L` immagine-movimento - Dipartimento di Arti e Scienze dello

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L` immagine-movimento - Dipartimento di Arti e Scienze dello
Gilles Deleuze
Cinema 1
L' immagine-movimento
Traduzione di Jean-Paul Manganaro
Milano, Ubulibri 1997
Premessa
Questo studio non è una storia del cinema. È una tassonomia, un tentativo
di classificazione delle immagini e dei segni. Ma questo primo volume deve
accontentarsi di determinare gli elementi, e soprattutto gli elementi di una
sola parte della classificazione.
Ci riferiamo spesso al logico americano Peirce (1839-1914), perché ha
stabilito una classificazione generale delle immagini e dei segni che è
indubbiamente la più completa e la più varia. È come una classificazione di
Linneo in storia naturale o, meglio, una tavola di Mendeleev in chimica. Il
cinema impone nuovi punti di vista su questo problema. Un altro
confronto non è meno necessario. Nel 1896 Bergson scriveva Materia e
memoria: era la diagnosi di una crisi della psicologia. Non si potevano più
opporre il movimento come realtà fisica nel mondo esterno, e l'immagine
come realtà psichica nella coscienza. La scoperta bergsoniana di
un'immagine-movimento, e più profondamente di un'immagine-tempo, ha
in sé ancora oggi una tale ricchezza che forse non se ne sono tratte tutte
le conseguenze. Malgrado la critica troppo sommaria che Bergson farà un
po' più tardi del cinema, niente può impedire la congiunzione
dell'immagine-movimento, quale egli la considera, e dell'immagine
cinematografica. In questa prima parte trattiamo dell'immaginemovimento e delle sue varietà. L'immagine-tempo sarà l'oggetto di una
seconda parte. Ci è sembrato che i grandi autori di cinema potevano
essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a
pensatori. Essi pensano con immagini-movimento, e con immagini-tempo,
invece che con concetti. La grande abbondanza di vacuità nella produzione
cinematografica non costituisce un'obiezione: essa non è peggiore che
altrove, benché abbia conseguenze economiche e industriali non
confrontabili, I grandi autori di cinema sono dunque soltanto più
vulnerabili ed è infinitamente più facile impedirgli di realizzare la loro
opera. La storia del cinema è un lungo martirologio. Ciononostante il
cinema fa parte della storia dell'arte e del pensiero, sotto le forme
autonome insostituibili che questi autori hanno saputo inventare e,
malgrado tutto, imporre. Non presentiamo nessuna riproduzione che
illustri il nostro testo, perché proprio il nostro testo vorrebbe essere
un'illustrazione di grandi film di cui ognuno di noi ha più o meno il ricordo,
l'emozione o la percezione.
Capitolo 1
Tesi sul movimento
Primo commento di Bergson
1.
Bergson non presenta una sola tesi sul movimento, ma tre. La prima
è la più celebre, e rischia di nasconderci le altre due. E tuttavia non è che
un'introduzione alle altre. Secondo questa prima tesi, il movimento non si
confonde con lo spazio percorso. Lo spazio percorso è passato, il
movimento è presente, è l'atto di percorrere. Lo spazio percorso è
divisibile, ed è persino infinitamente divisibile, mentre il movimento è
indivisibile, o non si divide senza cambiare natura a ogni divisione. Il che
suppone già un'idea più complessa: gli spazi percorsi appartengono tutti a
un solo e uguale spazio omogeneo, mentre i movimenti sono eterogenei,
irriducibili tra loro. Ma prima ancora di svilupparsi, la prima tesi ha un
altro enunciato: non si può ricostituire il movimento con posizioni nello
spazio o con istanti nel tempo, cioè con delle "sezioni" immobili...* Tale
ricostituzione si fa solo congiungendo con le posizioni o con gli istanti
l'idea astratta di una successione, di un tempo meccanico, omogeneo,
universale e ricalcato dallo spazio, lo stesso per tutti i movimenti. E allora
si perde il movimento in due modi. Da un lato, si avrà un bel ravvicinare
all'infinito due istanti o due posizioni, il movimento si farà sempre
nell'intervallo tra loro due, dunque alle nostre spalle. Dall'altro, si avrà un
bel dividere e suddividere il tempo, il movimento si farà sempre in una
durata concreta, ogni movimento avrà dunque la propria durata
qualitativa. Si oppongono allora due formule irriducibili: "movimento reale
—> durata concreta", "sezioni immobili + tempo astratto".
* Per essere più fedeli alle intenzioni dell'autore, nel lavoro di traduzione non sempre si è seguito il
vocabolario tecnico italiano. In particolare, la serie "coupe - coupure - découpage" è stata tradotta
in "sezione - interruzione - sezionamento", con una terminologia secondo l'autore più vicina alle
sezioni geometriche e alle operazioni corrispondenti. Per "cadre - cadrage - recadrage - décadrage"
abbiamo scelto "quadro - inquadratura - reinquadratura - disinquadratura", essendo "décadrage"
un neologismo anche in francese, introdotto da Pascal Bonitzer. Infine, la serie "tournement retournement - détournemem " è stata tradotta con "voltarsi - rivoltarsi - svoltarsi". (N.d.T.)
Nel 1907 Bergson battezza, nell'Evoluzione creatrice, la cattiva formula:
è l'illusione cinematografica. Il cinema in effetti procede con due dati
complementari: delle sezioni istantanee che si chiamano immagini; un
movimento o un tempo impersonale, uniforme, astratto, invisibile o
impercettibile, che è "nella" macchina e "con" cui si fanno sfilare le
immagini '. Il cinema ci consegna dunque un falso movimento, è anzi
l'esempio tipico del falso movimento. Ma è strano che Bergson dia un
nome tanto moderno e tanto recente ("cinematografico") alla più vecchia
illusione. In effetti, dice Bergson, quando il cinema ricostituisce il
movimento con sezioni immobili, non fa nient'altro di quanto non facesse
già il più vecchio pensiero (i paradossi di Zenone), o di quanto non faccia
la percezione naturale. A tale proposito, Bergson si distingue dalla
fenomenologia, per la quale il cinema romperebbe piuttosto con le
condizioni della percezione naturale. "Noi scattiamo vedute quasi
istantanee sulla realtà che trascorre, e, siccome sono caratteristiche di
questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme,
invisibile, situato in fondo alla macchina della conoscenza (...). Percezione,
intellezione, linguaggio, procedono in generale così. Che si tratti di
pensare il divenire o di esprimerlo, o anche di percepirlo, non facciamo
nient'altro che azionare una sorta di cinematografo interno". Bisogna forse
intendere che, secondo Bergson, il cinema sarebbe soltanto la proiezione,
la riproduzione di un'illusione costante, universale? Come se si fosse
sempre fatto cinema senza saperlo? Ma allora, si pongono molti problemi.
Anzitutto, la riproduzione dell'illusione non è in un certo modo anche la
sua correzione? Si può concludere dall'artificialità dei mezzi l'artificialità
del risultato? Il cinema procede con fotogrammi, cioè con sezioni immobili,
24 immagini/secondo (o 18 all'inizio). Ma quanto ci mostra, lo si è spesso
notato, non è il fotogramma, bensì un'immagine media alla quale il
movimento non si aggiunge, non si addiziona: il movimento appartiene
invece all'immagine media come dato immediato. Si dirà che lo stesso
accade per la percezione naturale. Ma, in questo caso, l'illusione è corretta
a monte della percezione, tramite le condizioni che rendono la percezione
possibile nel soggetto. Mentre invece al cinema essa è corretta
contemporaneamente all'apparire dell'immagine, per lo spettatore
aldifuori di queste condizioni (a tale proposito, come si vedrà, la
fenomenologia ha ragione di supporre una differenza di natura tra la
percezione naturale e la percezione cinematografica). Insomma, il cinema
non ci da un'immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci da
immediatamente un'immagine-movimento. Ci da certo una sezione, ma
una sezione mobile, e non una sezione immobile + movimento astratto.
Ma Bergson, ed è di nuovo assai strano, aveva perfettamente scoperto
l'esistenza delle sezioni mobili o delle immagini-movimento. Ciò accadeva
prima dell'Evoluzione creatrice, e prima della nascita ufficiale del cinema,
in Materia e memoria nel 1896. La scoperta dell'immagine-movimento,
aldilà delle condizioni della percezione naturale, era la prodigiosa
invenzione del primo capitolo di Materia e memoria. Bisogna forse credere
che Bergson l'avesse dimenticata dieci anni dopo? Oppure si lasciava
intrappolare in un'altra illusione che colpisce ogni cosa ai suoi inizi? Si sa
che le cose e le persone sono sempre costrette a nascondersi, sono
sempre determinate a nascondersi quando cominciano. Come potrebbe
essere diversamente? Esse sorgono in un insieme che ancora non le
implicava, e devono evidenziare i caratteri comuni che conservano con
l'insieme, per non essere rigettate. L'essenza di una cosa non appare mai
all'inizio, ma in mezzo, nel corso del suo sviluppo, quando le sue forze
sono consolidate. Questo Bergson lo sapeva meglio di ogni altro, lui che
aveva trasformato la filosofia ponendo la questione del "nuovo" invece di
quella dell'eternità (come sono possibili la produzione e l'apparizione di
qualche cosa di nuovo?). Per esempio, diceva che la novità della vita non
poteva apparire agli inizi, perché all'inizio la vita era assolutamente
costretta a imitare la materia... Non è forse la stessa cosi per il cinema? Il
cinema ai suoi inizi non è forse costretto a imitare la percezione naturale?
E, ancor meglio, qual era la situazione del cinema all'inizio? Da un lato la
ripresa era fissa, il piano era dunque spaziale e formalmente immobile;
dall'altro la macchina da presa si confondeva con la macchina da
proiezione, dotata di un tempo uniforme astratto. L’evoluzione del cinema,
la conquista della sua propria essenza o novità, si farà attraverso il
montaggio, la cinepresa mobile e l'emancipazione della ripresa che si
separa dalla proiezione. Allora il piano cesserà di essere una categoria
spaziale per diventare temporale; e la sezione sarà una sezione mobile e
non più immobile. Il cinema ritroverà esattamente l'immagine-movimento
del primo capitolo di Materia e memoria. Bisogna concludere che la prima
tesi di Bergson sul movimento è più complessa di quanto dapprima non
sembrasse. C'è da una parte una critica contro tutti i tentativi di
ricostituire il movimento con lo spazio percorso, cioè addizionando sezioni
immobili istantanee e tempo astratto. E c'è d'altra parte la critica del
cinema, denunciato come uno fra i tentativi illusori, come il tentativo che
fa culminare l'illusione. Ma c'è anche la tesi di Materia e memoria, le
sezioni mobili, i piani temporali, che presentiva in modo profetico
l'avvenire o l'essenza del cinema.
2. Ora, appunto, L'evoluzione creatrice presenta una seconda tesi che,
invece di ridurre tutto a una stessa illusione sul movimento, distingue
almeno due illusioni assai diverse. L'errore è sempre quello di ricostituire il
movimento
con
istanti
o
posizioni,
ma
vi
sono
due modi di farlo, l'antico e il moderno. Per l'antichità, il movimento rinvia
a degli elementi intelligibili, Forme o Idee che sono esse stesse eterne e
immobili. Certo, per ricostituire il movimento, si coglieranno tali forme nel
momento più prossimo alla loro attualizzazione in una materia-flusso.
Sono potenzialità che passano all'atto solo incarnandosi nella materia. Ma,
inversamente, il movimento non fa che esprimere una "dialettica" delle
forme, una sintesi ideale che gli da ordine e misura. Il movimento così
concepito sarà dunque il passaggio regolato da una forma a un'altra, cioè
un ordine delle pose o degli istanti privilegiati, come in una danza. Le
forme o idee "sono supposte caratterizzare un periodo di cui
esprimerebbero la quintessenza, mentre il resto di questo periodo è
riempito dal passaggio, sprovvisto in se stesso di interesse, da una forma
a un'altra forma... Si nota il termine finale o il punto culminante (télos
acmè), lo si erige a momento essenziale, e tale momento, che il
linguaggio ha fissato per esprimere l'insieme del fatto, basta anche alla
scienza per caratterizzarlo" 2. La rivoluzione scientifica moderna è
consistita nel ricondurre il movimento, non più a degli istanti privilegiati,
ma all'istante qualsiasi. Anche a costo di ricomporre il movimento, non lo
si ricomponeva più a partire da elementi formali trascendenti (pose), ma a
partire da clementi materiali immanenti (sezioni). Invece di fare una
sintesi intelligibile del movimento, se ne conduceva un'analisi sensibile. Ed
è così che si costituirono sia l'astronomia moderna, determinando una
relazione tra un'orbita e il tempo impiegato a percorrerla (Keplero), sia la
fisica moderna, collegando lo spazio percorso con il tempo della caduta di
un corpo (Galileo), sia la geometria moderna, mettendo in evidenza
l'equazione di una curva piana, cioè la posizione di un punto su una linea
diritta mobile a un momento qualsiasi del suo percorso (Cartesio), sia
infine il calcolo infinitesimale, appena si ebbe l'idea di considerare delle
sezioni infinitamente ravvicinabili (Newton e Leibniz). Ovunque, la
successione meccanica di istanti qualsiasi sostituiva l'ordine dialettico delle
pose: "La scienza moderna deve definirsi soprattutto per la sua
aspirazione a prendere il tempo come variabile e indipendente" 3. Il
cinema sembra essere appunto l'ultimo nato di questa stirpe evidenziata
da Bergson. Si potrebbe concepire una serie di mezzi di traslazione (treno,
auto, aereo...), e parallelamente una serie di mezzi di espressione
(grafica, foto, cinema): la macchina da presa apparirebbe allora come un
meccanismo di scambio, o piuttosto un equivalente generalizzato dei
movimenti di traslazione. Ed è proprio così che appare nei film di
Wenders. Quando ci si interroga sulla preistoria del cinema, succede di
cadere in considerazioni confuse, perché non si sa dove far risalire ne
come definire la linea tecnologica che lo caratterizza. Si possono allora
invocare le ombre cinesi o i sistemi di proiezione più arcaici. Ma, di fatto,
le condizioni determinanti del cinema sono le seguenti: non solamente la
foto, ma la foto istantanea (la foto di posa appartiene all'altra linea);
l'equidistanza delle istantanee; il riporto di questa equidistanza su un
supporto che costituisce il "film" (Edison e Dickson perforano la pellicola);
un meccanismo di avanzamento delle immagini (le graffe di Lumière).
Proprio in tal senso il cinema è il sistema che riproduce il movimento in
funzione del momento qualsiasi, cioè in funzione di istanti equidistanti
scelti in modo da dare l'impressione di continuità. Ogni altro sistema, che
riproduca il movimento attraverso un ordine di pose proiettate in modo da
passare le une nelle altre o "trasformarsi", è estraneo al cinema. Lo si
vede bene quando si cerca di definire il cartone animato: se appartiene
pienamente al cinema, è perché il disegno non vi costituisce più una posa
o una figura compiuta, ma la descrizione di una figura che si sta sempre
facendo o disfacendo, attraverso il movimento di linee e di punti presi a
istanti qualsiasi del loro percorso. Il cartone animato rinvia a una
geometria cartesiana, e non euclidea. Non ci presenta una figura descritta
in un momento unico, ma la continuità del movimento che descrive la
figura. E tuttavia il cinema sembra nutrirsi di istanti privilegiati. Si dice
spesso che Eisenstein estrae dai movimenti o dalle evoluzioni certi
momenti di crisi di cui fa per eccellenza l'oggetto del cinema. È anche ciò
che egli chiamava il "patetico": egli seleziona dei punti culminanti e delle
grida, spinge le scene sino al parossismo, e le pone in collisione l'una con
l'altra. Ma non è affatto un'obiezione. Ritorniamo alla preistoria del
cinema, e al celebre esempio del galoppo del cavallo; esso ha potuto
essere scomposto esattamente solo attraverso le registrazioni grafiche di
Marey e le istantanee equidistanti di Muybridge, che riportano l'insieme
organizzato dell'andatura a un punto qualsiasi. Se si scelgono bene gli
equidistanti, è giocoforza cadere su tempi notevoli, cioè sui momenti in cui
il cavallo ha un piede a terra, poi tre, due, tre, uno. Possono essere
chiamati istanti privilegiati: ma non è affatto nel senso delle pose o delle
posture generali che caratterizzavano il galoppo nelle forme antiche.
Questi istanti non hanno più nulla a che vedere con delle pose, e
sarebbero anzi formalmente impossibili in quanto pose. Se sono istanti
privilegiati, è a titolo di punti notevoli o singolari che appartengono al
movimento, e non a titolo di momenti di attualizzazione di una forma
trascendente. La nozione ha cambiato del tutto di senso. Gli istanti
privilegiati di Eisenstein, o di qualsiasi altro autore, sono ancora istanti
qualsiasi; solo che l'istante qualsiasi può essere regolare o singolare,
ordinario o notevole. Il fatto che Eisenstein selezioni istanti notevoli non
impedisce che egli li tragga da un'analisi immanente del movimento, e
non da una sintesi trascendente. L'istante notevole o singolare rimane un
istante qualsiasi tra gli altri. È anzi la differenza tra la dialettica moderna,
a cui Eisenstein fa appello, e la dialettica antica. Quest'ultima è l'ordine
delle forme trascendenti che si attualizzano in un movimento, mentre
quell'altra è la produzione e il confronto dei punti singolari immanenti al
movimento. Ora, tale produzione di singolarità (il salto qualitativo) si fa
per accumulazione di ordinari (processo quantitativo), tanto che il
singolare è prelevato sul qualsiasi, è esso stesso un qualsiasi
semplicemente non-ordinario o non-regolare. Lo stesso Eisenstein
precisava che "il patetico" supponeva "l'organico", come l'insieme
organizzato degli istanti qualsiasi in cui le interruzioni devono passare 4.
L'istante qualsiasi è l'istante equidistante da un altro. Definiamo dunque il
cinema come il sistema che riproduce il movimento riportandolo all'istante
qualsiasi. Ma proprio a questo punto la difficoltà rimbalza. Qual è
l'interesse di un tale sistema? Dal punto di vista della scienza, esso ha
poco peso. Poiché la rivoluzione scientifica era di analisi. E se era
necessario riportare il movimento all'istante qualsiasi per farne l'analisi, si
concepiva male l'interesse di una sintesi o di una ricostituzione fondata
sullo stesso principio, tranne un vago interesse di conferma. È per questo
che né Marey né Lumière avevano molta fiducia nell'invenzione del
cinema. Aveva almeno un interesse artistico? Apparentemente no, dato
che l'arte sembrava conservare i diritti di una sintesi più alta del
movimento, e sembrava restare legata alle pose e alle forme che la
scienza aveva ripudiato. Ci troviamo proprio nel cuore della situazione
ambigua del cinema come "arte industriale": non era ne un'arte ne una
scienza. Ciononostante, i contemporanei potevano essere sensibili a
un'evoluzione che trascinava le arti e cambiava lo statuto del movimento,
anche in pittura. A maggior ragione, la danza, il balletto, il mimo
abbandonavano le figure e le pose per liberare valori non-posati, nonpulsati, che riportavano il movimento all'istante qualsiasi. Perciò, la danza,
il balletto, il mimo diventavano azioni capaci di rispondere alle irregolarità
dell'ambiente, cioè alla ripartizione dei punti di uno spazio o dei momenti
di un avvenimento. Tutto ciò cospirava con il cinema. Sin dal sonoro, il
cinema sarà capace di fare della commedia musicale uno dei suoi grandi
generi, con la "danza-azione" di Fred Astaire che si svolge in un luogo
qualsiasi, nella strada, tra le macchine, lungo un marciapiede 5. Ma già nel
muto Chaplin aveva strappato il mimo all'arte delle pose per farne un
mimo-azione. A coloro che rimproveravano a Charlot di servirsi del
cinema, e non di servirlo, Mitry rispondeva dicendo che egli dava al mimo
un nuovo modello, funzione dello spazio e del tempo, continuità costruita
a ogni istante che si lasciava scomporre solo nei suoi elementi immanenti
notevoli, invece di riportarsi a forme preliminari da incarnare 6.
Bergson mostra con forza che il cinema appartiene pienamente a questa
concezione moderna del movimento. Ma, da questo punto in poi, sembra
esitare tra due strade, di cui una lo riconduce alla sua prima tesi e l'altra
invece da adito a un problema nuovo. Secondo la prima strada, pur
essendo le due concezioni molto diverse dal punto di vista della scienza,
cionondimeno sono pressappoco identiche quanto al loro risultato. È la
stessa cosa in effetti ricomporre il movimento con pose eterne o con
sezioni immobili: in tutt'e due i casi si perde il movimento, perché ci si da
un tutto, si suppone che "tutto è dato", mentre il movimento si fa soltanto
se il tutto non è ne dato ne può essere dato. Appena ci si da il tutto
nell'ordine eterno delle forme e delle pose, o nell'insieme degli istanti
qualsiasi, allora il tempo non è altro che l'immagine dell'eternità, o la
conseguenza dell'insieme: non c'è posto per il movimento reale7.
Un'altra strada sembrava tuttavia offrirsi a
Bergson. Poiché, se la
concezione antica corrisponde alla filosofia antica che si ripropone di
pensare l'eterno, la concezione moderna, la scienza moderna, richiede
un'altra filosofia. Quando si riporta il movimento a dei momenti qualsiasi,
bisogna diventare capaci di pensare la produzione del nuovo, cioè del
notevole e del singolare, in uno qualunque di questi momenti: è una
conversione totale della filosofia ed è ciò che Bergson si propone infine di
fare, dare cioè alla scienza moderna la metafisica che le corrisponde, che
le manca, come una metà manca all'altra sua metà 8. Ma ci si può fermare
su questa strada? Si può negare che le arti abbiano da fare anch'esse
questa conversione? E che il cinema non sia un fattore essenziale a tale
riguardo, che abbia persino una parte da giocare nella nascita e nella
formazione di questo nuovo pensiero, di questo nuovo modo di pensare?
Ecco che Bergson non si accontenta più di confermare la sua prima tesi sul
movimento. Benché essa si fermi per strada, la seconda tesi rende
possibile un altro punto di vista sul cinema, che non è più la macchina
perfezionata della più vecchia illusione, ma al contrario l'organo da
perfezionare della nuova realtà.
3. Ed è la terza tesi di Bergson, sempre cos'Evoluzione creatrice. Se si
provasse a darne una formula brutale, si direbbe: non soltanto l'istante è
una sezione immobile del movimento, ma il movimento è una sezione
mobile della durata, cioè del Tutto o di un tutto. Ciò implica che il
movimento esprime qualche cosa di più profondo del cambiamento nella
durata o del tutto. Che la durata sia cambiamento, fa parte della sua
stessa definizione: essa cambia e non cessa di cambiare. Per esempio, la
materia si muove, ma non cambia. Ora, il movimento esprime un
cambiamento nella durata o nel tutto. Ciò che costituisce problema, è da
una parte questa espressione, e dall'altra questa identificazione tuttodurata. Il movimento è una traslazione nello spazio. Ora, ogni volta che vi
è traslazione di parti nello spazio, c'è anche cambiamento qualitativo in un
tutto. Bergson ne dava molteplici esempi in Materia e memoria. Un
animale si muove, non gratuitamente, ma per mangiare, per migrare,
eccetera. Si direbbe che il movimento suppone una differenza di
potenziale, e si propone di colmarla. Se considero astrattamente delle
parti o dei luoghi, A e B, non capisco il movimento che va dall'uno all'altro.
Ma io sono in A, affamato, e in B c'è del cibo. Quando ho raggiunto B e
dopo aver mangiato, ciò che è cambiato non è soltanto il mio stato, è lo
stato del tutto che comprendeva B, A e tutto ciò che c'era tra essi.
Quando Achille supera la tartaruga, ciò che cambia è lo stato del tutto che
comprendeva Achille, la tartaruga e la distanza tra loro. Il movimento
rinvia sempre a un cambiamento, la migrazione a una variazione
stagionale. E ciò non è meno vero dei corpi: la caduta di un corpo ne
suppone un altro che l'attira, ed esprime un cambiamento nel tutto che li
comprende tutt'e due. Se si pensa a puri atomi, i loro movimenti che
testimoniano un'azione reciproca di tutte le parti della materia esprimono
necessariamente delle modificazioni, delle perturbazioni, dei cambiamenti
di energia nel tutto. Ciò che Bergson scopre aldilà della traslazione, è la
vibrazione, l'irradiazione. Il nostro torto è di credere che le cose che si
muovono, sono elementi qualsiasi esterni alle qualità. Ma le qualità stesse
sono pure vibrazioni che cambiano nel tempo stesso in cui si muovono gli
elementi pretesi9
Nell'Evoluzione creatrice, Bergson da un esempio tanto celebre che non
sappiamo più vedere quanto vi è di sorprendente. Dice che, mettendo
zucchero in un bicchiere d'acqua, "devo aspettare che lo zucchero si
sciolga" 10. È strano malgrado tutto, dato che Bergson sembra dimenticare
che il movimento di un cucchiaio può affrettare questa dissoluzione. Ma
cosa vuoi dire anzitutto? Vuole dire che il movimento di traslazione che
stacca le particelle di zucchero e le mette in sospensione nell'acqua
esprime esso stesso un cambiamento nel tutto, cioè nel contenuto del
bicchiere, un passaggio qualitativo dell'acqua nella quale vi è uno
zucchero allo stato d'acqua zuccherata. Se agito con il cucchiaio, accelero
il movimento, ma cambio anche il tutto che comprende adesso il
cucchiaio, e il movimento accelerato continua a esprimere il cambiamento
del tutto. "Gli spostamenti molto superficiali di masse e di molecole, che la
fisica e la chimica studiano", diventano, "in rapporto al movimento vitale
che si produce in profondità, che è trasformazione e non più traslazione,
ciò che la stasi di un mobile è al movimento di tale mobile nello spazio" 11.
Bergson, nella sua terza tesi, presenta dunque l'analogia seguente:
sezioni immobili
__________________
movimento
movimento come sezione mobile
=
___________________________________
cambiamento qualitativo
Con questa differenza, che il rapporto di sinistra esprime un'illusione,
mentre il rapporto di destra esprime una realtà. Ciò che Bergson vuole
dire soprattutto con il bicchiere d'acqua zuccherata, è che l'attesa, quale
essa sia, esprime una durata come realtà mentale, spirituale. Ma perché
questa durata spirituale testimonia non soltanto me che aspetto, ma un
tutto che cambia? Bergson diceva: il tutto non è ne dato ne può essere
dato (e l'errore tanto della scienza moderna quanto della scienza antica,
era di darsi il tutto, in due modi diversi). Molti filosofi avevano già detto
che il tutto non era ne dato ne poteva essere dato; ma essi ne traevano
soltanto la conclusione che il tutto era una nozione priva di senso. La
conclusione di Bergson è molto diversa: se il tutto non può essere dato,
ciò avviene perché esso è l'Aperto, e spetta a lui cambiare senza tregua o
far sorgere qualcosa di nuovo, insomma, durare. "La durata dell'universo
deve essere una sola cosa con la latitudine di creazione che può trovarvi
posto" 12. Tanto che ogni volta che ci si troverà davanti a una durata o in
una durata, si potrà concludere con l'esistenza di un tutto che cambia, e
che è aperto in qualche parte. È risaputo che Bergson ha anzitutto
scoperto la durata come identica alla coscienza. Ma uno studio più spinto
della coscienza l'ha condotto a mostrare che essa esisteva solo aprendosi
su un tutto, coincidendo con l'apertura di un tutto. La stessa cosa per il
vivente: quando Bergson paragona il vivente a un tutto, o al tutto
dell'universo, sembra riprendere il paragone più vecchio". E tuttavia ne
capovolge completamente i termini. Poiché se il vivente è un tutto,
dunque assimilabile al tutto dell'universo, non è perché verrebbe a essere
un microcosmo tanto chiuso quanto il tutto è supposto esserlo, ma invece
in quanto è aperto su un mondo, e in quanto il mondo, l'universo, è esso
stesso l'Aperto. "Dovunque qualcosa vive, vi è, aperto in qualche parte,
un registro in cui s'iscrive il tempo" l4. Se bisognasse definire il tutto, lo si
definirebbe attraverso la Relazione. E la relazione non è una proprietà
degli oggetti, è sempre esterna ai suoi termini. Sicché è inseparabile
dall'aperto, e presenta un'esistenza spirituale o mentale. Le relazioni non
appartengono agli oggetti, ma al tutto, a condizione di non confonderlo
con un insieme chiuso di oggetti 15. Grazie al movimento nello spazio, gli
oggetti di un insieme cambiano le rispettive posizioni. Ma, attraverso le
relazioni, il tutto si trasforma o cambia di qualità. Della durata stessa o
del tempo, possiamo dire che è il tutto delle relazioni.
Non si deve confondere il tutto, i "tutti", con degli insiemi. Gli insiemi
sono chiusi, e tutto ciò che è chiuso è artificialmente chiuso. Gli insiemi
sono sempre degli insiemi di parti. Ma un tutto non è chiuso, è aperto; e
non ha parti, tranne in un senso assai particolare, dato che non si divide
senza cambiare natura a ogni tappa della divisione. "Il tutto reale
potrebbe essere una continuità indivisibile" 16.
Il tutto non è un insieme chiuso, ma al contrario è ciò per cui un insieme
non è mai assolutamente chiuso, mai completamente al riparo, il che lo
mantiene aperto in qualche parte, quasi che un tenue filo lo colleghi al
resto dell'universo. Il bicchiere d'acqua è appunto un insieme chiuso che
racchiude delle parti, l'acqua, lo zucchero, forse il cucchiaio; ma in ciò
non è il tutto. Il tutto si crea, e non cessa di crearsi in un'altra
dimensione senza parti, come ciò che trascina l'insieme da uno stato
qualitativo a un altro, come il puro divenire senza sosta che passa
attraverso questi stati. E in tal senso esso è spirituale o mentale. "Il
bicchiere d'acqua, lo zucchero e il processo di dissoluzione dello zucchero
nell'acqua sono senza dubbio delle astrazioni, e il Tutto nel quale essi
sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intendere progredisce forse
allo stesso modo di una coscienza" 17. Resta il fatto che questo
sezionamento artificiale di un insieme o di un sistema chiuso non è una
pura illusione. È invece fondato, e se è impossibile spezzare il legame di
ogni cosa con il tutto (questo legame paradossale che la collega con
l'aperto), esso può almeno essere allungato e disteso all'infinito, può
essere reso sempre più tenue. Ciò perché l'organizzazione della materia
rende possibili sistemi chiusi o insiemi determinati di parti; e lo
spiegamento dello spazio li rende necessari. Ma, precisamente, gli insiemi
sono nello spazio, e il tutto, i tutti sono nella durata, sono la durata
stessa in quanto non cessa di cambiare. Cosicché le due formule che
corrispondevano alla prima tesi di Bergson assumono adesso uno statuto
molto più rigoroso: "sezioni immobili + tempo astratto" rinvia agli insiemi
chiusi le cui parti sono in effetti delle sezioni immobili, e gli stati
successivi sono calcolati su un tempo astratto; mentre "movimento reale
—> durata concreta" rinvia all'apertura di un tutto che dura, e i cui
movimenti sono altrettante sezioni mobili che attraversano i sistemi
chiusi. Al termine di questa terza tesi, ci troviamo in effetti su tre livelli:
1) gli insiemi o sistemi chiusi, che si definiscono attraverso oggetti
discernibili o parti distinte; 2) il movimento di traslazione, che si stabilisce
tra tali oggetti e ne modifica la rispettiva posizione; 3) la durata o il tutto,
realtà spirituale che non cessa di cambiare secondo le sue relazioni
proprie.
Il movimento ha dunque, in un certo senso, due aspetti. Da una parte è
quanto accade tra oggetti o parti, dall'altra ciò che esprime la durata o il
tutto. Esso fa sì che la durata, cambiando natura, si divida negli oggetti, e
che gli oggetti, approfondendosi, perdendo i loro contorni, si riuniscano
nella durata. Si dirà dunque che il movimento riporta gli oggetti da un
sistema chiuso alla durata aperta, e la durata agli oggetti del sistema che
essa costringe ad aprirsi. Il movimento riporta gli oggetti tra i quali si
stabilisce al tutto cambiante che esso esprime, e inversamente. Col
movimento, il tutto si divide negli oggetti, e gli oggetti si riuniscono nel
tutto: e, tra loro, per l'appunto "tutto" cambia. Possiamo considerare gli
oggetti o le parti di un insieme come sezioni immobili; ma il movimento si
stabilisce tra queste sezioni, riporta gli oggetti o le parti alla durata di un
tutto che cambia, esprime dunque il cambiamento del tutto nei confronti
degli oggetti, è esso stesso una sezione mobile della durata. Siamo allora
in grado di capire la tesi tanto profonda del primo capitolo di Materia e
memoria: 1) non vi sono soltanto delle immagini istantanee, cioè sezioni
immobili del movimento; 2) vi sono immagini-movimento che sono
sezioni mobili della durata; 3) vi sono infine immagini-tempo, cioè
immagini-durata, immagini-cambiamento, immagini-relazione, immaginivolume, aldilà del movimento stesso...
Note
¹ L'evoluzione creatrice, p. 753 (305). Si citano i testi di Bergson secondo l’edizione detta del
"Centenaire"; tra parentesi, si indica la paginatura dell'edizione corrente di ogni libro (Presses
Universitaires de Franco). [Non si citano invece traduzioni italiane, non volendo fare riferimento, in
mancanza dell'edizione critica integrale, a singole e sparse edizioni, di tono perlopiù scolastico.
N.d.T.]
² L'evoluzione creatrice, p. 774 (330).
3
Ibid., p. 779 (335).
4 Sull'organico e il patetico, cfr. Eisenstein, La natura non indifferente, a cura di Pietro Montani,
Marsilio.
5
Arthur Knight, "Revue du cinéma", n. 10.
6
Jean Mitry, Histoire du cinéma muet, III, Ed. Universitaires, pp. 49-51.
7
L'evoluzione creatrice, p. 794 (353).
8
L'evoluzione creatrice, p. 786 (343).
9
Per tutti questi punti, cfr. Materia e memoria, cap. IV, pp. 332-40 (220-30).
10
L'evoluzione creatrice, p. 502 (9-10).
11
Ibid., p. 521 (32).
12
L'evoluzione creatrice, p. 782 (339).
13
Ibid., p. 507 (15).
14
Ibid.. p. 508 (16). L'unica, ma notevole, somiglianza tra Bergson e Heidegger e appunto questa:
entrambi fondano la specificità del tempo su una concezione dell'aperto.
15
Si fa intervenire qui il problema delle relazioni, benché non sia esplicitamente posto da Bergson.
Si sa che la relazione tra due cose non può essere ridotta a un attributo di una cosa o dell'altra e
nemmeno a un attributo dell'insieme. In compenso, la possibilità di riportare le relazioni a un tutto
è intera se si concepisce questo tutto come un "continuo" e non come un insieme dato.
16
L'evoluzione creatrice, p. 520 (31).
17
Ibid., pp. 502-3 (10-11).