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RIVISTA DI STUDI ITALIANI SAGGI E RICERCHE IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA NINO ARRIGO Università degli Studi di Messina I l tema del sacrificio sembrerebbe in grado di mostrarci – grazie alla sua massiccia presenza nelle due grandi tradizioni letterarie dell’occidente, quella biblica e quella greca (da Caino a Cristo, passando per Isacco, Edipo e Dioniso) – la paradossale compresenza di variazione e permanenza che costituisce l’essenza degli archetipi. Possiamo infatti considerare, le variazioni letterarie moderne e contemporanee di tale tema, nient’altro che “riscritture”1 o, per dirla con Genette, “ipotesti”, posti in relazione di iponimia nei riguardi di un “ipertesto”2. E un prezioso “ipertesto” è costituito, senza dubbio, da quella Bibbia, la cui scarsa conoscenza della sua tradizione ci condanna – come osserva Ceserani – “a percorrere le sale dei maggiori musei del mondo senza riconoscere i soggetti di una buona metà delle tele in esposizione, e ci condanna a leggere non solo i grandi testi delle letterature europee, da Shakespeare a Tolstoj a Joyce, ma anche quelli della letteratura italiana, da Dante al Tasso, ignorando uno degli strati più densi e potenti delle immagini e del linguaggio, oscurando una delle tradizioni e delle modalità letterarie più forti e compatte che li compongono” 3. Ora, se in ambito “globale” (Terra) – a partire da lavori ormai classici come quelli di Auerbach, che con Mimesis ha inaugurato un modello storiografico che si proponeva “di mettere in parallelo, cercare i momenti di interferenza fra tradizione classica e tradizione biblica”4, e proseguendo, in ambito angloamericano, con i fondamentali studi di Frye e Bloom (solo per citarne alcuni)5 – questa carenza sembra ormai essere superata; in ambito “locale” (Patria), nella “parrocchia” italiana delle lettere, la pessima conoscenza della tradizione delle Sacre Scritture (per “ragioni connesse alla storia della chiesa”6 – come fa notare Ceserani – che ne avrebbe bloccato la diffusione nelle scuole; ma, forse, anche per mancanza di sensibilità, da parte di tanta critica, nei riguardi del fenomeno) sembra ancora costituire un ostacolo insormontabile per una più profonda educazione letteraria 7. Ed è proprio la Bibbia – grazie alle “eccentricità” di quell’“Omero ebraico” (per dirla con Bloom)8 che è il cosiddetto autore Jahvista (o, più semplicemente, J) – a rivelarci alcune delle più compiute espressioni 316 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA letterarie del tema del sacrificio. Ecco appunto come “J”, attraverso la storia di Caino e Abele, ci offre la sua versione del “crimine primordiale”: Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: “Perchè sei irritato e perchè è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo”. Caino disse al fratello Abele: “Andiamo in campagna!”. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?” Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”. Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”. Ma il Signore gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!” Il signore impose a Caino un segno, perchè non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato9. L’autore “J” sembra quasi avere una perfetta consapevolezza dei rapporti che sussistono tra il sacrificio e la violenza. E, ancora, tra la violenza e l’origine della conoscenza umana. A partire dalla cosiddetta “teoria mimetica” (inaugurata da René Girard), sembrerebbe infatti possibile una teoria unitaria della conoscenza, proprio su basi “vittimarie”, a partire da quell’enigma costituito dalla vittima innocente 10. E sarebbe per l’appunto questo double bind di violenza e sacro a un tempo, di natura e cultura, a costituire – secondo Freud – il “punto di partenza a un tempo dell’organizzazione sociale, della religione e delle restrizioni etiche” 11. Un “doppio vincolo”, profondamente segnato dall’“ambivalenza” e da quella logica circolare dove è “criminale uccidere la vittima perché essa è sacra [...] ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse” 12. Non sfugge, infatti, a “J” quel meccanismo di “sostituzione” che permetterebbe alla prima, “mitica”, società (qui composta soltanto da Adamo, Eva, Caino e Abele, ossia genitori e figli) di deviare in direzione di “una vittima sacrificabile, una violenza che rischia di colpire i suoi stessi 317 NINO ARRIGO membri”13. Soltanto la violenza può ingannare la violenza. È qui che risiede, secondo Girard, uno dei significati della storia di Caino e Abele: Caino coltiva la terra ed offre a Dio i frutti del suo raccolto. Abele è un pastore; sacrifica i primi nati dei suoi greggi. Uno dei due fratelli uccide l’altro ed è colui che non dispone di quell’‘inganna-violenza’ costituito dal sacrificio animale. Tale differenza tra il culto sacrificale e il culto non sacrificale fa in verità tutt’uno con il giudizio di Dio in favore di Abele [...]. Nell’Antico Testamento e nei miti greci, i fratelli sono quasi sempre dei fratelli nemici. La violenza che sembrano fatalmente chiamati ad esercitare l’uno contro l’altro non può dissiparsi che su terze vittime, che sono vittime sacrificali [...]. Secondo una tradizione musulmana, è il montone sacrificato da Abele che Dio invia ad Abramo perchè lo sacrifichi al posto del figlio Isacco14. Pertanto nel racconto veterotestamentario, sarebbero già contenuti i prodromi di quel riconoscimento dell’innocenza della vittima, che avverrà, nella sua forma compiuta, soltanto col cristianesimo. Il Dio di Caino e Isacco si accontenta dell’“akedah”, dell’“offerta”, piuttosto che del sacrificio compiuto, della minaccia piuttosto che della castrazione. Il rituale corrispondente all’“akedah” è infatti – come nota acutamente Harold Fisch – “la circoncisione cioè la quasi perdita, non la castrazione” 15. Non è difficile scorgere, infatti, anche dietro i miti biblici (allo stesso modo di quelli greci) il paradigma frazeriano della fertilità, la storia del dio morente e redivivo. È il meccanismo ciclico della successione violenta a fare del dio morente il “capro espiatorio” “che porta via con sé la sterilità che altrimenti potrebbe danneggiare il raccolto”16. Ma il Dio dell’autore “J” non si limita a sostituire il sacrificio con l’offerta, è suo compito proteggere Caino da quel “processo infinito, interminabile” 17 che è la vendetta. E lo fa imponendogli un marchio, un segno che lo protegge18, evitando che si inneschi la spirale della violenza da cui potrebbe scaturire la “crisi sacrificale”. Non è difficile scorgere in questo atteggiamento – sempre con Girard – i prodromi del moderno sistema giudiziario, che non elimina la vendetta, bensì ne “allontana la minaccia” 19, limitandola ad una “rappresaglia unica il cui esercizio è affidato a un’autorità suprema e specializzata nel suo campo” 20. In tal senso potrebbe dirsi che anche “il religioso mira sempre a placare la violenza [...] per il tramite paradossale della violenza” 21. Caino dunque viene graziato, scampa al sacrificio, ma il suo destino sarà quello del fuggiasco, dell’errante, del “fuorilegge” 22. Sarà la sua fuga ad inaugurare l’erranza dell’umanità dalla dimensione della “natura” a quella della “cultura”; un vero e proprio “esilio ontologico”, in cui il nascondimento di Dio (l’Essere) nell’esistenza e la sua continua ricerca, saranno l’emblema stesso dell’erranza del popolo di Israele, l’emblema della condizione umana. Caino fu infatti “il primo che pose pietre divisorie intorno ai campi, che costruì città cintate di mura e costrinse la gente a stabilirvisi” 23, ed è sua “l’invenzione dei pesi e delle misure [che] mise termine alla semplicità degli 318 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA uomini”24. Egli sarà, insomma, l’emblema del pensiero logocentrico e metafisico, della sua violenza. Ma, a ben vedere, il gesto di Dio nei riguardi di Caino è del tutto “ambivalente”. Se, da un canto, lascerebbe infatti intravedere il superamento della logica sacrificale, andrebbe insomma nella direzione del cristianesimo; dall’altro, si potrebbe obiettare che il “violento” Caino è protetto solamente allo scopo, pragmatico, di scongiurare la spirale della “vendetta”, evitando la “crisi sacrificale”, e quindi non facendo altro che tutelare il sacrificio come fondamento della società. E ci sembra la stessa “ambivalenza” insita nel pensiero di Girard, quella che offrirebbe il destro a Vattimo per un’interpretazione in chiave laica del suo pensiero e che vedrebbe nel cristianesimo l’alba della “desacralizzazione del sacro”; aprendogli persino delle prospettive e degli sviluppi (come nell’auspicio di Vattimo) “fuori dalla religione”. Ma ecco, a questo punto, il racconto, la “riscrittura”, che del “crimine primordiale” ci offre il “padre” della psicanalisi. Il ragionamento di Freud muove dall’ipotesi darwiniana che gli uomini delle origini vivessero in orde: Il padre dell’orda primordiale, da despota incontrastato qual era, si era riservato il possesso esclusivo di tutte le donne, uccidendo e cacciando i propri figli che riteneva pericolosi rivali. Un giorno però i figli, riunitisi insieme presero il sopravvento e dopo aver ucciso il padre, che era al tempo stesso il loro nemico e ideale, ne divorarono insieme le spoglie mortali. Dopo questa azione criminosa nessuno di loro poté assumersi l’eredità paterna, poiché ciascuno lo impediva all’altro [...] in un clan fraterno retto dalle prescrizioni del totemismo che garantivano che una simile impresa non si sarebbe ripetuta mai più, e rinunciarono di comune accordo al possesso delle donne, a causa delle quali avevano ucciso il padre. Essi potevano ora unirsi soltanto alle donne estranee ai clan. È questa l’origine dell’esogamia e del suo intimo nesso col totemismo. Il banchetto totemico rappresentava la solenne commemorazione dell’impresa mostruosa dalla quale era derivato l’umano senso di colpa (o peccato originale), punto di partenza a un tempo dell’organizzazione sociale, della religione e delle restrizioni etiche 25. È questo il testamento freudiano che risale all’epoca di Totem e tabù (1913), cui spetta senza dubbio il merito – come giustamente mette in evidenza Girard – di una “formidabile scoperta”, quella con cui viene affermato, per la prima volta, “che ogni pratica rituale, ogni significato mitico ha la sua origine in un’uccisione reale”26. Ma sfuggirà a Freud, nel tentativo ostinato di risolvere l’enigma del primo crimine della storia, il vero meccanismo, la “funzione” della “vittima espiatoria”. L’uccisione del padre non sarà in grado di svelare, infatti, quel meccanismo di “sostituzione” che devia la violenza della comunità verso una “vittima innocente”, per placare la violenza stessa. “Per conciliare la funzione 319 NINO ARRIGO con la genesi, per svelarle completamente l’una per mezzo dell’altra, occorre impadronirsi della chiave universale che Freud elude sempre: solo la vittima espiatoria può esplorare tutte le esigenze a un tempo” 27. L’influenza di Frazer sull’analisi freudiana, sembra evidente: Innanzitutto perchè il padre sta al figlio come il dio morente sta al dio che risuscita. In secondo luogo, perchè si mostra la comunità che attinge all’energia del patriarca per mezzo della magia. Tuttavia, il contributo radicale di Freud sta nell’avere introdotto il fattore psicologico. L’uccisione del padre primordiale suscita un rimorso talmente forte che il gruppo fa del patriarca il proprio totem [...] il pasto totemico, l’atto di cibarsi dell’animale in forma rituale come se fosse il padre, è diventato il fulcro del clan totemico, che succede all’orda primitiva. Con il totem arriva il tabù: la proibizione, per ovvie ragioni, tanto del parricidio che dell’incesto. La logica del rimorso porta alla trasformazione del venerato totem-padre in un dio, mentre il pasto totemico diventa un rito vero e proprio. La cultura umana è cominciata, e con essa, simultaneamente, è cominciata la colpa, la repressione e la religione28. Siamo, qui, di fronte al Freud erede dell’illuminismo e del positivismo, del “giudaismo normativo”, piuttosto che della “gnosi ebraica” 29, quello che all’immagine dell’esule errante, della vittima innocente, preferisce quella del padre despota. Quello che alla “passione divorante per l’interpretazione” 30 preferisce la sterile tenacia e l’ostinazione del dogma. Quello, ancora, che riduce l’energia desiderante dell’inconscio alle “nefandezze” di Edipo. Sarà questo Freud ad offrire il destro alla “provocazione” di Deleuze e Guattari, nata appunto “per far saltare Edipo, e destituirlo dalla sciocca pretesa di rappresentare l’inconscio, di triangolarlo, di captare tutta la produzione desiderante”31, per porre fine alla sua “straordinaria repressione delle macchine desideranti” 32. Il tema del sacrificio – con tutto il suo carico di ambivalenza, dove natura e cultura, violenza e sacro, “amore e morte”, sembrano convivere insieme – è, senza dubbio, uno degli indiscussi protagonisti del romanzo americano. Il quale appare a tal punto segnato, nei suoi risvolti intertestuali, dall’immaginario biblico (la Bibbia potrebbe quasi costituire una sorta di “propedeutica” alla narrativa americana, una delle “letture consigliate” al bravo studioso che vi si voglia accostare, curioso di carpirne i misteri), che risulterebbe davvero imbarazzante isolare una letteratura ebraico-americana (filone, peraltro, molto fertile e di indiscussa importanza, soprattutto nel Novecento) da una letteratura americana tout court. Ed è proprio Caino ad adombrare – insieme ad una fitta serie di ribelli e “reietti leggendari”33: Prometeo, “Giuda e l’Ebreo Errante, Faust e Lucifero stesso”34. travestiti da fanciulli fuggiaschi – il prototipo del protagonista della narrativa d’America. Ecco come Leslie Fiedler – “il ‘critico-contro’ delle 320 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA lettere americane” 35 getta luce sulle peculiarità del romanzo americano, in un indimenticabile “ritratto” che è ormai un classico della critica: Sotto un certo aspetto la nostra narrativa si distingue a prima vista da quella europea, sebbene questo sia un fatto che gli americani (i quali si trovano stranamente a disagio e sulla difensiva al riguardo) sono restii a confessare. In questo senso, i nostri romanzi appaiono non primitivi, forse, ma ingenui, innocenti in una maniera sconcertante, quasi infantili. È notorio che i capolavori della narrativa americana trovano generalmente posto nel reparto per bambini della biblioteca, e che il loro livello di sentimenti è proprio quello di un ragazzo non ancora adolescente [...]. Un Baudelaire, un Marchese de Sade [...] sono inconcepibili negli Stati Uniti. I nostri “fiori del male” vengono colti per il mazzolino della bambina, i nostri romanzi macabri (Moby Dick, The Scarlet Letter, Huckleberry Finn, Il diavolo nel campanile) sono inclusi negli elenchi dei libri approvati dai vari comitati di genitori che fanno tante storie sugli ultimi giornalini a fumetti. Se questi censori non provano ripugnanza di fronte alla necrofilia, né rabbrividiscono leggendo il libro il cui motto segreto è “Io ti battezzo non nel nome del Padre, ma nel nome del Diavolo” [...], questa è solo un’altra delle ironie della vita, in un paese dove gli scrittori credono all’inferno, e i custodi ufficiali della moralità non ci credono. Finché non si tratta di sesso!36 Di questo carico di ambivalenza, connesso al tema del sacrificio, è testimone, al culmine del cosiddetto “Rinascimento americano” 37, quel Moby Dick di Herman Melville che38, per via della sua forma ibrida (contiene infatti, al suo interno, parti teatrali e persino capitoli di divulgazione scientifica) ed “enciclopedica”, merita senza dubbio di entrare nel novero delle “opere mondo”39. La consapevolezza “vittimaria” melvilliana si rivela fin dagli esordi della narrazione. Sarà, infatti, lo stesso narratore – l’orfano, il “viandantefuggiasco” Ismaele – a confidare al lettore, con “la schiettezza del coro”40, che la chiave del “dramma”, “la chiave di tutto”, risiede nel mito di Narciso: Perché gli antichi Persiani temevano il mare per sacro? Perché i Greci gli fissarono un dio a parte, e fratello di Giove? Certamente tutto ciò non è senza significato. E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine la vediamo in tutti i fiumi e gli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto 41. Il viaggio di Ismaele si configura come un viaggio in mare, la zona della 321 NINO ARRIGO colpa, del rimosso e del complesso di Edipo. “Un viaggio nel passato che turba dunque, ma non per rimanerci” 42, alla “catabasi”, infatti, seguirà l’“anastasi”43. Sarà l’ambiguità dell’elemento acquatico 44, la sua ambivalenza fatta di vita e di morte a un tempo – gli abissi marini vedranno salvare Ismaele e perire l’empio capitano Ahab – a riflettere su Ismaele il mistero della vita, “la chiave di tutto”, l’ambigua verità – fatta di innocenza e di colpa a un tempo – della vittima; che è l’ambigua verità della violenza racchiusa in ogni uomo. Il tema del sacrificio percorre l’intero sviluppo del testo, dalle “macrostrutture” del suo plot, alle “microstrutture” dei suoi “luoghi” e delle sue digressioni. È lo spirito di vendetta, infatti, a innescare la caccia di Ahab alla Balena Bianca che lo ha orrendamente mutilato. Quando, prima di affrontare la caccia finale, l’empio capitano battezza il suo rampone col sangue dei ramponieri, la scena – paradossale – sembra evocare un rito di esorcismo alla rovescia, una sua parodia; assimilabile a quella che Girard definisce un’“antifesta”: Foggiato alla fine in forma di freccia e saldato da Perth nell’asta, l’acciaio presto appuntì l’estremità del ferro, e il fabbro che stava per dare alla lama l’arroventata finale prima di temprarla, gridò ad Ahab di portargli vicino la botte dell’acqua. – No, no, non acqua per questo; lo voglio di vera tempra mortale. Oè, la! Tashtego, Quiqueg, Deggu! Cosa dite, pagani? Mi darete tanto sangue da coprire questa punta? – e la levò in alto. Un gruppo di cenni foschi rispose di sì. Si fecero tre punture sulla carne dei pagani e la lama della Balena Bianca venne così temprata. – Ego, non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli! – gridò Ahab in delirio, mentre il ferro malvagio divorava ardendo il sangue battesimale45. La scena – preludio al “tragico” epilogo della vicenda, che vedrà la morte di Ahab e l’inabissamento del Pequod – appare, in realtà, ricca di spunti umoristici, all’insegna di quel double bind di comico e tragico insieme, che ci sembra costituire la cifra essenziale dell’umorismo proprio del mito. È del tutto paradossale, infatti, chiedere del sangue in luogo dell’acqua, per temprare un rampone. Siamo di fronte ad un vero e proprio rito di esorcismo, dove in luogo di scacciare il diavolo, ne si invoca piuttosto la presenza; a testimonianza di un ulteriore capovolgimento umoristico. Qui, come nell’“antifesta”, “il saturnale si è mutato nel suo contrario, il baccanale è diventato quaresima, ma il rito non ha cambiato scopo” 46. Lo scopo rimane, infatti, sempre quello di “sostituire” il sacrificio. Ma qui, la “sostituzione”, la messa in scena parodica del sacrificio, con tanto di spargimento di sangue, non sarà sufficiente a placare la sete di vendetta che tormenta l’empio capitano. Il suo “delirio” – assimilabile ai fenomeni di trance tipici del dionisismo, che lo spingerà a celebrare un battesimo 322 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA blasfemo in nomine diaboli, piuttosto che in nomine patris – non è certo assimilabile ad una matrice, per così dire, “liberale” del dionisismo; non sembra corrispondere, per intenderci, ai rituali liberatori connessi alle pratiche del neotarantismo 47. Ahab è, infatti, un discendente diretto della stirpe maledetta di Caino, la sua sete di vendetta è figlia dell’impostazione logocentrica e metafisica del pensiero; il suo peccato è quello del biblico fratricida, di cui reca il marchio impresso nella carne: un segno sottile come una bacchetta, di un biancore livido, si apriva di tra i capelli grigi e continuava dritto da un lato della faccia e del collo abbruciacchiati, finché scompariva negli abiti48. Ad Ahab non resterà, dunque, che andare incontro al suo tragico destino: A te vengo, balena che tutto distruggi ma non vinci: fino all’ultimo lotto con te; dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio, vomito a te l’ultimo mio respiro. Che ogni bara e ogni carro affondi in un pozzo comune! e poiché queste cose non sono per me, che io ti trascini in pezzi, dandoti la caccia, benché legato a te, balena dannata! Così! Lancio il lancione! Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far faville la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Ahab si piegò a disimpegnarla, la disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i Muti Turchi strangolano la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio si accorgesse che non c’era più49. Il dramma dell’empio capitano si chiude, pertanto, con una scena dalla comica plasticità. Ahab, “il vecchio indemoniato [...] viene strozzato dalla lenza del suo stesso rampone conficcato nei fianchi del mostro, strappato alla sua lancia in un volo verso il nulla”50. La morte di Ahab non può allora che evocare lo sparagmos, o strazio del corpo dell’eroe; uno dei quattro aspetti, secondo Frye, del mito della ricerca, dove avviene che “il corpo dell’eroe talvolta viene diviso tra i suoi seguaci come nel simbolismo eucaristico, oppure sparso per il mondo come nelle storie di Orfeo e più specialmente di Osiride” 51. A rivelare tale situazione è l’onomastica. Ahab reca, infatti, il nome dell’empio re veterotestamentario, di cui si dice che i cani leccarono il sangue (a testimonianza del suo strazio). Secondo Frye lo sparagmos, “o il senso che l’eroismo e l’azione fruttuosa siano assenti o male organizzati o destinati alla sconfitta, e che la confusione e l’anarchia regnino nel mondo, è il tema archetipo dell’ironia e della satira”52. 323 NINO ARRIGO Il tragico sparagmos di Ahab (dalla forza terribilmente comica) non può che evocare lo smembramento di Dioniso. Come ci ricorda Elémire Zolla, a proposito della visione mistica della rosa: dal punto di vista metafisico la tragedia è comica, la comicità tragica. Fra i due punti estremi dell’immaginativa, la Visione della Rosa e il sogno selvaggio, il sacrificio tragico è sentito quasi universalmente come il punto di mediazione. I Greci lo espressero in termini che perdurano. La rosa può essere impersonata da Apollo sole che guida il coro delle Muse, ma Apollo, l’unità, fu moltiplicato, smembrato in figura di Dioniso 53. Ma alla morte seguirà – in ossequio allo schema ciclico connesso al paradigma della fertilità – la resurrezione; come alla “catabasi” segue l’“anastasi”, al dionisiaco segue sempre l’apollineo. Al naufragio di nave, equipaggio e capitano, scamperà – unico sopravvissuto – Ismaele (l’epilogo reca un verso del libro di Giobbe: “E io solo sono scampato a raccontartela”); salvato da una scialuppa dalla curiosa forma di bara (precedentemente costruita da Quiqueg) 54: Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte andai alla deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani disarmati mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno, una vela s’avvicinò e finalmente mi raccolse. Era la bordeggiante “Rachele” che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano 55. Il libro, dunque, non ricostruisce nessun centro, nessun ordine, si chiude con la parola “orfano” – posta in posizione enfatica – a definire la condizione di Ismaele; il quale, portando “il nome del padre della tribù dei selvaggi abitatori del deserto, sarà l’errante composito e definitivo. La sua immortalità sarà quella di Assuero, lo stanco sopravvissuto, ma anche quella di Elia: testimone, profeta e intercessore di salvezza”.56 Il suo destino – che lo vuole errante attraverso il mare del tempo ad annunciare la verità dell’esistenza (la sua saggezza è quella del mistico cristiano e la sua vocazione alla ricerca assomiglia a quella dell’ “oltre-uomo” nietzscheano) – adombra quello di Edipo, di Ulisse e del vecchio marinaio di Coleridge (la bara che lo trae in salvo è lo straordinario simbolo della sua “vita in morte”), ed è il destino dei poeti e degli artisti. Ancora Zolla: È sempre il medesimo archetipo che [...] stringe in un nodo la tragedia e il sacrificio, la morte e la resurrezione, prescrive inflessibilmente le prove all’eroe: purgazione, vomito, denudamento, graffiatura, digiuno, sete, veglia, flagellazione, amputazione, la discesa sottoterra, l’immersine nell’acqua, il salto e la trasvolata per l’aria, il contatto col fuoco. A questo schema archetipico dell’iniziazione attraverso la tragedia sacrificale si aggrappa l’uomo smarrito e angosciato vi proietta trasfigurandole le sue 324 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA traversie e i suoi rovesci [...]. Resta il pericolo che l’io debba pagar caro, con un delirio di grandezza, le trasposizioni consolatorie; per scongiurare l’inflazione dell’io si è perciò spesso inserita nella tragedia la commedia: con le gherminelle dei bricconi divini, dei buffoni esorcisti [...] il briccone divino, il sacro pagliaccio adempiono ad un supremo ufficio: non c’è parola, gesto, segno che i loro lazzi non intacchino, non c’è presunzione puramente esteriore che non crolli davanti alla loro magia beffarda57. Al delirio di empietà di Ahab seguirà, dunque, il controcanto comico di Ismaele che, quasi come in una beffarda pagliacciata si salverà in una bara. Come un “sacro pagliaccio”, un briccone divino 58, un artista-stregone portatore della conoscenza della metamorfosi, la figura di Ismaele prelude già a quella del protagonista dell’ultimo dei romanzi melvilliani: il camaleontico “Uomo di fiducia”, il cui travestitismo non potrà, ancora una volta, che evocare quello di Dioniso. Anche la dialettica Ahab-Ismaele – espressione della scissione dell’io melvilliano – sembra trovare riscontro nella logica sacrificale della tragedia. Allo stesso modo delle Baccanti di Euripide – dove “i rapporti tra i doppi, Dioniso e Penteo, sono reciproci, a doppio senso” 59, quasi a comporre, come sostiene Fornari, “un vero e proprio sistema binario, il sistema DionisoPenteo”60 – anche in Moby Dick si potrebbe, pertanto, individuare un sistema Ahab(Penteo)-Ismaele(Dioniso). La prospettiva del teatro tragico – con la sua “visione spettacolare dei doppi mimetici”61, così lontana dalla prospettiva separatrice della vita di tutti i giorni dove, riducendo drasticamente la complessità del reale, “si entra nel mondo dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’”62 potrebbe offrire in tal modo un contributo decisivo alle analisi critico-letterarie dei sistemi dei personaggi e della soggettività autoriale. Basti ricordare l’analogia – sostenuta da Foucault – tra la scrittura e il sacrificio. Potremmo, in aggiunta, evocare quella sostenuta da Blanchot, tra lo scrittore e il suicida63, segnatamente per rafforzare la parentela, indissolubile, tra la letteratura e l’indefinito, la disindividuazione dionisiaca, la morte (intesa come apertura alla possibilità). E, ancora, la parentela, un vero e proprio “doppio vincolo”, della rappresentazione con il suo scacco, la sua crisi. Come suggerisce Fusillo – rifacendosi alle teorie dell’inconscio di Matte Blanco – ci potrebbe infatti essere un analogo tra lo smembramento dionisiaco, la violenza sacrificale e la logica “asimmetrica” della coscienza, quindi della razionalità del logos e della rappresentazione, che non farebbe altro che riproporre – per ritornare a Nietzsche – il “doppio vincolo” tra Dioniso: la forza, e Apollo: la struttura, l’individuazione: Si può suggerire che questo mitema dello smembramento richiama anche alla mente alcuni punti nodali del pensiero matteblanchiano: 325 NINO ARRIGO nell’Inconscio come insiemi infiniti leggiamo che “l’esercizio stesso dell’attività asimmetrica può essere visto come una forma di aggressività”, e che la nascita dello spazio tempo e dell’individualità sono quindi il frutto di separazione (simbolicamente: di separazione dalla madre) e di violenza aggressiva. Elementi che la terribile scena euripidea dello sparagmos, quasi un esempio di teatro antico della crudeltà, potrebbe riecheggiare64. Gran parte dell’arte contemporanea avrebbe una parentela con il dionisismo (paradossalmente per via del razionalismo logocentrico), nella misura in cui sancisce la crisi della rappresentazione e si avvicina al nulla del Linguaggio, raccontandoci la sua “afonia”. Dal celebre gesto, tramite il quale Duchamp introduce un orinale in un museo, facendo così del “materiale grezzo dell’arte [...] il fatto in sé, l’evento”65; passando per il “teatro della crudeltà” di Artaud e le tele di Francis Bacon, entrambi rappresentazione del “corpo senza organi” (vuoto come la vittima svuotata dalle sue viscere) di cui ci parlavano Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo; al romanzo del Novecento, caratterizzato da quell’ “invasione dei brutti” – in quanto espressione dell’inconscio, dell’“altro” e quindi del dionisiaco – che Giacomo Debenedetti descrive splendidamente, in pagine di critica memorabile 66. Il tema del sacrificio – in Moby Dick – è inoltre visibile grazie all’introduzione del mito di Giona (a partire dal sermone di padre Mapple)67, il profeta biblico che, cercando di sfuggire alle proprie responsabilità di fronte a Dio, si rifugia nella stiva di una nave per sfuggire alla tempesta; spingendo così i marinai a buttarlo negli abissi, dove viene inghiottito da un pesce. Anche Giona – allo stesso modo di Edipo, Narciso, Ahab – pecca, dunque, di empietà; è innocente e colpevole a un tempo. Carl Gustav Jung individuò, partendo dal racconto biblico, un “complesso di Giona e della balena”, dove la regressione nell’“oceano” della vita istintiva, simbolo dell’esistenza prenatale, è il sintomo del rifiuto delle responsabilità connesse al ruolo paterno68. Harold Fisch segnala, inoltre, che la “discesa” di Giona nel ventre della nave e la sua successiva “discesa” nel ventre della balena […] siano omologhe alle storie antiche implicanti la discesa dell’eroe agli inferi per sconfiggere le forze del caos. E alle spalle di tutte le storie di questo tipo c’è l’allusione all’oceano o agli inferi quale “milieu primordiale dove ha inizio la vita”. “Il pesce inoltre, con le sue connotazioni di vita e di fecondità, rafforza l’analogia con il ventre materno e acquista un significato radicato nelle misteriose origini della vita”69. Il mito di Giona, come nota giustamente Enzo Paci, “è la chiave del romanzo di Melville”70. Anch’esso è visibile nella doppia prospettiva di Ahab e Ismaele. Entrambi, infatti, compiono un ritorno, che si configura come un ritorno nella zona del rimosso, nell’inconscio; allo stesso modo di Giona la 326 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA “regressione” di Ismaele si presenta come un viaggio in mare e, allo stesso modo di Giona, Ahab, prima di lanciare la sua sfida alla Balena Bianca, è rinchiuso nella stiva, la pancia della nave. Ma, mentre per quest’ultimo, il ritorno nel passato che turba è fonte d’ulteriore turbamento, turbamento che genera aggressività e atteggiamento di sfida e di lotta estrema all’esistenza – materializzata nella caccia alla Balena, ma che si rivela come la lotta alla riemersione del proprio rimosso, dell’“altro” in termini junghiani – , per il primo, invece, la regressione nella zona originaria del trauma edipico è un modo per rivalutare positivamente la propria esistenza. Per Ismaele, come per Giona, “la balena non è la fatalità del male, ma la possibilità del bene, la possibilità di trasformare il negativo in positivo”71. Quando – nell’episodio intitolato (emblematicamente) “Il reietto” – il piccolo negretto soprannominato Pip finisce in mare, il suo destino sembra appunto evocare quello di Giona. Ed è il destino di tutte le vittime innocenti: L’involontario terrore di quell’attimo fece saltare Pip, remo e tutto, fuori dalla lancia, in modo tale che, presentandoglisi innanzi al petto parte della lenza allentata, egli la spinse fuoribordo con sé, tanto da trovarsene imbrogliato quando alla fine piombò in acqua [...]. Non appena si fu rimesso, il povero moretto venne assalito dagli urli e dalle esecrazioni di tutto l’equipaggio72. La scena qui descritta, sembra proprio evocare il linciaggio della folla nei riguardi della vittima espiatoria, di cui Pip sembrerebbe proprio assommare tutte le caratteristiche. Viene infatti descritto come “troppo sottile”, “impacciato”, “timido”, ma anche “geniale”. Tutti attributi che rimandano al cliché del pharmakos, della vittima innocente. Nell’immaginario greco, “spesso l’uomo che abbia anomalie o segni sugli arti inferiori è caratterizzato da una mente astuta e da capacità quasi magiche di comprendere e operare sulla realtà”73. E sarà proprio questo il nesso tra i “piedi gonfi” di Edipo e le sue doti di geniale risolutore di enigmi. Pip si salverà, perdendo però la ragione e vestendo i panni, nel prosieguo del “dramma”, del fool shakespeariano; dello “schizo”, per dirla con Deleuze e Guattari. Sarà proprio Pip il controcanto umoristico (comico e tragico insieme) al tragico delirio di Ahab. Non è un caso, infatti, se l’episodio del battesimo blasfemo del rampone, si chiuda – all’uscita di scena di Ahab – con la “beffarda”, eppure “tristissima”, risata del piccolo neretto: Ma prima che entrasse nella cabina [Ahab], un suono leggero, innaturale, mezzo beffardo, eppure tristissimo, si fece udire. Oh! Pip, la tua disgraziata risata, il tuo occhio ozioso ma irrequieto, tutti i tuoi gesti bizzarri, non senza significato si mischiavano alla nera tragedia della nave malinconica, canzonandola!74 327 NINO ARRIGO In un recente film del regista australiano Peter Weir, Master and Commander – tratto dalla saga di Patrick O’Brian, che vede protagonisti il capitano Jack Aubrey e il medico Stephen Maturin, ma che certamente non ignora, tra i suoi riferimenti “intertestuali”, la narrativa melvilliana – il mito di Giona serve per l’appunto ad esplicitare il tema del sacrificio 75. Anche qui, infatti, la folla dei marinai in preda al parossismo del linciaggio, si scaglia contro l’ufficiale Hollom (che, per via delle sue caratteristiche, sembra incarnare alla perfezione “l’archetipo” del pharmakos: è infatti timido, impacciato e geniale, alla maniera del Pip melvilliano) – ritenuto come Giona colpevole delle disgrazie dell’equipaggio – costringendolo ad “immolarsi”, al fine di ripristinare l’equilibrio della nave (la “società” in preda alla “crisi sacrificale”). A distanza di quarant’anni da Moby Dick, nel suo ultimo racconto, quasi dal sapore di un testamento – Billy Budd, marinaio – la consapevolezza melvilliana in materia sacrificale sembra quasi raggiungere i livelli dei grandi tragici greci. Per esprimere la lotta archetipica tra la generazione dei padri e quella dei figli – che affonda le proprie origini nel “crimine primordiale”, ma che allunga drammaticamente la sua ombra nella dimensione storica – Melville “ci rimanda al racconto biblico del sacrificio d’Isacco” 76. Anche nel racconto melvilliano, infatti, allo stesso modo dell’episodio biblico del Genesi, “un ‘padre’, il Capitano Vere, sacrifica il figlio, ‘Billy Budd’, sull’altare della legge e della tradizione”77. Ma la trama dei riferimenti intertestuali non si limita a comprendere l’episodio biblico; si arricchisce, piuttosto – e in maniera persino più matura che in Moby Dick e in Pierre – delle suggestioni dei miti greci, quasi a mostrare una perfetta consapevolezza dell’esperienza dei grandi tragici78. Il destino del giovane marinaio, sembra infatti coincidere con quello di Edipo. Anche Billy, alla stregua dello sventurato figlio di Laio, è alle prese con un enigma da decifrare79. E, allo stesso modo di Edipo, sarà un oracolo a rivelargli che il mistero della sua sventura, l’enigma (il “mistero d’iniquità”) in cui si trova avvolto, è l’enigma delle radici sacrificali della conoscenza, l’enigma della violenza del crimine originale; l’enigma, ancora, della vittima innocente: Turbato dunque dal suo piccolo guaio misterioso, Billy, andando in cerca del vecchio raggrinzito, lo trovò mentre, fuori servizio durante un gaettone, rimuginava tra sé, seduto su una cassa di munizioni del ponte superiore di batteria, osservando di tanto in tanto con un’aria alquanto cinica alcuni dei marinai più spavaldi che passeggiavano laggiù. Billy espose il proprio guaio, chiedendosi di nuovo come mai fosse accaduto tutto questo. Il veggente marino ascoltò con attenzione, accompagnando il racconto del gabbiere con bizzarre contorsioni delle rughe e piccoli balenii problematici dei suoi occhietti da furetto. Terminando il racconto, il gabbiere chiese: “E adesso, Danese, dimmi per favore che cosa ne 328 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA pensi”. Il vecchio, levando la tesa del suo cappello impermeabile e fregandosi lentamente la lunga cicatrice obliqua nel punto in cui si congiungeva con i capelli, disse laconico: “Bimbo Budd, Piedipiatti” (e si riferiva al capo d’armi) “ce l’ha con te”80. Gli attributi con i quali viene descritto il vecchio danese (“veggente marino”) sembrerebbero rimandare alla figura mitologica di Proteo, “un ‘vecchio del mare’ dalle virtù profetiche” 81, le cui capacità di assumere forme diverse, potrebbero evocare – in chiave metanarrativa – le capacità metamorfiche del mito e del Linguaggio. Ma allo stesso tempo, la figura del danese non può non evocare quella dell’indovino Tiresia, che nella tragedia sofoclea rivelerà l’atroce destino di Edipo. La sua cicatrice, sembrerebbe inoltre rimandare, ancora una volta (come già in Ahab), al marchio di Caino; quasi a confermare che l’oscura verità dell’enigma sarebbe quella della violenza del linciaggio scagliato contro la vittima. A testimonianza della funzione oracolare del vecchio marinaio, ecco come il narratore descrive la sua reazione alla seconda interrogazione da parte di Billy: Ascoltando la versione di Billy, il savio danese parve divinare più di quanto venisse detto [...] era sua abitudine ripiombare in un silenzio truce quand’era interrogato con aria scettica su qualche suo oracolo sentenzioso, non sempre chiarissimo, non molto esente da quell’oscurità che ammanta tutti i responsi delfici, da qualsiasi parte provengano82. La rivalità tra Billy e il maestro d’armi Claggart sembra inoltre assumere, fin dalle sue prime avvisaglie, le caratteristiche della “rivalità mimetica”: Ora, inventare qualcosa che si riferisce alle vicende più private di Claggart, qualcosa che coinvolgesse Billy Budd, qualcosa che quest’ultimo ignorasse totalmente, qualche incidente romanzesco che implicasse che la conoscenza della giovane giubba azzurra da parte di Claggart risaliva a un periodo precedente a quello in cui s’era accorto di lui a bordo della “settantaquattro” – tutto questo, e non sarebbe un’impresa difficile, potrebbe servire in maniera più o meno interessante a spiegare quanto di enigmatico può sembrare celarsi in questo caso. E tuttavia l’unica ragione plausibile cui è necessario ricorrere è, nel suo stesso realismo, satura di quell’ingrediente fondamentale dei romanzi di Anne Radcliffe, il mistero [...]. Che cosa è infatti più intriso di mistero di un’antipatia profonda e istintiva quale quella suscitata in certe creature eccezionali dal semplice aspetto di qualche altra creatura, per innocua che questa possa essere, quando ancora non sia provocata da quella stessa innocuità? Orbene, non può esservi una contiguità esasperante di personalità dissimili paragonabile a quella riscontrabile a bordo di una 329 NINO ARRIGO grossa nave da guerra con l’equipaggio al completo e in mare aperto. Colà, ogni giorno, in tutti i gradi, quasi tutte le persone vengono a contatto con quasi tutti gli altri. Per evitare del tutto anche la sola vista di un oggetto fastidioso, non vi è nient’altro da fare che buttarlo in mare come Giona [...]83. La rivalità scoppiata tra i due uomini all’interno della nave è ancora messa in evidenza – attraverso un’isotopia semantica – in termini di “enigma” e di “mistero”. Ma il finale del brano, con l’allusione a Giona, getta sull’enigma la luce della vittima innocente. La violenza della folla che si scaglia contro Giona è arbitraria, non si chiarisce in termini di innocenza o di colpevolezza, è la violenza che la società (in questo caso la nave) cerca di sviare in direzione di una vittima “sacrificabile”, al fine di riottenere il suo equilibrio perduto attraverso la “crisi sacrificale”. È il bell’aspetto di Billy, infatti, a innescare l’invidia di Claggart: L’aspetto di Billy, tuttavia, era eroico; e se il suo viso non aveva l’aria intellettuale che aveva il pallido Claggart, era però acceso, come il suo, dall’interno, anche se da una diversa sorgente. Il falò del suo cuore illuminava il rosa abbronzato delle sue guance [...]. Orbene, l’invidia e l’antipatia, passioni non conciliabili secondo ragione, possono però di fatto scaturire unite come Chang ed Eng in un’unica nascita. È dunque l’invidia un tale mostro? [...] Ma quella di Claggart non era una forma volgare di tale passione [...]. L’invidia di Claggart colpiva più a fondo. Se guardava di sbieco il bell’aspetto, l’allegra salute e la gioia schietta della vita giovanile in Billy Budd, era perchè queste doti si accompagnavano a una natura che, Claggart lo avvertiva magneticamente, non aveva mai nella sua semplicità, conosciuto la malizia o provato il morso sconvolgente di quella serpe. Per lui, lo spirito che albergava in Billy e che si affacciava dai suoi occhi di cielo come da finestre, era quell’ineffabilità che creava fossette sulle sue guance colorite, rendeva docili le giunture e, danzando tra i riccioli biondi, ne faceva per eccellenza il Bel Marinaio 84. Torna, qui, un’opposizione ricorrente in tutta la narrativa melvilliana, quella tra testa e cuore, istinto (Billy) e ragione (Claggart), natura e cultura 85; ma che si arricchisce dell’ambivalenza tipica dell’impostazione tragica. La bellezza di Billy sembrerebbe evocare anche il Dioniso delle Baccanti di Euripide, il dio dell’ebbrezza, anch’esso rappresentato da un giovane efebo, il cui fascino ha il potere di sconvolgere l’assetto costituito della società, annullando tutte le opposizioni binarie, risolvendo le polarità in ambivalenze e innescando il disordine della “crisi sacrificale”. 330 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA Quando, infatti, al cospetto del capitano Vere, Billy è costretto a difendersi dalle accuse mossegli da Claggart, la vittima diventerà carnefice, e i confini tra l’innocenza e la colpa non saranno più distinguibili in maniera netta: Quando dunque il gabbiere si ritrovò in cabina, rinchiuso, per così dire, con il capitano e con Claggart, rimase abbastanza sorpreso. Ma era una sorpresa priva di apprensione o di sospetto [...]. Quando capì, il rosa abbronzato delle sue guance parve come colpito da una lebbra bianca. Rimase fermo, come se fosse legato a un palo e imbavagliato [...]. “Parla, marinaio!” disse il capitano Vere al giovane inchiodato [...]. L’invito però portò soltanto a uno strano muto gesticolare e gorgogliare di Billy: lo sbalordimento che aveva assalito all’improvviso la sua giovinezza inesperta davanti a tale accusa, assieme, forse, all’orrore per gli occhi dell’accusatore, valse a far insorgere il suo difetto latente e, in questo caso, a intensificarlo momentaneamente fino a una vana e convulsa paralisi della lingua; mentre la testa e tutto il corpo, tesi allo spasimo, nell’agonia d’un impotente desiderio di obbedire all’ingiunzione di parlare e di difendersi, conferivano al suo volto un’espressione simile a quella di una vestale condannata nell’attimo di venir sepolta viva, che cominci a lottare contro il soffocamento [...]. Avvicinandosi al giovane marinaio e ponendogli una mano sulla spalla per calmarlo, [il capitano Vere] disse: “Non c’è fretta, ragazzo mio. Fai con calma”. Contrariamente all’effetto che si proponevano, queste parole dal tono così paterno, che certo toccavano Billy nel profondo del cuore, causarono sforzi ancora più violenti per esprimersi – sforzi che finirono ben presto per confermare la temporanea paralisi e che confermarono al suo volto un’espressione come di un uomo in croce. Un attimo dopo, rapido come la vampata di un cannone che spari nella notte, il suo braccio scattò in avanti e Claggart crollò sull’assito. Fosse per intenzione o per la maggior altezza del giovane atleta, il colpo aveva centrato in pieno la fronte, così ben fatta e dall’aria intelligente, del capo d’armi; sicché il corpo cadde lungo e disteso, come una trave pesante, disposta verticalmente, che venga ribaltata. Un rantolo o due e giacque immobile 86. Allo stesso modo che nelle Baccanti, il gioco dei doppi sembra essere segnato da una profonda ambivalenza, “tutti i tratti distintivi di ciascun protagonista sono perlomeno accennati o suggeriti in colui che gli sta di fronte”87. Sarà lo stesso Vere a sintetizzare, in maniera sublime, questa ambivalenza con l’affermazione: “Colpito a morte da un angelo di Dio! Eppure l’angelo deve essere impiccato!” Vere e Claggart sono i rappresentanti del sistema giudiziario, cui tocca di risolvere la “crisi sacrificale” scongiurando la minaccia della vendetta. Se Claggart, infatti, nei panni del maestro d’armi, rappresenta una sorta di pubblico ministero accusatore all’interno della nave-società, Vere incarna la 331 NINO ARRIGO figura del giudice, della legge. Entrambi dando vita ad una sorta di sistema penale. Come sostiene Girard, nel sistema penale “non vi è alcun principio di giustizia che differisca realmente dal principio di vendetta [...]. Non c’è differenza di principio tra vendetta privata e vendetta pubblica, ma vi è un’enorme differenza sul piano sociale: la vendetta non è più vendicata; il processo è finito; il pericolo di escalation è scongiurato”88. La terminologia, con la quale Melville descrive la scena drammatica – ma che, a ben vedere, potrebbe avere una forza umoristica pari al “suicidio” di Ahab col suo stesso rampone (il pugno, fulmineo, col quale Billy “stende” Claggart sembra avere la stessa, plastica, intensità del gesto che vede Ahab strozzare se stesso) – è tutta afferente alla sfera “vittimaria” (Billy è “legato a un palo e imbavagliato”, “inchiodato”, con un’espressione “come di un uomo in croce”). E quando, di fronte all’incalzare delle domande di Vere, Billy risponde diventando muto, il suo silenzio non può che evocare quello del Cristo, dell’“ecce homo”, davanti a Pilato. Quella di Billy, allo stesso modo di quella di Gesù, è “la voce silenziosa delle vittime che non si possono difendere nemmeno con le parole, perchè le parole appartengono soltanto ai persecutori. Il vero logos del Dio delle vittime è proprio questo, in nulla diverso dallo sguardo del suppliziato che contempla in silenzio lo strazio del proprio corpo”89. Come sostiene Fornari, le conseguenze del silenzio delle vittime “sono sbalorditive, impensabili proprio nel campo più geloso dell’uomo, quello della sua indagine conoscitiva” 90. Di questa indagine conoscitiva, il corpo morto della vittima sembra costituire l’“alfa” e l’“omega”, l’origine e l’approdo finale. Sempre secondo Fornari, infatti, l’origine della scrittura, del linguaggio e della rappresentazione avrebbero inizio proprio a partire dall’esperienza delle viscere della vittima. E, sempre dalla stessa esperienza, si manifesterebbe la crisi della rappresentazione, il suo scacco, l’“afonia” del logos, il silenzio. Allo stesso modo che in Moby Dick (il brano sulla “bianchezza della balena”), anche in Billy Budd – come, d’altra parte, in gran parte della sua narrativa – Melville manifesta uno spiccato interesse per il “metalinguaggio” e la “metanarrazione”. Il silenzio del bel marinaio sembrerebbe anticipare, infatti, quello scacco della rappresentazione, di cui gran parte delle esperienze artistiche novecentesche saranno testimoni. Il racconto melvilliano potrebbe essere annoverato tra la categoria dell’antimito 91. Ma il suo silenzio è raccontato, lo smembramento dionisiaco del testo è evocato dalla chiarezza e dall’individuazione apollinea del logos, delle strutture formali della tradizione. Dal circolo non si esce. Ad accompagnare il motivo dell’oracolo e dell’enigma troviamo anche, ricorrente in tutto il racconto, quello del labirinto, anch’esso interpretabile in chiave metanarrativa: Parecchio tempo fa uno studioso, più anziano di me, riferendosi a uno che, come lui, ormai non è più, un uomo così irreprensibilmente rispettabile che sul suo conto non si diceva mai nulla apertamente, anche 332 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA se tra i pochi qualcosa si mormorava, mi disse: “Sì, X---------- non è una noce che si possa rompere con un colpo di ventaglio. Voi sapete che io non aderisco a nessuna religione organizzata, e meno ancora a una filosofia sistematica. Be’, nonostante, ciò ritengo che cercare di penetrare X --------------, entrare nel suo labirinto e uscirne senz’altra chiave che non sia quella offerta dalla cosiddetta “conoscenza del mondo”, sarebbe quasi impossibile, almeno per me”. “Come”, dissi io. “X -------------, pur essendo alcuni un singolare oggetto di studio, è tuttavia umano, e la conoscenza del mondo sottintende certamente la conoscenza della natura umana, e in quasi tutte le varietà:” [...] A quei tempi, la mia esperienza era tale da non lasciarmi affatto scorgere il senso di tutto ciò. Può darsi che ora lo scorga. E invero se il lessico su cui si basa la Sacra Scrittura fosse ancor oggi popolare, sarebbe forse meno difficile definire e classificare certi fenomeni umani. Così come stanno le cose, occorre appellarci a un’autorità che non si presti all’accusa di essere impregnata di elementi biblici92. Siamo di fronte ad una delle tipiche digressioni che caratterizzano lo stile melvilliano. La conoscenza del mondo presupporrebbe, dunque – secondo Melville – la conoscenza della natura umana, il suo specchio. Penetrare nel labirinto conoscitivo del mondo, della natura, equivarrebbe, dunque, a penetrare nel labirinto costituito dalle viscere della vittima, il labirinto del linguaggio, “il sistema culturale dell’uomo alle prese col problema insolubile di spiegare, di concepire se stesso” 93. Per conoscere la natura occorrerebbe, pertanto, quella cultura che della natura non può che essere il prodotto. Torna, ancora una volta, il circolo di retroazione tra produttore e prodotto. Precorrendo le intuizioni del “pensiero complesso”, Melville sembra quasi suggerirci che per “conoscere la propria conoscenza” potrebbe essere sufficiente guardarsi allo specchio, penetrare il labirinto delle proprie viscere. Secondo Fornari, infatti, il simbolo del labirinto sarebbe accostabile alle viscere della vittima, e di conseguenza alla scrittura: Il labirinto è la sanguinosa preistoria di ogni nostro linguaggio, una preistoria del segno che, prima che parlata, è scritta, come ha intuito, con accento formalisticamente decostruzionista, Jacques Derrida. Il labirinto è l’insieme di ogni futura traccia portatrice di significato, è il primo geroglifico, in cui il simbolo coincide con la cosa simboleggiata, è la cosa simboleggiata [...]. Il primo geroglifico è il corpo della vittima, i suoi organi, le sue membra, i segni che ne incidono la superficie, segni che devono essere letti, segni che sono la scrittura divina da ricevere, da decifrare, come ci mostra ad esempio l’antica pratica della chiromanzia, addirittura da trascrivere in quei segni artificiali del corpo che sono i 333 NINO ARRIGO tatuaggi. È dunque questa l’origine di ciò che noi denominiamo scrittura94. È a partire dal corpo smembrato di Dioniso, dal labirinto delle sue viscere, che nascerebbero la scrittura e la rappresentazione. Ma, nello stesso corpo straziato e senza organi – come ci insegnano le esperienze artistiche contemporanee: il “Teatro della crudeltà” di Artaud, l’arte espressionista e cubista, sarebbe racchiusa anche la loro fine, il loro scacco, il silenzio (che altro non sarebbe se non il silenzio, pieno di significato, del Linguaggio). Nel racconto melvilliano, d’altronde, l’immagine del labirinto “rimanda ovviamente al tema del mistero ma anche, per altra via, al tema dell’oracolo e, soprattutto, della prigionia senza scampo, del ‘seppellimento prematuro’. La nave stessa è più volte presentata indirettamente come labirinto” 95. Significativo, inoltre, il fatto che Melville affidi alla Sacra Scrittura quel ruolo oracolare, di chiave interpretativa della conoscenza, precedentemente affidato al vecchio danese. Dell’arte divinatoria della chiromanzia, tramite la pratica del tatuaggio sul corpo, Melville ci offre un’illuminante testimonianza nell’episodio di Moby Dick, in cui Quiqueg è intento a “istoriare” la sua singolare bara-scialuppa: Trascorse molte ore libere a intagliarne il coperchio con ogni sorta di figure e di grotteschi, e pareva che con ciò cercasse di riprodurre, nella sua rozza maniera, parti dell’intricato tatuaggio del suo corpo. Questo tatuaggio era stato opera di un defunto profeta e veggente della sua isola, che per mezzo di quei segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguire la Verità, cosicchè Quiqueg era nella sua stessa persona un enigma da spiegare, un’opera meravigliosa in un volume, i misteri della quale però neanche lui sapeva leggere benchè sotto vi pulsasse il suo cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e così restare insoluti fino all’ultimo96. Il corpo stesso di Quiqueg, dunque, sarebbe un “testo” pieno di segni da decifrare. Egli stesso un enigma di cui è impossibile raggiungere la verità. È questo il paradosso dell’arte e della scrittura, svelato – come nota acutamente Barthes – da Kafka: “l’arte dipende dalla verità, ma la verità, essendo indivisibile, non può conoscere se stessa: dire la verità è mentire. Così lo scrittore è la verità, e tuttavia, quando parla, mente”97. La verità della scrittura, del mito e della conoscenza non potrà che essere, dunque, “l’invenzione di un bugiardo”. La stessa verità rivelatasi al sapiente greco Epimenide attraverso la paradossalità dell’enigma, che altri non è se non l’enigma del Linguaggio, la cui maschera (le “lingue” dell’uomo) serve ad attuare l’“occultamento sacrificale”. L’impossibilità di conoscere se stessi, di riconoscere la violenza perpetrata sulla vittima, sancirà lo scacco della 334 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA rappresentazione. Il mito annichilirà ammutolendo, alla maniera di Billy, ripristinando il silenzio delle origini; il silenzio che precede il crimine primordiale. Il silenzio della natura contrapposto al “baccano” della cultura. Ma torniamo al plot. Allo stesso modo che nella tragedia antica, dove l’innocenza e la colpa erano arbitrarie e non esistevano “i buoni e i cattivi”, anche nel racconto melvilliano l’innocenza e la colpa personificate da Claggart e da Billy in effetti si scambiavano di posto. Da un punto di vista legale, la vittima apparente della tragedia era l’uomo che aveva cercato di sacrificare un uomo innocente; e l’atto indiscutibile di quest’ultimo, considerato sotto l’aspetto navale, costitutiva il crimine militare più nefando. E c’è di più. Quanto più chiari apparivano nella sostanza il torto e la ragione implicati in questo caso, tanto peggio era per un leale comandante di Marina, in quanto egli non era autorizzato a decidere del fatto su queste semplici basi98. La cifra artistica di Melville sembra raggiungere le vette dei grandi tragici greci, il suo “sublime ironico” (la principale cifra stilistica dell’autore J) avrà, nel Novecento, un suo eguale soltanto nell’opera del più enigmatico degli scrittori contemporanei: Franz Kafka (K). Toccherà dunque al Capitano Vere, lo “stellato” Vere, rivestire i panni dell’Abramo biblico, del “padre” e assolvere all’ingrato compito di amministrare la giustizia, scongiurando sì la vendetta, ma perpetrando la logica sacrificale: Era abbastanza vecchio da poter essere il padre di Billy. Quell’austero seguace del dovere militare, abbandonandosi teneramente a quanto resta di primevo nella nostra umanità ormai ridotta a formule, finì magari per stringersi Billy al cuore, come forse Abramo strinse a sé il giovane Isacco prima di sacrificarlo risoluto, obbedendo al duro comando 99. Ma, a differenza del racconto biblico, il racconto melvilliano ci presenta un sacrificio compiuto. Come nel racconto evangelico. Laddove il giudaismo si accontentava della minaccia della castrazione, contrassegnato com’era dall’Akedah, dall’offerta, “il contrassegno del cristianesimo è la crocifissione, cioè il sacrificio compiuto” 100. La consapevolezza tragica melvilliana sembra quasi attuare un compromesso, una sorta di sincretismo tra Dioniso e Cristo. A differenza delle Baccanti di Euripide, dove ad essere sacrificato è il padre (Penteo), nel racconto melvilliano viene sacrificato il figlio. Ma sarà il figlio, riconosciuto come l’agnello di Dio – alla maniera di Gesù “che ci libera dall’inutile volgarità del capro e che rende ancor più 335 NINO ARRIGO visibile l’innocenza della vittima ingiustamente sacrificata” 101 ad essere “santificato”: E proprio allora accadde che il velo di vapori che incombeva basso a oriente fosse trafitto da un tenue splendore, come il vello dell’Agnello di Dio contemplato in una mistica visione, e in quel preciso istante, seguito dalla fitta calca dei visi rivolti in alto, Billy ascese e, ascendendo, si colorò del rosa acceso dell’aurora [...]. Ogni cosa, in Marina , è venerata per un certo tempo. Ogni oggetto tangibile associato a qualche fatto eccezionale verificatosi in servizio viene trasformato in monumento. L’albero cui il gabbiere era stato impiccato venne tenuto d’occhio per alcuni anni dalle giubbe azzurre. Non persero le sue tracce quando passò dalla nave all’arsenale e poi di nuovo dall’arsenale alla nave, seguendolo sempre anche quando finì per ridursi a una semplice boma da cantiere. Una sua scheggia era per loro come un frammento della Croce 102. Se la fede giudaica, dunque, si concentrò sul padre, divenendo appunto la “religione del padre”, la fede cristiana “si concentrò sul figlio [...] paradossalmente riaffermando in tal modo proprio il crimine primordiale; benché il punto di partenza fosse il bisogno dell’umanità di espiare di fronte al Dio padre, essa finì col glorificare colui che aveva espiato. Sorto più tardi del giudaismo, il cristianesimo fu in realtà più regressivo: più primordiale, più edipico rispetto alla religione da cui si era sviluppato”103. La vittima innocente diviene, dunque, il Salvatore. Alla maniera di Edipo, infatti, se Billy “è salvatore, lo è in qualità di figlio parricida e incestuoso” 104. Billy morirà benedicendo il capitano Vere (il padre), ma la folla lascerà cadere le pietre del linciaggio per innalzare canti alla vittima, per osannarla, santificarla. Il “tabù” diverrà “totem”. I confini tra la colpa e l’innocenza rimarranno, però, indefinibili. Non c’è epitome migliore a questo racconto, del “poema” del grande inquisitore contenuto ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1880, di poco anteriore al racconto melvilliano)105. Qui sarà il genio introverso di Ivan, dalla sensibilità profonda e animata da scetticismo, a raccontare al religioso fratello Alëša la storia di Cristo che, tornato tra gli uomini, viene condannato come eretico da un inquisitore spagnolo. La morale della favola è che il potenziale rivoluzionario del messaggio evangelico, il suo anelito di libertà, carità e amore, la sua verità “debole” – per dirla con Vattimo106 – non farebbero altro che “indebolire” l’assetto societario. La maggior parte degli uomini non sarebbe in grado di accogliere e comprendere la corretta portata di un simile messaggio. Pertanto, per tutelare la vita umana, la sicurezza, per evitare una “crisi sacrificale” (come direbbe Girard), non resterebbe che rifugiarsi tra le braccia del grande Inquisitore, del potere, della coercizione, della religione fondata sui dogmi. 336 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA Al termine del lungo monologo dell’inquisitore, infatti, Cristo si accosterà alle sue labbra baciandole; evocando così la benedizione di Billy a Vere. Le porte della prigione gli verranno allora aperte. Oscillando continuamente tra i poli opposti dell’innocenza e della colpa, della condanna e dell’ “elezione”107, sarà l’opera di Franz Kafka a riscrivere, in pieno Novecento, la parabola della vittima innocente, il dramma del crimine primordiale. Tutte le opere di Kafka – come nota Milena Jesenskà nel necrologio scritto per il suo amante Franz – “descrivono il terrore di malintesi misteriosi e della colpa innocente degli esseri umani”108. In esse “le oscillazioni magnificamente ambigue di Kafka tra il giudaismo normativo e la gnosi ebraica” troverebbero una sublime epitome. Ma il visionario scrittore del Processo e della Metamorfosi, come nota acutamente Harold Bloom “è allo stesso tempo più e meno di uno gnostico”109. Laddove lo gnosticismo consiste, infatti, in “una religione di salvezza, benché sia la più negativa tra queste visioni salvifiche. La spiritualità di Kafka non offre speranza di salvezza, e perciò non è gnostica”110. Ma anche nell’opera dello scrittore boemo, a ben vedere, la nota dominante sarebbe il sacrificio compiuto, la prospettiva cristiana della salvezza (il punto di vista del figlio), piuttosto che il “ ‘camminare insieme’ di padre e figlio che costituisce la nota dominante”111 dell’ebraismo e del giudaismo normativo (attestato sulla prospettiva del padre). Ora, se c’è un testo in grado di sintetizzare al meglio l’intera parabola compiuta dall’opera kafkiana, questo è, senza dubbio, La lettera al padre. Il testo – una vera e propria lettera scritta da Kafka nel novembre del 1919 a Schelesen, in Boemia, che non venne però mai consegnata al destinatario – sembra costituire una sorta di midrash, di interpretazione-commento; una chiave di lettura, alla luce della quale, sarebbe possibile leggere tutta l’opera dello scrittore boemo. In essa si manifesterebbe l’immane senso di colpa del giovane Franz nei confronti del padre, il suo destino di vittima innocente: Poichè quando ero piccolo ci vedevamo soprattutto a tavola, il tuo insegnamento era in gran parte rivolto alla condotta da tenere durante i pasti. Quel che compariva in tavola bisognava mangiarlo, era proibito esprimere giudizi sulla qualità delle portate – tu però le trovavi disgustose, le definivi “robaccia”; quell’animale (la cuoca) le aveva rovinate. E poiché tu, conformemente al tuo robusto appetito e alla predilezione per bocconi grossi e bollenti, mangiavi in gran fretta, il bambino doveva spicciarsi, a tavola regnava un silenzio opprimente rotto da esortazioni: “prima mangia, poi parla”, oppure “guarda io ho già finito da un pezzo”. Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non 337 NINO ARRIGO era permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi. L’operazione più importante era tagliare il pane a fette regolari, ma che tu la eseguissi con un coltello gocciolante di salsa era indifferente. Bisognava far attenzione a non lasciare cadere sul pavimento resti di cibo, e di solito erano sparsi soprattutto ai tuoi piedi. A tavola si doveva pensare solo a mangiare, ma tu ti pulivi le orecchie e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti frugavi nelle orecchie con uno stuzzicadenti. Papà, spero che tu mi capisca bene, questi erano dettagli del tutto secondari, per me divennero avvilenti solo in quanto tu, l’uomo che ai miei occhi rappresentava la massima autorità, non ti attenevi alle ingiunzioni che mi avevi imposto. Di conseguenza il mondo si divideva per me in tre parti, e nella prima io, lo schiavo, vivevo sottoposto a leggi concepite solo per me e alle quali, senza saperne il motivo, non riuscivo del tutto ad adeguarmi, poi c’era un secondo mondo infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti, e infine un terzo, dove il resto dell’umanità viveva felice e libera da ordini e da obbedienze112. Quella che sembra emergere in questo brano, in tutta la sua drammaticità, e al contempo con una paradossale carica di umorismo, è una situazione edipica. Sotto i colpi del sarcasmo feroce e dissacrante del figlio, la figura del padre sembra assumere dei tratti grotteschi, quasi da “pagliaccio”, trovando, forse, un riscontro nel Penteo (un altro padre, tutore dell’ordine e della legge, trasformato in un buffo pagliaccio) – travestito da baccante in preda a impeto dionisiaco – protagonista del finale della tragedia di Euripide. Non è difficile scorgere – ancora una volta – dietro la rivalità generazionale tra padre e figlio, il paradigma frazeriano. La posta in gioco sembra qui essere, infatti, proprio il passaggio del testimone della fertilità. Non è un caso, se la scena (insieme comica e tragica) descritta da Kafka si svolga a tavola. È la tavola, infatti, il luogo privilegiato di riunione della “famiglia edipica”, è attorno a una tavola imbandita che si manifesta l’esuberanza sessuale dell’uomo maturo; la virulenza, sempre accompagnata da un famelico appetito, del padre. Ma la minaccia del figlio incombe. L’ombra di Edipo, del mitico figlio di Laio parricida e incestuoso, si allunga sinistramente sulla tavola della “sacra famiglia”, attentando al potere del pater familias. Da qui la grottesca competizione tra il padre e il figlio, persino sulla velocità con cui si consumano le portate; quasi una vera e propria gara a chi finisce prima di mangiare (“guarda io ho già finito da un pezzo”), innescata – in maniera puerile – proprio dallo stesso padre. Edipo – come notano acutamente Deleuze e Guattari – ancora prima di essere una nevrosi del figlio è piuttosto un “paranoia” del padre, è “il padre paranoico a edipizzare il figlio. La colpevolezza è un’idea proiettata dal padre prima di essere un sentimento interno provato dal figlio”113. Il nichilismo kafkiano, dunque, la sua ossessione nei riguardi del kenoma, del vuoto cosmico, potrebbe trovare un riscontro persino nel “nichilismo” 338 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA cristiano, inteso, alla maniera di Vattimo, come l’approdo della verità forte della metafisica ad una verità “debole” – il cui destino coinciderebbe con quello della secolarizzazione della cultura occidentale – resa possibile proprio tramite l’incarnazione (la kenosis) del Dio padre giudaico nel Dio figlio evangelico. Nel caso di Kafka, come in quello di Melville, la letteratura – focalizzando la sua attenzione sulla dimensione archetipica della divinità (e poco importa se essa assuma la forma unica del Dio del pensiero giudaico-cristiano o quella molteplice degli dei del pensiero greco antico) – diventa pertanto una suprema forma di conoscenza e si può, così, scomodare la categoria di “letteratura assoluta”114. Attorno ad una tavola imbandita, con una famiglia religiosamente riunita, matura anche la “disobbedienza” di Cosimo Piovasco di Rondò, il personaggio protagonista di uno dei più celebri e, forse, più riusciti romanzi di Italo Calvino: Il barone rampante:115 Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave116. Il rifiuto di Cosimo sembra evocare la “formula” con la quale Bartleby, lo scrivano protagonista di uno dei più enigmatici racconti melvilliani, si congeda dalla “comunità dei padri”: I would prefer not to (preferirei di no). Un “no” contro l’ottusa verticalità gerarchica dei ruoli, contro l’assurdo “potere” del pater familias. Per Melville, infatti, ossessionato dallo scontro generazionale dei padri contro i figli, “l’umanità può essere salvata [...] solo nella dissoluzione, nel disfacimento della funzione paterna” 117. Un grande momento, per questo, è quando Ahab, invocando i fuochi di S. Elmo, scopre che il padre è egli stesso un figlio perduto, un orfano, mentre il figlio, figlio di nessuno o di tutti, un fratello. Come dirà Joyce, la paternità non esiste, è un vuoto, un nulla, o piuttosto, una zona di incertezza abitata da fratelli, dal fratello e dalla sorella. È necessario far cadere la maschera del padre caritatevole affinché la Natura prima si pacifichi e Ahab e Bartleby, Claggart e Billy Budd si riconoscano, liberando nella violenza degli uni e lo stupore degli altri il frutto di cui essi erano gravidi, il rapporto fraterno puro e semplice118. 339 NINO ARRIGO Anche Cosimo, dunque, è un “orfano”, un “eletto” della stirpe dei fratelli, pronto a combattere la battaglia “riformista”, per una società democratica e “orizzontale” (il prosieguo dell’opera vedrà infatti il “barone rampante”, protagonista di numerose battaglie “democratiche” all’insegna del suo spirito laico e illuminista). Ma ecco come prosegue il racconto della voce narrante, nei panni (e forse non per caso) di un fratello, alleato nella rivolta che condurrà l’attacco al potere familiare: Da pochi mesi, Cosimo aveva compiuto i dodici anni ed io gli otto, eravamo stati ammessi allo stesso desco dei nostri genitori; ossia, io avevo beneficiato della stessa promozione di mio fratello prima del tempo, perchè non vollero lasciarmi di là a mangiare da solo. Dico beneficiato per così dire: in realtà sia per Cosimo che per me era finita la cuccagna, e rimpiangevamo i desinari nella nostra stanzetta, noi due soli con l’Abate Fauchelafleur [...]. Adesso, invece, stando a tavola con la famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle posate per il pollo, e sta dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! E per di più quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di sgridate, di ripicchi, di castighi, d’impuntature, fino al giorno in cui Cosimo rifiutò le lumache e decise di separare la sua sorte dalla nostra 119. Sebbene con la leggerezza tipica dello stile di Calvino, lo “scoiattolo della penna”120, la scena descritta nel brano sopra citato, non può non evocare quella descritta da Kafka nella “lettera”. Ancora una volta, lo scontro generazionale all’interno della famiglia, si consuma a tavola, pasto avvelenato di “sgridate”, “ripicchi”, “castighi”, “impuntature”, che vede incombere minaccioso – nell’energia vitale dei giovani figli – l’attacco ostile all’austero, dogmatico, potere dei padri. Persino nel riferimento all’età anagrafica di Cosimo, fornito dal narratore, si nasconderebbe un’analogia di carattere archetipico, un possibile riferimento intertestuale121 all’episodio evangelico, in cui il fanciullo Gesù, dodicenne come Cosimo, si distacca per la prima volta – ribellandosi – dalla “sacra famiglia”. Sullo scontro generazionale dei padri contro i figli si allunga, dunque, l’ombra, fosca e minacciosa, del crimine primordiale, del linciaggio nei confronti di una vittima innocente; l’ombra di Caino, di Crono, Edipo. Ma – come notano Deleuze e Guattari – è il “campo sociale” a determinare la famiglia che determinerà, a sua volta, l’Edipo. Se le dinamiche interne alla nostra società si modificassero, a tal punto da prevedere nuove forme di associazione familiare, quali, per esempio, quelle invocate dalla comunità omosessuale odierna, l’“imperialismo” edipico non potrebbe che vacillare (trascinando con sé una significativa quantità di forme artistiche, letterarie, culturali). 340 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA Secondo Deleuze e Guattari esistono “due grandi tipi di investimento sociale, segregativo e nomadico, come due poli del delirio”122: Un tipo o polo paranoico fascisteggiante, che investe la formazione di sovranità centrale, la surinveste facendone la causa finale eterna di tutte le altre forme sociali della storia, controinveste le enclavi o la periferia, disinveste ogni libera figura del desiderio – sì sono dei vostri, della classe e della razza superiori. E un tipo o polo schizo-rivoluzionario, che segue le linee di fuga del desiderio, attraversa il muro e fa passare i flussi, monta le sue macchine e i suoi gruppi in fusione nelle enclavi o alla periferia, procedendo al contrario del precedente: non sono dei vostri, sono eternamente della razza inferiore, sono una bestia, un negro. La gente per bene dice che non bisogna fuggire, che no sta bene, che è inefficace, e che bisogna lavorare in vista di riforme. Ma il rivoluzionario sa che la fuga è rivoluzionaria, withdrawal, freaks, a condizione di strappare la tovaglia o di far fuggire un lembo del sistema 123. Laddove sul versante paranoico fascisteggiante si schiereranno i padri e i “figli-padri”, sul secondo – quello schizo-rivoluzionario – si schiereranno, allora, i “figli-fratelli” (o “padri-fratelli”)124. Lo schizo-rivoluzionario è il protagonista fuggiasco di tanta letteratura americana da Ismaele e Bartleby, passando per Huckleberry Finn, sino a Holden Caulfield ed Henry Chinaski. E non sfigurerebbe di certo, in mezzo a questa stirpe di ribelli vagabondi, quel Cosimo Piovasco di Rondò, che riesce nell’impresa mancata al giovane Franz, protagonista della Lettera al padre: quella della fuga rivoluzionaria. Cosimo incarnerà la curiosa figura del “rivoluzionario-riformista”. Allo stesso modo in cui, infatti, parteciperà a imprese brigantesche (sostenendo il brigante Gian dei Brughi), non si sottrarrà dalla vita politica attiva, sostenendo le idee repubblicane in favore di Napoleone. Bizzarro freak (Cosimo non sembrerà mai assumere i connotati di un uomo maturo), buffo trickster che si muove leggiadro tra le fronde e i rami degli alberi, la sua fuga, una vera e propria scomparsa cominciata “strappando la tovaglia” del potere paterno, non lo vedrà tornare sulla terra neppure da morto. Sulla tomba di famiglia lo ricorderà una scritta: “ ‘Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo’ ”125. La versione del crimine primordiale che ci tramandano i miti greci sembra essere ben sintetizzata dal mito di Crono: Urano generò i Titani dalla Madre Terra dopo aver cacciato i Ciclopi, suoi figli ribelli, nel remoto Tartaro, un sinistro luogo che dista dalla terra quanto la terra dista dal cielo. Un’incudine di ferro precipita per nove 341 NINO ARRIGO giorni prima di toccare il fondo. Per vendicarsi, la madre terra indusse i titani ad assalire il padre loro; e così essi fecero guidati da Crono, il più giovane dei sette che si era armato di un falcetto di selce. Colsero Urano nel sonno e Crono spietatamente lo castrò col falcetto, afferrandogli i genitali con la sinistra (che da quel giorno fu sempre la mano del malaugurio) e gettandoli poi assieme al falcetto in mare preso Capo Drepano. Gocce di sangue sgorgate dalla ferita caddero sulla Madre Terra, ed essa generò le tre Erinni, furie che puniscono i crimini di parricidio e di spergiuro126. Dal momento in cui l’eterno amplesso tra Gea (la terra) e Urano (il cielo), viene interrotto dal macabro gesto di Crono (il tempo), la condizione umana sarà segnata dalla scissione, dalla lacerazione tra cultura e natura, ragione (il cielo) e istinto (la terra), inconscio e coscienza. Il gesto del titano ribelle ha proiettato l’uomo in quella dimensione “ermeneutica”, per cui l’Essere cerca il soggetto (l’ente) e il soggetto cerca l’Essere, in un incessante “doppio vincolo” di “identità e differenza”; ha innescato il tempo, la storia, la cultura, interrompendo il silenzio senza tempo dello stato di natura. Non è difficile scorgere, anche dietro il gesto di Crono, l’archetipo della fertilità. Il gesto del figlio di Urano sembra chiarirsi, infatti, proprio alla luce del racconto di Frazer. Per succedere al sacerdote del tempio di Virbio e Diana, presso il bosco di Nemi, occorreva, prima recidere il ramo d’oro dall’albero sacro, e poi uccidere il sacerdote. La morte del sacerdote-dio era funzionale alla sua resurrezione, senza la quale il ciclo della fertilità non sarebbe potuto riprendere. Il suo sangue era necessario per rendere fertile Diana, la dea delle messi, cui spetta il compito di assicurare un buon raccolto127: La logica che ne consegue ha due risvolti. Grazie alla magia “simpatetica”, la morte e la resurrezione del dio [...] causano il rinnovamento della terra. Grazie alla magia per “contagio”, il dio diventa la figura del “capro espiatorio” che porta via con se la sterilità che altrimenti potrebbe danneggiare il raccolto. La logica è chiarissima. E ci dice anche perchè il re del bosco deve strappare il ramo d’oro. Questa parte dell’albero, che è una quercia, è chiaramente il vischio. Esso racchiude il potere di Giove, il dio romano del cielo e della tempesta, che di tanto in tanto scaglia la sua forza in quell’albero attraverso il fulmine. Il successore al titolo deve strapparlo per dimostrare di avere acquisito l’energia divina. Solo attraverso questa successione violenta, anticipata dalla violenza del tuono, si può garantire la fertilità della terra. C’è una connessione magica tra il dramma del dio morente e redivivo da un lato e il ciclo stagionale dall’altro128. 342 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA Alla luce del racconto di Frazer, si chiarisce che la logica del “capro espiatorio” ha un suo riscontro anche in funzione dei cicli stagionali della fertilità. Alla base della lotta tra generazioni, che abbiamo visto caratterizzare tante “riscritture” letterarie, ci sarebbe, pertanto, la storia del dio morente e redivivo di cui parla Frazer. È questa la costante che lega insieme i miti di Crono, Prometeo, Edipo, al racconto biblico del sacrificio d’Isacco. Persino Adamo, nel racconto del Genesi, fu alle prese con un ramo. La scena biblica, in cui il nostro più lontano antenato stacca il frutto dell’albero della conoscenza, non sembra così dissimile da quella frazeriana, dove al dio morituro subentra quello redivivo che ha staccato il “ramo d’oro” dalla quercia nel bosco. La disobbedienza adamitica nei riguardi di Dio (il padre) sembra essere, inoltre, l’equivalente del gesto di Crono, che recide l’organo sessuale del padre Urano per acquisirne l’energia divina; anche il “peccato” biblico sembra avere, infatti, la stessa forza di una castrazione. Il senso di colpa – come notava Freud – sarà proprio la conseguenza di questa disobbedienza, in seguito alla quale la religione ebraica innalzerà il totem di un Dio padre. Fin qui le costanti, le analogie. Ora, se volessimo scorgere delle differenze tra i miti biblici e quelli greci, potremmo dar retta a Nietzsche e considerare il peccato di Crono – allo stesso modo di quello di Prometeo – un peccato “attivo”, “vera virtù prometeica”129, laddove, invece, dietro il peccato di Adamo ci sarebbero, a dominare la scena, la curiosità, la lascivia, il raggiro menzognero; insomma, le virtù femminili di Eva: La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e che tra i due miti esiste un grado di parentela come tra fratello e sorella [...]. Nell’eroico impulso dell’individuo verso l’universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo, egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire commette un delitto e soffre. Così dagli ariani il delitto viene considerato maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina; come pure il crimine originale viene commesso dall’uomo e il peccato originale dalla donna130. Il pensiero di Nietzsche risente, già qui, della lacerante contraddizione tra colpa e innocenza, tra Dioniso e Cristo, tra “virtù prometeica” e “lascivia semitica”. Questa oscillazione accompagnerà l’opera e la vita del filosofo, fino al silenzio scaturito in seguito alla stesura della sua ultima opera: Ecce 343 NINO ARRIGO homo. Il profondo risentimento, nutrito dal filosofo della “volontà di potenza” nei riguardi del cristianesimo (Nietzsche, è bene ricordarlo, era figlio di un pastore protestante), non gli permetterà di individuarne gli aspetti “salvifici”, “dionisiaci”; di scoprire un possibile sincretismo tra Dioniso e Cristo: La scoperta della morale cristiana è un avvenimento che non ha eguali, una vera catastrofe [...]. Il concetto di “Dio” inventato in opposizione alla vita – tutto ciò che è dannoso, venefico, calunnioso, mortalmente ostile alla vita vi è raccolto in una terrificante unità! Il concetto di “al di là”, di “mondo vero” inventati per svalutare l’unico mondo che esista – per non lasciare ala nostra realtà sulla terra alcun fine, alcuna ragione, alcun compito! Il concetto di anima, di spirito e infine anche di “anima immortale”, inventati per spregiare il corpo, per renderlo malato – “santo” –, per opporre una orribile incuria a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita [...] il concetto di “peccato” inventato insieme con gli opportuni strumenti di tortura, insieme al concetto di “libero arbitrio”, per confondere gli istinti e fare una seconda natura per la diffidenza degli istinti! [...] – Sono stato capito? Dioniso contro il crocifisso [...]131. “Dioniso contro il crocifisso”, Dioniso contro Cristo. Sono queste le ultime parole con cui Nietzsche si congeda dal mondo della rappresentazione apollinea, da quell’inganno della simulazione tanto a lungo indagato, per discendere nel mondo, tragicamente vero, dello smembramento dionisiaco. Dopo Ecce homo Nietzsche incontrerà soltanto il silenzio della sua follia. Sarà questo il “peccato” da pagare per la sua “virtù” prometeica, che lo condurrà a varcare le colonne d’Ercole del mondo dell’individuazione apollinea, per approdare al di là del velo dell’apparenza fenomenica e scoprire, alla maniera di Narciso e Ahab, il nulla. Il nulla del linguaggio. Il silenzio della “natura” generatore del baccano della “cultura”. Al di là delle colonne d’Ercole della ragione l’uomo cade, infatti, in contraddizione, e si scopre, alla maniera di Nietzsche, “tutti gli uomini della storia”. Sarà questo l’enorme prezzo pagato dal filosofo per aver cercato di conoscere la propria conoscenza. L’itinerario nietzschiano che “comincia con la stesura di Ecce homo e finisce con la follia, tende a sfuggire all’analisi speculativa, anche la più sottile”,132 perchè con esso il filosofo “ha tentato qualcosa che sta già al di fuori dell’ambito del pensiero rappresentativo” 133. A differenza dei testi melvilliani – in cui abbiamo già riscontrato la crisi della rappresentazione, il “racconto del silenzio” – il “testo” della follia nietzschiana realizza la perfetta coincidenza degli opposti, divenendo, dunque, irrappresentabile. Nel tentativo immane di conoscere la propria conoscenza, Nietzsche svanirà nel nulla del Linguaggio. La sua straordinaria scoperta delle radici violente della conoscenza umana, dell’incombere del linciaggio dietro “l’assenza di modelli genitoriali, dietro le persecuzioni 344 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA famigliari”134, lo condurrà al suo stesso sacrificio. Per non dare a Cristo quel che è di Cristo, il seguace “sfegatato di Dioniso doveva stare attento a non concedere troppo alle stesse religioni sacrificali da lui rimpiante per non evidenziare l’alternativa da lui rifiutata” 135; per non consegnarsi a quella stessa violenza riconosciuta e ripudiata. La “virtù prometeica” nietzschiana non riuscirà a scrollarsi di dosso l’ingombrante eredità del “peccato” originale semitico, “il danno della storia per la vita”136. Dioniso inchioderà Cristo sulla Croce. Nei Dialoghi con Leucò137 (scritti tra il Dicembre 1945 e il Marzo 1947) Cesare Pavese – alla luce dei suoi studi etnologici e antropologici138 – riscrive buona parte dei miti greci, consegnando alla storia una delle opere più originali della letteratura italiana del Novecento. In essi lo scrittore piemontese realizza “una riscrittura esplicita di un preciso intertesto mitico”139, rappresentando, per certi versi, un’operazione speculare a quella del Moby Dick di Melville, dove l’intertesto mitico era quello biblico. Non è escluso, inoltre, che dietro il Leucò del titolo, (riduzione del nome della ninfa Leucotea protagonista di alcuni dialoghi, in cui la critica ha individuato un omaggio a Bianca Garufi, uno dei tanti amori non corrisposti dello scrittore) che in greco significa “bianco”, ci sia un richiamo – o un’ eco – al biancore della Balena di Melville. Non sarebbe un’ipotesi poi tanto ardita; in tal modo i dialoghi sarebbero un colloquio col “bianco” inteso come l’essenza che contiene tutte le esistenze possibili, la “necessità” (mitica) che contiene le infinite “accidentalità” storiche, un parlare del mito parlando al mito e, in ultima ipotesi, “un mito che racconta se stesso” 140. Alla base di tutto, nei “dialoghi”, c’è lo scontro tra i Titani e l’Olimpo (dietro cui si cela l’opposizione tra città e campagna dei primi libri, come rivela una nota in data 10 Luglio 1947: “La città-campagna dei primi libri è diventata il titanismo-olimpico dell’ultimo”), dove quest’ultimo, che rappresenta il trionfo della legge e dell’ordine sul caos delle origini, è ritenuto il responsabile della scissione uomo/natura da cui scaturirebbero tutte quelle antinomie in grado di generare la dimensione “ermeneutica” dell’esistenza. Schema confermato in una nota del Diario in data 24 Febbraio 1946 dove si legge: “Crono era mostruoso ma regnava sull’età dell’oro. Venne vinto e ne nacque l’Ade (Tartaro), l’isola Beata e l’Olimpo, infelicità e felicità contrapposte e istituzionali”. Non a caso il libro si apre con il dialogo tra la nube Nefele e Issione, mitico Re dei Lapiti, che testimonia l’avvento dell’ordine e della legge degli olimpici sul caos delle origini, dove “era consentito alle nature più diverse di mischiarsi”141: 345 NINO ARRIGO C’è una legge, Issione, cui bisogna ubbidire [...] non puoi più mischiarti a noi altre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dune della terra. È mutato il destino142. Dietro il dialogo di apertura sembrerebbe nascondersi un larvato riferimento al “crimine primordiale”, forse con un rimando proprio al Freud di Totem e Tabù, lettura documentata nel “diario” pavesiano, la cui lezione Pavese dovette tenere bene a mente durante la stesura dei “dialoghi”. Di Issione è noto, infatti, che acconsentì a sposare Dia, figlia di Ioneo, promettendo ricchi doni nuziali e invitando Ioneo a un banchetto. Ma scavò una fossa dinanzi alla soglia del palazzo, con delle braci accese sul fondo, e Ioneo vi precipitò e morì bruciato. Benchè le divinità minori giudicassero orrendo questo crimine e rifiutassero di purificare Issione, Zeus, che si comportava altrettanto male quando era innamorato, non soltanto lo purificò, ma lo invitò alla sua tavola. Issione si dimostrò ingrato e meditò di sedurre Era che, egli pensava sarebbe stata ben lieta di vendicarsi delle molte infedeltà di Zeus. Ma Zeus indovinando le intenzioni di Issione, diede a una nuvola la forma di una falsa Era, e con essa Issione, il cervello troppo offuscato dal vino per accorgersi dell’inganno, si prese il suo piacere. Zeus lo colse sul fatto e ordinò a Ermete di fustigarlo senza pietà finchè egli avesse ripetuto le parole: “i benefattori devono essere onorati”; poi lo legò a una ruota di fuoco che rotola senza posa nel cielo. La falsa Era, chiamata in seguito Nefele, generò a Issione il bastardo Centauro che, a quanto si dice, divenuto adulto si unì alle cavalle magnesie e generò a sua volta i Centauri, tra i quali il saggio Chirone fu il più celebre 143. Issione ucciderà, dunque, il padre di Dia, la sua sposa. Ora, dal momento che Dia era “un appellativo della quercia di Dodona e dunque della moglie di Zeus, Era”, il peccato di cui si macchierà Issione potrebbe dunque essere lo stesso peccato di cui si macchierà lo sventurato figlio di Laio, quell’Edipo protagonista di due “dialoghi” pavesiani (“I ciechi” e “La strada”). Il peccato “originale”, evocato da Freud nel suo racconto della scena del crimine primordiale. Come nota Robert Graves, infatti, i re “che seguivano le tradizioni dei tempi antichi si chiamavano Zeus e sposavano Dia-dalle Nubidense-di Pioggia”144. Il richiamo alla dea delle nubi sembrerebbe un esplicito rimando al ciclo della fertilità. Pertanto, dal momento che Dia sarebbe un’appellativo di Era, e Nefele il nome attribuito alla nube nei panni della madre di tutti gli dei, quello composto da Pavese, nel dialogo di apertura, sembrerebbe essere un rebus, un bizzarro enigma da decifrare, la cui soluzione affonderebbe ancora una volta le proprie origini, nell’evento fondativo dell’umanità e della conoscenza. Un evento che si colora del sangue sparso dalla violenza scaturita dal “desiderio mimetico”. 346 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA Non è un caso se Pavese, nella breve nota introduttiva, chiarisce la pena subita da Issione come il frutto della sua “audacia”, costringendoci a vedere “oltre gli occhi accecati del figlio di Laio che Freud, nella riproduzione del quadro di Ingres, vide per anni indicare se stesso come soluzione dell’enigma”. Issione, come Edipo, Prometeo, Freud, sarebbe allora un altro membro “eletto” della stirpe di quei grandi ricercatori “che proseguono per la loro strada ‘senza tregua né riposo’, e senza ascoltare le parole dell’‘oscura Giocasta’ [Nefele] che ‘la maggior parte degli uomini porta dentro di sé’ e che implora Edipo, in nome di tutti gli dei, di non spingere oltre la propria ricerca’ ”145. Il tema del sacrificio percorre, nel suo intero dispiegarsi, anche l’ultimo dei romanzi pavesiani: La luna e i falò (1949); vera e propria summa della “poetica pavesiana del mito”. Il romanzo è narrato in prima persona dall’orfano Anguilla 146, un trovatello delle Langhe che, dopo una parentesi in America, ritorna nei luoghi dell’infanzia alla ricerca delle radici, di quell’identità che la sua condizione di orfano gli nega. A guidarlo nel suo viaggio sarà Nuto, “il comunista che crede nel destino, nella luna e nei falò” 147, sarà proprio lui ad illuminare della luce chiara della ragione i misteri che si nascondono nel regno dell’infanzia, in una sorta di “catabasi”, di discesa ad inferum, da cui Pavese, di lì a poco, deciderà – proprio come il suo Orfeo – di non risalire (“Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi ‘Sia finita’ e mi voltai”)148. È proprio percorrendo accanto a Nuto i luoghi dell’infanzia, che Anguilla si imbatterà in Cinto, il figlio storpio del Valino, scampato al falò di corpi umani, frutto della follia omicida del padre: Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro – un rumore che sulle strade d’America non si sente più da un pezzo [...]. Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch’era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch’era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane. – Cosa c’è? Li per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. – Proprio lui, figurarsi, – disse Nuto. – Ha bruciato la casa, – ripeteva Cinto. – Voleva ammazzarmi...Si è impiccato...ha bruciato la casa... – Avranno rovesciato la lampada, – dissi. – No no, – gridò Cinto, – ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l’ho lasciato...Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S’era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: – Il papà 347 NINO ARRIGO si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa...anche il manzo. I conigli sono scappati ma io avevo il coltello...149. Il giovane Cinto, la cui andatura claudicante non può non richiamare i piedi gonfi di Edipo, è un moderno Isacco scampato al sacrificio, un pharmakos (“Nuto lo prese per le spalle e lo alzò come un capretto”) 150 che si ribella al potere del padre, all’imperialismo dell’Edipo. Cinto – a differenza di Isacco, che si mostra obbediente al sacrificio, al volere del padre – impugna il coltello della rivolta, dice no. La follia omicida del Valino sembrerebbe dunque chiarirsi come la “paranoia del padre”, nei confronti della giovane forza del figlio: Ma poi la sera quand’era tornato era nero. S’era messo a gridare con Rosina, con la nonna perchè non avevano raccolto prima i fagioli verdi [...]. Lui Cinto stava sulla porta pronto a scappare. Allora il Valino s’era tolta la cinghia e aveva cominciato a frustare Rosina. Sembrava che battesse il grano. Rosina s’era buttata contro la tavola e urlava, si teneva le mani sul collo. Poi aveva fatto un grido più forte, era caduta la bottiglia, e Rosina tirandosi i capelli s’era buttata sulla nonna e l’abbracciava. Allora il Valino le aveva dato dei calci – si sentivano i colpi – dei calci nelle costole, la pestava con le scarpe, Rosina era caduta per terra, e il Valino le aveva ancora dato dei calci nella faccia e nello stomaco. Rosina era morta disse Cinto, era morta e perdeva sangue dalla bocca [...]. Dopo un poco il Valino s’era messo a chiamare Cinto [...] era uscito fuori con la lampada in mano, senza vetro. Era corso tutt’intorno alla casa. Aveva dato fuoco al fienile, alla paglia, aveva sbattuto la lampada contro la finestra. La stanza dove s’erano picchiati era già piena di fuoco. Le donne non uscivano, gli pareva di sentir piangere e chiamare. Adesso tutto il casotto bruciava e Cinto non poteva scendere nel prato perchè il padre l’avrebbe visto come di giorno [...]. Il Valino era corso nella vigna, cercando lui, con una corda in mano. Cinto, sempre stringendo il coltello, era scappato nella riva. Lì c’era stato, nascosto, e vedeva in alto contro le foglie il riflesso del fuoco [...] quando Cinto non aveva più sentito né il cane né altro, gli pareva di essersi svegliato in quel momento, non si ricordava che cosa facesse nella riva. Allora piano piano era salito verso il noce, stringendo il coltello aperto, attento ai rumori e ai riflessi del fuoco. E sotto la volta del noce aveva visto nel riverbero pendere i piedi di suo padre, e la scaletta per terra151. Dopo aver ucciso la figlia, e incendiato la casa, il Valino cerca, con furia omicida, anche il figlio, che trova riparo nel luogo in cui altre volte si era già rifugiato (“Lì c’era stato nascosto”); probabilmente per sfuggire alle insidie del padre, ma il caratteristico understatement pavesiano lascia spazio all’interpretazione, non chiude il testo. Il tragico epilogo vedrà il padre impiccarsi e il figlio scampare al pericolo. Più avanti, il narratore getterà 348 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA anche sul padre l’ombra sinistra del peccato di Edipo, alludendo alle relazioni incestuose praticate da quest’ultimo a spese delle donne in casa: Il prete la fece più bella. Siccome il Valino era morto in peccato mortale, non volle saperne di benedirlo in chiesa. Lasciarono la sua cassa fuori sui gradini, mentre il prete dentro borbottava su quelle quattro ossa nere delle donne, chiuse in un sacco. Tutto si fece verso sera, di nascosto. Le vecchie del Morone, col velo in testa, andarono coi morti al camposanto raccogliendo per strada margherite e trifoglio. Il prete non ci venne perchè – ripensandoci – anche la Rosina era vissuta in peccato mortale 152. Sarà proprio il falò della casa del Valino a far rievocare a Nuto la tragica morte di Santa, la figlia del “sor Matteo”, il proprietario del cascinale dove l’orfano Anguilla trovò il suo primo lavoro. Il viaggio di Nuto e Anguilla prosegue, dunque, con la scalata della collina della Gaminella, alla ricerca della cima più alta tra i luoghi dell’infanzia del protagonista: Mi fermai a guardare in giù nella valle. Fin quassù non c’ero mai salito, da ragazzo. Si vedeva lontano fino alle casette di Canelli, e la stazione e il bosco nero di Calamandrana. Capivo che Nuto stava per dirmi qualcosa – e non so perchè, mi ricordai del Buon Consiglio. – Ci sono andato una volta con Silvia e Irene, – chiacchierai, – sul biroccio. Ero ragazzo. Di lassù si vedevano i paesi più lontani, le cascine, i cortili, fin le macchie di verderame sopra le finestre [...]. Riprese a condurmi su per quei pianori. Di tanto in tanto si guardava intorno, cercava una strada. Io pensavo com’è tutto lo stesso, tutto ritorna sempre uguale – vedevo Nuto su un biroccio condurre Santa per quei bricchi alla festa, come avevo fatto io con le sorelle [...] – Tanto vale che te lo dica, – fece Nuto d’improvviso senza levare gli occhi, – io so come l’hanno ammazzata. C’ero anch’io 153. Il monte, dalla cui cima i due vecchi amici contemplano il paesaggio, non può non evocare il luogo del “sacro”: il monte Citerone dove le baccanti, in preda alla furia dionisiaca, compivano sacrifici a Dioniso, il monte Moira dove il Dio veterotestamentario comanda ad Abramo di uccidere Isacco. Il luogo in cui, in un passato ormai lontano, ogni civiltà contadina praticava sacrifici umani per placare l’ira degli dei e garantirsi un buon raccolto. È qui, che Nuto rievoca i fatti che portarono alla condanna a morte di Santina, accusata di doppio gioco coi fascisti. Sotto l’effetto paradossale della legge dell’eterno ritorno, i falò della resistenza non potranno, allora, che sembrare uguali ai roghi dei sacrifici umani: Baracca mi tenne tre giorni lassù, un po’ per sfogarsi a parlarmi di Santa, un po’ per essere certo che non mi mettevo in mezzo. Un mattino Santa 349 NINO ARRIGO tornò, accompagnata. Non aveva più la giacca a vento e i pantaloni che aveva portato tutti quei mesi. Per uscire da Canelli s’era messo un vestito da donna , un vestito chiaro da estate, e quando i partigiani l’avevano fermata su per Gaminella era cascata dalle nuvole [...]. Non servì a niente. Baracca in presenza nostra fece il conto di quanti avevano disertato per istigazione sua, quanti depositi avevamo perduto, quanti ragazzi aveva fatto morire. Santa stava a sentire, disarmata, seduta su una sedia. Mi fissava con gli occhi offesi, cercando di cogliere i miei...Allora Baracca le lesse la sentenza e disse ai due di condurla fuori [...]. Io più che Nuto vedevo Baracca, quest’altro morto impiccato. Guardai il muro rotto, nero, della cascina, guardai in giro, e gli chiesi se Santa era sepolta lì. – Non c’è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due... Nuto s’era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. – No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo finchè bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò 154. Nella cornice della guerra e della Resistenza, il romanzo pavesiano si chiude, dunque, col sacrificio di una donna. Come ci ricorda Girard: “al pari dell’animale e del bambino, ma in grado minore, la donna, grazie alla sua debolezza ed alla relativa marginalità, può assumere un ruolo sacrificale” 155. Dietro i travestimenti maschili, cui Santina è costretta dalla sua attività di spia, non sarebbe difficile scorgere i prodromi di quell’annullamento delle differenze, di quell’inversione dei ruoli, tipico del dionisismo. Nessuno scenario sarebbe migliore della guerra per evocare lo scompiglio dionisiaco, conseguenza della “crisi sacrificale”. Il falò del corpo morto di Santina – allo stesso modo dei falò degli antichi greci e di tutte le civiltà contadine che hanno conosciuto i sacrifici156 – sarà l’offerta agli dei per risolvere la crisi sacrificale e propiziare un buon raccolto: “O Zeus, accogli quest’offerta” 157. Grazie all’ultimo romanzo pavesiano il passato mitico e sacrificale dell’umanità emergerebbe, dunque, e in tutta la sua evidenza, nella realtà contemporanea della guerra e della Resistenza, il realismo divenendo mito e il mito realismo. Ma, se il rimando pavesiano più esplicito è agli dei pagani della cultura greca, anche la “simbologia cristiana non rifiuta in blocco il passato mitico e sacrificale dell’umanità, ma lo reinterpreta integrandolo a livello simbolico, soprattutto in relazione al principio stesso che sta alla base del religioso: il sacrificio della vittima innocente. L’eucarestia rimanda in maniera tanto lampante alla logica sacrificale e antropofagica delle origini da non poter essere considerata un elemento casuale o marginale nella composizione tra uomini e Dio attraverso il sacrificio del figlio”158. Il sacrificio di Cristo non si limiterà dunque a “riscrivere” quello d’Isacco, riscriverà anche il martirio di Dioniso. 350 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA __________ NOTE 1 Cfr. P. Boitani, Riscritture, Bologna: il Mulino, 1997. Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982), Torino: Einaudi, 1997. 3 R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Bari: Laterza, 2002, p. 320. 4 Ivi, p. 321. 5 Il materiale critico sulla Bibbia è sconfinato, qui ci limitiamo a segnalare: E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), Torino: Einaudi, 1956; N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura (1982), Torino: Einaudi, 1986; H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi (1987), Milano: Garzanti, 1992; H. Fisch, Un futuro ricordato (1984), Bologna: il Mulino, 1988. 6 R. Ceserani, cit., p. 320. 7 Ci limitiamo a segnalare la pregevole attività critica di Piero Boitani, che va nella direzione di una comparazione tra la tradizione classica e quella biblica. Di Boitani si vedano – oltre al già citato Riscritture – Esodi e Odissee, Napoli: Liguori, 2004 e L’ombra di Ulisse, Bologna: il Mulino, 1992. 8 H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi (1987), Milano: Garzanti, 1992, p. 18. L’eccentrico scrittore J sarebbe in realtà – secondo Bloom – una scrittrice, una dama della corte di Roboamo, figlio di Salomone. Anche questa interpretazione ci sembra il frutto di una impostazione rigidamente “metafisica”, che sembra rifiutare quella nozione complessa di soggetto in grado di “fondare” la crisi della soggettività autoriale (nel senso “forte” auspicato da Bloom che, è noto, considera l’“indebolimento” della nozione di autore niente più che una moda figlia del “gusto parigino” [ivi, p. 13] ). 9 Genesi 4, 2-15, trad. it., La Bibbia di Gerusalemme, Bologna: EDB, 1985. 10 Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro (1972), Milano: Adelphi, 2003. 11 S. Freud, Autobiografia (1924), in Opere, 12 Voll., Torino: Boringhieri, 1966-1980, Vol. X, p. 135. 12 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 13. 13 Ivi, p. 17. 14 Ivi, pp. 17-18. 15 H. Fisch, cit., p. 124. 16 L. Coupe, Il Mito. Teoria e Storia, Roma: Donzelli, 1997, p. 10. 17 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 31. 18 “Alcuni asseriscono che Dio fece crescere un corno sulla fronte di Caino per proteggerlo da quegli assalti. Altri che Dio lo affisse con la lebbra, altri che incise un marchio sul suo braccio, per ammonire chiunque tentasse di 2 351 NINO ARRIGO vendicare Abele” (R. Graves-R. Patai, I miti ebraici (1963), Milano: TEA, 1998, p. 113). 19 R. Girard, cit., p. 32. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 38. 22 R. Graves-R. Patai, cit., p. 113. 23 Ivi, p. 115. 24 Ibidem. 25 S. Freud, Autobiografia, cit., p. 135. 26 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 277. 27 Ivi, pp. 276-77. 28 L. Coupe, Il Mito. Teoria e Storia, cit., pp. 98-99. L’analisi che Coupe fa di Freud è avvincente e appassionante. Secondo lo studioso ci sarebbero due Freud: un erede dell’illuminismo e del positivismo, lo scienziato che cerca i rimedi per far emancipare i pazienti dalle nevrosi e un seguace della “tipologia radicale”, del mito; che, per “capire il bisogno pressante di ricordare, di ritornare e di ripetere [...], fa esattamente ciò che vede fare ai suoi pazienti” (ivi, p. 99). Coupe opta per il secondo Freud. Noi, qui, opteremo per il primo (senza con ciò escludere l’esistenza del secondo). 29 Cfr. H. Bloom, Rovinare le sacre verità, cit., pp. 138-90. 30 Ivi, p. 157. 31 G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo (1972), Torino: Einaudi, 1975, p. 47. 32 Ivi, p. 5. 33 L. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano (1960), Milano: Longanesi, 1963, p. 33. 34 Ibidem. 35 R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. 32. 36 L. Fiedler, op. cit., pp. 22 e 28. 37 Cfr. F. O. Matthiessen, Rinascimento americano (1941), Torino: Einaudi, 1954. 38 Per un’analisi più approfondita delle tematiche presenti in Moby Dick, soprattutto in relazione alla presenza del mito, ci permettiamo di rimandare a “Melville e Moby Dick”, in N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese, Firenze: MEF- Atheneum, 2006, pp. 67-104. 39 Cfr. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino: Einaudi, 1994. 40 C. Pavese, “Herman Melville”, in Saggi letterari, Torino: Einaudi, 1968, p. 75. 41 Moby Dick, o la Balena, cap. I, p. 39. Faremo qui riferimento alla traduzione pavesiana del 1941, riproposta da Adelphi, Milano, 1994. Al giorno d’oggi, mentre imperversano gli studi sulla traduzione e la “traduttologia”, una traduzione come quella di Pavese sarebbe, forse, impensabile ed improbabile. Ma quest’ultima ha consegnato – a nostro avviso in maniera mirabile – un capolavoro alla storia, senza intaccarne 352 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA l’anima. Per contro, riteniamo tante traduzioni, che magari tengono conto dei dettami delle più recenti e accreditate teorie in argomento, talmente brutte esteticamente, talmente senz’anima (come d’altronde il mercato che le produce), da meritare, spesso (ahinoi!), delle sonore bocciature da parte dei lettori più smaliziati. Dal canto nostro, noi crediamo ancora, con George Steiner, “al miracolo scandaloso di traduzioni supreme fatte nell’ignoranza della lingua di partenza, in una specie di osmosi fra intuizioni che potrebbe, se soltanto sapessimo come funziona, condurci al cuore del mistero del linguaggio” (G. Steiner, Nessuna passione spenta (1996), Milano: Garzanti, 2001, p. 96). Ad ogni modo segnaliamo, tra le traduzioni più recenti, quella di Ruggero Bianchi per i tipi di Mursia, Milano, 1986-93 (soltanto un capitolo del monumentale e pregevole lavoro di traduzione e cura di tutti i romanzi melvilliani) e quella di Alessandro Ceni per i tipi di Feltrinelli, Milano, 2007 (comprende anche un saggio introduttivo dello stesso Ceni). 42 N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese, cit., p. 82. 43 Cfr. E. Zolla, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano: Adelphi, 2002. 44 Sulla simbologia dell’elemento acquatico cfr. C. G. Jung-K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1942), Torino: Bollati Boringhieri, 1994, p. 76; M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno (1949), Roma: Borla, 1999, pp. 62-63. 45 Moby Dick, cap. CXIII, pp. 508-09. 46 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 174. 47 Cfr. M. Fusillo, Il dio ibrido, Dioniso e le “Baccanti” nel Novecento, Bologna: il Mulino, 2006, p. 7. 48 Moby Dick, cap. XXVIII, pp. 153-54. 49 Moby Dick, cap. CXXXV, p. 586. 50 P. Boitani, L’ombra di Ulisse, cit., p. 111. La scena della morte di Ahab sembra evocare il finale di un recente film hollywoodiano, Fight Club (1999) di David Fincher. Tratto da un romanzo di Chuck Palahniuk, il film è una critica spietata alla società capitalistica in chiave psicanalitica, dove il protagonista, anch’esso alle prese con “l’altro”, nel tentativo di ucciderlo non può (allo stesso modo di Ahab) che uccidere se stesso. Ma, allo stesso modo, non si può non pensare al finale del romanzo di Stevenson: Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hide (1886), di cui Moby Dick – a testimonianza dell’origine archetipica del fatto letterario – sarebbe, però, un’antesignano. 51 N. Frye, Anatomia della critica (1957), Torino: Einaudi, 2000, p. 255. 52 Ibidem, p. 256. 53 E. Zolla, Archetipi (1988), Venezia: Marsilio, 2005, p. 148. 54 Cfr. Moby Dick, cap. CX. 55 Moby Dick, “Epilogo”, p. 558. 56 H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p. 106. 353 NINO ARRIGO 57 E. Zolla, Archetipi (1988), Venezia: Marsilio, 2005, p. 152. Come ci ricorda Zolla “rientra nell’archetipo il culto del sangue, che si raccoglie ancora fumante, serve per andare in trance o per esorcizzare, ed è credenza quasi universale che quello del maiale, il più prossimo all’uomo, agevoli la profezia”. A tutt’oggi, nella cultura contadina, si può assistere al rito primordiale della raccolta del sangue del maiale, che viene – con l’aggiunta di aromi – persino mangiato. Quale miglior esempio, per confermare le radici sacrificali della nostra cultura? 58 Cfr. C. G. Jung-K. Kerényi-P. Radin, Il briccone divino, Milano: SE, 2006. 59 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 187. 60 G. Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Genova: Marietti, 2006, p. 163. 61 Ivi, p. 164. 62 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 195. 63 M. Blanchot, Lo spazio letterario (1955), Torino: Einaudi, 1967. 64 M. Fusillo, cit., p. 27. 65 I. Hassan, “L’evanescenza della forma”, in P. Carravetta-P. Spedicato (a cura di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Milano: Bompiani, 1984, p. 45. 66 Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano: Garzanti 1971, pp. 440-54. 67 Cfr. Moby Dick, cap. IX. 68 Cfr. C. G. Jung, Simboli della trasformazione, in Opere, Torino: Boringhieri, 1970, Vol. V, citato da H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p. 182. 69 Ibidem. 70 E. Paci, “Moby Dick e la filosofia americana”, in Il mito di “Moby Dick”ed altri saggi americani, Roma: Editori Riuniti, 1988, p. 26. 71 Ibidem. 72 Moby Dick, cap. XCIII, p. 436. 73 M. Bettini-G. Guidorizzi, Il mito di Edipo. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino: Einaudi, 2004, p. 116. 74 Moby Dick, cap CXIII, p. 509. 75 A ben vedere una costante nell’opera di Weir, basti pensare al celebre Dead poets society – altrimenti noto col titolo L’attimo fuggente – dove, al centro del plot, si colloca la tragica scena del suicidio (sacrificio) del protagonista (figlio), epilogo del rapporto conflittuale tra un padre e un figlio. Un sacrificio compiuto in luogo dell’Akedah, dell’offerta. 76 H. Fisch, op. cit., p. 123. 77 Ivi, pp. 120-21. 78 Per l’influenza della mitologia classica nell’opera melvilliana si veda G. M. Sweeney, Melville’s Use of Classical Mithology, Amsterdam: Rodopi N. V., 1975. Secondo Sweeney, la maggior parte delle conoscenze di Melville sulla mitologia greca, non deriverebbe dalla lettura diretta dei classici in 354 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA traduzione, bensì dall’uso di un dizionario mitologico, A Classical Dictionary, a cura di Charles Anton (Ivi, p. 20). 79 Si potrebbe ipotizzare un’origine del genere “poliziesco” proprio dalle tragedie classiche. La curiosa origine etimologica della parola “investigatore” (dal latino vestigium, pianta del piede, da cui vestigare, in-vestigare [andare a caccia, cercare] e, infine, in-vestigator) sembrerebbe infatti rimandare a Edipo, l’“investigatore” dai piedi gonfi (forse anche per il faticoso errare). 80 Billy Budd, marinaio, tr. it., di Ruggero Bianchi, in Tutte le opere narrative di Herman Melville, cit., Vol. VII, pp. 30-31. 81 A. Ferrari, Dizionario di mitologia, Roma: Gruppo Editoriale l’Espresso, 2006, Vol. II, p. 312. Alcune tradizioni presentano Proteo come figlio di Poseidone e re d’Egitto, padre di Telegono e Poligono (o Tmolo). 82 Billy Budd, marinaio, cit., pp. 42-43. 83 Ivi, p. 33. 84 Billy Budd, marinaio, cit., pp. 36-37. 85 Per l’opposizione tra natura e cultura nella narrativa americana si veda L. Marx, La macchina nel giardino. Tecnologia e ideale pastorale in America (1964), Roma: Edizioni Lavoro, 1987. 86 Billy Budd, marinaio, cit., pp. 52-54. 87 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 182. 88 Ivi, p. 32. 89 G. Fornari, op. cit., p. 355. 90 Ivi, p. 356. 91 Cfr. H. Fisch, op. cit., pp. 209-31. 92 Billy Budd, marinaio, cit., pp. 33-34. 93 G. Fornari, op. cit., p. 203. 94 Ivi, pp. 204-05. 95 R. Bianchi, Billy Budd, marinaio, p. 34 n. 96 Moby Dick, cap. CX, p. 502. 97 R. Barthes, Saggi critici (1964), Torino: Einaudi, 2002, p. 134. 98 Billy Budd, marinaio, cit., p. 56. 99 Ivi, p. 66. 100 H. Fisch, Un futuro ricordato, cit., p. 124. 101 R. Girard, Il sacrificio (2002), Milano: Raffaello Cortina, 2004, p. 84. 102 Billy Budd, marinaio, pp. 73-74 e 80. 103 L. Coupe, op. cit., p. 99. 104 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 127. 105 Trad. it. di A. Polledro, Garzanti, Milano, 1983. 106 Potremmo considerare Vattimo (col suo cristianesimo fuori dalla religione) e Girard (e il suo cattolicesimo tradizionalista) alla stregua dell’“utopista” e del “conservatore” (cfr. S. Givone, Storia del nulla, Bari: Laterza, 2006, pp. 112-20). 355 NINO ARRIGO 107 Per il “mistero” dell’elezione come nota dominante della narrativa Kafkiana si veda R. Calasso, K., Milano: Adelphi, 2005, p. 16. 108 Citato da H. Bloom, Rovinare le sacre verità, cit., p. 157. 109 Ivi, p. 158. 110 Ibidem. 111 H. Fisch, op. cit., p. 124. Secondo noi – al contrario di quanto sostenuto da Fisch – è il camminare insieme di padre e figlio ad eliminare l’erranza e dunque la prospettiva del divenire storico. 112 F. Kafka, Lettera al padre, Milano: Feltrinelli, 2002, pp. 19-20. 113 Cfr. G. Deleuze-F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 313. 114 Cfr. R. Calasso, La letteratura e gli dei, Milano: Adelphi, 2002, pp. 14159. 115 Il romanzo pubblicato separatamente a Torino presso Einaudi nel 1957, fu in seguito inserito nella trilogia comprendente anche Il visconte dimezzato (1952) e il Cavaliere inesistente (1959), pubblicata sempre da Einaudi, nel 1960, con il titolo: I nostri antenati. L’edizione comprende un importante saggio introduttivo dell’autore. 116 I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e racconti, “I Meridiani”, Milano: Mondadori, 2003, Vol. I, p. 549. 117 G. Deleuze, “Bartleby o la formula”, in Deleuze G.-Agamben G., Bartleby. La formula della creazione (1989), Macerata: Quodlibet, p. 35. 118 Ibidem. 119 I. Calvino, Il barone rampante, cit., p. 550. 120 C. Pavese, Saggi letterari, cit., p. 245. 121 È l’intertesto quello spazio ambiguo tra la “verità” e il “significato”, il mito e la storia, la “poesia” e la “fede” (per dirla con Bloom). 122 G. Deleuze-F. Guattari, cit., p. 315. 123 Ibidem. 124 In un articolo del giugno del 1965, scritto per il Giorno, non sfugge allo straordinario intuito di Ottiero Ottieri – sensibilissimo rabdomante del pensiero, straordinariamente abile nel collegare psiche individuale e psiche collettiva – l’influenza del “campo sociale” paranoico fascisteggiante esercitata, sulla generazione dei figli sessantottini, da parte di quella degli “edipici” padri cresciuti all’ombra del mito mussoliniano del padre (cfr. F. Marcoaldi, “Le antenne della psiche”, in Almanacco dei libri di la Repubblica, 26 febbraio 2005, p. 36). 125 I. Calvino, Il barone rampante, cit., p. 776. 126 R. Graves, I miti greci, Milano: Longanesi, 2004, p. 30. La storia del titano ribelle è narrata da Esiodo nella sua cosmogonia. 127 Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro (1922), Torino: Boringhieri 1973. 128 L. Coupe, op. cit., pp. 10-11. 129 F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), Milano: Adelphi, 2000, p. 69. 130 Ivi, pp. 68-70. 131 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 136-37. 356 IL CRIMINE PRIMORDIALE. LE RISCRITTURE DEL TEMA DEL SACRIFICIO E LA LETTERATURA 132 R. Calasso, “Monologo fatale”, in F. Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Milano: Adelphi, 2004, p. 166. 133 Ibidem. 134 G. Fornari, op. cit., p. 603. 135 Ibidem. 136 Cfr. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano: Adelphi, 2006. 137 Sui Dialoghi con Leucò si vedano i contributi fondamentali di M. L. Premuda, “I Dialoghi con Leucò e il realismo simbolico di Pavese”, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Vol. XXVI (1957), pp. 221-49; E. Corsini, “Orfeo senza Euridice: i Dialoghi con Leucò e il classicismo di Pavese”, in Sigma, n. 3-4 (1964), pp. 121-46; G. Guglielmi, “Mito e Logos in Pavese”, in Letteratura come sistema e come funzione, Torino: Einaudi, 1967, pp. 138-47. 138 Pavese, è il caso di ricordarlo, dirigeva presso Einaudi, in collaborazione con Ernesto De Martino, la cosiddetta “Collana viola”, dedicata, appunto, agli studi etnologici e antropologici. 139 B. Van den Bossche, “Nulla è veramente accaduto”. Strategie discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese Firenze: Franco Cesati Editore, 2001, p. 423. Da segnalare anche un breve testo teatrale del 1938, Si parva licet, “che propone una riscrittura del mito biblico del peccato originale e anticipa per certi versi l’operazione dei Dialoghi con Leucò” (ibidem, p. 173). Di B. Van den Bossche si veda anche il più recente Il mito nella letteratura italiana del Novecento: trasformazioni ed elaborazioni, Firenze: Franco Cesati Editore, 2007. 140 M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Introduzione a Pavese, Bari: Laterza, 1992, p. 112. 141 Cfr. C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi, 1999, p. 8. 142 Ivi, p. 9. 143 R. Graves, I miti greci, cit., pp. 186-87. 144 Ivi, p. 187. 145 M. Lavagetto (a cura di), Palinsesti freudiani. Arte letteratura e linguaggio nei “Verbali” della società psicanalitica di Vienna 1906-1918, Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. XXXVIII. 146 Per la genesi di questo modulo narrativo si vedano due importanti note del Diario. Nella prima in data 1 Marzo 1940 si legge: “Perciò il protagonista se racconta lui, dev’essere più che altro uno spettatore (Dostoevskij: “nel nostro distretto, Moby Dick: ‘chiamatemi Ismaele’”). Se si racconta in prima persona, è evidente che il protagonista deve sapere fin dall’inizio come la sua avventura andrà a finire. A meno di farlo parlare al presente”. La seconda è in data 16 Gennaio 1948: “La tendenza contemporanea a narrare in prima persona è un inconscio conato verso la naturalezza che può vuole restare pagina racconto non gesto. È un modo di rimbarbarirsi, il solo consentito ora 357 NINO ARRIGO giacchè il teatro sa, da noi, troppo di schema accademico”. L’assoluta adesione a questo modulo narrativo emerge in particolare da due luoghi del romanzo: mentre al capitolo trentesimo Anguilla, ricordando il periodo trascorso alla Mora con Silvia e Irene, fa riferimento ad una corsa di cavalli in cui “aveva vinto un cavallo di Neive (cfr. C. Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Torino: Einaudi, 2000, p. 887), nel capitolo successivo, rievocando con Nuto lo stesso evento, dirà: “adesso non mi ricordo più chi l’ha vinta” (Ibidem, pp. 890-91). 147 N. Arrigo, Herman Melville e Cesare Pavese, cit., p. 125. Ci permettiamo di rimandare anche a N. Arrigo, Mito ed ermeneutica nella poetica pavesiana, in Rivista di Studi Italiani, Anno XXV, n° 2, Dicembre 2007, pp. 58-79. 148 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 77. C. Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi a cura di Marziano Guglielminetti, cit., pp. 872-73. 150 Ivi, p. 873. 151 Ivi, pp. 875-76. 152 Ivi, p. 877. 153 Ivi, pp. 890-91. 154 Ivi, pp. 895-96. 155 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 200. 156 Cfr. Il dialogo “I fuochi”, pp. 95-98. 157 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 98. 158 P. Antonello, “Postfazione” a R. Girard, Il sacrificio (2002), Milano: Raffaello Cortina, 2004, p. 105. Per le reinterpretazioni cristiane dei miti greci si veda: H. Rahner, Miti greci nell’interpretazione cristiana, Bologna: il Mulino, 1990. 149 358