monografia sui primi aspetti della civiltà greca

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monografia sui primi aspetti della civiltà greca
Classe IIC
Professoressa Adele Papa
Assistente tecnico Salvatore Valletta
Obiettivi : Realizzazione di una monografia sui primi aspetti della civiltà greca
¾ Avvicinare l’alunno al mondo greco attraverso la presentazione della sua
civiltà
¾ Individuare gli aspetti fondamentali della civiltà e della cultura greca
¾ Consapevolezza dell’importanza della civiltà greca che costituisce le “radici”
della nostra
¾ Capacità di confrontare la civiltà greca con le altre civiltà, oggetto di studio
degli alunni
¾ Approccio consapevole e meditato con le nuove tecnologie
Capacità di strutturare graficamente il testo ( economia e funzionalità dello spazio
comunicativo )
Descrizione dell’attività:
La tematica è stata affrontata dalla prof.ssa Papa per dare direttive organizzative e gli
orientamenti per la ricerca. E’ stata elaborata , per tanto , una mappa concettuale che
è servita come guida per tutto il lavoro. Successivamente la classe è stata divisa in
gruppi di lavoro , a ciascuno dei quali è stato affidato il compito di effettuare
ricerche sui vari argomenti. In laboratorio, infine,il materiale raccolto è stato
organizzato in un unico documento Word.
Strumenti dell’attività:
• Seminari di approfondimento e dibattiti in classe con la guida dell’insegnante
• Filmati
• Documenti reperibili in rete
• Materiale didattico in forma cartacea sintetizzato e schematizzato al fine di
rendere più accessibile e chiaro l’argomento proposto
Modalità d’uso:
Si seguiranno criteri di opportunità , secondo le esigenze contingenti
Tema trattato: “Il teatro classico”
In Grecia, fin dai primordi, la rappresentazione teatrale è:
•
•
•
Un fenomeno religioso
Un fatto politico-paideutico
Un avvenimento agonistico
Le celebrazioni teatrali ad Atene sono paragonabili ad un moderno festival (cfr.
Edimburgo e Salisburgo):
•
•
Lenee (agoni comici): fine di gennaio
Grandi Dionisie (agoni tragici): fine di marzo.
Organizzazione degli spettacoli teatrali greci:
• Arconte eponimo: sceglie tre poeti tragici che devono gareggiare tra loro
presentando una trilogia tragica e un dramma satiresco; poi trova per
ciascun poeta tragico un corego che deve provvedere al mantenimento e alla
preparazione del coro.
• I giudici: erano scelti per sorteggio da un elenco compilato sulla base delle
dieci tribù.
• Il pubblico: pare che alle rappresentazioni assistessero dalle 17.000 alle
30.000 persone e che alle tragedie fossero ammesse anche le donne (quasi
certamente escluse dalle commedie) e gli schiavi. Il pubblico per
partecipare agli spettacoli veniva risarcito dallo stato che pagava, nell’età
periclea, il “theorikon”, ovvero una cifra corrispondente alla paga di una
giornata lavorativa.
La struttura del teatro greco (Theatron = “luogo ove si guarda”) era così composta:
•
•
Orchestra: spazio piano riservato alle danze del coro.
σκηνή: costruzione lignea o tenda per il cambio delle maschere e dei
costumi.
• παροδοι: corridoi ai due lati, da cui il pubblico accedeva all’uditorio e per
i quali il coro entrava all’inizio e usciva alla fine della rappresentazione.
• Scenografia: non ne abbiamo notizie certe, ma doveva trattarsi di un
fondale in legno che raffigurava un esterno (casa, palazzo, via) in quanto
nel teatro classico mancano completamente le raffigurazioni di interni (al
massimo si fa uso della “εκκυκλεμα”, una piattaforma a rotelle): cfr. teatro
di Shakespeare, teatro giapponese No, dramma sanscrito.
• θεολογειον: luogo da cui parlavano gli dei (specie di tetto apribile).
• μηκανή: specie di gru azionata da cavi e carrucole (l’attore “appeso”
impersonava l’intervento divino risolutore del dramma, appunto il “deus ex
machina”)
• Scale di Caronte: da botole collegate con scale emergevano spettri e
ombre dei defunti.
Βροντειον e κεραυνοσκοπειων: apparecchi per imitare il tuono e il fulmine.
L’attore:
In Grecia si chiama υποκριτής (colui che risponde): il suo ruolo non è da confondere
con quello dei mimi e dei saltimbanchi. Era di condizione libera e godeva di un certo
prestigio sociale. Nel teatro antico calcano le scene solo uomini che, con la maschera,
recitano anche le parti femminili (le donne sono escluse dalla recitazione almeno fino
all’età moderna: in Inghilterra fino alla fine del XVII secolo). Il numero degli attori
era inizialmente di due (con Eschilo), poi fu portato a tre (da Sofocle).
• Il Coro poi, che è alla base della nascita della tragedia, inizialmente era
formato da 12 coreuti (con Eschilo), poi il numero fu portato a 15 (con
Sofocle) e progressivamente (con Euripide) venne a prendere il suo ruolo
centrale.
La maschera consentiva all’attore di assumere vari ruoli, di far riconoscere al
pubblico i personaggi e, con la sua apertura boccale, anche di amplificare la voce.
Poteva essere fatta così:
• Biacca
• Maschera leggera di lino
• Maschera lignea (in seguito anche policroma) con attaccati i capelli (non si
usavano parrucche separate)
Costumi:
• Solenne e fastoso costume tragico, con ampie maniche che coprivano le
braccia e arrivavano fino alle caviglie; travestimenti vistosi e fantasiosi
(anche animaleschi) nella commedia.
• Coturni (alti calzari per la tragedia); stivali morbidi dalle suole sottili,
talvolta decorati e allacciati che coprivano parte del polpaccio (per la
commedia).
La tragedia greca
Ipotesi sulla nascita della tragedia greca:
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Ipotesi dionisiaca (Aristotele, Vico, Nietzsche)
Ipotesi misterica (Ridgeway, Murray, Thomson, Lindsay)
Ipotesi eroica (Nilson)
Ipotesi epico-lirica (Wilamowitz)
Ipotesi del conflitto tra religiosità mediterranea e
(Untersteiner).
indoeuropea
Ipotesi sul significato del nome “tragedia”:
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Canto sul capro
Canto per il capro
Canto dei coreuti mascherati da capri
Struttura della tragedia:
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Prologo
Parodo (ingresso del Coro)
Episodi
Esodo
Stasimi (canti corali che separano gli episodi)
Metri usati:
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Trimetro giambico: nelle parti recitate
Metri lirici e corali: nelle parti cantate / con accompagnamento di flauto o
cetra.
Argomenti trattati:
• La tragedia greca non affronta mai esplicitamente argomenti di attualità, ma
lo fa sempre attraverso il “mito”, poiché il coinvolgimento emotivo del
pubblico era tanto grande che, assistendo alle Fenicie di Frinico in cui si
rievocavano i drammi delle guerre persiane, il pubblico scoppiò in pianti e
gemiti. Il teatro di Eschilo è incentrato sul rapporto tra l’uomo e gli dei;
quello di Sofocle affronta l’isolamento dell’eroe e quello di Euripide tratta
numerosi temi quali la guerra, l’amore, la schiavitù, il mondo dell’infanzia
ecc.
La commedia greca
Ipotesi sull’origine della commedia e del suo nome:
• Aristotele: origine dai canti fallici eseguiti durante le falloforie, processioni
sacre nelle quali si portava in giro il fallo per invocare la fecondità della
terra, degli uomini e degli animali. “Commedia” starebbe ad indicare il
festoso “komos” (corteo) dei seguaci di Dioniso inebriati dal vino.
•
Aristotele: commedia potrebbe anche derivare da una parola dorica,
“kome”, che significa villaggio e ricorderebbe i primi attori che andavano di
villaggio in villaggio nelle campagne.
•
Le farse megaresi (spettacoli rozzi e grossolani) di ambito dorico
potrebbero essere gli inizi del teatro comico greco.
•
La farsa fliacica della Magna Grecia, con la sua parodia mitologica, può
anticipare alcuni aspetti della commedia greca.
Struttura della commedia:
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•
•
•
•
Prologo
Parodo (ingresso del coro)
Agone (contesa tra due antagonisti)
Parabasi (il coro sfila davanti agli spettatori e si fa portavoce del poeta)
Episodi
Esodo
Metri usati:
• Trimetro giambico e tetrametro trocaico per le parti recitate
• Varietà di metri nelle parti liriche
Argomenti trattati nella commedia antica (Aristofane, Eupoli, Cratino), di mezzo
(Anassandride, Alessi), e nuova (Menandro, Filemone, Difilo):
•
Commedia antica: Aristofane affronta sulla scena in modo diretto i
problemi che affliggono l’Atene del V secolo: tema della pace (Acarnesi,
Pace, Lisistrata), tema della struttura della società (Cavalieri, Vespe,
Uccelli, Ecclesiazuse), tema della distribuzione delle ricchezze (Pluto),
tema dell’educazione (Nuvole, Tesmoforiazuse, Rane);
• Commedia di mezzo: rinuncia alla tematica politica e alla sua carica
aggressiva (parodia del mito, amore come protagonista delle trame,
tipizzazione dei personaggi come il soldato fanfarone e il parassita
ingordo);
• Commedia nuova: trame borghesi (bambini “esposti” appena nati e
ritrovati da adulti in seguito all’agnizione; giovani che si innamorano di
etere; vecchi scorbutici e avari che si redimono ecc.).
Il teatro a Roma
Nel 240 a.C. pare si sia svolta a Roma la prima " regolare " rappresentazione teatrale
( opera di Livio Andronico ) e tutti i poeti dell'età arcaica compongono opere teatrali.
Il teatro latino ha origini etrusche ed etrusco è anche il nome histrio che designa
l'attore. La cultura teatrale etrusca potrebbe anche essere stata influenzata dalla
cultura
greca
e
così
questa
sarebbe
giunta
ai
Romani.
Anche a Roma, come in Greci, lo stato organizzava gli spettacoli durante cerimonie
pubbliche
religiose.
Le più comuni feste teatrali erano:
• Ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo (in settembre)
• Ludi Megalenses in onore della Magna mater (in aprile)
• Ludi Apollinares (in luglio)
• Ludi plebei a Giova Ottimo Massimo (in novembre)
Organizzazione degli spettacoli:
• I magistrati in carica (edili o pretori urbani) organizzavano i Ludi
• Durante i Ludi non venivano fatte solo rappresentazioni teatrali, ma
venivano anche organizzati dei giochi gladiatori (lo spettacolo, a differenza
della Grecia, aveva sopratutto uno scopo di intrattenimento)
Spettacoli rappresentati:
• Commedie: palliata (di argomento greco) ; togata (di argomento romano).
• Tragedie: coturnata (di argomento greco) ; praetexta (di argomento
romano).
L'attore:
• A Roma l'attore, histrio, non recitava soltanto, ma era anche un mimo e una
specie di saltimbanco. La sua considerazione sociale era nettamente
inferiore a quella dell'attore geco.
• Nel 207 a.C. Fu fondato il collegium scribarum histrionumque
(confraternita degli autori e degli attori).
• I magistrati che organizzavano gli spettacoli dovevano contattare il
dominus grecis (capocomico): egli dirigeva la compagnia,faceva da
impresario e poteva collaborare anche con gli autori.
Scenografie:
• Scene sempre di esterni con una strada e delle case.
Maschera:
• In latino si chiama persona (termine che deriva dall'etrusco phersu, da cui il
latino personare) e permetteva di ricoprire vari ruoli, di far riconoscere al
pubblico il personaggio e di amplificare la voce.
La commedia
• La commedia palliata che conosciamo meglio è quella di Plauto, che si rifà
come modello alla commedia nuova di Menandro, ma con alcune
differenze:
• In Menandro le commedie erano divise in atti, le parti degli attori erano
prevalentemente recitate o recitative; in Plauto invece non erano divise in
atti e vi erano parti recitate, recitative e cantate (sottofondo di flauti).
La tragedia
• Conosciamo meno bene il teatro tragico latino delle origini: sembra che i
Romani non possedessero le strutture sceniche, coreografiche e musicali del
teatro greco. Mancando il “coro” nella tragedia, l'elemento che dava
solennità all'opera, i latini innalzarono tutto il livello stilistico dei drammi.
Viene così usato un linguaggio elevato, distante dalla lingua d'uso.
L'atellana
• I Romani conoscevano anche un genere di teatro più popolare di quello a
imitazione greca: L'Atellana. Presentava, come la “commedia dell'arte”,
intrecci di equivoci, giochi verbali, battute scherzose e licenziose. Vi erano
poi anche i tipi fissi (Pappus, Bucco, Dossenus, Maccus ecc.).
Il teatro a Roma
Nel 240 a.C. pare si sia svolta a Roma la prima " regolare " rappresentazione teatrale
( opera di Livio Andronico ) e tutti i poeti dell'età arcaica compongono opere teatrali.
Il teatro latino ha origini etrusche ed etrusco è anche il nome histrio che designa
l'attore. La cultura teatrale etrusca potrebbe anche essere stata influenzata dalla
cultura
greca
e
così
questa
sarebbe
giunta
ai
Romani.
Anche a Roma, come in Greci, lo stato organizzava gli spettacoli durante cerimonie
pubbliche
religiose.
Le più comuni feste teatrali erano:
•
•
•
•
Ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo (in settembre)
Ludi Megalenses in onore della Magna mater (in aprile)
Ludi Apollinares (in luglio)
Ludi plebei a Giova Ottimo Massimo (in novembre)
Organizzazione degli spettacoli:
•
•
I magistrati in carica (edili o pretori urbani) organizzavano i Ludi
Durante i Ludi non venivano fatte solo rappresentazioni teatrali, ma venivano
anche organizzati dei giochi gladiatori (lo spettacolo, a differenza della Grecia,
aveva sopratutto uno scopo di intrattenimento)
Spettacoli rappresentati:
•
•
Commedie: palliata (di argomento greco) ; togata (di argomento romano).
Tragedie: coturnata (di argomento greco) ; praetexta (di argomento romano).
L'attore:
•
•
•
A Roma l'attore, histrio, non recitava soltanto, ma era anche un mimo e una
specie di saltimbanco. La sua considerazione sociale era nettamente inferiore a
quella dell'attore geco.
Nel 207 a.C. Fu fondato il collegium scribarum histrionumque (confraternita
degli autori e degli attori).
I magistrati che organizzavano gli spettacoli dovevano contattare il dominus
grecis (capocomico): egli dirigeva la compagnia,faceva da impresario e poteva
collaborare anche con gli autori.
Scenografie:
•
Scene sempre di esterni con una strada e delle case.
Maschera:
•
In latino si chiama persona (termine che deriva dall'etrusco phersu, da cui il
latino personare) e permetteva di ricoprire vari ruoli, di far riconoscere al
pubblico il personaggio e di amplificare la voce.
La commedia
La commedia palliata che conosciamo meglio è quella di Plauto, che si rifà come
modello alla commedia nuova di Menandro, ma con alcune differenze:
•
In Menandro le commedie erano divise in atti, le parti degli attori erano
prevalentemente recitate o recitative; in Plauto invece non erano divise in atti e
vi erano parti recitate, recitative e cantate (sottofondo di flauti).
La tragedia
Conosciamo meno bene il teatro tragico latino delle origini: sembra che i Romani non
possedessero le strutture sceniche, coreografiche e musicali del teatro greco.
Mancando il “coro” nella tragedia, l'elemento che dava solennità all'opera, i latini
innalzarono tutto il livello stilistico dei drammi. Viene così usato un linguaggio
elevato, distante dalla lingua d'uso.
L'atellana
I Romani conoscevano anche un genere di teatro più popolare di quello a imitazione
greca: L'Atellana. Presentava, come la “commedia dell'arte”, intrecci di equivoci,
giochi verbali, battute scherzose e licenziose. Vi erano poi anche i tipi fissi (Pappus,
Bucco, Dossenus, Maccus ecc.).
Il teatro di Euripide
Euripide, nato secondo la tradizione, a Salamina nel 480 a.C., proprio il giorno della
battaglia contro i Persiani, ebbe umili origini che tuttavia gli permisero una buona
formazione culturale. Visse nell'Atene del V secolo a.C. , in un'età di crisi politica
(sono gla anni della fine delle guerre persiani e della rovinosa guerra del
Peloponneso) , subendo l'influenza da un lato della Sofistica, verso cui ebbe un
atteggiamento critico, e dalla altro della medicina ippocratica.
Si tramanda che avesse composto, con scarso successo, circa novanta tragedie, di cui
ne restano diciassette, che in ordine alfabetico sono: Alcesti (438), Andromaca,
Baccanti (406-405: fu rappresentata postuma), Ecuba, Elena (412), Elettra, Eracle
furente, Eraclidi , Fenicie, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride, Ione, Ippolito
(428), Medea (431), Oreste (408), Supplici, Troiane (415).
L’intervento del Coro a quello di un personaggio (Medea) o lo stasimo commatico
lega il canto del Coro a quello dell’attore (Supplici III e IV Stasimo; Medea V
stasimo) o il Coro è occasionalmente diviso in due semicori (Alcesti) o viene
raddoppiato (Ippolito, IIIstasimo: Coro dei cacciatori e delle donne di Trezene).
L’importanza del Coro viene tuttavia recuperata da Euripide nella sua ultima
tragedia, le Baccanti, il cui titolo rimarca il ruolo da protagonista assunto dal Coro
delle invasate donne di Tebe. Ma si tratta di un’opera anomala e di discussa
interpretazione nel vasto panorama di soluzioni del teatro euripideo.
Deus ex machina. Si tratta senza dubbio dell’elemento più spettacolare del teatro
euripideo. È usato nell’Alcesti (Eracle), nella Medea (la protagonista appare in alto,
sul carro del Sole), nell’Ippolito (Artemide), nell’Andromaca (Teti), nelle Supplici
(Atena), nell’Elettra (Dioscuri), nell’Elena (Dioscuri), nell’Ifigenia in Tauride
(Atena), nello Ione (Atena), nell’Oreste (Apollo), nell’Ifigenia in Aulide (Artemide) e
nelle Baccanti (Dioniso).
Rivisitazione del mito. Le tragedie di Euripide hanno sempre come spunto il
racconto mitico tradizionale, anche se questo viene profondamente rinnovato
dall’interno. L’eroe tragico perde la sua valenza originaria e viene “demitizzato”. È il
caso di Medea, che rimane barbara maga della Colchide, ma è soprattutto una donna
che vive il dramma delle separazione dal marito, come tante altre donne comuni del
V sec. a.C. Alcesti, poi, accetta di morire per il marito, ma lo costringe ad un patto di
fedeltà alla sua memoria, inusuale per il mondo maschile dell’epoca.
Penteo, nelle Baccanti, con la sua sofferenza e morte senza riscatto segna la fine
dell’eroe tragico inteso in senso classico. Sulla scena, insomma, compaiono uomini e
donne che, pur nelle vesti mitiche, incarnano i travagli di una società moderna, coeva
a quella dell’autore, prospettando soluzioni nuove. Alcune tragedie, come l’Ippolito
velato, scandalizzarono il pubblico, non abituate alle esplicite rivelazioni sulla scena
di un amore incestuoso. L’autore dovette così riscrivere l’opera, dando vita
all’Ippolito incoronato.
Elemento patetico. Euripide una il pathos in molte scene delle sue tragedie, come ad
esempio nel momento in cui Medea si congeda dai figli o Alcesti dal marito e dalla
vita.
Pulsioni irrazionali dell’anima. L’irrazionale è un elemento che trova ampio spazio
per la prima volta nel teatro greco con Euripide. Medea si lascia prendere dalle
proprie pulsioni, in una continua lotta con la razionalità, che alla fine risulta perdente.
Questo stilema verrà ripreso ed esasperato nel teatro latino, dalla tragedie di Seneca.
Vediamo che anche Eracle, nell’ omonima tragedia euripidea, è posseduto da Lissa, il
demone della pazzia, a causa del quale l’eroe sarà indotto suo malgrado a sterminare
la famiglia.
Attenzione dell’infanzia e dell’adolescenza. I bambini supplici e vittime innocenti,
trovano in Euripide uno spazio nuovo e inconsueto, che anticipa l’attenzione che il
mondo ellenistico volle loro dedicare, a cominciare dall’arte plastica (cfr. “Il bambino
che strozza l’oca”). Pensiamo ai figli de Medea e Alcisti, ad Astianatte gettano dalle
mura della città nelle Troiane, alla morte di Polidoro nell’Ecuba. Accanto allo strazio
delle giovani vittime c’ è sempre anche il dolore della madre.
Ifigenia è sacrificata dal padre in nome della ragion di stato, anche se lei avrà pietà
Artemide, che la farà sua sacerdotessa nella regione dei Tauri. E come lei altri
adolescenti sono sacrificati sulla scena, ad esempio nell’Ecuba Polissena va
coraggiosamente incontro alla morte come vittima espiatoria sulla tomba di Achille;
negli Euraclidi la giovane Macaria (di cui però non si fa il nome nel testo) si uccide
spontaneamente, assecondando l’oracolo che pretende il sacrificio di una vergine per
la vittoria ateniese; infine nelle Fenicie Meneceo, figlio di Creonte, sebbene il padre
lo invii a Delfi, per salvarlo dall’oracolo che vuole la sua morte in cambio della
salvezza di Tebe, finge di obbedire e poi si uccide spontaneamente.
Sensibilità verso il problema della guerra e della schiavitù. Euripide visse quasi
tutto l’arco della durata della guerra del Peloponneso: nel 431 a.C., anno di inizio del
conflitto, compose Medea, in cui traspare ancora un certo ottimismo e fiducia nella
potenzialità di Atene, come dimostra il III stasimo della tragedia. Il motivo
encomiastico è presente anche nelle Supplici, in cui compare l’alleanza tra Atene e
Argo, tradizionalmente esaltata dalla propaganda democratica di Atene.
Ma negli anni del conflitto prese sempre più corpo l’idea che la guerra è sempre e
comunque male, nella consapevolezza che il conflitto può mutare rapidamente le sorti
dei vincitori e dei vinti, capovolgendole, come avviene ad esempio nell’Ecuba, nelle
Troiane, negli Eraclidi e nella Andromaca.
Amore sulla scena teatrale. Le dichiarazioni d’amore sulla scena sono una delle
innovazioni euripidee. Fedra, ad esempio, tra mille difficoltà dichiara il suo amore
per Ippolito alla Nutrice; Medea arde di passione e di sdegno per il tradimento subito
da Giasone; Acesti sacrifica la sua vita, come estremo dono d’amore per il marito
Admeto.
Esotismo. Euripide ama anche concedersi delle evasioni in paesaggi e contesti
“esotici”, come nel caso dell’Elena, ambientata in Egitto e dell’Ifigenia in Tauride
che trova la sua collocazione nel selvaggio paese dei Tauri.
Misoginia. Alcuni personaggi maschili, come Giasone nella Medea ed Ippolito,
nell’omonima tragedia, si lasciano andare a tirate misogine, che sono tra le più celebri
pagine del teatro euripideo.
È anche vero però che queste accuse rivolte all’autore della commedia di Aristofane,
sono bilanciate da altre pagine in cui le donne delineano la propria infelice
condizione (cfr. Medea I episodio), confutando dialetticamente le accuse maschili.
Influenza culturale della sofistica. È in dubbio che i personaggi euripidei sanno
argomentare sulla scena, come i protagonisti delle “contese oratorie” che si dovevano
svolgere nei processi dell’Atene del tempo. In ciò Euripide si dimostra figlio della
cultura del proprio tempo, anche se, sempre in modo dialettico, mette in guardia dal
pericolo di mistificazione che quest’arte comporta.
Influenza culturale della medicina ippocratica. L’agonia di Fedra è verbo tale che
la Nutrice, preoccupata della prostrazione della padrona, vorrebbe chiamare un
medico; e la pazzia di Eracle, per i dettagli e la precisione delle descrizioni, richiama
ad attenzione “clinica” delle varie sintomatologie, proprio della cultura medica del
tempo.
Critica agli dei tradizionali e dominio della tyche. Euripide fu anche accusato di
“ateismo” e, se questo rilievo sembra eccessivo, è pur vero che l’autore ebbe un
atteggiamento critico verso gli dei tradizionale. Nell’Alcesti, ad esempio, Eracle
irrompe in casa di Admeto e, ignaro del lutto che lo ha colpito, si lascia andare a
gozzoviglie più consone ad una commedia; nell’Ippolito Afrodite è una dea
vendicativa, che vuole punire il giovane che le preferisce Artemide. Artemide stessa,
poi, non si dimostra sufficientemente protettiva verso il suo devoto, se permette che
la vendetta della dea dell’amore si compia promettendo solo dopo la morte di Ippolito
un culto riparatore in suo onore. Nell’Eracle sono gli dei ad inviare al semidio il
demone della follia, senza che questo abbia commesso delle colpe. Nell’Efigenia in
Tauride Afrodite risparmia di Agamennone, ma la costringe a vivere in un esilio,
sacerdotessa di un rito cruento. Nella tragedia a sfondo borghese dello Ione (sarà un
modello per le trame delle commedie menandree, con l’agnizione finale del figlio
abbandonato in fasce) Apollo è un irresponsabile don Giovanni che deve prendersi
cura del figlio nato dalla sua unione con la mortale Creusa. Sempre Apollo,
nell’Elettra, è visto come autore di un responso non saggio. La tyche, ovvero una
forza imperscrutabile e casuale, interviene in numerose trame delle già citate tragedie
euripideee: Elena, Ifigenia in Tauride, Ifigenia in Aulide, Ione, Oreste ecc. è la
progressiva sfiducia negli dei tradizionali che porta a dare spazio a questo elemento
soprannaturale, che tanta fortuna avrà nella cultura ellenistica del IV-III sec. a.C.
Rimane poi da prendere in esame l’ultima tragedia dell’autore, le Baccanti, di
impianto arcaico e dal messaggio enigmatico. Il dramma si impernia, infatti,
sull’incontro-scontro tra Penteo e Dioniso: i due si fidano a vicenda e dopo le inutili
esistenze della ragione alla irrazionale dottrina sionistica, a poco a poco il dio fa in
modo che il re della città provi curiosità e desiderio di conoscere il nuovo. Penteo
allora si traveste da donna, ma scoperto dalle Menadi vieni fatto a brani delle propria
madre, Agave, senza che questa, invasata, lo riconosca. Quale è la lettura del
messaggio poetico? La tragedia si presenta dialetticamente ad una interpretazione che
metta in luce i pericoli dell’irrazionalità ( e quindi della dottrina dionisiaca) o ad una
chiave interpretativa che metta in guardia dall’opporsi ostinatamente all’invadenza
del dio, capace di possedere le menti degli uomini attraverso il potere magnetico del
suo sguardo. Dioniso, poi, non appartiene alle divinità olimpiche, i suoi culti sono
extracittadini e riservati in particolare alle donne, tradizionalmente emarginate dalla
società greca. Sostenere le ragioni di Dioniso significa sostenere anche le ragioni del
“diverso”, di chi non è interrogato nella polis.
Spunti eziologici nei finali delle tragedie. Euripide concluse alcune delle sue
tragedie con riferimenti all’origine di un culto, anticipando così un gusto preellenistico per la poesia eziologica e dotta. È il caso, ad esempio, della Medea,
dell’Ippolito, degli Eracliti, dell’Eracle, dell’Ifigenia in Tauride e dell’Elena .
Stile dell’autore. I testi tragici di Euripide rispondono a criteri di chiarezza e
concretezza espressiva, lontani dallo stile elaborato ed altamente metaforico degli
altri tragici. Il linguaggio si fa, dunque, espressione della razionalità d’indagine dei
personaggi. Essi analizzano una realtà concreta, affrontano problemi “umani” e
ricorrono alla potenza della parola e del discorso per districarsi dalle maglie di una
realtà che rischia di sopraffarli.
Erodoto, padre della storia
Biografia
Nato da una famiglia aristocratica di Alicarnasso, in Asia minore, proveniente da una
famiglia nobile con sangue per metà greco e per metà asiatico. La madre, Dryò, era
infatti greca mentre il padre, Lyxes, asiatico. Visse così nella sua città di nascita sino
a quando, dopo aver partecipato ad una sollevazione contro il tiranno Ligdami II (che
si faceva chiamare “Gran re”), fu costretto all’esilio sull’isola di Samo. Ritornò in
patria intorno al 455 a.C. vedendo così la cacciata, forse collaborandovi, di Ligdami
II. Nel 454 a.C. la città entrò nella sfera d’influenza ateniese, divenendo tributaria
della città dell’Attica. Dopo poco tempo, partì per viaggi che gli permisero di visitare
gran parte dei luoghi toccati dal Mediterraneo orientale, in particolar modo l’Egitto
dove, affascinato da quella civiltà, rimase per quattro mesi. Scopo dei viaggi fu
probabilmente la raccolta di materiali destinati a confluire nella sua opera. Dal 447
a.C. soggiornò ad Atene, dove conobbe Pericle, il poeta tragico Sofocle, l’architetto
Ippodamo di Mileto, ed i sofisti Eutidemo e Protagora: nel 445 a.C. partecipò alle
Panatenee, in cui lesse pubblicamente la sua opera (percependo inoltre dieci talenti).
Poi si stabilì nella colonia panellenica di Thurii )in Magna Grecia, sul luogo
dell’antica Sibari), alla cui fondazione collaborò, intorno al 444 a.C.La tradizione
vuole che vi morisse negli anni successivi allo scoppio della Guerra del Peloponneso,
convenzionalmente nel 425 a.C. In realtà luogo, data e circostanze della sua morte
rimangono ancora sconosciute. Poco altro si sa della vita privata dello storico.
Il pensiero di Erodoto
Per capire bene la grande rivoluzione operata da Erodoto, considerato, secondo il
luogo comune come padre della storiografia, bisogna fare alcune premesse.
Innanzitutto il concetto di storia in antica Grecia era leggermente diverso da quello
che noi intendiamo oggi: ossia una sequenza cronologica di avvenimenti descritta in
modo obiettivo e con metodo scientifico, tanto che per molto tempo il padre della
storiografia fu considerato Tucidide, per quanto riguarda la scientificità della
narrazione. Nella Grecia Antica, infatti, la storia era considerata anzitutto come
magistra vitae. La finalità di Erodoto era quindi, come è possibile notare anche dalla
premessa, di raccontare “gesta degli eroi”, anche se poi tale premessa sarà solo
parzialmente mantenuta. Quindi l’ottica con la quale Erodoto considera gli
avvenimenti, i valori della storia e le azioni umane è analoga a quella dominante nel
mondo dell’epos (epica), in cui gli uomini agivano spinti da quello stesso desiderio di
gloria e di ricordo che lo storico considera nel proemio il fine ultimo della sua fatica.
Anche se egli ricerca negli eventi le loro cause, premette l’esistenza di una divinità
che lui stesso definisce terribile e sconvolgente, a cui l’uditorio greco era già
abituato; non per nulla la sua opera era destinata ad una pubblica lettura, per cui il suo
stile adottava espressioni formulari, sempre cercando di rimanere a suo modo
impersonale e oggettivo (anche se in ciò non è del tutto attendibile, non per la sua
coscienza, ma per la maturazione delle ideologie dell’epoca). Nonostante attinga da
questo materiale e soprattutto sia influenzato dall’elegia guerresca e gnomica (si
ricordi a tal proposito la figura del cittadino combattente pronto al sacrificio della vita
per il bene della collettività proposta da Callino e Tirteo) ed anche dalla logografia
(un termine che significa propriamente “scrittura in prosa” i cui autori raccolsero in
opere organicamente strutturate descrizioni di paesi stranieri, leggende locali eroiche,
etc.) Erodoto sarà il primo che cercherò un elemento ordinatore nella sua ricerca, che
evidenzia nel rapporto causa-effetto. La storia non è considerata da Erodoto come una
semplice serie di avvenimenti che si susseguono nel tempo, ma come un insieme di
fatti collegati fra loro da una rete di rapporti logici, complessa, ma comunque ben
intellegibile.
I principi chiave su cui si fonda la metodologia erodotea sono:
• Ακοή: ho sentito
• Οψις: ho visto
• Γνωμη: ho ragionato
Erodoto dichiara quindi espressamente che lui ha un metodo e che i suoi racconti
sono veridici. In realtà Erodoto accosta in maniera asistematica dati autentici a fatti
palesemente fabulosi: il fine era quello di far divertire gli spettatori. Erodoto è quindi
ancora a una via di mezzo fra il logografo e lo storico: è un narratore. Si può tuttavia
ritenere Erodoto il padre della storiografia perché ci sono degli assunti metodici
corretti. È però fondamentale tenere ben presente le finalità epico-narrative, la scarsa
criticità e la quasi totale assenza di ricerca scientifica delle fonti.
Erodoto introduce nel suo pensiero anche quella che noi oggi potremmo chiamare
filosofia della storia. Secondo Erodoto, infatti, protagonista della storia è la divinità,
che è garante dell'ordine universale ed è quindi una divinità conservatrice. Nell'attimo
stesso in cui l'ordine viene compromesso la divinità interviene, in base a quel
principio che l'autore definisce come φθόνος τῶν θεῶν (invidia degli dei). Tale
principio filosofico si basa su una concezione arcaica della divinità: nella Grecia
antica, gli dei possedevano attributi piuttosto "umani", ed erano piuttosto gelosi della
propria gloria e del proprio potere. L'uomo che ottiene troppa fortuna, dunque,
incorre nella loro φθόνος, invidia, e viene conseguentemente ucciso o privato della
propria gloria. Egli deve quindi adeguarsi alla loro volontà, cercando di capirla con le
divinazioni, gli oracoli e l'oneiromanzia (interpretazione dei sogni). Quella di Erodoto
non è degradazione cabalistica, ma è uno schema mentale di asservimento alla
divinità, tipico dell'età arcaica.
Relativismo erodoteo
L'ambiente in cui viene a contatto lo storico è l'Atene di Pericle, nella quale i valori
tradizionali dell'aristocrazia naturale vengono contestati veementemente dai sofisti,
intellettuali polemici che fondano la propria critica nella condanna dei nomoi,
convenzionali ovvero artificiali quindi non degni di rispetto, importanza, interesse.
Si tratta quindi di elementi critici anche dell'impianto periegetico di Erodoto che
analizza e studia proprio i nomoi delle popolazioni barbare, che, se da una parte
venivano, come abbiamo visto, criticate dai sofisti per la loro non corrispondenza alla
fusis, venivano anche osteggiati dagli esponenti del cosiddetto tradizionalismo etico,
che vedevano nel nomos propriamente greco l'unica fonte di verità, giustizia e
sicurezza.
Erodoto risponde unendo e facendo propri alcuni aspetti contrari delle due visioni,
riuscendo a sfuggire alle critiche e dando significato proprio alla sua ricerca. Egli,
attraverso il relativismo di Protagora rifiuta di riconoscere come unica degna di
attenzione la tradizione greca, affermando che ad ogni uomo i propri costumi
appariranno sempre i migliori, e contesta ai sofisti l'inutilità o la dannosità dei nomoi
affermando che essi meritano attenzione e rispetto in quanto espressione per ciascun
popolo della propria tradizione e cultura. La modernità di Erodoto è chiara proprio in
questo passaggio culturale e storiografico.
La questione erodotea
Poiché l'opera originale di Erodoto fu rivista ed espunta arbitrariamente dai
grammatici alessandrini, i filologi e gli studiosi di letteratura greca si sono posti il
problema di individuare la struttura e il carattere originali dell'opera.
Le premesse sostanziali su cui si fonda il dibattito riguardano le discrasie prospettiche
e il frammentismo storico che coinvolgono l'intera opera erodotea.
Una prima ipotesi sistemerebbe l'opera mettendo prima le guerre persiane e poi i
λόγοι (discorsi) introduttivi.
Jacoby, nel 1913, ipotizzò che in origine l'opera fosse stata composta in chiave
acroamatica (destinata cioè alla pubblica lettura, in discorsi separati) e che poi
Erodoto, venuto a contatto con l'ideologia periclea, abbia fuso assieme tutti i vari
discorsi. De Sanctis teorizzò invece che Erodoto avesse raccontato la storia dal punto
di vista dei Persiani e che, di conseguenza, abbia presentato i vari popoli da essi
incontrati.
Infine, l'ipotesi unitarista afferma che Erodoto raccontò la storia delle colonie greche
secondo un'ottica universalistica, rappresentando lo scontro fra Oriente e Occidente. I
sostenitori di tale ipotesi mettono in luce l'episodio iniziale dell'opera,
l'assoggettamento delle colonie greche da parte di Creso (560 a.C.), e l'episodio
finale, la liberazione di Sesto, ultima città greca in mano ai Persiani.
La novella di Gige e Candaule
William Etty, Candaule, re di Lidia, mostra di nascosto sua moglie a Gige, una delle sue guardie
del corpo, mentre va a letto
Erodoto, Storie I, 8-12
Appena Gige fu giunto, la donna disse: “delle due strade che ora ti si presentano, ti do
la scelta, Gige, di prendere quella che vuoi: o uccidi Candaule e hai me e il regno di
Lidia; oppure devi morire subito, perché tu, per il futuro, obbedendo in tutto a
Candaule, non veda ciò che non devi. In vero, deve morire l’autore di questa trama o
tu, che mi hai contemplato nuda e hai fatto cose non lecite”. Gige in un primo
momento a queste parole sbalordì, poi la supplicò di non essere costretto a fare una
simile scelta. Tuttavia non la persuase, ma comprese davvero che era ferma necessità
o uccidere il suo signore o che egli stesso fosse ucciso da altri: scelse di sopravvivere.
La interrogò dunque così: “poiché mi costringi a uccidere il mio signore contro la mia
volontà, che io sappia in che modo attenteremo alla sua vita”. La donna replicando
disse: “l’attacco avverrà da quello stesso luogo da cui lui mi mostrò nuda; sarà
aggredito nel sonno”. Dopo che ebbero preparato l’attentato, quando fu notte, Gige
seguì la donna nella stanza nuziale: per Gige infatti non c’era remissione, non c’era
scampo alcuno: bisognava che morisse lui o Candaule. Lei gli diede un pugnale e lo
nascose dietro la stessa porta. Quindi, mentre Candaule dormiva, Gige sgusciò fuori
e, dopo averlo ucciso, ebbe la donna ed il regno.
Esercizi grammaticali: il genitivo assoluto.
Er. I, 21.1 Ως δέ ήρωσαν τήν επιβαλήν, νυκτός γενομένες (…)ειπετο ές τονθαλάμον
τή γυναικί.
Er. I, 12.2 Kαί μετά ταύτα αναπαυομένου Κανδαύλεω (…) έσχε καί τήν γυναίκα καί
τήν βασιληίην Γυγης.
Er. I, 8.2 Κρόνου δέ ου πολλου διελθόντος (…) έλεγε προς τόν Γυγην τοιάδε.
Er. I, 30.1 Αυτών δή ών τούτων καί τής θεωρίης εκδημήσας ό Σόλων είνεκεν ες
Αίγυπτον.
Tuc. V, 84.1 Τού δ΄ επιγναμένου θέρους Αλκιβιάδης τεπλεύσας ες Αργος (…)
PROPOSTA DI LAVORO:ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO
LETTERARIO ESAMINATO,ATTRAVERSO L’UTILIZZO DI TIPOLOGIE
DI SCRITTURA MODERNE QUALI L’ARTICOLO DI GIORNALE.
Uccisione del sovrano di Lidia:pena meritata o tradimento nuziale?
Di Demogene di Cos
A poche settimane dalla morte del sovrano Candaule, continuano a trapelare indiscrezioni sulla
vedova e regnante,già pronta alle nuove nozze con la guardia fidata del re,Gige. L’ancella della
sovrana,dopo l’allontanamento dal palazzo,attraverso alcune dichiarazioni ha fatto pensare ad una
gravidanza tenuta nascosta dalla regina. Non ci sarebbe nulla da nascondere se il nascituro fosse
figlio del defunto Candaule, ma in caso contrario dovrebbero essere riconsiderate le testimonianze
in merito alle circostanze che hanno portato alla morte del congiunto:non sarebbe stata una vendetta
giustificata dalla legge dei Lidi sul pudore e la nudità violate, ma un reato condannabile in quanto
architettato per tenere nascosta una relazione illecita!
IL NUOVO RE DELLA LIDIA
Fino a qualche giorno fa era una semplice guardia del corpo del re.
Ora Gige è detentore del trono della Lidia.
Di Callistene di Corinto
“Poiché bisogna pure che scompaia o lui che ha combinato questo tranello, o tu che mi hai visto
nuda e hai fatto ciò che non è lecito”: secca e risuonata l’alternativa della regina alla povera guardia
del corpo del re Candaule, Gige. Il re Candaule, orgoglioso della bellezza della propria moglie, non
è riuscito a tenere una così grande felicità dentro di sé ed ha voluto condividerla con uno dei più
fidati tra i suoi uomini, Gige, chiedendogli di osservare nuda la sua donna e verificare se fosse vero
quanto con tanta sicurezza ostentasse. Gige, ad un primo impatto sorpreso e sconvolto alle assurde
parole del re, dopo molta insistenza da parte di questi, che pure lo aveva messo al corrente del suo
piano, si vede costretto ad accettare. Ma il suo gesto, per quanto compiuto con il beneplacito del re,
sarebbe pur stato un atto illecito: nessuno di noi abitanti della Lidia accetterebbe di esser visto nudo
da altri che non sia il proprio uomo o la propria donna. Ancora incerta è l’esatta dinamica dei fatti,
ma di una cosa si è certi: la regina, pur fingendosi in un primo momento inconsapevole, si è resa
conto di tutto il fatto e, per questo, ha messo Gige davanti alla pesante alternativa di scegliere se
togliere la vita a chi gli aveva dato un così illecito ordine o piuttosto che fosse tolta a lui stesso che
lo aveva eseguito. L’esitazione di Gige è molta. Ma a vincere è l’interesse personale. La guardia del
corpo si sente costretta a tradire il suo re e, nel sonno – come aveva progettato la furba regina –
uccide il re. Da ieri il nuovo re della Lidia è Gige, che, con l’uccisione di Candaule ha ottenuto il
suo regno e la sua sposa.