L`isola sotto il mare

Transcript

L`isola sotto il mare
ISABEL ALLENDE
L'isolasotto il mare
IL MALE SPAGNOLO
Toulouse Valmorain arrivò a Saint-Domingue nel 1770, lo stesso anno
in cui il Delfino di Francia sposò l'arciduchessa austriaca Maria Anto­
nietta. Prima di partire per la colonia, quando ancora non sospettava
che il destino si sarebbe beffato di lui facendolo finire sepolto tra i can­
neti nelle Antille, era stato invitato a Versailles a una delle feste in
onore della nuova Delfina, una ragazzina bionda di quattordici anni
che sbadigliava ostentatamente nonostante il rigido protocollo della
corte francese.
Tutto ciò riguardava il passato. Saint-Domingue era un altro mondo.
Il giovane Valmorain aveva un'idea piuttosto vaga del luogo in cui suo
padre impastava alla bell'e meglio il pane di famiglia con l'ambizione
di trasformarlo in un tesoro. Aveva letto da qualche parte che gli abi­
tanti originari dell'isola, gli arahuaco, la chiamavano Haiti prima che i
conquistadores le cambiassero il nome in La Espafiola e massacrassero
tutti i nativi. In meno di cinquant'anni non era rimasta nemmeno l'om­
bra di un arahuaco: erano morti tutti, vittime della schiavitù, delle ma­
lattie portate dai bianchi e suicidi. Erano uomini dalla pelle rossastra,
capelli spessi e neri, dall'imperturbabile dignità, così miti che uno spa­
gnolo da solo poteva batterne dieci a mani nude. Vivevano in comunità
poligame, coltivando con cura la terra per non esaurirla: patate dolci,
mais, zucche, arachidi, peperoni, patate e manioca. La terra, come il
cielo e l'acqua, non ebbe padrone fino a quando gli stranieri non se ne
impossessarono per coltivare piante mai viste grazie al lavoro forzato
degli arahuaco. A quei tempi ebbe inizio l'usanza di aperrear, uccidere
persone indifese aizzando contro di loro i perros, i cani. Quando eb­
bero sterminato gli indigeni, importarono gli schiavi rapiti in Africa e
i bianchi dall'Europa, galeotti, orfani, prostitute e ribelli.
Alla fine del 1600 la Spagna aveva ceduto la parte occidentale del­
l'isola alla Francia, che l'aveva chiamata Saint-Domingue e che sarebbe
diventata la colonia più ricca del mondo. All'epoca in cui Toulouse Val­
11
morain arrivò lì, un terzo delle esportazioni della Francia, grazie a zuc­
chero, caffè, tabacco, cotone, indaco e cacao, proveniva da quell'isola.
Ormai non c'erano più schiavi bianchi, e quelli neri ammontavano a
centinaia di migliaia. La canna da zucchero, l'oro dolce della colonia,
era il prodotto più duro da coltivare; tagliare la canna, triturarla e ri­
durla a sciroppo non era lavoro da esseri umani ma da bestie, come so­
stenevano i piantatori.
Valmorain aveva appena compiuto vent'anni quando venne richia­
mato alla colonia tramite una pressante lettera dell'agente commerciale
di suo padre. Al momento dello sbarco era vestito all'ultima moda, pol­
sini di pizzo, parrucca incipriata e scarpe con i tacchi alti, ed era certo
che le sue letture di testi sulle esplorazioni lo rendessero in grado di so­
stituire suo padre come consulente per qualche settimana. Viaggiava
con un valet, aitante quasi quanto lui, vari bauli per il guardaroba e i
molti libri. Si definiva un uomo di lettere e pensava di dedicarsi alla
scienza una volta rientrato in Francia. Ammirava i filosofi e gli enci­
clopedisti, che tanta influenza avevano avuto in Europa negli ultimi de­
cenni, e concordava con alcune delle loro idee liberali; a diciott'anni II
contratto sociale di Rousseau era stato il suo testo di riferimento. Ap­
pena sbarcato, dopo una traversata che, quando dovettero fronteggiare
un uragano nei Caraibi, per poco non finì in tragedia, ebbe la prima
spiacevole sorpresa: il suo progenitore non era ad aspettarlo al porto.
Lo accolse l'agente, un ebreo gentile, vestito di nero dalla testa ai piedi,
che lo mise al corrente delle precauzioni necessarie per spostarsi sull'i­
sola, gli fornì i cavalli, un paio di muli per i bagagli, una guida e un mi­
liziano che li accompagnassero alla habitation Saint-Lazare. Il giovane
non aveva mai messo piede fuori dalla Francia e aveva prestato ben
poca attenzione agli aneddoti - banali, peraltro - che il padre era so­
lito raccontare nel corso delle sue sporadiche visite alla famiglia a Pa­
rigi. Non aveva mai immaginato che un giorno si sarebbe recato alla
piantagione; il tacito accordo prevedeva che il padre avrebbe consoli­
dato la sua fortuna sull'isola, mentre lui si sarebbe occupato di sua ma­
dre e delle sorelle supervisionando gli affari in Francia. La lettera che
aveva ricevuto alludeva a problemi di salute del padre; aveva ipotizzato
che si trattasse di una febbre passeggera, ma quando arrivò a Saint-La­
zare, dopo aver viaggiato senza sosta un giorno intero attraverso una
natura vorace e ostile, si rese conto che suo padre stava morendo. Non
soffriva di malaria, come aveva pensato, ma di sifilide, che devastava
allo stesso modo bianchi, neri e mulatti. La malattia aveva raggiunto
l'ultimo stadio e suo padre era quasi completamente invalido, coperto
di pustole, con i denti indeboliti e la mente annebbiata. Le cure da in­
ferno dantesco a base di salassi, mercurio e cauterizzazioni del pene
12
con filo di ferro arroventato non gli avevano giovato, ma continuava a
sottoporvisi come atto di contrizione. Aveva appena compiuto cin­
quant'anni e si era trasformato in un vecchio che dava ordini assurdi,
urinava senza controllo e se ne stava su un'amaca con i suoi animali da
compagnia, un paio di ragazzine di colore che avevano a malapena rag­
giunto la pubertà.
Mentre gli schiavi disfacevano i bagagli sotto la direzione del valet,
un damerino che aveva sopportato a fatica la traversata in nave e molto
spaventato dalle condizioni primitive del luogo, Toulouse Valmorain
uscì a visitare la vasta proprietà. Non sapeva nulla della coltivazione
della canna, ma quel giro gli fu sufficiente per comprendere che gli
schiavi erano denutriti e la piantagione si era salvata dalla rovina solo
perché il mondo consumava zucchero con crescente voracità. Nei libri
contabili trovò la spiegazione del cattivo stato delle finanze di suo pa­
dre, che non riusciva a mantenere la famiglia a Parigi con il decoro che
si confaceva alla sua posizione. La produzione era disastrosa e gli
schiavi morivano come mosche; non c'era alcun dubbio che i sorve­
glianti rubavano approfittando del drammatico deteriorarsi della salute
del padrone. Maledisse la propria sorte e si preparò a rimboccarsi le
maniche e a lavorare, circostanza che nessun giovane del suo rango de­
siderava affrontare: il lavoro era per un'altra categoria di persone. Per
prima cosa ottenne un sostanzioso prestito grazie all'appoggio e alla fi­
ducia di banchieri legati all'agente commerciale di suo padre, poi
mandò i commandeurs ai canneti, a lavorare gomito a gomito con gli
stessi uomini che prima avevano martirizzato e li rimpiazzò con altri
meno depravati, ridusse i castighi e assunse un veterinario, che tra­
scorse due mesi a Saint-Lazare cercando di restituire un po' di salute
ai neri. TI veterinario non poté tuttavia salvare il suo valet, che una diar­
rea fulminante fece fuori in meno di trentotto ore. Valmorain si rese
conto che gli schiavi di suo padre resistevano in media diciotto mesi
prima di scappare o di schiattare di fatica, molto meno tempo che in
altre piantagioni. Le donne vivevano più degli uomini, ma rendevano .
meno nel lavoro estenuante nei canneti e avevano la cattiva abitudine
di rimanere incinte. Siccome ben pochi bambini sopravvivevano, i
piantatori avevano calcolato che non conveniva avere schiave. Il gio­
vane Valmorain, intenzionato ad andarsene molto presto, realizzò i
cambiamenti necessari in modo automatico, senza progetti e con rapi­
dità, ma quando, qualche mese più tardi, suo padre morì, dovette af­
frontare l'ineludibile evidenza di essere finito in trappola. Non inten­
deva tirare le cuoia in quella colonia infestata dalle zanzare, ma se fosse
partito prima del tempo avrebbe perso la piantagione e con essa le en­
trate e la posizione sociale della sua famiglia in Francia.
13
morain arrivò lì, un terzo delle esportazioni della Francia, grazie a zuc­
chero, caffè, tabacco, cotone, indaco e cacao, proveniva da quell'isola.
Ormai non c'erano più schiavi bianchi, e quelli neri ammontavano a
centinaia di migliaia. La canna da zucchero, l'oro dolce della colonia,
era il prodotto più duro da coltivare; tagliare la canna, triturarla e ri­
durla a sciroppo non era lavoro da esseri umani ma da bestie, come so­
stenevano i piantatori.
Valmorain aveva appena compiuto vent'anni quando venne richia­
mato alla colonia tramite una pressante lettera dell'agente commerciale
di suo padre. Al momento dello sbarco era vestito all'ultima moda, pol­
sini di pizzo, parrucca incipriata e scarpe con i tacchi alti, ed era certo
che le sue letture di testi sulle esplorazioni lo rendessero in grado di so­
stituire suo padre come consulente per qualche settimana. Viaggiava
con un valet, aitante quasi quanto lui, vari bauli per il guardaroba e i
molti libri. Si definiva un uomo di lettere e pensava di dedicarsi alla
scienza una volta rientrato in Francia. Ammirava i filosofi e gli enci­
clopedisti, che tanta influenza avevano avuto in Europa negli ultimi de­
cenni, e concordava con alcune delle loro idee liberali; a diciott'anni II
contratto sociale di Rousseau era stato il suo testo di riferimento. Ap­
pena sbarcato, dopo una traversata che, quando dovettero fronteggiare
un uragano nei Caraibi, per poco non finì in tragedia, ebbe la prima
spiacevole sorpresa: il suo progenitore non era ad aspettarlo al porto.
Lo accolse l'agente, un ebreo gentile, vestito di nero dalla testa ai piedi,
che lo mise al corrente delle precauzioni necessarie per spostarsi sull'i­
sola, gli fornì i cavalli, un paio di muli per i bagagli, una guida e un mi­
liziano che li accompagnassero alla habitation Saint-Lazare. Il giovane
non aveva mai messo piede fuori dalla Francia e aveva prestato ben
poca attenzione agli aneddoti - banali, peraltro - che il padre era so­
lito raccontare nel corso delle sue sporadiche visite alla famiglia a Pa­
rigi. Non aveva mai immaginato che un giorno si sarebbe recato alla
piantagione; il tacito accordo prevedeva che il padre avrebbe consoli­
dato la sua fortuna sull'isola, mentre lui si sarebbe occupato di sua ma­
dre e delle sorelle supervisionando gli affari in Francia. La lettera che
aveva ricevuto alludeva a problemi di salute del padre; aveva ipotizzato
che si trattasse di una febbre passeggera, ma quando arrivò a Saint-La­
zare, dopo aver viaggiato senza sosta un giorno intero attraverso una
natura vorace e ostile, si rese conto che suo padre stava morendo. Non
soffriva di malaria, come aveva pensato, ma di sifilide, che devastava
allo stesso modo bianchi, neri e mulatti. La malattia aveva raggiunto
l'ultimo stadio e suo padre era quasi completamente invalido, coperto
di pustole, con i denti indeboliti e la mente annebbiata. Le cure da in­
ferno dantesco a base di salassi, mercurio e cauterizzazioni del pene
12
con filo di ferro arroventato non gli avevano giovato, ma continuava a
sottoporvisi come atto di contrizione. Aveva appena compiuto cin­
quant'anni e si era trasformato in un vecchio che dava ordini assurdi,
urinava senza controllo e se ne stava su un'amaca con i suoi animali da
compagnia, un paio di ragazzine di colore che avevano a malapena rag­
giunto la pubertà.
Mentre gli schiavi disfacevano i bagagli sotto la direzione del valet,
un damerino che aveva sopportato a fatica la traversata in nave e molto
spaventato dalle condizioni primitive del luogo, Toulouse Valmorain
uscì a visitare la vasta proprietà. Non sapeva nulla della coltivazione
della canna, ma quel giro gli fu sufficiente per comprendere che gli
schiavi erano denutriti e la piantagione si era salvata dalla rovina solo
perché il mondo consumava zucchero con crescente voracità. Nei libri
contabili trovò la spiegazione del cattivo stato delle finanze di suo pa­
dre, che non riusciva a mantenere la famiglia a Parigi con il decoro che
si confaceva alla sua posizione. La produzione era disastrosa e gli
schiavi morivano come mosche; non c'era alcun dubbio che i sorve­
glianti rubavano approfittando del drammatico deteriorarsi della salute
del padrone. Maledisse la propria sorte e si preparò a rimboccarsi le
maniche e a lavorare, circostanza che nessun giovane del suo rango de­
siderava affrontare: il lavoro era per un'altra categoria di persone. Per
prima cosa ottenne un sostanzioso prestito grazie all'appoggio e alla fi­
ducia di banchieri legati all'agente commerciale di suo padre, poi
mandò i commandeurs ai canneti, a lavorare gomito a gomito con gli
stessi uomini che prima avevano martirizzato e li rimpiazzò con altri
meno depravati, ridusse i castighi e assunse un veterinario, che tra­
scorse due mesi a Saint-Lazare cercando di restituire un po' di salute
ai neri. TI veterinario non poté tuttavia salvare il suo valet, che una diar­
rea fulminante fece fuori in meno di trentotto ore. Valmorain si rese
conto che gli schiavi di suo padre resistevano in media diciotto mesi
prima di scappare o di schiattare di fatica, molto meno tempo che in
altre piantagioni. Le donne vivevano più degli uomini, ma rendevano .
meno nel lavoro estenuante nei canneti e avevano la cattiva abitudine
di rimanere incinte. Siccome ben pochi bambini sopravvivevano, i
piantatori avevano calcolato che non conveniva avere schiave. Il gio­
vane Valmorain, intenzionato ad andarsene molto presto, realizzò i
cambiamenti necessari in modo automatico, senza progetti e con rapi­
dità, ma quando, qualche mese più tardi, suo padre morì, dovette af­
frontare l'ineludibile evidenza di essere finito in trappola. Non inten­
deva tirare le cuoia in quella colonia infestata dalle zanzare, ma se fosse
partito prima del tempo avrebbe perso la piantagione e con essa le en­
trate e la posizione sociale della sua famiglia in Francia.
13
r
Va1morain non cercò la frequentazione degli altri coloni. I grands
blancs, proprietari di altre piantagioni, lo consideravano un presun­
tuoso che non sarebbe durato molto sull'isola, motivo per cui si stupi­
rono vedendolo con gli stivali sporchi di fango e bruciato dal sole. L'an­
tipatia era reciproca. Per Valmorain quei francesi trapiantati nelle An­
tille erano zotici, 1'estremo opposto della società da lui frequentata,
dove si esaltavano le idee, le scienze e le arti e nessuno parlava né di
denaro né di schiavi. Dall"'età della ragione" di Parigi era passato a im­
mergersi in un mondo primitivo e violento, in cui vivi e morti andavano
a braccetto. Non strinse amicizia nemmeno con i petits bfancs, il cui
unico capitale era il colore della pelle, poveri diavoli avvelenati dall'in­
vidia e dalla maldicenza, come sosteneva lui. Provenivano dai quattro
punti cardinali e non c'era modo di verificare la purezza del loro san­
gue o il loro passato. Nel migliore dei casi erano mercanti, artigiani,
frati di scarsa virtù, marinai, militari e funzionari di basso rango, ma
c'erano anche malviventi, magnaccia, criminali e bucanieri che utiliz­
zavano qualsiasi ansa dei Caraibi per le loro scorribande. Lui non aveva
nulla da spartire con quella gente.
All'interno del gruppo dei mulatti liberi, o af/ranchis, esistevano più
di sessanta categorie a seconda della percentuale di sangue bianco, che
ne determinava il livello sociale. Valmorain non riuscì mai a distinguere
le tonalità né a imparare la denominazione di ogni combinazione delle
due razze. Gli a/franchis erano privi di potere politico, ma maneggia­
vano molto denaro, motivo per cui i bianchi poveri li odiavano. Alcuni
si guadagnavano da vivere con traffici illeciti, dal contrabbando alla
prostituzione, ma altri erano stati educati in Francia e possedevano for­
tuna, terre e schiavi. Al di là dei sottili distinguo sul colore, i mulatti
erano uniti dall'aspirazione comune di passare per bianchi e dal di­
sprezzo viscerale per i neri. Gli schiavi, che erano dieci volte più nu­
merosi rispetto ai bianchi e agli af/ranchis messi assieme, non conta­
vano nulla, né per il censimento della popolazione né nella coscienza
dei coloni.
Dato che non gli conveniva isolarsi del tutto, Toulouse Valmorain
frequentava di tanto in tanto alcune famiglie di grands blancs a Le
Cap, la città più vicina alla sua piantagione. Durante quegli sposta­
menti comperava i rifornimenti necessari e, se non poteva evitarlo,
passava dall'Assemblea coloniale a salutare i suoi pari, così almeno
non avrebbero dimenticato il suo cognome, senza però prenderè parte
alle sedute. Ne approfittava anche per vedere qualche commedia a
teatro, andare alle feste delle cocottes - le esuberanti cortigiane fran­
cesi, spagnole e di razza mista, signore della vita notturna - e fre­
quentare esploratori e scienziati che si fermavano sull'isola, di passag­
gio verso luoghi di maggiore interesse. Sàint-Domingue non attirava
visitatori, ma a volte. ne arrivava qualcuno per studiare la natura o 1'e­
conomia delle Antille, e Valmorain lo invitava a Saint-Lazare con l'in­
tenzione di riassaporare, anche solo per poco, il piacere della conver­
sazione elevata che aveva insaporito i suoi anni parigini. Tre anni dopo
la morte del padre poteva mostrare loro la proprietà con orgoglio;
aveva trasformato quello sconquasso di neri malati e canneti rinsec­
chiti in una delle piantagioni più prospere tra le ottocento dell'isola,
aveva moltiplicato per cinque il volume di zucchero grezzo per l'e­
sportazione e predisposto una distilleria in cui produceva barrique se­
lezionati di un rum molto più raffinato di quello che era solito bere in
Francia. I suoi ospiti trascorrevano una o due settimane nella rustica
dimora in legno, imbevendosi della vita di campagna e apprezzando
da vicino la magica invenzione dello zucchero. Passeggiavano a cavallo
tra i pascoli verdeggianti che sibilavano minacciosi per il vento, pro­
tetti dal sole da grandi cappelli di paglia e boccheggiando nella bol­
lente umidità dei Caraibi, mentre gli schiavi, come esili ombre, taglia­
vano le piante raso terra senza estirpare la radice, affinché seguissero
altri raccolti. Da lontano, sembravano insetti tra i disuguali canneti alti
il doppio di loro. Pulire le dure canne, tritarle nelle macchine dentate,
spremerle nelle presse e bollire il succo in capienti calderoni di rame
per ottenere uno sciroppo scuro risultava uno spettacolo affascinante
per quella gente di città che aveva visto solo i candidi cristalli che ad­
dolcivano il caffè. Quei visitatori aggiornavano Valmorain sugli eventi
in Europa, sempre più remota per lui, sui nuovi progressi tecnologici
e scientifici e sulle idee filosofiche di moda. Gli aprivano un pertugio
da cui spiare il mondo e gli lasciavano in regalo alcuni libri. Valmo­
rain si godeva la compagnia degli ospiti, ma si godeva ancora di più la
loro partenza: non gli piaceva avere testimoni nella sua vita né nella
sua proprietà. Gli stranieri osservavano la schiavitù con un misto di
repulsione e morbosa curiosità che a lui risultava offensivo perché si
reputava un padrone giusto: se avessero saputo come altri piantatori
trattavano i loro neri, sarebbero stati d'accordo con lui. Sapeva che
più d'uno sarebbe tornato alla civiltà convertito in abolizionista e
pronto a sabotare il consumo di zucchero. Anche lui, prima che si
fosse visto obbligato a vivere sull'isola, sarebbe rimasto impressionato
dalla schiavitù se ne avesse conosciuto i dettagli, ma suo padre non
aveva mai toccato l'argomento. Ora, con centinaia di schiavi a carico,
le sue idee al riguardo erano cambiate.
I primi anni Toulouse Valmorain li dedicò a riscattare Saint-Lazare
dalla devastazione e non poté viaggiare fuori dalla colonia nemmeno
una volta. Perse i contatti con sua madre e le sorelle, salvo per spora­
15
14
r
Va1morain non cercò la frequentazione degli altri coloni. I grands
blancs, proprietari di altre piantagioni, lo consideravano un presun­
tuoso che non sarebbe durato molto sull'isola, motivo per cui si stupi­
rono vedendolo con gli stivali sporchi di fango e bruciato dal sole. L'an­
tipatia era reciproca. Per Valmorain quei francesi trapiantati nelle An­
tille erano zotici, 1'estremo opposto della società da lui frequentata,
dove si esaltavano le idee, le scienze e le arti e nessuno parlava né di
denaro né di schiavi. Dall"'età della ragione" di Parigi era passato a im­
mergersi in un mondo primitivo e violento, in cui vivi e morti andavano
a braccetto. Non strinse amicizia nemmeno con i petits bfancs, il cui
unico capitale era il colore della pelle, poveri diavoli avvelenati dall'in­
vidia e dalla maldicenza, come sosteneva lui. Provenivano dai quattro
punti cardinali e non c'era modo di verificare la purezza del loro san­
gue o il loro passato. Nel migliore dei casi erano mercanti, artigiani,
frati di scarsa virtù, marinai, militari e funzionari di basso rango, ma
c'erano anche malviventi, magnaccia, criminali e bucanieri che utiliz­
zavano qualsiasi ansa dei Caraibi per le loro scorribande. Lui non aveva
nulla da spartire con quella gente.
All'interno del gruppo dei mulatti liberi, o af/ranchis, esistevano più
di sessanta categorie a seconda della percentuale di sangue bianco, che
ne determinava il livello sociale. Valmorain non riuscì mai a distinguere
le tonalità né a imparare la denominazione di ogni combinazione delle
due razze. Gli a/franchis erano privi di potere politico, ma maneggia­
vano molto denaro, motivo per cui i bianchi poveri li odiavano. Alcuni
si guadagnavano da vivere con traffici illeciti, dal contrabbando alla
prostituzione, ma altri erano stati educati in Francia e possedevano for­
tuna, terre e schiavi. Al di là dei sottili distinguo sul colore, i mulatti
erano uniti dall'aspirazione comune di passare per bianchi e dal di­
sprezzo viscerale per i neri. Gli schiavi, che erano dieci volte più nu­
merosi rispetto ai bianchi e agli af/ranchis messi assieme, non conta­
vano nulla, né per il censimento della popolazione né nella coscienza
dei coloni.
Dato che non gli conveniva isolarsi del tutto, Toulouse Valmorain
frequentava di tanto in tanto alcune famiglie di grands blancs a Le
Cap, la città più vicina alla sua piantagione. Durante quegli sposta­
menti comperava i rifornimenti necessari e, se non poteva evitarlo,
passava dall'Assemblea coloniale a salutare i suoi pari, così almeno
non avrebbero dimenticato il suo cognome, senza però prenderè parte
alle sedute. Ne approfittava anche per vedere qualche commedia a
teatro, andare alle feste delle cocottes - le esuberanti cortigiane fran­
cesi, spagnole e di razza mista, signore della vita notturna - e fre­
quentare esploratori e scienziati che si fermavano sull'isola, di passag­
gio verso luoghi di maggiore interesse. Sàint-Domingue non attirava
visitatori, ma a volte. ne arrivava qualcuno per studiare la natura o 1'e­
conomia delle Antille, e Valmorain lo invitava a Saint-Lazare con l'in­
tenzione di riassaporare, anche solo per poco, il piacere della conver­
sazione elevata che aveva insaporito i suoi anni parigini. Tre anni dopo
la morte del padre poteva mostrare loro la proprietà con orgoglio;
aveva trasformato quello sconquasso di neri malati e canneti rinsec­
chiti in una delle piantagioni più prospere tra le ottocento dell'isola,
aveva moltiplicato per cinque il volume di zucchero grezzo per l'e­
sportazione e predisposto una distilleria in cui produceva barrique se­
lezionati di un rum molto più raffinato di quello che era solito bere in
Francia. I suoi ospiti trascorrevano una o due settimane nella rustica
dimora in legno, imbevendosi della vita di campagna e apprezzando
da vicino la magica invenzione dello zucchero. Passeggiavano a cavallo
tra i pascoli verdeggianti che sibilavano minacciosi per il vento, pro­
tetti dal sole da grandi cappelli di paglia e boccheggiando nella bol­
lente umidità dei Caraibi, mentre gli schiavi, come esili ombre, taglia­
vano le piante raso terra senza estirpare la radice, affinché seguissero
altri raccolti. Da lontano, sembravano insetti tra i disuguali canneti alti
il doppio di loro. Pulire le dure canne, tritarle nelle macchine dentate,
spremerle nelle presse e bollire il succo in capienti calderoni di rame
per ottenere uno sciroppo scuro risultava uno spettacolo affascinante
per quella gente di città che aveva visto solo i candidi cristalli che ad­
dolcivano il caffè. Quei visitatori aggiornavano Valmorain sugli eventi
in Europa, sempre più remota per lui, sui nuovi progressi tecnologici
e scientifici e sulle idee filosofiche di moda. Gli aprivano un pertugio
da cui spiare il mondo e gli lasciavano in regalo alcuni libri. Valmo­
rain si godeva la compagnia degli ospiti, ma si godeva ancora di più la
loro partenza: non gli piaceva avere testimoni nella sua vita né nella
sua proprietà. Gli stranieri osservavano la schiavitù con un misto di
repulsione e morbosa curiosità che a lui risultava offensivo perché si
reputava un padrone giusto: se avessero saputo come altri piantatori
trattavano i loro neri, sarebbero stati d'accordo con lui. Sapeva che
più d'uno sarebbe tornato alla civiltà convertito in abolizionista e
pronto a sabotare il consumo di zucchero. Anche lui, prima che si
fosse visto obbligato a vivere sull'isola, sarebbe rimasto impressionato
dalla schiavitù se ne avesse conosciuto i dettagli, ma suo padre non
aveva mai toccato l'argomento. Ora, con centinaia di schiavi a carico,
le sue idee al riguardo erano cambiate.
I primi anni Toulouse Valmorain li dedicò a riscattare Saint-Lazare
dalla devastazione e non poté viaggiare fuori dalla colonia nemmeno
una volta. Perse i contatti con sua madre e le sorelle, salvo per spora­
15
14
diche lettere dal tono formale che riferivano solo le banalità dell'esi­
stenza quotidiana e della salute.
Aveva messo alla prova un paio di amministratori venuti dalla Fran­
cia - i creoli avevano fama di essere corrotti - ma era stato un falli­
mento: uno era morto per un morso di serpente e l'altro si era abban­
donato alla tentazione del rum e delle concubine, finché non era arri­
vata sua moglie a recuperarlo e a portarselo via senza appello. Ora
stava provando Prosper Cambray che, come tutti gli affranchis nella co­
lonia, aveva prestato servizio i tre anni regolamentari nella milizia - la
Marechaussée - incaricata di far rispettare la legge, mantenere l'ordine,
riscuotere le tasse e inseguire gli schiavi fuggiaschi. Cambray non aveva
una fortuna né dei padrini e aveva scelto di guadagnarsi da vivere con
l'ingrato mestiere di dare la caccia ai neri in quella geografia assurda di
giungla ostile e ripide montagne, dove nemmeno i muli procedevano
con sicurezza. Era di pelle giallastra, segnata dal vaiolo, con i capelli
ricci color ruggine, gli occhi verdastri, sempre irritati, e una voce ben
modulata e morbida, che contrastava beffardamente con il suo carat­
tere brutale e il fisico da scagnozzo. Esigeva un abietto servilismo da
parte degli schiavi e al tempo stesso era strisciante con chi stava sopra
di lui. All'inizio cercò di guadagnarsi la stima di Valmorain con l'in­
ganno, ma ben presto comprese che li separava un abisso di razza e di
classe. Valmorain gli offrì una buona retribuzione, l'opportunità di
esercitare l'autorità e la prospettiva di essere promosso ulteriormente.
Valmorain dispose allora di più tempo per leggere, andare a caccia
e recarsi a Le Cap. Aveva conosciuto Violette Boisier, la cocotte più ri­
cercata della città, una ragazza libera, con la reputazione di essere pu­
lita e sana, con un po' di sangue africano e l'aspetto da bianca. Con lei,
per lo meno, non sarebbe finito come suo padre, con il sangue guastato
dal "male spagnolo".
UCCELLO DELLA NOTTE
Violette Boisier era a sua volta figlia di una cortigiana, una magnifica
mulatta morta a ventinove anni infilzata dalla sciabola di un ufficiale
francese - probabilmente il padre di Violette, anche se l'ipotesi non
fu mai confermata - sconvolto dalla gelosia. Violette aveva iniziato a
esercitare la professione a undici anni sotto 1'occhio vigile della ma­
dre; a tredici, quando lei venne assassinata, padroneggiava già le squi­
site arti del piacere, e a quindici superava tutte le rivali. Valmorain
preferiva non pensare con chi si sollazzasse la sua petite amie in sua
assenza, visto che non era disposto ad averla in esclusiva. Si era inca­
pricciato di Violette, movimento e allegria allo stato puro, ma era do­
tato di sufficiente sangue freddo per dominare la fantasia, a differenza
del militare che aveva ucciso la madre e rovinato la propria carriera e
il proprio nome. Si accontentava di portarla a teatro e a feste per uo­
mini alle quali non partecipavano donne bianche e in cui la sua ra­
diosa bellezza attirava gli sguardi. L'invidia che provocava negli altri
uomini esibendosi con lei al braccio gli procurava una soddisfazione
perversa; molti avrebbero sacrificato 1'onore pur di passare una notte
intera con Violette, invece di una o due ore, com'era nei patti, ma quel
privilegio era esclusivamente suo. O almeno così credeva.
La ragazza disponeva di un appartamento con tre stanze e un bal­
cone con una ringhiera in ferro battuto che riproduceva dei gigli al se­
condo piano di un edificio in piazza Clugny, unica eredità lasciatale
dalla madre, a parte alcuni vestiti adatti alla professione. Lì risiedeva
con un certo lusso in compagnia di Loula, una schiava africana, grossa
e mascolina che fungeva da serva e guardia del corpo. Violette tra­
scorreva le ore più calde riposandosi o dedicandosi alla sua bellezza:
massaggi con latte di cocco, depilazione con caramello, impacchi di
olio per i capelli, infusi di erbe per schiarire la voce e lo sguardo. In
alcuni momenti di ispirazione preparava con Loula unguenti per la
pelle, sapone di mandorle, pomate e polveri da trucco che vendeva
16
17
diche lettere dal tono formale che riferivano solo le banalità dell'esi­
stenza quotidiana e della salute.
Aveva messo alla prova un paio di amministratori venuti dalla Fran­
cia - i creoli avevano fama di essere corrotti - ma era stato un falli­
mento: uno era morto per un morso di serpente e l'altro si era abban­
donato alla tentazione del rum e delle concubine, finché non era arri­
vata sua moglie a recuperarlo e a portarselo via senza appello. Ora
stava provando Prosper Cambray che, come tutti gli affranchis nella co­
lonia, aveva prestato servizio i tre anni regolamentari nella milizia - la
Marechaussée - incaricata di far rispettare la legge, mantenere l'ordine,
riscuotere le tasse e inseguire gli schiavi fuggiaschi. Cambray non aveva
una fortuna né dei padrini e aveva scelto di guadagnarsi da vivere con
l'ingrato mestiere di dare la caccia ai neri in quella geografia assurda di
giungla ostile e ripide montagne, dove nemmeno i muli procedevano
con sicurezza. Era di pelle giallastra, segnata dal vaiolo, con i capelli
ricci color ruggine, gli occhi verdastri, sempre irritati, e una voce ben
modulata e morbida, che contrastava beffardamente con il suo carat­
tere brutale e il fisico da scagnozzo. Esigeva un abietto servilismo da
parte degli schiavi e al tempo stesso era strisciante con chi stava sopra
di lui. All'inizio cercò di guadagnarsi la stima di Valmorain con l'in­
ganno, ma ben presto comprese che li separava un abisso di razza e di
classe. Valmorain gli offrì una buona retribuzione, l'opportunità di
esercitare l'autorità e la prospettiva di essere promosso ulteriormente.
Valmorain dispose allora di più tempo per leggere, andare a caccia
e recarsi a Le Cap. Aveva conosciuto Violette Boisier, la cocotte più ri­
cercata della città, una ragazza libera, con la reputazione di essere pu­
lita e sana, con un po' di sangue africano e l'aspetto da bianca. Con lei,
per lo meno, non sarebbe finito come suo padre, con il sangue guastato
dal "male spagnolo".
UCCELLO DELLA NOTTE
Violette Boisier era a sua volta figlia di una cortigiana, una magnifica
mulatta morta a ventinove anni infilzata dalla sciabola di un ufficiale
francese - probabilmente il padre di Violette, anche se l'ipotesi non
fu mai confermata - sconvolto dalla gelosia. Violette aveva iniziato a
esercitare la professione a undici anni sotto 1'occhio vigile della ma­
dre; a tredici, quando lei venne assassinata, padroneggiava già le squi­
site arti del piacere, e a quindici superava tutte le rivali. Valmorain
preferiva non pensare con chi si sollazzasse la sua petite amie in sua
assenza, visto che non era disposto ad averla in esclusiva. Si era inca­
pricciato di Violette, movimento e allegria allo stato puro, ma era do­
tato di sufficiente sangue freddo per dominare la fantasia, a differenza
del militare che aveva ucciso la madre e rovinato la propria carriera e
il proprio nome. Si accontentava di portarla a teatro e a feste per uo­
mini alle quali non partecipavano donne bianche e in cui la sua ra­
diosa bellezza attirava gli sguardi. L'invidia che provocava negli altri
uomini esibendosi con lei al braccio gli procurava una soddisfazione
perversa; molti avrebbero sacrificato 1'onore pur di passare una notte
intera con Violette, invece di una o due ore, com'era nei patti, ma quel
privilegio era esclusivamente suo. O almeno così credeva.
La ragazza disponeva di un appartamento con tre stanze e un bal­
cone con una ringhiera in ferro battuto che riproduceva dei gigli al se­
condo piano di un edificio in piazza Clugny, unica eredità lasciatale
dalla madre, a parte alcuni vestiti adatti alla professione. Lì risiedeva
con un certo lusso in compagnia di Loula, una schiava africana, grossa
e mascolina che fungeva da serva e guardia del corpo. Violette tra­
scorreva le ore più calde riposandosi o dedicandosi alla sua bellezza:
massaggi con latte di cocco, depilazione con caramello, impacchi di
olio per i capelli, infusi di erbe per schiarire la voce e lo sguardo. In
alcuni momenti di ispirazione preparava con Loula unguenti per la
pelle, sapone di mandorle, pomate e polveri da trucco che vendeva
16
17
alle sue amicizie femminili. Le sue giornate passavano lente e oziose. Al
tramonto, quando i raggi indeboliti del sole non potevano più mac­
chiarle la pelle, usciva a passeggio a piedi, se il clima lo permetteva, o
su una portantina a mano condotta da due schiavi che noleggiava da
una vicina; così evitava di sporcarsi con lo sterco di cavallo, la spazza­
tura e il fango delle strade di Le Cap. Si vestiva in modo discreto per
non offendere le altre donne: né le bianche né le mulatte tolleravano di
buon grado tanta concorrenza. Si recava nei negozi per fare acquisti e
al molo per procurarsi articoli di contrabbando dai marinai, faceva vi­
sita alla modista, al parrucchiere e alle amiche. Con la scusa di pren­
dere un succo di frutta si tratteneva all'hotel o in qualche caffè, dove
non mancava mai un gentiluomo disposto a invitarla al suo tavolo. Co­
nosceva intimamente i bianchi più potenti della colonia, incluso il mi­
litare di maggior rango, il governatore. Poi tornava a casa a prepararsi
per l'esercizio della sua professione, operazione complicata che richie­
deva un paio d'ore. Possedeva abiti di tutti i colori dell'arcobaleno in
stoffe vistose dell'Europa e dell'Oriente, scarpette e borse coordinate,
cappelli con le piume, scialli ricamati in Cina, mantelline di pelliccia da
usare come strascichi, perché il clima non permetteva di indossarle, e
uno scrigno di gioielli di bigiotteria. Ogni notte, il fortunato amico di
turno - non si chiamava cliente - la portava a qualche spettacolo e a
cena, poi a una festa che durava fino al mattino e infine l'accompa­
gnava a casa sua, dove lei si sentiva al sicuro, perché Loula dormiva su
un pagliericcio a portata di voce e in caso di necessità poteva liberarsi
di un uomo violento. Il suo prezzo era noto e non si citava; il denaro
veniva lasciato in una scatola laccata sul tavolo, e l'appuntamento suc­
cessivo dipendeva dalla mancia.
In un vano tra due assi della parete, che solo Loula conosceva, Vio­
lette teneva nascosto un astuccio di pelle scamosciata con le sue pietre
preziose, alcune delle quali regalatele da Toulouse Valmorain, di cui si
poteva dire tutto tranne che fosse avaro, e alcune monete d'oro acqui­
state poco alla volta, i suoi risparmi per il futuro. Preferiva monili di
bigiotteria, per non tentare i ladri né suscitare chiacchiere, ma indos­
sava i gioielli quando usciva con chi glieli aveva regalati. Portava sem­
pre un modesto anello di opale in stile antico, che le aveva messo al
dito come simbolo di fidanzamento Étienne Relais, un ufficiale fran­
cese. Lo vedeva molto di rado, perché passava l'esistenza a cavallo, al
comando del suo reparto, ma se si trovava a Le Cap lei spostava gli ap­
puntamenti per stare con lui. Relais era l'unico con il quale poteva ab­
bandonarsi all'incantesimo di sentirsi protetta. Toulouse Valmorain
non sospettava di condividere con quel rude soldato l'onore di passare
l'intera notte con Violette. Lei non dava spiegazioni e non aveva mai
18
dovuto scegliere, perché i due non si erano mai trovati in città nello
stesso momento.
"Cosa devo fare con questi due uomini che mi trattano come una fi­
danzata?" chiese Violette a Loula una volta.
"Queste cose si risolvono da sole" rispose la schiava, aspirando a
fondo la sua sigaretta di tabacco grezzo.
"O si risolvono con il sangue. Pensa a mia madre."
"A te non succederà, angelo mio, perché ci sono qua io a prendermi
cura di te."
Loula aveva ragione: il tempo si incaricò di eliminare uno dei pre­
tendenti. Nel giro di un paio d'anni, la relazione con Valmorain si tra­
mutò in un'affettuosa amicizia priva della passione dei primi mesi,
quando lui galoppava fino a far schiattare il cavallo pur di abbracciarla.
I regali costosi si diradarono e a volte lui si recava a Le Cap senza dar
segno di volerla vedere. Violette non glielo rimproverò, perché aveva
sempre avuto chiari i limiti di quella relazione, ma tenne vivi i contatti,
di cui potevano beneficiare entrambi.
Il capitano Étienne Relais godeva della fama di incorruttibile in un
ambiente in cui il vizio era la norma, l'onore in vendita, le leggi si fa­
cevano per poi violarle e si partiva dal presupposto che chi non abu­
sava del potere non meritava di averlo. La sua integrità gli aveva im­
pedito di arricchirsi come altri nella stessa posizione e nemmeno la ten­
tazione di accumulare quanto bastava per ritirarsi in Francia, come
aveva promesso a Violette Boisier, riuscì a farlo deviare da quella che
considerava rettitudine militare. Non esitava a sacrificare i suoi uomini
in una battaglia o a torturare un bambino per ottenere informazioni
dalla madre, ma mai avrebbe messo le mani su denaro che non fosse
stato guadagnato onestamente. Era puntiglioso in materia d'onore e
d'onorabilità. Desiderava portare Violette dove non li conoscevano,
dove nessuno potesse sospettare che lei si era guadagnata da vivere gra­
zie a pratiche di scarsa virtù e non fosse evidente la sua razza mista: bi­
sognava avere l'occhio allenato nelle Antille per scorgere il sangue afri­
cano che scorreva sotto la sua pelle chiara.
A Violette non allettava troppo l'idea di andare in Francia, perché
temeva più gli inverni gelati delle malelingue, dalle quali era immune,
ma aveva accettato lo stesso di accompagnarlo. Stando ai calcoli di Re­
lais, vivendo in modo frugale e accettando missioni molto rischiose, per
le quali si offriva una lauta ricompensa cosÌ da fare carriera rapida­
mente, avrebbe potuto realizzare il suo sogno. Sperava che per quel­
l'epoca Violette fosse maturata e non attirasse tanto l'attenzione con
l'insolenza della sua risata, il luccichio troppo malizioso dei suoi occhi
neri e l'ondeggiare ritmico del suo incedere. Non sarebbe mai passata
19
alle sue amicizie femminili. Le sue giornate passavano lente e oziose. Al
tramonto, quando i raggi indeboliti del sole non potevano più mac­
chiarle la pelle, usciva a passeggio a piedi, se il clima lo permetteva, o
su una portantina a mano condotta da due schiavi che noleggiava da
una vicina; così evitava di sporcarsi con lo sterco di cavallo, la spazza­
tura e il fango delle strade di Le Cap. Si vestiva in modo discreto per
non offendere le altre donne: né le bianche né le mulatte tolleravano di
buon grado tanta concorrenza. Si recava nei negozi per fare acquisti e
al molo per procurarsi articoli di contrabbando dai marinai, faceva vi­
sita alla modista, al parrucchiere e alle amiche. Con la scusa di pren­
dere un succo di frutta si tratteneva all'hotel o in qualche caffè, dove
non mancava mai un gentiluomo disposto a invitarla al suo tavolo. Co­
nosceva intimamente i bianchi più potenti della colonia, incluso il mi­
litare di maggior rango, il governatore. Poi tornava a casa a prepararsi
per l'esercizio della sua professione, operazione complicata che richie­
deva un paio d'ore. Possedeva abiti di tutti i colori dell'arcobaleno in
stoffe vistose dell'Europa e dell'Oriente, scarpette e borse coordinate,
cappelli con le piume, scialli ricamati in Cina, mantelline di pelliccia da
usare come strascichi, perché il clima non permetteva di indossarle, e
uno scrigno di gioielli di bigiotteria. Ogni notte, il fortunato amico di
turno - non si chiamava cliente - la portava a qualche spettacolo e a
cena, poi a una festa che durava fino al mattino e infine l'accompa­
gnava a casa sua, dove lei si sentiva al sicuro, perché Loula dormiva su
un pagliericcio a portata di voce e in caso di necessità poteva liberarsi
di un uomo violento. Il suo prezzo era noto e non si citava; il denaro
veniva lasciato in una scatola laccata sul tavolo, e l'appuntamento suc­
cessivo dipendeva dalla mancia.
In un vano tra due assi della parete, che solo Loula conosceva, Vio­
lette teneva nascosto un astuccio di pelle scamosciata con le sue pietre
preziose, alcune delle quali regalatele da Toulouse Valmorain, di cui si
poteva dire tutto tranne che fosse avaro, e alcune monete d'oro acqui­
state poco alla volta, i suoi risparmi per il futuro. Preferiva monili di
bigiotteria, per non tentare i ladri né suscitare chiacchiere, ma indos­
sava i gioielli quando usciva con chi glieli aveva regalati. Portava sem­
pre un modesto anello di opale in stile antico, che le aveva messo al
dito come simbolo di fidanzamento Étienne Relais, un ufficiale fran­
cese. Lo vedeva molto di rado, perché passava l'esistenza a cavallo, al
comando del suo reparto, ma se si trovava a Le Cap lei spostava gli ap­
puntamenti per stare con lui. Relais era l'unico con il quale poteva ab­
bandonarsi all'incantesimo di sentirsi protetta. Toulouse Valmorain
non sospettava di condividere con quel rude soldato l'onore di passare
l'intera notte con Violette. Lei non dava spiegazioni e non aveva mai
18
dovuto scegliere, perché i due non si erano mai trovati in città nello
stesso momento.
"Cosa devo fare con questi due uomini che mi trattano come una fi­
danzata?" chiese Violette a Loula una volta.
"Queste cose si risolvono da sole" rispose la schiava, aspirando a
fondo la sua sigaretta di tabacco grezzo.
"O si risolvono con il sangue. Pensa a mia madre."
"A te non succederà, angelo mio, perché ci sono qua io a prendermi
cura di te."
Loula aveva ragione: il tempo si incaricò di eliminare uno dei pre­
tendenti. Nel giro di un paio d'anni, la relazione con Valmorain si tra­
mutò in un'affettuosa amicizia priva della passione dei primi mesi,
quando lui galoppava fino a far schiattare il cavallo pur di abbracciarla.
I regali costosi si diradarono e a volte lui si recava a Le Cap senza dar
segno di volerla vedere. Violette non glielo rimproverò, perché aveva
sempre avuto chiari i limiti di quella relazione, ma tenne vivi i contatti,
di cui potevano beneficiare entrambi.
Il capitano Étienne Relais godeva della fama di incorruttibile in un
ambiente in cui il vizio era la norma, l'onore in vendita, le leggi si fa­
cevano per poi violarle e si partiva dal presupposto che chi non abu­
sava del potere non meritava di averlo. La sua integrità gli aveva im­
pedito di arricchirsi come altri nella stessa posizione e nemmeno la ten­
tazione di accumulare quanto bastava per ritirarsi in Francia, come
aveva promesso a Violette Boisier, riuscì a farlo deviare da quella che
considerava rettitudine militare. Non esitava a sacrificare i suoi uomini
in una battaglia o a torturare un bambino per ottenere informazioni
dalla madre, ma mai avrebbe messo le mani su denaro che non fosse
stato guadagnato onestamente. Era puntiglioso in materia d'onore e
d'onorabilità. Desiderava portare Violette dove non li conoscevano,
dove nessuno potesse sospettare che lei si era guadagnata da vivere gra­
zie a pratiche di scarsa virtù e non fosse evidente la sua razza mista: bi­
sognava avere l'occhio allenato nelle Antille per scorgere il sangue afri­
cano che scorreva sotto la sua pelle chiara.
A Violette non allettava troppo l'idea di andare in Francia, perché
temeva più gli inverni gelati delle malelingue, dalle quali era immune,
ma aveva accettato lo stesso di accompagnarlo. Stando ai calcoli di Re­
lais, vivendo in modo frugale e accettando missioni molto rischiose, per
le quali si offriva una lauta ricompensa cosÌ da fare carriera rapida­
mente, avrebbe potuto realizzare il suo sogno. Sperava che per quel­
l'epoca Violette fosse maturata e non attirasse tanto l'attenzione con
l'insolenza della sua risata, il luccichio troppo malizioso dei suoi occhi
neri e l'ondeggiare ritmico del suo incedere. Non sarebbe mai passata
19
mid promi 'l.... nn.·;onni io, Lati.c x<kll... ho
a. U'O ""'Ill;'" fonlln.. di ..kn- ........."C.
~,"ci
'-in,) .1. . . t la m", .«duri. ~~ P - ' p<''''''''
h In'" ..ella la mi..< t"llllik bnlla a..d-e q.....,Ju la
......ctn.............~
•
7~71SR
•