coviello_abstract fotografia - Dipartimento di Scienze della
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Testimoni della tortura: l’archivio delle fotografie digitali in Standard Operating Procedure (2008) di Errol Morris Area tematica: La fotografia come strumento espressivo e il rapporto con le arti Massimiliano Coviello dottorando in “Studi sulla Rappresentazione Visiva. Storia, teorie e produzione delle arti e delle immagini” (Istituto Italiano di Scienze Umane – Università degli Studi di Siena) Con l’avvento delle tecnologie digitali, la fotografia sembra aver perso la sua credibilità in quanto traccia del reale, subendo così una crisi di legittimazione. Le possibilità di manipolazione offerte dal digitale minano, secondo le recenti teorie del visivo, le basi tecnologiche della fiducia referenziale associata alla fotografia. Eppure, la proprietà indessicale della fotografia, intesa come premessa per un ritorno al “reale”, sembra essere ancora una dimensione essenziale, una caratteristica dirimente, quando si tenta di fare i conti con le immagini del dolore e della sofferenza che saturano la cultura visiva contemporanea. Il film di Errol Morris Standard Operating Procedure (2008) ricostruisce, attraverso le fotografie scattate dal personale militare, le torture perpetrate dai soldati americani e britannici nei confronti dei prigionieri reclusi nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Da questo punto vista, sia il film che le fotografie assumo una valenza documentaria: lo scopo è quello di ricostruire una narrazione veritiera dei crimini commessi, a partire dalla cornice spazio-temporale in cui le foto sono state scattate. Il luogo e l'ora dello scatto fotografico, l'apparecchio utilizzato, i soggetti e i comportamenti inquadrati, diventano delle prove indiziarie per mezzo delle quali è possibile ricostruire gli eventi e sanzionarli. Oppure, le fotografie vengono utilizzate dagli stessi militari come prova della loro innocenza: una contronarrazione, costruita attraverso i diari, le immagini e le interviste, con cui operare una denuncia “dall'interno” dei crimini e delle nefandezze commesse. A questo paradigma indiziario, che utilizza le immagini fotografiche come prova documentaria, il film di Morris affianca una seconda strategia. In primo luogo, la forsennata attività fotografica non ha soltanto prodotto le prove della colpevolezza o i tentativi della contro-narrazione, ma può essere considerata come un meccanismo di soggettivazione e assoggettamento - sia delle vittime che dei carnefici – proprio del campo di detenzione. In secondo luogo, attraverso le tecniche di montaggio e di re-incorniciatura delle fotografie è possibile “vedere oltre il fotogramma”, al di là delle contingenze dello scatto, e farsi carico dei dispositivi che inscrivono e istruiscono lo sguardo dell'osservatore. L'efficacia testimoniale delle fotografie scattate all'interno del carcere di Abu Ghraib non passa solo attraverso i modi dell'attestazione (effetti di realtà e di presenza), ma può essere rintracciata anche nelle tecniche di montaggio che il film di Morris adotta per analizzare le componenti riflessive e metaoperative connesse alle strategie di archiviazione e gestione sociale delle immagini della tortura e dei loro effetti patemici.