Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani

Transcript

Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
SAGGI E RICERCHE
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
NINO ARRIGO
Università degli Studi di Messina
I
l tema del sacrificio sembrerebbe in grado di mostrarci – grazie alla sua
massiccia presenza nelle due grandi tradizioni letterarie dell’occidente,
quella biblica e quella greca (da Caino a Cristo, passando per Isacco,
Edipo e Dioniso) – la paradossale compresenza di variazione e permanenza
che costituisce l’essenza degli archetipi. Possiamo infatti considerare, le
variazioni letterarie moderne e contemporanee di tale tema, nient’altro che
“riscritture”1 o, per dirla con Genette, “ipotesti”, posti in relazione di
iponimia nei riguardi di un “ipertesto”2. E un prezioso “ipertesto” è costituito,
senza dubbio, da quella Bibbia, la cui scarsa conoscenza della sua tradizione
ci condanna – come osserva Ceserani – “a percorrere le sale dei maggiori
musei del mondo senza riconoscere i soggetti di una buona metà delle tele in
esposizione, e ci condanna a leggere non solo i grandi testi delle letterature
europee, da Shakespeare a Tolstoj a Joyce, ma anche quelli della letteratura
italiana, da Dante al Tasso, ignorando uno degli strati più densi e potenti
delle immagini e del linguaggio, oscurando una delle tradizioni e delle
modalità letterarie più forti e compatte che li compongono” 3.
Ora, se in ambito “globale” (Terra) – a partire da lavori ormai classici come
quelli di Auerbach, che con Mimesis ha inaugurato un modello storiografico
che si proponeva “di mettere in parallelo, cercare i momenti di interferenza
fra tradizione classica e tradizione biblica”4, e proseguendo, in ambito
angloamericano, con i fondamentali studi di Frye e Bloom (solo per citarne
alcuni)5 – questa carenza sembra ormai essere superata; in ambito “locale”
(Patria), nella “parrocchia” italiana delle lettere, la pessima conoscenza della
tradizione delle Sacre Scritture (per “ragioni connesse alla storia della
chiesa”6 – come fa notare Ceserani – che ne avrebbe bloccato la diffusione
nelle scuole; ma, forse, anche per mancanza di sensibilità, da parte di tanta
critica, nei riguardi del fenomeno) sembra ancora costituire un ostacolo
insormontabile per una più profonda educazione letteraria 7.
Ed è proprio la Bibbia – grazie alle “eccentricità” di quell’“Omero ebraico”
(per dirla con Bloom)8 che è il cosiddetto autore Jahvista (o, più
semplicemente, J) – a rivelarci alcune delle più compiute espressioni
316
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
letterarie del tema del sacrificio.
Ecco appunto come “J”, attraverso la storia di Caino e Abele, ci offre la sua
versione del “crimine primordiale”:
Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un
certo tempo Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche
Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il signore gradì
Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu
molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino:
“Perchè sei irritato e perchè è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non
dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato
alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo”. Caino disse al
fratello Abele: “Andiamo in campagna!”. Mentre erano in campagna,
Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il signore
disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so.
Sono forse il guardiano di mio fratello?” Riprese: “Che hai fatto? La voce
del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da
quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo
fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti:
ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al Signore: “Troppo
grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da
questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e
fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”. Ma il
Signore gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette
volte!” Il signore impose a Caino un segno, perchè non lo colpisse
chiunque l’avesse incontrato9.
L’autore “J” sembra quasi avere una perfetta consapevolezza dei rapporti
che sussistono tra il sacrificio e la violenza. E, ancora, tra la violenza e
l’origine della conoscenza umana. A partire dalla cosiddetta “teoria
mimetica” (inaugurata da René Girard), sembrerebbe infatti possibile una
teoria unitaria della conoscenza, proprio su basi “vittimarie”, a partire da
quell’enigma costituito dalla vittima innocente 10. E sarebbe per l’appunto
questo double bind di violenza e sacro a un tempo, di natura e cultura, a
costituire – secondo Freud – il “punto di partenza a un tempo
dell’organizzazione sociale, della religione e delle restrizioni etiche” 11.
Un “doppio vincolo”, profondamente segnato dall’“ambivalenza” e da
quella logica circolare dove è “criminale uccidere la vittima perché essa è
sacra [...] ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse” 12.
Non sfugge, infatti, a “J” quel meccanismo di “sostituzione” che
permetterebbe alla prima, “mitica”, società (qui composta soltanto da Adamo,
Eva, Caino e Abele, ossia genitori e figli) di deviare in direzione di “una
vittima sacrificabile, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi
317
NINO ARRIGO
membri”13. Soltanto la violenza può ingannare la violenza. È qui che risiede,
secondo Girard, uno dei significati della storia di Caino e Abele:
Caino coltiva la terra ed offre a Dio i frutti del suo raccolto. Abele è un
pastore; sacrifica i primi nati dei suoi greggi. Uno dei due fratelli uccide
l’altro ed è colui che non dispone di quell’‘inganna-violenza’ costituito dal
sacrificio animale. Tale differenza tra il culto sacrificale e il culto non
sacrificale fa in verità tutt’uno con il giudizio di Dio in favore di Abele [...].
Nell’Antico Testamento e nei miti greci, i fratelli sono quasi sempre dei
fratelli nemici. La violenza che sembrano fatalmente chiamati ad esercitare
l’uno contro l’altro non può dissiparsi che su terze vittime, che sono vittime
sacrificali [...]. Secondo una tradizione musulmana, è il montone sacrificato
da Abele che Dio invia ad Abramo perchè lo sacrifichi al posto del figlio
Isacco14.
Pertanto nel racconto veterotestamentario, sarebbero già contenuti i
prodromi di quel riconoscimento dell’innocenza della vittima, che avverrà,
nella sua forma compiuta, soltanto col cristianesimo. Il Dio di Caino e Isacco
si accontenta dell’“akedah”, dell’“offerta”, piuttosto che del sacrificio
compiuto, della minaccia piuttosto che della castrazione. Il rituale
corrispondente all’“akedah” è infatti – come nota acutamente Harold Fisch –
“la circoncisione cioè la quasi perdita, non la castrazione” 15. Non è difficile
scorgere, infatti, anche dietro i miti biblici (allo stesso modo di quelli greci) il
paradigma frazeriano della fertilità, la storia del dio morente e redivivo. È il
meccanismo ciclico della successione violenta a fare del dio morente il
“capro espiatorio” “che porta via con sé la sterilità che altrimenti potrebbe
danneggiare il raccolto”16.
Ma il Dio dell’autore “J” non si limita a sostituire il sacrificio con l’offerta,
è suo compito proteggere Caino da quel “processo infinito, interminabile” 17
che è la vendetta. E lo fa imponendogli un marchio, un segno che lo
protegge18, evitando che si inneschi la spirale della violenza da cui potrebbe
scaturire la “crisi sacrificale”. Non è difficile scorgere in questo
atteggiamento – sempre con Girard – i prodromi del moderno sistema
giudiziario, che non elimina la vendetta, bensì ne “allontana la minaccia” 19,
limitandola ad una “rappresaglia unica il cui esercizio è affidato a un’autorità
suprema e specializzata nel suo campo” 20. In tal senso potrebbe dirsi che
anche “il religioso mira sempre a placare la violenza [...] per il tramite
paradossale della violenza” 21.
Caino dunque viene graziato, scampa al sacrificio, ma il suo destino sarà
quello del fuggiasco, dell’errante, del “fuorilegge” 22. Sarà la sua fuga ad
inaugurare l’erranza dell’umanità dalla dimensione della “natura” a quella
della “cultura”; un vero e proprio “esilio ontologico”, in cui il nascondimento
di Dio (l’Essere) nell’esistenza e la sua continua ricerca, saranno l’emblema
stesso dell’erranza del popolo di Israele, l’emblema della condizione umana.
Caino fu infatti “il primo che pose pietre divisorie intorno ai campi, che
costruì città cintate di mura e costrinse la gente a stabilirvisi” 23, ed è sua
“l’invenzione dei pesi e delle misure [che] mise termine alla semplicità degli
318
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
uomini”24. Egli sarà, insomma, l’emblema del pensiero logocentrico e
metafisico, della sua violenza.
Ma, a ben vedere, il gesto di Dio nei riguardi di Caino è del tutto
“ambivalente”. Se, da un canto, lascerebbe infatti intravedere il superamento
della logica sacrificale, andrebbe insomma nella direzione del cristianesimo;
dall’altro, si potrebbe obiettare che il “violento” Caino è protetto solamente
allo scopo, pragmatico, di scongiurare la spirale della “vendetta”, evitando la
“crisi sacrificale”, e quindi non facendo altro che tutelare il sacrificio come
fondamento della società. E ci sembra la stessa “ambivalenza” insita nel
pensiero di Girard, quella che offrirebbe il destro a Vattimo per
un’interpretazione in chiave laica del suo pensiero e che vedrebbe nel
cristianesimo l’alba della “desacralizzazione del sacro”; aprendogli persino
delle prospettive e degli sviluppi (come nell’auspicio di Vattimo) “fuori dalla
religione”.
Ma ecco, a questo punto, il racconto, la “riscrittura”, che del “crimine
primordiale” ci offre il “padre” della psicanalisi. Il ragionamento di Freud
muove dall’ipotesi darwiniana che gli uomini delle origini vivessero in orde:
Il padre dell’orda primordiale, da despota incontrastato qual era, si era
riservato il possesso esclusivo di tutte le donne, uccidendo e cacciando i
propri figli che riteneva pericolosi rivali. Un giorno però i figli, riunitisi
insieme presero il sopravvento e dopo aver ucciso il padre, che era al tempo
stesso il loro nemico e ideale, ne divorarono insieme le spoglie mortali. Dopo
questa azione criminosa nessuno di loro poté assumersi l’eredità paterna,
poiché ciascuno lo impediva all’altro [...] in un clan fraterno retto dalle
prescrizioni del totemismo che garantivano che una simile impresa non si
sarebbe ripetuta mai più, e rinunciarono di comune accordo al possesso delle
donne, a causa delle quali avevano ucciso il padre. Essi potevano ora unirsi
soltanto alle donne estranee ai clan. È questa l’origine dell’esogamia e del
suo intimo nesso col totemismo. Il banchetto totemico rappresentava la
solenne commemorazione dell’impresa mostruosa dalla quale era derivato
l’umano senso di colpa (o peccato originale), punto di partenza a un tempo
dell’organizzazione sociale, della religione e delle restrizioni etiche 25.
È questo il testamento freudiano che risale all’epoca di Totem e tabù
(1913), cui spetta senza dubbio il merito – come giustamente mette in
evidenza Girard – di una “formidabile scoperta”, quella con cui viene
affermato, per la prima volta, “che ogni pratica rituale, ogni significato mitico
ha la sua origine in un’uccisione reale”26.
Ma sfuggirà a Freud, nel tentativo ostinato di risolvere l’enigma del primo
crimine della storia, il vero meccanismo, la “funzione” della “vittima
espiatoria”. L’uccisione del padre non sarà in grado di svelare, infatti, quel
meccanismo di “sostituzione” che devia la violenza della comunità verso una
“vittima innocente”, per placare la violenza stessa. “Per conciliare la funzione
319
NINO ARRIGO
con la genesi, per svelarle completamente l’una per mezzo dell’altra, occorre
impadronirsi della chiave universale che Freud elude sempre: solo la vittima
espiatoria può esplorare tutte le esigenze a un tempo” 27.
L’influenza di Frazer sull’analisi freudiana, sembra evidente:
Innanzitutto perchè il padre sta al figlio come il dio morente sta al dio che
risuscita. In secondo luogo, perchè si mostra la comunità che attinge
all’energia del patriarca per mezzo della magia. Tuttavia, il contributo
radicale di Freud sta nell’avere introdotto il fattore psicologico.
L’uccisione del padre primordiale suscita un rimorso talmente forte che il
gruppo fa del patriarca il proprio totem [...] il pasto totemico, l’atto di
cibarsi dell’animale in forma rituale come se fosse il padre, è diventato il
fulcro del clan totemico, che succede all’orda primitiva. Con il totem
arriva il tabù: la proibizione, per ovvie ragioni, tanto del parricidio che
dell’incesto. La logica del rimorso porta alla trasformazione del venerato
totem-padre in un dio, mentre il pasto totemico diventa un rito vero e
proprio. La cultura umana è cominciata, e con essa, simultaneamente, è
cominciata la colpa, la repressione e la religione28.
Siamo, qui, di fronte al Freud erede dell’illuminismo e del positivismo, del
“giudaismo normativo”, piuttosto che della “gnosi ebraica” 29, quello che
all’immagine dell’esule errante, della vittima innocente, preferisce quella del
padre despota. Quello che alla “passione divorante per l’interpretazione” 30
preferisce la sterile tenacia e l’ostinazione del dogma. Quello, ancora, che
riduce l’energia desiderante dell’inconscio alle “nefandezze” di Edipo.
Sarà questo Freud ad offrire il destro alla “provocazione” di Deleuze e
Guattari, nata appunto “per far saltare Edipo, e destituirlo dalla sciocca
pretesa di rappresentare l’inconscio, di triangolarlo, di captare tutta la
produzione desiderante”31, per porre fine alla sua “straordinaria repressione
delle macchine desideranti” 32.
Il tema del sacrificio – con tutto il suo carico di ambivalenza, dove natura e
cultura, violenza e sacro, “amore e morte”, sembrano convivere insieme – è,
senza dubbio, uno degli indiscussi protagonisti del romanzo americano. Il
quale appare a tal punto segnato, nei suoi risvolti intertestuali,
dall’immaginario biblico (la Bibbia potrebbe quasi costituire una sorta di
“propedeutica” alla narrativa americana, una delle “letture consigliate” al
bravo studioso che vi si voglia accostare, curioso di carpirne i misteri), che
risulterebbe davvero imbarazzante isolare una letteratura ebraico-americana
(filone, peraltro, molto fertile e di indiscussa importanza, soprattutto nel
Novecento) da una letteratura americana tout court.
Ed è proprio Caino ad adombrare – insieme ad una fitta serie di ribelli e
“reietti leggendari”33: Prometeo, “Giuda e l’Ebreo Errante, Faust e Lucifero
stesso”34. travestiti da fanciulli fuggiaschi – il prototipo del protagonista della
narrativa d’America. Ecco come Leslie Fiedler – “il ‘critico-contro’ delle
320
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
lettere americane” 35 getta luce sulle peculiarità del romanzo americano, in un
indimenticabile “ritratto” che è ormai un classico della critica:
Sotto un certo aspetto la nostra narrativa si distingue a prima vista da
quella europea, sebbene questo sia un fatto che gli americani (i quali si
trovano stranamente a disagio e sulla difensiva al riguardo) sono restii a
confessare. In questo senso, i nostri romanzi appaiono non primitivi,
forse, ma ingenui, innocenti in una maniera sconcertante, quasi infantili.
È notorio che i capolavori della narrativa americana trovano generalmente
posto nel reparto per bambini della biblioteca, e che il loro livello di
sentimenti è proprio quello di un ragazzo non ancora adolescente [...]. Un
Baudelaire, un Marchese de Sade [...] sono inconcepibili negli Stati Uniti.
I nostri “fiori del male” vengono colti per il mazzolino della bambina, i
nostri romanzi macabri (Moby Dick, The Scarlet Letter, Huckleberry
Finn, Il diavolo nel campanile) sono inclusi negli elenchi dei libri
approvati dai vari comitati di genitori che fanno tante storie sugli ultimi
giornalini a fumetti. Se questi censori non provano ripugnanza di fronte
alla necrofilia, né rabbrividiscono leggendo il libro il cui motto segreto è
“Io ti battezzo non nel nome del Padre, ma nel nome del Diavolo” [...],
questa è solo un’altra delle ironie della vita, in un paese dove gli scrittori
credono all’inferno, e i custodi ufficiali della moralità non ci credono.
Finché non si tratta di sesso!36
Di questo carico di ambivalenza, connesso al tema del sacrificio, è
testimone, al culmine del cosiddetto “Rinascimento americano” 37, quel Moby
Dick di Herman Melville che38, per via della sua forma ibrida (contiene
infatti, al suo interno, parti teatrali e persino capitoli di divulgazione
scientifica) ed “enciclopedica”, merita senza dubbio di entrare nel novero
delle “opere mondo”39.
La consapevolezza “vittimaria” melvilliana si rivela fin dagli esordi della
narrazione. Sarà, infatti, lo stesso narratore – l’orfano, il “viandantefuggiasco” Ismaele – a confidare al lettore, con “la schiettezza del coro”40,
che la chiave del “dramma”, “la chiave di tutto”, risiede nel mito di Narciso:
Perché gli antichi Persiani temevano il mare per sacro? Perché i Greci gli
fissarono un dio a parte, e fratello di Giove? Certamente tutto ciò non è
senza significato. E ancora più profondo di significato è quel racconto di
Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che
vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine la
vediamo in tutti i fiumi e gli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile
fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto 41.
Il viaggio di Ismaele si configura come un viaggio in mare, la zona della
321
NINO ARRIGO
colpa, del rimosso e del complesso di Edipo. “Un viaggio nel passato che
turba dunque, ma non per rimanerci” 42, alla “catabasi”, infatti, seguirà
l’“anastasi”43. Sarà l’ambiguità dell’elemento acquatico 44, la sua ambivalenza
fatta di vita e di morte a un tempo – gli abissi marini vedranno salvare
Ismaele e perire l’empio capitano Ahab – a riflettere su Ismaele il mistero
della vita, “la chiave di tutto”, l’ambigua verità – fatta di innocenza e di colpa
a un tempo – della vittima; che è l’ambigua verità della violenza racchiusa in
ogni uomo.
Il tema del sacrificio percorre l’intero sviluppo del testo, dalle
“macrostrutture” del suo plot, alle “microstrutture” dei suoi “luoghi” e delle
sue digressioni.
È lo spirito di vendetta, infatti, a innescare la caccia di Ahab alla Balena
Bianca che lo ha orrendamente mutilato. Quando, prima di affrontare la
caccia finale, l’empio capitano battezza il suo rampone col sangue dei
ramponieri, la scena – paradossale – sembra evocare un rito di esorcismo alla
rovescia, una sua parodia; assimilabile a quella che Girard definisce
un’“antifesta”:
Foggiato alla fine in forma di freccia e saldato da Perth nell’asta, l’acciaio
presto appuntì l’estremità del ferro, e il fabbro che stava per dare alla
lama l’arroventata finale prima di temprarla, gridò ad Ahab di portargli
vicino la botte dell’acqua. – No, no, non acqua per questo; lo voglio di
vera tempra mortale. Oè, la! Tashtego, Quiqueg, Deggu! Cosa dite,
pagani? Mi darete tanto sangue da coprire questa punta? – e la levò in
alto. Un gruppo di cenni foschi rispose di sì. Si fecero tre punture sulla
carne dei pagani e la lama della Balena Bianca venne così temprata. –
Ego, non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli! – gridò Ahab
in delirio, mentre il ferro malvagio divorava ardendo il sangue
battesimale45.
La scena – preludio al “tragico” epilogo della vicenda, che vedrà la morte
di Ahab e l’inabissamento del Pequod – appare, in realtà, ricca di spunti
umoristici, all’insegna di quel double bind di comico e tragico insieme, che ci
sembra costituire la cifra essenziale dell’umorismo proprio del mito.
È del tutto paradossale, infatti, chiedere del sangue in luogo dell’acqua, per
temprare un rampone. Siamo di fronte ad un vero e proprio rito di esorcismo,
dove in luogo di scacciare il diavolo, ne si invoca piuttosto la presenza; a
testimonianza di un ulteriore capovolgimento umoristico.
Qui, come nell’“antifesta”, “il saturnale si è mutato nel suo contrario, il
baccanale è diventato quaresima, ma il rito non ha cambiato scopo” 46. Lo
scopo rimane, infatti, sempre quello di “sostituire” il sacrificio. Ma qui, la
“sostituzione”, la messa in scena parodica del sacrificio, con tanto di
spargimento di sangue, non sarà sufficiente a placare la sete di vendetta che
tormenta l’empio capitano. Il suo “delirio” – assimilabile ai fenomeni di
trance tipici del dionisismo, che lo spingerà a celebrare un battesimo
322
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
blasfemo in nomine diaboli, piuttosto che in nomine patris – non è certo
assimilabile ad una matrice, per così dire, “liberale” del dionisismo; non
sembra corrispondere, per intenderci, ai rituali liberatori connessi alle
pratiche del neotarantismo 47. Ahab è, infatti, un discendente diretto della
stirpe maledetta di Caino, la sua sete di vendetta è figlia dell’impostazione
logocentrica e metafisica del pensiero; il suo peccato è quello del biblico
fratricida, di cui reca il marchio impresso nella carne:
un segno sottile come una bacchetta, di un biancore livido, si apriva di tra
i capelli grigi e continuava dritto da un lato della faccia e del collo
abbruciacchiati, finché scompariva negli abiti48.
Ad Ahab non resterà, dunque, che andare incontro al suo tragico destino:
A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci: fino all’ultimo lotto
con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te
l’ultimo mio respiro. Che ogni bara e ogni carro affondi in un pozzo
comune! e poiché queste cose non sono per me, che io ti trascini in pezzi,
dandoti la caccia, benché legato a te, balena dannata! Così! Lancio il
lancione!
Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità
da far faville la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Ahab si piegò
a disimpegnarla, la disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al
collo e, senza una parola, come i Muti Turchi strangolano la vittima,
venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non
c’era più49.
Il dramma dell’empio capitano si chiude, pertanto, con una scena dalla
comica plasticità. Ahab, “il vecchio indemoniato [...] viene strozzato dalla
lenza del suo stesso rampone conficcato nei fianchi del mostro, strappato alla
sua lancia in un volo verso il nulla”50.
La morte di Ahab non può allora che evocare lo sparagmos, o strazio del
corpo dell’eroe; uno dei quattro aspetti, secondo Frye, del mito della ricerca,
dove avviene che “il corpo dell’eroe talvolta viene diviso tra i suoi seguaci
come nel simbolismo eucaristico, oppure sparso per il mondo come nelle
storie di Orfeo e più specialmente di Osiride” 51.
A rivelare tale situazione è l’onomastica. Ahab reca, infatti, il nome
dell’empio re veterotestamentario, di cui si dice che i cani leccarono il sangue
(a testimonianza del suo strazio). Secondo Frye lo sparagmos, “o il senso che
l’eroismo e l’azione fruttuosa siano assenti o male organizzati o destinati alla
sconfitta, e che la confusione e l’anarchia regnino nel mondo, è il tema
archetipo dell’ironia e della satira”52.
323
NINO ARRIGO
Il tragico sparagmos di Ahab (dalla forza terribilmente comica) non può
che evocare lo smembramento di Dioniso. Come ci ricorda Elémire Zolla, a
proposito della visione mistica della rosa:
dal punto di vista metafisico la tragedia è comica, la comicità tragica. Fra
i due punti estremi dell’immaginativa, la Visione della Rosa e il sogno
selvaggio, il sacrificio tragico è sentito quasi universalmente come il
punto di mediazione. I Greci lo espressero in termini che perdurano. La
rosa può essere impersonata da Apollo sole che guida il coro delle Muse,
ma Apollo, l’unità, fu moltiplicato, smembrato in figura di Dioniso 53.
Ma alla morte seguirà – in ossequio allo schema ciclico connesso al
paradigma della fertilità – la resurrezione; come alla “catabasi” segue
l’“anastasi”, al dionisiaco segue sempre l’apollineo.
Al naufragio di nave, equipaggio e capitano, scamperà – unico
sopravvissuto – Ismaele (l’epilogo reca un verso del libro di Giobbe: “E io
solo sono scampato a raccontartela”); salvato da una scialuppa dalla curiosa
forma di bara (precedentemente costruita da Quiqueg) 54:
Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte andai alla
deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani disarmati mi guizzavano
accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini
passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno, una vela s’avvicinò e
finalmente mi raccolse. Era la bordeggiante “Rachele” che, nella sua
ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano 55.
Il libro, dunque, non ricostruisce nessun centro, nessun ordine, si chiude
con la parola “orfano” – posta in posizione enfatica – a definire la condizione
di Ismaele; il quale, portando “il nome del padre della tribù dei selvaggi
abitatori del deserto, sarà l’errante composito e definitivo. La sua immortalità
sarà quella di Assuero, lo stanco sopravvissuto, ma anche quella di Elia:
testimone, profeta e intercessore di salvezza”.56 Il suo destino – che lo vuole
errante attraverso il mare del tempo ad annunciare la verità dell’esistenza (la
sua saggezza è quella del mistico cristiano e la sua vocazione alla ricerca
assomiglia a quella dell’ “oltre-uomo” nietzscheano) – adombra quello di
Edipo, di Ulisse e del vecchio marinaio di Coleridge (la bara che lo trae in
salvo è lo straordinario simbolo della sua “vita in morte”), ed è il destino dei
poeti e degli artisti. Ancora Zolla:
È sempre il medesimo archetipo che [...] stringe in un nodo la tragedia e il
sacrificio, la morte e la resurrezione, prescrive inflessibilmente le prove
all’eroe: purgazione, vomito, denudamento, graffiatura, digiuno, sete,
veglia, flagellazione, amputazione, la discesa sottoterra, l’immersine
nell’acqua, il salto e la trasvolata per l’aria, il contatto col fuoco. A questo
schema archetipico dell’iniziazione attraverso la tragedia sacrificale si
aggrappa l’uomo smarrito e angosciato vi proietta trasfigurandole le sue
324
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
traversie e i suoi rovesci [...]. Resta il pericolo che l’io debba pagar caro,
con un delirio di grandezza, le trasposizioni consolatorie; per scongiurare
l’inflazione dell’io si è perciò spesso inserita nella tragedia la commedia:
con le gherminelle dei bricconi divini, dei buffoni esorcisti [...] il briccone
divino, il sacro pagliaccio adempiono ad un supremo ufficio: non c’è
parola, gesto, segno che i loro lazzi non intacchino, non c’è presunzione
puramente esteriore che non crolli davanti alla loro magia beffarda57.
Al delirio di empietà di Ahab seguirà, dunque, il controcanto comico di
Ismaele che, quasi come in una beffarda pagliacciata si salverà in una bara.
Come un “sacro pagliaccio”, un briccone divino 58, un artista-stregone
portatore della conoscenza della metamorfosi, la figura di Ismaele prelude già
a quella del protagonista dell’ultimo dei romanzi melvilliani: il camaleontico
“Uomo di fiducia”, il cui travestitismo non potrà, ancora una volta, che
evocare quello di Dioniso.
Anche la dialettica Ahab-Ismaele – espressione della scissione dell’io
melvilliano – sembra trovare riscontro nella logica sacrificale della tragedia.
Allo stesso modo delle Baccanti di Euripide – dove “i rapporti tra i doppi,
Dioniso e Penteo, sono reciproci, a doppio senso” 59, quasi a comporre, come
sostiene Fornari, “un vero e proprio sistema binario, il sistema DionisoPenteo”60 – anche in Moby Dick si potrebbe, pertanto, individuare un sistema
Ahab(Penteo)-Ismaele(Dioniso).
La prospettiva del teatro tragico – con la sua “visione spettacolare dei doppi
mimetici”61, così lontana dalla prospettiva separatrice della vita di tutti i
giorni dove, riducendo drasticamente la complessità del reale, “si entra nel
mondo dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’”62 potrebbe offrire in tal modo un contributo
decisivo alle analisi critico-letterarie dei sistemi dei personaggi e della
soggettività autoriale.
Basti ricordare l’analogia – sostenuta da Foucault – tra la scrittura e il
sacrificio. Potremmo, in aggiunta, evocare quella sostenuta da Blanchot, tra
lo scrittore e il suicida63, segnatamente per rafforzare la parentela,
indissolubile, tra la letteratura e l’indefinito, la disindividuazione dionisiaca,
la morte (intesa come apertura alla possibilità). E, ancora, la parentela, un
vero e proprio “doppio vincolo”, della rappresentazione con il suo scacco, la
sua crisi. Come suggerisce Fusillo – rifacendosi alle teorie dell’inconscio di
Matte Blanco – ci potrebbe infatti essere un analogo tra lo smembramento
dionisiaco, la violenza sacrificale e la logica “asimmetrica” della coscienza,
quindi della razionalità del logos e della rappresentazione, che non farebbe
altro che riproporre – per ritornare a Nietzsche – il “doppio vincolo” tra
Dioniso: la forza, e Apollo: la struttura, l’individuazione:
Si può suggerire che questo mitema dello smembramento richiama anche
alla mente alcuni punti nodali del pensiero matteblanchiano:
325
NINO ARRIGO
nell’Inconscio come insiemi infiniti leggiamo che “l’esercizio stesso
dell’attività asimmetrica può essere visto come una forma di
aggressività”, e che la nascita dello spazio tempo e dell’individualità sono
quindi il frutto di separazione (simbolicamente: di separazione dalla
madre) e di violenza aggressiva. Elementi che la terribile scena euripidea
dello sparagmos, quasi un esempio di teatro antico della crudeltà,
potrebbe riecheggiare64.
Gran parte dell’arte contemporanea avrebbe una parentela con il dionisismo
(paradossalmente per via del razionalismo logocentrico), nella misura in cui
sancisce la crisi della rappresentazione e si avvicina al nulla del Linguaggio,
raccontandoci la sua “afonia”. Dal celebre gesto, tramite il quale Duchamp
introduce un orinale in un museo, facendo così del “materiale grezzo dell’arte
[...] il fatto in sé, l’evento”65; passando per il “teatro della crudeltà” di Artaud
e le tele di Francis Bacon, entrambi rappresentazione del “corpo senza
organi” (vuoto come la vittima svuotata dalle sue viscere) di cui ci parlavano
Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo; al romanzo del Novecento, caratterizzato
da quell’ “invasione dei brutti” – in quanto espressione dell’inconscio,
dell’“altro” e quindi del dionisiaco – che Giacomo Debenedetti descrive
splendidamente, in pagine di critica memorabile 66.
Il tema del sacrificio – in Moby Dick – è inoltre visibile grazie
all’introduzione del mito di Giona (a partire dal sermone di padre Mapple)67,
il profeta biblico che, cercando di sfuggire alle proprie responsabilità di
fronte a Dio, si rifugia nella stiva di una nave per sfuggire alla tempesta;
spingendo così i marinai a buttarlo negli abissi, dove viene inghiottito da un
pesce. Anche Giona – allo stesso modo di Edipo, Narciso, Ahab – pecca,
dunque, di empietà; è innocente e colpevole a un tempo. Carl Gustav Jung
individuò, partendo dal racconto biblico, un “complesso di Giona e della
balena”, dove la regressione nell’“oceano” della vita istintiva, simbolo
dell’esistenza prenatale, è il sintomo del rifiuto delle responsabilità connesse
al ruolo paterno68. Harold Fisch segnala, inoltre, che
la “discesa” di Giona nel ventre della nave e la sua successiva “discesa”
nel ventre della balena […] siano omologhe alle storie antiche implicanti
la discesa dell’eroe agli inferi per sconfiggere le forze del caos. E alle
spalle di tutte le storie di questo tipo c’è l’allusione all’oceano o agli
inferi quale “milieu primordiale dove ha inizio la vita”. “Il pesce inoltre,
con le sue connotazioni di vita e di fecondità, rafforza l’analogia con il
ventre materno e acquista un significato radicato nelle misteriose origini
della vita”69.
Il mito di Giona, come nota giustamente Enzo Paci, “è la chiave del
romanzo di Melville”70. Anch’esso è visibile nella doppia prospettiva di Ahab
e Ismaele. Entrambi, infatti, compiono un ritorno, che si configura come un
ritorno nella zona del rimosso, nell’inconscio; allo stesso modo di Giona la
326
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
“regressione” di Ismaele si presenta come un viaggio in mare e, allo stesso
modo di Giona, Ahab, prima di lanciare la sua sfida alla Balena Bianca, è
rinchiuso nella stiva, la pancia della nave. Ma, mentre per quest’ultimo, il
ritorno nel passato che turba è fonte d’ulteriore turbamento, turbamento che
genera aggressività e atteggiamento di sfida e di lotta estrema all’esistenza –
materializzata nella caccia alla Balena, ma che si rivela come la lotta alla
riemersione del proprio rimosso, dell’“altro” in termini junghiani – , per il
primo, invece, la regressione nella zona originaria del trauma edipico è un
modo per rivalutare positivamente la propria esistenza. Per Ismaele, come per
Giona, “la balena non è la fatalità del male, ma la possibilità del bene, la
possibilità di trasformare il negativo in positivo”71.
Quando – nell’episodio intitolato (emblematicamente) “Il reietto” – il
piccolo negretto soprannominato Pip finisce in mare, il suo destino sembra
appunto evocare quello di Giona. Ed è il destino di tutte le vittime innocenti:
L’involontario terrore di quell’attimo fece saltare Pip, remo e tutto, fuori
dalla lancia, in modo tale che, presentandoglisi innanzi al petto parte della
lenza allentata, egli la spinse fuoribordo con sé, tanto da trovarsene
imbrogliato quando alla fine piombò in acqua [...]. Non appena si fu
rimesso, il povero moretto venne assalito dagli urli e dalle esecrazioni di
tutto l’equipaggio72.
La scena qui descritta, sembra proprio evocare il linciaggio della folla nei
riguardi della vittima espiatoria, di cui Pip sembrerebbe proprio assommare
tutte le caratteristiche. Viene infatti descritto come “troppo sottile”,
“impacciato”, “timido”, ma anche “geniale”. Tutti attributi che rimandano al
cliché del pharmakos, della vittima innocente. Nell’immaginario greco,
“spesso l’uomo che abbia anomalie o segni sugli arti inferiori è caratterizzato
da una mente astuta e da capacità quasi magiche di comprendere e operare
sulla realtà”73. E sarà proprio questo il nesso tra i “piedi gonfi” di Edipo e le
sue doti di geniale risolutore di enigmi. Pip si salverà, perdendo però la
ragione e vestendo i panni, nel prosieguo del “dramma”, del fool
shakespeariano; dello “schizo”, per dirla con Deleuze e Guattari. Sarà proprio
Pip il controcanto umoristico (comico e tragico insieme) al tragico delirio di
Ahab. Non è un caso, infatti, se l’episodio del battesimo blasfemo del
rampone, si chiuda – all’uscita di scena di Ahab – con la “beffarda”, eppure
“tristissima”, risata del piccolo neretto:
Ma prima che entrasse nella cabina [Ahab], un suono leggero, innaturale,
mezzo beffardo, eppure tristissimo, si fece udire. Oh! Pip, la tua
disgraziata risata, il tuo occhio ozioso ma irrequieto, tutti i tuoi gesti
bizzarri, non senza significato si mischiavano alla nera tragedia della nave
malinconica, canzonandola!74
327
NINO ARRIGO
In un recente film del regista australiano Peter Weir, Master and
Commander – tratto dalla saga di Patrick O’Brian, che vede protagonisti il
capitano Jack Aubrey e il medico Stephen Maturin, ma che certamente non
ignora, tra i suoi riferimenti “intertestuali”, la narrativa melvilliana – il mito
di Giona serve per l’appunto ad esplicitare il tema del sacrificio 75. Anche qui,
infatti, la folla dei marinai in preda al parossismo del linciaggio, si scaglia
contro l’ufficiale Hollom (che, per via delle sue caratteristiche, sembra
incarnare alla perfezione “l’archetipo” del pharmakos: è infatti timido,
impacciato e geniale, alla maniera del Pip melvilliano) – ritenuto come Giona
colpevole delle disgrazie dell’equipaggio – costringendolo ad “immolarsi”, al
fine di ripristinare l’equilibrio della nave (la “società” in preda alla “crisi
sacrificale”).
A distanza di quarant’anni da Moby Dick, nel suo ultimo racconto, quasi dal
sapore di un testamento – Billy Budd, marinaio – la consapevolezza
melvilliana in materia sacrificale sembra quasi raggiungere i livelli dei grandi
tragici greci. Per esprimere la lotta archetipica tra la generazione dei padri e
quella dei figli – che affonda le proprie origini nel “crimine primordiale”, ma
che allunga drammaticamente la sua ombra nella dimensione storica –
Melville “ci rimanda al racconto biblico del sacrificio d’Isacco” 76. Anche nel
racconto melvilliano, infatti, allo stesso modo dell’episodio biblico del
Genesi, “un ‘padre’, il Capitano Vere, sacrifica il figlio, ‘Billy Budd’,
sull’altare della legge e della tradizione”77.
Ma la trama dei riferimenti intertestuali non si limita a comprendere
l’episodio biblico; si arricchisce, piuttosto – e in maniera persino più matura
che in Moby Dick e in Pierre – delle suggestioni dei miti greci, quasi a
mostrare una perfetta consapevolezza dell’esperienza dei grandi tragici78.
Il destino del giovane marinaio, sembra infatti coincidere con quello di
Edipo. Anche Billy, alla stregua dello sventurato figlio di Laio, è alle prese
con un enigma da decifrare79. E, allo stesso modo di Edipo, sarà un oracolo a
rivelargli che il mistero della sua sventura, l’enigma (il “mistero d’iniquità”)
in cui si trova avvolto, è l’enigma delle radici sacrificali della conoscenza,
l’enigma della violenza del crimine originale; l’enigma, ancora, della vittima
innocente:
Turbato dunque dal suo piccolo guaio misterioso, Billy, andando in cerca
del vecchio raggrinzito, lo trovò mentre, fuori servizio durante un
gaettone, rimuginava tra sé, seduto su una cassa di munizioni del ponte
superiore di batteria, osservando di tanto in tanto con un’aria alquanto
cinica alcuni dei marinai più spavaldi che passeggiavano laggiù. Billy
espose il proprio guaio, chiedendosi di nuovo come mai fosse accaduto
tutto questo. Il veggente marino ascoltò con attenzione, accompagnando il
racconto del gabbiere con bizzarre contorsioni delle rughe e piccoli
balenii problematici dei suoi occhietti da furetto. Terminando il racconto,
il gabbiere chiese: “E adesso, Danese, dimmi per favore che cosa ne
328
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
pensi”. Il vecchio, levando la tesa del suo cappello impermeabile e
fregandosi lentamente la lunga cicatrice obliqua nel punto in cui si
congiungeva con i capelli, disse laconico: “Bimbo Budd, Piedipiatti” (e si
riferiva al capo d’armi) “ce l’ha con te”80.
Gli attributi con i quali viene descritto il vecchio danese (“veggente
marino”) sembrerebbero rimandare alla figura mitologica di Proteo, “un
‘vecchio del mare’ dalle virtù profetiche” 81, le cui capacità di assumere
forme diverse, potrebbero evocare – in chiave metanarrativa – le capacità
metamorfiche del mito e del Linguaggio. Ma allo stesso tempo, la figura del
danese non può non evocare quella dell’indovino Tiresia, che nella tragedia
sofoclea rivelerà l’atroce destino di Edipo. La sua cicatrice, sembrerebbe
inoltre rimandare, ancora una volta (come già in Ahab), al marchio di Caino;
quasi a confermare che l’oscura verità dell’enigma sarebbe quella della
violenza del linciaggio scagliato contro la vittima. A testimonianza della
funzione oracolare del vecchio marinaio, ecco come il narratore descrive la
sua reazione alla seconda interrogazione da parte di Billy:
Ascoltando la versione di Billy, il savio danese parve divinare più di
quanto venisse detto [...] era sua abitudine ripiombare in un silenzio truce
quand’era interrogato con aria scettica su qualche suo oracolo
sentenzioso, non sempre chiarissimo, non molto esente da quell’oscurità
che ammanta tutti i responsi delfici, da qualsiasi parte provengano82.
La rivalità tra Billy e il maestro d’armi Claggart sembra inoltre assumere,
fin dalle sue prime avvisaglie, le caratteristiche della “rivalità mimetica”:
Ora, inventare qualcosa che si riferisce alle vicende più private di
Claggart, qualcosa che coinvolgesse Billy Budd, qualcosa che
quest’ultimo ignorasse totalmente, qualche incidente romanzesco che
implicasse che la conoscenza della giovane giubba azzurra da parte di
Claggart risaliva a un periodo precedente a quello in cui s’era accorto di
lui a bordo della “settantaquattro” – tutto questo, e non sarebbe
un’impresa difficile, potrebbe servire in maniera più o meno interessante
a spiegare quanto di enigmatico può sembrare celarsi in questo caso. E
tuttavia l’unica ragione plausibile cui è necessario ricorrere è, nel suo
stesso realismo, satura di quell’ingrediente fondamentale dei romanzi di
Anne Radcliffe, il mistero [...]. Che cosa è infatti più intriso di mistero di
un’antipatia profonda e istintiva quale quella suscitata in certe creature
eccezionali dal semplice aspetto di qualche altra creatura, per innocua che
questa possa essere, quando ancora non sia provocata da quella stessa
innocuità? Orbene, non può esservi una contiguità esasperante di
personalità dissimili paragonabile a quella riscontrabile a bordo di una
329
NINO ARRIGO
grossa nave da guerra con l’equipaggio al completo e in mare aperto.
Colà, ogni giorno, in tutti i gradi, quasi tutte le persone vengono a
contatto con quasi tutti gli altri. Per evitare del tutto anche la sola vista di
un oggetto fastidioso, non vi è nient’altro da fare che buttarlo in mare
come Giona [...]83.
La rivalità scoppiata tra i due uomini all’interno della nave è ancora messa
in evidenza – attraverso un’isotopia semantica – in termini di “enigma” e di
“mistero”.
Ma il finale del brano, con l’allusione a Giona, getta sull’enigma la luce
della vittima innocente. La violenza della folla che si scaglia contro Giona è
arbitraria, non si chiarisce in termini di innocenza o di colpevolezza, è la
violenza che la società (in questo caso la nave) cerca di sviare in direzione di
una vittima “sacrificabile”, al fine di riottenere il suo equilibrio perduto
attraverso la “crisi sacrificale”. È il bell’aspetto di Billy, infatti, a innescare
l’invidia di Claggart:
L’aspetto di Billy, tuttavia, era eroico; e se il suo viso non aveva l’aria
intellettuale che aveva il pallido Claggart, era però acceso, come il suo,
dall’interno, anche se da una diversa sorgente. Il falò del suo cuore
illuminava il rosa abbronzato delle sue guance [...]. Orbene, l’invidia e
l’antipatia, passioni non conciliabili secondo ragione, possono però di
fatto scaturire unite come Chang ed Eng in un’unica nascita. È dunque
l’invidia un tale mostro? [...] Ma quella di Claggart non era una forma
volgare di tale passione [...]. L’invidia di Claggart colpiva più a fondo. Se
guardava di sbieco il bell’aspetto, l’allegra salute e la gioia schietta della
vita giovanile in Billy Budd, era perchè queste doti si accompagnavano a
una natura che, Claggart lo avvertiva magneticamente, non aveva mai
nella sua semplicità, conosciuto la malizia o provato il morso
sconvolgente di quella serpe. Per lui, lo spirito che albergava in Billy e
che si affacciava dai suoi occhi di cielo come da finestre, era
quell’ineffabilità che creava fossette sulle sue guance colorite, rendeva
docili le giunture e, danzando tra i riccioli biondi, ne faceva per
eccellenza il Bel Marinaio 84.
Torna, qui, un’opposizione ricorrente in tutta la narrativa melvilliana,
quella tra testa e cuore, istinto (Billy) e ragione (Claggart), natura e cultura 85;
ma che si arricchisce dell’ambivalenza tipica dell’impostazione tragica.
La bellezza di Billy sembrerebbe evocare anche il Dioniso delle Baccanti di
Euripide, il dio dell’ebbrezza, anch’esso rappresentato da un giovane efebo, il
cui fascino ha il potere di sconvolgere l’assetto costituito della società,
annullando tutte le opposizioni binarie, risolvendo le polarità in ambivalenze
e innescando il disordine della “crisi sacrificale”.
330
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
Quando, infatti, al cospetto del capitano Vere, Billy è costretto a difendersi
dalle accuse mossegli da Claggart, la vittima diventerà carnefice, e i confini
tra l’innocenza e la colpa non saranno più distinguibili in maniera netta:
Quando dunque il gabbiere si ritrovò in cabina, rinchiuso, per così dire,
con il capitano e con Claggart, rimase abbastanza sorpreso. Ma era una
sorpresa priva di apprensione o di sospetto [...]. Quando capì, il rosa
abbronzato delle sue guance parve come colpito da una lebbra bianca.
Rimase fermo, come se fosse legato a un palo e imbavagliato [...]. “Parla,
marinaio!” disse il capitano Vere al giovane inchiodato [...]. L’invito però
portò soltanto a uno strano muto gesticolare e gorgogliare di Billy: lo
sbalordimento che aveva assalito all’improvviso la sua giovinezza
inesperta davanti a tale accusa, assieme, forse, all’orrore per gli occhi
dell’accusatore, valse a far insorgere il suo difetto latente e, in questo
caso, a intensificarlo momentaneamente fino a una vana e convulsa
paralisi della lingua; mentre la testa e tutto il corpo, tesi allo spasimo,
nell’agonia d’un impotente desiderio di obbedire all’ingiunzione di
parlare e di difendersi, conferivano al suo volto un’espressione simile a
quella di una vestale condannata nell’attimo di venir sepolta viva, che
cominci a lottare contro il soffocamento [...]. Avvicinandosi al giovane
marinaio e ponendogli una mano sulla spalla per calmarlo, [il capitano
Vere] disse: “Non c’è fretta, ragazzo mio. Fai con calma”. Contrariamente
all’effetto che si proponevano, queste parole dal tono così paterno, che
certo toccavano Billy nel profondo del cuore, causarono sforzi ancora più
violenti per esprimersi – sforzi che finirono ben presto per confermare la
temporanea paralisi e che confermarono al suo volto un’espressione come
di un uomo in croce. Un attimo dopo, rapido come la vampata di un
cannone che spari nella notte, il suo braccio scattò in avanti e Claggart
crollò sull’assito. Fosse per intenzione o per la maggior altezza del
giovane atleta, il colpo aveva centrato in pieno la fronte, così ben fatta e
dall’aria intelligente, del capo d’armi; sicché il corpo cadde lungo e
disteso, come una trave pesante, disposta verticalmente, che venga
ribaltata. Un rantolo o due e giacque immobile 86.
Allo stesso modo che nelle Baccanti, il gioco dei doppi sembra essere
segnato da una profonda ambivalenza, “tutti i tratti distintivi di ciascun
protagonista sono perlomeno accennati o suggeriti in colui che gli sta di
fronte”87. Sarà lo stesso Vere a sintetizzare, in maniera sublime, questa
ambivalenza con l’affermazione: “Colpito a morte da un angelo di Dio!
Eppure l’angelo deve essere impiccato!”
Vere e Claggart sono i rappresentanti del sistema giudiziario, cui tocca di
risolvere la “crisi sacrificale” scongiurando la minaccia della vendetta.
Se Claggart, infatti, nei panni del maestro d’armi, rappresenta una sorta di
pubblico ministero accusatore all’interno della nave-società, Vere incarna la
331
NINO ARRIGO
figura del giudice, della legge. Entrambi dando vita ad una sorta di sistema
penale. Come sostiene Girard, nel sistema penale “non vi è alcun principio di
giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta [...]. Non c’è
differenza di principio tra vendetta privata e vendetta pubblica, ma vi è
un’enorme differenza sul piano sociale: la vendetta non è più vendicata; il
processo è finito; il pericolo di escalation è scongiurato”88.
La terminologia, con la quale Melville descrive la scena drammatica – ma
che, a ben vedere, potrebbe avere una forza umoristica pari al “suicidio” di
Ahab col suo stesso rampone (il pugno, fulmineo, col quale Billy “stende”
Claggart sembra avere la stessa, plastica, intensità del gesto che vede Ahab
strozzare se stesso) – è tutta afferente alla sfera “vittimaria” (Billy è “legato a
un palo e imbavagliato”, “inchiodato”, con un’espressione “come di un uomo
in croce”). E quando, di fronte all’incalzare delle domande di Vere, Billy
risponde diventando muto, il suo silenzio non può che evocare quello del
Cristo, dell’“ecce homo”, davanti a Pilato. Quella di Billy, allo stesso modo
di quella di Gesù, è “la voce silenziosa delle vittime che non si possono
difendere nemmeno con le parole, perchè le parole appartengono soltanto ai
persecutori. Il vero logos del Dio delle vittime è proprio questo, in nulla
diverso dallo sguardo del suppliziato che contempla in silenzio lo strazio del
proprio corpo”89. Come sostiene Fornari, le conseguenze del silenzio delle
vittime “sono sbalorditive, impensabili proprio nel campo più geloso
dell’uomo, quello della sua indagine conoscitiva” 90. Di questa indagine
conoscitiva, il corpo morto della vittima sembra costituire l’“alfa” e
l’“omega”, l’origine e l’approdo finale. Sempre secondo Fornari, infatti,
l’origine della scrittura, del linguaggio e della rappresentazione avrebbero
inizio proprio a partire dall’esperienza delle viscere della vittima. E, sempre
dalla stessa esperienza, si manifesterebbe la crisi della rappresentazione, il
suo scacco, l’“afonia” del logos, il silenzio.
Allo stesso modo che in Moby Dick (il brano sulla “bianchezza della
balena”), anche in Billy Budd – come, d’altra parte, in gran parte della sua
narrativa – Melville manifesta uno spiccato interesse per il “metalinguaggio”
e la “metanarrazione”. Il silenzio del bel marinaio sembrerebbe anticipare,
infatti, quello scacco della rappresentazione, di cui gran parte delle
esperienze artistiche novecentesche saranno testimoni. Il racconto melvilliano
potrebbe essere annoverato tra la categoria dell’antimito 91. Ma il suo silenzio
è raccontato, lo smembramento dionisiaco del testo è evocato dalla chiarezza
e dall’individuazione apollinea del logos, delle strutture formali della
tradizione. Dal circolo non si esce.
Ad accompagnare il motivo dell’oracolo e dell’enigma troviamo anche,
ricorrente in tutto il racconto, quello del labirinto, anch’esso interpretabile in
chiave metanarrativa:
Parecchio tempo fa uno studioso, più anziano di me, riferendosi a uno
che, come lui, ormai non è più, un uomo così irreprensibilmente
rispettabile che sul suo conto non si diceva mai nulla apertamente, anche
332
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
se tra i pochi qualcosa si mormorava, mi disse: “Sì, X---------- non è una
noce che si possa rompere con un colpo di ventaglio. Voi sapete che io
non aderisco a nessuna religione organizzata, e meno ancora a una
filosofia sistematica. Be’, nonostante, ciò ritengo che cercare di penetrare
X --------------, entrare nel suo labirinto e uscirne senz’altra chiave che
non sia quella offerta dalla cosiddetta “conoscenza del mondo”, sarebbe
quasi impossibile, almeno per me”. “Come”, dissi io. “X -------------, pur
essendo alcuni un singolare oggetto di studio, è tuttavia umano, e la
conoscenza del mondo sottintende certamente la conoscenza della natura
umana, e in quasi tutte le varietà:” [...] A quei tempi, la mia esperienza era
tale da non lasciarmi affatto scorgere il senso di tutto ciò. Può darsi che
ora lo scorga. E invero se il lessico su cui si basa la Sacra Scrittura fosse
ancor oggi popolare, sarebbe forse meno difficile definire e classificare
certi fenomeni umani. Così come stanno le cose, occorre appellarci a
un’autorità che non si presti all’accusa di essere impregnata di elementi
biblici92.
Siamo di fronte ad una delle tipiche digressioni che caratterizzano lo stile
melvilliano. La conoscenza del mondo presupporrebbe, dunque – secondo
Melville – la conoscenza della natura umana, il suo specchio. Penetrare nel
labirinto conoscitivo del mondo, della natura, equivarrebbe, dunque, a
penetrare nel labirinto costituito dalle viscere della vittima, il labirinto del
linguaggio, “il sistema culturale dell’uomo alle prese col problema insolubile
di spiegare, di concepire se stesso” 93. Per conoscere la natura occorrerebbe,
pertanto, quella cultura che della natura non può che essere il prodotto.
Torna, ancora una volta, il circolo di retroazione tra produttore e prodotto.
Precorrendo le intuizioni del “pensiero complesso”, Melville sembra quasi
suggerirci che per “conoscere la propria conoscenza” potrebbe essere
sufficiente guardarsi allo specchio, penetrare il labirinto delle proprie viscere.
Secondo Fornari, infatti, il simbolo del labirinto sarebbe accostabile alle
viscere della vittima, e di conseguenza alla scrittura:
Il labirinto è la sanguinosa preistoria di ogni nostro linguaggio, una
preistoria del segno che, prima che parlata, è scritta, come ha intuito, con
accento formalisticamente decostruzionista, Jacques Derrida. Il labirinto è
l’insieme di ogni futura traccia portatrice di significato, è il primo
geroglifico, in cui il simbolo coincide con la cosa simboleggiata, è la cosa
simboleggiata [...]. Il primo geroglifico è il corpo della vittima, i suoi
organi, le sue membra, i segni che ne incidono la superficie, segni che
devono essere letti, segni che sono la scrittura divina da ricevere, da
decifrare, come ci mostra ad esempio l’antica pratica della chiromanzia,
addirittura da trascrivere in quei segni artificiali del corpo che sono i
333
NINO ARRIGO
tatuaggi. È dunque questa l’origine di ciò che noi denominiamo
scrittura94.
È a partire dal corpo smembrato di Dioniso, dal labirinto delle sue viscere,
che nascerebbero la scrittura e la rappresentazione. Ma, nello stesso corpo
straziato e senza organi – come ci insegnano le esperienze artistiche
contemporanee: il “Teatro della crudeltà” di Artaud, l’arte espressionista e
cubista, sarebbe racchiusa anche la loro fine, il loro scacco, il silenzio (che
altro non sarebbe se non il silenzio, pieno di significato, del Linguaggio).
Nel racconto melvilliano, d’altronde, l’immagine del labirinto “rimanda
ovviamente al tema del mistero ma anche, per altra via, al tema dell’oracolo
e, soprattutto, della prigionia senza scampo, del ‘seppellimento prematuro’.
La nave stessa è più volte presentata indirettamente come labirinto” 95.
Significativo, inoltre, il fatto che Melville affidi alla Sacra Scrittura quel
ruolo oracolare, di chiave interpretativa della conoscenza, precedentemente
affidato al vecchio danese.
Dell’arte divinatoria della chiromanzia, tramite la pratica del tatuaggio sul
corpo, Melville ci offre un’illuminante testimonianza nell’episodio di Moby
Dick, in cui Quiqueg è intento a “istoriare” la sua singolare bara-scialuppa:
Trascorse molte ore libere a intagliarne il coperchio con ogni sorta di
figure e di grotteschi, e pareva che con ciò cercasse di riprodurre, nella
sua rozza maniera, parti dell’intricato tatuaggio del suo corpo. Questo
tatuaggio era stato opera di un defunto profeta e veggente della sua isola,
che per mezzo di quei segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una
teoria completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di
conseguire la Verità, cosicchè Quiqueg era nella sua stessa persona un
enigma da spiegare, un’opera meravigliosa in un volume, i misteri della
quale però neanche lui sapeva leggere benchè sotto vi pulsasse il suo
cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire alla fine insieme
alla pergamena vivente dov’erano tracciati e così restare insoluti fino
all’ultimo96.
Il corpo stesso di Quiqueg, dunque, sarebbe un “testo” pieno di segni da
decifrare. Egli stesso un enigma di cui è impossibile raggiungere la verità. È
questo il paradosso dell’arte e della scrittura, svelato – come nota acutamente
Barthes – da Kafka: “l’arte dipende dalla verità, ma la verità, essendo
indivisibile, non può conoscere se stessa: dire la verità è mentire. Così lo
scrittore è la verità, e tuttavia, quando parla, mente”97. La verità della
scrittura, del mito e della conoscenza non potrà che essere, dunque,
“l’invenzione di un bugiardo”. La stessa verità rivelatasi al sapiente greco
Epimenide attraverso la paradossalità dell’enigma, che altri non è se non
l’enigma del Linguaggio, la cui maschera (le “lingue” dell’uomo) serve ad
attuare l’“occultamento sacrificale”. L’impossibilità di conoscere se stessi, di
riconoscere la violenza perpetrata sulla vittima, sancirà lo scacco della
334
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
rappresentazione. Il mito annichilirà ammutolendo, alla maniera di Billy,
ripristinando il silenzio delle origini; il silenzio che precede il crimine
primordiale. Il silenzio della natura contrapposto al “baccano” della cultura.
Ma torniamo al plot. Allo stesso modo che nella tragedia antica, dove
l’innocenza e la colpa erano arbitrarie e non esistevano “i buoni e i cattivi”,
anche nel racconto melvilliano
l’innocenza e la colpa personificate da Claggart e da Billy in effetti si
scambiavano di posto. Da un punto di vista legale, la vittima apparente
della tragedia era l’uomo che aveva cercato di sacrificare un uomo
innocente; e l’atto indiscutibile di quest’ultimo, considerato sotto l’aspetto
navale, costitutiva il crimine militare più nefando. E c’è di più. Quanto
più chiari apparivano nella sostanza il torto e la ragione implicati in
questo caso, tanto peggio era per un leale comandante di Marina, in
quanto egli non era autorizzato a decidere del fatto su queste semplici
basi98.
La cifra artistica di Melville sembra raggiungere le vette dei grandi tragici
greci, il suo “sublime ironico” (la principale cifra stilistica dell’autore J) avrà,
nel Novecento, un suo eguale soltanto nell’opera del più enigmatico degli
scrittori contemporanei: Franz Kafka (K).
Toccherà dunque al Capitano Vere, lo “stellato” Vere, rivestire i panni
dell’Abramo biblico, del “padre” e assolvere all’ingrato compito di
amministrare la giustizia, scongiurando sì la vendetta, ma perpetrando la
logica sacrificale:
Era abbastanza vecchio da poter essere il padre di Billy. Quell’austero
seguace del dovere militare, abbandonandosi teneramente a quanto resta
di primevo nella nostra umanità ormai ridotta a formule, finì magari per
stringersi Billy al cuore, come forse Abramo strinse a sé il giovane Isacco
prima di sacrificarlo risoluto, obbedendo al duro comando 99.
Ma, a differenza del racconto biblico, il racconto melvilliano ci presenta un
sacrificio compiuto. Come nel racconto evangelico. Laddove il giudaismo si
accontentava della minaccia della castrazione, contrassegnato com’era
dall’Akedah, dall’offerta, “il contrassegno del cristianesimo è la
crocifissione, cioè il sacrificio compiuto” 100. La consapevolezza tragica
melvilliana sembra quasi attuare un compromesso, una sorta di sincretismo
tra Dioniso e Cristo. A differenza delle Baccanti di Euripide, dove ad essere
sacrificato è il padre (Penteo), nel racconto melvilliano viene sacrificato il
figlio. Ma sarà il figlio, riconosciuto come l’agnello di Dio – alla maniera di
Gesù “che ci libera dall’inutile volgarità del capro e che rende ancor più
335
NINO ARRIGO
visibile l’innocenza della vittima ingiustamente sacrificata” 101 ad essere
“santificato”:
E proprio allora accadde che il velo di vapori che incombeva basso a
oriente fosse trafitto da un tenue splendore, come il vello dell’Agnello di
Dio contemplato in una mistica visione, e in quel preciso istante, seguito
dalla fitta calca dei visi rivolti in alto, Billy ascese e, ascendendo, si
colorò del rosa acceso dell’aurora [...]. Ogni cosa, in Marina , è venerata
per un certo tempo. Ogni oggetto tangibile associato a qualche fatto
eccezionale verificatosi in servizio viene trasformato in monumento.
L’albero cui il gabbiere era stato impiccato venne tenuto d’occhio per
alcuni anni dalle giubbe azzurre. Non persero le sue tracce quando passò
dalla nave all’arsenale e poi di nuovo dall’arsenale alla nave, seguendolo
sempre anche quando finì per ridursi a una semplice boma da cantiere.
Una sua scheggia era per loro come un frammento della Croce 102.
Se la fede giudaica, dunque, si concentrò sul padre, divenendo appunto la
“religione del padre”, la fede cristiana “si concentrò sul figlio [...]
paradossalmente riaffermando in tal modo proprio il crimine primordiale;
benché il punto di partenza fosse il bisogno dell’umanità di espiare di fronte
al Dio padre, essa finì col glorificare colui che aveva espiato. Sorto più tardi
del giudaismo, il cristianesimo fu in realtà più regressivo: più primordiale,
più edipico rispetto alla religione da cui si era sviluppato”103.
La vittima innocente diviene, dunque, il Salvatore. Alla maniera di Edipo,
infatti, se Billy “è salvatore, lo è in qualità di figlio parricida e incestuoso” 104.
Billy morirà benedicendo il capitano Vere (il padre), ma la folla lascerà
cadere le pietre del linciaggio per innalzare canti alla vittima, per osannarla,
santificarla. Il “tabù” diverrà “totem”. I confini tra la colpa e l’innocenza
rimarranno, però, indefinibili.
Non c’è epitome migliore a questo racconto, del “poema” del grande
inquisitore contenuto ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1880, di poco
anteriore al racconto melvilliano)105. Qui sarà il genio introverso di Ivan,
dalla sensibilità profonda e animata da scetticismo, a raccontare al religioso
fratello Alëša la storia di Cristo che, tornato tra gli uomini, viene condannato
come eretico da un inquisitore spagnolo.
La morale della favola è che il potenziale rivoluzionario del messaggio
evangelico, il suo anelito di libertà, carità e amore, la sua verità “debole” –
per dirla con Vattimo106 – non farebbero altro che “indebolire” l’assetto
societario. La maggior parte degli uomini non sarebbe in grado di accogliere
e comprendere la corretta portata di un simile messaggio. Pertanto, per
tutelare la vita umana, la sicurezza, per evitare una “crisi sacrificale” (come
direbbe Girard), non resterebbe che rifugiarsi tra le braccia del grande
Inquisitore, del potere, della coercizione, della religione fondata sui dogmi.
336
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
Al termine del lungo monologo dell’inquisitore, infatti, Cristo si accosterà
alle sue labbra baciandole; evocando così la benedizione di Billy a Vere. Le
porte della prigione gli verranno allora aperte.
Oscillando continuamente tra i poli opposti dell’innocenza e della colpa,
della condanna e dell’ “elezione”107, sarà l’opera di Franz Kafka a
riscrivere, in pieno Novecento, la parabola della vittima innocente, il
dramma del crimine primordiale.
Tutte le opere di Kafka – come nota Milena Jesenskà nel necrologio scritto
per il suo amante Franz – “descrivono il terrore di malintesi misteriosi e della
colpa innocente degli esseri umani”108. In esse “le oscillazioni
magnificamente ambigue di Kafka tra il giudaismo normativo e la gnosi
ebraica” troverebbero una sublime epitome. Ma il visionario scrittore del
Processo e della Metamorfosi, come nota acutamente Harold Bloom “è allo
stesso tempo più e meno di uno gnostico”109. Laddove lo gnosticismo
consiste, infatti, in “una religione di salvezza, benché sia la più negativa tra
queste visioni salvifiche. La spiritualità di Kafka non offre speranza di
salvezza, e perciò non è gnostica”110.
Ma anche nell’opera dello scrittore boemo, a ben vedere, la nota dominante
sarebbe il sacrificio compiuto, la prospettiva cristiana della salvezza (il punto
di vista del figlio), piuttosto che il “ ‘camminare insieme’ di padre e figlio
che costituisce la nota dominante”111 dell’ebraismo e del giudaismo
normativo (attestato sulla prospettiva del padre).
Ora, se c’è un testo in grado di sintetizzare al meglio l’intera parabola
compiuta dall’opera kafkiana, questo è, senza dubbio, La lettera al padre.
Il testo – una vera e propria lettera scritta da Kafka nel novembre del 1919 a
Schelesen, in Boemia, che non venne però mai consegnata al destinatario –
sembra costituire una sorta di midrash, di interpretazione-commento; una
chiave di lettura, alla luce della quale, sarebbe possibile leggere tutta l’opera
dello scrittore boemo. In essa si manifesterebbe l’immane senso di colpa del
giovane Franz nei confronti del padre, il suo destino di vittima innocente:
Poichè quando ero piccolo ci vedevamo soprattutto a tavola, il tuo
insegnamento era in gran parte rivolto alla condotta da tenere durante i
pasti. Quel che compariva in tavola bisognava mangiarlo, era proibito
esprimere giudizi sulla qualità delle portate – tu però le trovavi
disgustose, le definivi “robaccia”; quell’animale (la cuoca) le aveva
rovinate. E poiché tu, conformemente al tuo robusto appetito e alla
predilezione per bocconi grossi e bollenti, mangiavi in gran fretta, il
bambino doveva spicciarsi, a tavola regnava un silenzio opprimente rotto
da esortazioni: “prima mangia, poi parla”, oppure “guarda io ho già finito
da un pezzo”. Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non
337
NINO ARRIGO
era permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi. L’operazione più
importante era tagliare il pane a fette regolari, ma che tu la eseguissi con
un coltello gocciolante di salsa era indifferente. Bisognava far attenzione
a non lasciare cadere sul pavimento resti di cibo, e di solito erano sparsi
soprattutto ai tuoi piedi. A tavola si doveva pensare solo a mangiare, ma
tu ti pulivi le orecchie e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti
frugavi nelle orecchie con uno stuzzicadenti. Papà, spero che tu mi
capisca bene, questi erano dettagli del tutto secondari, per me divennero
avvilenti solo in quanto tu, l’uomo che ai miei occhi rappresentava la
massima autorità, non ti attenevi alle ingiunzioni che mi avevi imposto.
Di conseguenza il mondo si divideva per me in tre parti, e nella prima io,
lo schiavo, vivevo sottoposto a leggi concepite solo per me e alle quali,
senza saperne il motivo, non riuscivo del tutto ad adeguarmi, poi c’era un
secondo mondo infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a
dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti, e
infine un terzo, dove il resto dell’umanità viveva felice e libera da ordini e
da obbedienze112.
Quella che sembra emergere in questo brano, in tutta la sua drammaticità, e
al contempo con una paradossale carica di umorismo, è una situazione
edipica. Sotto i colpi del sarcasmo feroce e dissacrante del figlio, la figura del
padre sembra assumere dei tratti grotteschi, quasi da “pagliaccio”, trovando,
forse, un riscontro nel Penteo (un altro padre, tutore dell’ordine e della legge,
trasformato in un buffo pagliaccio) – travestito da baccante in preda a impeto
dionisiaco – protagonista del finale della tragedia di Euripide.
Non è difficile scorgere – ancora una volta – dietro la rivalità generazionale
tra padre e figlio, il paradigma frazeriano. La posta in gioco sembra qui
essere, infatti, proprio il passaggio del testimone della fertilità.
Non è un caso, se la scena (insieme comica e tragica) descritta da Kafka si
svolga a tavola. È la tavola, infatti, il luogo privilegiato di riunione della
“famiglia edipica”, è attorno a una tavola imbandita che si manifesta
l’esuberanza sessuale dell’uomo maturo; la virulenza, sempre accompagnata
da un famelico appetito, del padre. Ma la minaccia del figlio incombe.
L’ombra di Edipo, del mitico figlio di Laio parricida e incestuoso, si allunga
sinistramente sulla tavola della “sacra famiglia”, attentando al potere del
pater familias. Da qui la grottesca competizione tra il padre e il figlio,
persino sulla velocità con cui si consumano le portate; quasi una vera e
propria gara a chi finisce prima di mangiare (“guarda io ho già finito da un
pezzo”), innescata – in maniera puerile – proprio dallo stesso padre. Edipo –
come notano acutamente Deleuze e Guattari – ancora prima di essere una
nevrosi del figlio è piuttosto un “paranoia” del padre, è “il padre paranoico a
edipizzare il figlio. La colpevolezza è un’idea proiettata dal padre prima di
essere un sentimento interno provato dal figlio”113.
Il nichilismo kafkiano, dunque, la sua ossessione nei riguardi del kenoma,
del vuoto cosmico, potrebbe trovare un riscontro persino nel “nichilismo”
338
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
cristiano, inteso, alla maniera di Vattimo, come l’approdo della verità forte
della metafisica ad una verità “debole” – il cui destino coinciderebbe con
quello della secolarizzazione della cultura occidentale – resa possibile proprio
tramite l’incarnazione (la kenosis) del Dio padre giudaico nel Dio figlio
evangelico.
Nel caso di Kafka, come in quello di Melville, la letteratura – focalizzando
la sua attenzione sulla dimensione archetipica della divinità (e poco importa
se essa assuma la forma unica del Dio del pensiero giudaico-cristiano o
quella molteplice degli dei del pensiero greco antico) – diventa pertanto una
suprema forma di conoscenza e si può, così, scomodare la categoria di
“letteratura assoluta”114.
Attorno ad una tavola imbandita, con una famiglia religiosamente riunita,
matura anche la “disobbedienza” di Cosimo Piovasco di Rondò, il
personaggio protagonista di uno dei più celebri e, forse, più riusciti romanzi
di Italo Calvino: Il barone rampante:115
Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello,
sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi.
Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre
inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la
nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora,
nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco
mattiniera corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio.
Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: –
Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache.
Mai s’era vista disubbidienza più grave116.
Il rifiuto di Cosimo sembra evocare la “formula” con la quale Bartleby, lo
scrivano protagonista di uno dei più enigmatici racconti melvilliani, si
congeda dalla “comunità dei padri”: I would prefer not to (preferirei di no).
Un “no” contro l’ottusa verticalità gerarchica dei ruoli, contro l’assurdo
“potere” del pater familias. Per Melville, infatti, ossessionato dallo scontro
generazionale dei padri contro i figli, “l’umanità può essere salvata [...] solo
nella dissoluzione, nel disfacimento della funzione paterna” 117.
Un grande momento, per questo, è quando Ahab, invocando i fuochi di S.
Elmo, scopre che il padre è egli stesso un figlio perduto, un orfano, mentre il
figlio, figlio di nessuno o di tutti, un fratello. Come dirà Joyce, la paternità
non esiste, è un vuoto, un nulla, o piuttosto, una zona di incertezza abitata da
fratelli, dal fratello e dalla sorella. È necessario far cadere la maschera del
padre caritatevole affinché la Natura prima si pacifichi e Ahab e Bartleby,
Claggart e Billy Budd si riconoscano, liberando nella violenza degli uni e lo
stupore degli altri il frutto di cui essi erano gravidi, il rapporto fraterno puro e
semplice118.
339
NINO ARRIGO
Anche Cosimo, dunque, è un “orfano”, un “eletto” della stirpe dei fratelli,
pronto a combattere la battaglia “riformista”, per una società democratica e
“orizzontale” (il prosieguo dell’opera vedrà infatti il “barone rampante”,
protagonista di numerose battaglie “democratiche” all’insegna del suo spirito
laico e illuminista).
Ma ecco come prosegue il racconto della voce narrante, nei panni (e forse
non per caso) di un fratello, alleato nella rivolta che condurrà l’attacco al
potere familiare:
Da pochi mesi, Cosimo aveva compiuto i dodici anni ed io gli otto,
eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io
avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del
tempo, perchè non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico
beneficiato per così dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la
cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli
con l’Abate Fauchelafleur [...]. Adesso, invece, stando a tavola con la
famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste
dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle
posate per il pollo, e sta dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! E
per di più quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di
sgridate, di ripicchi, di castighi, d’impuntature, fino al giorno in cui
Cosimo rifiutò le lumache e decise di separare la sua sorte dalla nostra 119.
Sebbene con la leggerezza tipica dello stile di Calvino, lo “scoiattolo della
penna”120, la scena descritta nel brano sopra citato, non può non evocare
quella descritta da Kafka nella “lettera”. Ancora una volta, lo scontro
generazionale all’interno della famiglia, si consuma a tavola, pasto
avvelenato di “sgridate”, “ripicchi”, “castighi”, “impuntature”, che vede
incombere minaccioso – nell’energia vitale dei giovani figli – l’attacco ostile
all’austero, dogmatico, potere dei padri.
Persino nel riferimento all’età anagrafica di Cosimo, fornito dal narratore,
si nasconderebbe un’analogia di carattere archetipico, un possibile
riferimento intertestuale121 all’episodio evangelico, in cui il fanciullo Gesù,
dodicenne come Cosimo, si distacca per la prima volta – ribellandosi – dalla
“sacra famiglia”.
Sullo scontro generazionale dei padri contro i figli si allunga, dunque,
l’ombra, fosca e minacciosa, del crimine primordiale, del linciaggio nei
confronti di una vittima innocente; l’ombra di Caino, di Crono, Edipo.
Ma – come notano Deleuze e Guattari – è il “campo sociale” a determinare
la famiglia che determinerà, a sua volta, l’Edipo. Se le dinamiche interne alla
nostra società si modificassero, a tal punto da prevedere nuove forme di
associazione familiare, quali, per esempio, quelle invocate dalla comunità
omosessuale odierna, l’“imperialismo” edipico non potrebbe che vacillare
(trascinando con sé una significativa quantità di forme artistiche, letterarie,
culturali).
340
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
Secondo Deleuze e Guattari esistono “due grandi tipi di investimento
sociale, segregativo e nomadico, come due poli del delirio”122:
Un tipo o polo paranoico fascisteggiante, che investe la formazione di
sovranità centrale, la surinveste facendone la causa finale eterna di tutte le
altre forme sociali della storia, controinveste le enclavi o la periferia,
disinveste ogni libera figura del desiderio – sì sono dei vostri, della classe
e della razza superiori. E un tipo o polo schizo-rivoluzionario, che segue
le linee di fuga del desiderio, attraversa il muro e fa passare i flussi,
monta le sue macchine e i suoi gruppi in fusione nelle enclavi o alla
periferia, procedendo al contrario del precedente: non sono dei vostri,
sono eternamente della razza inferiore, sono una bestia, un negro. La
gente per bene dice che non bisogna fuggire, che no sta bene, che è
inefficace, e che bisogna lavorare in vista di riforme. Ma il rivoluzionario
sa che la fuga è rivoluzionaria, withdrawal, freaks, a condizione di
strappare la tovaglia o di far fuggire un lembo del sistema 123.
Laddove sul versante paranoico fascisteggiante si schiereranno i padri e i
“figli-padri”, sul secondo – quello schizo-rivoluzionario – si schiereranno,
allora, i “figli-fratelli” (o “padri-fratelli”)124.
Lo schizo-rivoluzionario è il protagonista fuggiasco di tanta letteratura
americana da Ismaele e Bartleby, passando per Huckleberry Finn, sino a
Holden Caulfield ed Henry Chinaski.
E non sfigurerebbe di certo, in mezzo a questa stirpe di ribelli vagabondi,
quel Cosimo Piovasco di Rondò, che riesce nell’impresa mancata al giovane
Franz, protagonista della Lettera al padre: quella della fuga rivoluzionaria.
Cosimo incarnerà la curiosa figura del “rivoluzionario-riformista”. Allo
stesso modo in cui, infatti, parteciperà a imprese brigantesche (sostenendo il
brigante Gian dei Brughi), non si sottrarrà dalla vita politica attiva,
sostenendo le idee repubblicane in favore di Napoleone. Bizzarro freak
(Cosimo non sembrerà mai assumere i connotati di un uomo maturo), buffo
trickster che si muove leggiadro tra le fronde e i rami degli alberi, la sua fuga,
una vera e propria scomparsa cominciata “strappando la tovaglia” del potere
paterno, non lo vedrà tornare sulla terra neppure da morto. Sulla tomba di
famiglia lo ricorderà una scritta: “ ‘Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli
alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo’ ”125.
La versione del crimine primordiale che ci tramandano i miti greci sembra
essere ben sintetizzata dal mito di Crono:
Urano generò i Titani dalla Madre Terra dopo aver cacciato i Ciclopi, suoi
figli ribelli, nel remoto Tartaro, un sinistro luogo che dista dalla terra
quanto la terra dista dal cielo. Un’incudine di ferro precipita per nove
341
NINO ARRIGO
giorni prima di toccare il fondo. Per vendicarsi, la madre terra indusse i
titani ad assalire il padre loro; e così essi fecero guidati da Crono, il più
giovane dei sette che si era armato di un falcetto di selce. Colsero Urano
nel sonno e Crono spietatamente lo castrò col falcetto, afferrandogli i
genitali con la sinistra (che da quel giorno fu sempre la mano del
malaugurio) e gettandoli poi assieme al falcetto in mare preso Capo
Drepano. Gocce di sangue sgorgate dalla ferita caddero sulla Madre
Terra, ed essa generò le tre Erinni, furie che puniscono i crimini di
parricidio e di spergiuro126.
Dal momento in cui l’eterno amplesso tra Gea (la terra) e Urano (il cielo),
viene interrotto dal macabro gesto di Crono (il tempo), la condizione umana
sarà segnata dalla scissione, dalla lacerazione tra cultura e natura, ragione (il
cielo) e istinto (la terra), inconscio e coscienza. Il gesto del titano ribelle ha
proiettato l’uomo in quella dimensione “ermeneutica”, per cui l’Essere cerca
il soggetto (l’ente) e il soggetto cerca l’Essere, in un incessante “doppio
vincolo” di “identità e differenza”; ha innescato il tempo, la storia, la cultura,
interrompendo il silenzio senza tempo dello stato di natura.
Non è difficile scorgere, anche dietro il gesto di Crono, l’archetipo della
fertilità. Il gesto del figlio di Urano sembra chiarirsi, infatti, proprio alla luce
del racconto di Frazer. Per succedere al sacerdote del tempio di Virbio e
Diana, presso il bosco di Nemi, occorreva, prima recidere il ramo d’oro
dall’albero sacro, e poi uccidere il sacerdote. La morte del sacerdote-dio era
funzionale alla sua resurrezione, senza la quale il ciclo della fertilità non
sarebbe potuto riprendere. Il suo sangue era necessario per rendere fertile
Diana, la dea delle messi, cui spetta il compito di assicurare un buon
raccolto127:
La logica che ne consegue ha due risvolti. Grazie alla magia
“simpatetica”, la morte e la resurrezione del dio [...] causano il
rinnovamento della terra. Grazie alla magia per “contagio”, il dio diventa
la figura del “capro espiatorio” che porta via con se la sterilità che
altrimenti potrebbe danneggiare il raccolto. La logica è chiarissima. E ci
dice anche perchè il re del bosco deve strappare il ramo d’oro. Questa
parte dell’albero, che è una quercia, è chiaramente il vischio. Esso
racchiude il potere di Giove, il dio romano del cielo e della tempesta, che
di tanto in tanto scaglia la sua forza in quell’albero attraverso il fulmine.
Il successore al titolo deve strapparlo per dimostrare di avere acquisito
l’energia divina. Solo attraverso questa successione violenta, anticipata
dalla violenza del tuono, si può garantire la fertilità della terra. C’è una
connessione magica tra il dramma del dio morente e redivivo da un lato e
il ciclo stagionale dall’altro128.
342
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
Alla luce del racconto di Frazer, si chiarisce che la logica del “capro
espiatorio” ha un suo riscontro anche in funzione dei cicli stagionali della
fertilità.
Alla base della lotta tra generazioni, che abbiamo visto caratterizzare tante
“riscritture” letterarie, ci sarebbe, pertanto, la storia del dio morente e
redivivo di cui parla Frazer.
È questa la costante che lega insieme i miti di Crono, Prometeo, Edipo, al
racconto biblico del sacrificio d’Isacco. Persino Adamo, nel racconto del
Genesi, fu alle prese con un ramo. La scena biblica, in cui il nostro più
lontano antenato stacca il frutto dell’albero della conoscenza, non sembra
così dissimile da quella frazeriana, dove al dio morituro subentra quello
redivivo che ha staccato il “ramo d’oro” dalla quercia nel bosco. La
disobbedienza adamitica nei riguardi di Dio (il padre) sembra essere, inoltre,
l’equivalente del gesto di Crono, che recide l’organo sessuale del padre
Urano per acquisirne l’energia divina; anche il “peccato” biblico sembra
avere, infatti, la stessa forza di una castrazione. Il senso di colpa – come
notava Freud – sarà proprio la conseguenza di questa disobbedienza, in
seguito alla quale la religione ebraica innalzerà il totem di un Dio padre.
Fin qui le costanti, le analogie. Ora, se volessimo scorgere delle differenze
tra i miti biblici e quelli greci, potremmo dar retta a Nietzsche e considerare il
peccato di Crono – allo stesso modo di quello di Prometeo – un peccato
“attivo”, “vera virtù prometeica”129, laddove, invece, dietro il peccato di
Adamo ci sarebbero, a dominare la scena, la curiosità, la lascivia, il raggiro
menzognero; insomma, le virtù femminili di Eva:
La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei
popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non
mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per
la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito
del peccato originale ha per la natura semitica, e che tra i due miti esiste
un grado di parentela come tra fratello e sorella [...]. Nell’eroico impulso
dell’individuo verso l’universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera
dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo,
egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a
dire commette un delitto e soffre. Così dagli ariani il delitto viene
considerato maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina;
come pure il crimine originale viene commesso dall’uomo e il peccato
originale dalla donna130.
Il pensiero di Nietzsche risente, già qui, della lacerante contraddizione tra
colpa e innocenza, tra Dioniso e Cristo, tra “virtù prometeica” e “lascivia
semitica”. Questa oscillazione accompagnerà l’opera e la vita del filosofo,
fino al silenzio scaturito in seguito alla stesura della sua ultima opera: Ecce
343
NINO ARRIGO
homo. Il profondo risentimento, nutrito dal filosofo della “volontà di
potenza” nei riguardi del cristianesimo (Nietzsche, è bene ricordarlo, era
figlio di un pastore protestante), non gli permetterà di individuarne gli aspetti
“salvifici”, “dionisiaci”; di scoprire un possibile sincretismo tra Dioniso e
Cristo:
La scoperta della morale cristiana è un avvenimento che non ha eguali,
una vera catastrofe [...]. Il concetto di “Dio” inventato in opposizione alla
vita – tutto ciò che è dannoso, venefico, calunnioso, mortalmente ostile
alla vita vi è raccolto in una terrificante unità! Il concetto di “al di là”, di
“mondo vero” inventati per svalutare l’unico mondo che esista – per non
lasciare ala nostra realtà sulla terra alcun fine, alcuna ragione, alcun
compito! Il concetto di anima, di spirito e infine anche di “anima
immortale”, inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – “santo”
–, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere
trattate con serietà nella vita [...] il concetto di “peccato” inventato
insieme con gli opportuni strumenti di tortura, insieme al concetto di
“libero arbitrio”, per confondere gli istinti e fare una seconda natura per la
diffidenza degli istinti! [...] – Sono stato capito? Dioniso contro il
crocifisso [...]131.
“Dioniso contro il crocifisso”, Dioniso contro Cristo. Sono queste le ultime
parole con cui Nietzsche si congeda dal mondo della rappresentazione
apollinea, da quell’inganno della simulazione tanto a lungo indagato, per
discendere nel mondo, tragicamente vero, dello smembramento dionisiaco.
Dopo Ecce homo Nietzsche incontrerà soltanto il silenzio della sua follia.
Sarà questo il “peccato” da pagare per la sua “virtù” prometeica, che lo
condurrà a varcare le colonne d’Ercole del mondo dell’individuazione
apollinea, per approdare al di là del velo dell’apparenza fenomenica e
scoprire, alla maniera di Narciso e Ahab, il nulla. Il nulla del linguaggio. Il
silenzio della “natura” generatore del baccano della “cultura”. Al di là delle
colonne d’Ercole della ragione l’uomo cade, infatti, in contraddizione, e si
scopre, alla maniera di Nietzsche, “tutti gli uomini della storia”. Sarà questo
l’enorme prezzo pagato dal filosofo per aver cercato di conoscere la propria
conoscenza. L’itinerario nietzschiano che “comincia con la stesura di Ecce
homo e finisce con la follia, tende a sfuggire all’analisi speculativa, anche la
più sottile”,132 perchè con esso il filosofo “ha tentato qualcosa che sta già al
di fuori dell’ambito del pensiero rappresentativo” 133.
A differenza dei testi melvilliani – in cui abbiamo già riscontrato la crisi
della rappresentazione, il “racconto del silenzio” – il “testo” della follia
nietzschiana realizza la perfetta coincidenza degli opposti, divenendo,
dunque, irrappresentabile. Nel tentativo immane di conoscere la propria
conoscenza, Nietzsche svanirà nel nulla del Linguaggio. La sua straordinaria
scoperta delle radici violente della conoscenza umana, dell’incombere del
linciaggio dietro “l’assenza di modelli genitoriali, dietro le persecuzioni
344
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
famigliari”134, lo condurrà al suo stesso sacrificio. Per non dare a Cristo quel
che è di Cristo, il seguace “sfegatato di Dioniso doveva stare attento a non
concedere troppo alle stesse religioni sacrificali da lui rimpiante per non
evidenziare l’alternativa da lui rifiutata” 135; per non consegnarsi a quella
stessa violenza riconosciuta e ripudiata. La “virtù prometeica” nietzschiana
non riuscirà a scrollarsi di dosso l’ingombrante eredità del “peccato”
originale semitico, “il danno della storia per la vita”136. Dioniso inchioderà
Cristo sulla Croce.
Nei Dialoghi con Leucò137 (scritti tra il Dicembre 1945 e il Marzo 1947)
Cesare Pavese – alla luce dei suoi studi etnologici e antropologici138 –
riscrive buona parte dei miti greci, consegnando alla storia una delle opere
più originali della letteratura italiana del Novecento. In essi lo scrittore
piemontese realizza “una riscrittura esplicita di un preciso intertesto
mitico”139, rappresentando, per certi versi, un’operazione speculare a quella
del Moby Dick di Melville, dove l’intertesto mitico era quello biblico. Non è
escluso, inoltre, che dietro il Leucò del titolo, (riduzione del nome della ninfa
Leucotea protagonista di alcuni dialoghi, in cui la critica ha individuato un
omaggio a Bianca Garufi, uno dei tanti amori non corrisposti dello scrittore)
che in greco significa “bianco”, ci sia un richiamo – o un’ eco – al biancore
della Balena di Melville. Non sarebbe un’ipotesi poi tanto ardita; in tal modo
i dialoghi sarebbero un colloquio col “bianco” inteso come l’essenza che
contiene tutte le esistenze possibili, la “necessità” (mitica) che contiene le
infinite “accidentalità” storiche, un parlare del mito parlando al mito e, in
ultima ipotesi, “un mito che racconta se stesso” 140. Alla base di tutto, nei
“dialoghi”, c’è lo scontro tra i Titani e l’Olimpo (dietro cui si cela
l’opposizione tra città e campagna dei primi libri, come rivela una nota in
data 10 Luglio 1947: “La città-campagna dei primi libri è diventata il
titanismo-olimpico dell’ultimo”), dove quest’ultimo, che rappresenta il
trionfo della legge e dell’ordine sul caos delle origini, è ritenuto il
responsabile della scissione uomo/natura da cui scaturirebbero tutte quelle
antinomie in grado di generare la dimensione “ermeneutica” dell’esistenza.
Schema confermato in una nota del Diario in data 24 Febbraio 1946 dove si
legge: “Crono era mostruoso ma regnava sull’età dell’oro. Venne vinto e ne
nacque l’Ade (Tartaro), l’isola Beata e l’Olimpo, infelicità e felicità
contrapposte e istituzionali”.
Non a caso il libro si apre con il dialogo tra la nube Nefele e Issione, mitico
Re dei Lapiti, che testimonia l’avvento dell’ordine e della legge degli
olimpici sul caos delle origini, dove “era consentito alle nature più diverse di
mischiarsi”141:
345
NINO ARRIGO
C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire [...] non puoi più mischiarti a
noi altre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dune
della terra. È mutato il destino142.
Dietro il dialogo di apertura sembrerebbe nascondersi un larvato
riferimento al “crimine primordiale”, forse con un rimando proprio al Freud
di Totem e Tabù, lettura documentata nel “diario” pavesiano, la cui lezione
Pavese dovette tenere bene a mente durante la stesura dei “dialoghi”.
Di Issione è noto, infatti, che
acconsentì a sposare Dia, figlia di Ioneo, promettendo ricchi doni nuziali
e invitando Ioneo a un banchetto. Ma scavò una fossa dinanzi alla soglia
del palazzo, con delle braci accese sul fondo, e Ioneo vi precipitò e morì
bruciato. Benchè le divinità minori giudicassero orrendo questo crimine e
rifiutassero di purificare Issione, Zeus, che si comportava altrettanto male
quando era innamorato, non soltanto lo purificò, ma lo invitò alla sua
tavola. Issione si dimostrò ingrato e meditò di sedurre Era che, egli
pensava sarebbe stata ben lieta di vendicarsi delle molte infedeltà di Zeus.
Ma Zeus indovinando le intenzioni di Issione, diede a una nuvola la forma
di una falsa Era, e con essa Issione, il cervello troppo offuscato dal vino
per accorgersi dell’inganno, si prese il suo piacere. Zeus lo colse sul fatto
e ordinò a Ermete di fustigarlo senza pietà finchè egli avesse ripetuto le
parole: “i benefattori devono essere onorati”; poi lo legò a una ruota di
fuoco che rotola senza posa nel cielo. La falsa Era, chiamata in seguito
Nefele, generò a Issione il bastardo Centauro che, a quanto si dice,
divenuto adulto si unì alle cavalle magnesie e generò a sua volta i
Centauri, tra i quali il saggio Chirone fu il più celebre 143.
Issione ucciderà, dunque, il padre di Dia, la sua sposa. Ora, dal momento
che Dia era “un appellativo della quercia di Dodona e dunque della moglie di
Zeus, Era”, il peccato di cui si macchierà Issione potrebbe dunque essere lo
stesso peccato di cui si macchierà lo sventurato figlio di Laio, quell’Edipo
protagonista di due “dialoghi” pavesiani (“I ciechi” e “La strada”). Il peccato
“originale”, evocato da Freud nel suo racconto della scena del crimine
primordiale. Come nota Robert Graves, infatti, i re “che seguivano le
tradizioni dei tempi antichi si chiamavano Zeus e sposavano Dia-dalle Nubidense-di Pioggia”144. Il richiamo alla dea delle nubi sembrerebbe un esplicito
rimando al ciclo della fertilità. Pertanto, dal momento che Dia sarebbe
un’appellativo di Era, e Nefele il nome attribuito alla nube nei panni della
madre di tutti gli dei, quello composto da Pavese, nel dialogo di apertura,
sembrerebbe essere un rebus, un bizzarro enigma da decifrare, la cui
soluzione affonderebbe ancora una volta le proprie origini, nell’evento
fondativo dell’umanità e della conoscenza. Un evento che si colora del
sangue sparso dalla violenza scaturita dal “desiderio mimetico”.
346
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
Non è un caso se Pavese, nella breve nota introduttiva, chiarisce la pena
subita da Issione come il frutto della sua “audacia”, costringendoci a vedere
“oltre gli occhi accecati del figlio di Laio che Freud, nella riproduzione del
quadro di Ingres, vide per anni indicare se stesso come soluzione
dell’enigma”. Issione, come Edipo, Prometeo, Freud, sarebbe allora un altro
membro “eletto” della stirpe di quei grandi ricercatori “che proseguono per la
loro strada ‘senza tregua né riposo’, e senza ascoltare le parole dell’‘oscura
Giocasta’ [Nefele] che ‘la maggior parte degli uomini porta dentro di sé’ e
che implora Edipo, in nome di tutti gli dei, di non spingere oltre la propria
ricerca’ ”145.
Il tema del sacrificio percorre, nel suo intero dispiegarsi, anche l’ultimo dei
romanzi pavesiani: La luna e i falò (1949); vera e propria summa della
“poetica pavesiana del mito”.
Il romanzo è narrato in prima persona dall’orfano Anguilla 146, un trovatello
delle Langhe che, dopo una parentesi in America, ritorna nei luoghi
dell’infanzia alla ricerca delle radici, di quell’identità che la sua condizione di
orfano gli nega. A guidarlo nel suo viaggio sarà Nuto, “il comunista che
crede nel destino, nella luna e nei falò” 147, sarà proprio lui ad illuminare della
luce chiara della ragione i misteri che si nascondono nel regno dell’infanzia,
in una sorta di “catabasi”, di discesa ad inferum, da cui Pavese, di lì a poco,
deciderà – proprio come il suo Orfeo – di non risalire (“Valeva la pena di
rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi ‘Sia
finita’ e mi voltai”)148.
È proprio percorrendo accanto a Nuto i luoghi dell’infanzia, che Anguilla si
imbatterà in Cinto, il figlio storpio del Valino, scampato al falò di corpi
umani, frutto della follia omicida del padre:
Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro
destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la
martinicca di un carro – un rumore che sulle strade d’America non si
sente più da un pezzo [...]. Qualcuno correva sullo stradone nella polvere,
sembrava un cane. Vidi ch’era un ragazzo: zoppicava e ci correva
incontro. Mentre capivo ch’era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e
mugolava come un cane. – Cosa c’è? Li per lì non gli credemmo. Diceva
che suo padre aveva bruciato la casa. – Proprio lui, figurarsi, – disse
Nuto. – Ha bruciato la casa, – ripeteva Cinto. – Voleva ammazzarmi...Si è
impiccato...ha bruciato la casa... – Avranno rovesciato la lampada, –
dissi. – No no, – gridò Cinto, – ha ammazzato Rosina e la nonna.
Voleva ammazzarmi ma non l’ho lasciato...Poi ha dato fuoco alla paglia e
mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella
vigna...Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S’era seduto
nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: – Il papà
347
NINO ARRIGO
si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa...anche il manzo. I conigli
sono scappati ma io avevo il coltello...149.
Il giovane Cinto, la cui andatura claudicante non può non richiamare i piedi
gonfi di Edipo, è un moderno Isacco scampato al sacrificio, un pharmakos
(“Nuto lo prese per le spalle e lo alzò come un capretto”) 150 che si ribella al
potere del padre, all’imperialismo dell’Edipo. Cinto – a differenza di Isacco,
che si mostra obbediente al sacrificio, al volere del padre – impugna il
coltello della rivolta, dice no. La follia omicida del Valino sembrerebbe
dunque chiarirsi come la “paranoia del padre”, nei confronti della giovane
forza del figlio:
Ma poi la sera quand’era tornato era nero. S’era messo a gridare con
Rosina, con la nonna perchè non avevano raccolto prima i fagioli verdi
[...]. Lui Cinto stava sulla porta pronto a scappare. Allora il Valino s’era
tolta la cinghia e aveva cominciato a frustare Rosina. Sembrava che
battesse il grano. Rosina s’era buttata contro la tavola e urlava, si teneva
le mani sul collo. Poi aveva fatto un grido più forte, era caduta la
bottiglia, e Rosina tirandosi i capelli s’era buttata sulla nonna e
l’abbracciava. Allora il Valino le aveva dato dei calci – si sentivano i
colpi – dei calci nelle costole, la pestava con le scarpe, Rosina era caduta
per terra, e il Valino le aveva ancora dato dei calci nella faccia e nello
stomaco. Rosina era morta disse Cinto, era morta e perdeva sangue dalla
bocca [...]. Dopo un poco il Valino s’era messo a chiamare Cinto [...] era
uscito fuori con la lampada in mano, senza vetro. Era corso tutt’intorno
alla casa. Aveva dato fuoco al fienile, alla paglia, aveva sbattuto la
lampada contro la finestra. La stanza dove s’erano picchiati era già piena
di fuoco. Le donne non uscivano, gli pareva di sentir piangere e chiamare.
Adesso tutto il casotto bruciava e Cinto non poteva scendere nel prato
perchè il padre l’avrebbe visto come di giorno [...]. Il Valino era corso
nella vigna, cercando lui, con una corda in mano. Cinto, sempre
stringendo il coltello, era scappato nella riva. Lì c’era stato, nascosto, e
vedeva in alto contro le foglie il riflesso del fuoco [...] quando Cinto non
aveva più sentito né il cane né altro, gli pareva di essersi svegliato in quel
momento, non si ricordava che cosa facesse nella riva. Allora piano piano
era salito verso il noce, stringendo il coltello aperto, attento ai rumori e ai
riflessi del fuoco. E sotto la volta del noce aveva visto nel riverbero
pendere i piedi di suo padre, e la scaletta per terra151.
Dopo aver ucciso la figlia, e incendiato la casa, il Valino cerca, con furia
omicida, anche il figlio, che trova riparo nel luogo in cui altre volte si era già
rifugiato (“Lì c’era stato nascosto”); probabilmente per sfuggire alle insidie
del padre, ma il caratteristico understatement pavesiano lascia spazio
all’interpretazione, non chiude il testo. Il tragico epilogo vedrà il padre
impiccarsi e il figlio scampare al pericolo. Più avanti, il narratore getterà
348
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
anche sul padre l’ombra sinistra del peccato di Edipo, alludendo alle relazioni
incestuose praticate da quest’ultimo a spese delle donne in casa:
Il prete la fece più bella. Siccome il Valino era morto in peccato mortale,
non volle saperne di benedirlo in chiesa. Lasciarono la sua cassa fuori sui
gradini, mentre il prete dentro borbottava su quelle quattro ossa nere delle
donne, chiuse in un sacco. Tutto si fece verso sera, di nascosto. Le
vecchie del Morone, col velo in testa, andarono coi morti al camposanto
raccogliendo per strada margherite e trifoglio. Il prete non ci venne perchè
– ripensandoci – anche la Rosina era vissuta in peccato mortale 152.
Sarà proprio il falò della casa del Valino a far rievocare a Nuto la tragica
morte di Santa, la figlia del “sor Matteo”, il proprietario del cascinale dove
l’orfano Anguilla trovò il suo primo lavoro.
Il viaggio di Nuto e Anguilla prosegue, dunque, con la scalata della collina
della Gaminella, alla ricerca della cima più alta tra i luoghi dell’infanzia del
protagonista:
Mi fermai a guardare in giù nella valle. Fin quassù non c’ero mai salito,
da ragazzo. Si vedeva lontano fino alle casette di Canelli, e la stazione e il
bosco nero di Calamandrana. Capivo che Nuto stava per dirmi qualcosa –
e non so perchè, mi ricordai del Buon Consiglio. – Ci sono andato una
volta con Silvia e Irene, – chiacchierai, – sul biroccio. Ero ragazzo. Di
lassù si vedevano i paesi più lontani, le cascine, i cortili, fin le macchie di
verderame sopra le finestre [...]. Riprese a condurmi su per quei pianori.
Di tanto in tanto si guardava intorno, cercava una strada. Io pensavo
com’è tutto lo stesso, tutto ritorna sempre uguale – vedevo Nuto su un
biroccio condurre Santa per quei bricchi alla festa, come avevo fatto io
con le sorelle [...] – Tanto vale che te lo dica, – fece Nuto d’improvviso
senza levare gli occhi, – io so come l’hanno ammazzata. C’ero anch’io 153.
Il monte, dalla cui cima i due vecchi amici contemplano il paesaggio, non
può non evocare il luogo del “sacro”: il monte Citerone dove le baccanti, in
preda alla furia dionisiaca, compivano sacrifici a Dioniso, il monte Moira
dove il Dio veterotestamentario comanda ad Abramo di uccidere Isacco. Il
luogo in cui, in un passato ormai lontano, ogni civiltà contadina praticava
sacrifici umani per placare l’ira degli dei e garantirsi un buon raccolto. È qui,
che Nuto rievoca i fatti che portarono alla condanna a morte di Santina,
accusata di doppio gioco coi fascisti. Sotto l’effetto paradossale della legge
dell’eterno ritorno, i falò della resistenza non potranno, allora, che sembrare
uguali ai roghi dei sacrifici umani:
Baracca mi tenne tre giorni lassù, un po’ per sfogarsi a parlarmi di Santa,
un po’ per essere certo che non mi mettevo in mezzo. Un mattino Santa
349
NINO ARRIGO
tornò, accompagnata. Non aveva più la giacca a vento e i pantaloni che
aveva portato tutti quei mesi. Per uscire da Canelli s’era messo un vestito
da donna , un vestito chiaro da estate, e quando i partigiani l’avevano
fermata su per Gaminella era cascata dalle nuvole [...]. Non servì a niente.
Baracca in presenza nostra fece il conto di quanti avevano disertato per
istigazione sua, quanti depositi avevamo perduto, quanti ragazzi aveva
fatto morire. Santa stava a sentire, disarmata, seduta su una sedia. Mi
fissava con gli occhi offesi, cercando di cogliere i miei...Allora Baracca le
lesse la sentenza e disse ai due di condurla fuori [...]. Io più che Nuto
vedevo Baracca, quest’altro morto impiccato. Guardai il muro rotto, nero,
della cascina, guardai in giro, e gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c’è
caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due... Nuto s’era
seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. –
No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva
coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò
Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo finchè
bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era
tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò 154.
Nella cornice della guerra e della Resistenza, il romanzo pavesiano si
chiude, dunque, col sacrificio di una donna. Come ci ricorda Girard: “al pari
dell’animale e del bambino, ma in grado minore, la donna, grazie alla sua
debolezza ed alla relativa marginalità, può assumere un ruolo sacrificale” 155.
Dietro i travestimenti maschili, cui Santina è costretta dalla sua attività di
spia, non sarebbe difficile scorgere i prodromi di quell’annullamento delle
differenze, di quell’inversione dei ruoli, tipico del dionisismo. Nessuno
scenario sarebbe migliore della guerra per evocare lo scompiglio dionisiaco,
conseguenza della “crisi sacrificale”. Il falò del corpo morto di Santina – allo
stesso modo dei falò degli antichi greci e di tutte le civiltà contadine che
hanno conosciuto i sacrifici156 – sarà l’offerta agli dei per risolvere la crisi
sacrificale e propiziare un buon raccolto: “O Zeus, accogli quest’offerta” 157.
Grazie all’ultimo romanzo pavesiano il passato mitico e sacrificale
dell’umanità emergerebbe, dunque, e in tutta la sua evidenza, nella realtà
contemporanea della guerra e della Resistenza, il realismo divenendo mito e
il mito realismo. Ma, se il rimando pavesiano più esplicito è agli dei pagani
della cultura greca, anche la “simbologia cristiana non rifiuta in blocco il
passato mitico e sacrificale dell’umanità, ma lo reinterpreta integrandolo a
livello simbolico, soprattutto in relazione al principio stesso che sta alla base
del religioso: il sacrificio della vittima innocente. L’eucarestia rimanda in
maniera tanto lampante alla logica sacrificale e antropofagica delle origini da
non poter essere considerata un elemento casuale o marginale nella
composizione tra uomini e Dio attraverso il sacrificio del figlio”158.
Il sacrificio di Cristo non si limiterà dunque a “riscrivere” quello d’Isacco,
riscriverà anche il martirio di Dioniso.
350
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
__________
NOTE
1
Cfr. P. Boitani, Riscritture, Bologna: il Mulino, 1997.
Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982),
Torino: Einaudi, 1997.
3
R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Bari: Laterza, 2002, p.
320.
4
Ivi, p. 321.
5
Il materiale critico sulla Bibbia è sconfinato, qui ci limitiamo a segnalare: E.
Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946),
Torino: Einaudi, 1956; N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura
(1982), Torino: Einaudi, 1986; H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e
fede dalla Bibbia a oggi (1987), Milano: Garzanti, 1992; H. Fisch, Un
futuro ricordato (1984), Bologna: il Mulino, 1988.
6
R. Ceserani, cit., p. 320.
7
Ci limitiamo a segnalare la pregevole attività critica di Piero Boitani, che va
nella direzione di una comparazione tra la tradizione classica e quella biblica.
Di Boitani si vedano – oltre al già citato Riscritture – Esodi e Odissee,
Napoli: Liguori, 2004 e L’ombra di Ulisse, Bologna: il Mulino, 1992.
8
H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi
(1987), Milano: Garzanti, 1992, p. 18. L’eccentrico scrittore J sarebbe in
realtà – secondo Bloom – una scrittrice, una dama della corte di Roboamo,
figlio di Salomone. Anche questa interpretazione ci sembra il frutto di una
impostazione rigidamente “metafisica”, che sembra rifiutare quella nozione
complessa di soggetto in grado di “fondare” la crisi della soggettività
autoriale (nel senso “forte” auspicato da Bloom che, è noto, considera
l’“indebolimento” della nozione di autore niente più che una moda figlia del
“gusto parigino” [ivi, p. 13] ).
9
Genesi 4, 2-15, trad. it., La Bibbia di Gerusalemme, Bologna: EDB, 1985.
10
Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro (1972), Milano: Adelphi, 2003.
11
S. Freud, Autobiografia (1924), in Opere, 12 Voll., Torino: Boringhieri,
1966-1980, Vol. X, p. 135.
12
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 13.
13
Ivi, p. 17.
14
Ivi, pp. 17-18.
15
H. Fisch, cit., p. 124.
16
L. Coupe, Il Mito. Teoria e Storia, Roma: Donzelli, 1997, p. 10.
17
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 31.
18
“Alcuni asseriscono che Dio fece crescere un corno sulla fronte di Caino
per proteggerlo da quegli assalti. Altri che Dio lo affisse con la lebbra, altri
che incise un marchio sul suo braccio, per ammonire chiunque tentasse di
2
351
NINO ARRIGO
vendicare Abele” (R. Graves-R. Patai, I miti ebraici (1963), Milano: TEA,
1998, p. 113).
19
R. Girard, cit., p. 32.
20
Ibidem.
21
Ivi, p. 38.
22
R. Graves-R. Patai, cit., p. 113.
23
Ivi, p. 115.
24
Ibidem.
25
S. Freud, Autobiografia, cit., p. 135.
26
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 277.
27
Ivi, pp. 276-77.
28
L. Coupe, Il Mito. Teoria e Storia, cit., pp. 98-99. L’analisi che Coupe fa
di Freud è avvincente e appassionante. Secondo lo studioso ci sarebbero due
Freud: un erede dell’illuminismo e del positivismo, lo scienziato che cerca i
rimedi per far emancipare i pazienti dalle nevrosi e un seguace della
“tipologia radicale”, del mito; che, per “capire il bisogno pressante di
ricordare, di ritornare e di ripetere [...], fa esattamente ciò che vede fare ai
suoi pazienti” (ivi, p. 99). Coupe opta per il secondo Freud. Noi, qui,
opteremo per il primo (senza con ciò escludere l’esistenza del secondo).
29
Cfr. H. Bloom, Rovinare le sacre verità, cit., pp. 138-90.
30
Ivi, p. 157.
31
G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo (1972), Torino: Einaudi, 1975, p. 47.
32
Ivi, p. 5.
33
L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano (1960), Milano:
Longanesi, 1963, p. 33.
34
Ibidem.
35
R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino: Bollati Boringhieri,
1998, p. 32.
36
L. Fiedler, op. cit., pp. 22 e 28.
37
Cfr. F. O. Matthiessen, Rinascimento americano (1941), Torino: Einaudi,
1954.
38
Per un’analisi più approfondita delle tematiche presenti in Moby Dick,
soprattutto in relazione alla presenza del mito, ci permettiamo di rimandare a
“Melville e Moby Dick”, in N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese,
Firenze: MEF- Atheneum, 2006, pp. 67-104.
39
Cfr. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a
Cent’anni di solitudine, Torino: Einaudi, 1994.
40
C. Pavese, “Herman Melville”, in Saggi letterari, Torino: Einaudi, 1968,
p. 75.
41
Moby Dick, o la Balena, cap. I, p. 39. Faremo qui riferimento alla
traduzione pavesiana del 1941, riproposta da Adelphi, Milano, 1994. Al
giorno d’oggi, mentre imperversano gli studi sulla traduzione e la
“traduttologia”, una traduzione come quella di Pavese sarebbe, forse,
impensabile ed improbabile. Ma quest’ultima ha consegnato – a nostro
avviso in maniera mirabile – un capolavoro alla storia, senza intaccarne
352
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
l’anima. Per contro, riteniamo tante traduzioni, che magari tengono conto dei
dettami delle più recenti e accreditate teorie in argomento, talmente brutte
esteticamente, talmente senz’anima (come d’altronde il mercato che le
produce), da meritare, spesso (ahinoi!), delle sonore bocciature da parte dei
lettori più smaliziati. Dal canto nostro, noi crediamo ancora, con George
Steiner, “al miracolo scandaloso di traduzioni supreme fatte nell’ignoranza
della lingua di partenza, in una specie di osmosi fra intuizioni che potrebbe,
se soltanto sapessimo come funziona, condurci al cuore del mistero del
linguaggio” (G. Steiner, Nessuna passione spenta (1996), Milano: Garzanti,
2001, p. 96). Ad ogni modo segnaliamo, tra le traduzioni più recenti, quella
di Ruggero Bianchi per i tipi di Mursia, Milano, 1986-93 (soltanto un
capitolo del monumentale e pregevole lavoro di traduzione e cura di tutti i
romanzi melvilliani) e quella di Alessandro Ceni per i tipi di Feltrinelli,
Milano, 2007 (comprende anche un saggio introduttivo dello stesso Ceni).
42
N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese, cit., p. 82.
43
Cfr. E. Zolla, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano: Adelphi, 2002.
44
Sulla simbologia dell’elemento acquatico cfr. C. G. Jung-K. Kerényi,
Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942), Torino: Bollati
Boringhieri, 1994, p. 76; M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (1949),
Roma: Borla, 1999, pp. 62-63.
45
Moby Dick, cap. CXIII, pp. 508-09.
46
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 174.
47
Cfr. M. Fusillo, Il dio ibrido, Dioniso e le “Baccanti” nel Novecento,
Bologna: il Mulino, 2006, p. 7.
48
Moby Dick, cap. XXVIII, pp. 153-54.
49
Moby Dick, cap. CXXXV, p. 586.
50
P. Boitani, L’ombra di Ulisse, cit., p. 111. La scena della morte di Ahab
sembra evocare il finale di un recente film hollywoodiano, Fight Club (1999)
di David Fincher. Tratto da un romanzo di Chuck Palahniuk, il film è una
critica spietata alla società capitalistica in chiave psicanalitica, dove il
protagonista, anch’esso alle prese con “l’altro”, nel tentativo di ucciderlo non
può (allo stesso modo di Ahab) che uccidere se stesso. Ma, allo stesso modo,
non si può non pensare al finale del romanzo di Stevenson: Lo strano caso
del dottor Jeckill e del signor Hide (1886), di cui Moby Dick – a
testimonianza dell’origine archetipica del fatto letterario – sarebbe, però,
un’antesignano.
51
N. Frye, Anatomia della critica (1957), Torino: Einaudi, 2000, p. 255.
52
Ibidem, p. 256.
53
E. Zolla, Archetipi (1988), Venezia: Marsilio, 2005, p. 148.
54
Cfr. Moby Dick, cap. CX.
55
Moby Dick, “Epilogo”, p. 558.
56
H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p. 106.
353
NINO ARRIGO
57
E. Zolla, Archetipi (1988), Venezia: Marsilio, 2005, p. 152. Come ci
ricorda Zolla “rientra nell’archetipo il culto del sangue, che si raccoglie
ancora fumante, serve per andare in trance o per esorcizzare, ed è credenza
quasi universale che quello del maiale, il più prossimo all’uomo, agevoli la
profezia”. A tutt’oggi, nella cultura contadina, si può assistere al rito
primordiale della raccolta del sangue del maiale, che viene – con l’aggiunta
di aromi – persino mangiato. Quale miglior esempio, per confermare le radici
sacrificali della nostra cultura?
58
Cfr. C. G. Jung-K. Kerényi-P. Radin, Il briccone divino, Milano: SE,
2006.
59
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 187.
60
G. Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo
greco e nella civiltà occidentale, Genova: Marietti, 2006, p. 163.
61
Ivi, p. 164.
62
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 195.
63
M. Blanchot, Lo spazio letterario (1955), Torino: Einaudi, 1967.
64
M. Fusillo, cit., p. 27.
65
I. Hassan, “L’evanescenza della forma”, in P. Carravetta-P. Spedicato (a
cura di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in
America, Milano: Bompiani, 1984, p. 45.
66
Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano: Garzanti 1971,
pp. 440-54.
67
Cfr. Moby Dick, cap. IX.
68
Cfr. C. G. Jung, Simboli della trasformazione, in Opere, Torino:
Boringhieri, 1970, Vol. V, citato da H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p.
182.
69
Ibidem.
70
E. Paci, “Moby Dick e la filosofia americana”, in Il mito di “Moby
Dick”ed altri saggi americani, Roma: Editori Riuniti, 1988, p. 26.
71
Ibidem.
72
Moby Dick, cap. XCIII, p. 436.
73
M. Bettini-G. Guidorizzi, Il mito di Edipo. Immagini e racconti dalla
Grecia a oggi, Torino: Einaudi, 2004, p. 116.
74
Moby Dick, cap CXIII, p. 509.
75
A ben vedere una costante nell’opera di Weir, basti pensare al celebre
Dead poets society – altrimenti noto col titolo L’attimo fuggente – dove, al
centro del plot, si colloca la tragica scena del suicidio (sacrificio) del
protagonista (figlio), epilogo del rapporto conflittuale tra un padre e un figlio.
Un sacrificio compiuto in luogo dell’Akedah, dell’offerta.
76
H. Fisch, op. cit., p. 123.
77
Ivi, pp. 120-21.
78
Per l’influenza della mitologia classica nell’opera melvilliana si veda G. M.
Sweeney, Melville’s Use of Classical Mithology, Amsterdam: Rodopi N. V.,
1975. Secondo Sweeney, la maggior parte delle conoscenze di Melville sulla
mitologia greca, non deriverebbe dalla lettura diretta dei classici in
354
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
traduzione, bensì dall’uso di un dizionario mitologico, A Classical
Dictionary, a cura di Charles Anton (Ivi, p. 20).
79
Si potrebbe ipotizzare un’origine del genere “poliziesco” proprio dalle
tragedie classiche. La curiosa origine etimologica della parola “investigatore”
(dal latino vestigium, pianta del piede, da cui vestigare, in-vestigare [andare a
caccia, cercare] e, infine, in-vestigator) sembrerebbe infatti rimandare a
Edipo, l’“investigatore” dai piedi gonfi (forse anche per il faticoso errare).
80
Billy Budd, marinaio, tr. it., di Ruggero Bianchi, in Tutte le opere
narrative di Herman Melville, cit., Vol. VII, pp. 30-31.
81
A. Ferrari, Dizionario di mitologia, Roma: Gruppo Editoriale l’Espresso,
2006, Vol. II, p. 312. Alcune tradizioni presentano Proteo come figlio di
Poseidone e re d’Egitto, padre di Telegono e Poligono (o Tmolo).
82
Billy Budd, marinaio, cit., pp. 42-43.
83
Ivi, p. 33.
84
Billy Budd, marinaio, cit., pp. 36-37.
85
Per l’opposizione tra natura e cultura nella narrativa americana si veda L.
Marx, La macchina nel giardino. Tecnologia e ideale pastorale in
America (1964), Roma: Edizioni Lavoro, 1987.
86
Billy Budd, marinaio, cit., pp. 52-54.
87
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 182.
88
Ivi, p. 32.
89
G. Fornari, op. cit., p. 355.
90
Ivi, p. 356.
91
Cfr. H. Fisch, op. cit., pp. 209-31.
92
Billy Budd, marinaio, cit., pp. 33-34.
93
G. Fornari, op. cit., p. 203.
94
Ivi, pp. 204-05.
95
R. Bianchi, Billy Budd, marinaio, p. 34 n.
96
Moby Dick, cap. CX, p. 502.
97
R. Barthes, Saggi critici (1964), Torino: Einaudi, 2002, p. 134.
98
Billy Budd, marinaio, cit., p. 56.
99
Ivi, p. 66.
100
H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p. 124.
101
R. Girard, Il sacrificio (2002), Milano: Raffaello Cortina, 2004, p. 84.
102
Billy Budd, marinaio, pp. 73-74 e 80.
103
L. Coupe, op. cit., p. 99.
104
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 127.
105
Trad. it. di A. Polledro, Garzanti, Milano, 1983.
106
Potremmo considerare Vattimo (col suo cristianesimo fuori dalla
religione) e Girard (e il suo cattolicesimo tradizionalista) alla stregua
dell’“utopista” e del “conservatore” (cfr. S. Givone, Storia del nulla, Bari:
Laterza, 2006, pp. 112-20).
355
NINO ARRIGO
107
Per il “mistero” dell’elezione come nota dominante della narrativa
Kafkiana si veda R. Calasso, K., Milano: Adelphi, 2005, p. 16.
108
Citato da H. Bloom, Rovinare le sacre verità, cit., p. 157.
109
Ivi, p. 158.
110
Ibidem.
111
H. Fisch, op. cit., p. 124. Secondo noi – al contrario di quanto sostenuto da
Fisch – è il camminare insieme di padre e figlio ad eliminare l’erranza e
dunque la prospettiva del divenire storico.
112
F. Kafka, Lettera al padre, Milano: Feltrinelli, 2002, pp. 19-20.
113
Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 313.
114
Cfr. R. Calasso, La letteratura e gli dei, Milano: Adelphi, 2002, pp. 14159.
115
Il romanzo pubblicato separatamente a Torino presso Einaudi nel 1957, fu
in seguito inserito nella trilogia comprendente anche Il visconte dimezzato
(1952) e il Cavaliere inesistente (1959), pubblicata sempre da Einaudi, nel
1960, con il titolo: I nostri antenati. L’edizione comprende un importante
saggio introduttivo dell’autore.
116
I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e racconti, “I Meridiani”,
Milano: Mondadori, 2003, Vol. I, p. 549.
117
G. Deleuze, “Bartleby o la formula”, in Deleuze G.-Agamben G.,
Bartleby. La formula della creazione (1989), Macerata: Quodlibet, p. 35.
118
Ibidem.
119
I. Calvino, Il barone rampante, cit., p. 550.
120
C. Pavese, Saggi letterari, cit., p. 245.
121
È l’intertesto quello spazio ambiguo tra la “verità” e il “significato”, il
mito e la storia, la “poesia” e la “fede” (per dirla con Bloom).
122
G. Deleuze-F. Guattari, cit., p. 315.
123
Ibidem.
124
In un articolo del giugno del 1965, scritto per il Giorno, non sfugge allo
straordinario intuito di Ottiero Ottieri – sensibilissimo rabdomante del
pensiero, straordinariamente abile nel collegare psiche individuale e psiche
collettiva – l’influenza del “campo sociale” paranoico fascisteggiante
esercitata, sulla generazione dei figli sessantottini, da parte di quella degli
“edipici” padri cresciuti all’ombra del mito mussoliniano del padre (cfr. F.
Marcoaldi, “Le antenne della psiche”, in Almanacco dei libri di la
Repubblica, 26 febbraio 2005, p. 36).
125
I. Calvino, Il barone rampante, cit., p. 776.
126
R. Graves, I miti greci, Milano: Longanesi, 2004, p. 30. La storia del
titano ribelle è narrata da Esiodo nella sua cosmogonia.
127
Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro (1922), Torino: Boringhieri 1973.
128
L. Coupe, op. cit., pp. 10-11.
129
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), Milano: Adelphi, 2000, p.
69.
130
Ivi, pp. 68-70.
131
F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 136-37.
356
IL CRIMINE PRIMORDIALE.
LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA
LETTERATURA
132
R. Calasso, “Monologo fatale”, in F. Nietzsche, Ecce homo. Come si
diventa ciò che si è, Milano: Adelphi, 2004, p. 166.
133
Ibidem.
134
G. Fornari, op. cit., p. 603.
135
Ibidem.
136
Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano:
Adelphi, 2006.
137
Sui Dialoghi con Leucò si vedano i contributi fondamentali di M. L.
Premuda, “I Dialoghi con Leucò e il realismo simbolico di Pavese”, in
Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Vol. XXVI (1957), pp.
221-49; E. Corsini, “Orfeo senza Euridice: i Dialoghi con Leucò e il
classicismo di Pavese”, in Sigma, n. 3-4 (1964), pp. 121-46; G. Guglielmi,
“Mito e Logos in Pavese”, in Letteratura come sistema e come funzione,
Torino: Einaudi, 1967, pp. 138-47.
138
Pavese, è il caso di ricordarlo, dirigeva presso Einaudi, in collaborazione
con Ernesto De Martino, la cosiddetta “Collana viola”, dedicata, appunto,
agli studi etnologici e antropologici.
139
B. Van den Bossche, “Nulla è veramente accaduto”. Strategie
discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese Firenze: Franco Cesati
Editore, 2001, p. 423. Da segnalare anche un breve testo teatrale del 1938, Si
parva licet, “che propone una riscrittura del mito biblico del peccato
originale e anticipa per certi versi l’operazione dei Dialoghi con Leucò”
(ibidem, p. 173). Di B. Van den Bossche si veda anche il più recente Il mito
nella letteratura italiana del Novecento: trasformazioni ed elaborazioni,
Firenze: Franco Cesati Editore, 2007.
140
M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Introduzione a Pavese, Bari: Laterza,
1992, p. 112.
141
Cfr. C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1999, p. 8.
142
Ivi, p. 9.
143
R. Graves, I miti greci, cit., pp. 186-87.
144
Ivi, p. 187.
145
M. Lavagetto (a cura di), Palinsesti freudiani. Arte letteratura e
linguaggio nei “Verbali” della società psicanalitica di Vienna 1906-1918,
Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. XXXVIII.
146
Per la genesi di questo modulo narrativo si vedano due importanti note del
Diario. Nella prima in data 1 Marzo 1940 si legge: “Perciò il protagonista se
racconta lui, dev’essere più che altro uno spettatore (Dostoevskij: “nel nostro
distretto, Moby Dick: ‘chiamatemi Ismaele’”). Se si racconta in prima
persona, è evidente che il protagonista deve sapere fin dall’inizio come la sua
avventura andrà a finire. A meno di farlo parlare al presente”. La seconda è in
data 16 Gennaio 1948: “La tendenza contemporanea a narrare in prima
persona è un inconscio conato verso la naturalezza che può vuole restare
pagina racconto non gesto. È un modo di rimbarbarirsi, il solo consentito ora
357
NINO ARRIGO
giacchè il teatro sa, da noi, troppo di schema accademico”. L’assoluta
adesione a questo modulo narrativo emerge in particolare da due luoghi del
romanzo: mentre al capitolo trentesimo Anguilla, ricordando il periodo
trascorso alla Mora con Silvia e Irene, fa riferimento ad una corsa di cavalli
in cui “aveva vinto un cavallo di Neive (cfr. C. Pavese, La luna e i falò, in
Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Torino: Einaudi, 2000, p. 887),
nel capitolo successivo, rievocando con Nuto lo stesso evento, dirà: “adesso
non mi ricordo più chi l’ha vinta” (Ibidem, pp. 890-91).
147
N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese, cit., p. 125. Ci permettiamo
di rimandare anche a N. Arrigo, Mito ed ermeneutica nella poetica
pavesiana, in Rivista di Studi Italiani, Anno XXV, n° 2, Dicembre 2007,
pp. 58-79.
148
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 77.
C. Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi a cura di Marziano
Guglielminetti, cit., pp. 872-73.
150
Ivi, p. 873.
151
Ivi, pp. 875-76.
152
Ivi, p. 877.
153
Ivi, pp. 890-91.
154
Ivi, pp. 895-96.
155
R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 200.
156
Cfr. Il dialogo “I fuochi”, pp. 95-98.
157
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 98.
158
P. Antonello, “Postfazione” a R. Girard, Il sacrificio (2002), Milano:
Raffaello Cortina, 2004, p. 105. Per le reinterpretazioni cristiane dei miti
greci si veda: H. Rahner, Miti greci nell’interpretazione cristiana,
Bologna: il Mulino, 1990.
149
358