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RIVISTA DI STUDI ITALIANI CONTRIBUTI GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO GIACOMO VERRI Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro” Vercelli S ebbene Guglielmo da Baskerville sia l’ideale precursore di Sherlock Holmes, il personaggio non va tuttavia relegato nella sola dimensione investigativa dei romanzi gialli: la detection, rivolta alla scoperta del disegno dell’assassino che si aggira per l’abbazia, si amplia a un ‘testo’ più vasto, il testo-mondo, sul quale l’uomo sapiente esercita i propri sforzi interpretativi. Pazientemente e ripetutamente, Guglielmo illustra la dottrina all’allievo Adso da Melk: “Mio buon Adso”, disse il maestro. “È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che omnis mundi creatura quasi liber et pictura nobis est in speculum e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo”. (pp. 31-32) Eco, in Lector in fabula, scrive che “un testo si distingue però da altri tipi di espressione per una sua maggiore complessità. E motivo principale della sua complessità è proprio il fatto che esso è intessuto di non-detto”1. Compito dell’aspirante Lettore Modello è riempire gli spazi bianchi attraverso strategie interpretative che il saggio analizza una a una, e che corrispondono all’incirca ai gesti indagatori di Guglielmo. La cooperazione interpretativa 2 tra lettore e testo si compie attraverso meccanismi inferenziali, volti a “conferire senso a vaste porzioni di discorso sulla base di decodifiche 128 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO parziali”3. Guglielmo ricorre a tali movimenti inferenziali, frammisti a quel tipo specifico di inferenza logica che Peirce chiama abduzione. Come spiega Eco, sulla scorta dei Collected Papers peirceiani, l’abduzione è un caso di inferenza sintetica “dove noi troviamo qualche circostanza molto curiosa che potrebbe essere spiegata dalla supposizione che essa sia il caso specifico di una regola generale, e pertanto noi adottiamo questa supposizione”4. (2.624) Peirce nota che dalla logica abduttiva discendono le scoperte scientifiche rivoluzionarie; ma allo stesso tempo, dice Eco, come lo scienziato procede anche l’investigatore: “A rileggere le dichiarazioni di metodo di Sherlock Holmes si scopre che quando egli (e con lui Conan Doyle) parla di Deduzione e Osservazione, in effetti sta pensando a una inferenza simile all’Abduzione di Peirce”5. Chi effettua abduzioni, in specie creative, dovrebbe continuamente confrontarsi con la meta-abduzione, ovvero il discorso che l’abduzione compie su se stessa, al fine di verificare se il mondo ipotizzato coincida con quello reale. La meta-abduzione è il brivido della scommessa, che riporta circolarmente a Lector in fabula, al punto in cui Eco tratta di Previsioni e passeggiate inferenziali: “la cooperazione interpretativa avviene nel tempo. […] Ogni qualvolta il lettore perviene a riconoscere nell’universo della fabula […] l’attuazione di una azione che può produrre un cambiamento nello stato del mondo narrato, esso è indotto a prevedere quale sarà il cambiamento di stato prodotto dall’azione e quale sarà il nuovo corso di eventi”6. Non solo, per prevedere porzioni di fabula, il lettore compie ‘passeggiate inferenziali’, esce momentaneamente dal testo e rintraccia nella propria competenza enciclopedica e intertestuale situazioni simili, capaci di proporre soluzioni attendibili da verificare nel prosieguo della fabula stessa: la narrazione consolatoria fa sì che il “bottino intertestuale” 7 coincida con lo svolgersi della vicenda, mentre la narrazione problematica frustra le previsioni del lettore. Il detective è portato a compiere gesti inferenziali come agisse in un testo consolatorio. L’investigatore che diventa figura carismatica, quasi mitica per la sicurezza abduttiva capace di esternare, è colui che mai teme la scommessa meta-abduttiva, perché “fortemente convinto che ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. […] Holmes può tentare la sua meta abduzione solo perché pensa che le sue abduzioni creative siano giustificate da un forte collegamento tra la mente e il mondo esterno”. Quello in cui crede Holmes è “un universo governato da un innato parallelismo tra res extensa e res cogitans”8. L’intero ragionamento sui meccanismi abduttivi posa sull’osservanza dei pilastri che son di fondamento al discorso razionale, cosicché, da questo 129 GIACOMO VERRI punto di vista, la figura di Guglielmo si staglia rispetto a quella di altri attori della vicenda: il fraterno amico, Ubertino da Casale, che con ardore mistico propone la via del cuore in contrapposizione alla via della ragione, e consiglia a Guglielmo: “castiga la tua intelligenza, impara a piangere sulle piaghe del Signore, butta via i tuoi libri” (p. 71); l’Abate che, quando illustra gli accadimenti a Guglielmo, pare voler insistere affinché egli si pronunci sulla loro “causa diabolica” (p. 38); e ancora, la figura di Bernardo Gui, inquisitore. Adso s’avvede subito che Bernardo, nell’investigare, compie “il contrario di quanto aveva fatto sino ad allora Guglielmo” (p. 305): allestisce un teatro del sospetto, distrugge l’arte abduttiva, amministra la giustizia su metri irrazionali, manovra il linguaggio per confondere l’imputato, allittera frasi ipnotiche (“tu insinui che se io credo a ciò che loro credono, allora mi crederai, altrimenti crederai solo a loro!”, p. 376; “cerchi di convincermi che non sei ciò che non sei affinché io non dica che tu sei ciò che sei!”, p. 384). La paura e la confusione riducono l’interrogato all’impotenza e a una falsa confessione. E forse non è un caso se tutto il Quinto giorno, quello in cui maggiormente si sviluppa l’azione di Bernardo, è dominato dalla nebbia che sale a visitare le mura abbaziali, quasi a voler significare l’obnubilamento delle indagini razionali di Guglielmo. Tuttavia non è chiaro che valore assuma qui la nebbia – ci saranno altri momenti nella narrativa di Eco ove sarà elemento piuttosto positivo, in Baudolino o nella Misteriosa fiamma della Regina Loana – e credo anzi che qui la sua valenza sia imprecisa e indefinita come la sua natura. Certo è che la nebbia non solo è simbolo della negativa distruzione delle facoltà razionali, ma anche veicolo di ciò che Ubertino dice il ‘sentire col cuore’ (p. 68): prassi piuttosto distante da Guglielmo, il frate essendo impermeabile ai cedimenti dell’emozione9, ma formula non lontana da Adso che spesso fa ricorso, in prima istanza, alle emozioni del cuore piuttosto che ai ragionamenti della mente. La risorsa intellettiva, più dell’emozione, si accompagna al riso filosofico: in vari luoghi Guglielmo discute col vegliardo Jorge da Burgos sulla natura e sugli effetti di questa facoltà squisitamente umana. Da subito è chiaro che, per Jorge, il monaco debba sottrarsi alle lusinghe della giocondità, e soprattutto, alla perversità del riso, foriera di discorsi e di immagini cattive, come quelle che compaiono nel lavoro di Adelmo da Otranto, il primo tra i monaci a incontrare la morte. Per il vegliardo quelle immagini mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli fino alla consunzione dei tempi. (p. 87) Quando Guglielmo fa notare che “le immagini marginali inducono sovente al sorriso, ma per fini di edificazione” (p. 87), Jorge con stizza risponde: Oh sì, […] ogni immagine è buona per invogliare alla virtù, perché il 130 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO capolavoro della creazione, messo a capo in giù, diventa materia di riso. E così la parola di Dio si manifesta attraverso l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita! (p. 87) A Jorge che depreca il mondo alla rovescia, Guglielmo oppone l’argomento10 secondo il quale “Dio può essere nominato solo attraverso le cose più difformi” e, “quanto più la similitudine si fa dissimile, tanto più la verità ci è rivelata sotto il velame di figure orribili e indecorose, tanto meno l’immaginazione si placa nel godimento carnale ed è obbligata a cogliere i misteri che si celano sotto la turpitudine delle immagini […]” (p. 88). Non solo: per Jorge, il monaco deve dedicare ogni sua cura alla sola preservazione del sapere: La custodia, dico, non la ricerca, perché è proprio del sapere, cosa divina, essere completo e definito fin dall’inizio, nella perfezione del verbo che si esprime a se stesso. La custodia, dico, non la ricerca, perché è proprio del sapere, cosa umana, essere stato definito e completato nell’arco dei secoli che va dalla predicazione dei profeti alla interpretazione dei padri della chiesa. Non vi è progresso, non vi è rivoluzione di evi, nella vicenda del sapere, ma al massimo continua e sublime ricapitolazione. (p. 402) Guglielmo è invece teso alla ricerca del nuovo e, sulla scia del maestro Ruggero Bacone, allo studio dei segreti della natura, facendo del dubbio uno strumento di indagine che nutre i gesti inferenziali alla base delle strategie interpretative. E ancora un elemento ci porta a rilevare l’importanza di tali meccanismi inferenziali: l’intertestualità, che permette all’interprete di formulare previsioni sul futuro andamento della fabula. Tradotti gli appunti di Venanzio da Salvemec, Guglielmo confessa ad Adso l’impressione di aver già letto alcune di quelle parole: “forse dovrò leggere altri libri” (p. 289), dice, e Adso, stupito, domanda al maestro se, per conoscere il contenuto di un libro, sia necessario leggerne altri: “talora si può fare così [dice Guglielmo]. Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all’inverso, è il frutto dolce di una radice amara. Non potresti, leggendo Alberto, sapere cosa avrebbe potuto dire Tommaso? O leggendo Tommaso cosa avesse detto Averroè?” (p. 289). Così, nel confronto conclusivo tra Jorge e Guglielmo, il vegliardo domanda se quest’ultimo avesse ricostruito il secondo libro della Poetica di Aristotele leggendo altri libri; a una sottintesa risposa positiva, l’inglese aggiunge che molti erano testi su cui lo stesso Venanzio stava lavorando11. L’intertestualità è allora un’immagine della biblioteca, e del mondo, ove i cammini possono in 131 GIACOMO VERRI punti nevralgici incontrarsi, consentendo la momentanea sosta in uno degli infiniti centri del labirinto rizomatico, senza aver percorso tutti i sentieri che si biforcano. Mentre Guglielmo cerca d’orientarsi nell’intrico del mondo, il novizio e allievo, Adso da Melk, vacilla, e spesso si lascia portare da quelle ragioni del cuore di cui Ubertino elogia il potere. Ammira Guglielmo ma, a un tempo, non riesce a scrutare le ragioni che lo muovono, sebbene per esse provi curiosità, così come è affascinato e quasi angosciato, almeno nei primi giorni, dall’urgenza di conoscere la storia di fra Dolcino, e di sceverare la differenza che segna le diverse sette ereticali. Non è questo l’unico caso in cui Adso va smarrito di fronte alla vertigine delle differenze: all’Ora terza del Terzo giorno, riflettendo sul destino dei libri, si chiede: “cosa si sarebbe dovuto fare? Cessare di leggere, soltanto conservare? Erano giusti i miei timori? Cosa avrebbe detto il mio maestro?” (p. 188); e poi ancora: Cosa vi era di simile nel desiderio di morte di Michele, nel rapimento che provai alla vista della fiamma che lo consumava, nel desiderio di congiunzione carnale con la fanciulla, nel mistico pudore con cui lo traducevo allegoricamente, e nello stesso desiderio di annullamento gaudioso che muoveva la santa a morire del proprio amore per vivere più a lungo ed eternamente? Possibile che cose tanto equivoche possan dirsi in modo così univoco? (p. 251) “sono afflitto dal problema stesso della differenza. Ho avuto l’impressione che parlando con Ubertino voi tentaste di dimostrargli che sono tutti uguali, santi ed eretici. E invece parlando con l’Abate voi vi sforzavate di spiegargli la differenza tra eretico ed eretico, e tra eretico e ortodosso. Cioè, voi rimproveravate a Ubertino di ritenere diversi coloro che in fondo erano uguali, e all’Abate di ritenere uguali coloro che in fondo erano diversi”. (p. 199) Il giovane vive continue sensazioni di smarrimento, veri effetti-nebbia12; non riesce a distinguere tra le posizioni dei francescani e quelle dei dolciniani, o tra l’eresia di Dolcino e quella di altre sette; l’intera vicenda di Adso oscilla tra richieste d’aiuto – al maestro, a Ubertino, a qualche auctoritas – e un dolce abbandonarsi nell’abisso dove ogni differenza scolora nell’indefinitezza. Come Guglielmo, Adso è preda del dubbio tanto osteggiato dal venerabile Jorge. Ma se il maestro lo affronta di petto, il novizio abbandona vieppiù la via razionale per prender la mistica. L’intero capitolo ove Adso riferisce gli avvenimenti accadutigli al Terzo giorno, Dopo compieta (p. 224), è paradigma della sua esperienza presente, e futura, di anziano monaco che dalla “cella del caro monastero di Melk si accinge a lasciare su quel vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù gli accadde di 132 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO assistere” (p. 19). In un momento di confusione, Adso fa la spola tra Guglielmo e Ubertino, elemosinando informazioni sulle sette ereticali, sulla vicenda di Dolcino e della bella Margherita, finché Ubertino non ne esaudisce le preghiere. Il discorso del venerabile frate però s’assottiglia, intessuto com’è di fragili differenziazioni; ciò che Adso chiede è forse impossibile da chiarire, perché impossibile è tradurre in discorso razionale ciò che viene esperito per ardore mistico. Ubertino stesso confessa, al termine del colloquio: “sì, questo è infine amore buono. […] Ma come è difficile […], come è difficile distinguerlo dall’altro. E talora quando la tua anima è tentata dai demoni ti senti come l’uomo impiccato per la gola che, legate le mani sul dorso e bendati gli occhi, rimane appeso alla forca e pure vive, senza nessun ausilio, senza nessun sostegno, senza nessun rimedio, a girare nel vuoto […]”. (p. 234) Subito dopo risolve di penetrare, solo, nel labirinto, affascinato all’idea di potervisi orientare senza l’ausilio di Guglielmo: è la volontà di cercare la nitidezza dei confini, di non lasciarsi sopraffare dall’effetto-nebbia; ma ancora una volta – l’intero capitolo è un grande climax – Adso quei confini non riesce a individuarli: salito allo scriptorium, scorge un codice sulla storia di Dolcino, dal quale apprende la vicenda della tortura e della morte sul rogo. Per associazione di idee, il giovane rimemora la vicenda di fra’ Michele minorita, alla cui esecuzione ha assistito nel viaggio in Toscana, prima di giungere all’abbazia. Nella percezione tutto si confonde di nuovo: la pira su cui brucia il corpo di frate Michele appare come il roveto ardente, e le fiamme che ne hanno consunte le carni destano alla mente di Adso parole di santa Ildegarda sul rapimento estatico. (p. 242) Nella biblioteca si abbandona ai penetrali, dimentico del proposito di carpirne i segreti, con l’affascinante intenzione di farsi inghiottire dal labirinto stesso: “non cercavo d’altra parte di orientarmi, né di evitare la stanza dei profumi che inducono a visioni. Procedevo come in preda a febbre né sapevo dove volessi andare” (p. 243)13. Scorta l’immagine di un leone su un manoscritto del vangelo di Marco, si sente turbato dall’ignorare “in quale chiave simbolica debba leggerla” (p. 243); passa poi al vangelo di Matteo, dove l’effigie dell’uomo, simbolo dell’evangelista, avvolto in un paramento simile a una corazza tempestata di pietre preziose, è correlata da Adso alla fantasmagorica figura dell’assassino dell’abbazia: “il mio occhio si perdeva, sulla pagina, per sentieri splendenti, come i miei piedi si stavano perdendo nella teoria inquietante delle sale della biblioteca” (p. 244). Poco dopo, il ritratto della Vergine gli si sovrappone a quello della bella Margherita, spingendolo così a lasciare la biblioteca. Ma, giunto nei pressi del refettorio e della cucina, percepisce “qualcosa di affine ai suffumigi che lo avevano sorpreso nella biblioteca, il giorno prima” (p. 245). Appare qui la fanciulla, apice o abisso dell’indistinzione: 133 GIACOMO VERRI Ma v’era poi davvero differenza tra le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provava in quell’istante? In quell’istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell’identità. (p. 248) Non è solo la tenera età o la scarsa esperienza causa d’obnubilamento: è lo stesso Adso ottantenne che, nell’edificare la cronaca, usa parole ancora imprigionate nell’indefinitezza: “ora che, con la mano che trema (e non so se per l’orrore del peccato di cui dico o per la colpevole nostalgia del fatto che rimemoro) scrivo queste linee, mi avvedo di avere usato le stesse parole per descrivere la mia turpissima estasi di quell’istante, che ho usato non molte pagine innanzi, per descrivere il fuoco che bruciava il corpo martire del fraticello Michele” (p. 250-51). Allo stesso modo, durante il convegno con la fanciulla, il giovane non si perita di ripetere la frase udita poco prima da Ubertino per descrivere il busto della Vergine: “pulchra sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice” (p. 233 e 249); e di nuovo il vegliardo Adso non riesce a sottrarsi al fascino di quella confusione, così che nella cronaca compaiono ancora le stesse parole. Adso è infine estraneo alle strategie interpretative del maestro perché, se anche nelle indagini si rende protagonista di importanti scoperte, procede per illuminazioni. Accade così quando, alla ricerca del corpo di Berengario, “quasi per caso” (p. 258), indirizza il ritrovamento nei balnea; quando poi racconta al maestro il proprio sogno intertestuale – dove è confluito il testo della Coena Cypriani amalgamato ad altre citazioni, il tutto condito con i recenti ricordi e le ansie del novizio14 – Guglielmo da esso filtra gli elementi utili alle proprie ipotesi (p. 441). E sempre Adso, con una banale affermazione, favorisce il maestro nel risolvere l’enigma del testo di Venanzio (p. 460). Guglielmo, dunque, con la propria “competenza intertestuale rimpingua le intuizioni e le riflessioni di Adso e presagisce gli sviluppi successivi della fabula”15, mentre il novizio fatica ad assumere i panni dell’interprete, forse perché stenta a riconoscere, in ciò che lo circonda, la natura di segni. “Perché vi sia specchio del mondo occorre che il mondo abbia una forma” (p. 127), dice Guglielmo. Ma né forma né ordine, nel mondo, sono dati; se fosse altrimenti anche Dio ne sarebbe prigioniero. È una prospettiva che si fonda sull’affilato rasoio della ragione, lasciando poco spazio al sentimento. Come scrive Bruno Pischedda, Guglielmo, sebbene fugga ogni cedimento a forme emozionali, è tuttavia “agitato da un profondo travaglio autocritico”16; uomo silenzioso, si consuma nella freddezza di considerazioni razionali; e, se l’emozione travalica le barriere, è subito smorzata dall’intervento ironico. Quando, a esempio, Ubertino illustra lo scarto tra esperienza mistica e tentazione diabolica, scopriamo un Guglielmo scosso dal dubbio e, a un tempo, passato dall’ironia: 134 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO E io temo di non saper più distinguere, Ubertino. Non fu la tua Angela da Foligno a raccontare di quel giorno che, rapita in ispirito, stette nel sepolcro di Cristo? Non disse come dapprima ne baciò il petto e lo vide giacere con gli occhi chiusi, poi baciò la sua bocca e sentì salire da quelle labbra un inenarrabile odore di dolcezze, e dopo una breve pausa posò la sua gota sulla gota di Cristo e il Cristo avvicinò la sua mano alla gota di lei e la strinse a sé e – essa così disse – la sua letizia diventò altissima? […]” “Che c’entra questo con l’impeto dei sensi?” domandò Ubertino. “Fu esperienza mistica, e il corpo era quello di Nostro Signore”. [E con ironia:] “Forse mi sono abituato a Oxford”, disse Guglielmo, “dove anche l’esperienza mistica era di altro genere […]”. (pp. 65-66) Avanti, del monaco inglese troviamo altre confessioni – riferisce ad Adso quanto le conversazioni con l’amico Guglielmo di Occam avessero seminato l’animo suo di dubbi (p. 209) –, ma ogni incertezza si compone nel convincimento che nel mondo non possa sussistere un ordine e che l’unica operazione effettuabile dall’uomo saggio è di ragionare sulle cose singolari: La scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose singolari. Capisci Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l’ho appreso in base all’esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti. (p. 210) Dichiarazione forte di un pensiero debole17. A neppure metà romanzo, Guglielmo espone alcune considerazioni che non saranno troppo dissimili dalle conclusive, ma tra queste e quelle avviene qualcosa, gettandosi un seme che fiorirà nei successivi romanzi. Adso, in un moto di alacrità, tenta di riassumere la considerazione del maestro: “quindi, se ben capisco, fate, e sapete perché fate, ma non sapete perché sapete che sapete quel che fate?” (p. 210). La sintesi offre il destro a Guglielmo per compiere altri importanti asserti: Devo dire con orgoglio che Guglielmo mi guardò con ammirazione: “Forse è così. In ogni modo questo ti dice perché mi senta così incerto della mia verità, anche se ci credo”. “Siete più mistico di Ubertino!” dissi maliziosamente. “Forse. Ma come vedi lavoro sulle cose di natura. E anche nell’indagine che stiamo svolgendo, non voglio sapere chi sia buono o chi sia malvagio, 135 GIACOMO VERRI ma chi sia stato nello scriptorium ieri sera, chi abbia preso gli occhiali, chi abbia lasciato sulla neve le orme di un corpo che trascina un altro corpo, e dove sia Berengario. Questi sono fatti, poi proverò a legarli tra loro, se mai sia possibile, perché è difficile dire quale effetto sia dato da quale causa”. (pp. 210-11) Questo il proposito di Guglielmo rispetto al quale Adso si sente candidamente estraneo: “è una vita difficile la vostra” (p. 211); tuttavia Guglielmo, sollevato nell’orgoglio, ricorda al giovane che così operando è riuscito a trovare Brunello, anche se l’entusiasmo è frenato dalla constatazione che ciò non significa l’esistenza di un ordine nell’universo, ma solo di “un po’ d’ordine in questa mia povera testa” (p. 211). Ciò che Guglielmo scopre, o forse sa già, è “di vivere in un mondo strutturato a rizoma: ovvero, è strutturabile, ma mai definitivamente strutturato”18; un mondo fatto di segni interpretabili, ma mai definitivamente organizzati in disegno finito o in struttura fissa. Diventa fondamentale il concetto di ordine mentale provvisorio e, volendo, anche illusorio, l’unico che permette di procedere nel mondo, senza scegliere la via mistica dell’annullamento negli abissi dell’identità. Dell’impossibilità di strutturare in modo definitivo l’universo si era già accorto Borges che, con usuale fantasia apocrifa, stilava l’improbabile enciclopedia cinese, l’Emporio celeste di riconoscimenti benevoli. In essa si dice che “gli animali si dividono in (a) appartenenti all’imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che si agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche” (Altre Inquisizioni). Eco, nel lavoro sulla Ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, inserisce la citazione borgesiana proprio al termine del capitolo sulle poligrafie, in specie alla fine del paragrafo Primi accenni di un’organizzazione del contenuto, dove son prese in esame opere come il Novum inventum del gesuita Athanasius Kircher, il cui intento è di inquadrare in modo sistematico ogni aspetto dell’universo. Programma ambizioso e impossibile che porta lo stesso Kircher a stilare tavole e liste ‘meravigliosamente’ incongrue e assolutamente arbitrarie. “La conclusione di Borges”, scrive Eco, “è che non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale”19. Adso, da parte sua, fatica a entrare in sintonia con “la freddezza ragionativa del britannico che gli fa da maestro”20; di Guglielmo, il giovane non coglie l’inquieto rapporto col mondo e con i suoi illimitati ordini. Sicuramente ne percepisce la complessità, se a un punto della cronaca scrive: “mentre mi coricavo conclusi che mio padre non avrebbe dovuto mandarmi per il mondo, che era più complicato di quanto pensassi. Stavo imparando troppe cose” (p. 160). Spesso, avanti agli oggetti del mondo, resta ipnotizzato, quasi rapito dalla forza paralizzante dello stupore. Pischedda, a esempio, scrive che “di fronte al timpano della chiesa abbaziale, colpito nell’intimo dalle immagini 136 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO apocalittiche che vi sono scolpite, egli passa rapidamente dalla sorpresa, alla contemplazione estatica, al deliquio visionario”21. Adso affronta le articolate strutture del mondo col cuore, come direbbe Ubertino, abbracciandone la complessità che si cambia, a volte, in armonia. Ecco una riconciliazione con la natura, tutta edificata sui sensi, prima l’olfatto, poi la vista: “rientrammo in chiesa e uscimmo dal portale settentrionale, sedendoci infine felici sulle lastre di pietra delle tombe. L’aria bellissima della notte mi parve un balsamo divino. Le stelle brillavano intorno a noi e le visioni della biblioteca mi parvero assai lontane” (pp. 18182). Una sorta di comunione con la complessità del cosmo – immediatamente dopo Adso afferma: “com’è bello il mondo e come sono brutti i labirinti!” – non a caso avvertita all’uscita dal labirinto-biblioteca, luogo di non serena erudizione, di un sapere “malato”; ma non si allontani eccessivamente Adso dall’universo dei libri (altrimenti non avrebbe amorevolmente raccolto le disiecta membra della biblioteca né avrebbe compilato la cronaca di cui leggiamo); si dica che con esso intrattiene un rapporto emotivo, come se la trepidazione negata a Guglielmo confluisse nelle fibre del novizio – sebbene si scopra che nelle viscere della biblioteca anche Guglielmo allenti un poco il freno all’eccitazione: “a ogni titolo che scopriva prorompeva in esclamazioni di allegrezza, o perché conosceva l’opera, o perché da tempo la cercava o infine perché non l’aveva mai sentita menzionare ed era oltremodo eccitato e incuriosito. Insomma, ogni libro era per lui come un animale favoloso che egli incontrasse in una terra sconosciuta” (p. 313), per lui che dubita della natura dell’unicorno così come è descritta dal Fisiologo, e ad essa contrappone la descrizione resa da Marco Polo (p. 318). Adso a volte percepisce come un fardello la mediazione dei libri che, nella sua mente, formano un microcosmo (o forse un macrocosmo) sovrapposto al mondo reale e che di quello gli impediscono l’esperienza. All’idea che i libri (le labirintiche diramazioni del sapere) possano dar origine a un organismo vivente, a un universo che è, o dovrebbe essere, segno di altri segni, interpretante di tutto ciò che nel creato esiste, Adso è rapito da un senso di inquietudine: Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come se parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite”22.(p. 289) 137 GIACOMO VERRI A questa biblioteca divenuta quasi cosa viva ma non umana – non v’è mente capace d’abbracciarla intera –, Adso oppone una visione del mondo istintiva. La comunione col cosmo trova l’apice all’Ora terza del Quarto giorno quando il giovane, afflitto dai patimenti d’amore per la fanciulla, vaga sul pianoro. Cerca di descrivere i sentimenti che lo agitano, mai persuaso, poiché le sensazioni scolorano in un pansensismo dove ogni essere è segno della fanciulla: “Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, di rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l’idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l’eternità, lontana” (p. 281). Il mondo che a Guglielmo “non solo parla delle cose ultime […] ma anche di quelle prossime” (pp. 31-32), diventa per Adso un testo a senso unico: Era, ora cerco di capire, come se tutto l’universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell’immensa bontà del suo creatore, in cui ogni creatura è quasi scrittura e specchio della vita e della morte, in cui la più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina23. (p. 282) Adso riesce a far confluire nel disegno divino la turbolenza dei sensi poiché, se il mondo intero s’apre come un grande libro al fine di parlare agli uomini della bontà e potenza del creatore; e se egli nel libro della natura legge della fanciulla; tutto deve “far parte del grande disegno teofanico che regge l’universo” (p. 282). Se le strategie interpretative di Guglielmo servono a sceverare, nel contatto di Adso col mondo domina il senso dell’indistinzione24 (quasi un preludio alla semiosi ermetica del Pendolo di Foucault). Solamente in questi termini il novizio – come l’Adso adulto – riesce a comprendere qualcosa; altrimenti, per sua propria ammissione, è quasi pentito che il padre lo abbia mandato in giro per un mondo così complesso (p. 160); quando rimemora gli antichi dubbi che lo colsero nello scriptorium dell’abbazia “sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri” (p. 186), scrive: Mi sentii confuso e timoroso dei miei pensieri. Forse essi non si addicevano a un novizio che doveva solo seguire con scrupolo e umiltà la regola, per tutti gli anni a venire – ciò che poi ho fatto, senza pormi altre domande, mentre intorno a me sempre più il mondo sprofondava in una tempesta di sangue e follia. (p. 189) Mondo crudele e malvagio, da una parte, ma dolce e penetrante, armonioso e stabile prodotto del creatore, quand’esso è esperito oltre i meccanismi razionali. Un rapporto col mondo percorso da numerosi effetti-nebbia, non 138 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO più inquietanti e dispensatori di disagio, quanto di gaudio e piacere25. Tuttavia, vi è un unico motore capace di azionare questa prospettiva: l’amore. Esso avvia il collegamento gaudioso col cosmo solo quando il processo semiosico è annullato: “Come era bello lo spettacolo della natura non ancora toccata dalla sapienza, spesso perversa, dell’uomo!” (p. 285) Guglielmo dipana infine la matassa che lega i delitti, ma è una vittoria parziale; Alinardo, affermato che “il libro di Giovanni offre la chiave di tutto!” (p. 306) e messa in profezia la convinzione che la sequenza delle morti segua la scansione delle sette trombe dell’Apocalisse, dà uno schema che il frate francescano, scettico qual è, non accetta immediatamente; ma dopo la morte dell’erborista Severino, colpito da una sfera armillare, Guglielmo recita anch’egli l’apocalittico annuncio della quarta tromba: “E fu colpita la terza parte del sole e la terza parte della luna e la terza parte delle stelle […]”. Parole seguite a un’esclamazione di stupore e di sincero sgomento: “Santo cielo!” (p. 368), che costituiscono uno dei rarissimi momenti di emozione in Guglielmo. Di qui il frate osserva gli indizi raccolti in maniera differente, scorgendo i legami che li uniscono nella trama di un piano: “Se è così tutto deve essere rivisto, l’assassino non ha colpito a caso, ha seguito un piano […]”. (p. 368) Penetrato nel finis Africae con Adso, Guglielmo può recitare a Jorge la storia dei delitti, se non fosse che, nel momento in cui per solito i detectives riscuotono plausi alla loro virtù abduttiva, il francescano soffoca l’orgoglio e la fierezza con un moto di stizza, quasi scostando il proprio vanto per far posto a severe e amare considerazioni sulla pochezza umana. Si accorge che le ipotesi coincidono con il mondo reale, ma i passi che ne hanno consentita la ricostruzione erano sbagliati. Ecco allora un’altra esclamazione emotiva: “Che stupido […]”. “Chi?” (p. 473) chiede Adso: Io. A causa di una frase di Alinardo mi ero convinto che la serie dei delitti seguisse il ritmo delle sette trombe dell’Apocalisse. La grandine per Adelmo, ed era un suicidio. Il sangue per Venanzio, ed era stata una idea bizzarra di Berengario; l’acqua per Berengario stesso, ed era stato un fatto casuale; la terza parte del cielo per Severino, e Malachia aveva colpito con la sfera armillare perché era l’unica cosa che si era trovato sottomano. Infine gli scorpioni per Malachia […] Perché gli hai detto che il libro aveva la forza di mille scorpioni? (p. 473) E Jorge: A causa tua. Alinardo mi aveva comunicato la sua idea, poi avevo udito da qualcuno che anche tu l’avevi trovata persuasiva […] Allora mi sono convinto che un piano divino regolava queste scomparse di cui io non ero 139 GIACOMO VERRI responsabile. E annunciai a Malachia che se fosse stato curioso sarebbe perito secondo lo stesso piano divino, come infatti è avvenuto. (p. 473) Chi legge gialli non è avvezzo a irruzioni sì prepotenti della casualità. Quello apocalittico è uno schema, un piano, al quale si vuol piegare l’imperturbabile procedere del caso, perché, come scriverà Belbo in uno dei files segreti, “il Piano ti giustifica a tal punto che non sei neppure responsabile del Piano stesso. […] Un Piano, un colpevole. […] An Deus sit. Se c’è, è colpa sua”26. Giustificazione e speranza: la prima per Jorge, che scarica la propria delittuosa responsabilità; la seconda per Guglielmo che, in mano lo schema delle sette trombe, sogna il superamento della pochezza umana; alla fine, tuttavia, si ritrae sconcertato dal disegno che l’ha condotto al vegliardo, il quale per parte sua, forte d’un dogmatismo fanatico, non riesce a comprendere l’intimo travaglio del francescano: “Non ti seguo”, disse Jorge. “Sei orgoglioso di mostrarmi come seguendo la tua ragione sei giunto sino a me e però mi dimostri che ci sei arrivato seguendo una ragione sbagliata. Cosa vuoi dirmi?” “Nulla, a te. Sono sconcertato, ecco tutto. Ma non importa. Sono qui”. (p. 474) Guglielmo vuol sapere perché Jorge fosse a tal segno spaventato dal libro di Aristotele. Si apre qui l’ampio discorso sul riso, anello di congiunzione delle considerazioni conclusive del frate francescano. Nel 1981 Eco pubblicava in Alfabeta un interessante articolo sulla retorica del comico, ora in Sette anni di desiderio, dal titolo Il comico e la regola. Qui Eco ridiscute il valore eversivo del ‘comico’, reinserendolo nel contesto in cui prende forma: Il comico pare popolare, liberatorio, eversivo perché dà licenza di violare la regola. Ma la dà proprio a chi questa regola ha talmente introiettato da presumerla come inviolabile. La regola violata dal comico è talmente riconosciuta che non c’è bisogno di ribadirla. Per questo il carnevale può avvenire solo una volta all’anno. Occorre un anno di osservanza rituale perché la violazione dei precetti rituali sia goduta (semel – appunto – in anno). In regime di permissività assoluta e di completa anomia non c’è carnevale possibile, perché nessuno si ricorderebbe cosa viene messo (parenteticamente) in questione. […] In questo senso il comico non sarebbe affatto liberatorio27. Non è il riso comico a spaventare Jorge, conscio che la risata è necessaria alla conservazione dell’ordine. Il riso, dice, “è il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento della festa, del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e da altre ambizioni. […] Piuttosto di ribellarvi all’ordine voluto da Dio, ridete e dilettatevi delle vostre 140 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO immonde parodie dell’ordine” (p. 477). Ricordando però che ‘comico’ è termine-ombrello, Eco tenta di scorgere “una forma di attività che giochi diversamente con le regole, tale da consentire anche esercizi negli interstizi del tragico, e di sorpresa, sfuggendo a questo commercio oscuro col codice”28. Levata la paralizzante dicotomia comico-regola, Eco individua questa ulteriore forma di comico in ciò che Pirandello chiama umorismo: il passaggio dal riso al sorriso, dal distacco superiore a petto della situazione comica (la vecchietta imbellettata come una fanciulla) all’immedesimazione, alla riflessione. Il ‘sentimento del contrario’ corrode la regola, la scarnifica: “In tal modo l’umorismo non sarebbe, come il comico, vittima della regola che presuppone, ma ne rappresenterebbe la critica, conscia ed esplicita” 29. È questa a spaventare il vecchio Jorge: “‘Ma qui, qui […]’ ora Jorge batteva il dito sul tavolo, vicino al libro che Guglielmo teneva davanti, ‘qui si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte, gli si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia […]’” (p. 477). Jorge teme che, simbolicamente, i marginalia possano iniziare ad abitare il centro della pagina: “il giorno che la parola del Filosofo giustificasse i giochi marginali della immaginazione sregolata, oh allora veramente ciò che stava a margine balzerebbe nel centro, e del centro si perderebbe ogni traccia”. (p. 479) Il romanzo, ove più volte ci si intrattiene a parlare di marginalia – quelli di Adelmo da Otranto per primi, e poi di emarginati, eretici dolciniani, o di semplici lebbrosi di San Francesco – invita alla formulazione di parallelismi (col sapore di giochi di parole) tra quanto accade nei libri e quanto nella realtà30. Si immagina che, l’ordine essendo sgretolato, ciò che sta ai margini balzi al centro, i marginalia sostituendo il testo, gli emarginati e i lebbrosi mescolandosi agli altri. Jorge stende il veleno ai margini del libro, perché è lì che si annida il tarlo dell’ordine; in tutti i libri, eccetto quello del Filosofo, dove ciò che dovrebbe stare ai margini è già balzato al centro, essendo le miniature di Adelmo divenute “oggetto di filosofia” (p. 477). La biblioteca rappresenta il centro, al quale non si dà adito per gli ‘emarginati’. E poi ancora, si scorge un simbolo del centro nell’architettura dell’abbazia che, con solide mura, vieta l’accesso ai pezzenti che affollano l’esterno contentandosi di far incetta di ciò che dal centro è scartato. E se si vuole procedere nella catena di parallelismi, si vedrà che l’infrazione alla regola (che l’amministrazione della giustizia di Bernardo Gui si affretterà a sanare con “il fuoco e il ferro rovente” p. 479), il permesso accordato alla fanciulla di accedere nelle mura viene per il cellario, Remigio da Varagine, e per Salvatore, monaci che nel margine dell’eresia dolciniana sono cresciuti. Salvatore stesso, il viso simile ai mostri affacciati dai capitelli della chiesa, la favella babelica e “la sua faccia, messa insieme con pezzi di facce altrui” (p. 55), è simbolo del margine accolto in seno all’ordine (come Remigio che, dopo la morte di Dolcino, s’adagia tra le braccia dell’ordine benedettino), 141 GIACOMO VERRI integrato perché inoffensivo, ora che il veleno, Dolcino, è stato purificato dalle catartiche fiamme del rogo. Così, tra le mura della biblioteca sono accolte le lettere scritte dallo stesso Dolcino e affidate a Remigio, che, giunto all’abbazia, le pone nelle mani di Malachia. Questi si dimostra prono esecutore dei voleri di Jorge; ma se Jorge governa dall’alto le sorti dell’abbazia, tenendo l’Abate in posizione subalterna; se il vegliardo ha tanto orrore di ciò che potrebbe sconvolgere l’ordine e la regola; vien da chiedersi perché decide di conservare il manoscritto aristotelico così a lungo e gelosamente. Perché fu bibliotecario – è una risposta –, virtualmente lo è ancora, e come tale, ancorché obnubilato da un dogmatismo paranoico, ama i libri e soprattutto il manoscritto d’Aristotele, sua creatura – essendo il codice parte del ricco bottino che Jorge recò alla biblioteca dalla terra natale, Silos, nei pressi di Burgos. Tra le acquisizioni operate da Jorge rientrano anche molte apocalissi ispaniche (p. 474), il che dà ragione dell’ossessione apocalittica e dell’insistenza sul tema dell’Anticristo a cui, in specie, i discorsi del vegliardo fanno riferimento. O forse non distrugge il testo aristotelico perché funziona come un’apocalisse: il contenuto, seducente tentazione demoniaca, serve ad attirare uomini poco virtuosi; Jorge lo userebbe per far giustizia, per purgare il mondo dalle anime corrotte, divenendo esecutore di un Dio giusto ma vendicativo. Di ciò è convinto, come del fatto che Dio abbia posto dei limiti “al di là dei quali non è permesso andare. Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: hic sunt leones” (p. 482). Il secondo libro della Poetica di Aristotele è custodito nel torrione meridionale della biblioteca, ove le prime lettere dei cartigli di ogni stanza formano la scritta ‘Leones’; ne oltrepassa il confine chi possiede un’anima corrotta come l’immagine restituita dallo specchio deformante posto a difesa della stanza segreta. Chi varca quel confine deve essere punito. Il vegliardo, prigioniero dell’ordine e della regola, è convinto di agire in essa: “io so che questa era la volontà del Signore, interpretando la quale ho agito. Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo”. (p. 482) Jorge da Burgos morirà poco dopo, vittima dell’apocalisse da lui provocata, arso da un rogo più terrificante di quelli che bruciano gli eretici, il volto trasfigurato da un ghigno satanico, incarnazione dell’Anticristo, del dogmatismo sfrenato, della verità immodificabile. Chi invece si rimette in discussione ed eleva il dubbio a elemento fondante l’umana saggezza è Guglielmo. Il dubbio s’affratella alla risata umoristica, come quella induce l’uomo ad attivare un discorso critico su regole e ordini. Guglielmo torna alle proprie considerazioni, più convinto della necessità del dubbio e del riso: Jorge ha compiuto un’opera diabolica perché amava in modo così lubrico la sua verità da osare tutto pur di distruggere la menzogna. Jorge temeva il secondo libro di Aristotele perché esso forse insegnava davvero a deformare il volto di ogni verità, affinché non diventassimo schiavi dei nostri fantasmi. Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della 142 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità”. (p. 494) Nell’universo di Jorge il riso è Negazione (Eco scrive nell’Elogio di Franti che “Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso”31), mentre il libro di Aristotele insegna che esso è forza positiva, inserita organicamente nel tessuto dell’universo. “Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa”32. Ma se il riso è “lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile”33. Maieuta, in questo senso, è Francesco d’Assisi che, nelle parole di Guglielmo, è il santo e, prima ancora, l’uomo che, nel secolo dove l’emarginato è escluso da ogni espressione sociale (il lebbroso è per il consorzio civile anagraficamente morto), ha saputo offrire lo spunto per una società diversa. Come scrive padre Leonardo Boff, Francesco “non inventò nessun servizio per i poveri: nessun lazzaretto, nessuna opera di assistenza. Fece di più: volle condividere la loro vita e il loro destino” 34. Far ridere della verità, insegna Guglielmo, è compito di chi ama gli uomini: l’amore vive in simbiosi col riso, mentre chi odia è incapace di ridere perché compresso dalle irremovibili pareti dell’ordine; “San Francesco capì questo, e la sua prima scelta fu di andare a vivere tra i lebbrosi. Non si cambia il popolo di Dio se non si reintegrano nel suo corpo gli emarginati. […] Non voleva solo aiutare i lebbrosi, ché la sua azione si sarebbe ridotta a un ben povero e impotente atto di carità. Voleva significare altro” (p. 204), la cancellazione della dicotomia tra emarginato e integrato. Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore. […] “perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia”35. Francesco non è Dolcino, vuol far ridere l’Ordine dal di dentro, far ridere la verità, non bestemmiarla da fuori; Guglielmo si rende però conto che l’impresa fallisce ed è destinata a fallire sempre, perché retta su un circolo vizioso: Francesco voleva richiamare gli esclusi, pronti alla rivolta, a far parte del popolo di Dio. Per ricomporre il gregge bisognava ritrovare gli esclusi. 143 GIACOMO VERRI Francesco non c’è riuscito e te lo dico con molta amarezza. Per reintegrare gli esclusi doveva agire all’interno della chiesa, per agire all’interno della chiesa doveva ottenere il riconoscimento della sua regola, da cui sarebbe uscito un ordine, e un ordine, come ne uscì, avrebbe ricomposto l’immagine di un cerchio, al cui margine stanno gli esclusi. E allora capisci, ora, perché ci sono le bande dei fraticelli e dei gioachimiti, che raccolgono intorno a loro gli esclusi, ancora una volta. (p. 205) Da qui il pensiero debole di Guglielmo, il quale, ancorché certo dell’ingiustizia dell’Ordine, alla domanda di Adso su chi avesse ragione nel mare magnum dell’eresia, risponde: “Tutti avevano la loro ragione, tutti hanno sbagliato”(p. 207); eppure “il massimo che si può fare è guardare meglio”, dice, per migliorare la vita, per “portare a chiarezza intellettuale la verità implicita nei gesti dei semplici”. Guglielmo, da nominalista, fa notare che i semplici “parlano spesso con la bocca di Nostro Signore. […] non si perdono alla ricerca di leggi generalissime. Essi hanno l’intuizione dell’individuale”. Intuizione che interessava a Bacone, amato maestro di Guglielmo: “Bacone credeva nella forza, nei bisogni, nelle invenzioni spirituali dei semplici”. (p. 208) Così Guglielmo avvicina Francesco, passando attraverso la sapienza di Bacone. Comune denominatore alle tre figure è l’amore per gli altri che, nel personaggio echiano, pare svincolato da precise forme di fede; Nunzia Rossi scrive che “Eco si accosta a Francesco con la passione del laico; ignora il santo e vede in lui solo una figura della storia temporale” 36. Eco chiarirà le basi di questa etica naturale, rivolgendosi, molti anni dopo Il nome della rosa, proprio a un uomo di Chiesa, il cardinale Carlo Maria Martini37. A una domanda del cardinale riguardante “il fondamento ultimo dell’etica per un laico, nel quadro del ‘postmoderno’. Cioè, in concreto: su che cosa basa la certezza e l’imperatività del suo agire morale, chi non intende fare appello, per fondare l’assolutezza di un’etica, a princìpi metafisici o comunque a valori trascendenti e neppure a imperativi categorici universalmente validi?”38, Eco risponde definendo i fondamenti di una religiosità laica, di un’etica naturale, e dimostra come questa “possa incontrarsi coi princìpi di un’etica fondata sulla fede nella trascendenza” 39. È laica, tale religiosità, “perché fermamente ritengo che ci siano forme di religiosità, e dunque senso del sacro, del limite, dell’interrogazione e dell’attesa, della comunione con qualcosa che ci supera, anche in assenza della fede in una divinità personale e provvidente”40. Eco sa che su questo punto anche il cardinale può convenire. Il problema sta nell’individuare dove tale etica naturale trovi la propria ragione d’essere: La dimensione etica inizia quando entra in scena l’altro. […] Come anche ci insegnano le più laiche tra le scienze umane, è l’altro, è il suo sguardo, che ci definisce e ci forma. […] senza pensare all’ateo […], mi pare evidente che una persona che non ha mai avuto esperienza della 144 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO trascendenza, o l’ha perduta, possa dare un senso alla propria vita e alla propria morte, possa sentirsi confortato solo dall’amore per gli altri, dal tentativo di garantire a qualcun altro una vita vivibile anche dopo che lui sarà scomparso”41. È il San Francesco tratteggiato da Guglielmo nelle pagine del romanzo. E se l’uomo di Chiesa obiettasse che tale etica manca di una giustificazione di fondo, ecco una dimostrazione di quanto siano ‘miracolosi’ i racconti squisitamente umani; Eco invita il cardinale ad ammettere che se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede”42. Il desiderio senza amore è lussuria; e diversi generi di lussuria serpeggiano nell’abbazia, di cui Guglielmo redige un elenco, la sera del Quinto giorno, conversando con Adso, per concludere che “l’amore vero vuole il bene dell’amato” (p. 399). E, come s’è visto, sul tema, Guglielmo torna nelle pagine finali del romanzo: le conclusioni sono intimamente legate all’amore per gli altri, e la soluzione a cui giunge non è rivolta a se stesso, quanto agli uomini; è l’umanità intera che abbisogna di essere liberata dall’insana passione per la verità. Ma Guglielmo riesce a ridere, riesce a liberarsi dalla passione per la verità? Solo in parte. Certo nei dialoghi con l’Abate, con Ubertino, e soprattutto con Jorge, mostra la convenienza di sottoporre ogni certezza alla prova del dubbio; e, con pari determinazione, sostiene l’importanza del riso. Eppure, il frate, forse a causa del britannico contegno, mai riesce nella messa in atto di ciò che professa: né pare ridere dell’Ordine dal di dentro né, tantomeno, bestemmiarlo dal di fuori. Senza dubbio, Guglielmo è campione di ironia; però essa sembra solamente il canale attraverso cui manifestare la propria amarezza per le cose presenti. Ma se durante il sommario processo diretto da Bernardo, Guglielmo mantiene un contegno quasi rassegnato, più impetuoso è l’atteggiamento di Adso, eroe che vuole bestemmiare l’ordine dal di fuori, quando, la Notte del Quarto giorno, Bernardo sorprende tra le mura abbaziali Salvatore e la fanciulla: sulle prime, il novizio prega disperatamente il maestro, nel frattempo interpellato da Bernardo, di sostenere le ragioni della ragazza. Sebbene ironico, l’intervento di Guglielmo è però limitato: “Non credo voi abbiate bisogno delle mie antiche esperienze per arrivare alle vostre conclusioni” (p. 331-32). Quando poi vede gli arcieri condurre la fanciulla, Adso è tentato di seguirla, ma “ancora una volta Guglielmo, scurissimo in 145 GIACOMO VERRI volto, mi trattenne. “‘Stai fermo, sciocco’, disse, ‘la ragazza è perduta, è carne bruciata’”. (p. 334) La remissività di Guglielmo è un segnale d’attesa? Forse la sua è veramente una forza corrosiva che agisce dall’interno. Per ora si può solamente notare che l’atteggiamento di rassegnazione del frate britannico si ripresenta nei confronti di Michele da Cesena. Il generale dell’ordine vorrebbe infatti recarsi ad Avignone da papa Giovanni XXII ma Guglielmo lo distoglie dal proposito, destinato a fallire. Il processo inquisitorio di Bernardo Gui – dice Guglielmo – “ti ha dato una immagine di come ogni tua parola, laggiù, potrebbe essere stravolta. Da cui si deduce, mi pare, che tu non debba andare” (p. 394). Guglielmo vede chiaro sul futuro degli avvenimenti; tuttavia, ancora una volta, il suo sembra un atteggiamento remissivo, e il riso, contro l’ordine, un riso amaro e poco incisivo. È evidente che Guglielmo osteggia la ‘verità’ assurda professata da Bernardo Gui o da Jorge. Ma egli stesso, forse, non sa liberarsi dalla passione per la verità, tanto che, con ostinazione, la ricerca, fino a prefigurarsi un piano inesistente. Guglielmo, deluso, spiega ad Adso: Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a Jorge attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. […] Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo”. (p. 495) Si ricordino ora le esclamazioni emotive prima sottolineate: l’una accompagna il momento in cui Guglielmo inizia a credere al disegno apocalittico; l’altra è pronunciata quando si accorge che non esiste alcuna trama. Guglielmo ha inseguito ostinatamente un sogno, una chimera, un disegno possibile travestito da verità, non sapendosene liberare che alla fine. Certo, per questa ‘verità’ non si getta, sognando, tra i flutti, come Roberto de la Grive; tuttavia, come quello, ha inseguito una narrazione falsa e si dispera per la propria ostinazione: È il meglio degli uomini, che è poco. È difficile accettare l’idea che non vi può essere un ordine nell’universo, perché offenderebbe la libera volontà di Dio e la sua onnipotenza. Così la libertà di Dio è la nostra condanna, o almeno la condanna della nostra superbia”. (p. 495) Infine, quando ormai l’incendio della biblioteca è tanto vasto da rendere vana l’azione umana, Guglielmo piange. Adso dipinge il maestro che fuoriesce dal refettorio come “povera allegoria dell’impotenza” (p. 490). La biblioteca brucia, e con essa la regola e l’ordine che rappresenta; il testo aristotelico è stato smosso dal proprio latebroso rifugio e ha provocato la 146 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO distruzione, materialmente dall’interno, dell’Ordine. Eppure Guglielmo piange. Certo, la corrosione della regola è in questo caso catastrofica, ma forse è l’unica soluzione attuabile per abbattere il robusto e ancestrale ordine della biblioteca. E se essa è imago mundi, solo l’ecpirosi, manifestazione del caos, può essere preludio a una visione del mondo differente. Carl A. Rubino (inserire spazio tra ‘Rubino’ e ‘ha’) ha notato l’importanza e la necessità, in ogni processo di cambiamento, dell’entropia, cioè di quella quantità di disordine necessaria alla nascita di un nuovo stato di cose. Guglielmo, tuttavia, si lamenta del caos provocato dall’incendio: “C’è troppa confusione qui”, disse Guglielmo. “Non in commotione, non in commotione Dominus” (p. 496). Nel disordine Dio non può esistere. “Per Guglielmo, il disordine e il caos non hanno alcun significato, non producono senso. […] In effetti il disordine e il caos possono essere creativi: la natura li impiega per far esplodere i sistemi ordinati in decadenza e passare a nuove forme di vita. L’ecpirosi apocalittica che avviluppa il mondo decadente del monastero è in questo senso il big bang che ha dato vita al Rinascimento”43. Forse Guglielmo è veramente troppo affezionato a una forma di ordine e di verità. O forse, non sopporta l’idea che i mutamenti possano avvenire per caso o, ancor peggio, attraverso gli schemi sbagliati degli uomini: L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso. […] Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare”. (p. 495) Così Guglielmo, parafrasando la penultima proposizione del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein44. Dopo l’ecpirosi, Guglielmo e Adso abbandonano il monte sul quale si ergeva l’abbazia. Sono ancora per qualche tempo in Italia, dove Guglielmo osserva, con tristezza, la disfatta di ogni progetto in cui egli, e l’imperatore Ludovico, credono. Dopo di che si lasciano. È possibile inferire che Adso abbia trascorso il resto della vita tra le rassicuranti mura del monastero di Melk, “seguendo con scrupolo e umiltà la regola, […] senza porsi altre domande, mentre intorno a lui sempre più il mondo sprofondava in una tempesta di sangue e follia” (p. 189). Non azzarda conclusioni Adso, imprime solo “segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione” (p. 19): partito, questo, apparentemente il più lontano da intenti operativi; dalla cella scrive: “Ora so che è così […]: non si deve trasformare l’ordine delle cose anche se si deve fervidamente sperare nella sua trasformazione” (p. 230). Decide di ritirarsi dal contatto razionale col mondo, abbandonandosi alla indefinita e dolce via mistica: “Più divento vecchio e più mi abbandono alla volontà di Dio, e sempre meno apprezzo l’intelligenza che 147 GIACOMO VERRI vuole sapere e la volontà che vuole fare: e riconosco come unico elemento di salvezza la fede, che sa attendere paziente senza troppo interrogare” (p. 396). L’atteggiamento è passivo, di rilassamento e adagiamento nell’indistinzione della divinità: Non mi rimane che tacere. […] Tra poco mi ricongiungerò col mio principio. […] Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vede diversità, nell’intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine” (p. 503). Parole nate dal rimescolamento delle opere di alcuni mistici tedeschi. Costoro – spiega Eco –, dopo la distruzione della metafisica del bello operata dalla tarda Scolastica, non hanno saputo reagire, né sviluppare nuove proposte. La loro esperienza mistica è ineffabile e priva di contorni. Nel testo del Nome della rosa confluiscono, confondendosi l’una sull’altra, numerose auctoritates, che nel saggio echiano sono ancora distinguibili45: Suso parla di abisso senza fondo di tutte le cose deliziose; Eckhart di “abisso senza modo e senza forma della divinità silenziosa e deserta”; e ricorda che “l’anima attinge la suprema beatitudine […] gettandosi nella divinità deserta dove non c’è né opera né immagine […]” (Predigten 60 e 76). In quell’abisso, dice Tauler, “lo spirito perde se stesso e non sa più né di Dio né di se stesso, non conosce né l’uguale né il disuguale né checchessia: perché è sprofondato nell’unità di Dio e ha dimenticato tutte le differenze” (Predigten 28). Né opera né immagine, né distinzioni, né rapporti, né conoscenza: il Medioevo degli ultimi mistici non può dirci veramente nulla sulla bellezza”46. Come a dire che Adso s’affioca nel più brumoso effetto-nebbia prodotto dalla fabula del Nome della rosa. Eppure non sembra questa l’unica soluzione individuabile nella figura del novizio: due eventi importantissimi segnano l’esistenza dell’Adso maturo, e poi vegliardo. Il primo è il nuovo viaggio in Italia, che lo conduce a visitare le rovine dell’abbazia: “uno spettacolo di desolazione e di morte si presentò ai miei occhi inumiditi di pianto” (p. 501). Maturo, ma sempre acceso dall’emozione, Adso raccoglie lacerti di quella che era stata la più grande biblioteca della cristianità: “Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un 148 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO messaggio” (p. 502). A una vita consumata nell’abissarsi nel mare dell’indistinzione, si affianca un lavoro di recupero e di decifrazione dei frammenti raccolti. “Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse. […] Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri” (p. 502). Biblioteca, quella di Adso, postmoderna. Non solo alla biblioteca dell’abbazia, “disegno, forse folle e disumano, di una custodia generalizzata, universale del sapere, subentra una biblioteca frutto di un sedimento dell’esperienza, della rivelazione di una parabola individuale, che corregge i possibili dell’esistenza sul diagramma necessario della storia e, viceversa, tempera la forza schiacciante degli eventi collettivi con la possibilità dell’uomo di influenzare il proprio destino”47, ma la biblioteca minore di Adso è pure quella che genera la cronaca (o forse è la cronaca stessa), Il nome della rosa. I moncherini di libri accompagnano la sua vita passo a passo, ed egli li consulta, li legge e rilegge alla ricerca di un messaggio nascosto – nel testo risuona l’agostiniano tolle et lege –, vi esercita la preghiera della decifrazione, accorgendosi infine, che forse essi non contengono alcun messaggio; tuttavia – scrive l’ottuagenario – “ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia” (p. 502-03). Il nome della rosa è dunque la biblioteca di Adso, ed è una biblioteca minore, gemma d’ironia intertestuale. Eco è d’accordo nell’individuare, come caratteristica costante nella categoria tanto vasta del postmoderno artistico, la rivisitazione ironica del passato. E se pure Adso non ha ripercorso con volontaria ironia i corridoi della grande biblioteca bruciata, restituisce comunque una rilettura del passato, fatta di eventi ma, soprattutto, di testi: ironia intertestuale c’è, anche se solo per il lettore; e che sia Lettore Modello. Non solo: essa biblioteca è, sì, segno di quella maggiore, ma è più piccola, dai contorni, se si vuole, maggiormente definiti; rappresenta uno tra gli infiniti percorsi della babelica biblioteca di borgesiana memoria. Adso non sa trarne un disegno finito, e forse neppure è importante riuscire a farlo. Certo, “è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno” (p. 503). Ma un percorso viene comunque battuto, se non altro nella figura del racconto, con la speranza che esso celi un messaggio nascosto. Sebbene ancora molto lontano dalla freschezza e vivacità delle menzogne di Baudolino, Adso avvicina una delle conclusioni alla quale 149 GIACOMO VERRI giunge il figlio adottivo del Barbarossa: tentare, all’interno del rizomatico testo-mondo, diversi percorsi, senza illusoriamente credere nell’esistenza di una via privilegiata. Così Adso, a posteriori constatando che il maestro spesso pensava cose in contraddizione tra loro (p. 26), compie anch’egli azioni l’una antitetica all’altra; esibisce di sprofondare nell’abisso senza fondo della divinità ma, al contempo, cede alla tentazione del ricordo: “mi chiedo se quanto sto ora facendo [la stesura della cronaca] non sia colpevole acquiescenza alla passione terrestre della rimemorazione, stolido tentativo di sfuggire al flusso del tempo, e alla morte” (p. 284); ed ecco il secondo fondamentale evento che segna la vita di Adso, maturo monaco del monastero di Melk. Ritorna qui utile un testo che ha accompagnato e accompagna la vita di Eco: Sylvie di Gérard de Nerval. Il nome della rosa e Sylvie dialogano, sebbene le maglie della conversazione siano molto ampie. A parte il riecheggiare del nervaliano Dernier feuillet48 nell’Ultimo Folio di Adso, vi sono assonanze più sfumate, e forse più penetranti. Jerard 49 e Adso rimemorano; entrambi lo fanno con una malinconia che li porta a rispolverare il grande tema dell’“Ubi sunt?”. Adso, quando torna al pianoro ove s’ergeva l’abbazia, non trova che sparse rovine, malinconiche come i resti dell’antica Roma. Così i luoghi della fanciullezza di Jerard sono spettacolo di onirica dolcezza; esclama il protagonista: “nulla avete serbato di quel passato! […] Gli stagni, scavati con tanto dispendio, ostentano invano la loro acqua morta che il cigno ormai diserta. È passato il tempo in cui le cacce del Condé passavano con le loro amazzoni fiere, e i corni si rispondevano da lungi, moltiplicati dagli echi!”50. Tono melanconico che avvolge, seppur nel penetrale più intimo della bruma, un desiderio: quello di raccontare. L’ultimo intento, scritto, di Adso, è di disporsi ad aspettare la morte e di risolversi a tacere. Eppure, al di fuori del suo discorso, resta il fatto che noi possediamo e possiamo leggere la sua cronaca, estremo baluardo della volontà di non sprofondare nella “divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine” (p. 503). Applichiamo le parole, che Eco riserva a Jerard, al vecchio Adso: Dunque non è che Jerard (o con lui Nerval) smetta di narrare quando capisce che tutto è finito: al contrario, è proprio dopo che ha capito che tutto è finito che incomincia a narrare (e a narrare di un se stesso che non sapeva né poteva sapere che tutto era ormai finito). Chi fa così è qualcuno che non è riuscito a regolare i conti col proprio passato? Al contrario, è qualcuno che avverte che si può incominciare a rivisitare il passato solo quando il presente è ormai azzerato, e solo il ricordo (anche se senza troppo ordine, ma forse proprio per quello) ci restituisce qualcosa per cui – se non vale la pena di vivere – vale almeno la pena di morire”51. 150 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO Jerard, quando scrive, è ormai privo d’ogni illusione perché, su sua ammissione, “le illusioni cadono l’una dopo l’altra, come scorze d’un frutto, e il frutto è l’esperienza”52. L’ultimo colpo ai sogni viene sferrato dalla stessa Sylvie che, con naturalezza, ricorda, proprio alla riga conclusiva, l’anno di morte di Adrienne. 1832, l’unica data in tutto il racconto, lo chiude, svegliando di soprassalto Jerard da un sogno nel quale s’era immerso per anni; tutte le scorze del frutto sono ormai cadute. Così una brusca troncatura alle vaghe illusioni di Adso è rappresentata dall’ecpirosi dell’abbazia. Il passato li ha entrambi, in qualche modo, delusi, eppure sentono il bisogno della rievocazione e della scrittura. Perché? “C’è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa. […] Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno” 53. Ritorna, e questa volta nel religiosissimo Adso, l’impulso, già notato in Guglielmo, di un laico amore per gli altri – intendendo il termine ‘laico’ non in contrapposizione a ‘religioso’, ma nel senso di qualcosa che è presente universalmente nell’uomo, come principio naturale. Dunque ritorniamo ancora una volta al dialogo epistolare citato sopra. Quando Eco definisce i lineamenti della propria etica laica o naturale, racconta due aneddoti. Uno, quello che a noi interessa, riguarda un ricordo di Eco sedicenne: mi accadde di impegnarmi in un duello verbale con un conoscente più anziano noto come “comunista”, nel senso che aveva questo termine nei terribili anni Cinquanta. E siccome mi stuzzicava, gli avevo posto la domanda decisiva: come poteva, lui non credente, dare un senso a quella cosa altrimenti insensata che sarebbe stata la propria morte? E lui mi ha risposto: “Chiedendo prima di morire il funerale civile. Così io non ci sono più, ma ho lasciato agli altri un esempio”. Credo che anche Lei possa ammirare la fede profonda nella continuità della vita, il senso assoluto del dovere, che animava quella risposta. Ed è il senso che ha spinto molti non credenti a morire sotto tortura pur di non tradire gli amici, altri a farsi appestare per guarire gli appestati. È anche talora l’unica cosa che spinge un filosofo a filosofare, uno scrittore a scrivere: lasciare un messaggio nella bottiglia, perché in qualche modo quello in cui si credeva, o che ci pareva bello, possa essere creduto o appaia bello a coloro che verranno”54. È l’etica che si definisce nei confronti degli altri, e negli altri trova il proprio fine. Non importa se la vita si è nutrita di grandi illusioni cadute: proviamo ugualmente a raccontarla. Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare: così Eco ricalca l’affermazione wittgensteiniana secondo la quale, “di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Adso non è in grado di chiudere questioni, di risolvere problemi; e neppure Guglielmo. Ma la vera 151 GIACOMO VERRI soluzione è la narrazione, che sta oltre la teoria e permette non di conciliare, ma di far convivere pensieri tra loro in contraddizione. E poi, il raccontare è la speranza di sconfiggere ogni Apocalisse. Adso oppone una risposta forse più energica, rispetto a quella di Guglielmo, alle catastrofiche visioni di Jorge55. Sebbene “intorno a lui sempre più il mondo sprofondi in una tempesta di sangue e follia” (p. 189), Adso narra, nutrendo “la disperata speranza che, nella catastrofe delle galassie, qualche stella possa sopravvivere, e domani qualcuno possa decifrare i suoi segni. Allora scrivere, anche alla vigilia dell’Apocalisse, avrebbe ancora un senso” 56: Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (p. 503). Un vero e proprio messaggio nella bottiglia, anche se di contenuto indefinito e contraddittorio. Di ciò che è stato possediamo nudi nomi: frase ambivalente, che segna il rammarico per la scomparsa di ciò che fu, ma al contempo suona come inno alle potenzialità del linguaggio. Scrive Eco nelle Postille: “Ricordo che Abelardo usava l’esempio dell’enunciato nulla rosa est per mostrare come il linguaggio potesse parlare sia delle cose scomparse che di quelle inesistenti. Dopodiché lascio che il lettore tragga le sue conseguenze”57. Solo con il linguaggio, parlando delle cose scomparse, Adso può lasciare il proprio messaggio ai posteri; il linguaggio, però, parla anche delle cose inesistenti: l’ordine errato immaginato da Guglielmo, la rete nella quale imbriglia i proprio pensieri, la scala da gettare; si percepisce l’ombra lontana di Baudolino che, con i falsi racconti parla di cose inesistenti, fa progredire la storia, dona speranze agli altri. Ma c’è ancora una cosa. La fanciulla incontrata da Adso resterà per sempre senza nome. Intima esperienza di Adso novizio, innominabile, e per questo, forse, allegoria della verità. Fulmineo contatto con ciò che i personaggi del Pendolo di Foucault chiamerebbero Polo mistico, la fanciulla è sede dell’Occasione, dell’epifania inafferrabile nella quale è chiusa la regola per raggiungere la verità. I nudi nomi servono a narrare di tutto, anche di cose inesistenti; e per l’uomo ciò è di vitale importanza, come dimostrerà Baudolino, o di esiziale catastrofe, come apprenderemo da Simone Simonini. Non possono però restituire la briciola di verità solo concessa dall’epifania 58. __________ NOTE 1 U. Eco, Lector in fabula, Milano: Bompiani, 1979, p. 51. Eco scevera l’uso libero dall’interpretazione di un testo, due modalità d’azione che, nel Nome della rosa, si incarnano nell’inquisitore Bernardo Gui e in Guglielmo. Ovvero: da una parte chi adopera segni strumentalizzandoli per confortare ciò di cui già è convinto; dall’altra chi 2 152 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO interpreta, ponendosi al principio di un processo conoscitivo la cui conclusione è ancora ignota. 3 U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano: Bompiani, 1975, p. 185. 4 Ibidem. Il numero tra parentesi indica il luogo peirceiano utilizzato da Eco. Tre sono le modalità ragionative stilate da Peirce: deduzione, induzione e abduzione. “La Deduzione da una Legge (vera), attraverso un Caso, predice con assoluta certezza un Risultato”; l’Induzione “da una serie di Risultati, inferendo che siano Casi di una stessa Legge, arriva alla formulazione induttiva di questa Legge (probabile)”; l’Abduzione ha invece a che fare con un Risultato curioso e inspiegabile, quindi occorre “trovare una Legge tale che, se fosse vera, e se il Risultato fosse considerato un Caso di quella legge, il Risultato non sarebbe più curioso, bensì ragionevolissimo”, per le citazioni cfr. U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano: Bompiani, 1985, pp. 166-67. 5 Ivi, p. 168. 6 Ivi, pp. 111-12. 7 Ivi, p. 118. 8 Per questa e la precedente citazione cfr. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano: Bompiani, 1990, p. 252. 9 Il distacco emotivo di Guglielmo è reso esplicito da Eco: “La lotta contro l’emozione è stata durissima. Avevo scritto una bella preghiera, modellata sull’elogio della Natura di Alano di Lilla, da mettere in bocca a Guglielmo in un momento di emozione. Poi ho capito che ci saremmo emozionati entrambi, io come autore e lui come personaggio. Io come autore non dovevo, per ragioni di poetica. Lui come personaggio non poteva, perché era fatto di altra pasta, e le sue emozioni erano tutte mentali, oppure represse. Così ho eliminato quella pagina. Dopo aver letto il libro un’amica mi ha detto: “L’unica mia obiezione è che Guglielmo non ha mai un moto di pietà”. L’ho riferito a un altro amico che mi ha risposto: “È giusto, quello è lo stile della sua pietas”. Forse era così. E così sia”, in U. Eco, Postille a Il nome della rosa, Milano: Bompiani, 1984, p. 24 (cito dalla plaquette pubblicata separatamente dal testo del romanzo; in seguito, Bompiani la editerà come appendice al romanzo stesso). 10 Cfr. Giuseppe Zecchini nel suo Medioevo di Umberto Eco, ora in Giovannoli, Saggi su Il nome della rosa, Milano: Bompiani, 1985, pp. 32269: “Le citazioni di Jorge sono autentiche, come quelle di Guglielmo del resto, e ricostruiscono fedelmente un atteggiamento critico verso il riso riconducibile ad ambienti monastici e ascetici, e riscontrabile in testi, documenti, Regole”. Vedi anche Jacques Le Goff, Ridere nel Medioevo, in I riti, il tempo, il riso. Cinque saggi di storia medievale, Roma-Bari: Laterza, 2001, dove si sottolinea l’indissolubile sodalizio tra riso e corporalità: “Il nome della rosa ha avuto un certo ruolo nell’orientare la mia ricerca, perché ho visto che anche il mio amico Umberto Eco accordava al riso una certa importanza nella società e nella cultura medievale”. 153 GIACOMO VERRI 11 Cfr. anche U. Eco, Sulla letteratura, Milano: Bompiani, 2002, pp. 142-43: “Ora accade che, ogni volta che l’occhio cade su un libro non ancora letto, si venga colti da rimorso. Salvo che arriva poi un giorno che, per sapere qualcosa su un certo argomento, ci si decide finalmente ad aprire uno dei tanti libri mai letti, si comincia a leggerlo e ci si accorge che lo si conosceva già. Cos’è successo? C’è la spiegazione mistico biologica, che con l’andar del tempo spostando i libri, spolverandoli e rimettendoli a posto, attraverso i polpastrelli l’essenza del libro sia penetrata a poco a poco nella nostra mente. C’è la spiegazione dello scanning casuale e continuato: con l’andar del tempo, prendendo e riordinando i vari volumi, non è che quel libro non sia mai stato sbirciato; anche soltanto nello spostarlo, si guardavano alcune pagine, una oggi, una il mese dopo, e via via si è finito per leggerlo in gran parte, sia pure in modo non lineare. Ma la vera spiegazione è che, tra il momento in cui quel libro ci era arrivato e il momento in cui lo si è aperto, si sono letti altri libri, nei quali c’era qualcosa che diceva quel primo libro, e quindi, alla fine di questo lungo giro intertestuale, si scopre che anche quel libro che non avevamo letto faceva parte del nostro patrimonio mentale e forse ci aveva profondamente influenzato”. Identiche considerazioni sono contenute nella ‘Bustina di Minerva’ “Leggere i libri coi polpastrelli”, ora in Eco, La bustina di Minerva, Milano: Bompiani, 2000, p. 157. 12 Termine chiave adoperato da Proust e ampiamente riutilizzato da Eco per definire l’atmosfera da sogno (nelle parole di Proust “bluastra e purpurea”) del breve racconto di Gérard de Nerval, Sylvie. 13 Il primo timore di Adso, entrato in biblioteca, è di trovarsi di fronte a un altro specchio “perché tale è la magìa degli specchi, che anche se sai che sono specchi essi non cessano di inquietarti” (p. 243): approccio squisitamente irrazionalistico verso questo oggetto, da confrontare con l’eruditissimo contatto che invece ne ha Guglielmo (p. 176). Non è un caso che quello che rappresenta il passaggio segreto del finis Africae sia uno specchio deformante: da una parte, tale è la sua natura perché, secondo Jorge, ciò che custodisce è un sapere “deforme”; dall’altra, la deformazione è segno di uno sforzo interpretativo – quello che Guglielmo deve compiere per capire come oltrepassarlo. Un semplice specchio, secondo quanto afferma Eco in Sugli specchi, cit., pp. 9-37, non avrebbe richiesto alcuno sforzo interpretativo; l’immagine speculare non è infatti interpretabile, in quanto non assume valore di segno; segno è semmai l’immagine alla quale rinvia. 14 Secondo Kenneth Atchity “una combinazione folle di Fellini, Fuentes, Borges e Bosch”, Sulle rive dell’allegoria, in Giovannoli, cit., p. 125. 15 Cfr. W. E. Stephens, “Un’eco in fabula”, in Giovannoli, cit., p. 146. 16 B. Pischedda, Come leggere Il nome della rosa, Milano: Mursia, 1994, p. 56. 17 Penso qui alla categoria di ‘pensiero debole’ propria del postmoderno filosofico, nel quale “la razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico 154 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO e stabile, cartesiano”. Cfr. G. Vattimo, P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Milano: Feltrinelli, 1983. Cfr. ancora Eco, La bustina di Minerva, cit., pp. 277-78. 18 U. Eco, Postille a Il nome della rosa, cit., pp. 32-33. 19 U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, BariRoma: Laterza, 1993, p. 223. 20 B. Pischedda, cit., p. 61. 21 Ibidem. 22 Alcuni critici hanno scorto qui un legame con quanto Eco scrive sul film Casablanca: “Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza, si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravvedere un sospetto di sublime. Qualcosa ha parlato al posto del regista. Il fenomeno è degno se non altro di venerazione”, in U. Eco, Dalla periferia dell’impero, Milano: Bompiani, 1977, pp. 142-43. Non solo il mormorio dell’intertestualità è sublime, ma è chiara allegoria della postmoderna perdita d’innocenza; cfr. Postille a Il nome della rosa, cit., p. 39. In questa direzione si sono mossi T. De Lauretis, Umberto Eco, Firenze: La Nuova Italia, 1981, pp. 85-86 e B. Kroeber, Il misterioso dialogo di due libri: Eco e Calvino, in Giovannoli, cit., pp. 73-74. 23 Si noti il riecheggiare delle parole di Guglielmo e conseguentemente dei versi di Alano di Lilla. 24 Riferendo della conversazione avuta con Salvatore sul suo passato e sulle sette ereticali che passano l’Italia in quel secolo, Adso scrive: “tutto sembrava uguale a tutto” (p. 194). 25 La nebbia, questa volta come elemento naturale, accompagna e, nella sua indefinitezza, definisce azioni e pensieri dei personaggi. S’è detto, domina nel Quinto giorno, quasi come un basso continuo inquietante e negativo delle azioni di Bernardo Gui; nella stessa giornata, ad Adso “le condizioni dell’aria […] parvero dolorosamente affini alle condizioni della [sua] anima” (p. 339); tuttavia apprendiamo che, con quell’elemento atmosferico, Adso era abituato a convivere, e a esso son legati dolci ricordi: “Nato nei paesi nordici non ero nuovo a quell’elemento, che in altri momenti mi avrebbe ricordato con qualche dolcezza la pianura e il castello della mia nascita” (p. 339). 26 U. Eco, Il pendolo di Foucault, Milano: Bompiani, 1988, p. 415. 27 U. Eco, Sette anni di desiderio, Milano: Bompiani, 1983, pp. 257-58. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 259. 30 Cfr. Franco Cardini, Clericus in labyrintho; Mireille Calle-Gruber, I sortilegi della biblioteca, ovvero il racconto dilatorio; Walter E. Stephens, 155 GIACOMO VERRI cit., ora in Giovannoli, cit., rispettivamente alle pp. 21-32, pp. 107-12 e pp. 127-52. 31 U. Eco, Diario minimo, Milano: Mondadori, 1963, p. 160. 32 Ivi, p. 165. 33 Ivi, p. 166. 34 L. Boff, “La doppia impasse della conservazione e della creazione”, in Giovannoli, cit., p. 434. 35 U. Eco, Diario minimo, cit., pp. 167-69. 36 N. Rossi, “Un libro proibito”, in Giovannoli, cit., p. 263. 37 Cfr. C. M. Martini, U. Eco, In cosa crede chi non crede?, Roma: Liberal, 1996. Parte del dialogo epistolare, e proprio la risposta al cardinale in cui Eco definisce le caratteristiche della propria etica, è stata poi ripubblicata in Eco, Cinque scritti morali, Milano: Bompiani, 1997, pp. 81-91. 38 Martini, Eco, In cosa crede chi non crede?, cit., p. 61. 39 Ivi, p. 80. 40 Ivi, p. 70. 41 Ivi, pp. 73-75. 42 Ivi, pp. 79-80. 43 C. A. Rubino, Il verme invisibile: antichi e moderni nel Nome della rosa, in Giovannoli, cit., p. 380. 44 La frase è preceduta da una importante affermazione di Adso: “Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa […]” (p. 495). La storia umana è mossa da falsi racconti, spiega Eco nel saggio sulla “Forza del falso”, in Sulla letteratura, cit., pp. 292-323, definendo un modo di intendere il procedere storico che sarà fatto proprio da Baudolino. Ma se Baudolino accetta serenamente la struttura rizomatica del mondo, e aiuta l’uomo a progredire intellettualmente, e anche moralmente, attraverso molti falsi racconti, Guglielmo non tollera l’inesistenza di un ordine; tuttavia immaginando un falso schema, ottiene qualcosa; così può essere rivisitata l’affermazione di Rubino che scorge, nell’incendio dell’abbazia, il big bang del Rinascimento: l’ecpirosi è quel caos necessario alla nascita del disincantato Baudolino, la cui malizia condotta al parossismo crea il bieco personaggio di Simone Simonini, protagonista dell’ultimo romanzo di Eco, Il cimitero di Praga, Milano: Bompiani, 2010. 45 Come ha però notato Carlo Ossola, tutte le auctoritates qui presenti si trovano raccolte in Huizinga, L’autunno del Medio Evo, trad. it., Firenze: Sansoni, 1966. Cfr. C. Ossola, “Conclusione: ‘Purpurwort’”, in Figurato e rimosso, Bologna: il Mulino, 1988. 46 U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Milano: Bompiani, 1987, p. 132. 47 Renato Nisticò, “La biblioteca postmoderna: Borges ed Eco”, in La biblioteca, Roma-Bari: Laterza, 1999, p. 83. 48 Da Eco reso con Ultimo foglio. Cfr. la traduzione del testo nervaliano approntata dall’autore nel 1999 per i tipi di Einaudi. 156 GUGLIELMO DA BASKERVILLE VS ADSO DA MELK: ISTANZE DELLA RAGIONE E DEL CUORE NEL NOME DELLA ROSA DI UMBERTO ECO 49 Jerard è il nome con cui Eco si riferisce all’Io narrante in Sylvie; tuttavia, nel testo, il nome del protagonista non è mai esplicitato. 50 Nerval, Sylvie, tr. di U. Eco, Torino: Einaudi, 1999, pp. 85 e 87. 51 Ivi, nella postfazione di Eco, “Rilettura di Sylvie”, p. 139. 52 Ivi, p. 85. 53 U. Eco, Sulla letteratura, cit., p. 358. 54 Martini, Eco, In cosa crede chi non crede?, cit., pp. 75-76. 55 Donde è possibile trarre la semplicistica conclusione che il vero eroe della vicenda sia Adso – “il mio sogno era di intitolare il libro Adso da Melk”, scrive Eco nelle Postille a Il nome della rosa –, scostando di lato la figura di Guglielmo che potenzialmente aspira a dominare la scena. In realtà, questa analisi del romanzo ha, tra gli altri scopi, quello di calmierare le posizioni dei due protagonisti; là dove si è sempre scorta in Adso una figura di supporto, un gregario di Guglielmo, semplice cronista, credo, invece, si nasconda un personaggio di più consistente spessore. Si vuole dimostrare, in altre parole, che Adso non ha la stessa, limitata, funzione di Watson nei confronti di Holmes, ma trae personali e autonome conclusioni, indipendenti dagli insegnamenti di Guglielmo. 56 U. Eco, Sulla letteratura, cit., p. 359. 57 U. Eco, Postille a Il nome della rosa, cit., p. 7. 58 Epifania in senso joyceiano. 157