L` immagine-movimento - Dipartimento di Arti e Scienze dello
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L` immagine-movimento - Dipartimento di Arti e Scienze dello
Gilles Deleuze Cinema 1 L' immagine-movimento Traduzione di Jean-Paul Manganaro Milano, Ubulibri 1997 Premessa Questo studio non è una storia del cinema. È una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni. Ma questo primo volume deve accontentarsi di determinare gli elementi, e soprattutto gli elementi di una sola parte della classificazione. Ci riferiamo spesso al logico americano Peirce (1839-1914), perché ha stabilito una classificazione generale delle immagini e dei segni che è indubbiamente la più completa e la più varia. È come una classificazione di Linneo in storia naturale o, meglio, una tavola di Mendeleev in chimica. Il cinema impone nuovi punti di vista su questo problema. Un altro confronto non è meno necessario. Nel 1896 Bergson scriveva Materia e memoria: era la diagnosi di una crisi della psicologia. Non si potevano più opporre il movimento come realtà fisica nel mondo esterno, e l'immagine come realtà psichica nella coscienza. La scoperta bergsoniana di un'immagine-movimento, e più profondamente di un'immagine-tempo, ha in sé ancora oggi una tale ricchezza che forse non se ne sono tratte tutte le conseguenze. Malgrado la critica troppo sommaria che Bergson farà un po' più tardi del cinema, niente può impedire la congiunzione dell'immagine-movimento, quale egli la considera, e dell'immagine cinematografica. In questa prima parte trattiamo dell'immaginemovimento e delle sue varietà. L'immagine-tempo sarà l'oggetto di una seconda parte. Ci è sembrato che i grandi autori di cinema potevano essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a pensatori. Essi pensano con immagini-movimento, e con immagini-tempo, invece che con concetti. La grande abbondanza di vacuità nella produzione cinematografica non costituisce un'obiezione: essa non è peggiore che altrove, benché abbia conseguenze economiche e industriali non confrontabili, I grandi autori di cinema sono dunque soltanto più vulnerabili ed è infinitamente più facile impedirgli di realizzare la loro opera. La storia del cinema è un lungo martirologio. Ciononostante il cinema fa parte della storia dell'arte e del pensiero, sotto le forme autonome insostituibili che questi autori hanno saputo inventare e, malgrado tutto, imporre. Non presentiamo nessuna riproduzione che illustri il nostro testo, perché proprio il nostro testo vorrebbe essere un'illustrazione di grandi film di cui ognuno di noi ha più o meno il ricordo, l'emozione o la percezione. Capitolo 1 Tesi sul movimento Primo commento di Bergson 1. Bergson non presenta una sola tesi sul movimento, ma tre. La prima è la più celebre, e rischia di nasconderci le altre due. E tuttavia non è che un'introduzione alle altre. Secondo questa prima tesi, il movimento non si confonde con lo spazio percorso. Lo spazio percorso è passato, il movimento è presente, è l'atto di percorrere. Lo spazio percorso è divisibile, ed è persino infinitamente divisibile, mentre il movimento è indivisibile, o non si divide senza cambiare natura a ogni divisione. Il che suppone già un'idea più complessa: gli spazi percorsi appartengono tutti a un solo e uguale spazio omogeneo, mentre i movimenti sono eterogenei, irriducibili tra loro. Ma prima ancora di svilupparsi, la prima tesi ha un altro enunciato: non si può ricostituire il movimento con posizioni nello spazio o con istanti nel tempo, cioè con delle "sezioni" immobili...* Tale ricostituzione si fa solo congiungendo con le posizioni o con gli istanti l'idea astratta di una successione, di un tempo meccanico, omogeneo, universale e ricalcato dallo spazio, lo stesso per tutti i movimenti. E allora si perde il movimento in due modi. Da un lato, si avrà un bel ravvicinare all'infinito due istanti o due posizioni, il movimento si farà sempre nell'intervallo tra loro due, dunque alle nostre spalle. Dall'altro, si avrà un bel dividere e suddividere il tempo, il movimento si farà sempre in una durata concreta, ogni movimento avrà dunque la propria durata qualitativa. Si oppongono allora due formule irriducibili: "movimento reale —> durata concreta", "sezioni immobili + tempo astratto". * Per essere più fedeli alle intenzioni dell'autore, nel lavoro di traduzione non sempre si è seguito il vocabolario tecnico italiano. In particolare, la serie "coupe - coupure - découpage" è stata tradotta in "sezione - interruzione - sezionamento", con una terminologia secondo l'autore più vicina alle sezioni geometriche e alle operazioni corrispondenti. Per "cadre - cadrage - recadrage - décadrage" abbiamo scelto "quadro - inquadratura - reinquadratura - disinquadratura", essendo "décadrage" un neologismo anche in francese, introdotto da Pascal Bonitzer. Infine, la serie "tournement retournement - détournemem " è stata tradotta con "voltarsi - rivoltarsi - svoltarsi". (N.d.T.) Nel 1907 Bergson battezza, nell'Evoluzione creatrice, la cattiva formula: è l'illusione cinematografica. Il cinema in effetti procede con due dati complementari: delle sezioni istantanee che si chiamano immagini; un movimento o un tempo impersonale, uniforme, astratto, invisibile o impercettibile, che è "nella" macchina e "con" cui si fanno sfilare le immagini '. Il cinema ci consegna dunque un falso movimento, è anzi l'esempio tipico del falso movimento. Ma è strano che Bergson dia un nome tanto moderno e tanto recente ("cinematografico") alla più vecchia illusione. In effetti, dice Bergson, quando il cinema ricostituisce il movimento con sezioni immobili, non fa nient'altro di quanto non facesse già il più vecchio pensiero (i paradossi di Zenone), o di quanto non faccia la percezione naturale. A tale proposito, Bergson si distingue dalla fenomenologia, per la quale il cinema romperebbe piuttosto con le condizioni della percezione naturale. "Noi scattiamo vedute quasi istantanee sulla realtà che trascorre, e, siccome sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato in fondo alla macchina della conoscenza (...). Percezione, intellezione, linguaggio, procedono in generale così. Che si tratti di pensare il divenire o di esprimerlo, o anche di percepirlo, non facciamo nient'altro che azionare una sorta di cinematografo interno". Bisogna forse intendere che, secondo Bergson, il cinema sarebbe soltanto la proiezione, la riproduzione di un'illusione costante, universale? Come se si fosse sempre fatto cinema senza saperlo? Ma allora, si pongono molti problemi. Anzitutto, la riproduzione dell'illusione non è in un certo modo anche la sua correzione? Si può concludere dall'artificialità dei mezzi l'artificialità del risultato? Il cinema procede con fotogrammi, cioè con sezioni immobili, 24 immagini/secondo (o 18 all'inizio). Ma quanto ci mostra, lo si è spesso notato, non è il fotogramma, bensì un'immagine media alla quale il movimento non si aggiunge, non si addiziona: il movimento appartiene invece all'immagine media come dato immediato. Si dirà che lo stesso accade per la percezione naturale. Ma, in questo caso, l'illusione è corretta a monte della percezione, tramite le condizioni che rendono la percezione possibile nel soggetto. Mentre invece al cinema essa è corretta contemporaneamente all'apparire dell'immagine, per lo spettatore aldifuori di queste condizioni (a tale proposito, come si vedrà, la fenomenologia ha ragione di supporre una differenza di natura tra la percezione naturale e la percezione cinematografica). Insomma, il cinema non ci da un'immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci da immediatamente un'immagine-movimento. Ci da certo una sezione, ma una sezione mobile, e non una sezione immobile + movimento astratto. Ma Bergson, ed è di nuovo assai strano, aveva perfettamente scoperto l'esistenza delle sezioni mobili o delle immagini-movimento. Ciò accadeva prima dell'Evoluzione creatrice, e prima della nascita ufficiale del cinema, in Materia e memoria nel 1896. La scoperta dell'immagine-movimento, aldilà delle condizioni della percezione naturale, era la prodigiosa invenzione del primo capitolo di Materia e memoria. Bisogna forse credere che Bergson l'avesse dimenticata dieci anni dopo? Oppure si lasciava intrappolare in un'altra illusione che colpisce ogni cosa ai suoi inizi? Si sa che le cose e le persone sono sempre costrette a nascondersi, sono sempre determinate a nascondersi quando cominciano. Come potrebbe essere diversamente? Esse sorgono in un insieme che ancora non le implicava, e devono evidenziare i caratteri comuni che conservano con l'insieme, per non essere rigettate. L'essenza di una cosa non appare mai all'inizio, ma in mezzo, nel corso del suo sviluppo, quando le sue forze sono consolidate. Questo Bergson lo sapeva meglio di ogni altro, lui che aveva trasformato la filosofia ponendo la questione del "nuovo" invece di quella dell'eternità (come sono possibili la produzione e l'apparizione di qualche cosa di nuovo?). Per esempio, diceva che la novità della vita non poteva apparire agli inizi, perché all'inizio la vita era assolutamente costretta a imitare la materia... Non è forse la stessa cosi per il cinema? Il cinema ai suoi inizi non è forse costretto a imitare la percezione naturale? E, ancor meglio, qual era la situazione del cinema all'inizio? Da un lato la ripresa era fissa, il piano era dunque spaziale e formalmente immobile; dall'altro la macchina da presa si confondeva con la macchina da proiezione, dotata di un tempo uniforme astratto. L’evoluzione del cinema, la conquista della sua propria essenza o novità, si farà attraverso il montaggio, la cinepresa mobile e l'emancipazione della ripresa che si separa dalla proiezione. Allora il piano cesserà di essere una categoria spaziale per diventare temporale; e la sezione sarà una sezione mobile e non più immobile. Il cinema ritroverà esattamente l'immagine-movimento del primo capitolo di Materia e memoria. Bisogna concludere che la prima tesi di Bergson sul movimento è più complessa di quanto dapprima non sembrasse. C'è da una parte una critica contro tutti i tentativi di ricostituire il movimento con lo spazio percorso, cioè addizionando sezioni immobili istantanee e tempo astratto. E c'è d'altra parte la critica del cinema, denunciato come uno fra i tentativi illusori, come il tentativo che fa culminare l'illusione. Ma c'è anche la tesi di Materia e memoria, le sezioni mobili, i piani temporali, che presentiva in modo profetico l'avvenire o l'essenza del cinema. 2. Ora, appunto, L'evoluzione creatrice presenta una seconda tesi che, invece di ridurre tutto a una stessa illusione sul movimento, distingue almeno due illusioni assai diverse. L'errore è sempre quello di ricostituire il movimento con istanti o posizioni, ma vi sono due modi di farlo, l'antico e il moderno. Per l'antichità, il movimento rinvia a degli elementi intelligibili, Forme o Idee che sono esse stesse eterne e immobili. Certo, per ricostituire il movimento, si coglieranno tali forme nel momento più prossimo alla loro attualizzazione in una materia-flusso. Sono potenzialità che passano all'atto solo incarnandosi nella materia. Ma, inversamente, il movimento non fa che esprimere una "dialettica" delle forme, una sintesi ideale che gli da ordine e misura. Il movimento così concepito sarà dunque il passaggio regolato da una forma a un'altra, cioè un ordine delle pose o degli istanti privilegiati, come in una danza. Le forme o idee "sono supposte caratterizzare un periodo di cui esprimerebbero la quintessenza, mentre il resto di questo periodo è riempito dal passaggio, sprovvisto in se stesso di interesse, da una forma a un'altra forma... Si nota il termine finale o il punto culminante (télos acmè), lo si erige a momento essenziale, e tale momento, che il linguaggio ha fissato per esprimere l'insieme del fatto, basta anche alla scienza per caratterizzarlo" 2. La rivoluzione scientifica moderna è consistita nel ricondurre il movimento, non più a degli istanti privilegiati, ma all'istante qualsiasi. Anche a costo di ricomporre il movimento, non lo si ricomponeva più a partire da elementi formali trascendenti (pose), ma a partire da clementi materiali immanenti (sezioni). Invece di fare una sintesi intelligibile del movimento, se ne conduceva un'analisi sensibile. Ed è così che si costituirono sia l'astronomia moderna, determinando una relazione tra un'orbita e il tempo impiegato a percorrerla (Keplero), sia la fisica moderna, collegando lo spazio percorso con il tempo della caduta di un corpo (Galileo), sia la geometria moderna, mettendo in evidenza l'equazione di una curva piana, cioè la posizione di un punto su una linea diritta mobile a un momento qualsiasi del suo percorso (Cartesio), sia infine il calcolo infinitesimale, appena si ebbe l'idea di considerare delle sezioni infinitamente ravvicinabili (Newton e Leibniz). Ovunque, la successione meccanica di istanti qualsiasi sostituiva l'ordine dialettico delle pose: "La scienza moderna deve definirsi soprattutto per la sua aspirazione a prendere il tempo come variabile e indipendente" 3. Il cinema sembra essere appunto l'ultimo nato di questa stirpe evidenziata da Bergson. Si potrebbe concepire una serie di mezzi di traslazione (treno, auto, aereo...), e parallelamente una serie di mezzi di espressione (grafica, foto, cinema): la macchina da presa apparirebbe allora come un meccanismo di scambio, o piuttosto un equivalente generalizzato dei movimenti di traslazione. Ed è proprio così che appare nei film di Wenders. Quando ci si interroga sulla preistoria del cinema, succede di cadere in considerazioni confuse, perché non si sa dove far risalire ne come definire la linea tecnologica che lo caratterizza. Si possono allora invocare le ombre cinesi o i sistemi di proiezione più arcaici. Ma, di fatto, le condizioni determinanti del cinema sono le seguenti: non solamente la foto, ma la foto istantanea (la foto di posa appartiene all'altra linea); l'equidistanza delle istantanee; il riporto di questa equidistanza su un supporto che costituisce il "film" (Edison e Dickson perforano la pellicola); un meccanismo di avanzamento delle immagini (le graffe di Lumière). Proprio in tal senso il cinema è il sistema che riproduce il movimento in funzione del momento qualsiasi, cioè in funzione di istanti equidistanti scelti in modo da dare l'impressione di continuità. Ogni altro sistema, che riproduca il movimento attraverso un ordine di pose proiettate in modo da passare le une nelle altre o "trasformarsi", è estraneo al cinema. Lo si vede bene quando si cerca di definire il cartone animato: se appartiene pienamente al cinema, è perché il disegno non vi costituisce più una posa o una figura compiuta, ma la descrizione di una figura che si sta sempre facendo o disfacendo, attraverso il movimento di linee e di punti presi a istanti qualsiasi del loro percorso. Il cartone animato rinvia a una geometria cartesiana, e non euclidea. Non ci presenta una figura descritta in un momento unico, ma la continuità del movimento che descrive la figura. E tuttavia il cinema sembra nutrirsi di istanti privilegiati. Si dice spesso che Eisenstein estrae dai movimenti o dalle evoluzioni certi momenti di crisi di cui fa per eccellenza l'oggetto del cinema. È anche ciò che egli chiamava il "patetico": egli seleziona dei punti culminanti e delle grida, spinge le scene sino al parossismo, e le pone in collisione l'una con l'altra. Ma non è affatto un'obiezione. Ritorniamo alla preistoria del cinema, e al celebre esempio del galoppo del cavallo; esso ha potuto essere scomposto esattamente solo attraverso le registrazioni grafiche di Marey e le istantanee equidistanti di Muybridge, che riportano l'insieme organizzato dell'andatura a un punto qualsiasi. Se si scelgono bene gli equidistanti, è giocoforza cadere su tempi notevoli, cioè sui momenti in cui il cavallo ha un piede a terra, poi tre, due, tre, uno. Possono essere chiamati istanti privilegiati: ma non è affatto nel senso delle pose o delle posture generali che caratterizzavano il galoppo nelle forme antiche. Questi istanti non hanno più nulla a che vedere con delle pose, e sarebbero anzi formalmente impossibili in quanto pose. Se sono istanti privilegiati, è a titolo di punti notevoli o singolari che appartengono al movimento, e non a titolo di momenti di attualizzazione di una forma trascendente. La nozione ha cambiato del tutto di senso. Gli istanti privilegiati di Eisenstein, o di qualsiasi altro autore, sono ancora istanti qualsiasi; solo che l'istante qualsiasi può essere regolare o singolare, ordinario o notevole. Il fatto che Eisenstein selezioni istanti notevoli non impedisce che egli li tragga da un'analisi immanente del movimento, e non da una sintesi trascendente. L'istante notevole o singolare rimane un istante qualsiasi tra gli altri. È anzi la differenza tra la dialettica moderna, a cui Eisenstein fa appello, e la dialettica antica. Quest'ultima è l'ordine delle forme trascendenti che si attualizzano in un movimento, mentre quell'altra è la produzione e il confronto dei punti singolari immanenti al movimento. Ora, tale produzione di singolarità (il salto qualitativo) si fa per accumulazione di ordinari (processo quantitativo), tanto che il singolare è prelevato sul qualsiasi, è esso stesso un qualsiasi semplicemente non-ordinario o non-regolare. Lo stesso Eisenstein precisava che "il patetico" supponeva "l'organico", come l'insieme organizzato degli istanti qualsiasi in cui le interruzioni devono passare 4. L'istante qualsiasi è l'istante equidistante da un altro. Definiamo dunque il cinema come il sistema che riproduce il movimento riportandolo all'istante qualsiasi. Ma proprio a questo punto la difficoltà rimbalza. Qual è l'interesse di un tale sistema? Dal punto di vista della scienza, esso ha poco peso. Poiché la rivoluzione scientifica era di analisi. E se era necessario riportare il movimento all'istante qualsiasi per farne l'analisi, si concepiva male l'interesse di una sintesi o di una ricostituzione fondata sullo stesso principio, tranne un vago interesse di conferma. È per questo che né Marey né Lumière avevano molta fiducia nell'invenzione del cinema. Aveva almeno un interesse artistico? Apparentemente no, dato che l'arte sembrava conservare i diritti di una sintesi più alta del movimento, e sembrava restare legata alle pose e alle forme che la scienza aveva ripudiato. Ci troviamo proprio nel cuore della situazione ambigua del cinema come "arte industriale": non era ne un'arte ne una scienza. Ciononostante, i contemporanei potevano essere sensibili a un'evoluzione che trascinava le arti e cambiava lo statuto del movimento, anche in pittura. A maggior ragione, la danza, il balletto, il mimo abbandonavano le figure e le pose per liberare valori non-posati, nonpulsati, che riportavano il movimento all'istante qualsiasi. Perciò, la danza, il balletto, il mimo diventavano azioni capaci di rispondere alle irregolarità dell'ambiente, cioè alla ripartizione dei punti di uno spazio o dei momenti di un avvenimento. Tutto ciò cospirava con il cinema. Sin dal sonoro, il cinema sarà capace di fare della commedia musicale uno dei suoi grandi generi, con la "danza-azione" di Fred Astaire che si svolge in un luogo qualsiasi, nella strada, tra le macchine, lungo un marciapiede 5. Ma già nel muto Chaplin aveva strappato il mimo all'arte delle pose per farne un mimo-azione. A coloro che rimproveravano a Charlot di servirsi del cinema, e non di servirlo, Mitry rispondeva dicendo che egli dava al mimo un nuovo modello, funzione dello spazio e del tempo, continuità costruita a ogni istante che si lasciava scomporre solo nei suoi elementi immanenti notevoli, invece di riportarsi a forme preliminari da incarnare 6. Bergson mostra con forza che il cinema appartiene pienamente a questa concezione moderna del movimento. Ma, da questo punto in poi, sembra esitare tra due strade, di cui una lo riconduce alla sua prima tesi e l'altra invece da adito a un problema nuovo. Secondo la prima strada, pur essendo le due concezioni molto diverse dal punto di vista della scienza, cionondimeno sono pressappoco identiche quanto al loro risultato. È la stessa cosa in effetti ricomporre il movimento con pose eterne o con sezioni immobili: in tutt'e due i casi si perde il movimento, perché ci si da un tutto, si suppone che "tutto è dato", mentre il movimento si fa soltanto se il tutto non è ne dato ne può essere dato. Appena ci si da il tutto nell'ordine eterno delle forme e delle pose, o nell'insieme degli istanti qualsiasi, allora il tempo non è altro che l'immagine dell'eternità, o la conseguenza dell'insieme: non c'è posto per il movimento reale7. Un'altra strada sembrava tuttavia offrirsi a Bergson. Poiché, se la concezione antica corrisponde alla filosofia antica che si ripropone di pensare l'eterno, la concezione moderna, la scienza moderna, richiede un'altra filosofia. Quando si riporta il movimento a dei momenti qualsiasi, bisogna diventare capaci di pensare la produzione del nuovo, cioè del notevole e del singolare, in uno qualunque di questi momenti: è una conversione totale della filosofia ed è ciò che Bergson si propone infine di fare, dare cioè alla scienza moderna la metafisica che le corrisponde, che le manca, come una metà manca all'altra sua metà 8. Ma ci si può fermare su questa strada? Si può negare che le arti abbiano da fare anch'esse questa conversione? E che il cinema non sia un fattore essenziale a tale riguardo, che abbia persino una parte da giocare nella nascita e nella formazione di questo nuovo pensiero, di questo nuovo modo di pensare? Ecco che Bergson non si accontenta più di confermare la sua prima tesi sul movimento. Benché essa si fermi per strada, la seconda tesi rende possibile un altro punto di vista sul cinema, che non è più la macchina perfezionata della più vecchia illusione, ma al contrario l'organo da perfezionare della nuova realtà. 3. Ed è la terza tesi di Bergson, sempre cos'Evoluzione creatrice. Se si provasse a darne una formula brutale, si direbbe: non soltanto l'istante è una sezione immobile del movimento, ma il movimento è una sezione mobile della durata, cioè del Tutto o di un tutto. Ciò implica che il movimento esprime qualche cosa di più profondo del cambiamento nella durata o del tutto. Che la durata sia cambiamento, fa parte della sua stessa definizione: essa cambia e non cessa di cambiare. Per esempio, la materia si muove, ma non cambia. Ora, il movimento esprime un cambiamento nella durata o nel tutto. Ciò che costituisce problema, è da una parte questa espressione, e dall'altra questa identificazione tuttodurata. Il movimento è una traslazione nello spazio. Ora, ogni volta che vi è traslazione di parti nello spazio, c'è anche cambiamento qualitativo in un tutto. Bergson ne dava molteplici esempi in Materia e memoria. Un animale si muove, non gratuitamente, ma per mangiare, per migrare, eccetera. Si direbbe che il movimento suppone una differenza di potenziale, e si propone di colmarla. Se considero astrattamente delle parti o dei luoghi, A e B, non capisco il movimento che va dall'uno all'altro. Ma io sono in A, affamato, e in B c'è del cibo. Quando ho raggiunto B e dopo aver mangiato, ciò che è cambiato non è soltanto il mio stato, è lo stato del tutto che comprendeva B, A e tutto ciò che c'era tra essi. Quando Achille supera la tartaruga, ciò che cambia è lo stato del tutto che comprendeva Achille, la tartaruga e la distanza tra loro. Il movimento rinvia sempre a un cambiamento, la migrazione a una variazione stagionale. E ciò non è meno vero dei corpi: la caduta di un corpo ne suppone un altro che l'attira, ed esprime un cambiamento nel tutto che li comprende tutt'e due. Se si pensa a puri atomi, i loro movimenti che testimoniano un'azione reciproca di tutte le parti della materia esprimono necessariamente delle modificazioni, delle perturbazioni, dei cambiamenti di energia nel tutto. Ciò che Bergson scopre aldilà della traslazione, è la vibrazione, l'irradiazione. Il nostro torto è di credere che le cose che si muovono, sono elementi qualsiasi esterni alle qualità. Ma le qualità stesse sono pure vibrazioni che cambiano nel tempo stesso in cui si muovono gli elementi pretesi9 Nell'Evoluzione creatrice, Bergson da un esempio tanto celebre che non sappiamo più vedere quanto vi è di sorprendente. Dice che, mettendo zucchero in un bicchiere d'acqua, "devo aspettare che lo zucchero si sciolga" 10. È strano malgrado tutto, dato che Bergson sembra dimenticare che il movimento di un cucchiaio può affrettare questa dissoluzione. Ma cosa vuoi dire anzitutto? Vuole dire che il movimento di traslazione che stacca le particelle di zucchero e le mette in sospensione nell'acqua esprime esso stesso un cambiamento nel tutto, cioè nel contenuto del bicchiere, un passaggio qualitativo dell'acqua nella quale vi è uno zucchero allo stato d'acqua zuccherata. Se agito con il cucchiaio, accelero il movimento, ma cambio anche il tutto che comprende adesso il cucchiaio, e il movimento accelerato continua a esprimere il cambiamento del tutto. "Gli spostamenti molto superficiali di masse e di molecole, che la fisica e la chimica studiano", diventano, "in rapporto al movimento vitale che si produce in profondità, che è trasformazione e non più traslazione, ciò che la stasi di un mobile è al movimento di tale mobile nello spazio" 11. Bergson, nella sua terza tesi, presenta dunque l'analogia seguente: sezioni immobili __________________ movimento movimento come sezione mobile = ___________________________________ cambiamento qualitativo Con questa differenza, che il rapporto di sinistra esprime un'illusione, mentre il rapporto di destra esprime una realtà. Ciò che Bergson vuole dire soprattutto con il bicchiere d'acqua zuccherata, è che l'attesa, quale essa sia, esprime una durata come realtà mentale, spirituale. Ma perché questa durata spirituale testimonia non soltanto me che aspetto, ma un tutto che cambia? Bergson diceva: il tutto non è ne dato ne può essere dato (e l'errore tanto della scienza moderna quanto della scienza antica, era di darsi il tutto, in due modi diversi). Molti filosofi avevano già detto che il tutto non era ne dato ne poteva essere dato; ma essi ne traevano soltanto la conclusione che il tutto era una nozione priva di senso. La conclusione di Bergson è molto diversa: se il tutto non può essere dato, ciò avviene perché esso è l'Aperto, e spetta a lui cambiare senza tregua o far sorgere qualcosa di nuovo, insomma, durare. "La durata dell'universo deve essere una sola cosa con la latitudine di creazione che può trovarvi posto" 12. Tanto che ogni volta che ci si troverà davanti a una durata o in una durata, si potrà concludere con l'esistenza di un tutto che cambia, e che è aperto in qualche parte. È risaputo che Bergson ha anzitutto scoperto la durata come identica alla coscienza. Ma uno studio più spinto della coscienza l'ha condotto a mostrare che essa esisteva solo aprendosi su un tutto, coincidendo con l'apertura di un tutto. La stessa cosa per il vivente: quando Bergson paragona il vivente a un tutto, o al tutto dell'universo, sembra riprendere il paragone più vecchio". E tuttavia ne capovolge completamente i termini. Poiché se il vivente è un tutto, dunque assimilabile al tutto dell'universo, non è perché verrebbe a essere un microcosmo tanto chiuso quanto il tutto è supposto esserlo, ma invece in quanto è aperto su un mondo, e in quanto il mondo, l'universo, è esso stesso l'Aperto. "Dovunque qualcosa vive, vi è, aperto in qualche parte, un registro in cui s'iscrive il tempo" l4. Se bisognasse definire il tutto, lo si definirebbe attraverso la Relazione. E la relazione non è una proprietà degli oggetti, è sempre esterna ai suoi termini. Sicché è inseparabile dall'aperto, e presenta un'esistenza spirituale o mentale. Le relazioni non appartengono agli oggetti, ma al tutto, a condizione di non confonderlo con un insieme chiuso di oggetti 15. Grazie al movimento nello spazio, gli oggetti di un insieme cambiano le rispettive posizioni. Ma, attraverso le relazioni, il tutto si trasforma o cambia di qualità. Della durata stessa o del tempo, possiamo dire che è il tutto delle relazioni. Non si deve confondere il tutto, i "tutti", con degli insiemi. Gli insiemi sono chiusi, e tutto ciò che è chiuso è artificialmente chiuso. Gli insiemi sono sempre degli insiemi di parti. Ma un tutto non è chiuso, è aperto; e non ha parti, tranne in un senso assai particolare, dato che non si divide senza cambiare natura a ogni tappa della divisione. "Il tutto reale potrebbe essere una continuità indivisibile" 16. Il tutto non è un insieme chiuso, ma al contrario è ciò per cui un insieme non è mai assolutamente chiuso, mai completamente al riparo, il che lo mantiene aperto in qualche parte, quasi che un tenue filo lo colleghi al resto dell'universo. Il bicchiere d'acqua è appunto un insieme chiuso che racchiude delle parti, l'acqua, lo zucchero, forse il cucchiaio; ma in ciò non è il tutto. Il tutto si crea, e non cessa di crearsi in un'altra dimensione senza parti, come ciò che trascina l'insieme da uno stato qualitativo a un altro, come il puro divenire senza sosta che passa attraverso questi stati. E in tal senso esso è spirituale o mentale. "Il bicchiere d'acqua, lo zucchero e il processo di dissoluzione dello zucchero nell'acqua sono senza dubbio delle astrazioni, e il Tutto nel quale essi sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intendere progredisce forse allo stesso modo di una coscienza" 17. Resta il fatto che questo sezionamento artificiale di un insieme o di un sistema chiuso non è una pura illusione. È invece fondato, e se è impossibile spezzare il legame di ogni cosa con il tutto (questo legame paradossale che la collega con l'aperto), esso può almeno essere allungato e disteso all'infinito, può essere reso sempre più tenue. Ciò perché l'organizzazione della materia rende possibili sistemi chiusi o insiemi determinati di parti; e lo spiegamento dello spazio li rende necessari. Ma, precisamente, gli insiemi sono nello spazio, e il tutto, i tutti sono nella durata, sono la durata stessa in quanto non cessa di cambiare. Cosicché le due formule che corrispondevano alla prima tesi di Bergson assumono adesso uno statuto molto più rigoroso: "sezioni immobili + tempo astratto" rinvia agli insiemi chiusi le cui parti sono in effetti delle sezioni immobili, e gli stati successivi sono calcolati su un tempo astratto; mentre "movimento reale —> durata concreta" rinvia all'apertura di un tutto che dura, e i cui movimenti sono altrettante sezioni mobili che attraversano i sistemi chiusi. Al termine di questa terza tesi, ci troviamo in effetti su tre livelli: 1) gli insiemi o sistemi chiusi, che si definiscono attraverso oggetti discernibili o parti distinte; 2) il movimento di traslazione, che si stabilisce tra tali oggetti e ne modifica la rispettiva posizione; 3) la durata o il tutto, realtà spirituale che non cessa di cambiare secondo le sue relazioni proprie. Il movimento ha dunque, in un certo senso, due aspetti. Da una parte è quanto accade tra oggetti o parti, dall'altra ciò che esprime la durata o il tutto. Esso fa sì che la durata, cambiando natura, si divida negli oggetti, e che gli oggetti, approfondendosi, perdendo i loro contorni, si riuniscano nella durata. Si dirà dunque che il movimento riporta gli oggetti da un sistema chiuso alla durata aperta, e la durata agli oggetti del sistema che essa costringe ad aprirsi. Il movimento riporta gli oggetti tra i quali si stabilisce al tutto cambiante che esso esprime, e inversamente. Col movimento, il tutto si divide negli oggetti, e gli oggetti si riuniscono nel tutto: e, tra loro, per l'appunto "tutto" cambia. Possiamo considerare gli oggetti o le parti di un insieme come sezioni immobili; ma il movimento si stabilisce tra queste sezioni, riporta gli oggetti o le parti alla durata di un tutto che cambia, esprime dunque il cambiamento del tutto nei confronti degli oggetti, è esso stesso una sezione mobile della durata. Siamo allora in grado di capire la tesi tanto profonda del primo capitolo di Materia e memoria: 1) non vi sono soltanto delle immagini istantanee, cioè sezioni immobili del movimento; 2) vi sono immagini-movimento che sono sezioni mobili della durata; 3) vi sono infine immagini-tempo, cioè immagini-durata, immagini-cambiamento, immagini-relazione, immaginivolume, aldilà del movimento stesso... Note ¹ L'evoluzione creatrice, p. 753 (305). Si citano i testi di Bergson secondo l’edizione detta del "Centenaire"; tra parentesi, si indica la paginatura dell'edizione corrente di ogni libro (Presses Universitaires de Franco). [Non si citano invece traduzioni italiane, non volendo fare riferimento, in mancanza dell'edizione critica integrale, a singole e sparse edizioni, di tono perlopiù scolastico. N.d.T.] ² L'evoluzione creatrice, p. 774 (330). 3 Ibid., p. 779 (335). 4 Sull'organico e il patetico, cfr. Eisenstein, La natura non indifferente, a cura di Pietro Montani, Marsilio. 5 Arthur Knight, "Revue du cinéma", n. 10. 6 Jean Mitry, Histoire du cinéma muet, III, Ed. Universitaires, pp. 49-51. 7 L'evoluzione creatrice, p. 794 (353). 8 L'evoluzione creatrice, p. 786 (343). 9 Per tutti questi punti, cfr. Materia e memoria, cap. IV, pp. 332-40 (220-30). 10 L'evoluzione creatrice, p. 502 (9-10). 11 Ibid., p. 521 (32). 12 L'evoluzione creatrice, p. 782 (339). 13 Ibid., p. 507 (15). 14 Ibid.. p. 508 (16). L'unica, ma notevole, somiglianza tra Bergson e Heidegger e appunto questa: entrambi fondano la specificità del tempo su una concezione dell'aperto. 15 Si fa intervenire qui il problema delle relazioni, benché non sia esplicitamente posto da Bergson. Si sa che la relazione tra due cose non può essere ridotta a un attributo di una cosa o dell'altra e nemmeno a un attributo dell'insieme. In compenso, la possibilità di riportare le relazioni a un tutto è intera se si concepisce questo tutto come un "continuo" e non come un insieme dato. 16 L'evoluzione creatrice, p. 520 (31). 17 Ibid., pp. 502-3 (10-11).