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(con)textos. revista d’antropologia i investigació social
Número 5. Març del 2011 Pàgines 79-86. ISSN: 2013-0864
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© 2011, sobre l’article, consell de redacció de (con)textos
© 2011, sobre l’edició, Departament d’Antropologia Cultural
i Història d’Amèrica i Àfrica de la Universitat de Barcelona
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L’articolo riporta la rielaborazione di
alcune note di campo stese tra dicembre 2006 e gennaio 2007 durante una
breve ricerca etnografica finalizzata alla
scrittura della mia tesi di laurea specialistica, discussa, a luglio 2007, presso
l’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Nell’articolo descrivo un percorso di ricerca partecipata organizzato con ragazzi
di diverse comunità povere di Santiago de
Los Caballeros (Repubblica Dominicana),
rivolto alla comprensione delle loro
interpretazioni rispetto certe dimensioni
sociali che interessavano il contesto nel
quale vivevano. Il percorso si è servito di
Il laboratorio teatrale
come strumento di
indagine antropologica.
Note di campo a margine di una
ricerca etnografica in Repubblica
Dominicana1
Paolo Grassi
una metodologia laboratoriale di stampo
pedagogico-teatrale, elaborata a partire
da alcune considerazioni avanzate da
Victor Turner nel suo testo del 1982 “Dal
rito al teatro”.
La
specificità
e
la
Università degli Studi di Verona (Italia), dottorando, Primo anno, XXV
ciclo (2010 - 2012)
[email protected] | tel. +39 328/1090626
provocatorietà
dell’esperienza descritta consiste nella
sperimentazione,
seppur
embrionale,
di uno strumento di ricerca alternativo
o
complementare
all’intervista,
che
potrebbe forse contribuire allo sviluppo di
una metodologia della ricerca qualitativa
concentrata non esclusivamente sul linguaggio verbale.
nota etnogràfica
L’articolo che segue nasce da un semplice interrogativo: perché non sperimentare strumenti di ricerca alternativi o complementari all’intervista,
per aiutare il lavoro sul campo dell’antropologo? La proposta descritta
a questo riguardo si rifà ad un’esperienza personale: una breve ricerca
etnografica compiuta in una baraccopoli di Santiago de los Caballeros
(Repubblica Dominicana) tra dicembre 2006 e febbraio 2007, finalizzata alla scrittura della mia tesi di laurea specialistica, discussa presso
l’Università di Milano Bicocca nel luglio del 2007.
1
1
Desidero ringraziare il relatore della mia tesi, prof. Roberto Malighetti, Università degli
Studi di Milano Bicocca, nonché l’Organizzazione non governativa Onè Respe ei suoi
collaboratori, in particolare Mari De Leòn e Roberto Codazzi, Americo Badillo Veiga e
Natacha Calderòn, Ivrance Martine Mezard, Milagros Capellàn per il tempo, il materiale, la pazienza che mi hanno concesso. Ringrazio la famiglia De Leòn tutta, per avermi
accolto durante il mio soggiorno in Repubblica Dominicana. Ringrazio infine il Centro di
RicercheTeatrali di Fagnano Olona (VA), per la cultura trasmessami in ambito teatrale.
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All’interno di tale ricerca ho avuto la possibilità
di organizzare un laboratorio teatrale con bambini e
adolescenti residenti in differenti comunità povere del
quartiere dove stavo operando, il quartiere Gurabo.
Obiettivo principale di tale laboratorio consistette
nell’analizzare il punto di vista dei partecipanti rispetto alla città in cui vivevano, cercando di comprendere
se e come si sentissero o meno inclusi, integrati, parte
di essa. La ricerca che stavo conducendo era infatti rivolta alla comprensione, attraverso l’utilizzo delle categorie antropologiche del confine e della frontiera (AA.
VV. 1991; Barth, 1969; Fabietti 1997; Kopytoff, 1987;
Turner F. J., 1957), del come e del perché si mantenesse (e contemporaneamente venisse continuamente
sfidata e decostruita) una separazione tra una piccola
baraccopoli, chiamata Los Platanitos, e la città all’interno della quale essa si era sviluppata.
Los Platanitos occupa due strisce di terra tra cui
scorre un fiume, il rio Gurabo, incastonata tra altri
settori urbani più ricchi. All’epoca della ricerca vivevano in essa dominicani poveri, soprattutto ex contadini
provenienti dalle colline circostanti la città (la loma)
e migranti haitiani, fuggiti da un paese dilaniato, nel
corso degli anni, da una situazione politica instabile,
guerre civili, estrema povertà (Băez Evertsz, F., 2001;
OIM e FLACSO 2003; NCHR 1996; Wooding, B.,
Moseley-Williams, R., 2004). Los Platanitos presentava una demarcazione spaziale abbastanza delineata,
che la differenziava dal resto del quartiere. Eppure le
persone che vivevano al suo interno interagivano, nella maggior parte dei casi, con l’esterno. Una rete di
relazioni legava attori sociali viventi dentro e fuori la
comunità. Le persone inoltre si spostavano, andando
e venendo da Los Platanitos. Ciò tuttavia non aveva
influito sostanzialmente, almeno nel breve e medio periodo, sulle dimensioni della baraccopoli.
Victor Turner, nel suo testo “Dal rito al teatro”,
auspica, in uno dei capitoli finali, l’utilizzo del teatro
come mezzo di ricerca. La sua idea è quella di un lavoro congiunto tra antropologi ed attori, attraverso
la messa in scena di pratiche rituali e la loro analisi e
Paolo Grassi / nota etnogràfica
discussione alla luce di una maggiore concretezza, veridicità, immedesimazione, che il mezzo teatrale può
offrire allo scienziato sociale (Turner, 1986).
Rimasi colpito da questa possibilità di studio, anche
a causa della mia formazione pedagogica e della mia
successiva specializzazione nel campo dell’educazione
attraverso le arti espressive. Quello che più mi interessava dell’ipotesi, non era tanto la concretizzazione
proposta – che, tra l’altro, sembrava avvicinarsi più ad
un metodo di ricerca empatica dal quale volevo invece
distanziarmi (Malighetti 2004) - quanto lo spunto in sé
fornito dall’autore. In effetti, la potenzialità espressiva
del teatro e, in particolare, l’utilizzo del proprio corpo
finalizzato alla trasmissione di un messaggio, avrebbe
permesso ai ragazzi coinvolti di mettere in gioco dei
vissuti, delle narrazioni, che forse in altro modo non
avrebbero trovato un’esplicitazione così immediata.
L’ipotesi da cui mossi per giustificare la scelta di tale
attività fu quindi abbastanza semplice: se è possibile
considerare il pensiero come attività pubblica (Ryle,
1963), scambiabile intersoggettivamente attraverso
l’espressione, perché non sperimentare un’interazione
che possa unire in modo esplicito e consapevole non
solo il linguaggio verbale, ma anche quello non verbale? Quest’ultima dimensione, infatti, reca anch’essa
un messaggio, di ordine differente dalla prima: metacomunicazionale, ossia riferito ad una comunicazione
sulla comunicazione (Watzlawick, Helmick Beavin,
Jackson, 1971). Il linguaggio non verbale avrebbe permesso di recuperare sfere solitamente poco considerate nelle indagini etnografiche, quelle dell’emozione,
dell’immaginazione, dell’irrazionale, che, attraverso il
corpo, troverebbero una più immediata esplicitazione
(evitando tuttavia, nel rielaborarle, di scadere in inutili
psicologismi). Non che queste sfere siano completamente assenti dal setting classico dell’intervista (Aull
Davies, 1999), ma, certo, l’intensità con cui esse sarebbero potute emergere in un lavoro del genere, sarebbe
stata sicuramente differente.
Il laboratorio teatrale permise quindi di creare
un campo d’azione in cui pronunciarsi liberamente,
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Il laboratorio teatrale come strumento di indagine antropologica
luogo metaforico in cui esperire l’altro (gli abitanti
della comunità, la città, o, perché no, l’antropologo)
e se stessi. In tal senso il laboratorio delimitò uno spazio di partecipazione squisitamente analogico. Cito a
questo proposito la spiegazione che gli autori del testo
“La Pragmatica della Comunicazione” danno di tale
attributo: “Cosa è dunque la comunicazione analogica? La risposta è abbastanza semplice: Praticamente
ogni comunicazione non verbale. Che però è un termine ingannevole perché spesso se ne limita l’uso al
solo movimento del corpo, al comportamento noto
come cinesica. A nostro parere invece il termine deve
includere le posizioni del corpo, i gesti, l’espressione
del viso, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo
e la cadenza delle stesse parole, e ogni altra espressione non verbale di cui l’organismo sia capace, come
pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un’interazione”
(Watzlawick, Helmick Beavin, Jackson, 1971: 53).
La scelta del laboratorio come ambito di incontro e
riflessione su temi ampi sembrava quindi un buon metodo di ricerca e di discussione, adatto anche all’età dei
soggetti in questione. A prescindere dal valore educativo dell’esperienza, ero interessato a capire la percezione che diversi ragazzi avevano dell’ambiente sociale in
cui si trovano inseriti quotidianamente, capire in che
termini vivessero il loro rapporto con Santiago. Il teatro
permise quindi di concretizzare questi discorsi in una
serie di figure precise, favorendone l’argomentazione.
Con l’aiuto di Roberto Codazzi, anch’egli educatore e a quel tempo cooperante italiano per l’organizzazione non governativa locale Onè Respe, la quale lavora da anni all’interno di alcuni tra i settori più poveri
della città, realizzammo vari incontri con ragazzi2 di
diverse comunità: tre con quelli di Los Platanitos, due
con quelli di Los Perez e uno con alcuni del Molino.
La scelta di proporre l’attività a più gruppi di ragazzi
2 I ragazzi avevano tra i quattordici e i venti anni circa. Parteciparono sei ragazzi della comunità il Molino, una dozzina della comunità Los Perez e almeno una ventina di ragazzi di Los Platanitos (divisi in due gruppi più piccoli dal secondo incontro, uno con ragazzi
dai dieci ai quattordici anni, l’altro dai quindici in su).
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fu dettata anche dal fatto di poter disporre di differenti punti di vista sull’argomento. Gli incontri durarono
circa due ore l’uno, divisi in tre momenti ciascuno, secondo la metodologia laboratoriale classica: una fase
di accoglienza in cui veniva presentato l’argomento
della giornata, una fase centrale di attività e una fase
finale di restituzione e discussione (Oliva 1999).
Lavorammo in particolare con due giochi-esercizi,
tratti dal Teatro dell’Oppresso - forma di teatro sviluppatasi in Brasile negli anni ’60 ad opera di Augusto
Boal (Boal, 1993, 2002): un teatro d’avanguardia, sociale, che mira ad una coscientizzazione di chi lo pratica e di chi lo fruisce. Lo spettatore è portato a diventare protagonista dell’azione scenica, la quale diventa
mezzo di riflessione e di rivendicazione per la vita reale. È un teatro ludico, adattabile e flessibile, che dà
visibilità a conflitti ed opposizioni.
Primo di questi esercizi fu il cosiddetto Teatroimmagine, tecnica basata sulla costruzione di alcune
immagini appunto, attraverso l’utilizzo del proprio
corpo (Boal 1993). In pratica chiedemmo ai ragazzi di
comporre delle statue di gruppo che potessero rappresentare differenti situazioni. Ogni attore era chiamato,
singolarmente, a pensare al concetto propostogli, immaginare una posizione corporea che potesse ritrarlo
e, infine, materializzarlo al centro della scena, a contatto con gli altri. Smontata la statua di gruppo seguiva
una fase di rielaborazione, nella quale ognuno degli
attori spiegava cosa avesse voluto comunicare.
Iniziammo dalla raffigurazione di due sentimenti la tristezza e la felicità - più che altro per inserire progressivamente i partecipanti nella dinamica del gioco,
favorendone quindi la riflessione a partire da due concetti più immediatamente esprimibili. Proponemmo
poi di creare due statue che potessero rappresentare
rispettivamente la città di Santiago e la comunità nella
quale i ragazzi vivevano (Los Platanitos, Los Perez e il
Molino).
In generale la città venne raffigurata con alcuni simboli classici del paese, come il ballerino di bachata, o la bandiera dominicana, piuttosto che con
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alcuni monumenti tipici: la torre, la statua di Gregorio
Luperon, la Chiesa dell’Alta Grazia. Accanto a questi
elementi apparvero tuttavia altre realtà, meno solari,
come il lustra scarpe, i venditori ambulanti di succo e
di cibo. Rispetto ai ragazzi di Los Platanitos, in particolare, Roberto Codazzi mi spiegò come essi conoscessero meno la città rispetto, ad esempio, ai ragazzi
del Molino. La loro rappresentazione di Santiago evidenziò tuttavia solo ed unicamente elementi positivi:
la bachata, il merengue, le compere, la festa, il giro in
carrozza. La città sembrava emergere da questo primo
esercizio come qualcosa di lontano, dorato, turistico.
Le statue delle comunità furono create invece a partire da momenti di vita quotidiana, come lo studiare,
o il visitare l’amico, la chiesetta, le scuole dell’organizzazione Onè Respe (le quali, in generale, costituivano
dei punti di riferimento importanti per tutti i residenti).
Elementi eterogenei vennero accostati gli uni accanto
agli altri: un cane randagio, il ladrone della comunità,
la predicatrice del paese, la gente ubriaca di rum, il
colmado (negozietto prevalentemente di alimentari),
le chiacchiere. Le immagini riferite alle comunità erano rappresentazioni vive, intime, precise, ma, allo stesso tempo, molto ironiche. L’alcool o la violenza, per
esempio, erano filtrati da una certa sfrontatezza, da
una certa goliardia. Quelli rappresentati erano i luoghi della loro esistenza, della loro adolescenza, i luoghi
dell’abitudine, materializzati in pratiche sociali usuali.
Un secondo gioco-esercizio, derivato dal primo, ma
più dinamico, implicava l’utilizzo combinato del corpo e della voce. I gruppi, divisi in due squadre poste
ciascuna davanti ad una sedia, ricevettero il compito
di utilizzare i due oggetti, associando loro, da una parte, un luogo tipico di Santiago e, dall’altra, un luogo
tipico della propria comunità. A turno, un giocatore
di una squadra si sarebbe dovuto alzare, recarsi verso una delle due sedie e pronunciare una frase che
avrebbe rappresentato quel luogo. Alla città vennero
associati, ancora una volta, il Monumento agli Eroi
della Restaurazione di Santiago, chiamato più semplicemente “il monumento”, un mercato (el Encanto),
Paolo Grassi / nota etnogràfica
la Calle del Sol (il corso di Santiago), una tambora, il
Casinò. Le frasi attribuite alla città richiamarono la
musica, il divertimento, il vendere e il comprare oggetti e vivande, le colombe, i fiori, la festa, il carnevale. I
ragazzi di Los Perez rappresentarono maggiormente
il centro della città come luogo di residenza esclusiva
per quelli che chiamarono “i cittadini”. Uno dei partecipanti mimò un signore distinto che, da sotto il monumento, dichiarava seccato: “Santiago sarebbe stata
migliore se non ci fossero stati i contadini!”.
Rispetto alla comunità, il gruppo di Los Platanitos
associò la sedia alla sala da biliardo (appartenente al
boss della baraccopoli), alla escuelita di Onè Respe e
al Rio Gurabo. Le frasi richiamarono la dimensione
dello svago con riferimento al primo elemento; quella
educativa, artistica, ma anche le azioni concrete del
prendere l’acqua (la scuola era l’unico edificio con una
tanica a cui potevano attingere tutti gli abitanti liberamente) e del pulire, “perché c’è tanta immondizia”,
con riferimento al secondo; il procurarsi l’acqua, con
riferimento al terzo. Anche il gruppo di Los Perez scelse la scuola di Onè Respe per rappresentare la propria
comunità. I ragazzi esplicitarono chiaramente il fatto
che la scuola fornisse un aiuto, un appoggio molto importante ai propri genitori, in particolare alle madri,
permettendo loro di lavorare durante il giorno.
La difficoltà principale nel condurre questi esercizi
fu il riuscire ad alzare un poco il grado di rielaborazione dei partecipanti, evitando quindi di fermarsi semplicemente ad un livello superficiale di interpretazione.
Ad ogni modo, in generale, ancora una volta, la città
fu associata ad aspetti positivi, di svago, a luoghi di
interesse. Dalle parole dei componenti del laboratorio,
Santiago apparve come una cartolina, una foto ricordo. All’interno di questo paesaggio idilliaco, un elemento che tuttavia ricorreva spesso, come già nell’esercizio delle statue, era il venditore di strada, tuttavia
spogliato delle sue condizioni materiali d’esistenza.
Il venditore sembrava essere rappresentato in quanto
parte del folklore, elemento tipico di quel paesaggio
urbano. Le rappresentazioni associate alla comunità si
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Il laboratorio teatrale come strumento di indagine antropologica
riferivano, anche in questo caso, alla quotidianità. La
comunità era l’arena sociale delle amicizie e dei rapporti familiari, lo spazio in cui le persone possedevano
nomi precisi (il colmado di Juan, il prete Milton). La
stessa comunità era sede, ciò nonostante, anche di problemi pratici e tangibili, come, ad esempio, per quanto
riguarda Los Platanitos, l’approvvigionamento idrico
e l’immondizia. Tali questioni erano affrontate nella
loro concretezza, senza essere fonte, almeno nel laboratorio, di tristezza o abbattimento. Esse sembravano
affiorare piuttosto come frammenti di una realtà esperita, di un universo significato ordinariamente: il prendere l’acqua dal fiume colmo di spazzatura era, per i
ragazzi di Los Platanitos, paradossalmente, elemento
consuetudinario caratterizzante la loro adolescenza.
Proposi esclusivamente ad alcuni giovani di Los
Platanitos un’ulteriore attività, ricavata ancora una
volta dal Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal: il cosiddetto Teatro-forum (Boal 1993). Questo esercizio
consiste nella messa in scena di un episodio che rappresenti una situazione oppressiva o problematica e
nel tentativo di risolverla, attraverso l’intervento degli
spettatori, i quali hanno facoltà di sostituirsi o di aggiungersi agli attori già presenti sulla scena. È necessario quindi, per la riuscita dell’esercizio, rintracciare
un evento in cui emerga un conflitto esplicito, molto
specifico e reale. Credetti che tale metodologia teatrale
potesse essere utile per attualizzare la dimensione politica che avrei voluto mettere in luce nella mia analisi
antropologica.
A tal fine, pretesi dai ragazzi di rintracciare un avvenimento, accaduto tra una persona appartenente
alla comunità e una persona abitante della città. La
prima scelta cascò su una vicenda che interessò in prima persona uno dei partecipanti: un litigio tra un capo
reparto della zona franca vicina (una delle imprese
presenti sul territorio nazionale in mano a compagnie
straniere, agevolate da sgravi fiscali, che sfruttano la
manodopera locale per produrre beni poi esportati in
paesi esteri) e un operaio residente in Los Platanitos,
in cui il capo si lamentava per la modalità del lavoro
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compiuto dal suo sottoposto.
Per prima cosa chiesi a due ragazzi di mettere in scena la situazione. Creammo così una sorta di sequenza,
strutturata in: esposizione della situazione - innesco del
conflitto - interruzione nel punto culminante del litigio. La sequenza venne riprodotta, sempre uguale a se
stessa, più volte. A questo punto permisi agli spettatori
di interrompere la scena ed intervenire improvvisando e cercando di risolvere il conflitto in atto. Secondo
le regole dell’esercizio, i due attori iniziali avrebbero
dovuto continuare a sostenere le proprie posizioni,
ascoltando e interagendo contemporaneamente con
la terza persona inseritasi nell’azione. Se la terza persona fosse stata abile, i due attori non avrebbero più
potuto continuare il litigio, il conflitto si sarebbe rotto
e la terza persona avrebbe quindi dimostrato di aver
trovato una soluzione.
È interessante notare come i primi interventi strutturati dagli spettatori tendessero a dar ragione al capo
reparto. Questa presa di posizione da parte dei ragazzi mi sembrò, dal mio punto di vista, particolarmente
irragionevole. Come era possibile che non si schierassero apertamente dalla parte dell’operaio? Come era
giustificabile una simile scelta? La causa di quel gesto
qual era? Antropologicamente parlando, avrei potuto trovare una spiegazione rifacendomi alla supposta
mancanza di sentimento comunitario tra i residenti di
Los Platanitos, o all’assenza di una coscienza di classe,
o, di più, all’eventuale incorporazione di uno schema
di dominio. Fatto sta che, più concretamente, seguendo quel copione, il conflitto rappresentato non trovava
appianamento: l’attore-operaio non accettava il rimprovero e continuava quindi a sostenere la sua opinione. I ragazzi ne parlarono, evidenziando alla fine
come lo scioglimento dello scontro dovesse passare attraverso una fase di mediazione e non attraverso una
semplice presa di posizione per l’uno o l’altro attore. I
ragazzi riprovarono quindi l’azione teatrale, trovando
alla fine un espediente.
La seconda scena rappresentata si compose invece
di una sequenza differente: protagonista un giovane
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il quale, dopo aver mangiato una banana, gettava la
buccia nel fiume Gurabo, proprio mentre la gente della comunità stava organizzando una campagna per
ripulirlo. Un abitante di Los Platanitos di passaggio
scivolava sulla buccia gettata, scatenando quindi un
litigio con il giovane autore del gesto scellerato. La risoluzione del conflitto passò in questo caso attraverso
una presa di posizione più netta. Il giovane venne condannato in modo unanime dai membri della comunità
e convinto a riconoscere il proprio errore.
Sempre a Los Platanitos, Roberto Codazzi lavorò
con un gruppo di ragazzi più piccoli, tra i dieci e i
quattordici anni di età. Propose loro un esercizio di rilassamento, basato su un racconto. I partecipanti vennero fatti sedere in cerchio, con le spalle rivolte verso il
centro. Venne chiesto loro di immaginare di spostarsi
dalla comunità alla città. Dopo un certo lasso di tempo,
Roberto invitò ognuno di loro a dichiarare il luogo di
Santiago dove pensavano di trovarsi. Le risposte non si
discostarono da quelle dei ragazzi più grandi. Vennero
citati il mercato, il centro commerciale Pola, il parco, i
negozi. A quel punto venne chiesto di immaginare di
ritornare nella propria comunità. La maggioranza dei
bambini dichiarò di scoprirsi in famiglia, accanto ad
un parente stretto.
Un ultima fase del laboratorio destinata a questo
gruppo di ragazzi, consistette in un esercizio di mimica e nella messa in scena di una breve fiaba. Roberto
scelse una fiaba di Fedro, “Il buffone e il contadino”,
che utilizzò come pretesto per discutere sul concetto
di pregiudizio in generale. Roberto propose infine di
rappresentare liberamente una situazione in cui potesse trasparire un episodio pregiudiziale. I bambini
impersonarono alcuni contadini che litigavano con i
padroni di un terreno. Roberto invitò quindi il gruppo
a cercare una soluzione per quella disputa.
Mi chiesi, alla fine degli incontri, a quali conclusioni sarei potuto giungere sulla base del lavoro svolto.
Malgrado la brevità dell’esperienza e il suo carattere
sperimentale, potei comunque ricavare, da quelle ore,
una serie di riflessioni degne d’interesse. La quotidianità
Paolo Grassi / nota etnogràfica
dei ragazzi passava, come descritto, attraverso storie di
vita di contadini discesi dalle colline circostanti la città,
di operai delle zone franche, di abitanti di un quartiere invaso dalla spazzatura. Se un bambino di Los
Platanitos mimava un venditore ambulante, gli altri
suoi compagni potevano riconoscerlo facilmente, perché tale figura faceva parte dei loro vissuti, della loro
esperienza. Quei ragazzi esprimevano il loro punto di
vista, che era il punto di vista di giovani attori sociali
inseriti in un contesto specifico: periferico, povero, a
tratti ostile. Santiago sembrava un soggetto distante,
idealizzato, stereotipato, luogo dello svago, del commercio, simbolo del proprio Stato. Allo stesso tempo
Santiago rimaneva la loro città, nella quale si spostavano, nella quale vivevano. La comunità era sede della
quotidianità, degli affetti, dell’amicizia, del cibo e del
riposo. Ciononostante, la stessa comunità era anche
sede di violenze e delinquenza. Vennero citati spesso,
come descritto, la droga, l’alcool e, nello specifico di
Los Platanitos, la spazzatura e il fiume Gurabo da essa
intasato. Questi elementi negativi non apparvero mai
nelle rappresentazioni della città. Il conflitto tra città e
baraccopoli emerse in rare occasioni, come nel caso del
Teatro-forum, anche se non in chiave rivendicativa.
Pensando all’obiettivo della mia analisi, questi laboratori non mi fornirono risposte precise. I laboratori non dissero perché quei ragazzi possedevano certe rappresentazioni. Era chiaro tuttavia che, proprio
grazie ad essi, tali rappresentazioni poterono emergere in tutta la loro evidenza. Le azioni sceniche scelte
dai ragazzi altro non erano che loro interpretazioni
– parziali, situazionali - su una determinata realtà
sociale. Mio compito fu di raccogliere e interpretarle
nuovamente, alla luce del discorso antropologico che
avrei voluto impostare (Geertz 1987, 1988). I laboratori funsero quindi da strumento di ricerca alternativo
all’intervista, incentrato anche su aspetti non verbali
di comunicazione, strumento che permise di catalizzare molteplici narrazioni rispetto un oggetto specifico
d’analisi.
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Il laboratorio teatrale come strumento di indagine antropologica
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Paolo Grassi / nota etnogràfica