumo
CORTE DI CASSAZIONE - SEZ. III - SENT. 30 OTTOBRE 2007 N.22884 PRES. VITTORIA; REL. SEGRETO
La prova del danno non patrimoniale dall'uccisione di un congiunto può essere raggiunta mediante presunzioni, mentre il Giudice del merito, nella liquidazione del danno deve specificare se ha tenuto conto solo delle sofferenze morali degli attori o anche
dei profili di danno non patrimoniale derivanti dalla perdita del rapporto parentale,
con i conseguenti pregiudizi alla quotidianità della vita quale si era in precedenza instaurata (1)
La sentenza così motiva
(Omissis)
P. G. S. e D. S., eredi di M. S. con la citazione notificata l’11-13.5.1994 hanno con-
venuto in giudizio l’Amministrazione dei monopoli di Stato davanti al Tribunale di Roma.
Hanno esposto i seguenti fatti. M. S. era deceduto nel 1991 a causa di un
tumore polmonare. Aveva fumato dal 1950 circa venti sigarette al giorno e solo
nel 1988, per le insistenze del medicourante aveva smesso di fumare.
Hanno sostenuto che la neoplasia era stata provocata dal fumo, perché nella sua
storia familiare non v’erano state morti da cancro né altre cause v’erano state nella sua
vita lavorativa e residenziale, avendo egli svolto la professione di insegnante di scuola agraria in una piccola città.
La responsabilità della sua morte andava imputata al Monopolio che non aveva
provveduto a rendere noto con apposite informazioni la natura gravemente nociva del
fumo e così aveva impedito al loro congiunto di venire a conoscenza dei rischi che correva per la propria salute e di compiere scelte informate e responsabili sulla pratica del
fumo.
2. L’Amministrazione dei monopoli si è costituita in giudizio. Ha sostenuto che all’epoca non v’era obbligo di dare informazioni sui rischi del fumo; che era d’altro canto
notorio che il fumo, specie se prolungato e non moderato, esponeva al rischio di malattie tumorali; che S., dunque, ben sapeva i rischi che correva e solo a lui si doveva
perciò attribuire la colpa della sua morte, perché se ne era assunto il rischio in modo
libero e consapevole.
3. Il tribunale ha rigettato la domanda con sentenza del 14.4.1997.
Ha negato sia la colpa del Monopolio sia che vi fosse la prova del nesso di causalità.
Gli attori hanno proposto appello con la citazione notificata il 27.5.1998.
Hanno dedotto che il rapporto di causalità tra cancro ai polmoni e pratica del fu-
1.
251
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
mo lo si doveva ritenere provato; che l’obbligo del Monopolio di informare sui rischi
del fumo per la salute discendeva direttamente dagli artt. 32 e 41 Cost., sebbene non
fosse ancora entrata in vigore la legge 428 del 1990 che aveva imposto la pubblicità negativa sui pacchetti di sigarette; che la responsabilità del Monopolio derivava anche dal
fatto che la produzione e la vendita del tabacco costituivano un’attività pericolosa ai
sensi dell’art. 2050 c.c.; che se fossero state fornite le doverose informazioni, S. avrebbe potuto desistere dal fumo prima, evitando il cancro.
4. L’Amministrazione dei monopoli di Stato si è costituita per resistere all’appello e nel
giudizio sono intervenuti il Codacons e l’Ente tabacchi italiani - E.T.I..
5. La corte d’appello ha disposto un’indagine tecnica sul punto del nesso causale ed ha
poi accolto la domanda, con sentenza 7.3.2005, con cui ha condannato la B... Italia a
pagare a P. G. S. la somma di € 150.000,00 ed a M. S. la somma di € 50.000,00 oltre
interessi dalla data della sentenza ed alle spese del giudizio.
6. La corte d’appello ha ritenuto che sussisteva la legittimazione passiva dell’Ente Tabacchi Italiani, essendo lo stesso subentrato in tutti i rapporti facenti capo ai Monopoli di Stato, sia attivi che passivi.
Sulla base della consulenza medico-legale riteneva che sussistesse il nesso di causalità tra la neoplasia polmonare di S. M. ed il fumo di tabacco da parte dello stesso;
che i c.t.u. avevano escluso la natura metastatica di tale tumore nonché cause alternative, quali quelle familiari, residenziali o lavorative; che, in questa situazione, doveva ritenersi probabile, sulla base degli studi epidemiologici, nella misura dell’80% l’esistenza
del rapporto causale tra neoplasia e fumo di tabacco; che tanto veniva confermato dalla rilevata mutazione sul codone 12 dell’esone 1 di K-ras corrispondente alla trasversione G/T, per quanto tale mutazione si verifichi solo nel 30% di tumori polmonari sviluppatisi in soggetti fumatori.
Secondo la corte di merito l’attività di produzione e commercializzazione di sigarette integrava esercizio di attività pericolosa, a norma dell’art. 2050 c.c. e l’esercente
della stessa, cioè l’Amministrazione dei Monopoli, per andare esente da responsabilità, avrebbe dovuto fornire la prova di aver adottato le misure idonee ad evitare il danno, consistenti nella fattispecie nel fornire adeguate informazioni sulla nocività del fumo, anche eventualmente con foglietti illustrativi posti nei pacchetti, come avviene per
altri prodotti; che tale prova in merito alle informazioni dovute non era stata resa; che
conseguentemente doveva ritenersi la responsabilità dell’Eti, a norma dell’art. 2050 c.c.
Ha ritenuto, poi, la corte di merito che a nulla rilevava che lo S., alla stregua delle conoscenze scientifiche divulgate ad ogni livello non potesse ignorare gli effetti nocivi del fumo e quindi potesse effettuare una libera scelta tra il fumare ed il non fumare, in quanto la sua condotta era irrilevante di fronte alla presunzione di responsabilità
dell’ente produttore, non vinta da prova contraria.
In ogni caso secondo la sentenza impugnata l’ipotesi della conoscenza da parte
dello S. della nocività del fumo era tutt’altro che dimostrata, non potendosi escludere
che lo S. si fosse reso conto della nocività soltanto poco tempo prima di smettere di fu-
252
mare, quando già si erano irreversibilmente prodotti effetti devastanti.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la B...
Resistono con rispettivi controricorsi l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli
dello Stato e gli attori. Quest’ultimi hanno anche proposto ricorso incidentale, solo in
parte condizionato.
Avverso questo ricorso incidentale ha presentato controricorso la B...
Le parti hanno presentato memorie.
La ricorrente B.. ha depositato atto di rinunzia ai motivi dal secondo al quinto, nonché atto di transazione con l’Amministrazione dei monopoli, quanto ai motivi 1 e 6.
1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, a norma dell’art. 335 c.p.c..
Motivi della decisione.
Quanto al ricorso principale, va osservato, in relazione ai motivi I e VI, che investono
la questione relativa a chi sia il soggetto (tra la B... e l’Amministrazione dei Monopoli) tenuto al risarcimento del danno preteso dagli attori ed al cui pagamento era stata
condannata la sola B..., che, essendo intervenuta tra la B... e la Aams una transazione
sul punto, è cessata la materia del contendere, essendosi la ricorrente fatta carico di “tutti gli oneri patrimoniali derivanti dalla controversia promossa dagli eredi S.”, con conseguente sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere una pronunzia sui predetti suoi
due motivi.
2. Quanto ai motivi di ricorso n. 2, 3, 4, 5, la ricorrente ha rinunziato agli stessi e tale
rinunzia è stata comunicata alle parti costituite. Poiché tale rinunzia investe solo alcuni motivi e non l’intero ricorso, ad essa non consegue la dichiarazione di estinzione del
giudizio di cassazione instaurato con il ricorso, ma comporta la sopravvenuta carenza
di interesse ad ottenere la decisione sulle questioni oggetto dei singoli motivi, con conseguente inammissibilità di tali motivi.
3. Passando ad esaminare il ricorso incidentale di P. G. e M. D. S., va osservato che con
il primo motivo di ricorso incidentale i ricorrenti lamentano l’omessa pronunzia sulla richiesta di condanna per responsabilità processuale proposta con la memoria di replica.
4. Il motivo è inammissibile per genericità, non indicando quale sia l’an ed il quantum
del danno, prospettato al giudice di appello, essendosi l’appellata limitata a sollevare
una questione di legittimazione passiva, rilevabile d’ufficio, mentre gli stessi appellanti,
attuali ricorrenti incidentali in sede di appello concludevano, come risulta dall’epigrafe della sentenza impugnata, per l’affermazione di responsabilità dell’Aams e la condanna della stessa al risarcimento dei danni.
5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale i ricorrenti lamentano il vizio di cui all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. per violazione di legge ed omessa pronunzia sulla domanda di
risarcimento dei danni iure proprio (patrimoniale, esistenziale, morale) nonché su quello iure hereditatis, costituito dal danno biologico e morale del de cuius.
6. Il motivo è solo parzialmente fondato.
Va, anzitutto rigettata l’eccezione della B... di inammissibilità del motivo perché,
pur lamentando l’omessa pronunzia su tale domande, non è stato prospettato a norma
253
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
dell’art. 360 n. 4 c.p.c. Infatti, poiché i ricorrenti lamentano il vizio di omessa pronunzia del giudice di appello su una loro specifica domanda, l’indicazione della norma 360
n. 3 e 5 c.p.c., in luogo di 360 n. 4, si risolve solo in un’erronea indicazione della norma di legge processuale, che non determina l’inammissibilità del motivo, non impedendo
l’individuazione del quid disputandum.
7.1. Quanto all’eccezione di novità della domanda, essa è fondata solo relativamente al
danno iure hereditatis, non essendo lo stesso stato richiesto nel giudizio di merito e, limitatamente a questo danno, il motivo è inammissibile.
Con l’atto di citazione, con l’appello e con le conclusioni in appello gli attori avevano
richiesto “il risarcimento di tutti i danni sofferti”.
È giurisprudenza pacifica che allorché si chieda, in sede di responsabilità aquiliana, il
risarcimento di “tutti i danni”, la domanda investe sia il danno patrimoniale che quello
non patrimoniale. In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato
nei confronti del soggetto responsabile, per la sua onnicomprensività esprime la volontà
di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, con la conseguenza che solo nel caso in cui
nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno, l’eventuale domanda proposta in appello per una voce non già indicata in primo grado, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile: Cass. civ., Sez. III, 19/05/2006, n. 11761.
7.2. Quanto all’assunto danno patrimoniale i ricorrenti incidentali non indicano in quali termini sarebbe sussistito tale danno patrimoniale, né assumono di aver allegato (e
provato sia pure presuntivamente) al giudice di merito tali elementi, senza che questi li
avesse poi valutati. Ne consegue che il motivo è inammissibile per genericità, anche
sotto il profilo dell’autosufficienza del ricorso.
7.3. Fondata è, invece, nei termini che segue, la censura relativa alla mancata liquidazione del c.d. danno esistenziale. Nel bipolarismo risarcitorio (danni patrimoniali e danni non patrimoniali) previsto dalla legge, al di là della questione puramente nominalistica, non è possibile creare nuove categorie di danni, ma solo adottare per chiarezza
del percorso liquidatorio, voci o profili di danno, con contenuto descrittivo (ed in questo senso ed a questo fine può essere utilizzata anche la locuzione danno esistenziale,
accanto a quella di danno morale e danno biologico), tenendo conto che da una parte
deve essere liquidato tutto il danno, non lasciando privi di risarcimento profili di detto
danno, ma che dall’altra deve essere evitata la duplicazione dello stesso, che urta contro la natura e funzione puramente risarcitoria della responsabilità aquiliana.
L’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, per
la definitiva perdita del rapporto parentale, si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana
nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è
ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost., esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., in raccordo con le suindicate norme della costituzione e
si distingue sia dall’interesse al «bene salute», (protetto dall’art. 32 Cost. e tutelato at-
254
traverso il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse, all’integrità morale (protetto dall’art. 2 Cost. e tutelato attraverso il risarcimento del danno morale soggettivo)
(Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass. n. 8828/2003).
Nella situazione della perdita del rapporto parentale, normalmente vi è la sussistenza
di un pregiudizio non patrimoniale, la cui prova può essere anche fondata su presunzioni, che non siano adeguatamente contrastate da altre prove contrarie.
7.4. Nella fattispecie il giudice di appello ha liquidato agli attori, rispettivamente in £.
150 milioni per il coniuge e £. 50 milioni per il figlio, il danno “essenzialmente morale e consistente nel dolore per la scomparsa nella loro vita di una presenza familiare importante”.
La predetta motivazione, quindi, non indica se il giudice nella liquidazione dell’unitario danno non patrimoniale abbia tenuto conto solo delle sofferenze morali degli attori, danneggiati dalla morte del congiunto, o anche (in tutto o in parte) dei profili di danno non patrimoniale, derivanti dalla perdita del rapporto parentale, con i conseguenti
pregiudizi alla quotidianità della vita, quale si era in precedenza instaurata. A tale complessiva valutazione provvedere il giudice del rinvio.
8. Pertanto, quanto al ricorso principale, pronunziando sui motivi primo e secondo, va
dichiarata cessata la materia del contendere tra B... ed Amministrazione Autonoma dei
Monopoli dello Stato. Esistono giusti motivi per compensare tra le dette parti le spese
dell’intero giudizio.
Va, poi, dichiarato inammissibile il ricorso della B... nei confronti di G. P. e S.
M. D., per sopravvenuta carenza di interesse.
Va rigettato il primo motivo del ricorso incidentale di G. P. e S. M. D. e va accolto parzialmente il secondo motivo.
Va cassata, in relazione, l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese di
questo giudizio di cassazione tra la B... e gli eredi S., ad altra sezione della corte di appello di Roma.
(1) Il danno esistenziale nella evoluzione del danno
non patrimoniale, ed il diritto alla salute.
Avv. Francesco SAVARESE
a sentenza in esame non si può che accogliere con grande favore, in quanto assume un significato molto importante nel nostro panorama giurisprudenziale in
ordine alla risarcibilità per danni da fumo attivo, laddove la vittima sia morta a causa
di cancro, ed aggiunge un tassello evolutivo in più al c.d. danno esistenziale.
In effetti nel “bipolarismo risarcitorio” di danni patrimoniali e danni non patrimoniali, la stessa Corte ammette che “non è possibile creare nuove categorie di
L
255
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
danni, ma solo adottare per chiarezza del percorso liquidatorio, voci o profili di danno”, da qui però la possibilità di “allargare” il contenitore virtualmente infinito del
danno non patrimoniale, che nel caso de quo, (come era avvenuto in passato anche
negli Stati Uniti dove si vi sono state liquidazioni milionarie per fattispecie simili),
va ad accogliere il danno esistenziale come sofferenza del congiunto della vittima
di cancro per danni da fumo, che si concretizza oltre che nel pretium doloris, anche
“nell’interesse alla intangibilità della sfera degli effetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30
Cost”.
In effetti l’importanza della sentenza in questione non si risolve “solamente”
nel collocare il risarcimento per decesso causato da danni da fumo nell’area del danno non patrimoniale ex art. 2059, ma anche nell’affermare una volta di più lo stretto legame da un lato, tra il riconoscimento e la garanzia Costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo, dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, del diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e dall’altro lato, tra la sofferenza patita dal congiunto per la “definitiva perdita del rapporto parentale”, fattispecie in cui “normalmente vi è la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale, la cui prova può essere anche fondata
su presunzioni, che non siano adeguatamente contrastate da altre prove contrarie”.
Il danno esistenziale è la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante
per la persona, risarcibile nelle sue conseguenze non patrimoniali: ogni interesse afferente alla persona, leso da un atto ingiusto, appare meritevole di risarcimento, e
ciò, anche se non corrisponde al bene-salute, non sia specificamente menzionato dalla Costituzione o non abbia quale presupposto una malattia che sconvolga il normale
scorrere della quotidianità della vittima. Tale particolare categoria di danno è risarcibile - se di natura extracontrattuale - ex art. 2043 e si pone come terzo rispetto al
danno patrimoniale ed a quello morale. Questa è la più recente definizione data dalla giurisprudenza di merito e di legittimità a questa categoria di danno che si sta negli anni evolvendo ed assumendo un nuovo assetto nel nostro ordinamento; l’impostazione più risalente riteneva che per la risarcibilità del danno occorresse sempre
una diminuzione patrimoniale su cui basare l’entità dell’obbligazione risarcitoria.
L’apertura alla risarcibilità, in termini patrimoniali, degli interessi afferenti una
persona e della lesione dei valori e beni non esclusivamente patrimoniali trova la
sua matrice nella c.d. Differenztheorie, teoria che ha apportato nuova vita ad una visione statica e tradizionale dei beni tutelati e risarcibili.
In effetti il c.d. danno esistenziale, a differenza del danno morale, non ha nulla a che fare (o poco a che fare) con le sofferenze, i dolori, ossia il pretium doloris
in senso stretto; il danno esistenziale si concretizza piuttosto in un non poter più fare, in un relazionarsi diversamente, deve essere inteso insomma come una reazione
256
a cambiamenti subiti (ad esempio la morte di un parente, o anche di un animale).
Quindi anche se il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. riguarda la lesione di un bene che sebbene non sia idoneo ad essere oggetto di valutazione economica e/o di scambio, rappresenta comunque un interesse protetto dal nostro ordinamento,
ed in quanto tale ha un proprio valore economico (in questo senso anche Giuseppe
Cassano - nota alla sentenza del Tribunale di Locri 6 ottobre 2000, n.462).
Una tappa fondamentale che ha favorito l’espansione del danno risarcibile relativamente al diritto alla salute è rappresentata da una importantissima sentenza della Corte Costituzionale (la n. 184 del 14 luglio 1986) la quale ha stabilito il principio secondo cui “la lesione giuridica al bene salute si concreta nel momento stesso
in cui si realizza, in interezza, il fatto costitutivo dell’illecito; e non va provato, come la giurisprudenza insegna, che la menomazione bio-psichica del soggetto offeso
in concreto abbia impedito le manifestazioni, le attività extralavorative non retribuite,
ordinarie che, accanto alle attività retribuite, esprimono, realizzandola, la salute in
senso fisio-psichico”.
La Corte Costituzionale, in ordine alla tutela del diritto alla salute, ribadisce,
per la risarcibilità del danno, il diretto collegamento tra l’articolo 32 della Costituzione e l’art. 2043 del codice civile; una sentenza più risalente già aveva tracciato
tale orientamento (sentenza n.88 del 1979 della Corte Costituzionale), affermando
che: essendo il diritto alla salute primario ed assoluto, la sua risarcibilità non può essere limitata al danno patrimoniale in senso stretto, ma deve abbracciare anche gli
effetti e le conseguenze della lesione al diritto alla salute, considerando quest’ultimo come voce autonoma ed indipendente.
Ma il vero e proprio imprimatur alla figura del danno esistenziale è stato dato
dalla sentenza 07 luglio 2000 n.7713 della Corte di Cassazione, la quale ha condannato il comportamento omissivo e negligente di un padre naturale per non aver provveduto al sostentamento del figlio.
La Cassazione ha riconosciuto, nella fattispecie appena accennata, una lesione dei diritti fondamentali della persona causata dal comportamento omissivo del padre che, in particolare, avrebbe leso tutti quei diritti inerenti alla qualità di figlio e di
minore.
Per la prima volta, quindi, la Corte ha riconosciuto una risarcibilità indipendentemente da un profilo strettamente economico, per essere stati lesi i “diritti inerenti alla condizione giuridica di figlio e di minore il cui rispetto da parte dei genitori è presupposto fondamentale per la sana ed equilibrata crescita dello stesso, oltre che condizione per un suo inserimento non problematico nel contesto sociale. La
lesione in sé provocata dalla negligenza e dal disinteresse del genitore, integra, perciò, gli estremi di un vero e proprio danno esistenziale”.
Ecco che quindi il riconoscimento del danno esistenziale per la prima volta si
va ad inserire nell’ambito di tutti quei rapporti costituzionalmente garantiti, come legami parentali, potestà dei genitori, vincoli di solidarietà familiare; così la sentenza
n.7713 del 2000 diventa un vero e proprio “caso guida” nel panorama giurispruden-
257
ziale italiano (la prima sentenza della Cassazione in assoluto che aveva riconosciuto e dato rilievo al dolore di un padre alla vista dell’unica figlia vittima di una gravissima infermità, tale da compromettere le condizioni della sua esistenza, risale al
lontano 22 ottobre 1946).
Per concludere, la figura del danno esistenziale, alla stregua delle definizioni
giurisprudenziali, comprende il danno che qualsiasi individuo subisce relativamente alle attività realizzatrici della propria persona, tutte quelle lesioni, cioè, che non
essendo riconducibili a danni patrimoniali o biologici in senso stretto, riguardano però interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela all’interno del nostro ordinamento.
All’interno del “contenitore” danno esistenziale si possono poi distinguere varie figure, frutto dell’evoluzione giurisprudenziale, quali ed esempio:
il danno esistenziale c.d. “puro”, quello cioè che rappresenta l’immediata conseguenza dell’illecito; oppure il danno c.d. “biologico-esistenziale”, quello che invece è ritenuto essere non la diretta conseguenza dell’illecito, ma che viene “mediato” dall’aspetto biologico conseguente l’illecito stesso.
E’ significativa, in tal senso, una pronuncia del Tribunale di Locri (già sopra
citata riguardo alla nota di G. Cassano) nella quale si legge che: “le possibili voci riconducibili al danno esistenziale sono decisamente ampie, e si incentrano nella lesione della sfera ontologico-esistenziale, senza interessare aspetti medico-legali, pur
se talune figure possono presentare una duplice valenza - con aspetti rientranti in
parte nel danno esistenziale, in parte nel danno biologico - o essere legate per via
mediata al danno biologico”; il Tribunale aggiunge poi che “gli illeciti risarcibili sotto la categoria del danno esistenziale, pertanto, e con un’elencazione non esaustiva, sono riconducibili a manifestazioni di mobbing, trasmissione di malattie, discriminazioni razziali, sessuali o religiose, uccisione di animali significativi per l’individuo, sequestro di persona, costrizione alla prostituzione, violazione del diritto
alla riservatezza, induzione o agevolazione del consumo di droga, abusi sessuali, furto o danneggiamento di oggetti particolarmente cari, plagio da parte di sette o santoni, molestie sul lavoro, ingiustizie e vessazioni in ambito scolastico/universitario,
abbandono di persone incapaci…”;ed ora, con la sentenza 30 ottobre 2007 n.22884
della Suprema Corte che si commenta, nell'elencazione di cui sopra rientra anche il
riconoscimento del danno esistenziale per perdita del rapporto parentale, conseguentemente alla morte per fumo attivo.
258
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Le condizioni per la dichiarazione
di fallimento
CORTE DI APPELLO DI ROMA – DECRETO 2 OTTOBRE 2007 –
PRES. POPOLIZIO – REL. PIGNATELLI
Non sussistono i presupposti per la dichiarazione di fallimento quando il ricorso è
presentato da un solo creditore, munito di credito contestato giudizialmente, quando i cambiamenti di sede della società debitrice non sono volti alla volontà di sottrarsi alle obbligazioni e quando viene dedotta una generica irregolarità nella gestione (1)
Il decreto così motiva:
(Omissis)
“L
a reclamante indicata in epigrafe ha impugnato il provvedimento del Tribunale di Tivoli che ha disatteso la sua istanza di fallimento della Global Invest
s.p. a. allegando che erroneamente era stato valutato lo stato di insolvenza della società sia in relazione al fatto che trattavasi di unico creditore, sia in relazione a dei
bilanci `formalmente “ positivi, senza considerare l’entità delle somme ed i tentativi di esecuzione che avevano avuto esito negativo; ha chiesto che, in riforma della
decisione suddetta, venisse disposto il fallimento della reclamata che, costituitasi,
ha chiesto il rigetto dell’impugnazione:
Considerato che: è incontroverso che il credito vantato dalla reclamante è oggetto di contestazione giudiziale e - seppure è stato emesso titolo esecutivo (ordinanza
ex art. 186 ter) - nessuna certezza può aversi della qualità di creditore dell’odierno
reclamante nè è possibile valutare, seppure con un esame sommario che non potrebbe
che essere sommario, la assunta, `palese infondatezza “ della contestazione in mancanza della necessaria documentazione; i cambi di sede legale della società non sono indicativi di una volontà di sottrarsi all’adempimento delle proprie obbligazioni, risultando che comunque è stata data pubblicità a tali trasferimenti e la società
è stata sempre raggiunta per le notifiche; vi sono dei titoli che - a prescindere dal
loro valore - non sono stati oggetto di alcun tentativo di esecuzione forzata; le assunte irregolarità nella gestione della società e mancanza dei requisiti all’esercizio
dell’attività ben possono essere fatte valere dall’istante nelle sedi all’uopo deputate; non sono state proposte altre istanze di fallimento.
Ritenuto che - alla stregua di quanto si è detto - non appaiono sussistere i presupposti per la dichiarazione di fallimento “.
(Omissis)
259
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Dario Di Gravio
1) La dichiarazione di fallimento: alcune condizioni
La giurisprudenza ci dice che “nonostante l’esistenza di un titolo giudiziale
provvisoriamente esecutivo in possesso dell’istante, deve escludersi lo stato d’insolvenza in conseguenza della pendenza di un giudizio avente per oggetto l’accertamento della fondatezza delle contestazioni del credito ed in mancanza di ulteriori
sintomi di tale stato” (così Tribunale Pisa, 4 marzo 1997, in Fallimento 1997, 845);
“La contestazione del credito ad opera del debitore esclude che l’inadempimento dell’obbligazione possa essere ritenuto di per se solo prova dell’esistenza dello stato di
dissesto” (Corte Appello Bologna, 17 ottobre 1996 in Giur.it., 1997, 1). In altri termini si ha che, quando le ragioni creditorie dell’istante siano state dal debitore tempestivamente contestate, vengono a mancare i presupposti per la dichiarazione di fallimento, ovvero lo stato di insolvenza (ex art. 5 legge fallim.) e la qualitas del creditore. Su cosa sia lo stato di insolvenza e quali siano i “segnali” del suo palesarsi all’esterno di seguito si dirà. La reclamante ammanta con toni foschi i cambi di residenza, ma qualsiasi atto può essere commentato in maniera differente a seconda dell’angolo di osservazione, ma ritenere che tali trasferimenti siano indici di un “comportamento insolvente” addirittura non meritorio di commento. E soprattutto la circostanza desta stupore se si considera che chi solleva la questione è una società con
sede legale all’estero, nata dalla fusione.
Orbene se ai cambi di sede dobbiamo dare il medesimo valore indiziario, riteniamo che l’operazione societaria effettuata dalla reclamante (fusione tra società
estere) desti maggior preoccupazione del cambio di sede effettuato dalla esponente
e regolarmente dichiarato presso la camera di commercio.
E’ bene ricordare che lo stato di insolvenza, requisito essenziale per la dichiarazione di fallimento, consiste nello stato di impotenza patrimoniale (non transitoria) al regolare adempimento delle proprie obbligazioni.
Quindi, per dottrina e giurisprudenza prevalenti, il semplice inadempimento
non può considerarsi fattore causale del fallimento. Tanto più se il creditore, pur avendo a disposizione i mezzi per procedere in executivis ed addirittura conoscendo l’ubicazione dei beni di proprietà della debitrice (titoli), ignori volutamente la procedura esecutiva per dare corso a quella fallimentare che però è cosa altra e diversa (per
natura ed effetti) rispetto alla prima. 2) Si evidenzia poi che ci troviamo di fronte ad
una istanza di un singolo creditore (e per di più contestato giudizialmente, per quanto detto al punto che precede).
In merito alla sussistenza dello stato di insolvenza, la giurisprudenza ha più
volte ritenuto non sussistere detto requisito quando vi sia “il mancato adempimento di un solo debito sia pure rilevante, giudizialmente contestato, anche se portato
da un titolo provvisoriamente esecutivo” (Tribunale Chieti, 26 maggio 1992, in Dir
fall. 1993, II, 545; Tribunale Salerno 18 marzo 1998 in Giur.merito, 1999, 1015; Tribunale Pisa, 4 marzo 1997 in Fallimento 1997, 845).
260
Ed in tal senso, anche se parte della giurisprudenza ha ritenuto che non necessiti - ai fini della sussistenza dello stato di insolvenza - l’esistenza di una pluralità di inadempimenti essendo sufficiente anche un solo inadempimento, la circostanza dovrà essere attentamente valutata dal giudice designato anche perchè, si è parimenti ritenuto che tale inadempimento debba esternarsi in modo non equivoco e dimostrare in maniera palese l’esistenza di un patrimonio in dissesto nonchè l’oggettiva impossibilità del debitore di soddisfare regolarmente e con mezzi normali gli obblighi assunti (per la giurisprudenza Trib. Milano, 22 gennaio 1972 in Dir.fall. 1972,
II 823; Trib. Milano 5 settembre 1988, ivi, 1989, II, 643. Per la dottrina: cfr. Pajardi, Codice del fallimento, Padova, 1986, 98; Id. Codice del fallimento in Le fonti di
diritto italiano, Milano, 1991, 10 ss.; Ferrara, Il fallimento, Milano, 1989,130).
261
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Clausola statutaria di prelazione
e vicende traslative
TRIBUNALE DI ROMA, SENT 8 LUGLIO 2008,, PRES. MONSURRÒ EST.
NAZZICONE
La clausola di prelazione societaria, che ha natura convenzionale e tutela sia l’interesse del socio a mantenere inalterata la percentuale di partecipazione al capitale sociale, sia quello, proprio anche della società, a conservare l’omogeneità della compagine sociale, comporta, in capo al socio che intenda alienare in tutto o in parte la
sua partecipazione, l’obbligo di darne comunicazione agli altri soci e, in capo a questi, il diritto di essere preferiti nell’acquisto, a parità di condizioni e nella proporzione stabilita dallo statuto. (1)
L’indicazione del nominativo del terzo interessato all’acquisto è da ritenere necessaria tutte le volte in cui, alla stregua degli elementi del caso concreto, la clausola risulti posta anche a tutela dell’interesse del socio ad influire, mediante la propria decisione, sull’ingresso in società di un soggetto a lui non gradito. (2)
La validità della rinuncia alla prelazione richiede che il rinunciante sia a conoscenza di tutte le condizioni della vendita, in quanto una consapevole rinuncia può aversi solo nell’ipotesi in cui il titolare del diritto sia posto in grado di valutare tutti gli
aspetti positivi e negativi della sua scelta e, quindi, abbia avuto conoscenza della vendita decisa dal proprietario: ma quando è così, la rinuncia è possibile e può anche essere tacita. (3)
La sentenza così motiva:
(Omissis)
n punto di fatto, lo statuto sociale della F. s.r.l. all’articolo 6 stabilisce che “per il
trasferimento delle quote ai soci o ai terzi, spetta ai soci il diritto di prelazione da
esercitarsi, in proporzione alla rispettiva partecipazione sociale, nel termine di trenta giorni dalla comunicazione con lettera raccomandata con avviso di ricevimento”.
I
Con raccomanda a.r. datata 6.3.2002, M. G. D. C.:
ha premesso di essere “titolare di una quota per nominali 2500 euro”;
ha manifestato la propria volontà di “trasferire la sua quota di partecipazione
al capitale sociale della società o parte di essa”;
ha esposto il prezzo della vendita pari “ad euro 200 per ogni euro di valore nominale”;
ha affermato di inviare la missiva “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 6 dello
statuto sociale”, in tal modo implicitamente invitando gli altri soci ad esercitare il diritto di prelazione nel termine di giorni 30 dalla ricezione dell’offerta.
Nel termine fissato, nessun socio ha manifestato la volontà di acquistare.
(Omissis)….
262
Pertanto, in data 17.5.2002 il socio ha venduto le quote al proprio commercialista C. M., ed, in data 6.6.2002, l’amministratrice unica G. A. ha iscritto il nominativo
del nuovo titolare nel libro dei soci.
L’odierna azione, promossa con atto notificato il 16 e 19.1.2004, risulta la prima lamentela circa la violazione del patto di prelazione.
La clausola di prelazione tutela sia l’interesse del socio a mantenere inalterata
la percentuale di partecipazione al capitale sociale, sia quello, proprio anche della società, a conservare l’omogeneità della compagine sociale.
Dal patto di prelazione volontario non nasce, in capo al promittente, un obbligo
a contrarre (come nelle diverse figure del contratto preliminare o dell’opzione), ma originano due obblighi diversi: il primo, a carattere positivo o di facere, di rendere nota
al prelazionario l’intenzione di concludere il contratto a certe condizioni; il secondo, a
carattere negativo o di non facere, di non stipulare il contratto stesso con terzi prima
o in pendenza della denuntiatio (Cass. 12.4.1999, n. 3571).
La clausola comporta quindi, da un lato, in capo al socio che intende alienare in
tutto o in parte la sua partecipazione, il sorgere dell’obbligo di comunicare l’intenzione di alienare la quota e di offrire la stessa in vendita agli altri soci; dall’altro lato, in
capo agli altri soci, il diritto di ricevere tale comunicazione e di essere preferiti nell’ acquisto, a parità di condizioni e nella proporzione stabilita dallo statuto.
La prelazione societaria ha natura convenzionale ed in mancanza di clausole societarie dettagliate - come appunto nel caso in esame, in cui la clausola si limita ad imporre una “comunicazione” – i requisiti di contenuto della denunciatio vanno ricercati in via interpretativa. In particolare, limitandosi alla questione oggetto del thema decidendum, ci si chiede se il soggetto passivo del rapporto di prelazione abbia l’obbligo di indicare anche il norme del terzo interessato all’acquisto.
La disamina delle ipotesi di prelazione legale (fra cui la prelazione agraria prevista dall’art. 8 l. 26.5.1965 n. 590 e dall’art. 4-bis l. 3.5.1982 n. 203 per il caso di nuovo affitto del fondo, la prelazione locatizia di cui all’art. 38 l. 27.7.1978 n. 392, la prelazione fra coeredi ai sensi dell’art. 732 c.c.) non è, in questa sede, rilevante: invero, da
un lato, dalla disciplina legale della prelazione non si traggono argomenti univoci sulla questione ricordata; dall’altro lato, le (inesistenti) conclusioni univoche in merito non
sarebbero comunque estensibili tout court alla prelazione convenzionale societaria, ove
l’autonomia delle parti e l’interpretazione della loro volontà resta criterio principe.
Con riguardo all’esigenza di indicare il terzo interessato all’acquisto (ove già
individuato al momento della comunicazione, avendo il socio ovviamente sempre la
facoltà di offrire la sua partecipazione agli altri soci, pur quando ancora non sappia a
chi vendere: in tal caso, si tratta di una proposta o di un mero invito ad offrire, in sostanza del normale inizio di una fase di trattativa e di reperimento dell’acquirente direttamente all’interno della compagine sociale) e fuori da ogni analogia con talune ipotesi legali di prelazione (ove la comunicazione del nome del terzo è a volte imposta espressamente, come nell’art. 8 l. 26.5.1965 n. 590, che richiede la trasmissione del contratto preliminare con questi concluso, o risulta dalla previsione dell’obbligo di comuni-
263
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
care le offerte ricevute dal terzo, come nell’art. 4 bis l. 3.5.1982 n. 203, o ancora deriva necessariamente per essere il diritto esercitato dallo Stato dopo la vendita al terzo,
come nell’art. 58 d.lgs. 29.10.1999 n. 490 sui beni culturali), deve, infatti aversi riguardo
alla volontà delle parti: sia ove esplicitata nella clausola, ipotesi che dunque non pone
problemi; sia ove nulla sul punto la clausola preveda, in tal caso dovendosi ricorrere ai
criteri di cui agli art. 1362 ss. c.c., in particolare a quelli dell’intenzione dei contraenti
e dell’interpretazione complessiva dello statuto, oltre che al canone fondamentale della buona fede, per individuare le finalità che la clausola tutela, e che sarebbe eccessivo ritenere proprie, una volta per tutte, di qualsiasi clausola di prelazione nella circolazione delle partecipazioni sociali.
In questa prospettiva, l’indicazione del nominativo del terzo è da ritenere necessaria
tutte le volte in cui la clausola di prelazione – alla stregua degli elementi del caso concreto, forniti dal tipo sociale, dalla compagine societaria preesistente, dell’entità della percentuale da trasferire, etc. – risulti posta anche a tutela dell’interesse del socio ad
influire, mediante la sua decisione se acquistare o no, sulla possibilità di ingresso in società di un soggetto a lui non gradito.
Quel che va dunque valutata, caso per caso, è “la volontà delle parti che assegni rilevanza all’intuitus personae” (così Cass. 12.6.2001, n. 7879), manifestata nella
clausola statutaria in concreto all’esame del giudice.
In definitiva, lungi dal trovare una soluzione generalizzata, è necessario considerare se nella singola fattispecie sia rilevante tale elemento: il richiamo alla particolarità del caso concreto, che attribuisca rilevanza all’intuitus personae, ossia alla natura del contratto nel cui ambito la prelazione è concessa ed all’interesse delle parti di
consentire o di escludere l’ingresso del terzo nell’originario rapporto, è ricorrente nelle pronunce della Corte Suprema che sono state chiamate ad occuparsi dell’argomento (oltre alla sentenza da ultimo ricordata, cfr. Cass. 12.3.1981, n. 1407).
Se, dunque, sarebbe semplicistico ritenere che, nella prelazione societaria, la clausola tuteli sempre il solo interesse del titolare ad essere preferito a terzi nella vendita a
condizioni determinate, parimenti impropria è la conclusione opposta di reputare sempre necessaria l’indicazione del nominativo del terzo, al di fuori cioè di un’analisi della concreta fattispecie:non si può, invero, prescindere dalla considerazione dell’essere, oppure no, la società a base familiare e ristretta e dalla rilevanza dell’elemento personale, rivelato pure dalla presenza di altre clausole nello statuto (come quella di gradimento) ispirate dall’intento di restringere la compagine e contrastare lo schema generale della irrilevanza della qualità del socio nelle società di capitali.
Tutto ciò, giova precisare, non ha riguardo ai motivi per i quali il socio intenda
vendere al terzo, che restano comunque irrilevanti giuridicamente (se non di fatto).
In ogni modo, la domanda del socio pretermesso, fondata sulla violazione del
patto di prelazione, può condurre, secondo la tesi che si condivide (Trib. Roma
18.3.1998 e id., 4.5.1998, Soc. 1998, 1187), alla dichiarazione di inefficacia assoluta
del contratto di vendita all’acquirente. Inappropriata è, invece, la nozione di nullità, in
quanto questa non è sanzione disponibile dalle parti, ma consegue per legge alla vio-
264
lazione di norme imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c., insussistente nel caso in questione (Trib. Roma 22.5.1989, Impresa,1989, 2752). Pertanto, l’effetto dell’esercizio
dell’azione giudiziale volta alla declaratoria di inefficacia del contratto di trasferimento delle partecipazioni sociali è quello di ricostituire, in capo al socio pretermesso, la
situazione precedente alla cessione inefficace: egli, se crede, potrà così esercitare il diritto di prelazione.
Non trattandosi di un’ipotesi di nullità, ma di mera inefficacia, successive integrazioni della fattispecie sono consentite, tali da rendere infine pienamente efficace il
contratto di vendita della partecipazione sociale in favore del terzo.
In particolare, è altresì possibile che il socio, titolare del diritto di prelazione, rinunci ad esso.
Invero, qualora lo statuto di una società accordi a ciascun socio il diritto di prelazione in caso di vendita della partecipazione da parte di un altro socio, il diritto del
primo, dopo detta comunicazione, e con riferimento all’operazione cui si riferisce, è
ben suscettibile di rinuncia, vertendosi in tema di posizioni disponibili: come ha ritenuto convincentemente la Corte Suprema (Cass. 15.11.1993, n. 11278), la posizione
attiva, discendente al patto di prelazione, è suscettibile di rinuncia, la quale non tocca
quel patto integrativo del contratto sociale, né incide sullo status correlato a quella partecipazione sociale, ma si esaurisce in un atto abdicativo di un diritto personale, divenuto attuale dopo la comunicazione.
Persino nelle ipotesi di prelazione legale è consentita la rinuncia al relativo diritto, purchè sia riferito ad una individuata alienazione e se pure sia mancata la forma
prescritta della comunicazione (per la prelazione agraria, cfr Cass. 4.3.2003, n. 3166;
Cass. 14.4.2000, n. 4858; Cass. 4.6.1997, n. 4972; Cass. 26.11.1995, n. 936; Cass.
2.8.1993, n. 8525; in tema di prelazione ereditaria, Cass. 22.11.1994, n. 624; per la prelazione locatizia, Cass. 24.9.1996, n. 8444).
Dunque: la valida rinuncia alla prelazione richiede che la stessa si riferisca ad
una progettata alienazione del bene e che il rinunciante sia a conoscenza di tutte le condizioni della vendita, in quanto una consapevole rinuncia può aversi solo nell’ipotesi
in cui il titolare del diritto sia posto in grado di valutare tutti gli aspetti positivi e negativi della sua scelta e, quindi, abbia avuto conoscenza della vendita decisa dal proprietario: ma, quando è così, la rinuncia è possibile e può anche essere tacita.
Come tutti i comportamenti negoziali per i quali non sia prevista una forma solenne, anche la rinuncia, infatti, può essere manifestata con comportamento concludente:
sempre che ne sussistano in concreto elementi idonei a manifestarlo; e, come ha chiarito la Corte Suprema, in relazione a quello specifico trasferimento azionario ormai concluso.
Nel caso di specie, con la lettera raccomandata del 6.3.2002, il D. C. ha manifestato la propria intenzione di vendere al socio prelazionario, indicando, nella relativa
missiva, di voler addivenire alla cessione anche solo di una parte del capitale sociale
dallo stesso detenuto e stabilendo il prezzo che l’acquirente avrebbe dovuto corrispondere
per ogni euro di valore nominale, oltre che riportandosi, per relationem, al termine dal-
265
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
lo statuto concesso per l’esercizio del diritto di prelazione. Il D. C. non ha indicato, invece, il nominativo del terzo aspirante all’acquisto, laddove nella F. s.r.l. è palese la rilevanza della persona dei singoli soci, in ragione della presenza di clausole che pongono l’accento sui medesimi (si veda ad es. proprio l’art. 10, secondo cui la delega in
assemblea può darsi soltanto a favore di altro socio) e della presenza in società di pochi soci, di cui una parte facenti parte della stessa famiglia.
Ma la socia A. non ha, per lungo tempo, manifestato alcun interesse a conoscere l’identità del terzo aspirante ad acquistare le azioni, dato che essa non risulta né averne chiesto la comunicazione durante il tempus deliberandi di cui alla clausola statutaria, né avere eccepito alcunchè per quasi due anni dopo l’avvenuta vendita al nuovo socio.
Tale ultima condotta palesa – come i convenuti hanno eccepito in comparsa (onde non occorre qui discorrere se sia rilevabile d’ufficio la rinuncia posta in essere che
emerga dagli atti, come ha sostenuto ad esempio la sentenza del Trib. Catania 20.11.2002,
in Soc., 2003, 597) – l’avvenuta rinuncia, tacita ma inequivoca, dell’A. ad esercitare il
suo diritto di prelazione.
Infatti, dopo la comunicazione della propria intenzione di vendere nei termini
sopra ricordati, è stata conclusa la cessione di una quota rappresentativa di €. 1,00 del
capitale sociale della F. s.r.l. e le parti ne hanno chiesto l’iscrizione nel libro dei soci,
il tutto nell’anno 2002.
Da tale data alla notifica dell’atto di citazione, avvenuta nel mese di gennaio 2004,
nulla l’A. ha contestato al socio cedente od al nuovo socio, dovendosi, dunque, presumere che la vita sociale, ed, in particolare, le assemblee siano state regolarmente tenute fra tutti i soci, senza alcuna contestazione.
Pertanto, la ristretta compagine societaria induce a ritenere necessaria anche l’indicazione del terzo aspirante alla vendita, dato che era già stato individuato.
Ai fini della valutazione del diritto della odierna attrice ad essere preferita in quella precisa vendita, se l’A. avesse conosciuto comunque ex ante il nominativo del cessionario, per la socia sarebbe ormai decorso il termine statutario di decadenza.
Invece, dovendo ritenersi che la stessa abbia appreso ex post (almeno in data
6.6.2002) il nominativo del cessionario, la condotta da essa tenuta, nel momento in cui
ha iscritto il nominativo del nuovo socio nell’apposito libro e, poi, nel silenzio mantenuto negli anni successivi, risulta incompatibile con la pretesa di voler esercitare il diritto di prelazione.
In altri termini, anche se il nome non era noto al momento della comunicazione
dell’intenzione di vendere la quota da parte del D. C., tuttavia – subito dopo la vendita – certamente l’A. ha avuto piena conoscenza del nome del terzo, senza nulla eccepire per lungo tempo, ma, anzi, ponendo in essere condotte, nella vita sociale, integranti
una presa d’atto della nuova situazione: la circostanza che la stessa abbia provveduto
all’iscrizione nel libro dei soci (nella veste di amministratore) e, quindi, così certamente
venuta a conoscenza del nome del terzo, abbia tuttavia omesso qualsiasi rilievo in ordine alla pretesa violazione del suo diritto, induce a ritenere validamente posta in es-
266
sere una rinuncia tacita a far valere l’inefficacia della vendita, con una scelta pienamente consapevole e responsabile, perché successiva al palesarsi del nome del terzo e
dell’esatta quota venduta.
Una diversa conclusione si tradurrebbe, invero, in una grave compressione dei
diritti del proponente, nonché del terzo, esposti allora sine die a ripensamenti degli altri soci, pur dopo che in modo tacito, ma inequivoco, abbiano avvallato la vendita, in
contrasto con i principi di correttezza e buona fede.
(Omissis)
(1-3) Effetti della clausola di prelazione e della sua violazione.
Avv. Domenico BENINCASA
na delle limitazioni a cui può essere sottoposto il trasferimento delle azioni è rap-
presentata dalla c.d. clausola di prelazione, con la quale l’atto costitutivo impone al socio che intenda alienare le proprie azioni (o, nel caso di s.r.l., le proprie quote) di offrirne l’acquisto agli altri soci e di preferirli, a parità di condizioni, ai terzi
interessati all’acquisto stesso.
Sotto il profilo della fonte, peraltro, tale clausola, oltre che prevista originariamente nell’atto costitutivo o in questo introdotta durante societate, può essere convenuta al di fuori della struttura societaria, con un patto parasociale; in tale caso essa avrà, a differenza che nei primi due, portata solamente obbligatoria.1
Il legislatore, però, con gli artt. 2355-bis (per le società per azioni) e 2469 c.c.
(per le società a responsabilità limitata), si è solo limitato a prevedere la possibilità
di sottoporre statutariamente a particolari condizioni il trasferimento, anche a causa
di morte, delle azioni o delle quote sociali, fino a vietarne del tutto la circolazione
(sia pure, almeno per le società per azioni, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto).2
U
1 Cfr., ex multis, Farenga, I contratti parasociali, Milano, 1987,
p.379 e ss.; Angelici, La circolazione delle partecipazioni
azionarie, in Trattato delle società per azioni,a cura di
Colombo e Portale, II, Torino, 1991, 132. Vi è, però, chi
considera tale patto sempre parasociale, anche se inserito
nell’atto costitutivo, salvo poi ad ammettere, in qualche
caso, una sua efficacia reale (V. Ferri, Soppressione a
maggioranza del diritto di prelazione attribuito ai soci nello
statuto sociale?, in Riv.dir.comm., 1980, II, p.255; Alessi,
Alcune riflessioni intorno alla clausola di prelazione, in
Riv.dir.comm., 1987, p.52 e ss.).
2 L’art. 2355, al terzo comma, stabiliva semplicemente che lo
statuto poteva sottoporre a particolari condizioni, senza
specificarne ulteriormente il contenuto, l’alienazione delle
azioni nominative. Il nuovo art.2355-bis, introdotto con la
riforma del diritto societario (d.lgs.n.6 del 17 gennaio 2003)
detta al riguardo una disciplina più dettagliata ed
innovativa, non solo ampliando la portata della facoltà di
limitare la circolazione delle azioni anche ove sia stata
esclusa l’emissione di titoli, ma prevedendo anche la
possibilità, temporalmente limitata, di vietare il
trasferimento dei titoli, ed inserendo nuovamente la
possibilità del ricorso alle clausole di mero gradimento,
delle quali l’art.22 della l.281/1985 aveva sancito l’inefficacia
tout court. Per quanto riguarda le società a responsabilità
limitata, prima della riforma del diritto societario, era
l’art.2479, primo comma, c.c., a consentire di porre,
nell’atto costitutivo, limitazioni alla libera cedibilità delle
quote.
267
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
E l’assenza, nel codice civile, di una specifica ed articolata disciplina della clausola di prelazione ha dato luogo, sia in dottrina che in giurisprudenza, a profondi contrasti, tuttora persistenti, i quali, muovendo dalla natura stessa, reale od obbligatoria, di tale clausola3, si sono ovviamente estesi all’individuazione della portata della stessa e delle conseguenze della sua violazione.
La definizione della portata e degli effetti della clausola di prelazione prescinde
dall’individuazione degli interessi ai quali la stessa si riferisce; in dottrina è ormai
opinione diffusa, comunque, che essa coinvolga in ogni caso interessi individuali:
quello, cioè, del socio intenzionato a vendere la propria partecipazione, per ricavarne il prezzo di mercato, e quello degli altri soci intenzionati ad acquistarla4, mentre
in giurisprudenza è stata più volte sottolineata la sua funzione di tutela dell’interesse della società.5
In passato, pur se non sono mancate, restando, però, del tutto isolate, decisioni di merito secondo le quali la vendita di azioni o di quote operata in violazione della clausola di prelazione ne avrebbe comportato l’annullabilità6, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sostenevano, invece, che alla violazione della clausola di prelazione conseguiva la nullità della vendita stessa.7
A tale orientamento è stato però autorevolmente opposto, in dottrina, che la
violazione della clausola di prelazione, non essendo in alcun modo riconducibile alle ipotesi previste dall’art.1418 c.c., non può essere sanzionata con la nullità e che
3 Una prima opinione qualifica il patto di prelazione
come contratto preliminare unilaterale connotato dalla
presenza di un elemento condizionale cui sarebbe
subordinato il sorgere del diritto al contratto (si vedano,
in giurisprudenza, Cass. 20 giugno 1986, n.4116, in
Giur.it., 1987, I, 1, c.1454; Cass. 13 maggio 1982, n.3009,
in Giust.civ., 1982, I, p.3085; Cass. 5 maggio 1967, n.862,
in Foro it., 1967, I, c.1515; App. Brescia, 19 dicembre
1962, in Foro pad., 1964, I, c.1195. Per la dottrina,
Rubino, La compravendita, Milano, 1971, p.63; Greco e
Cottino, Della vendita, in Commentario al codice civile,
a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972, p.29 e
ss.) Un’altra opinione ravvisa nella figura un semplice
schema negoziale a causa generica, o addirittura un
accordo preparatorio o normativo, per alcuno
riconducibile alla figura del patto di opzione (così Troisi,
La prelazione volontaria come regola privata integrativa
del procedimento di formazione del contratto, in
Riv.dir.civ., 1984, II, p.580 e ss). Sembra piu’ condivisibile,
invero, l’opinione che assegna un rilievo autonomo al
patto in sé, il quale, anche se atipico, riveste una
propria tipicità sociale (vedi Vettori, Efficacia ed
opponibilità del patto di preferenza, Milano, 1988,
p.13). Per una esauriente ed approfondita disamina dei
diversi orientamenti che si sono manifestati in passato,
v. Breccia, Buona fede e patto di prelazione, in Foro it.
1968, I, c.2283 e ss.
4 Per la dottrina, cfr. Angelici, Azioni e Gruppi, Tr.CP,
Torino, 1991, II, p.190; Angeloni, Il patto di prelazione
fra soci nella vendita di azioni o di quote di società, in
La società per azioni alla metà del secolo XX. Studi in
268
memoria di A. Straffa, I, Padova, 1962, p. 4; Gatti,
L’iscrizione nel libro dei soci, Milano, 1969, p. 106 e ss.
5 Cfr. Cass. 7 novembre 2002, n.15605, in Vita notarile,
2003, p. 943; Cass. 3 aprile 1991, n. 3482, in Foro it.,
1992, I, p. 842.
6 Per questa soluzione, vedi App. Napoli, 12 novembre
1969, n. 3326, in Dir. giur., 1971, p.771; App. Bari, 4
dicembre, 1959.
7 Sul tema vedi, in dottrina, Santoro Passarelli, Struttura e
funzioni della prelazione convenzionale, in Riv.
trim.dir.proc., 1981, p. 705 e ss.; Colucci, Efficacia reale
della clausola statutaria di prelazione e conseguenze
della sua violazione, in Giur.comm., 1994, II, p.709 e ss.;
Farenga, op. cit, Milano, 1987, p.162; Sbisà, in Frè-Sbisà,
Società per azioni, in Comm.cod.civ. Scialoja-Branca, a
cura di Galgano, V, Bologna-Roma, 1997, p.330 e ss; per
la giurisprudenza, la pronuncia del Supremo Collegio
piu’ lontana risale al 1957 (Cass. 10 ottobre 1957,
n.3702, in Banca, borsa, tit.cred., 1958, II, p14). Si
vedano anche Cass. 21 ottobre 1973, n. 2763, in
Giur.comm.,1975, II, p.23, con nota di d’Alessandro;
App. Roma 26 giugno 1989, in Rass.arb., 1990, 202;
App. Cagliari 7 febbraio 1970, in Dir.fall., 1970, II, 481;
Trib. Roma 19 marzo 1998, in Giur.it., 1998, 2111; Trib.
Napoli 12 maggio 1993, in Dir. e giur., 1994, 439; Trib.
Perugia, 8 marzo 1982, in Giur. Comm.,1983, II, 108;
Trib.Genova 15 giugno 1959, in Foro it., 1960, I, 1758; e,
più di recente, Trib. Cagliari, 7 gennaio 2001, in Riv.
Giur.Sarda 2002, 125.
non sarebbe sufficiente neppure il richiamo all’origine legale della prelazione statutaria per potere affermare di essere in presenza della violazione di una norma imperativa o, comunque, di uno dei casi “stabiliti ex lege” ai quali tale norma fa riferimento.8
Secondo la tesi attualmente prevalente, la violazione del patto di preferenza
comporta l’inefficacia dell’atto che la realizza, anche se tale sanzione viene intesa in
modi sensibilmente diversi.
Per alcuni, poiché il patto violato è inserito nello statuto e, dunque, conoscibile a tutti per effetto della pubblicità legale cui gli atti societari sono sottoposti, dovrebbe essere assoluta l’inefficacia del trasferimento, il quale sarebbe così inopponibile sia verso la società che verso i soci pretermessi.9
Per altri, invece, il trasferimento delle azioni o delle quote resterebbe efficace
tra le parti, ma sarebbe inopponibile alla società, la quale potrebbe rifiutare l’iscrizione della cessione nel libro dei soci.10
Per qualcuno, infine, nel presupposto che la clausola di prelazione deve essere ricondotta all’esclusivo interesse dei soci a preservare, sotto il profilo personale,
la struttura della compagine societaria, sarebbe stata invocabile, da parte dei singoli soci pretermessi, il rimedio del retratto.11
Tale opinione è stata però disattesa dalla giurisprudenza, anche e soprattutto
perché, nel nostro ordinamento, quello del retratto, in quanto istituto di applicazione eccezionale, sarebbe insuscettibile di applicabilità analogica.12
In netta alternativa all’utilizzo dello strumento del retratto, è stata ipotizzata
l’esperibilità dei mezzi di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre ed, in particolare, quello dell’azione di cui all’art. 2932 c.c.13 Al riguardo, peraltro, è stato giu8 Maccabruni, Clausole statutarie di prelazione, in
Giur.comm., 1989, II, p.105; Di Sabato, Manuale delle
società, Torino, 1987, p. 326. In generale, sulla natura
esclusivamente legale della nullità, cfr. Betti, Teoria
generale del negozio giuridico, II ed., Torino, 1960, p.
122; Irti, La nullità come sanzione civile, in Contr. e
impresa, 1987, p.549. Per la giurisprudenza, v., tra altre
e da ultimo, Trib. Catania 6 febbraio 2003, in giur.
comm. 2003, II, p. 761; Trib. Roma, 4 maggio 1998, in
Riv.dir.comm. 1999, II, p. 65, ed in Società, 1998, p. 1187;
Trib. Bassano del Grappa, 17 febbraio 1993, in Società,
p. 977 con commento di Carnevali; App. Roma 22
maggio 1989, che escludono espressamente la tesi della
nullità del negozio per illiceità della causa.
9 Cfr. Trib. Catania 6 febbraio 2003, cit.; Trib. Roma 23
ottobre, 1991, in Società, 1992, p.357; Trib. Roma 22
maggio 1989, in Impr., 1989, p.2752. In dottrina, ex
multis, vedi Bonilini, La prelazione volontaria, Milano,
1984, p.168; Lojacono, Clausole di inalienabilità, in Enc.
Dir., XX, Milano, 1970, p.892 e ss.
10 Cfr. Cass. 16 ottobre 1959, n.2881, in Foro it., 1960, I,
p.1767; Trib. Milano, 24 maggio 1982, in Banca, borsa e
tit.cred., 1986, II, 338. L’inefficacia relativa del
trasferimento è sostenuta, in dottrina, anche da
Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1963, p.267; De
Ferra, La circolazione delle partecipazioni azionarie,
Milano, 1964, p.221. Sugli inconvenienti pratici che si
dovrebbero fronteggiare se si aderisse a questa tesi,
quali il perdurare della legittimazione ad esercitare i
diritti sulle azioni vendute in capo all’alienante in caso
di rifiuto della società all’iscrizione del nuovo socio, vedi
Meli, La clausola di prelazione negli statuti delle società
per azioni, Napoli, 1991, p.162.
11 Cfr. Ferri, Le società, Torino, 1987, p.506; Ferrara-Corsi,
Gli imprenditori e le società,Milano, 1999, p.484.
12 Cfr. Trib. Roma, 4 maggio 1998, in Società, 1998, p.1187;
Trib.Milano, 25 febbraio 1988, in Giur.comm., 1989, II,
p.94; Trib. Rimini, 12 aprile 1984, in Foro it., 1985, I,
p.2096; sembrerebbe invece ammesso da Cass. 1989/93,
in Giur.comm, 1990, II, p.563, e in Riv.dir.comm., 1990, II,
p.1; Trib. Bassano del Grappa, 17 febbraio 1993, cit.;
Trib. Catania, 28 febbraio 1991, in Società, 1991, p.1104.
13 Cfr. Cass. 1988/2045, in Nuova giur.civ.comm., 1989, I,
p.29; Trib. Perugia, 8 marzo 1982, in Giur.comm., 1983,
II, p.308.
269
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
stamente osservato che, coincidendo il momento in cui il socio alienante si obbliga
a contrarre con il socio prelazionario con quello in cui il primo decida di vendere le
azioni, sarà sufficiente, una volta che, attraverso la denuntiatio, tale momento sia stato ufficializzato, che il destinatario manifesti l’accettazione perché il negozio si consideri concluso, con la conseguenza che, in tal caso, non residua spazio alcuno per
l’applicazione della disposizione in questione.14
Solo nella diversa ipotesi in cui il socio, omettendo di effettuare la denuntiatio, compia un atto di disposizione delle proprie azioni o quote in violazione della
clausola di prelazione, il suo inadempimento retroagirà al momento in cui doveva
essere operata la comunicazione della propria determinazione, con l’effetto, per il socio pretermesso, di poter azionare lo strumento dell’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, con le correlate implicazioni sul precedente atto di disposizione.15
In tale quadro, il Tribunale, con la decisione annotata, ha avuto modo di approfondire, nella correlazione imposta dal caso sottoposto al suo vaglio, due distinte questioni afferenti alla clausola di prelazione.
La prima riguarda la denuntiatio, che potrà essere considerata valida solo ove
contenga tutti gli elementi necessari ad informare in modo compiuto i soci e/o la società sui termini e sulle condizioni della cessione, con la precisa indicazione, tra l’altro, del prezzo delle azioni, qualora lo stesso non sia già determinabile sulla base delle previsioni statutarie.16
Essa, pertanto, non potrà limitarsi alla mera comunicazione della determinazione di cedere, ma dovrà contenere tutti gli elementi del relativo accordo, così da
tradursi in una vera e propria proposta contrattuale.17
Un aspetto del tutto particolare ed estremamente controverso, anche nell’ambito delle prelazioni legali18, e che può essere risolto solo attraverso una precisa individuazione, fatta caso per caso, della ratio e della specifica funzione della prelazione, è quello della necessità o meno dell’indicazione, nella comunicazione, anche
del nomen del terzo contraente.
Contenuto della denuntiatio e rinuncia tacita al diritto di prelazione.
14 Cfr. Meli, op. cit., p. 175. Le diverse posizioni dottrinali
espresse sul punto sono ampiamente delineate in
Perego, Il patto di prelazione e l’art.2932 del codice
civile, in Giur.it., 1976, I,1, p.1206 e ss.
15 Trib. Perugia, 8 marzo 1982, in Giur.comm., 1983, II,
p.308. In dottrina, vedi Meli, op.cit., p.176, il quale,
affrontando il caso della già avvenuta consegna delle
azioni al terzo e del rifiuto di questi di riconsegnarle,
ne ipotizza la soluzione proponendo una sorta di
ammortamento, con rilascio di nuovi titoli. Vedi anche
Mazzamuto, L’esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto, in Tratt.dir.priv., dir. da
Rescigno, vol.20, Torino, 1985, p.340.
270
16 Cfr. Trib. Napoli, 21 gennaio 1995, in Giur.Merito, 1997,
I, p.82.
17 Cfr. Trib.di Roma, 19 febbraio 1998, in Giur.it., 1998,
p.2111; Trib. Cassino, 9 settembre 1997, in Società,
p.415.
18 In relazione alla quale tale indicazione è talvolta
prevista espressamente quale requisito (vedi l’art.8
l.n.817 del 1971) e talaltra esclusa (vedi l’art.38 della
l.n.392 del 1978). Cfr. Santoro Passarelli, Struttura e
funzione della prelazione convenzionale, in
Riv.trim.dir.proc.civ., 1981, p.708; Carresi, Il contratto, in
Tratt.dir.civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, XXI, 1,
Milano, 1987, p.400.
Con la sentenza in questione, aderendo all’orientamento espresso dal Supremo Collegio19, secondo il quale, ove risulti rilevante il c.d. intuitus personae -sulla valutazione del quale, peraltro, possono incidere vari elementi, quale, a titolo meramente esemplificativo, la base familiare o estremamente ristretta della società- è assolutamente ineludibile la necessità della specifica conoscenza del terzo, il Tribunale ha affermato che, laddove sia palese la rilevanza della persona dei singoli soci, la denuntiatio deve necessariamente contemplare l’indicazione del terzo interessato all’acquisto, sussistendo, in capo agli altri soci, l’esigenza di conoscerne le qualità e le caratteristiche.
Un’opinione radicalmente diversa, che qui si riporta solo per ragioni di completezza, essendone venuto a mancare, a seguito della riforma del diritto societario, il
presupposto logico-giuridico, è quella proposta da chi, pur valorizzando la duplice portata organizzativa della clausola di prelazione, dava soprattutto risalto alla funzione di
strumento di controllo sull’ingresso in società di terzi estranei, sostenendo, quindi, tanto più dopo che l’art. 22 della legge 4 giugno 1985 n.281 si è abbattuto come una scure sulla legittimità delle clausole di gradimento, che i soci prelazionari dovessero sempre e comunque essere portati a conoscenza dell’identità dell’interessato all’acquisto.20
Tale posizione, però, se già appariva scarsamente condivisibile alla luce del principio fondante della libera trasferibilità della partecipazione sociale attraverso la circolazione delle azioni che la incorporano, risulta oggi definitivamente superata, per effetto dell’introduzione, con la recente riforma societaria, della disposizione di cui all’art.2355-bis c.c., la quale riconosce espressamente l’efficacia delle clausole che subordinano l’alienazione al mero gradimento della società e/o degli altri soci, purchè inserite in uno statuto che preveda, a carico della prima e/o dei secondi, ove neghino il
proprio gradimento, un obbligo di acquisto o riconosca all’alienante il diritto di recesso (art. 2355- bis, secondo comma, c.c.).
La seconda questione riguarda la possibilità, per il socio prelazionario, di rinunciare al suo diritto anche senza una espressa manifestazione di volontà in tal senso.
9 Per la giurisprudenza, cfr. Cass. 14 gennaio 2005, n. 651,
in Società, 2005, p.597. Gli altri due precedenti, nello
stesso senso, sono Cass. 12 giugno 2001, n.7879, in
Società, 2002, p.42; Cass. 12 marzo 1981, n.1407, in Foro
it., Rep. 1981, voce Contratto in genere, nn.103, 104, e
Vita not., 1982, p.1085. Vedi, per la dottrina, Bonilini,
op.cit., p.123; Meli, op.cit., p.144. Si veda anche
Galgano, Dir.civile e comm., vol.III, 440; Corapi, Clausole
di mero gradimento e clausole di prelazione dopo la
riforma societaria, in Società, 2005, p.831 e ss. Diverso
avviso è stato, invece, espresso da Minassi, in La libertà
di trasferimento delle partecipazioni sociali: clausole
limitative, in Società, 1993, p.832.
20 Cfr. Binni, Vendita congiunta di azioni e clausola di
prelazione, in Giur.comm., 1997, II, p.709. Della stessa
opinione, ma con riguardo alla prelazione volontaria,
Costanza, Il patto di prelazione, in Alpa-Bessone, I
contratti in generale, I requisiti del contratto, III, in
Giur.sist.dir.civ. e comm., fondata da Bigiavi, Torino,
1991, p.400.
Peraltro, sia la giurisprudenza maggioritaria che parte
della dottrina riconoscevano validità ed efficacia alle
clausole che subordinavano l’alienazione delle azioni al
gradimento di organi sociali, purchè fosse previsto
l’obbligo, per la società, di designare altri acquirenti
graditi, realizzandosi, in tal modo, un
contemperamento degli interessi coinvolti. Cfr. Cass.
1978, n.2365, in Giur.comm., 1978, II, p.639; Cass. 1996
n.8084, in Foro it., 1996, I, p.2968. Per la dottrina, vedi
Dalmartello, La clausola di gradimento e la legge sulla
riforma della Consob (l. 4 giugno 1985, n.281, art.22) in
Giust.civ., 1985, II, p.572; Borgioli, Le clausole di
gradimento nella legge n.281 del 1985, in Giur.comm.,
1986, I, p.43.
271
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
L’istituto della rinuncia difetta di una disciplina generale21 e non è possibile,
quindi, nonostante la ricerca di requisiti costanti della figura, delinearne un profilo
unico e sicuro, potendosene solo individuare un contenuto minimo nell’atto, essenzialmente unilaterale, con cui il titolare di una posizione di potere se ne spoglia volontariamente22 e, proprio perché l’attività rinunciativa si manifesta attraverso una
dichiarazione di volontà diretta al perseguimento dello specifico scopo dismissivo
della situazione giuridica di cui è titolare il rinunciante, la dottrina, quasi senza eccezione, considera l’atto di rinunzia un negozio giuridico.
La nozione di atto giuridico, infatti, non sarebbe idonea a giustificare l’effetto della fattispecie, che appare una diretta conseguenza della volontà espressa dal rinunciante23.
La volontà nell’atto di rinunzia, quando non sia prevista una forma vincolata,
può essere manifestata espressamente, ossia in forme specificamente dirette a portarla a conoscenza del controinteressato, oppure tacitamente, e, cioè, con atti o comportamenti che risultino sicuramente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto.24
In generale, comunque, una valida rinuncia può aversi solo quando il titolare
del diritto sia posto in grado di valutare tutti gli aspetti, positivi e negativi, della propria scelta e, quindi, solo se messo a conoscenza di tutte le condizioni della vendita.
Quando, invece, sulla base di valutazioni che tengano conto della volontà delle parti espressa nel patto di prelazione e delle altre circostanze del caso concreto, la
denuntiatio risulti incompleta, la giurisprudenza ha ritenuto che la stessa debba essere considerata come totalmente omessa25, per cui il prelazionario potrebbe lasciar
decorrere infruttuosamente lo spatium deliberandi senza con ciò perdere il proprio
diritto.
E’ pur vero che il prelazionario potrebbe chiedere un’integrazione della
comunicazione da esso ritenuta insufficiente, ma sull’idoneità di tale richiesta
ad interrompere lo spatium deliberandi in attesa dei sollecitati chiarimenti, la
21 Manca, infatti, nel codice civile, una disciplina generale
della “rinuncia al diritto”, mentre l’istituto trova
riscontro in numerosi istituti giuridici (vedi, a titolo
d’esempio, gli artt. 461, 478, 519, 520, 521, 524, 525,
526, 527, 649, 650, 702 in materia di successioni; 2937 e
2939 in tema di prescrizione).
22 Vedi Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto
civile, Napoli, 1959, p.214; Macioce, Il negozio di
rinuncia nel diritto privato, Napoli, 1992, p.77; Allara, Le
fattispecie estintive del rapporto obbligatorio, Torino,
1952.
23 Cfr. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto
privato italiano, Napoli, 1949, p.144; Bozzi, Rinunzia
(Diritto pubblico e privato), in Nss.Dig.It., XV, 1968,
p.1145. Per la giurisprudenza: Cass. 22 settembre 2000,
n.12536, in Vita not., 2001; Cass. 5 febbraio 1969 n.387,
in Foro it., 1969, I, p.1878; Cass.6 maggio 1955, n.1272,
272
in Giur.it., I, 1955, p.604.
24 Il Supremo Collegio ha recentemente puntualizzato che
“la volontà tacita di rinunziare ad un diritto si può
desumere soltanto da un comportamento che riveli la
sua univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso” e
che “l’inerzia ed il ritardo nell’esercizio del diritto non
costituiscono elementi sufficienti, di per sé, a dedurre la
volontà di rinunciare del titolare, potendo essere frutto
di ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra
causa” (v. Cass. 15 marzo 2004, n. 5240).
25 Cass. 22 gennaio 2004, n.1103, in Giust.civ.mass., 2004,
che, in tema di prelazione legale, afferma che la
denuntiatio mancante del prezzo della quota di
spettanza del conduttore di un fondo deve essere
equiparata alla fattispecie della denuntiatio totalmente
omessa, di cui all’art.8, comma 5, L.n.590 del 1965.
mancanza di riferimenti giurisprudenziali lascia desumere che, nel caso in cui
la denuntiatio sia da considerarsi oggettivamente esauriente, non vi sia spazio
per richiedere alcuna ulteriore informazione e che, nel caso opposto, essa sia,
invece, del tutto inefficace, ove non adeguatamente integrata.26
In quest’ultimo caso, dunque, un comportamento inerte del prelazionario
non potrebbe essere considerato, da solo, elemento integrativo di una rinuncia al
diritto di prelazione, non potendo essere attribuito, al riguardo, risolutivo valore all’omessa manifestazione di un interesse a conoscere l’identità del terzo aspirante all’acquisto delle azioni.
Con l’annotata decisione, peraltro, nonostante una denuntiatio che, per la
sua oggettiva insufficienza e per la carenza dell’indicazione, nel caso concreto
assolutamente necessaria, del terzo interessato all’acquisto, sarebbe stata del tutto inidonea a far decorrere il termine per l’esercizio del diritto di prelazione, il
Tribunale è comunque pervenuto, attraverso il procedimento logico delle presunzioni, affidato ad argomentazioni estremamente persuasive, all’accertamento dell’esistenza di una volontà abdicativa del socio destinatario di quella denuntiatio, in ordine al diritto di prelazione ad esso spettante.
A tale fine, il Tribunale ha assegnato rilievo, innanzitutto, alla circostanza
che il socio prelazionario, nonostante l’insufficienza e la carenza della denuntiatio, avesse consentito e provveduto, nella sua qualità (anche) di amministratore, all’iscrizione del terzo (cessionario) nel libro soci27.
L’adesione a tale iscrizione sarebbe stata, però, certamente inidonea ad integrare, da sola, un comportamento sicuramente indicativo della volontà di rinunziare a far valere l’inefficacia della cessione e dell’acquisto attuati in violazione della clausola di prelazione, atteso che ad essa il socio-amministratore potrebbe avere acceduto al solo fine di sottrarsi alle gravi responsabilità alle quali
un rifiuto eventualmente ingiustificato avrebbe potuto esporlo nei confronti del
nuovo socio.
Ed, infatti, alla propria decisione il Tribunale si è determinato non tanto (o, quanto meno, non solo) in forza della considerazione che, attraverso l’iscrizione del terzo cessionario nel libro soci, il titolare del diritto di prelazione fosse venuto a cono26 Così Duvia, La denuntiatio nella prelazione volontaria,
Milano, 2005, p.56 e ss. I soli casi in cui si fa cenno alla
possibilità che il prelazionario richieda integrazioni sono
quelli in cui si sottolinea che una accettazione della
denuntiatio accompagnata da simili dichiarazioni non
può essere considerata pienamente conforme all’offerta,
e, perciò, non consente la conclusione del contratto.
Cfr.Trib. Roma, 10 luglio 2000, in Giur.mer., 2001, p.23.
27 Il libro dei soci nelle società di capitali ha la funzione di
documentare le vicende della partecipazione sociale,
per cui le iscrizioni in esso contenute, in quanto prive di
effetto dispositivo, possono essere rettificate, in via
giudiziale, ove operate erroneamente od
illegittimamente, ad iniziativa della societaà e/o dei
singoli soci, nei confronti dei quali, in caso di cattivo
esercizio del proprio potere-dovere di controllo,
l’amministratore potrebbe essere chiamato a rispondere
dei danni da essi eventualmente subiti (cfr., per la
giurisprudenza, Cass. 26 novembre 1998, n. 12012, in
Giur. it., 1999, I, c. 1436; Cass. 17 dicembre 1007, n.
12752, in Giust. civ. 1998, I, p. 1300, Cass. 19 agosto
1996, n. 7614, in Giur. it. 1997, I, c. 586. V., per la
dottrina, Ferrara Jr., Gli imprenditori e le società,
Milano, 1978, p. 414; Fre, La società per azioni, in
Comm.cod. civ.a cura di Scialoja – Branca, BolognaRoma, p. 255; Bonelli, La responsabilità degli
amministratori, in Tratt.delle società per azioni, vol. 4,
Torino 1991, p. 453 e ss.; Meli, op.cit., p. 120).
273
scenza di tutti gli elementi necessari ai fini di una corretta e completa denuntiatio,
ma anche (e, forse, soprattutto) perché, successivamente e per oltre un biennio, quest’ultimo, non avendo nulla obiettato od eccepito in ordine all’attiva partecipazione
del nuovo socio alla vita della società, aveva tenuto un comportamento assolutamente
incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto ad esso riconosciuto.28
A diversa conclusione si sarebbe dovuto pervenire, invece, nella ipotesi in cui,
nonostante l’omissione di denuntiatio o l’assoluta insufficienza di questa, il socio prelazionario avesse acquisito aliunde piena conoscenza della decisione di un altro socio di cedere la propria partecipazione ad un terzo, dell’identità di quest’ultimo e delle condizioni della programmata cessione.
In tale caso, infatti, come è stato autorevolmente rilevato, il socio prelazionario, ove ne avesse avuto interesse, avrebbe dovuto comunque comunicare, nel termine all’uopo previsto29, la volontà di esercitare il proprio diritto di prelazione, con
la conseguenza che la mancanza di tale tempestiva manifestazione di volontà, avrebbe inevitabilmente comportato, analogamente a quanto sarebbe accaduto nell’ipotesi in cui fosse stata effettuata una denuntiatio completa, la decadenza dalla facoltà di esercitare il diritto ad esso spettante.30
28 Trib. Catania 20 novembre 2002 (in Giur. Comm., 2003,
II, p. 761, con nota di Mirone) ha affermato analogo
principio in un caso in cui l’inefficacia del trasferimento
della partecipazione era stata invocata non da singoli
soci, ma direttamente dalla società.
29 Condividono la necessità di fare rifermento allo spatium
deliberandi indicato dallo statuto, non potendosi
lasciare né l’alienante né il terzo acquirente incerti
274
all’infinito sulle sorti del negozio, Meli, op.cit., p.151;
Bonilini, op.cit., p.123.
30 La conoscenza aliunde acquisita dal prelazionario,
invece, non può comportare la decadenza dello stesso
dal diritto attribuitogli dalla legge, in relazione alle
prelazioni legali per le quali siano tassativamente
previste la forma e le modalità della
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Scorrimento delle graduatorie e diritto
soggettivo nei concorsi pubblici
TRIBUNALE DI ROMA – SEZIONE LAVORO SENTENZA 24 ottobre 2007 – EST. CIARDI
La scelta dell’Amministrazione di ricoprire vacanze in organico attraverso l’istituto del c.d. scorrimento delle graduatorie di precedenti concorsi pubblici, ingenera
il diritto soggettivo ( e non l’interesse legittimo) all’assunzione dell’idoneo utilmente collocato in graduatoria, con l’ obbligo per la P.A. di dover provvedere allo
scorrimento della stessa, incardinando la competenza davanti al G.O.
La sentenza così motiva:
Fatti e diritti
on ricorso depositato il 5-10-06, R.A. espone che con decreto del 21-10-98 è stato
bandito dal Ministero delle Finanze un concorso per esami per la copertura di complessivi 52 posti di collaboratore tributario, VII qualifica funzionale, fra cui 22 posti
presso la Direzione Compartimentale delle Dogane; che la ricorrente, collocatasi al 90°
posto, è risultata idonea non vincitrice; che l’art. 16 del suindicato decreto prevede il
conferimento dei posti rimasti disponibili al termine delle procedure concorsuali circoscrizionali agli idonei non vincitori degli altri concorsi circoscrizionali banditi con il
medesimo bando, secondo l’ordine di una graduatoria unica nazionale; che la ricorrente
risulta collocata al 281° posto di detta graduatoria nazionale; che l’art. 1 del D.P.R. 3103-01 ha autorizzato l’assunzione, per l’Amministrazione Finanziaria, di 550 unità che
con nota n. 986 del 2001, il Direttore dell’Agenzia delle Dogane ha richiesto l’assegnazione di 50 unità di personale da attingere alla graduatoria unica sopra citata; che, acquisito il nullaosta del Dipartimento delle Politiche Fiscali, il Direttore dell’Agenzia delle
Dogane ha autorizzato l’assunzione di 50 candidati idonei, rinviando ad una successiva
determinazione l’individuazione dei nominativi dei candidati da assumere; che sono stati
quindi individuati i candidati ed è stata autorizzata la stipulazione dei contratti individuali di lavoro, che, con successive determinazioni, sono stati nominati altri candidati in
sostituzione di quelli rinunciatari o decaduti dall’impiego; che, da ultimo, con la determinazione prot. n. 3205/06 sono stati nominati 16 candidati, ma solo 4 hanno sottoscritto il contratto di lavoro; che pertanto, come confermato dalla stessa amministrazione
convenuta, il numero dei posti tuttora vacanti è pari a dodici;che, poiché l’ultima candidata assunta si è collocata al 275° posto nella graduatoria nazionale, la ricorrente, collocata al 281° posto, rientra fra i candidati da nominare per i 12 posti vacanti.
Tanto premesso, conviene in giudizio L’Agenzia delle Dogane davanti al
Tribunale di Roma, in funzione del giudice del lavoro, affinché venga dichiarato il suo
diritto ad essere assunta dall’Agenzia resistente nell’Area III, Fascia F1, dell’attuale
sistema di classificazione del personale non dirigente del comparto Agenzie Fiscali, non-
C
275
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
ché accertato l’obbligo dell’Agenzia di procedere alla stipula del contratto individuale di
lavoro con la ricorrente e, per l’effetto, pronunciata sentenza costitutiva del rapporto di
lavoro tra le parti; con vittoria di spese.
Radicatosi il contraddittorio, si costituisce in giudizio l’Agenzia delle Dogane
eccependo, in via pregiudiziale, la carenza di giurisdizione del giudice ordinario; nel
merito, contesta la fondatezza del ricorso sotto ogni profilo e ne richiede il rigetto.
Su tali basi, previo deposito di note autorizzate, all’odierna udienza la causa
viene discussa e decisa come da dispositivo riportato in epigrafe.
Preliminarmente va respinta l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione del
giudice ordinario sollevata dalla parte convenuta.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che va devoluta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la domanda del candidato, il quale, a seguito
della decisione dell’amministrazione di coprire un posto rimasto scoperto, pretenda di
stipulare il contratto di lavoro, vantando una posizione utile nella graduatoria già approvata. In particolare, è stato ritenuto che “esaurita la procedura concorsuale, si è ormai sul
terreno degli atti di gestione e della capacità del privato dell’amministrazione pubblica,
ai sensi dell’art.5, 2° comma del D.Leg. 30 marzo 2001 n.165, sicchè il soggetto individuato all’esito del procedimento amministrativo di selezione ad evidenza pubblica, versa
nella condizione propria di qualsiasi altro contratto, svolgendosi ormai il suo rapporto
con la controparte in modo paritario e ponendosi la decisione di quest’ultima di coprire
un certo numero di posti e di assumere i vincitori del concorso come fonte, per l’interessato, del suo diritto alla stipulazione. La situazione non muta nei casi in cui, assunti i
vincitori nel numero corrispondente ai posti originariamente messi a concorso, l’amministrazione deliberi ulteriori assunzioni utilizzando la possibilità del c.d. scorrimento…l’istituto del c.d. scorrimento della graduatoria, che consente ai candidati semplicemente idonei di divenire vincitori effettivi, precludendo l’apertura di nuovi concorsi,
presuppone necessariamente una decisione dell’amministrazione di coprire il posto: ma,
una volta assunta, tale decisione risulta equiparabile, nella sostanza, all’espletamento di
tutte le fasi di una procedura concorsuale, con identificazione degli ulteriori vincitori…Pertanto, il candidato, il quale, in presenza di utilizzazione del sistema dello scorrimento, vantando una posizione nella graduatoria già approvata ed il possesso dei requisiti stabiliti nel bando di concorso per fruire di una riserva di posti, pretenda di essere
incluso nel novero degli ulteriori chiamati alla stipulazione del contratto di lavoro, fa
valere il proprio diritto all’assunzione e non pone in discussione le procedure concorsuali, con la conseguenza che la domanda giudiziale a tal fine proposta è devoluta – trattandosi di rapporto di impiego assoggettato al regime contrattuale – alla giurisdizione del
giudice ordinario, ai sensi dell’art. 63, 1° comma del D.leg. 30 marzo 2001 n.165 ” (così
Cass. , sez. un., ordinanza 29-9-2003, n.14529).
Nel merito la domanda della ricorrente è fondata e va accolta come in dispositivo.
Motivi della decisione
276
Risulta dalla documentazione depositata in giudizio che l’Agenzia delle Dogane
si è determinata a sopperire alle carenze di personale, autorizzando l’assunzione di 50
unità tramite scorrimento della graduatoria unica nazionale dei concorsi circoscrizionali per complessivi 152 posti di collaboratore tributario, VII qualifica funzionale (v. prot.
n. 4583/U.R.U. del 31-7-01).
Risulta altresì, che con provvedimento del 20-4-06, prot. 3205, l’Agenzia convenuta, richiamata la determinazione del 2001 relativa all’assunzione di 50 unità di personale e preso atto della mancata sottoscrizione del contratto ovvero del recesso da parte
di candidati già nominati,”valutate le esigenze di servizio e ritenuta l’opportunità di
coprire i sedici posti rimasti vacanti procedendo alla sostituzione dei suddetti candidati”, ha provveduto alla nomina di ulteriori 16 candidati, di cui soltanto quattro hanno sottoscritto il contratto individuale di lavoro e sono stati quindi assegnati agli uffici regionali (cfr. documenti allegati sub 16 e 18 al ricorso introduttivo).
E’ poi pacifico fra le parti che vi sono ancora 12 posti vacanti e che la ricorrente,
attesa la sua collocazione nella graduatoria nazionale degli idonei (281°posto), rientri,
nell’ambito dei candidati da nominare per effetto dello scorrimento.
Sulla base di quanto finora svolto, deve affermarsi che la ricorrente ha pertanto
diritto all’assunzione, con l’inquadramento indicato in ricorso, da parte dell’Agenzia
delle Dogane, dal momento che è stata la stessa Amministrazione a determinarsi per l’assunzione di personale, pari a 16 unità, da individuarsi tramite scorrimento della graduatoria in cui la ricorrente risulta collocata in posizione utile per essere nominata a coprire uno dei 12 posti ancora vacanti.
Né, a fronte di tale diritto in capo alla ricorrente, la mancata assunzione da parte
convenuta può essere giustificata da vincoli finanziari, attesa la possibilità di spesa per
il personale autorizzata dall’art. 1, comma 523, della Legge 27 dicembre 2006, n.296
(Legge Finanziaria 2007), rispetto alla quale non possono essere prese in considerazione le circostanze dedotte dall’Agenzia resistente soltanto in sede di note autorizzate e
rimaste prive di qualsivoglia riscontro.
Ai sensi dell’art. 63, 2° comma, D.Leg. n. 165/2001 deve inoltre dichiararsi costituito il rapporto di lavoro fra le parti in causa con l’inquadramento contrattuale indicato
in dispositivo.
La condanna di parte convenuta al pagamento delle spese di lite, liquidate come
in dispositivo, segue la soccombenza.
Lo scorrimento delle graduatorie nelle aziende privatizzate
Avv. Antonella ROBERTI
L
a sentenza del Tribunale di Roma, sezione lavoro, che qui si commenta, dirime
diverse questioni assai discusse in dottrina e giurisprudenza, in materia di ripar-
277
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
to di giurisdizione tra G.O. e G.A. in materia di c.d. scorrimento delle graduatorie
di concorsi pubblici, puntualizzando altresì i confini dell’attività gius - pubblicistica delle P.A. privatizzate.
Come è noto, il c.d. scorrimento permette al candidato idoneo ed utilmente
collocato in una pubblica graduatoria per aver superando le prove scritte e orali, di
divenire vincitore del concorso pubblico a cui ha partecipato per effetto dell’assunzione e di addivenire alla stipula del relativo contratto di lavoro da parte della P.A.
In argomento si contrappongono due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Da un lato la giurisprudenza amministrativa che nonostante le modifiche
apportate al D.Lgs. 29/1993 e dal Decreto n. 80/1998 ora D.Lgs. n.165/2001, ha
ancora una visione “pubblicistica” del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.
La quale, continua a qualificare come un semplice interesse legittimo, quello
all’assunzione sia del vincitore che dell’idoneo (1), subordinandolo ora con la
necessità di riorganizzazioni di organico, o con la necessità di puntuali atti formali
degli organi della P.A., o a scelte assolutamente discrezionali del datore di lavoro di
ricorrere al proprio personale interno piuttosto che allo c.d. scorrimento nelle procedure di selezione pubblica.
Pertanto, si disconosce l’assunzione dell’idoneo quale obbligo per la P.A. e si
sostiene che trattasi di un “istituto eccezionale”, soggetto al potere discrezionale
della P.A., o ad es. per motivi di Legge – c.d. blocco generalizzato delle assunzioni, o per l’interesse di ricorrere a selezioni esclusivamente interne alla stessa P.A.,
che può decidere di assumere o meno il personale in graduatoria.
Di contro, vi è la tesi “privatistica” del rapporto di pubblico impiego privatizzato, (cfr. Cassazione Civile ordinanza 29 settembre 2003 n. 14529) comune
anche a certa parte della stessa giurisprudenza amministrativa (2).
Tale posizione suffragata proprio dal regime di giurisdizione definito dal
D.Lgs. n.165/2001, riconosce che le procedure di selezione pubblica, che iniziano
con il bando, atto amministrativo generale che esprime o attua la decisione di coprire un certo numero di posti e detta la c.d. lex specialis del concorso, terminano con
l’approvazione della graduatoria di merito e di tutte le determinazioni successive
allo svolgimento delle procedure concorsuali, (tra cui lo scorrimento di graduatoria
e l’assunzione), che attengono invece all’instaurazione dei rapporti di lavoro e sono
ricomprese nell’ambito della giurisdizione ordinaria (3).
Difatti, la S.C. a Sezioni Unite con la sentenza n. 14529/2003, ha riconosciuto con giurisprudenza pacifica (4) che : “ esaurita la procedura concorsuale, si è
ormai sul terreno degli atti di gestione e della capacità di diritto privato
dell’Amministrazione pubblica, ai sensi dell’art. 36, comma 2, D. Lgs. 165/01, sicchè il soggetto individuato all’esito del procedimento amministrativo di selezione,
ad evidenza pubblica, versa nella condizione propria dell’aggiudicatario di qualsiasi contratto, svolgendosi ormai il suo rapporto con la controparte in modo paritario e ponendosi la decisione di quest’ultima di coprire un certo numero di posti e
di assumere i vincitori del concorso come fonte, per l’interessato, del suo diritto
278
alla stipulazione”.
Il Tribunale di Roma conformemente a questo orientamento, ha ritenuto
nella fattispecie in esame, che : “l’istituto dello scorrimento della graduatoria che
consente ai candidati idonei di divenire vincitori effettivi precludendo l’apertura di
nuovi concorsi, presuppone necessariamente una decisione dell’amministrazione
di coprire il posto, e una volta assunta, tale decisione risulta equiparabile, nella
sostanza, all’espletamento di tutte le fasi di una procedura concorsuale, con identificazione degli ulteriori vincitori”.
In conclusione, il candidato utilmente collocato in una graduatoria già approvata che pretende di essere incluso nel novero degli ulteriori chiamati alla stipula
del contratto fa valere il proprio diritto all’assunzione, che si sostanzia in un vero e
proprio diritto soggettivo, essendo terminata la fase selettiva “pubblica”, con la
conseguenza che le eventuali controversie, trattandosi di rapporto di impiego
assoggettato al regime contrattuale - sono devolute alla giurisdizione del G.O. e
non a quella del G.A. (5).
Tale sentenza, rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito del contenzioso del pubblico impiego privatizzato, giacchè puntualizza
inoltre, i limiti ed i principi entro i quali l’attività della P.A. privatizzata deve correttamente operare nell’esercizio della propria attività.
Infatti, nel caso de quo la previsione all’art. 16 nel bando di concorso per collaboratore tributario presso l’Agenzia delle Dogane, c.d. lex specialis, della possibilità del c.d. scorrimento della graduatoria con il conferimento dei posti rimasti
disponibili al termine delle procedure concorsuali circoscrizionali agli idonei non
vincitori degli altri concorsi circoscrizionali banditi con il medesimo bando, secondo l’ordine di una graduatoria unica nazionale, anche oltre i termini e le modalità
prefissate nella singola procedura concorsuale, risponde ai criteri di economicità ed
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa stabiliti dall’art. 97 cost. e art. 1
L. 241/90.
Giurisprudenza e parte della dottrina (6) sono concordi nel ritenere che, tale
strumento consente di individuare immediatamente il soggetto da assumere, rispettando al contempo la regola del pubblico concorso, sicuramente più in linea con
l’esigenza di razionalizzazione della spesa pubblica e con i principi generali affermati dalla L.241/90 di economicità ed efficienza dell’attività amministrativa.
Le scelte della P.A., di procedere all’assunzione per scorrimento delle graduatorie di un precedente concorso, in relazione a sopravvenute vacanze di posti in
organico, piuttosto che procedere all’avvio di una nuova, costosa e lunga procedura selettiva pubblica, rispondono difatti all’interesse pubblico in linea a quanto previsto dalle ultime Leggi Finanziarie.
Del resto, sarebbe incomprensibile e antieconomico, procedere a nuove selezioni quando presso quella stessa P.A. vi sono per quella stessa qualifica ancora
graduatorie aperte, che possono immediatamente soddisfare tali necessità con notevole risparmio di tempo e di costi.
279
Nel caso di specie, quindi, il Giudice del lavoro ha validamente obbligato
l’Agenzia delle Dogane allo scorrimento della graduatoria, all’assunzione dell’idonea ed al relativo inquadramento, proprio in quanto tale scelta era gia stata voluta
e determinata dalla stessa Agenzia delle Dogane ed autorizzata dal Ministero
Economia e Finanze, sin dal lontano 2001 con il relativo stanziamento di spesa per
l’assunzione dei ulteriori 50 idonei, non risultando sostenibile l’opposta teoria
dell’Agenzia che ne ostacolava l’assunzione adducendo pregressi c.d. blocchi delle
assunzioni, o presunti impedimenti all’assunzione dei residui 12 idonei.
Cfr. Consiglio di Stato 8337/2003; Tar Lazio - sezione II bis
– Sentenza 3 giugno – 26 agosto 2004 n. 8097;
Consiglio di Stato, sez. VI, 12 settembre 2006, n. 5320;
Cfr. T.A.R. Lombardia Sez. III sent. n. 4073 18 settembre
2008;
Cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 3 febbraio 2006, n.
437;
Cfr. Cassazione, Sezione Unite 2514/02; 2954/02; 6041/02;
9332/02;
280
Cfr. anche Cassazione S.S.U.U. 14 maggio 2007 n. 10940;
Cfr. N. Niglio”Il punto sull’utilizzazione delle graduatorie
concorsuali: obbligo o facoltà’”, n. 4/2005, in
www.lexitalia.it; O. Forlenza, “ I principi di economicità
ed efficienza più garantiti con il “ripescaggio” degli
idonei”, in Guida al Diritto n. 41 del 2004; P. Virga, “
Novità in tema di scorrimento delle graduatorie di
concorso”, articoli e note n. 10, 2003, in
www.lexitalia.it..
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
Ricorso per fallimento proposto dal pm
e prova dell'insolvenza
TRIBUNALE CIVILE DI ROMA - DECRETO 28 GIUGNO 2007 PRES. SEVERINI - REL. RUGGIERO
Fermo il dubbio sulla sua separata legittimazione attiva, deve essere rigettata
l’istanza di fallimento del pubblico ministero nei confronti di una società della
quale non viene provato in modo certo lo stato di insolvenza (1).
isto il ricorso, depositato in data 09.06.2006, dalla Procura della Repubblica
Il decreto così motiva;
di Roma, per la dichiarazione di fallimento vista la comparsa di costituzione
della resistente; viste le informazioni assunte presso la Guardia di Finanza (vds nota del 11.05.2007); rilevato che, nonostante la istruttoria svolta, non risultano elementi
sintomatici tipici di una situazione di dissesto economico-finanziariopatrimoniale,
tale da dare luogo ad uno stato di insolvenza; rilevato che non risultano protesti, nè
procedure esecutive pendenti, nè creditori ricorrenti rimasti insoddisfatti o che, comunque, lamentino situazioni di inadempienza della Società resistente; ritenuto che
la presenza in contabilità di debiti, ancorchè rilevanti, non può essere considerata isolatamente considerata indice di una situazione di insolvenza; ritenuto che, del parti,
la perdita di esercizio, nonostante la situazione di liquidazione volontaria in cui si
trova la Società, non costituisce u n indice inequivoco di insolvenza, soprattutto in
considerazione dell’esiguità della stessa ed in relazione ai crediti tributari risultanti
dalle informative della Guardia di Finanza; ritenuto che, del parti, la perdita di esercizio, nonostante la situazione di liquidazione volontaria in ci si trova la Società, non
costituisce un indice inequivoco di insolvenza, soprattutto in considerazione dell’esiguità della stessa ed in relazione ai crediti tributari risultanti dalle informative della Guardia di Finanza; ritenuto che lo stato di insolvenza è una situazione di oggettiva impotenza economica funzionale e non transitoria, per la quale l’imprenditore
non è più in grado di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle propria obbligazioni per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla
propria attività; ritenuto, altresì, che non integra comunque, lo stato di insolvenza il
mancato soddisfacimento delle obbligazioni dovuto ad una situazione di illiquidità
transeunte del patrimonio del debitore (vds. Trib. Roma del 10.4.1987); ritenuto, pertanto, che non sussiste una situazione della Società resistente, tale da ritenere la presenza di uno stato di insolvenza, presupposto necessario per la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’articolo 5 l.f. P.Q.M. visti gli articoli 5 e 22 l.f, rigetta il ricorso ed autorizza la restituzione della documentazione. Manda alla cancelleria per gli
adempimenti di rito”.
“V
281
RomanaGIURISPRUDENZA CIVILE
temi
(1) Il furore del pubblico ministero
Avv. Dario DI GRAVIO
l Pubblico Ministero di Roma, con una specie di furore mediatico, ha presentato al
Tribunale dieci diversi ricorsi di fallimento contro società pretesemente appartenenti ad un gruppo del quale facevano parte alcuni imputati di bancarotta in un processo penale in corso. Il Tribunale fallimentare di Roma, nei diversi collegi e relatori, ha rigettato tutti i ricorsi con motivazioni che vanno dal difetto di legittimazione all’esclusiva prova dello stato di insolvenza.Ne abbiamo per semplicità pubblicato uno solo, a titolo esemplicativo.
Non vi è dubbio che la riforma ha tolto al procedimento prefallimentare il carattere della sommarietà che era giustificato dalla previsione della opposizione a cognizione piena davanti allo stesso tribunale, introducendo la processualità tipica di
primo grado con la previsione dell’appello avverso la sentenza dichiarativa e non più
dell’opposizione avanti lo stesso Tribunale. - Per le istanze del Pubblico Ministero,
c’è da stabilire se vi è un “diritto” o “interesse” dell’organo pubblico e di quale norma il P.M. può giovarsi per assumere la tutela legale della generalità dei creditori dell’impresa debitrice, i quali, anzi, hanno l’interesse che la loro debitrice non sia distrutta e tolta dal mercato.
Paradossalmente è proprio il mercato che costituisce la tutela dei creditori, attraverso la quale i crediti sono conservati e garantiti senza la distruzione autoritaria
del P.M. che si pone in una funzione sostitutoria ormai inammissibile. Valgono, per
il passato, i seguenti precedenti cui si può fare utile riferimento: “Deve essere respinta
l’istanza di fallimento presentata dal p. m. quando non risultino presentate istanze di
creditori e quando non risulti provato lo stato di insolvenza” 1.
“Deve essere rigettata l’istanza di fallimento presentata dal p. m. quando le oggettive difficoltà finanziarie dell’impresa non concretino la condizione di permanente
ed irreversibile illiquidità insita nella nozione di insolvenza di cui all’art. 5 l.f.” 2.
In ordine al rito c’è da notare che la nuova legge ha introdotto rilevante novità fra le quali:
a) quanto ai soggetti legittimati a richiedere il fallimento, il nuovo art. 6 l.f. ha
soppresso l’iniziativa officiosa da parte del giudice. Il fallimento può essere oggi dichiarato “su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico
ministero”;
b) quanto all’iniziativa del p.m., questa può aversi nei soli casi indicati nell’art. 71.f.;
c) quanto alla competenza del Tribunale, sono stati aggiunti due commi all’art.
I
1) Trib.Roma, 7 maggio 1999, soc. P.I.I. Partecipazioni
industriali Immobiliari in Giur. Merito 2000, 2 nota (Di
Gravio) Foro padano 1999, 229 nota (Di Gravio)
conforme Tribunale Salerno, 15 maggio 2000 P.M. c. soc.
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Valsata in Dir fall. 2000, II, 812 nota Di Gravio
2 ) Trib. Torino 10 aprile 1997 Proc.Rep. c. Foal in Foro
pad. 1997, 1, 405 nota (Di Gravio)
9 l.f. (e aggiunto un art. 9 bis), al fine di evitare che l’imprenditore, in un momento
storico in cui la crisi si è già manifestata, sposti la sede dell’impresa al fine di scegliersi il giudice fallimentare;
d) quanto all’istruttoria prefallimentare, il nuovo art. 15 l.f. ha introdotto numerose novità. Si prevede che il debitore sia in ogni caso convocato insieme ai creditori istanti o al p.m. che abbia assunto l’iniziativa; che tra la data di udienza e quella di notificazione del decreto debbano intercorrere almeno quindici giorni liberi; che
l’imprenditore debba depositare una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata; che le parti possono nominare consulenti tecnici ed il tribunale ammettere ed assumere mezzi istruttori; che il tribunale possa ancora emettere provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa oggetto del provvedimento; infine, che il fallimento possa non essere dichiarato se l’ammontare dei
debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro 25.000.
2) L’iniziativa del P.M. deve essere dichiarata inammissibile, improcedibile ed
infondata per i motivi qui di seguito vengono elencati:
A) difetto di legittimazione attiva, anche con eccezione di incostituzionalità degli artt. 6 e 7 R.D. 16.3.1942 N. 267 e delle leggi di modifica nei punti in cui prevedendo l’iniziativa del pubblico ministero per la richiesta della dichiarazione di fallimento di una impresa insolvente non fornisce la chiave interpretativa della legittimazione e consente che destinataria della richiesta sia qualunque impresa non collegata al pubblico ministero, senza nesso eziologico fra le due posizioni, all’infuori di
un generico interesse pubblico di origine corporativa e ciò per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 cost..
Giova soffermarsi sulla lettera dell’art. 7 legge fallim. che si traduce in una mera applicazione dell’art. 6 s.l. circa l’eventualità che il pubblico ministero, nel corso
di un processo penale a carico di un imprenditore, abbia notizia del suo stato di insolvenza, provato dalla fuga, latitanza, cessazione di attività, ecc.
Le recenti modifiche all’art. 6 (soppressive dell’espressione “d’ufficio”) e la
soppressione dell’art. 8 l.f. consentono di ritenere che il legislatore, malgrado la contraria opinione della Corte costituzionale, abbia voluto depennare dalla legge fallimentare quel sapore autoritario che aveva, dati i tempi, fin dalla nascita: la Corte costituzionale con la sentenza del 20 giugno 2003 n. 240, dovendo risolvere il dubbio,
espresso da alcuni tribunali, sulla costituzionalità del fallimento d’ufficio, aveva dato questo responso, che si condensa nella massima: “L ‘art. 6 legge fallim. - nella parte in cui prevede che il fallimento possa essere dichiarato d’ufficio dal tribunale - e
l’art. 8 stessa legge - in quanto dispone che il giudice debba riferire dell’insolvenza
di un imprenditore, emersa nel corso di un giudizio civile, al tribunale competente
per la dichiarazione di fallimento, anzichè al pubblico ministero presso detto tribunale - non violano l’art. 111, 2° co. cost. per asserita lesione del principio della domanda, perchè tale principio non comporta il bando di qualsiasi iniziativa d’ufficio
da parte del giudice , ma soltanto che l’impulso iniziale a procedere provenga da un
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soggetto qualificato diverso dal giudice stesso oppure che questi comunque acquisisca la notizia dello stato di insolvenza da tale soggetto qualificato“.
B) La pretesa appartenenza ad un unico gruppo non è prova della “fallibilità”
di ogni singola impresa. Infatti il “gruppo di imprese” è la formula descrittiva di un
fenomeno economico che appartiene alla prassi mercantile; è pur vero che il legislatore negli ultimi anni ha parlato di “gruppi di società” in alcune leggi speciali, ma da
esse non si ricava una definizione della natura giuridica del gruppo, come elemento
di certezza adatto a sovrapporlo come personificazione propria alle singole imprese,
con il conseguente obbligo di esaminare, ai fini dell’insolvenza, la parte ed il tutto.
Condividiamo la soluzione che ci mette al riparo da pericoli non ancora valutati, ma
che in sede di applicazione hanno dato di già molti tormenti.
Ripetiamo: è noto che nella realtà economica attuale i fenomeni di partecipazione e di raggruppamento tra società sono usuali e frequenti ed è anzi pacifico che
l’evoluzione verso forme sociali di dimensione sempre maggiori, ottenute (anche) mediante la concentrazione di società, è un processo fisiologico continuo, dettato anche
da ragioni di competitività.
Sotto l’aspetto giuridico si deve rilevare che la legislazione vigente si occupa
unicamente del “controllo” di una società su un’altra fornendo la nozione del fenomeno, e traendone alcune, assai limitate conseguenze. L’art. 2359 cod.civ. definisce
le società controllate come quelle “in cui un’altra società possiede un numero di azioni tale da assicurare la maggioranza dei voti nelle assemblee ordinarie, o quelle che,
in virtù di particolari vincoli contrattuali, sono sotto l’influenza dominante di altra
società”. Su tale base la dottrina ha costruito due sottospecie di controllo, quello “giuridico” e quello “contrattuale”, corrispondenti rispettivamente alla prima e alla seconda parte della norma. Il controllo “giuridico” si verifica quando una società sia
detentrice di un pacchetto azionario che le consente di determinare la volontà sociale dell’altra nell’assemblea ordinaria, in modo stabile. In altri termini non è richiesto
il possesso della maggioranza assoluta delle azioni, ma anche soltanto di quella minor quota che sia comunque di fatto idonea ad assicurare la maggioranza in assemblea. Al di sotto di tale limite, si hanno fenomeni di partecipazione azionaria cui la
legge fa riferimento unicamente al fine di limitarne l’estensione, sia in senso qualitativo che quantitativo.
L’altra specie di controllo, il “contrattuale”, si esplica mediante un’influenza
dominante di una società sull’altra, in senso prettamente economico, realizzatasi per
il tramite di rapporti contrattuali, talchè non esista possibilità da parte del contraente più debole di esercitare una valida reazione all’arbitrio dell’altra parte, oppure indirizzare ripercussioni economiche.
Al di là di tali specifiche disposizioni, il nostro ordinamento non ricollega altre conseguenze giuridiche al fenomeno del controllo tra società. Figura concettualmente diversa e giuridicamente inesistente è quella del “collegamento” tra società,
con il quale si intendono tutte le forme di raggruppamento tra società che non diano
luogo al controllo azionario.
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Orbene, da tali premesse deriva, come conseguenza di carattere generale, che
i vari fenomeni di connessione fra società, non determinano mai unificazione o confusione delle rispettive personalità giuridiche. Società controllante e controllata, società con partecipazione azionaria, società collegate restano soggetti giuridicamente
distinti ed i rispettivi rapporti giuridici continuano a fare capo singolarmente e distintamente a ciascuna di esse. La giurisprudenza al riguardo, è costante nel ritenere
che solo effetto dei collegamenti di vario tipo sia la comunanza della gestione economica, ai fini imprenditoriali, mentre la distinzione resta ferma per tutti i rapporti
giuridici; in particolare tale autonomia è stata affermata sia nei confronti dei rispettivi creditori sociali, che dei dipendenti.
E’ utile ricordare che il principio è particolarmente chiaro: allo stato della vigente normativa il “gruppo” o “collegamento” di società è tale solo in senso economico e, sul piano giuridico, è considerato ai limitati effetti previsti dal codice, quindi non può in alcun modo parlarsi, rispetto ad esso, di personalità giuridica e neppure di una limitata forma di soggettività, ovvero di centro di imputazione.
Stabilita così l’assenza (anche nella realtà) di un “gruppo unificato” e, come
tale, rivolto ad un riaccorpamento giuridico di soggetti societari distinti, rimane il fatto che tutte le società sono (e restano) soggetti autonomi.
c) Tutto questo naturalmente facendo salvi gli effetti della riforma. Infatti il decreto legislativo di “riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative” ha detratto, in attuazione dell’art. 10 della legge-delega, una serie
di norme in materia di gruppi di società, introdotte nel nuovo capo IX del titolo V del
quinto libro del codice civile, sotto la rubrica “Direzione e coordinamento di società“.
Il nuovo art. 2497 cod.civ., ha riguardo alla responsabilità nella quale incorrono “le società e gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime “. La
norma dispone che, in tal caso, sussiste una responsabilità diretta di tali società o enti, tanto nei confronti dei soci della società soggetta ad altrui direzione e coordinamento “ per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione
sociale” quanto nei confronti dei creditori della medesima società “per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società”.
C)Il potere del P.M. è stato ridotto. Significativo è anche il riferimento all’art.
112 cost. secondo cui per il pubblico ministero l’azione penale è obbligatoria, ma ciò
non può consentire che, dentro il processo penale, il pubblico ministero scelga “fior
da fiore” nella folla dei soggetti ed addirittura presupponendo lo stato di insolvenza
di un ignaro soggetto imprenditoriale (non l’imputato), individuale o collettivo, e si
renda iniziatore, sua sponte et motu proprio, di una domanda di fallimento rivolta al
tribunale fallimentare assumendo così, la funzione di parte attrice in un processo prefallimentare, fallimento, appello e/o cassazione contro chi con lui non ha nulla da spartire. Con la modifica dell’art. 111 cost. sono state precisate le condizioni del “giusto
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processo” nel senso che le parti del processo devono “litigare” ad armi pari, in contraddittorio fra di loro, davanti ad un giudice terzo, indipendente ed imparziale.
La diversità del diritto italiano rispetto al diritto precedente consente di affermare che il “giusto processo” è uno strumento tecnico che sviluppa il sistema, che
disciplina il fatto e raggiunge questo scopo attraverso il ragionamento, l’argomentazione, i precedenti giurisprudenziali, le motivazioni che rappresentano la logica e che,
alla fine, dà la sua certezza nel caso controverso.
Le ragioni ed i sentimenti della società sono percepiti da chi giudica quando,
esaminando, prende forza con il c.d. “senso comune” che è la percezione diretta della realtà in cui si vive, che può essere diversa dalla realtà sulla quale si fondarono le
leggi nel momento in cui furono fatte e che, per il decorso del tempo, hanno bisogno
di essere interpretate.
Le tecniche del processo civile sono queste:
a) Il giudice deve essere indipendente, non deve, cioè, rispondere o essere subordinato ad altro organo dello Stato.
b) Il giudice deve decidere solo su istanza (nemo judex sine actore) di parte e
in base alle prove (iuxta alligata et probata), in contraddittorio fra le parti. Si tratta
della differenza fra il processo accusatorio (dove le prove sono nella disponibilità delle parti) ed il processo inquisitorio (dove la prova è predisposta dall’ufficio giudiziario).
c) Le parti hanno diritto alla difesa tecnica, con difensori che esercitano la professione forense ed assicurano che il processo si svolga dentro la logica giuridica.
d) Le decisioni del giudice devono essere motivate: devono cioè avere una relazione argomentativa con il dispositivo della decisione.
e) La decisione del giudice può essere gravata (appello, cassazione, revocazione, reclamo) e diventa “cosa giudicata” (res judicata) quando sono scaduti i termini o definiti i gravami anzidetti.
4) A governare il processo, esistono alcuni postulati, regole generali espressamente fissate, che sono queste:
a) Il giudice deve decidere secondo diritto, applicando la norma che disciplina il caso, come tutti gli altri casi dello stesso tipo o identici. Il criterio dell’equità
(che affida al giudice una sua penetrazione personale nel giudizio) è eccezionale e
non può essere generalizzato. L’equità, quando è espressamente richiamata dalla norma, esaurisce la sua funzione e non si espande ad altri casi.
b) Prendendo in esame il fatto, il giudice deve enunciare la norma che applica e deve spiegare la relazione fra la norma ed il fatto, costruendo così la motivazione della decisione.
c) Il giudice deve decidere in base alle regole processuali, inserendo la sua interpretazione nella motivazione, segnalando perciò che, per sè e per le parti, lo svolgimento del processo è stato condotto con le regole proprie di quel processo (civile,
penale, amministrativo, contabile, ecc.).
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d) La dinamica della realtà può far sorgere l’interpretazione di “casi nuovi”
che, come tali, possono ipotizzare anche “casi futuri” dello stesso tipo. Avviene, allora, che i postulati di cui stiamo parlando, abbiano minor forza, ma si ritiene che “è
sufficiente il processo a creare il diritto” perchè il giudice potrà ricavare dall’ordinamento ed in coerenza, dalla legislazione, il suo criterio creativo.
e) Il giudice deve essere neutrale, indifferente rispetto agli interessi della causa ed affidabile nella sua terzietà, che è anche imparzialità.
Ed è appunto in forza di questi poteri a monte, che ne danno l’investitura, che
il giudice (monocratico o collegiale) può attribuirsi la competenza (per materia, territorio, ordinaria o speciale, funzione, ecc.) a dire il diritto (jus dicere) a conclusione delle controversie come definizione del processo. Ben è vero che, all’origine, sono le istituzioni politiche fondamentali (governo, parlamento) che creano il diritto (processuale e sostanziale), ma le scelte normative della società, come tradotte nelle leggi, devono del pari essere attuate mediante lo strumento giudiziario che è il processo.
Anche nei sistemi codificati come il nostro, il diritto subisce una trasformazione
continua, quasi di adattamento, alla volontà del popolo. Infatti, nella legge si notano
tre componenti: la qualità tecnica dei testi, la correlazione con gli scopi e la democraticità del contenuto. Soltanto se sussistono questi requisiti, le leggi sono razionali. Nella definizione del diritto non possiamo fermarci al sistema normativo prodotto e sanzionato dallo Stato, come ordinamento ed istituzione politica. E’ vero che la
sanzione rende la norma imperativa e che l’ordinamento è prodotto dallo stato per se
stesso, ma è anche vero che la “certezza” che si esprime nella norma, non è “verità”
ma “postulato”, nel senso che, attraverso i principi generali, la dimensione del diritto si espande a tutti i contributi che possono essere determinanti nella interpretazione e nell’applicazione delle norme al caso controverso, sul quale il giudice è chiamato a decidere, creando, egli stesso il diritto, che diventa così il sistema normativo
sviluppato ed attuato nel processo.
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PENALE
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Difetto di giurisdizione nei confronti
di militare estero: il caso Calipari
CORTE DI ASSISE DI ROMA – TERZA SEZIONE –
SENT. 25 OTTOBRE 2007 – PRES. GARGANI
Ai sensi dell’art. 20 cpp, questione che può essere anche sollevata d’ufficio, non
sussiste la giurisdizione italiana nei confronti di appartenente a forze armate straniere che abbia agito nel territorio di altro stato nel quadro di una missione militare internazionale (1)
La sentenza così motiva:
(0missis)
ai pochi atti che risultano depositati al fascicolo del dibattimento e soprattutto dal decreto che dispone il giudizio, è possibile e quindi doveroso ricostruire, sia pure succintamente, la vicenda che ha dato vita al presente processo.
La ricostruzione dei fatti, la loro collocazione territoriale e temporale è indispensabile, anche per affrontare e risolvere l’assorbente questione preliminare che attiene alla sussistenza o meno della giurisdizione italiana su cui si è concentrata la decisione della Corte.
Il giorno 4 marzo 2005 Nicola Calipari e Andrea Carpani, entrambi funzionari del
Sismi (Presidenza del Consiglio dei Ministri) e Giuliana Sgrena, giornalista, viaggiavano a bordo dell’autovettura Toyota Corolla: alla guida il Carpani in territorio irakeno, su
una strada in direzione aeroporto di Bagdad. Alle ore 20,45 la vettura mentre si immetteva nella Route Irish, venne investita da un fascio di luce e subito dopo da colpi di arma
da fuoco da colpi di arma da fuoco, provenienti da un lato della strada che ferirono mortalmente il Calipari. Costui, seduto sul sedile posteriore accanto alla Sgrena avendo ravvisato il pericolo, le si pose davanti facendole da scudo con il proprio corpo. Sia la Sgrena che il Carpani riportarono lesioni.
L’azione di fuoco fu sprigionata da militari Usa che avevano organizzato su disposizione del comando superiore, un posto di blocco, non programmato in via permanente,
ma istituito quella sera, allo scopo di garantire il passaggio del convoglio nel quale, si doveva trovare l’ambasciatore Usa Negroponte.
Non si è mai contestato, in punta di fatto, che i colpi che attinsero le suddette vittime furono sparati dal soldato americano, l’odierno imputato Lozano Mario Luis, appartenente alla New York Arm National Guard, contingente militare Usa che faceva parte della forza multinazionale, dislocato in territorio irakeno.
Va ricordato infine che la presenza del Calipari e del Carpani in Iraq era collegata
alla avvenuta esecuzione della liberazione della Sgrena, sequestrata il 4 febbraio 2005 e
tenuta in ostaggio, fino a quel giorno, da un gruppo terrorista verosimilmente islamico.
D
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Superfluo dire che l’episodio colpì e commosse il mondo intero e soprattutto
il nostro paese che, con la scomparsa di Nicola Calipari, ha perso un altro servitore
dello Stato.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma attivò immediatamente
le indagini. Furono richieste le foto della vettura effettuate dal personale militare italiano presente in loco, nonché l’acquisizione della stessa vettura attivando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che con lettera del 9 marzo 2005, indirizzò alla nostra ambasciata in Iraq una nota verbale, con la quale si chiedeva di poter disporre
dell’autovettura e degli altri eventuali oggetti rinvenuti nella stessa.
I rilievi furono valutati da una commissione congiunta italo-statunitense i cui
lavori si conclusero con due documenti distinti: uno di parte Usa e uno di parte Italiana. Contemporaneamente la stessa Procura della repubblica, con nota del 6 marzo 2005,
sollecitò il Ministro della Giustizia a formulare richiesta di procedimento ex art. 10
c.p., avendo iscritto procedimento penale contro ignoti per i delitti di cui in rubrica.
Nella nota si puntualizzava che le determinazioni del Ministro erano sollecitate ai sensi dell’art. 10 c.p. (delitto comune commesso da cittadino straniero in stato straniero
ai danni di cittadini italiani).Con nota in data 8 marzo 2005 il Ministro della Giustizia, fatto esplicito riferimento alla missiva testé richiamata, e, ribadendo l’esplicito riferimento all’applicazione dell’art. 10 c.p., formulò la specifica richiesta in tal senso.
Risulta poi che, a distanza di oltre un anno e precisamente in data 27 giugno 2006,
il direttore Generale della giustizia penale del Dipartimento degli Affari e Giustizia
del Ministero inviò una nota al Procuratore della repubblica, con la quale, premesso
che si era appreso da notizie di stampa che l’Ufficio della Procura aveva attribuito natura politica ai fatti per cui è processo e, nel richiamare l’attenzione in ordine al fatto
che il Ministro aveva avanzato richiesta di procedimento ex art. 10, si chiedeva di conoscere se alla luce di eventuali nuovi elementi, rispetto a quelli già rappresentati a
questo Dipartimento, codesto ufficio intende avanzare diversa richiesta”.
Il Procuratore della Repubblica con successiva nota del 3 luglio indirizzata allo stesso direttore generale, trasmise copia della richiesta di rinvio a giudizio dell’odierno imputato, già formulata in data 19 giugno 2006, specificando che il suo ufficio
aveva ritenuto comunque assolta la condizione di procedibilità, per effetto della richiesta
di procedimento formulata dal Ministro della Giustizia pro tempore l’8 marzo 2005.
Si aggiungeva però nella stessa nota che “ove diversamente codesto Ministero dovesse
ritenere che la precisazione della contestazione e l’identificazione del responsabile fondino una nuova, originaria possibilità di delibazione, ai fini della procedibilità,anche
in relazione ai termini di cui all’art. 128 c.p.p., vorranno comunicarsi le determinazioni assunte”.
Non risulta ulteriore scambio di corrispondenza sul punto tra Procura della Repubblica e Ministero della Giustizia.
Tuttavia con decreto che dispone il giudizio, il GUP, in accoglimento delle “condivisibili” e concordi prospettazioni del Pm e delle parti civili, qualificava il reato, per
cui si era proceduto, come delitto oggettivamente politico, ai sensi dell’art. 8 del c.p.
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e, come tale, punibile, attesa la richiesta del Ministro della Giustizia sia pure formulata ai sensi dell’art. 10 c.p. e a prescindere dalla presenza del Lozano in territorio nazionale.
Va segnalato infine che in data 22 dicembre 2005 il Dipartimento di Stato Americano precisò che il caso doveva ritenersi chiuso, essendo state rispettate le regole
di ingaggio e non sussistendo giurisdizione sull’episodio da parte delle autorità giurisdizionali italiane.
Nel corso del dibattimento, limitato alla trattazione delle questioni preliminari, è stato disposto il rinnovo della citazione del responsabile civile, individuato nel
Dipartimento di Stato USA che, nella risposta, ha ribadito quanto già precedentemente
affermato, precisando peraltro che la eventuale e contestata legittimazione a stare in
giudizio spetta al governo degli Stati uniti e non al Dipartimento.
Per meglio puntualizzare tutta la vicenda non si può non far presente che l’operazione iniziale di occupazione del territorio irakeno, era stata posta in essere dalle forze armate degli USA e del Regno unito in regime di conflitto armato.
Gli altri Paesi, che aderirono successivamente alla Forza Multinazionale nel
frattempo costituitasi, pur avendo assunto la veste di potenze occupanti, poterono operare sotto il comando unificato della Autorità della Coalizione (vedi risoluzione ONU
1511/03).
La partecipazione dell’Italia questa operazione infatti era stata collocata nella
nozione di “non belligeranza” dal Consiglio Supremo di Difesa nella riunione del
19.2.2003.
La successiva risoluzione 1546 del 2004, sanzionò la presenza in Iraq delle Forze della coalizione ONU, con il consenso del Capo del Governo provvisorio irakeno
appena costituitosi, mutando le finalità proprie che non erano più quelle di occupazione, ma quelle di contribuire alla ricostruzione dell’Iraq e fornire aiuti umanitari.
Questo è il contesto in cui si inseriscono i fatti per cui è processo, in contesto
qualificabile come conflitto armato inteso in senso lato, di presenza di forze multinazionali sotto l’egida ONU per missioni umanitarie in uno stato sostanzialmente occupato; un contesto disciplinato, con riferimento alla sussistenza di giurisdizione, dalle varie fonti normative che si richiameranno e dalle risoluzioni ONU.
La dottrina è concorde nell’attribuire un significato ampio al concetto di conflitto armato, per la cui sussistenza è sufficiente la situazione di occupazione da parte di uno Stato del territorio di un altro Stato.
La Corte, attesa la estrema delicatezza e complessità di tutte le questioni preliminari, ne ha consentito la illustrazione contestuale, anche al fine di fornire un quadro, il più esauriente possibile, della situazione pre-procesuale a tutti i suoi componenti.
Non superfluo appare puntualizzare che la assorbente pronuncia sul diritto della giurisdizione italiana, che può intervenire in ogni stato e grado del processo, comporta, come logicamente previsto dall’art. 20 c.p.p., la definizione del giudizio stesso e quindi la preclusione dell’esame di tutte le altre eccezioni.
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Per altro verso il difetto di legittimazione dell’imputato a proporre la questione della giurisdizione, eccepito da una sola parte civile, appare superabile ove si consideri che lo stesso art. 20 prevede che detta declaratoria interviene anche di ufficio.
La Corte, invero, pur nel silenzio delle parti,avrebbe comunque esaminato detta
questione che è assolutamente pregiudiziale e, posto che il nostro ordinamento non prevede un regolamento di giurisdizione demandabile alla Corte Suprema se non nell’ipotesi di conflitto positivo o negativo tra due autorità giudiziarie che affermano o negano
la propria giurisdizione avrebbe comunque adottato la relativa decisione.
Resta pertanto fuori dal thema decidendum la questione relativa alla qualificazione
giuridica del delitto contestato, che inciderebbe sulla sussistenza delle condizioni di procedibilità.
Prima di entrare nel vivo delle problematiche, la corte intende affermare con forza che la pronuncia di difetto di giurisdizione non comporta alcuna abdicazione o rinuncia
dello Stato italiano al proprio potere giurisdizionale, ma si inserisce, viceversa, nell’alveo del principio indefettibile di reciprocità e di rispetto della prassi internazionale, cui
l’Italia ha aderito nel contesto dell’art. 10 della Costituzione.
Detto articolo recita “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di
diritto internazionale genericamente riconosciute”. Norma fondamentale questa che fa
da guida anche nella decisione della presente questione, poiché coinvolge il problema
dell’applicazione e del coordinamento delle norme internazionali a quelle interne.
Il costituente ha previsto un semplice rinvio alle norme internazionali e quindi anche consuetudinarie, che diventano così cogenti mediante un procedimento speciale (appunto di rinvio). Pertanto con detto procedimento di solito non vengono riformulate le
norme di diritto internazionale, ma è l’ordine di esecuzione di un trattato, che di solito
viene fatto con legge, che ratifica il trattato stesso non riformulando le norme ivi contenute.
Questo procedimento speciale di rinvio viene ritenuto, dalla prevalente dottrina,
da preferire soprattutto per le norme internazionali self-executing certamente meno frequenti, va seguito in procedimento ordinario che comporta un’attività integratrice da parte degli organi statuali.
Sulla diretta applicabilità delle norme consuetudinarie internazionali nel nostro
ordinamento non sembrano sussistere dubbi, anche, secondo alcuni autori, nel caso in
cui esse siano addirittura in contrasto con la Costituzione.
Non sarà inopportuno fare una breve premessa di carattere generale sui criteri astrattamente ipotizzabili, per determinare il campo di applicazione della legge penale nazionale
nel contesto internazionale, per stabilire se l’adozione di uno, o più criteri enucleabili,
sia compatibile con un sistema di prassi internazionale e se gli accordi possano discostarsi da detta prassi.
Essi sono fondamentalmente quattro
Il primo può essere ancorato al principio della universalità o extraterritorialità assoluta, in base al quale la legge si applica dovunque, da chiunque e contro chiunque sia
l’autore del fatto penalmente rilevante per lo Stato nazionale.
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Il secondo è quello della territorialità, in forza del quale lo stato nel cui territorio
è avvenuto il fatto delittuoso, ha il diritto di esercitare la propria giurisdizione.
Il terzo attribuisce la giurisdizione allo Stato cui appartiene l’autore del fatto (giurisdizione attiva).
Il quarto infine attribuisce la stessa giurisdizione allo stato cui appartiene la vittima (giurisdizione passiva).
Il nostro legislatore sembra essersi ispirato, in via prioritaria, al principio dell’universalità, con tutti i contemperamenti previsti dalle norme che vanno dall’art. 7 all’art.
10 del c.p..
Gli Usa invece (il riferimento non può non essere fatto) sono rigorosamente agganciati al criterio della territorialità. La Costituzione americana infatti all’art. 3 prescrive
che ogni autore sia processato nello stato di commissione del fatto.
E’ difficile immaginare però che uno Stato possa concentrare la scelta dei quattro
criteri in uno solo, abbandonando gli altri. D’altra parte la previsione e l’applicazione
di uno dei criteri non possono prescindere dal rispetto delle regole di diritto internazionale siano esse consuetudinarie o positive esistenti in materia.
Certamente tutti i criteri elencati sono riconosciuti e recepiti dal diritto internazionale.
In particolare quello dell’universalità sembra potersi applicare soltanto ai fatti che
offendono beni di valore umano ed universale. Sugli altri tre può dirsi che le norme internazionali non prevedono una applicazione prioritaria di uno rispetto agli altri, anche
se quello della giurisdizione passiva, benché non vietato, è visto con un certo disfavore. Non potrebbe essere diversamente, atteso che la previsione di perseguire stranieri operanti in territorio straniero, è stata sempre ritenuta fonte di possibili conflitti e turbativa
dell’ordinamento internazionale.
Per non dilungarsi, si può concludere sul punto, affermando che, pur non essendo enucleabile alcuna gerarchia tra i suddetti criteri, quello della giurisdizione passiva
certamente non è collocabile tra i primi.
E’ vero che negli ultimi tempi si è affacciata una tendenza, volta ad attribuire un
più concreto riconoscimento a detto criterio, soprattutto, se non esclusivamente con riferimento ai crimini di terrorismo o di grossa criminalità organizzata che supera, nello
specifico, quello della territorialità, che appare il più diretto ed immediato. E’ vero altresì, che si immagina “una dimensione assiologia degli interessi da proteggere” (espressione ripetuta nel corso del dibattimento e attribuita alla più recente dottrina) detta dimensione però viene invocata proprio perché in assenza di un criterio, prioritario generale, si auspica la creazione di un diritto penale uniforme, un diritto mondiale che disciplini e preveda una gerarchia di detti criteri all’interno dei quali quello della passività
assuma un ruolo più incisivo , abbia un più concreto riconoscimento.
L’elaborazione e l’evoluzione della dottrina internazionale è in sostanza ancorata a questa posizione che finora non sembra aver avuto sbocchi apprezzabili.
In attesa che questo iter faccia il suo corso e, proprio perché emergono queste nuove esigenze, in cui ogni sovranità nazionale tenti di estendere la propria giurisdizione
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
nei confronti di un altro stato, è necessario sempre più far ricorso alla contrattazione, cosa che in effetti avviene, soprattutto nello speciale contesto in cui si collocano i fatti per
cui è processo.
Il diritto internazionale, che è la base di legittimazione delle norme sulla giurisdizione, deve continuare a fondarsi sul rispetto di tutti i poteri statuali della Comunità
internazionale. Il principio della territorialità quindi, che rappresenta l’essenza stessa del
potere statuale in rapporto a tutti gli altri, e, nel rispetto del principio della reciprocità,
può essere sempre più condizionato dalle norme internazionali che autorizzino uno Stato ad esercitare la giurisdizione oltre i propri confini. E’ lecito quindi ipotizzare ed auspicare un maggior impulso alle Convenzioni e ai trattati.
Ma se come si è detto, non esiste alcun rapporto gerarchico tra i criteri applicabili in via generale, viceversa sul terreno, sul versante specifico che qui ci occupa, riconducibile innanzitutto all’intero contesto militare, cioè a quello dei conflitti armati e, soprattutto, a quello della presenza di forze multinazionali in territorio occupato, detto rapporto è esistito ed esiste, anzi la opzione di un criterio avviene in via esclusiva.
Vi è infatti una norma consuetudinaria di diritto internazionale quindi applicabile anche se non prevista in nessun trattato o accordo, che si richiama al principio cosiddetto della bandiera. Trattasi di un principio giuridico incontestato, che può vantare un’applicazione secolare, principio secondo il quale i contingenti militari, che si trovano all’estero in regime di guerra o di pace, rispondono in via esclusiva alle proprie leggi ed
allo Stato di appartenenza. In gergo militare viene definito anche come “la legge dello
zaino”, espressione che rende in maniera più plastica ed incisiva lo stesso concetto. Si
fa invero riferimento alla documentazione che ciascun militare porta nel proprio zaino,
attestante la sua nazionalità e che lo riconduce e lo sottopone alle leggi, soprattutto quella penale, dello stato a cui appartiene e che lo ha inviato nel territorio straniero quale facente parte di un contingente militare. E’ sempre stato riconosciuto, indipendentemente da ogni previsione di natura convenzionale, il diritto dello stato di origine di esercitare la giurisdizione sulle proprie truppe dislocate su territorio estero. E’ un regime di
sostanziale e completa immunità di giurisdizione di forze militari straniere, che rientra
nell’ambito della dottrina dell’occupatio belli, soprattutto in relazione al fatto che l’organizzazione statuale di un Paese occupato è, nella grande parte dei casi, priva di effettiva indipendenza.
Principio forte quindi che si giustifica per la sua specificità (contesto tecnico o
parabellico) e che contrasta, anzi supera, ed in parte annulla quello previsto in via generale della territorialità e di tutti gli altri, e che si rapporta anche a quello della reciprocità, poiché in caso di più stati partecipanti congiuntamente ad un’operazione bellica, ciascuno ha giurisdizione sul proprio contingente senza interferenza.
L’orientamento giurisprudenziale sul punto è conforme nell’affermare la perdurante esistenza della cosiddetta “legge di bandiera”, come norma consuetudinaria di diritto internazionale.
Per altro verso la stragrande maggioranza della dottrina, nell’affrontare le problematiche in materia, parte sempre dal presupposto della “legge di bandiera”, come nor-
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ma consuetudinariamente indefettibile, da applicare negli eventi bellici e nelle occupazioni di forze multinazionali nel territorio di uno Stato.
Qual è il valore di una norma consuetudinaria di diritto internazionale ? Il concetto di consuetudine non si discosta da quello che la teoria generale del diritto ha sempre elaborato. Trattasi di costante ed uniforme comportamento e, in quanto tale, ritenuto obbligatorio, adottato da vari stati. Al di là delle singole posizioni dottrinarie, non può
contestarsi in dubbio che la consuetudine sia fonte primaria, spontanea di diritto internazionale, (il richiamo è all’art. 10 della Costituzione) mentre l’accordo, fonte secondaria, trae quasi sempre la sua forza proprio dalla consuetudine. Problema estremamente
delicato potrebbe essere quello collegato all’efficacia dei trattati contrari alla consuetudine. Non è il nostro caso, perché, come si vedrà, gli accordi, segnatamente i SOFA che
hanno disciplinato le situazioni venutesi a creare nei vari stati occupati, tra cui quello
irakeno, sono in armonia con questa norma consuetudinaria, il che induce ad affermare
subito che, anche nella ipotesi in cui non fosse intervenuto nessun accordo regolatore
dello stato giuridico delle forze multinazionali, sarebbe stata comunque applicata la norma consuetudinaria.
Ma il contesto politico militare, in cui sono avvenuti i fatti,impone di fare un ultimo passaggio per entrare nel tema specifico, che è rapportato alla disciplina dello stato
giuridico del personale delle forze multinazionali o di organizzazioni internazionali (soprattutto ONU) che occupano, sia pure per missioni umanitarie, territori di altri stati.
La prassi di questi ultimi anni attesta come dette missioni possono avvenire nel
quadro di un’operazione, intrapresa sotto l’egida di un’organizzazione internazionale,
oppure anche indipendentemente. Le questioni che vengono in considerazione sono tante, ma quello che qui interessa è l’esercizio della giurisdizione sui contingenti e la responsabilità tra contingenti.
E’questo il caso dell’Iraq, ove come si è detto, dopo l’occupazione militare, è subentrata, sotto l’egida dell’ONU una forza multinazionale cui ha aderito anche l’Italia.
E’ in questo contesto che va puntualizzato ed inquadrato il problema. Qualsiasi aggancio a precedenti che si collocano in situazioni diverse diventa del tutto fuorviante; pertanto gli episodi richiamati da più parti (caso Achille lauro, … ecc.) non possono essere assolutamente presi come punto di riferimento, non tanto perché talvolta hanno dato
luogo a discordanti decisioni, ma quanto perché non riconducibili ad azioni belliche o
parabelliche e meno che mai alla gestione di forze multinazionali in territorio straniero.
Per questi esempi valevano e valgono i criteri generali sopra succintamente descritti, criteri, che, non disciplinati gerarchicamente, in ragione della scelta prioritaria del singolo di volta in volta adottato, possono aver portato a decisioni non uniformi.
Come è stato già detto, gli accordi, che hanno disciplinato varie situazioni di presenza di forze multinazionali in un determinato territorio, sono i cosiddetti SOFA.
Prima di accedere però alla stipula di questi accordi o in caso di impossibilità a
stipularli, la legge del diritto di bandiera. Sia in via consuetudinaria che in esecuzione
di risoluzioni ONU approvate dal Consiglio di Sicurezza senza il consenso degli stati
occupati, è sempre stata ed è sempre applicata.
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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E’ stata lenta la evoluzione che ha portato alla stipulazione degli accordi SOFA.
Infatti gli stati occupati hanno resistito, pure in stato di totale soggezione, ad accedere a
queste stipule, proprio perché gli stati occupanti pretendevano di riportarsi al principio
del diritto di bandiera, che conseguentemente porta alla limitazione della sovranità dei
primi.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite aveva da tempo avvertito l’esigenza di disciplinare le missioni di peace-keeping. In assenza di un contingente militare messo a
disposizione del Consiglio di Sicurezza, da parte degli stati membri fu predisposto un
accordo modello, redatto poi dal segretario generale dell’ONU che risale agli anni 1990
e 1991.
Detto accordo ha rappresentato la guida, il punto di riferimento per tutte le operazioni, una sorta di norma quadro o cornice, che recepisce, ancora una volta, il criterio
del diritto di bandiera. Esso si articola in cinque punti. Il quarto disciplina lo status del
personale militare delle forze multinazionali che trovasi a svolgere in un paese funzioni umanitarie. L’art. 47 stabilisce: “ military members of the military component of the
United nations peace-keeping operation shall be subject to the exclusive jurisdiction of
their respective participating States in respect of any criminal offences which may be
committed by them in (host country/territory)”. Il che vuol dire che i militari facenti parte di un contingente delle Nazioni Unite in missione di peace-keeping saranno soggetti
alla esclusiva giurisdizione dei loro rispettivi stati di appartenenza.
E’ un modello che recepisce la norma consuetudinaria sotto il duplice profilo della esclusione della giurisdizione territoriale e della soggezione dei militari ai rispettivi
stati in invio. Non è ancora un sofa poiché non reca la firma di uno stato occupato.
Per quanto concerne la situazione in Iraq si è detto che le prime risoluzioni ONU
e cioè la n. 1483 e la 1511 del 2003 non fanno alcun riferimento al problema della giurisdizione. La cosa non deve sorprendere. Nel 2003 era ancora in atto la occupazione
militare dello stato irakeno e pertanto, non esistendo formali autorità statuali, non poteva essere stipulato nessun accordo. Si applicava pertanto il richiamato modello generale di risoluzione del 1991.
Il primo SOFA che riguarda l’Iraq, è proprio la risoluzione n. 546/2004 poiché di
essa fanno parte integrante, sia la lettera del primo Ministro del Governo provvisorio
Irakeno Ayad Allawi, che prestò il consenso alla ulteriore permanenza delle forze ONU
in Iraq, sia la lettera del Segretario di Stato degli USAColin Powell, richiamata formalmente
nel testo della risoluzione con la specificazione che di essa fa parte integrante. In questa lettera si ribadisce quanto evidenziato nel richiamato modello e cioè il contenuto, l’essenza stessa di un SOFA che deve disciplinare, tra l’altro, l’esercizio della giurisdizione penale nei confronti dei membri delle forze multinazionali. Si precisa nel testo che
gli stati partecipanti hanno la responsabilità dell’esercizio della giurisdizione sul proprio personale (….responsability for exercising jurisdiction of their personnel….) .
L’espressione è chiara, non si presta ad interpretazioni anche perché in armonia
con i precedenti richiamati. Vale quindi certamente l’antico brocardo: “ in claris non fit
interpretatio”. Tuttavia l’espressione inglese “responsability”, che ha dato adito a dis-
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cussioni, sembra poter richiamare un concetto forse alquanto estraneo al nostro sistema
e che verosimilmente risente di una impostazione tutta americana. La espressione sta a
significare, che sono gli Stati partecipanti, ad assumersi la responsabilità di procedere
processualmente nei confronti degli autori del reato. Autori che fanno parte dei rispettivi contingenti inviati dagli stessi Stati. Costoro si assumono la responsabilità, ma non
l’obbligo, di procedere come è appunto nei sistemi anglosassoni, in cui non è prevista
l’obbligatorietà dell’azione penale.
Non a caso i SOFA pongono maggior risalto al problema della giurisdizione nei
confronti dello Stato territoriale al quale viene sottratta; sottrazione che rappresenta una
deroga delle norme del diritto internazionale che, come si è detto, sono ancorate non in
via secondaria al criterio della territorialità.
Il problema della giurisdizione, tra gli stati costituenti le forze multinazionali, viene appena enunciato. Si afferma e si ribadisce la giurisdizione dello stato di invio che
non è altro che il diritto di bandiera. In sostanza tra il criterio dell’autorità passiva e quello della bandiera non vi è dubbio che il secondo, tenuto conto anche della situazione contingente provvisoria e limitata nel tempo, prevale assolutamente non solo perché è in armonia con la norma consuetudinaria, ma perché ubbidisce al principio della reciprocità, caposaldo del diritto internazionale. E’intuitivo, d’altra parte e confermato dalla prassi, che nessun paese consente volentieri a che i propri cittadini alle armi, inviati all’estero per ragioni umanitarie e quindi normalmente con finalità non aggressive, ma allo
scopo di assicurare equilibri internazionali per contribuire al mantenimento della pace,
siano assoggettati alla giurisdizione di un altro stato soprattutto in rapporto a quelle condotte. E’ un criterio logico quindi difficilmente contestabile e non riconducibile a forzature da parte di alcuni paesi che giocano un ruolo più importante nello scacchiere mondiale. Anzi è proprio regime di bandiera che pone gli stati partecipanti alla missione, in
una situazione paritaria. Ciascuno giudica i propri militari per i reati commessi ai danni di altro stato facente parte della stessa forza multinazionale.
Se si prova ad immaginare una situazione opposta e cioè l’ipotesi di un nostro militare che avesse posto in essere analoga azione delittuosa nelle medesime condizioni di
tempo e d luogo ai danni di un cittadino statunitense, sarebbe stato più che legittimo da
parte del nostro paese opporsi all’esercizio della giurisdizione degli stati Uniti, che, tra
l’altro, prevede, per questo tipo di reati, la pena di morte estranea al nostro ordinamento.
Si è posto il problema della diretta ed immediata efficacia della risoluzione 1546
nel nostro stato. L’eccezione è stata sollevata soltanto da una parte civile.
L’art. 25 della carta dell’ONU stabilisce che gli stati membri accettano di eseguire
le decisioni e le risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza, vincolanti per tutti gli
stati membri delle Nazioni Unite. Inoltre la legge 17 agosto 1957 n. …. In conformità
alle disposizioni della stessa carta, ha recepito ed autorizzato la ratifica dando esecuzione
alla suddetta carta dell’ONU.
Giova richiamare quanto già affermato con riferimento all’art. 10 della Costituzione. La risoluzione n. 1546 rientra certamente tra le norme cosiddette self-executing,
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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tenuto conto delle espressioni letterali usate e della prassi. Non è isolata e del tutto condivisibile la teoria in forza della quale “l’ordine di esecuzione …. Trattato istitutivo di
un determinata organizzazione, in quanto copre anche la parte del trattato che prevede
la competenza di quella organizzazione ad emanare decisioni vincolanti, già attribuisca
a queste ultime piena forza giuridica interna”. Anche in assenza di qualsiasi atto di esecuzione, questa risoluzione avrebbe avuto efficacia nel nostro ordinamento.
Tuttavia il d.l. 24.6.2004 convertito con l. 30.6.2004, quindi dopo la richiamata
Risoluzione, (che – ripetesi – nulla innovava rispetto al problema della giurisdizione,
ma si poneva nella scia di altri precedenti), pur senza espliciti riferimenti rendeva esecutiva la risoluzione in quanto disciplina la organizzazione della missione, il regime degli interventi e il conferimento di risorse umane e strumentali ai fine di realizzare la missione prevista dalla Risoluzione stessa. Detto decreto è stato poi confermato con quello
del 28.6.2005 convertito in legge il 31.7.2005 ed infine con il d.l. 31.1.2007 convertito
in legge il 29.3.2007.
D’altra parte detti provvedimenti legislativi contengono anche norme ordinamentali,
se è vero come è vero, che è prevista la punizione dello straniero per i reati commessi in
territorio irakeno ai danni dei cittadini italiani partecipanti alla stessa missione su richiesta
del Ministro della Giustizia e “per i reati commessi a danno di appartenenti alle forze
armate sentito anche il Ministro della Difesa”.
E’appena il caso di sottolineare che non vi è traccia di nessun coinvolgimento del
Ministro della Difesa nella vicenda, pur essendo il defunto Calipari e la parte lesa Carpani appartenenti entrambi alle forze militari italiane in quanto funzionari del SISMI.
Ma non sono soltanto i SOFA con riguardo alla missione in Iraq che hanno questa impostazione. Vari altri precedenti collegati o meno ad operazioni con o senza SOFA, dimostrano che sempre sono stati adottati gli stessi criteri previsti nelle risoluzioni
richiamate.
Vanno fatti alcuni esempi:
La Corte marziale olandese sottopose a processo in Libano alcuni membri olandesi del contingente UNIFIL ; l’art. 11 del protocollo relativo alla MFC nel Sinai stabilisce che i suoi membri sono soggetti alla esclusiva giurisdizione dei loro rispettivi stati nazionali.
L’operazione senza SOFA SOMALIA fu introdotta con la risoluzione ONU n.
794/92 che autorizzò una operazione con caratteristiche di peace-enforcing. Fu creata
la UNITAT che diede avvio alla operazione UNOSOM. I contingenti facenti parte delle forze ONU applicarono, compresa l’Italia, il proprio diritto di bandiera.
SOFA NATO nei Balcani. Accordo Dayton con la repubblica Bosnia-Erzegovina
e la Repubblica di Croazia. In detto accordo è previsto il riconoscimento della più completa immunità dalla giurisdizione dello stato territoriale. Si aggiunge in particolare che
il personale militare sarà soggetto in ogni tempo all’esclusiva giurisdizione del proprio
Stato di invio.
Risoluzione ONU: 1244/99 ha autorizzato le forze Nato a dislocarsi nel Kossovo. La Repubblica federale iugoslava accettò la presenza di dette forze ma rifiutò di fir-
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mare l’accordo sullo stato delle stesse, riservandosi di stipulare un SOFA. Nel frattempo si dà valore a detto accordo di “temporaty SOFA” e pertanto il personale della International security force in Kossovo gode di fatto di una totale immunità giurisdizionale;
La forza multinazionale di protezione in Albania, della quale faceva parte anche
l’Italia, in forza del Sofa opportunamente stipulato godeva di una immunità della giurisdizione penale albanese e degli altri stati.
Sofa in Afghanistan: la natura militare delle operazioni condotte in Afghanistan
dalla coalizione guidata dagli Usa ed intraprese senza il consenso dello Stato del territorio, giustifica l’assenza di un Sofa e comporta l’applicazione del principio del diritto
di bandiera.
Non si fa alcun riferimento alla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, stipulata tra stati membri della NATO in posizione paritaria poiché inserita, nella sua specificità, in un contesto totalmente diverso da quello in esame e cioè da quello bellico o
parabellico o di presenza di forze multinazionali svolgenti missioni umanitarie in territorio straniero. E’ un accordo duraturo che ha costruito una organizzazione internazionale con scopi comuni di difesa e di contrapposizione ad altro blocco di stati aderenti al
patto di Varsavia.
Corollario della richiamata risoluzione 1546 del 2004 è l’Order 17 emanato in data 27 giugno 2004, unilateralmente, dall’Autorità della Coalizione provvisoria in Iraq e
che disciplina lo status della stessa autorità provvisoria.
Da più parti è stata eccepita la validità di questo Order, che non può essere fonte
primaria di diritto internazionale e pertanto carente di legittimazione a stabilire alcun
criterio di giurisdizione. Sotto questo profilo formale l’eccezione può essere fondata.
Tuttavia l’Order in parola si inserisce nel contesto e nella scia segnata non solo
dalla risoluzione 1546 ma anche dalle altre precedenti. In effetti esso non dispone nulla di nuovo rispetto a quanto previsto nella risoluzione medesima, ma si inserisce nel
quadro politico diplomatico e normativo che questa aveva determinato.
Nell’Order si dice esplicitamente “in applicazione delle leggi e delle consuetudini di guerra ed in conformità delle rilevanti risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle
nazioni Unite comprese le risoluzioni 1483/03, 1511/03 e 1546/04 …. Tutto il personale della forza multinazionale e della Autorità della Coalizione provvisoria ….. è sottoposto alla giurisdizione esclusiva del rispettivo stato di invio”. Al paragrafo successivo
si aggiunge “ gli stati di invio del personale della MNF diritto di esercitare all’interno
dell’Iraq la giurisdizione penale e disciplinare loro conferita dalla legge dello stato d’invio”.
Lo stesso richiamo alle risoluzioni che scaturiscono a loro volta Dal modello del
1991 di cui già si è detto, fa ritenere che trattasi pertanto di un ordine esplicativo ed esecutivo, che rispetta il quadro delle norme di riferimento e quindi, pur non essendo fonte, ha la sua validità nei limiti designati.
Va sottolineato infine il successivo Order 100 emesso il 28 giugno 2004. Nel prevedere lo scioglimento dell’autorità della coalizione provvisoria per il 30 giugno 2004,
precisa “che il presente ordine non si applica al n. 17”.
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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Come si è visto la ipotesi della giurisdizione concorrente, in caso di presenza di
forze multinazionali in territorio straniero, non si profila né con riferimento alla giurisdizione territoriale, cioè dello stato in cui è avvenuto o ai cui danni si è verificato il fatto, né con riferimento ad interventi di altre giurisdizioni.
Tutti i SOFA prevedono che i membri delle Forze siano da una parte sottratti alla giurisdizione dello stato occupato e dall’altra sottoposti a quella dello stato di origine, che sarà responsabile degli individui appartenenti alla propria forza.
Conseguenza di questa premessa è che il mancato esercizio della giurisdizione esclusiva da parte dello stato di invio non comporta la possibilità che subentri una giurisdizione concorrente.
Il Pubblico Ministero, partendo dal presupposto che si versi nell’ipotesi di giurisdizione concorrente in capo agli Stati Uniti e all’Italia, ha affermato che, non essendo
stata esercitata legittimamente in via primaria quella americana, deve subentrare la giurisdizione italiana.
Per quanto finora esaminato, la affermazione non meriterebbe alcuna attenzione.
la giurisdizione esclusiva è e rimane tale, anche se non processualmente esercitata.
Tuttavia la corte ritiene opportuno eliminare qualsiasi dubbio che lasci spazio ad
ipotizzare una soluzione diversa da quella adottata. Anche se si immaginasse, come caso scolastico, una giurisdizione concorrente il risultato sarebbe lo stesso.
Invero secondo quell’ordinamento giuridico la primaria giurisdizione degli Stati
Uniti è stata in qualche modo esercitata.
Come è noto subito dopo i fatti fu costituita una commissione di inchiesta paritetica che concluse i suoi lavori con due documenti distinti uno di parte italiana e uno di
parte Usa.
Il dipartimento di stato, cioè l’organo legittimo del governo degli Stati Uniti, in
data 22 dicembre 2005, decise e comunicò che “l’affare è chiuso e che eventuali azioni
legali sono di competenza del dipartimento della Difesa”.
Questa risposta creò un momento di grossa tensione e turbativa nei rapporti diplomatici tra l’Italia e gli Usa. Sotto questo profilo la Corte ovviamente non esprime alcuna valutazione, né giudizi in ordine alle reciproche contestazioni che furono formulate.
Sicuramente secondo il nostro sistema processuale quel provvedimento non ha
carattere giurisdizionale e verosimilmente non lo ha neanche nell’ordinamento processuale statunitense. E’ necessario però che in questa sede si faccia uno sforzo si ragioni
in termini non rigidi né passionali, recependo la necessità di discostarsi dalla nostra cultura giuridica continentale e soprattutto da quella prettamente italiana che nel diritto penale, ha come cardine fondamentale la obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
Nei paesi della common law detto principio non esiste e tutto il sistema penale si
fonda su un ampio potere discrezionale che incide in maniera determinante sull’esercizio dell’azione penale.
Ci si deve quindi chiedere se effettivamente la giurisdizione americana abbia del
tutto respinto qualsiasi iniziativa procedimentale sulla vicenda.
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Secondo la Restatement of the Law, tra le tre forme di giurisdizione, intese in senso ampio come poteri dello Stato, che non ripetono la nostra tripartizione di montesquiana
memoria, individuabili negli Stati Uniti, quella del “to prescribe” si realizza nel potere
dello Stato di applicare il proprio diritto a persone o attività indifferentemente, mediante un atto legislativo od esecutivo o un comando giudiziale.
E’ proprio questo tipo di giurisdizione, che interviene nel caso in cui, sul piano
internazionale debba applicarsi quella extraterritoriale. Ebbene, riconosciuto come legittimo il criterio di giurisdizione extraterritoriale, secondo le norme di diritto internazionale, ad una valutazione di ragionevolezza in ordine all’esercizio di questa giurisdizione, si aggiunge quella relativa alla opportunità di esercitare la giurisdizione interna;
apprezzamento che in quello stato è il presupposto per ogni iniziativa processualmente
rilevante.
Ribaltando il discorso, il non obbligo dell’esercizio dell’azione penale nell’ambito territoriale, che comporta valutazioni di carattere extraprocessuale viene ulteriormente condizionato dalla valutazione di ragionevolezza, nel caso in cui si tratti di perseguire un reato commesso fuori dal territorio.
Insomma alla discrezionalità della prosecution si aggiunge, anche in maniera più
incisiva, quella che comporta la decisione di perseguire fatti commessi all’estero.
Il Dipartimento degli Stati uniti, pertanto, in quanto titolare della giurisdizione “to
prescribe”, poteva legittimamente adottare la decisione sopra richiamata. Detta decisone non può indurre a ritenere che, secondo quell’ordinamento, non sia stata esercitata
alcuna giurisdizione; essa scaturisce da una valutazione, della quale il Governo degli Stati Uniti si è assunto la responsabilità, quella cioè di non procedere processualmente nei
termini che la nostra procedura intende.
Le norme consuetudinarie e le risoluzioni Onu esaminate, pur determinando la
giurisdizione alo Stato di invio, non obbligano e non possono obbligare lo Stato stesso
a svolgere un formale processo, ma soltanto ad adottare una decisione conforme al proprio ordinamento interno.
omissis
(1) Il caso Nicola Calipari – prima parte
Avv. Caterina DI MARZIO
a terza sezione della Corte d’Assise di Roma ha prosciolto, con sentenza del 25 ot-
tobre 2007, Mario Louis Lozano, il soldato in servizio presso l’esercito statunitense, dalle accuse a lui contestate in relazione alla morte del funzionario del Sismi,
Nicola Calipari, avvenuta in Baghdad il 4 marzo 2005. I giudici investiti del caso hanno dichiarato il “non doversi procedere” in base all’articolo 20 del codice di procedura penale, ritenendo la carenza di giurisdizione nei confronti del Lozano, imputato per l’omicidio Calipari e per il tentato omicidio della giornalista del “Manifesto”,
L
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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Giuliana Sgrena, e del maggiore dei carabinieri Andrea Carpani.
La Corte ha ritenuto la insussistenza delle condizioni minime per processare
in Italia il Lozano, richiamandosi ad una prassi del diritto internazionale, nonché alla norma di cui all’art. 10 della Costituzione, detta “legge della bandiera” od anche
“dello zaino” secondo cui i militari in missione all’estero sono soggetti esclusivamente alla giurisdizione della nazione di appartenenza, senza interferenza alcuna di
altro stato membro della medesima Comunità.
La Corte ha tenuto a precisare che la pronuncia di difetto di giurisdizione non
equivale ad alcuna abdicazione o rinuncia dello Stato italiano al proprio potere giurisdizionale, ma si inserisce nell’alveo del principio indefettibile di reciprocità e di
rispetto della prassi internazionale, nonché dell’applicazione degli stessi principi inseriti nei trattati internazionali cui l’Italia ha aderito nel contesto dell’art. 10 della
Costituzione.
La posizione dell’Italia nel territorio iracheno
ed il rispetto della Costituzione
L’intervento in Iraq ad opera delle forze armate degli USA e del Regno Unito
costituì inizialmente un’operazione bellica. L’intento precipuo era rappresentato dalla “repressione del terrorismo, la soppressione del governo dittatoriale iracheno e
la salvaguardia dei diritti umani”.
Tale disegno iniziale era stato seguito ed attuato anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, attraverso l’approvazione di una serie di risoluzioni aventi, come
obiettivo principale, la ristrutturazione di un governo iracheno, imperniato su una base democratica ed informato a principi fondamentali, già sanciti negli ordinamenti
democratici, quali “la tutela dei diritti umani, la libertà di manifestazione delle opinioni politiche e il divieto di discriminazioni di sesso, razza e religione” (Convenzione della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, 1945).
L’intervento dell’Italia nelle operazioni militari in Iraq è stato, da più parti, definito come una “partecipazione di non belligeranza”, poiché il compito dell’esercito italiano in Iraq si è concretizzato nell’“aiutare” il popolo iracheno nell’organizzazione del Paese, senza proseguimento di alcuna finalità caratterizzata dall’intento
di occupazione del territorio.
Il contributo di “non belligeranza” è in linea con il dettato costituzionale di cui
all’art. 11 Cost. secondo cui: ”l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Invero, la stessa norma, dichiara, nella sua seconda parte, che l’Italia “consente
(…) alle limitazioni necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia
fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo”,
fornendo così una “copertura” costituzionale anche alle azioni militari, a condizione
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che siano svolte in un quadro in cui sia promossa la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Giova evidenziare che “le limitazioni della sovranità”, che potrebbero giustificare l’impiego anche della forza militare, sono riferibili, ai sensi dell’art. 11 Cost.,
essenzialmente alle Nazioni Unite, la cui Carta prescrive, quale fine principale, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale prevedendo che il meccanismo
coercitivo faccia capo esclusivamente al Consiglio di sicurezza.
La norma costituzionale richiamata consente all’Italia di partecipare ad operazioni, implicanti l’uso della forza e di carattere coercitivo, contro uno Stato che abbia adottato comportamenti compromettenti la pace e la sicurezza a livello internazionale, a condizione che gli stessi interventi siano deliberati dal Consiglio di sicurezza.
La pronunzia di difetto di giurisdizione si fonderebbe, altresì, sul rilievo che
avrebbe nel nostro ordinamento una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, nello specifico, la Risoluzione n. 1546 adottata l’8 giugno 2004, primo SOFA riguardante l’Iraq, di cui fanno parte sia la lettera del primo Ministro del Governo Provvisorio Irakeno, Ayad Allawi, che prestò il consenso alla ulteriore permanenza delle forze ONU
in Iraq, sia la lettera del segretario di Stato degli Usa, Colin Powell.
Il testo in questione, oltre ad auspicare e promuovere una forte cooperazione
ed integrazione fra le forze armate irachene e quelle della medesima coalizione, precisa, altresì, che gli Stati partecipanti hanno la responsabilità dell’esercizio della giurisdizione sul proprio personale e sono, quindi, legittimati a procedere processualmente nei confronti degli autori del reato facenti parte dei rispettivi contingenti.
Gli iracheni hanno dato seguito a tali impegni, stipulando degli accordi, successivi alla Risoluzione, in cui è riconosciuto il c.d. “privilegio della giurisdizione”
allo Stato d’origine, in virtù del quale sono gli Stati partecipanti ad assumersi la responsabilità di procedere processualmente nei confronti dei propri militari macchiatisi di fatti delittuosi. Conseguentemente, mentre potrebbe dirsi che sui rispettivi Stati ricade la responsabilità processuale di cui sopra, certamente non può dirsi che gli
stessi siano obbligati a procedere, non essendo prevista l’obbligatorietà dell’azione
penale.
Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono atti internazionali, idonei a far
sorgere negli Stati membri l’obbligo di conformarsi in base alle relative procedure costituzionali, ma non hanno alcuna efficacia diretta negli ordinamenti nazionali. Da parte sua il governo italiano ha dato esecuzione agli obblighi internazionali nascenti dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza con provvedimenti aventi forza di legge.
La Risoluzione in questione rientrerebbe tra le norme cc.dd. self-executing. Sottende al riguardo la non isolata teoria in ragione della quale l’ordine di esecuzione di
un trattato istitutivo di una determinata organizzazione, in quanto copra anche quella parte dello stesso trattato che prevede la competenza dell’organizzazione ad emaLa Risoluzione n. 1546 dell’8 giugno 2004
305
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
nare decisioni vincolanti, attribuisce a queste ultime piena forza giuridica interna.
Pur tuttavia, il D.L. 24.06.2004, convertito con L. 30.06.2004, successivo alla richiamata Risoluzione rendeva esecutiva la risoluzione medesima, in quanto disciplinava l’organizzazione della missione*, il regime degli interventi e il conferimento di risorse umane e strumentali allo scopo di realizzare la stessa missione.
* Gli attentati negli USA, l’11 Settembre 2001
e la Risoluzione n. 1511 del 2003
Per meglio inquadrare la vicenda giuridica si ritiene, tuttavia, opportuno ripercorrere l’iter storico che ha precorso, e per il quale si è dato vita, alla missione
pacifista dell’esercito italiano in Iraq.
La data dell’11 settembre 2001 è ormai nota come la data che ha segnato una
tragica pagina nella storia mondiale oltre che in quella statunitense. Dopo gli attentati alle Torri gemelle ed al Pentagono, la reazione degli Stati Uniti fu immediata. Il
Presidente statunitense, George W. Bush, richiese una nuova risoluzione dell’ONU
che autorizzasse un nuovo intervento militare contro il regime di Sadam Hussein.
Il governo di Washington accusava il regime iracheno di produrre armi di distruzione di massa, violando le risoluzioni dell’ONU.
Purtuttavia la richiesta di Washington fu accolta solo da uno dei membri del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Gran Bretagna. L’8 novembre 2002, il Consiglio di Sicurezza approvò la risoluzione n. 1441 richiamando il governo iracheno al
rispetto degli impegni di disarmo sottoscritti con il “cessate il fuoco” nel 1991.
Nonostante la ripresa dei sopralluoghi degli ispettori dell’ONU, gli Stati Uniti sollecitarono una nuova risoluzione che li autorizzasse all’uso della forza contro
l’Iraq. Tale richiesta, però, sostenuta solo dalla Gran Bretagna, non trovò appoggio
alcuno negli altri stati permanenti del Consiglio di Sicurezza, Francia, Russia e Cina. In questo contesto storico divenne celebre l’immagine dell’allora Segretario di
Stato USA, Colin Powell, che il 5 febbraio 2003, mostrò, nel corso di una riunione
dell’ONU, una fiala contenente antrace, a sostegno della necessità di un intervento
in Iraq, volto a contrastare il terrorismo e le strategie di riarmo di altri dittatori e per
“prevenire”, quindi, ulteriori e più gravi conflitti.
Gli Stati Uniti, con l’appoggio della Gran Bretagna, sollevarono, così, un’aspra polemica che divise la diplomazia internazionale. Il 9 aprile 2003, l’avanguardia militare statunitense entrò in Baghdad. Il 21 aprile insediarono alla testa di un’autorità provvisoria, il generale Jag Garner e il 1° maggio il Presidente americano proclamò la fine della guerra.
Il 16 ottobre 2003 veniva proposta dagli Stati Uniti una risoluzione, il cui contenuto è raccolto principalmente in tre aree:
a) la leadership irachena e il passaggio dei poteri dall’Autorità provvisoria della coalizione al popolo iracheno;
b) il mantenimento di condizioni di sicurezza ad opera di una forza multinazionale
sotto il comando unificato;
306
c) la partecipazione internazionale e delle Nazioni Unite al finanziamento dei pro-
getti di ricostruzione e di ripresa.
La risoluzione conferisce alle Nazioni Unite un ruolo di primo piano nell’assistere lo Stato iracheno nel processo politico come in altri ambiti, quali i diritti umani e lo sviluppo sostenibile. La risoluzione riconosce l’attuale consiglio di governo
iracheno ed i ministri che ne fanno parte, quali “organi principali dell’Amministrazione provvisoria irachena” ed autorizza una ”forza multinazionale sotto comando
unificato a prendere tutti i provvedimenti necessari per contribuire al mantenimento della sicurezza e della stabilità in Iraq”.
La decisione della Corte di Assise di Roma
Il ruolo di Nicola Calipari nelle operazioni del SISMI
Il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare, (già SISMI) è un servizio militare i cui compiti principali sono finalizzati a difendere la sicurezza dello
Stato italiano contro ogni tipo di pericolo, minaccia o aggressione, operando con attività di controspionaggio. Il Servizio dipende direttamente dal Ministro della difesa ed, attualmente, in seguito alla riforma del 2007, è denominato AISE, Agenzia di
Informazione e Sicurezza interna.
Nicola Calipari, dal 2002 alto funzionario nei servizi segreti ed in particolare
al Sismi, era una persona con una notevole esperienza in missioni “impossibili”. Ancor prima della liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, aveva condotto con successo le trattative per la liberazione delle due ragazze italiane, sequestrate in Iraq,
Simona Pari e Simona Torretta.
Il giorno 4 marzo 2005, Nicola Calipari, Andrea Carpani (funzionario del Sismi) e Giuliana Sgrena (giornalista) viaggiavano a bordo dell’autovettura “Toyota
Corolla” in territorio iracheno, diretti verso l’aeroporto di Baghdad.
Alle ore 20.45 la vettura veniva investita da colpi d’arma da fuoco, provenienti
da militari statunitensi, che ferivano mortalmente Calipari e cagionavano lesioni alla Sgrena ed al Carpani.
La presenza del Calipari e del Carpani nel territorio iracheno aveva come obiettivo la liberazione della Sgrena, sequestrata il 4 Gennaio 2005 e tenuta in ostaggio
da un gruppo di terroristi islamici.
L’autorità giudiziaria italiana avviava immediatamente le indagini, procedendo all’accertamento di tutti i rilievi necessari, ciò che fecero anche gli USA, ed incaricava delle relative competenze una commissione di inchiesta.
Le risultanze delle indagini condussero a conclusioni contenute in due documenti; l’uno, quello degli Usa, escludeva la responsabilità del soldato statunitense (Lozano) addossando la responsabilità dell’”incidente” allo Stato italiano per non aver informato della missione l’esercito statunitense. L’altro, la sintesi italiana, attribuiva la
responsabilità dell’incidente agli Stati Uniti, sottolineando, in particolare, l’inesperienza
La morte di Calipari
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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di taluni militari americani, esternata in reazioni istintive ed incontrollate, ingaggiati
con regole incerte e dubbie.
Ma, sebbene questa fosse la posizione dello Stato italiano, non veniva avanzata alcuna pretesa risarcitoria, sia per il danno arrecato alla funzione, sia per il danno arrecato all’individuo.
La questione risultò ancor più complessa allorquando la Corte d’Assise di Roma, chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla Procura della Repubblica di Roma nei confronti dell’indagato, Lozano Mario Louis, non
accoglieva la richiesta.
Nelle ventisette pagine di motivazioni, il Collegio, ufficializzando il “difetto
di giurisdizione” da parte dello Stato italiano, spiega che l’Italia non può giudicare il
soldato americano, accusato di omicidio volontario, in costanza del principio internazionale c.d. della “legge della bandiera”, principio non scritto in alcun trattato internazionale ma (potremmo definirlo consuetudinario) secondo il quale “ogni stato
membro della comunità internazionale avrebbe giurisdizione esclusiva sui fatti illeciti commessi dai propri militari”. L’incidente, peraltro, può essere inquadrato nella
fattispecie del “caso fortuito”, escludendone la individuazione come illecito internazionale.
Nella vicenda “Calipari” è stata esclusa l’applicazione delle Convenzioni internazionali che sanciscono, in modo tassativo, il rispetto e la salvaguardia dei diritti dell’uomo, prima fra tutte la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a
Roma il 4 novembre del 1950.
La Corte Internazionale di Giustizia ha più volte affermato, in due pareri resi
rispettivamente nel 1966 (questione della liceità della minaccia delle armi nucleari)
e nel 2004 (conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio occupato della Palestina), che le norme in materia di diritti dell’uomo si applicano anche
in caso di conflitto armato; ma la Corte d’Assise, diversamente opinando, ha formulato il proprio responso partendo da quattro criteri - astrattamente applicabili per determinare il campo di applicazione della legge penale nazionale nel contesto internazionale - e di ausilio per comprendere a quale Stato competa la giurisdizione per i
fatti illeciti di rilievo internazionale, nel rispetto della prassi e degli accordi.
La questio nasce, altresì, in ragione della ritenuta applicabilità da parte della
Procura della Repubblica di Roma - stante la dedotta inerzia della giustizia statunitense nel dare adeguata contezza e rilievo ad un fatto, quale l’omicidio di un militare italiano - della giurisdizione italiana, in ossequio al criterio della giurisdizione passiva.
Il primo dei quattro principi sopra citati, detto della “universalità o extraterritorialità assoluta”, vuole l’applicazione della legge nazionale dovunque, da chiunque e contro chiunque sia l’autore del fatto penalmente rilevante per lo Stato nazionale.
I quattro criteri di determinazione della giurisdizione
308
Il nostro legislatore sembra essersi ispirato, in via prioritaria, al suddetto principio con i vari contemperamenti previsti dalle norme di cui agli artt. 7 e ss. c.p., laddove gli Usa, invero, sono rigorosamente agganciati al criterio della territorialità, in
ossequio all’art. 3 della Costituzione americana che prescrive che ogni autore sia processato nello stato di commissione del fatto.
Un secondo principio, detto della “territorialità”, riconosce allo Stato, nel cui territorio è avvenuto il fatto delittuoso, il diritto di esercitare la propria giurisdizione.
Il terzo principio in materia, detto della “giurisdizione attiva”, attribuisce la giurisdizione allo Stato a cui appartiene l’autore del fatto.
Il quarto, detto della “giurisdizione passiva”, ritenuto quello di minore impatto, attribuisce la giurisdizione allo Stato a cui appartiene la vittima del reato.
Le norme internazionali non prevedono una applicazione prioritaria di uno rispetto agli altri, anche se quello della giurisdizione passiva, benché non vietato, è visto con un certo disfavore, derivante dal fatto che la previsione di perseguire stranieri
operanti in territorio straniero, è sempre stata ritenuta fonte di possibili conflitti e turbativa dell’ordinamento internazionale. Da ciò, pur non sussistendo alcuna gerarchia
tra i suddetti criteri, quello della giurisdizione passiva non è collocabile tra i primi.
L’orientamento giurisprudenziale e dottrinario concorda, per lo più, nel considerare vigente ed indefettibile la norma consuetudinaria di diritto internazionale che
si richiama al principio c.d. ”della bandiera”, negli eventi bellici e nelle occupazioni di forze multinazionali nel territorio di uno Stato.
Da ciò, in ragione della incontestata vigenza del suddetto principio, i militari, che si trovano all’estero in regime di guerra o di pace, rispondono in via esclusiva alle leggi, soprattutto quella penale, dello Stato di appartenenza, che li ha inviati
in territorio straniero in quanto facenti parte di un contingente militare, ufficializzando,
indipendentemente da previsioni di natura convenzionale, il diritto di ciascuno Stato di origine di esercitare la giurisdizione sulle proprie truppe dislocate su territorio
estero. E’ un regime di sostanziale e completa immunità di giurisdizione di forze militari straniere che, rientra nell’ambito della dottrina dell’occupatio belli, soprattutto
in relazione al fatto che l’organizzazione statuale di un Paese occupato è, nella stragrande maggioranza dei casi, priva di effettiva indipendenza.
Il principio richiamato sembrerebbe imporsi per la sua specificità, dovuta al contesto bellico e parabellico - superandoli - sugli altri principi, per cui, in caso di più
Stati partecipanti congiuntamente ad un’operazione bellica, ciascuno ha giurisdizione sul proprio contingente senza interferenza. Si annulla, per ciò stesso l’applicabilità del più generale criterio della territorialità, con la conseguenza che l’indiscriminato ossequio alla legge della bandiera ha condotto la Corte di Assise di Roma ad emettere la sentenza in commento, sostanzialmente, avallando la resa della giustizia, americana prima ed italiana poi, davanti alla uccisione di un uomo, prima ancora che di
un militare.
Il principio ufficializzato nella sentenza de quo sembrerebbe essere avallato,
altresì, dai SOFA ovvero gli accordi internazionali disciplinanti il regime giuridico
309
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
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del personale militare e civile della Forza di un Paese dislocato sul territorio di altro
Paese, i quali prevedono che i membri delle forze armate siano, da una parte, sottratti
alla giurisdizione dello Stato occupato e, dall’altra, sottoposti a quella dello Stato di
origine, da cui la conseguenza, che non è prevista alcuna giurisdizione concorrente,
laddove venga a difettare, come nel caso di specie, quella esclusiva.
Il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura
della Repubblica di Roma avverso la sentenza
della Corte d’Assise
Avverso la sentenza in commento, ha proposto ricorso in Cassazione la Procura della Repubblica di Roma, contestando, nello specifico, la ritenuta sussistenza
del principio consuetudinario c.d. “Stato della bandiera”, non validamente invocabile ed applicabile nella risoluzione della vicenda sottoposta a giudizio della Corte
di Assise. Ciò in quanto, nel novero delle fonti di diritto internazionale non esiste una
norma consuetudinaria attributiva della giurisdizione esclusiva in applicazione del principio della bandiera, quale criterio prevalente sui normali criteri attributivi della giurisdizione. Come nessun riferimento contengono le codificazioni di norme consuetudinarie quali la Convenzione di Vienna del 1961, del 1969, del 1986 e del 1978.
La Procura eccepisce, altresì, la insussistenza di alcuna pretesa operatività vincolante degli Accordi (SOFA), nonché l’insussistenza, a diverso titolo, di una giurisdizione esclusiva degli Stati Uniti.
Inoltre, da una attenta analisi dei Sofa, applicabili alla vicenda in questione,
non si evince la assoluta esclusione della giurisdizione italiana, né tanto meno se ne
deduce la giurisdizione esclusiva di uno Stato della coalizione (Stati Uniti) piuttosto
che quella di un altro.
Una diversa interpretazione della questione risulterebbe in contrasto con i principi della nostra Costituzione e del vigente codice penale, che espressamente prevedono l’obbligatorietà dell’esercizio della azione penale nei confronti dei cittadini italiani e degli stranieri per reati commessi nel territorio dello Stato nonché l’esercizio
della stessa e, quindi, l’affermazione della giurisdizione italiana anche per fatti commessi all’estero da cittadini e da stranieri nei confronti dello Stato italiano e di suoi
cittadini.
Sostanzialmente, una qualunque forma di abdicazione alla giurisdizione da
parte dello Stato italiano, in ossequio a principi consuetudinari, seppur internazionali, è atto eccezionale e straordinario, che non trova applicazione nel caso di specie,
laddove dalle norme in vigore e quindi applicabili al riguardo, deriva, a parere della
Procura di Roma, l’esistenza di una giurisdizione esclusiva di tutti gli Stati partecipanti alla Forza multinazionale rispetto alla sola autorità irachena, in deroga al principio della territorialità. Pertanto, per ciò che concerne i rapporti fra gli Stati della
Coalizione, il riparto della giurisdizione avverrebbe secondo le regole di diritto internazionale vigenti in materia, che sono quelle di cui ai criteri della universalità, della territorialità, della giurisdizione passiva ed attiva.
310
In ogni caso, ritiene la Procura, mai il diritto della bandiera – quando ne ricorrano le condizioni che ne legittimano l’applicazione – può essere invocato come
criterio determinante la carenza della giurisdizione italiana per la vicenda processuale.
Non può valere come criterio per dirimere la concorrente giurisdizione tra gli Stati
componenti una coalizione militare operante in altro Stato. Il principio in questione
opera unicamente fra Stati della coalizione (Stati di invio) e lo Stato territoriale (o di
soggiorno) ove si trovano ad operare le truppe ed ha, quale finalità, quella di sottrarle
alla sola giurisdizione di quest’ultimo.
Cosa ben diversa dal sostenere, come erroneamente dedotto nella sentenza impugnata, il riconoscimento di una giurisdizione primaria degli Stati Uniti, allorquando
nessun Accordo, nessun Trattato e/o nessuna norma consuetudinaria abbiano attribuito o riconosciuto, al di là di pacifiche ed univoche interpretazioni, una tale prerogativa.
Laddove, sostiene sempre la Procura, non di rado anche gli Stati Uniti si sono appellati all’applicabilità del principio della nazionalità del soggetto passivo per
farne derivare e legittimare la loro giurisdizione.
La Procura ritiene, del pari, privo di fondamento giuridico l’argomentare della Corte in relazione alla pretesa operatività degli Accordi come fonte da cui legittimare la carenza della giurisdizione italiana.
Infatti, con la Risoluzione n. 1546 del 2004 si è voluto determinare da parte
degli Stati componenti la coalizione una situazione di immunità della forza multinazionale rispetto alla giurisdizione di un paese, l’Iraq, ritornato sovrano e come tale in grado di esercitare i pieni poteri sul proprio territorio, nient’altro. E, comunque,
la Risoluzione in questione non può derogare alle norme penali italiane in materia
di giurisdizione, in assenza di un provvedimento normativo che la recepisca, ed il
Parlamento non ha emanato alcuna legge di ratifica.
Tutta la vicenda origina dal fatto che, del tutto incomprensibilmente, gli Stati Uniti non hanno reclamato, né esercitato alcuna giurisdizione per l’accertamento
del grave fatto delittuoso occorso, bensì hanno declinato qualsivoglia tipo di giurisdizione, sostenendo come, essendosi trattato di uno spiacevole incidente, non aveva ragion d’essere l’avvio di alcun procedimento, limitandosi, per ciò stesso, ad istituire una commissione tecnico-amministrativa congiuntamente all’Italia per l’analisi della vicenda.
Nonostante tale evidente e paradossale atteggiamento delle autorità statunitensi
al riguardo, inspiegabilmente, la Corte di Assise ha ritenuto che ciò integrasse, in qualche modo, l’esercizio della “primaria giurisdizione da parte degli Stati Uniti”.
311
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. I – SENT. 24 LUGLIO 2008, N.31171
– PRES. BARDOVAGNI – REL. CANZIO
Non sussiste la giurisdizione penale dello Stato italiano né quella dello Stato territoriale, bensì quella esclusiva degli USA, Stato di invio del personale militare partecipante alla Forza Multinazionale in Iraq, in applicazione del principio di diritto
internazionale consuetudinario della “immunità funzionale” o ratione materiae dell’individuo-organo dello Stato estero dalla giurisdizione penale di un altro Stato, per
gli atti eseguiti iure imperii nell’esercizio dei compiti e delle funzioni a lui attribuiti: principio non derogabile, nella specie, per l’assenza nelle circostanze e modalità del fatto contestato delle caratteristiche proprie della “grave violazione” del diritto internazionale umanitario, con particolare riguardo alla non configurabilità nel
caso concreto di un “crimine contro l’umanità” o di un “crimine di guerra” (1).
La sentenza così motiva:
(Omissis)
Ritenuto in fatto
on decreto del 7/2/2007 il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale
di Roma disponeva il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’assise di Mario Luiz Lozano, soldato del contingente militare USA dislocato con la Forza Multinazionale in territorio iracheno, in servizio come artigliere al posto di blocco (istituito la sera del 4 marzo 2005 al checkpoint 541, in corrispondenza dell’intersezione fra la Route Vernon e la Route Irish in direzione dell’aeroporto di Baghdad, in attesa del passaggio del convoglio dell’ambasciatore USA), per rispondere dei reati di
omicidio e tentato omicidio in danno di Nicola Calipari e Andrea Carpani, funzionari del SISMI in missione in Iraq per la liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista
rapita da un gruppo di terroristi islamici e appena liberata, e della medesima Sgrena,
per avere, esplodendo numerosi colpi d’arma da fuoco con un mitragliatore automatico
contro l’autovettura sulla quale essi viaggiavano, in avvicinamento al posto di blocco e in direzione dell’aeroporto, cagionato la morte di Calipari e il ferimento di Carpani e della Sgrena.
La Corte di assise di Roma dichiarava con sentenza del 25/10/2007 non doversi procedere nei confronti del Lozano per difetto della giurisdizione italiana, sulla base di un triplice rilievo:
a) innanzi tutto, prevaleva sul criterio di collegamento della giurisdizione “passiva”
il principio consuetudinario di diritto internazionale della c.d. “legge della bandiera”, direttamente applicabile in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost., per cui è attribuita in via esclusiva allo Stato di invio di un contingente militare all’estero la giurisdizione per gli illeciti commessi dal proprio personale in territorio straniero;
b) l regime di immunità dalla giurisdizione di Stati diversi da quello di invio trovava conferma sia nella risoluzione n. 1546 dell’8/6/2004 del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, ritenuta self-executing nel nostro ordinamento, sia nelle allega-
1.-C
312
te lettere del Primo Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA (coerenti con
quanto disposto dall’Ordine 27/6/2004 n. 17 della CPA, confermato dal successivo
Ordine n. 100 del 28/6/2004), nelle quali, riconoscendosi la fine dell’occupazione
militare da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione e la ripristinata sovranità statale dell’Iraq a far data dal 30 giugno 2004, s’attribuiva a ciascuno degli Stati
partecipanti alla Forza
Multinazionale, per la fase di transizione, la responsabilità per l’esercizio della giurisdizione sul proprio personale;
c) non si profilavano ipotesi di giurisdizione concorrente da parte di altri Stati, in forza di ulteriori criteri di collegamento, quale la territorialità o la nazionalità della vittima, e, in ogni caso, il Dipartimento di Giustizia USA aveva esercitato la giurisdizione primaria, escludendo in concreto la sussistenza di indizi di reità a carico del
Lozano e disponendo la chiusura del caso, ritenendo che il militare avesse agito in
conformità alle regole d’ingaggio previste per il posto di blocco.
2.- Avverso detta sentenza hanno proposto distinti e immediati ricorsi per cassazio-
ne il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma (anche su richiesta
del difensore delle parti civili Calipari, motivata per relationem all’allegato parere
pro veritate del Prof. Giuseppe Cataldi), il Procuratore Generale della Repubblica
presso la Corte d’appello di Roma e il difensore della parte civile Sgrena.
La pubblica accusa, a sostegno della tesi favorevole alla giurisdizione dello Stato italiano, sostiene, con articolati motivi di censura, in parte sovrapponibili ai rilievi critici del Prof. Cataldi, che:
a) non esiste un principio consuetudinario internazionale, definito “legge della bandiera”, né accordi internazionali che prevedano regole di riparto della giurisdizione
fra gli Stati partecipanti ad una Forza Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato, nel senso dell’esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato di invio
di ciascun contingente militare e con carattere di prevalenza su ogni altro criterio di
collegamento;
b) la Risoluzione ONU n. 1546 del 2004 (che non può considerarsi self-executing né
immediatamente esecutiva nell’ordinamento statale, in assenza di uno specifico atto legislativo interno), le allegate lettere Allawi-Powell e gli Ordini nn. 17 e 100 della CPA si limitavano a stabilire la giurisdizione esclusiva degli Stati membri della
MNF, e quindi una sorta di immunità del personale, solo nel rapporto con la giurisdizione territoriale dello Stato di soggiorno, ma non nei rapporti fra gli Stati contribuenti alla MNF;
c) in numerose leggi statali, emanate fra il 2003 e il 2007 per regolamentare la disciplina delle missioni italiane all’estero, si è stabilita la giurisdizione penale italiana e
la competenza del Tribunale di Roma per tutti i reati commessi in territorio iracheno
dallo “straniero” a danno dello Stato o di cittadini italiani partecipanti alla missione;
d) con la giurisdizione “attiva” degli USA concorreva quella “passiva” dell’Italia in
ragione della nazionalità delle vittime, a norma degli artt. 8 e 10 cod. pen., mentre dal
313
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
rapporto investigativo delle autorità militari statunitensi non risultava che gli USA avessero esercitato la giurisdizione nel caso concreto.
I motivi di diritto esposti dalla pubblica accusa sono condivisi e sviluppati con
ulteriori considerazioni - a sostegno della tesi della giurisdizione italiana - dal difensore della parte civile Sgrena, il quale sottolinea la “dimensione assiologica degli interessi protetti”, come criterio di determinazione della concorrente giurisdizione
“passiva” dell’Italia, in assenza di specifiche norme derogatorie di carattere pattizio,
al fine di evitare situazioni di impunità per crimini gravemente lesivi dei diritti fondamentali dell’uomo.
L’Avvocatura Generale dello Stato, costituitasi per la Presidenza del Consiglio
dei Ministri, si è associata alle richieste della pubblica accusa e della parte civile ricorrente.
3.- La correttezza della sentenza impugnata è invece sostenuta dal difensore dell’imputato, il quale ha replicato con apposite memorie ai motivi di gravame dei ricorrenti,
allegando a sostegno delle proprie argomentazioni i pareri pro veritate del Dr. Dieter
Fleck, consulente di diritto internazionale del Governo della Repubblica Federale di
Germania, e del Prof. Fredric I. Lederer, esperto di diritto penale militare americano.
Dopo avere dato atto del contesto storico-politico e del regime giuridico vigente
in Iraq all’epoca dei fatti, la difesa dell’imputato confuta analiticamente i rilievi critici sviluppati dai ricorrenti e ribadisce (anche mediante diffuse citazioni giurisprudenziali e dottrinali):
a) l’esistenza e la rilevanza della norma consuetudinaria sulla c.d. “legge della bandiera”, ai fini dell’attribuzione della giurisdizione esclusiva allo Stato di invio sul proprio personale partecipante alla Forza Multinazionale operante in Iraq;
b) il riconoscimento di tale giurisdizione in forza della Risoluzione n. 1546 del 2004
del Consiglio di Sicurezza, adottata ai sensi del Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite e perciò vincolante, oltre che recepita nell’ordinamento italiano mediante le leggi
di finanziamento della missione in Iraq, nonché degli Ordini nn. 17 e 100 della CPA,
riguardanti lo status del personale degli Stati contribuenti alla MNF;
c) in ogni caso, il primato della giurisdizione “attiva” statunitense in forza della norma di diritto internazionale generale che sancisce l’ “immunità funzionale” dalla giurisdizione dello Stato straniero dell’individuo-organo, il quale, come il Lozano, abbia
agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni militari di guardia e controllo a un posto di blocco;
d) l’insussistenza, nella specie, di eccezioni alla regola dell’immunità funzionale che
potrebbero radicare la giurisdizione penale italiana, non configurandosi comunque un
“crimine internazionale”, per l’evidente assenza nelle modalità del fatto contestato al
Lozano delle caratteristiche di gravità, intensità, arbitrarietà, odiosità ed intenzionalità, proprie dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra;
e) l’avvenuto, effettivo, esercizio della giurisdizione penale nei confronti del Lozano per i fatti di cui all’odierno processo, da parte della giustizia militare degli Stati
314
Uniti, giusta il parere del Prof. Lederer circa i termini e le modalità di investigazione e chiusura del caso.
Il P.G. presso la Corte di cassazione, non condividendo le censure dei ricorrenti, ha concluso per il rigetto dei ricorsi, sull’assunto della immunità funzionale
dell’imputato dalla giurisdizione penale italiana per il compimento di atti eseguiti nell’esercizio delle funzioni militari affidategli.
Considerato in diritto
1.- La questione di giurisdizione.
La Corte di cassazione è chiamata a rispondere al quesito “se, con riferimento all’uccisione e al ferimento di due funzionari del SISMI, in missione governativa
in territorio iracheno per conseguire la liberazione di una giornalista rapita, e della medesima giornalista appena liberata (attinti da numerosi colpi di arma da fuoco esplosi contro l’autovettura sulla quale essi viaggiavano la sera del 4 marzo 2005
ad un posto di blocco istituito nei pressi dell’aeroporto di Baghdad), reati contestati ad un soldato in servizio al posto di blocco ed appartenente al contingente militare USA, dislocato in Iraq con la Forza Multinazionale, in forza della Risoluzione n.
1546 del 2004 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sussista, o non, la giurisdizione penale dello Stato italiano”.
Assume preminente rilievo, per l’inquadramento del contesto storico-ordinamentale vigente al momento del fatto omicidiario in Iraq (ove operava fin dal 2003
un contingente militare italiano, nell’ambito della missione umanitaria denominata
“Antica Babilonia” di stabilizzazione e ricostruzione postbellica di quel Paese), la
Risoluzione n. 1546 adottata l’8/6/2004, alla stregua del Cap. VII della relativa Carta, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la quale, richiamate le precedenti Risoluzioni nn. 1483, 1500 e 1511 del
2003, si dava atto della fine della “occupazione” da parte dell’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA) e dell’apertura di nuova fase di “transizione” verso la
ripristinata indipendenza e sovranità statale dell’Iraq a far data dal 30 giugno 2004.
Con il consenso del Governo iracheno ed a supporto della transizione politica, veniva confermata l’autorizzazione della Forza Multinazionale (MNF), sotto comando unificato, ad esercitare l’autorità per adottare ogni misura necessaria per contribuire al mantenimento “of security and stability” in Iraq (con l’obbligo per gli Stati Uniti di riferire, per conto della MNF, degli sforzi fatti e dei progressi conseguiti),
“in accordance - si aggiunge - with international law, including obligations under
international humanitarian law”.
La Risoluzione n. 1546 richiamava, a sua volta, le annesse lettere 5/6/2004 del
Primo Ministro iracheno, Ayad Allawi, e del Segretario di Stato USA, Colin Powell,
nelle quali erano fissate le intese dirette ad assicurare il coordinamento fra il Governo iracheno e la Forza Multinazionale.
2.- Il contesto storico-ordinamentale.
315
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
In particolare, nella lettera di Powell si avvertiva che, per contribuire efficacemente alla sicurezza, la MNF doveva continuare a funzionare in un quadro che offrisse al personale lo status di cui aveva bisogno per portare a termine la missione,
nel quale gli Stati contribuenti “have responsibility for exercising jurisdiction over
the personnel” alla stregua dell’ “existing framework”; si aggiungeva, inoltre, che i
contingenti militari che formavano la MNF erano impegnati a compiere le loro attività “under the law of armed conflict, including the Geneva Conventions”.
In tal senso era anche orientata la disciplina dettata dalla Sez. 2 dell’Order n.
17 (confermato dal successivo Order n. 100, Sez. 3 § 8, del 28/6/2004), emanato il
27/6/2004 da L. Paul Bremer, rappresentante della CPA, circa lo status del personale civile e militare della MNF, stabilendosi che il relativo personale “shall be immune from Iraqi legal process” (§ 1) e “shall be subject to the exclusive jurisdiction of
their Sending States” (§§ 3 e 4).
2.1.- Quanto al regime giuridico del contingente militare italiano che dal 2003 al 2006,
insieme ad altri contingenti della coalizione multinazionale a comando unificato, ha
partecipato alla missione umanitaria di stabilizzazione e ricostruzione postbellica dell’Iraq, va segnalato il d.l. 24/6/2004 n. 160, conv. in l. 30/7/2004, n. 207, recante proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali, che, insieme con la finalizzazione delle attività operative “nell’ambito degli obiettivi e delle finalità individuati nella Risoluzione delle Nazioni Unite n. 1546 dell’8 giugno 2004? (art. 1,
comma 2), statuisce, fra le disposizioni in materia penale, che “i reati commessi dallo straniero in territorio iracheno, a danno dello Stato o di cittadini italiani partecipanti alle missioni … sono puniti sempre a richiesta del Ministro della giustizia e
sentito il Ministro della difesa per i reati commessi a danno di appartenenti alle forze armate” (art. 10, comma 2) e che “per i reati di cui al comma 2 la competenza territoriale è del tribunale di Roma” (art. 10, comma 3): disposizioni, quest’ultime, tralaticiamente reiterate nei successivi decreti legge sulla partecipazione italiana a missioni internazionali (v., fra gli altri, l’art. 13 del d.l. 19/1/2005 n. 3, conv. in l. 18/3/2005
n. 37, e, da ultimo, l’art. 5 del d.l. 31/1/2008 n. 8, conv. in l. 13/3/2008 n. 45).
2.2.- Lo stazionamento sul territorio iracheno di contingenti militari appartenenti alla MNF, tenuto conto del contesto storico e internazionale in cui le operazioni di intervento erano inserite, si collocava dunque, almeno a partire dalla Risoluzione n.
1546, nell’ambito delle missioni di pace (peace support operations) delle Nazioni
Unite, definite, di volta in volta, peace-keeping, peace-building o peace-enforcement,
a seconda del prevalere di taluni aspetti (la sicurezza, la stabilità, la tutela dei diritti
umani ecc.) rispetto al mero mantenimento della pace: tutte caratterizzate, peraltro,
nonostante il moltiplicarsi e la diversità delle situazioni di crisi internazionali, anche
non belliche o postbelliche, dal consenso dello Stato ospitante (Host State), dal significativo impiego di personale militare da parte degli Stati contribuenti (Sending
States) e, infine, dalla pluralità e complessità delle funzioni e degli obiettivi perseguiti anche di polizia internazionale, sulla base del meccanismo previsto dal Cap. VII
della Carta delle Nazioni Unite.
316
Orbene, a fronte del descritto modulo organizzativo, multinazionale e multifunzionale, della missione di pace autorizzata dalle Nazioni Unite in Iraq, difficilmente riconducibile ai classici schemi di occupazione bellica elaborati nel passato, appare davvero inadeguato il riferimento fatto nel caso in esame dalla Corte d’assise di Roma, al
fine di paralizzare l’operatività del criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” dello Stato italiano, giusta la nazionalità delle vittime del fatto criminoso (artt. 8 e
10 cod. pen.; art. 13 d.l. 19/1/2005 n. 3, conv. in l. 18/3/2005 n. 37), ad un preteso principio internazionale consuetudinario (c.d. “legge della bandiera”), universalmente riconosciuto e direttamente applicabile in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost., in virtù del
quale è attribuita in via esclusiva allo Stato di invio del contingente militare all’estero,
in caso di occupazione, bellica o non, transito e stazionamento di truppe straniere sul
territorio di uno Stato, la giurisdizione civile e penale per gli illeciti commessi dal proprio personale in quel territorio.
Pure a prescindere dai dubbi espressi dalla Corte permanente di giustizia internazionale nella remota decisione pronunciata il 7/9/1927 nel caso S.S. Lotus, circa l’effettiva prova dell’esistenza di “a rule of customary international law which established the exclusive jurisdiction of the State whose flag was flown on board a merchant
ship on the high seas”, poiché “the principle is not universally accepted”, osservavano infatti le Sezioni Unite penali di questa Corte, già con sentenza del 28/11/1959, Meitner (in Giust. pen., 1960, III, 481; cui adde Cass., Sez. II, 30/1/1959, P.M. in proc. Parker, ivi, 1959, III, 424 e Sez. II, 15/4/1959, Knopich, ivi, 1960, III, 22), che l’evolversi dei rapporti internazionali dopo il secondo conflitto mondiale, con la conseguente
creazione di basi permanenti nel territorio di altri Stati, “… ha determinato la progressiva limitazione del principio della c.d. giurisdizione della bandiera (“ubi signa et jurisdictio”, “la loi suit le drapeau”), in forza del quale veniva riconosciuto allo Stato
d’origine, o della bandiera, “ne impediatur officium”, e cioè ad assicurargli la disponibilità dei propri reparti, il diritto di esercitare la giurisdizione sulle proprie truppe dislocate in territorio estero e perciò esenti da quella dello Stato occupato od ospitante”.
Segnalavano le Sezioni Unite, con tale storica sentenza, come nella Convenzione di Londra del 19/6/1951, ratificata e resa esecutiva con legge 30/11/1955 n. 1335,
concernente lo statuto dei militari appartenenti alle forze armate della NATO dislocate in territorio alleato (c.d. NATO SOFA), il tradizionale principio immunitario di personalità attiva, “a tutela della funzione e non della persona”, per i reati commessi dall’organo militare nell’espletamento del servizio - “on official duty” -, veniva limitato
rispetto al principio di territorialità: “accanto alla già esclusiva giurisdizione della bandiera, è riconosciuta quella dello Stato di soggiorno”, prevedendo l’art. VII del Trattato Nord Atlantico un più sofisticato sistema di riparto e regolamentazione delle priorità fra le due giurisdizioni concorrenti.
E in tal senso si sono altresì pronunciati sia la Corte costituzionale (n. 96 del 1973
e n. 446 del 1999), sia taluni giudici di merito (G.i.p. Trib. Trento, 13/7/1998, Ashby e
altri, nel caso Cermis, in Cass. pen., 1999, 3588).
3.- La “legge della bandiera” (“nello zaino”).
317
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
Con riguardo alla frammentarie declinazioni dei moderni modelli delle missioni di pace istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite sono cresciute - come si è detto - le difficoltà di identificazione del quadro delle fonti normative, nazionali o internazionali, applicabili alle condotte penalmente illecite del personale dei plurimi
contingenti militari, operanti anche per conto di organismi sopranazionali, e ciò soprattutto in considerazione della multinazionalità della forza impiegata in una medesima missione, della portata del mandato internazionale che ne legittima l’operato, del tipo e dell’effettività della catena di comando, del ruolo delle regole d’ingaggio e di altre variabili, anche in rapporto alla singola o alle diverse nazionalità dei
militari autori dell’illecito e al margine di applicazione riservato alla giurisdizione
locale.
Trova oggi, pertanto, ampia diffusione la prassi internazionale di disciplinare
pattiziamente il dispiegarsi di immunità funzionali e il sistema di riparto della giurisdizione penale, mediante un nucleo di norme regolatrici dello status del personale
dei contingenti militari impegnati nelle operazioni militari all’estero, incorporate in
più ampi accordi stipulati fra gli Stati contribuenti alla Forza Multinazionale e lo Stato di soggiorno delle truppe: accordi bilaterali o multilaterali denominati SOFAs - Status of Forces Agreements -, diretti a risolvere i problemi che possono insorgere dalla convivenza delle leggi dello Stato di invio e di quello di destinazione in ordine alle condotte criminose poste in essere dal personale della Forza Multinazionale nell’espletamento del servizio.
Assume indubbio rilievo, in questa logica consensuale, il modello di riferimento
per la stesura di siffatti accordi costituito dal Mode! SOFA ONU (Mode! status-offorces agreement for peace-keeping operations) adottato dalle Nazioni Unite nel 1990
(Rapporto del Segretario Generale, Doc. A/45/594, 9 ottobre 1990), che statuisce l’immunità dalla giurisdizione locale e la competenza esclusiva sui militari dello Stato
di appartenenza per ogni reato commesso nello Stato di destinazione, nel corso di
un’attività finalizzata all’adempimento dei propri doveri, escludendo radicalmente
la competenza di quest’ultimo (art. VI, § 46, 47-b, 48), seguito dal Mode! Agreement
del 1991 tra l’ONU e i Paesi membri che contribuiscono al personale delle missioni
(Doc. A/46/1 85, 23 maggio 1991, art. VIII).
A siffatto modello sembra sostanzialmente ispirarsi, d’altra parte, anche la specifica disciplina dettata dalla Risoluzione n. 1546 del Consiglio di Sicurezza, dalle
annesse lettere 5/6/2004 del Primo Ministro iracheno e del Segretario di Stato USA
e dalle disposizioni dell’Order n. 17, sopra richiamate, circa lo status, le immunità
e la giurisdizione esclusiva dello Stato d’invio del personale della MNF (c.d. SOFA
Iraq).
Gli accordi bilaterali o multilaterali detti SOFAs, anche nella più articolata versione di una regolamentazione del riparto e della priorità della giurisdizione (quali
esempi di “shared jurisdiction”, v. l’art. VII dell’Accordo di Londra del 1951 tra i
Paesi della NATO e l’art. 17 del Model SOFA UE stipulato il 17 novembre 2003 tra
4.- I SOFAs (Status of Forces Agreements): il SOFA Iraq.
318
gli Stati membri dell’Unione Europea), sono diretti, pertanto, a disciplinare, convenzionalmente e nel dettaglio, i rapporti per così dire “verticali” tra lo Stato di invio e lo Stato di destinazione, escludendo, in linea di principio, la competenza “territoriale” di quest’ultimo in favore dell’esclusiva giurisdizione “attiva” dello Stato
di appartenenza per i fatti illeciti commessi nell’espletamento del servizio dai componenti del contingente militare.
E però, nonostante la tendenziale riserva di giurisdizione a favore dello Stato
d’invio rivelata dalle prassi internazionali, non è dato ancora ravvisare l’esistenza di
un riconosciuto principio consuetudinario internazionale ovvero di accordi ad hoc o
SOFAs, che dettino speciali ed esplicite regole di riparto “orizzontale” della giurisdizione fra gli Stati partecipanti alla Coalizione o alla Forza Multinazionale operante nel territorio di un altro Stato.
S’intende dire, in altre parole, che non risulta affermato con chiarezza nel sistema di diritto internazionale lo status dei contingenti multinazionali nei loro rapporti reciproci, né tantomeno l’esclusiva attribuzione della giurisdizione allo Stato
di appartenenza di ciascun contingente militare, con carattere di prevalenza su ogni
altro criterio concorrente di collegamento, come quello della giurisdizione “passiva”, neppure nei più drammatici casi - come nella specie - di “danni collaterali” o
di “fuoco amico”, cioè di condotte criminose, dolose o colpose, in danno di membri
del contingente militare o comunque cittadini di altro Stato, contribuente e alleato
nella medesima missione di pace: zone grigie, queste, caratterizzate dall’emersione
di problematiche nuove e controverse per l’evidente coinvolgimento di una pluralità di ordinamenti.
Donde l’irrilevanza, ai fini della controversa questione di giurisdizione, del problema attinente alla pretesa natura self-executing, o non, nell’ordinamento italiano
della Risoluzione del Consiglio Sicurezza n. 1546 del 2004, pur dovendosi rilevare
che l’opzione negativa sembra preferibile alla luce della prassi legislativa italiana che
richiede una norma di adattamento interno, soprattutto se ne debbano conseguire effetti indiretti in materia
penale, ostandovi la riserva di legge ex art. 25, 2° comma Cost. (Cass., Sez. I,
8/7/1994, Barcot, in Giur. it., 1995, II, 232).
5.- L’immunità funzionale (ratione materiae) degli organi
dello Stato estero.
Anche per quest’aspetto, dunque, in assenza di una solida e riconosciuta consuetudine o di convenzioni internazionali, bilaterali o multilaterali, che disegnino
con chiarezza “the legal framework”, per quanto riguarda lo status del personale e
la sorte delle relazioni “orizzontali” fra gli Stati contribuenti alle missioni internazionali di pace, si rivela inadeguata l’analisi condotta dalla Corte d’assise per giustificare la soluzione ostativa, nel caso di specie, all’operatività del criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” dello Stato italiano ex artt. 8 e 10 del codice penale (dovendosi escludere, in ogni caso, l’applicabilità dell’art. 13 d.l. n. 3 del
319
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
2005, conv. in l. n. 37 del 2005, atteso che nessuno dei cittadini italiani coinvolti
nei tragici eventi cagionati dall’azione militare del Lozano partecipava alla missione
di pace in Iraq, essendo il Calipari e il Carpani funzionari del Sismi incaricati ad
hoc della liberazione della Sgrena, giornalista sequestrata da terroristi iracheni).
Ritiene, invece, questa Corte che il fondamento del primato esclusivo della
giurisdizione “attiva” degli USA debba rinvenirsi nel principio consuetudinario di
diritto internazionale che sancisce la “immunità funzionale” (ratione materiae), dalla giurisdizione interna dello Stato straniero, nella specie quello italiano, dell’individuo-organo il quale, come l’imputato Lozano, soldato del contingente militare statunitense facente parte della MNF, operante in Iraq sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ma sotto il “controllo effettivo” della struttura di comando dello Stato d’invio (v., in proposito, Corte eur. d. uomo, 31/5/2007, nei casi Behrami e Saramati c. Francia), abbia agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni di guardia e di controllo a un posto di blocco.
Costituisce, infatti, principio di fonte internazionale consuetudinaria, universalmente accettato dalla prevalente dottrina e dalle prassi giurisprudenziali, nazionali e internazionali, recepito nell’ordinamento giuridico italiano siccome norma di
diritto internazionale generale preesistente (Corte cost., n. 48 del 1979), in forza dell’adeguamento automatico disposto dall’art. 10, 1° comma, Cost., e prevalente, in
quanto tale, sui criteri di collegamento delineati dalle norme statali anche di fonte
penale, quello per cui sono sottratti alla giurisdizione civile o penale di uno Stato
estero i fatti e gli atti eseguiti iure imperii dagli individui-organi di un altro Stato
nell’esercizio dei compiti e delle funzioni pubbliche ad essi attribuiti.
L’esistenza di una siffatta norma consuetudinaria di diritto internazionale e la
sua operatività nel nostro ordinamento non sono revocabili in dubbio, poiché il principio della immunità funzionale, pure nella nozione “ristretta” o “relativa”, limitata cioè alle sole attività che, a differenza di quelle “iure gestionis”, sono espressione diretta e immediata della funzione sovrana degli Stati, tra le quali ontologicamente rientrano le attività eseguite nel corso di operazioni militari, ha trovato ampio e incontroverso riconoscimento, fin dal risalente e famoso caso McLeod del 29
dicembre 1837, sia nella dottrina che nella giurisprudenza, interna e internazionale.
A conforto della tesi della permanente validità del principio dell’immunità dalla giurisdizione civile per questa tipologia di atti possono richiamarsi, oltre la costante giurisprudenza nazionale di legittimità (Cass., Sez. Un. civ., nn. 14199 e 14201
del 2008, n. 11255 del 2005, n. 5044 del 2004, n. 8157 del 2002, n. 530 del 2000),
le pronunzie di altre Corti supreme europee (17/7/2002 della Corte Suprema greca,
26/6/2003 della Corte federale di cassazione tedesca, 16/12/2003 della Corte di cassazione francese, 14/6/2006 della House of Lords inglese, nel caso Jones), gli arresti della Corte europea dei diritti dell’uomo (21/11/2001, Al Adsani c. Regno Unito, 12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006, Markovic c. Italia), la decisione 29/10/1997 del Tribunale penale internazionale per la ex Jugosla-
320
via, caso Bla?ki? (subpoena) e, infine, la più recente pronunzia della Corte internazionale di giustizia, 4/6/200 8, Gibuti c. Francia, § § 185, 194- 196 (cui adde, della stessa Corte, la sent. 14/2/2002, Repubblica democratica del Congo c. Belgio, caso del Mandato d’arresto dell’1 1/4/2000 nei confronti dell’ex Ministro degli esteri Yerodia, § 58).
La regola (autonoma e distinta da quella sulla “immunità personale” o ratione personae, di cui beneficiano tradizionalmente alcuni organi dello Stato, temporaneamente ma per qualsiasi atto da essi compiuto finché rivestono il relativo ruolo,
perciò insuscettibile di interpretazioni estensive o analogiche: Cass., Sez. III,
17/3/1997 n. 1011, P.M. in proc. Ghiotti, rv. 210861; Sez. III, 17/9/2004 n. 49666,
P.M. in proc. Djukanovic, rv. 230222), costituisce il naturale corollario del principio, pure consuetudinario, sull’immunità “ristretta” degli Stati dalla giurisdizione
straniera per la responsabilità civile derivante da attività di natura ufficiale, iure imperii, materialmente eseguite dai suoi organi.
Ogni Stato, indipendente e sovrano, è libero di stabilire la propria organizzazione interna e individuare le persone autorizzate ad agire per suo conto, sicché, una
volta determinate la qualità di organo e la sua competenza, le relative condotte individuali esprimono l’esercizio di una funzione pubblica e sono imputabili allo Stato,
comportandone, senza indebite interferenze da parte dei tribunali di un altro Stato,
solo la responsabilità per l’eventuale illecito internazionale da far valere nei rapporti fra lo Stato leso e lo Stato responsabile, a garanzia dell’assetto strutturale della stessa comunità e delle relazioni internazionali nel rispetto delle reciproche sovranità fra
gli Stati (“par in parem non habet imperium/jurisdictionem”).
Va sottolineato altresì che l’immunità, quale regola generale (nei procedimenti
civili), è enunciata sia nella Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 16
maggio 1972, sia nella più recente Convenzione di New York sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 dicembre 2004 (entrambe non ratificate dall’Italia), redatte secondo il
metodo della “lista” delle “commercial exceptions” con riguardo ad attività di tipo
privatistico.
Restano comunque escluse dalla c.d. tort exception, e perciò dalla sfera di applicazione di entrambe le Convenzioni, le azioni o le omissioni produttive di lesioni personali e danni, imputabili alle forze armate di uno Stato straniero stanziate sul
territorio di altro Stato, vieppiù in situazioni di conflitto armato, che continuano ad
essere regolate da “the rules of customary international law” (v. l’art. 12 della Convenzione di New York, sulla base dell’opinione resa dal Prof. G. Hafner, Presidente
del Comitato ad hoc incaricato di redigere la Convenzione, alla Sesta Commissione
dell’Assemblea generale il 25/10/2005, e l’art. 31 della Convenzione di Basilea).
Il principio dell’immunità funzionale sembra, infine, espressamente confermato dallo Statuto della Corte penale internazionale (ratificato dall’Italia con legge
12/7/1999, n. 232), che, pur sancendo l’irrilevanza delle qualifiche ufficiali e delle immunità delle persone chiamate a rispondere davanti ad essa (art. 27), esige peraltro la
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
cooperazione o il consenso dello Stato terzo o dello Stato d’invio per la rinunzia all’immunità e per la consegna da parte dello Stato territoriale della persona ricercata, come nel caso di militare appartenente al contingente dello Stato d’invio (art. 98).
E’ peraltro ricostruibile una più recente tendenza evolutiva, sia nella dottrina
internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della giurisprudenza interna,
diretta a contrastare la più ampia applicazione della regola consuetudinaria sull’immunità dello Stato estero, relativamente alla responsabilità civile derivante dall’attività illecita compiuta iure imperii da un suo organo, oltre che sull’immunità dalla giurisdizione penale dell’individuoorgano autore del medesimo illecito, prospettandosene la “cedevolezza” laddove gli atti siano stati eseguiti in violazione di norme di
diritto internazionale cogente, come in tema di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo,
per essersi l’individuo-organo reso colpevole di “crimini internazionali”, a garanzia
di valori fondanti la comunità internazionale nel suo insieme.
D’altra parte, pur dovendosi dare atto della prevalenza dell’opposta tesi, che
al più ammette deroghe solo di fonte convenzionale, come per il genocidio o la tortura, alla dottrina dell’immunità dello Stato, “as the current rule of public international law” (House of Lords, 14/6/2006, nel caso Jones, e 24/3/1999, nel caso Pinochet III; Corte suprema d’Irlanda, 15/12/1995, nel caso McElhinney; Corte suprema
dell’Ontario, 1/5/2002, nel caso Bouzari; C. eur. d. uomo, 21/11/2001, Al Adsani c.
Regno Unito, 21/11/2001, McElhinney c. Irlanda, 12/12/2002, Kalogeropoulou c. Grecia e Germania, 14/12/2006, Markovic c. Italia; C.I.G., 14/2/2002, caso del Mandato d’arresto, § 58; Trib. pen. intern. per la ex Yugoslavia, 10/12/1998, caso Furund?ija),
merita di essere sottolineato che nelle più attente decisioni della Corte europea dei
diritti dell’uomo (21/11/2001, Al Adsani e 12/12/2002, Kalogeropoulou, citt.) si avverte, tuttavia, che ciò “does not preclude a development in customary international
law in the future”.
Può pertanto ritenersi (condividendosi, sul punto, le lucide argomentazioni dei
più recenti arresti delle Sezioni Unite civili: n. 5044 del 2004, nn. 14199 e 14201 del
2008, citt.) che sia “in via di formazione” una consuetudine internazionale la quale,
in considerazione del carattere cogente e imperativo delle norme di diritto internazionale umanitario (“peremptory norms of general international law”, nella dizione
dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati),
che impongono il rispetto dei diritti umani fondamentali, e della concreta lesività di
“valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”, è diretta a limitare l’immunità dalla responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur nell’esercizio di un’attività iure imperii, come in situazioni belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravità tale da “minare le fondamenta stesse della coesistenza tra i popoli” (Corte cost. di Ungheria, n. 53 del 1993), configurabili perciò come “crimini internazionali”.
D’altra parte, anche sul diverso piano del regime della responsabilità penale
6.- “Immunità funzionale”, “crimini internazionali” e “jus cogens”.
322
individuale per talune fattispecie di crimini contro l’umanità, crimini di guerra o atti di genocidio commessi dall’individuo-organo di uno Stato estero, pure nell’esercizio di funzioni ufficiali, questa Corte suprema ha affermato, in armonia con le risalenti decisioni pronunziate nei confronti di criminali nazisti dai Tribunali militari
internazionali di Norimberga e Tokyo, dalla Corte suprema israeliana il 29/5/1962
nel caso Eichmann e da altre Corti supreme interne, l’imprescrittibilità dei reati e, in
considerazione del criterio di collegamento della nazionalità delle vittime o del luogo di commissione del delitto ovvero in forza della universalità della giurisdizione
ex art. 7 n. 5 cod. pen., ha ritenuto pacificamente sussistente la giurisdizione passiva o per taluni versi universale. E ciò sull’assorbente rilievo che l’esecuzione di un
barbaro eccidio di prigionieri inermi, in violazione del diritto bellico e dei più elementari principi umanitari dello jus gentium, nel pur inadeguato quadro di riferimento
vigente all’epoca dei fatti (Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulle leggi e gli
usi di guerra terrestre e marittima), anteriore al regime delle regole del diritto umanitario bellico di cui alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai due Protocolli
addizionali del 1977, recava ontologicamente “le stimmate” della riconoscibile contrarietà ai più elementari principi di umanità e della clamorosa criminosità dello sterminio di massa (Trib. Supr. Mil., 25/10/1952, Kappler; Cass., Sez. I pen., 16/11/1998
n. 1230, Priebke e Hass, per l’eccidio delle Fosse Ardeatine; Sez. I pen., 8/11/2007
n. 4060/08, Sommer, per la strage di Sant’Anna di Stazzema).
Dalla parallela e antinomica coesistenza nell’ordinamento internazionale dei
due principi, entrambi di portata generale, consegue, come logico corollario, che l’eventuale conflitto, laddove essi vengano contemporaneamente in rilievo, debba risolversi sul piano sistematico del coordinamento e sulla base del criterio del bilanciamento degli interessi, dandosi prevalenza al principio di rango più elevato e di jus
cogens, quindi alla garanzia che non resteranno impuniti i più gravi crimini lesivi dei
diritti inviolabili di libertà e dignità della persona umana, “per il suo contenuto assiologico di meta-valore” nella comunità internazionale, rispetto agli interessi degli
Stati all’uguaglianza sovrana e alla non interferenza, rappresentando la violazione
di quei diritti fondamentali “il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità”, in altre parole l’ “abuso di sovranità” dello Stato.
Occorre pertanto chiedersi, a questo punto, se nella vicenda omicidiaria de qua
possa, o non, ravvisarsi un crimine internazionale, idoneo a paralizzare, insieme con
l’immunità funzionale dell’imputato, l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice penale italiano, essendosi già rimarcato come l’applicazione delle norme di diritto internazionale umanitario, incluse quelle della Convenzione di Ginevra, prevista in via generale per le operazioni multinazionali di pace su mandato o autorizzazione delle Nazioni Unite (Bollettino del Segretario Generale, 6 agosto 1999), costituisca oggetto di specifiche clausole della Risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1546 del 2004 e dell’annessa lettera di Powell: donde l’irrilevanza, a tal fine,
7.- La non configurabilità, nella specie, del “crimine di guerra”.
323
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
della definizione della situazione irachena, almeno a far data dalla fine dell’occupazione militare in senso stretto, come conflitto armato internazionale o non internazionale.
Si osserva in dottrina - e il rilievo va condiviso - che i crimini individuali di natura propriamente internazionale hanno una struttura complessa, nel senso che essi,
anche se si sostanziano in fattispecie costituenti reati per il singolo ordinamento penale nazionale (es. omicidio), presentano, rispetto agli schemi di parte speciale dei vari codici penali, un quid pluris costituito da uno o più elementi tipici, soggettivi e oggettivi, atti a trasformarli qualitativamente e ad elevarli a rango autonomo di delitti lesivi degli interessi e dei valori della comunità internazionale nel suo insieme.
Dovendosi certamente escludere la configurabilità, nella specie, di un “crimine contro l’umanità”, inserito in un contesto di pratica diffusa e sistematica contro la
popolazione civile di cui l’autore abbia consapevolezza (per la puntuale descrizione
di questa figura, v. l’art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, nonché Trib.
pen. intern. per la ex Yugoslavia, 2/9/1998, caso Akayesu), mette conto di rilevare, quanto alla categoria dei “crimini di guerra”, che si qualificano tali le violazioni gravi (“grave breaches”) del diritto umanitario nei conflitti armati, a tutela della vita e dell’integrità fisica e psichica delle persone, appartenenti in particolare alla popolazione civile, che in quel contesto non prendono parte alle ostilità.
Crimini, quest’ultimi, che, già codificati nelle quattro Convenzioni di Ginevra
del 1949 e nei due Protocolli addizionali del 1977 (ratificati dall’Italia con leggi, rispettivamente, del 27/10/1951 n. 1739 e dell’1 1/12/1985 n. 762), sono altresì analiticamente indicati nel dettagliato elenco di cui all’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, e la cui repressione è affidata sia alle giurisdizioni penali interne
degli Stati contraenti (sulla base dei tradizionali criteri della territorialità, della personalità attiva o passiva e della universalità), sia ai Tribunali penali internazionali ad
hoc (per la ex Yugoslavia e per il Ruanda) sia alla Corte penale internazionale.
In particolare, mette conto di rilevare che: è espressamente vietato dall’art. 3
comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, nei confronti dei civili e delle persone
che non partecipano direttamente alle ostilità, l’omicidio in tutte le sue forme (“murder of all kinds”: § 1 a); l’art. 147 della IV Convenzione annovera nella lista delle infrazioni gravi, per le quali il precedente art. 146 impegna le Parti contraenti a deferirne gli autori ai propri tribunali o a consegnarli ad un’altra Parte interessata al procedimento (“aut dedere aut judicare”, secondo il principio di complementarità della giurisdizione), l’omicidio intenzionale (“wilful killing”); infine, l’art. 85 del I Protocollo addizionale qualifica infrazioni gravi gli atti commessi intenzionalmente che provochino la morte o lesioni gravi all’integrità fisica o alla salute di persone coinvolte
in attacchi alla popolazione civile.
L’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale statuisce, a sua volta, che
s’intendono per “crimini di guerra” (per cui la Corte ha competenza a giudicare, in
particolare se commessi come parte di un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala) gli atti posti in essere contro le persone protette dalle norme delle Convenzioni di Ginevra, costituenti “gravi
324
violazioni”, fra i quali l’ “omicidio intenzionale” (2)(a)(i) e, nei conflitti armati internazionali, “dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipano direttamente alle ostilità” (2)(b)(i), o, nei conflitti armati non di carattere internazionale escluse le situazioni interne di disordini e tensioni -, le gravi violazioni dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, fra le quali gli “atti di violenza contro la vita e l’integrità della persona, in particolare tutte le forme di omicidio” (2)(c)(i), o “dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che non partecipino direttamente alle ostilità”
(2)(e)(i): fattispecie, queste, per le quali si esige, quale indefettibile elemento costitutivo, la consapevolezza da parte dell’autore del crimine delle circostanze fattuali che
fissano lo stato di protezione della vittima secondo le leggi internazionali regolatrici
del conflitto armato.
Orbene, ritiene questa Corte, ai fini della dedotta questione di giurisdizione, che
sia evidente la sproporzione di scala fra la vicenda in esame (nei termini fattuali della imputazione omicidiaria contestata al Lozano, come stabilizzatasi all’esito dell’udienza preliminare) e le caratteristiche soggettive ed oggettive del “crimine di guerra”, con riguardo sia alla definizione di “grave breaches” nelle citate norme di diritto umanitario dei conflitti armati, sia alle più recenti prassi giurisprudenziali interne
(per l’Italia, v. G.u.p. Trib. mil. Roma, 9/5/2007, nel caso di uso delle armi da parte di
militari italiani di stanza in Iraq contro un’ambulanza irachena e il personale addetto,
con la conseguente uccisione di civili; per la Spagna, v. Tribunal Supremo, 11/12/2006
e Audiencia Nacional, 13/5/2008, nel caso dell’attacco intenzionale e indiscriminato
da parte di un carro armato statunitense contro l’Hotel Palestine a Baghdad, ove erano notoriamente alloggiati giornalisti della stampa internazionale, con la conseguente uccisione di un giornalista spagnolo José Manuel Couso).
Sembrano ostare, in linea di principio, alla configurabilità di un odioso e inumano atto ostile contro civili e quindi del “crimine di guerra”, nonostante l’indubbia
tragicità degli eventi lesivi in danno di persone estranee al conflitto armato iracheno,
la concreta dimensione storico-fattuale dell’episodio (l’approssimarsi del veicolo, con
a bordo i due funzionari italiani e la giornalista liberata, in avvicinamento veloce al
posto di blocco per raggiungere l’aeroporto militare di Baghdad; la localizzazione del
checkpoint all’intersezione fra due strade di accesso all’aeroporto, già oggetto di ripetuti attacchi terroristici; la situazione obiettiva di massima allerta dei soldati in servizio al posto di blocco, in attesa del corteo dell’ambasciatore USA in Iraq; l’ora notturna) e il carattere isolato e individuale dell’atto. E ciò a prescindere da ogni valutazione di merito, in questa sede inammissibile, circa la pur richiesta, piena consapevolezza - da parte dell’autore - delle circostanze fattuali dalle quali poter desumere lo
statuto di protezione delle vittime, nonché in ordine alla effettiva necessità militare e
alla proporzionalità dell’attacco, e alla corretta osservanza degli ordini e delle regole
d’ingaggio.
D’altra parte, non può affatto considerarsi priva di significato la circostanza che
neppure la pubblica accusa ha mai preso in considerazione l’ipotesi che nella vicenda in esame potesse configurarsi un “crimine di guerra”.
325
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
Il reato di omicidio di Calipari e di tentato omicidio di Carpani e Sgrena è stato invero qualificato dal pubblico ministero prima come delitto “comune” e poi come delitto “politico”, commesso dallo straniero all’estero a danno dello Stato e di
cittadini italiani, con riferimento alle specifiche condizioni di procedibilità richieste,
rispettivamente, dagli artt. 10 e 8 cod. pen., ma non con riguardo allo spazio di tutela incondizionata consentito dal principio di universalità di cui all’art. 7 n. 5 cod. pen.,
qualora si fosse invece ravvisata la natura internazionale del delitto secondo la IV Convenzione di Ginevra del 1949.
Nessun cenno al preteso “crimine di guerra” è dato altresì rinvenire nei pur diffusi e articolati motivi di ricorso per cassazione proposti avverso la sentenza impugnata dal Procuratore Generale e dal Procuratore della Repubblica di Roma (cui l’Avvocatura dello Stato si è limitata a prestare adesione).
A conclusione delle suesposte considerazioni, riguardo al quesito sottoposto al
vaglio di questa Corte (enunciato retro, sub 1), può affermarsi il seguente principio
di diritto: “Non sussiste la giurisdizione penale dello Stato italiano né quella dello
Stato territoriale, bensì quella esclusiva degli USA, Stato di invio del personale militare partecipante alla Forza Multinazionale in Iraq, in applicazione del principio
di diritto internazionale consuetudinario della ((immunità funzionale) o ratione materiae dell’individuo-organo dello Stato estero dalla giurisdizione penale di un altro
Stato, per gli atti eseguiti iure imperii nell’esercizio dei compiti e delle funzioni a lui
attribuiti: principio non derogabile, nella specie, per l’assenza nelle circostanze e
modalità del fatto contestato delle caratteristiche proprie della ((grave violazione))
del diritto internazionale umanitario, con particolare riguardo alla non configurabilità nel caso concreto di un (crimine contro l’umanità) o di un (crimine di guerra)”.
Di talché, attesa la priorità esclusiva della giurisdizione degli Stati Uniti in ordine alla fattispecie criminosa de qua, resta assorbita la questione riguardante la verifica dell’avvenuto, effettivo, esercizio da parte dello Stato d’invio, della giurisdizione penale nei confronti del Lozano: giurisdizione che, secondo il parere del Prof.
Lederer, sarebbe stata comunque attivata nei termini e con le modalità propri del sistema di giustizia penale militare statunitense, concludendosi con una pronuncia analoga ad una sorta di provvedimento di non luogo a procedere, sull’assunto che il soldato avesse agito (”cercando di neutralizzare il veicolo che si stava avvicinando e che
era stato percepito dalle forze come una minaccia”: nota 19/4/2006 del direttore della divisione criminale, ufficio affari internazionali, del Dipartimento della Giustizia
USA) in conformità alle regole d’ingaggio previste per le operazioni di guardia e di
controllo al posto di blocco.
Risulta parimenti assorbita l’ulteriore questione in rito, anch’essa pregiudiziale, cui si fa cenno nella narrativa della sentenza impugnata e che è desumibile dagli
atti, circa la sussistenza, per il delitto in esame, di una valida condizione di procedi8.- Le statuizioni decisorie.
326
bilità, pur dovendo la Corte sottolineare l’anomalia procedimentale per cui, a fronte
della formale richiesta 8/3/2005 del Ministro della Giustizia di procedere contro ignoti in ordine a tale delitto, ai sensi dell’art. 10 cod. pen. (delitto “comune” commesso
dallo straniero all’estero, per cui occorre l’ulteriore presupposto che egli si trovi nel
territorio dello Stato), il G.u.p. del Tribunale di Roma, nel disporre il rinvio a giudizio del Lozano con decreto del 7/2/2007, ha qualificato lo stesso, secondo la concorde
prospettazione del P.M. e delle PP.CC. circa l’avvenuta lesione di interessi politici
dello Stato, sottesi all’incarico governativo di ottenere la liberazione della giornalista rapita, come delitto “oggettivamente politico”, per la cui procedibilità, a differenza
del delitto comune, l’art. 8 cod. pen. non prescrive, oltre la richiesta del Ministro della Giustizia, la necessaria presenza dello straniero nel territorio nazionale.
In definitiva, la declaratoria di non doversi procedere nei confronti del Lozano per difetto della giurisdizione penale italiana va confermata, pur con le opportune rettificazioni, nei termini suesposti, del percorso giustificativo delle ragioni della
decisione impugnata
(0missis).
(1) Il caso Nicola Calipari - seconda parte
Avv. Caterina Di MARZIO
on la sentenza n. 31171 del 24 Luglio 2008, la Suprema Corte di Cassazione ha con-
fermato la declaratoria di non doversi procedere pronunciata dalla terza sezione della Corte d’Assise di Roma, che, con la sentenza del 25 ottobre 2007, ha assolto, per difetto della giurisdizione penale italiana, il soldato del contingente militare statunitense,
Mario Luiz Lozano, dislocato con la Forza Multinazionale in territorio iracheno, per i
delitti di omicidio e tentato omicidio commessi, il 4 marzo 2005, in danno dei due funzionari italiani del SISMI lì in missione, Nicola Calipari e Andrea Carpani, e della giornalista del “Manifesto” Giuliana Sgrena, esplodendo numerosi colpi d’arma da fuoco
contro l’autovettura sulla quale essi viaggiavano.
La Suprema Corte di legittimità, chiamata a rispondere al quesito se, con riferimento alla drammatica vicenda occorsa, sussista o meno la giurisdizione penale dello
Stato italiano, dopo aver puntualmente ricostruito il contesto storico-ordinamentale vigente in Iraq al momento dei fatti, ha sottoposto a critica le argomentazioni giuridiche
poste a fondamento della decisione della Corte di Assise di Roma.
Nello specifico, la Corte di Cassazione prende atto del modulo organizzativo, multinazionale e multifunzionale, proprio della missione di pace autorizzata dalle Nazioni
Unite in Iraq, difficilmente riconducibile ai classici schemi di occupazione bellica elaborati nel passato. Nonché ha ritenuto che lo stazionamento sul territorio iracheno di
contingenti militari appartenenti alla MNF - tenuto conto del contesto storico e interna-
C
327
RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
zionale in cui le operazioni di intervento erano inserite - si collocasse, almeno a partire dalla Risoluzione n. 1546, nell’ambito delle missioni di pace (peace support operations) delle Nazioni Unite, definite, di volta in volta, peace-keeping, peace-building o
peace-enforcement, a seconda del prevalere di taluni aspetti (la sicurezza, la stabilità,
la tutela dei diritti umani ecc.) rispetto al mero mantenimento della pace.
Missioni tutte caratterizzate, peraltro - nonostante il moltiplicarsi e la diversità
delle situazioni di crisi internazionali, anche non belliche o postbelliche - dal consenso
dello Stato ospitante (Host State), dal significativo impiego di personale militare da parte degli Stati contribuenti (Sending States) e, infine, dalla pluralità e complessità delle
funzioni e degli obiettivi perseguiti anche di polizia internazionale, sulla base del meccanismo previsto dal cap. VII della Carta delle Nazioni Unite.
Ma, seppur concordando con il Giudice di prime cure nelle conclusioni cui giunge, la Corte ha ritenuto, assolutamente inadeguato il riferimento normativo adottato dalla Corte d’assise di Roma che, al fine di paralizzare l’operatività, nel caso di specie, del
criterio di collegamento della giurisdizione “passiva” dello Stato italiano, giusta la nazionalità delle vittime del fatto criminoso (artt. 8 e 10 cod. pen.; art. 13 d.l. 19/1/2005
n. 3, conv. in l. 18/3/2005 n. 37), si è ispirata al principio internazionale consuetudinario, c.d. “legge della bandiera”, universalmente riconosciuto e direttamente applicabile in virtù dell’art. 10, 1° comma, Cost., che attribuisce in via esclusiva allo Stato di invio del contingente militare all’estero, in caso di occupazione bellica o non, transito e
stazionamento di truppe straniere sul territorio di uno Stato, la giurisdizione civile e penale per gli illeciti commessi dal proprio personale in quel territorio.
La Corte non ha ritenuto tale principio, decisivo allo scopo, in ragione del fatto
che l’evolversi dei rapporti internazionali dopo il secondo conflitto mondiale, con la
conseguente creazione di basi permanenti nel territorio di altri Stati, ne ha determinato
la progressiva limitazione, a vantaggio di un più sofisticato sistema di riparto e regolamentazione delle priorità fra giurisdizioni concorrenti (v. ad es. art. VII del Trattato Nato).
Vieppiù. Oggi trova ampia diffusione, nella prassi internazionale, disciplinare pattiziamente il dispiegarsi di immunità funzionali e il sistema di riparto della giurisdizione
penale, mediante un nucleo di norme regolatrici dello status del personale dei contingenti militari impegnati nelle operazioni militari all’estero, ricorrendo ad accordi - bilaterali o multilaterali - stipulati fra gli Stati contribuenti alla Forza Multinazionale e lo
Stato di soggiorno delle truppe.
E nonostante, tali accordi, denominati SOFAs - Status of Forces Agreements - mirino a risolvere i problemi che possono insorgere dalla convivenza delle leggi dello Stato di invio e di quello di destinazione in ordine alle condotte criminose poste in essere
dal personale della Forza Multinazionale nell’espletamento del servizio, la Corte non
ha ritenuto incisivo, nella risoluzione della controversia, il regime di immunità dalla giurisdizione di cui alla Risoluzione n. 1546 dell’8 Giugno 2004 del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, che sostanzialmente si ispira al citato modello.
Ciò in quanto – sostiene la Corte - tale modello si risolve in una disciplina dei
328
rapporti, “verticali”, tra Stato di invio e Stato di destinazione, piuttosto che in una regolamentazione chiara, nell’ambito del sistema di diritto internazionale, dello status dei
contingenti multinazionali nei loro rapporti reciproci, né si risolve nell’attribuire, con
carattere di esclusività, la giurisdizione allo Stato di appartenenza di ciascun contingente
militare, con carattere di prevalenza su ogni altro criterio concorrente di collegamento.
Pertanto, nella necessità di mediare tra la attuale frammentarietà delle declinazioni dei moderni modelli delle missioni di pace istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite e la doverosa – ma difficoltosa - identificazione del quadro delle fonti normative, nazionali o internazionali, applicabili alle condotte penalmente illecite del personale dei
plurimi contingenti militari, operanti anche per conto di organismi sopranazionali, soprattutto in considerazione della multinazionalità della forza impiegata in una medesima missione, della portata del mandato internazionale che ne legittima l’operato, del tipo e dell’effettività della catena di comando, del ruolo delle regole d’ingaggio e di altre variabili, anche in rapporto alla singola o alle diverse nazionalità dei militari autori
dell’illecito e al margine di applicazione riservato alla giurisdizione locale, la Corte ha
risolto adducendo le seguenti argomentazioni.
Non ravvedendo la Corte di Cassazione, l’esistenza di una solida e riconosciuta
consuetudine o di convenzioni internazionali, bilaterali o multilaterali, che disegnino
con chiarezza “the legal framework”, per quanto riguarda lo status del personale e la
sorte delle relazioni “orizzontali” fra gli Stati contribuenti alle missioni internazionali
di pace, ha ritenuto che il fondamento del primato esclusivo della giurisdizione esclusiva statunitense fosse da rinvenirsi nel principio che sancisce la “immunità funzionale”, o ratione materiae, dalla giurisdizione interna dello stato straniero, degli atti e fatti eseguiti iure imperii dagli individui-organi nell’esercizio dei compiti e delle funzioni pubbliche ad essi attribuiti.
Il suddetto costituisce principio di fonte internazionale consuetudinaria, universalmente accettato dalla prevalente dottrina e dalle prassi giurisprudenziali, nazionali e
internazionali, recepito nell’ordinamento giuridico italiano come norma di diritto internazionale generale preesistente (Corte cost., n. 48 del 1979), in forza dell’adeguamento automatico disposto dall’art. 10, 1° comma, Cost., e prevalente, in quanto tale,
sui criteri di collegamento delineati dalle norme statali anche di fonte penale.
In ragione di tale criterio, sono sottratti alla giurisdizione civile o penale di uno
Stato estero i fatti e gli atti eseguiti iure imperii, sotto il controllo effettivo della struttura di comando dello Stato di invio - ciò in quanto, trattasi di attività che, a differenza
di quelle “iure gestionis”, sono espressione diretta e immediata della funzione sovrana
degli Stati – tra le quali, ontologicamente, rientrano le attività eseguite nel corso di operazioni militari, ovvero le funzioni di guardia e di controllo ad un posto di blocco.
L’esistenza e vigenza di tale norma consuetudinaria e la sua operatività anche nel
nostro ordinamento non sono poste in dubbio, avendo il principio trovato, da tempo,
ampio e incontroverso riconoscimento.
A conforto della tesi sposata dalla Corte, intervengono, infatti, una serie di pronunce giurisprudenziali di legittimità (vedi Cass., Sez. Unite, nn. 14199 e 14201/2008;
329
n. 11255/2005; n. 5044/2004; n. 8157/2002) nonché diverse pronunce delle Corti Supreme Europee.
Ogni Stato, indipendente e sovrano, è libero di stabilire la propria organizzazione interna e individuare le persone autorizzate ad agire per suo conto. Pertanto, una volta determinate la qualità di organo e la sua competenza, le relative condotte individuali esprimono l’esercizio di una funzione pubblica e sono imputabili allo Stato, comportandone, senza indebite interferenze da parte dei tribunali di un altro Stato, solo la
responsabilità per l’eventuale illecito internazionale da far valere nei rapporti fra lo Stato leso e lo Stato responsabile, a garanzia dell’assetto strutturale della stessa comunità
e delle relazioni internazionali nel rispetto delle reciproche sovranità fra gli Stati.
Tale principio - ritiene la Corte - risulterebbe derogabile soltanto in presenza di
una “grave violazione” del diritto internazionale umanitario, allorquando gli atti siano
stati eseguiti in violazione di norme di diritto internazionale cogente, per essersi reso
colpevole, l’individuo-organo, di “crimini internazionali” ovvero atti violativi dei diritti fondamentali dell’uomo e dei valori fondanti la comunità internazionale nel suo complesso.
Al riguardo, si sta facendo strada una consuetudine internazionale che, in considerazione del carattere cogente e imperativo delle norme di diritto internazionale umanitario (“peremptory norms of general international law”, nella dizione dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati), che impongono
il rispetto dei diritti umani fondamentali quali valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali,, va a limitare l’immunità dalla responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur nell’esercizio di un’attività iure imperii, come
in situazioni belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravità tale da “minare le fondamenta stesse della coesistenza tra i popoli”.
D’altra parte, anche sul diverso piano del regime della responsabilità penale individuale per talune fattispecie di crimini contro l’umanità, crimini di guerra o atti di
genocidio commessi dall’individuo-organo di uno Stato estero, pure nell’esercizio di
funzioni ufficiali, la Corte di legittimità ha più volte affermato l’imprescrittibilità di tali reati e, in considerazione del criterio di collegamento della nazionalità delle vittime
o del luogo di commissione del delitto ovvero in forza della universalità della giurisdizione ex art. 7 n. 5 cod. pen., ha ritenuto pacificamente sussistente la giurisdizione passiva o per taluni versi universale. E ciò in ragione del fatto che l’esecuzione di un barbaro eccidio di prigionieri inermi, “recava ontologicamente le stimmate” della riconoscibile contrarietà ai più elementari principi di umanità.
Attesa la parallela ed antinomica coesistenza nell’ordinamento internazionale dei
due principi, entrambi di portata generale, ne consegue come logico corollario, che l’eventuale conflitto, laddove essi vengano contemporaneamente in rilievo, debba risolversi sul piano sistematico del coordinamento e sulla base del criterio del bilanciamento
degli interessi, dandosi prevalenza al principio di rango più elevato e di jus cogens, quindi alla garanzia che non resteranno impuniti i più gravi crimini lesivi dei diritti inviolabili di libertà e dignità della persona umana, “per il suo contenuto assiologico di me-
330
ta-valore” nella comunità internazionale, rispetto agli interessi degli Stati all’uguaglianza
sovrana e alla non interferenza, rappresentando la violazione di quei diritti fondamentali “il punto di rottura dell’esercizio tollerabile della sovranità”, in altre parole l’“abuso di sovranità” dello Stato.
La Corte è stata chiamata, altresì, a rispondere, alla domanda se nella vicenda omicidiaria de qua, potesse o meno ravvisarsi un crimine internazionale, idoneo a paralizzare, insieme con l’immunità funzionale dell’imputato, anche l’eccezione del difetto di
giurisdizione del giudice penale italiano.
Non si è ritenuto che la vicenda omicidiaria in esame avesse gli elementi tipici,
soggettivi ed oggettivi, dei crimini individuali di natura internazionale, idonei a renderli
delitti lesivi degli interessi e dei valori della comunità internazionale nel suo complesso ovvero si è escluso che si fosse in presenza di un “crimine contro l’umanità”.
Vieppiù. Pur riconoscendo l’indubbia tragicità degli eventi lesivi in danno a persone estranee al conflitto armato iracheno, la Corte ha concluso per l’insussistenza dei
tratti propri del crimine di guerra, non intendendo, l’accadimento occorso, quale “odioso ed inumano atto ostile contro civili”.
Un’autorevole definizione di crimine di guerra è data dal Manuale militare
(2004), pubblicato dal Ministero della difesa britannico, che, riprendendo la giurisprudenza del Tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, definisce “Crimini di guerra” le violazioni serie (serious violations) del diritto umanitario nei conflitti armati.
La Corte ha escluso, sostanzialmente, che fosse, altresì, configurabile nei fatti contestati, anche un “crimine di guerra”, ovvero ha escluso che Mario Luiz Lozano, il militare statunitense, avesse posto in essere un atto che concretizzasse un attacco alla vita ed all’integrità fisica e psichica delle persone appartenenti alla popolazione civile che
in quel dato contesto non prendono parte alle ostilità, definendolo come un “tragico evento”. Ciò in quanto, si è ritenuto che ostino, in linea di principio, alla configurabilità di
un odioso e inumano atto ostile contro civili e quindi del “crimine di guerra”, nonostante
l’indubbia tragicità degli eventi lesivi in danno di persone estranee al conflitto armato
iracheno, la concreta dimensione storico-fattuale dell’episodio (l’approssimarsi del veicolo, con a bordo i due funzionari italiani e la giornalista liberata, in avvicinamento veloce al posto di blocco per raggiungere l’aeroporto militare di Baghdad; la localizzazione del checkpoint all’intersezione fra due strade di accesso all’aeroporto, già oggetto di ripetuti attacchi terroristici; la situazione obiettiva di massima allerta dei soldati
in servizio al posto di blocco, in attesa del corteo dell’ambasciatore USA in Iraq; l’ora
notturna) e il carattere isolato e individuale dell’atto. E ciò a prescindere da ogni valutazione di merito, in questa sede inammissibile, circa la pur richiesta, piena consapevolezza - da parte dell’autore - del Avv. Caterina Di Marzio
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RomanaGIURISPRUDENZA PENALE
temi
Eccezionalita' delle deroghe
nella disciplina di armi ed esplosivi
CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. I – SENT. 4 DICEMBRE 2007,
N. 44991 - PRES. SILVESTRI, EST. GIORDANO
La deroga stabilita dall’art. 5 della L. 110/1975 all’obbligo di annotazione nel registro delle operazioni giornaliere di cui all’art. 55 TULPS riguarda solo quelle di
vendita al minuto delle cartucce da caccia a pallini, e non anche le operazioni di acquisto delle stesse da parte dell’esercente l’attività commerciale, e non può dunque
riguardare neppure le operazioni di acquisto delle materie esplodenti occorrenti per
il caricamento delle cartucce. (TULPS art. 55 co. I e V, L. 110/1975, art. 5). (1)
La sentenza così motiva:
(Omissis)
on sentenza in data 10/1/07, emessa in esito a giudizio abbreviato conseguente
a opposizione a decreto penale, il GIP del Tribunale di Terni ha dichiarato C.S.
titolare di una ditta esercente attività di caricamento di cartucce da caccia, colpevole di violazione dell’art. 55 commi 1 e 5 t.u.i.p.s. per- non avere regolarmente tenuto il registro di carico e scarico delle materie esplodenti trattate, non avendo annotato le complete generalità dei fornitori, come richiesto dalla norma, ma solo la ragione sociale delle loro ditte e per tale reato, accertato in Narni il 26/7/05, con le attenuanti generiche l’ha condannata a 1 mese e 10 giorni di arresto (convertiti in curo
520 di ammenda) e 60 euro di ammenda..
Avverso tale pronuncia il difensore dell’imputata ha proposto ricorso per cassazione con il quale deduce violazione di legge in ordine alla ritenuta esistenza degli estremi del reato - sostenendo che la sua assistita, in quanto esercente anche. l’attività di vendita al minuto delle cartucce, non era a norma dell’art. 5 comma 1 legge
18/4/75 n. 110 tenuta a effettuare le registrazioni - e vizio di motivazione comunque
in ordine alle modalità, che si sostiene essere sufficienti, con cui le annotazioni delle varie operazioni erano state eseguite.
II gravame deve essere rigettato, con le conseguenze in ordine alle spese processuali previste dall’art. 616 c.p.p.
II motivo con cui viene posta la questione di diritto è