Il pater familias - Liceo Statale J.Joyce

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Il pater familias - Liceo Statale J.Joyce
Il pater familias
Summa erat patris auctoritas temporibus antiquis: tunc dominus erat uxoris, liberorum, servorum,
sed postea eius auctoritas facta est minus imperiosa. Domi autem matres sunt dominae: curant
liberos et domum gerunt. Non solum maritus,uxor, liberi sed etiam servi pars erant familiae.Servi
sunt plurimi. Multi operam praestant domi, in urbe, sed multi vivunt ruri et dediti sunt agris.Pater
familias domi suae rex est; habet in liberos patriam potestatem, in servos dominicam
potestatem. Pater amovere recens natum potest, filiumque, cum adoleverit, vendere, necare,
catenis vincire potest. Pater familias eadem est potestas necandi, puniendi, vendendi, frustibus
percutiendi servos suos. Ille rebus familiaribus omnibusque familiae negotiis praeest.
Somma era l'autorità del padre ai tempi antichi:allora era il padrone della moglie,dei figli,dei
servi,ma dopo di lui l'autorità diventò meno potente in casa invece le madri sono le padrone :curano
i figli e si occupano della casa. Non solo il marito,la moglie, i figli,ma anche i servi sono parte della
famiglia.I servi sono moltissimi.Molti svolgono il lavoro in casa,in città ma molti vivono in
campagna e sono dediti ai campi.Il padre di famiglia è il re della sua casa e ha la patria potestà
sui figli,sui servi la potestà del padrone.Il padre può allontanare il neonato e il figlio,quando sarà
cresciuto può legarlo a se con catene,venderlo,ucciderlo.Il padre di famiglia ha la stessa autorità di
uccidere ,di punire,di vendere,di percuotere i suoi servi con un bastone.Quello è a capo dei beni
familiari e di tutte le occupazioni della famiglia.
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“Tu proverai come sa di sale lo pane altrui…”
Se anche tu mi giurassi che non provi vergogna
dei tuoi propositi e sei ancora convinto
che sommo bene sia sfamarsi alla tavola altrui,
e sopportare affronti puoi
che all'infame mensa di Cesare
nemmeno Sarmento o Gabba, per quanto ignobili,
avrebbero subito,
io non ti crederei.
Niente è piú facile che accontentare il ventre;
ma ammetti pure di non aver nemmeno quel poco
che occorre a uno stomaco vuoto:
non ci son piú banchine libere?
un ponte o, men che meno, uno straccio di stuoia?
Vale dunque tanto per te
una cena inframmezzata d'ingiurie?
cosí rabbiosa è la tua fame?
Umilia meno battere all'addiaccio i denti,
rosicchiare i ripugnanti tozzi di pane
che si gettano ai cani.
Fíccati bene in testa che un invito a cena
costituisce il saldo di servizi resi.
Un pasto: questo frutta l'amicizia dei potenti.
Il tuo tiranno te lo mette in conto
e te lo mette anche se t'invita,
ahimè, cosí di rado.
Dopo mesi d'oblio gli salta in mente
d'invitare un cliente
perché vuoto non rimanga un divano:
'Stiamo un po' insieme', gli dice.
Il colmo dei tuoi voti: cosa vuoi di piú?
Trebio ha ben ragione d'interrompere il sonno
e precipitarsi con le scarpe slacciate
al rito del saluto, nel timore
che la folla dei clienti abbia già concluso il giro
al lume incerto delle stelle,
quando il gelido carro di Boote
ruota ancora pian piano su sé stesso.
E poi, che cena! Neppure la lana grezza
vorrebbe quel vinaccio per sgrassarsi:
in tanti Coribanti
vedrai mutarsi i convitati!
Si dà il via con gli insulti;
ma ben presto anche tu, malconcio,
ti trovi a roteare coppe, a tergerti
col tovagliolo insanguinato le ferite,
ogni volta che tra voi e la schiera dei liberti
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scoppia una rissa combattuta a colpi di bottiglia.
L'anfitrione intanto beve vino
imbottigliato al tempo in cui i consoli
portavano i capelli ancora intonsi,
e ne conserva di quello pigiato
durante le guerre sociali.
Lui, che nemmeno un bicchiere ne manderebbe
a un amico sofferente di stomaco,
domani si berrà un vino
dei colli Albani o dei Setini,
cosí vecchio che il tempo
sotto un velo di muffa ne avrà cancellato
sull'anfora antica origine e nome;
un vino uguale a quello che bevevano,
incoronati di fiori, Tràsea ed Elvidio
nell'anniversario dei due Bruti e di Cassio.
E in che coppe li beve il tuo Virrone!
enormi, incrostate d'ambra, tempestate di gemme.
A te oggetti d'oro niente,
o se per caso te li danno,
ti mettono un guardiano al fianco
che controlla le pietre
e tiene d'occhio le tue unghie aguzze.
Comprendilo: lí c'è un diaspro famoso,
invidiato da tutti. Come tanti,
anche Virrone trasferisce le sue gemme
dalle dita alle coppe, e sono gemme
come quelle che il giovane
preferito al geloso Iarba
incastonava a vista sul fodero della spada.
Tu invece vuoterai un calice
a quattro becchi,
che porta il nome di un ciabattino di Benevento,
e in piú sbrecciato al punto
da invocare zolfo per le crepe del vetro.
Se per troppe pietanze e troppo vino
ribolle lo stomaco del padrone,
ecco pronta per lui acqua bollita,
piú fredda della neve getica.
Lamentavo che a voi
si servisse altra qualità di vini?
Ma anche l'acqua che bevete è diversa!
E ti porge il bicchiere
un galoppino africano o la mano ossuta
di un negro della Mauritania,
che non vorresti davvero incontrare
quando nel cuore della notte
t'inerpichi in mezzo ai sepolcri della via Latina.
Davanti a lui invece
ecco, c'è un fiore d'Asia,
pagato piú di quanto possedevano
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il bellicoso Tullo ed Anco; a farla breve,
piú di tutti i poveri arredi
dei re romani messi insieme.
Stando cosí le cose,
quando avrai sete
rivolgiti al tuo nero Ganimede.
Un servo pagato un tal patrimonio
non sa come mescere il vino ai poveri:
è bello e giovane, la sua boria si spiega.
Quando mai arriverà sino a te?
quando mai, anche se lo preghi,
ti verserà l'acqua, calda o fredda che sia?
Già è seccato di dover servire un vecchio cliente,
seccato che tu gli chieda qualcosa
e in piú sdraiato come sei,
mentre lui se ne sta in piedi.
[Ogni casa importante
è piena di servi altezzosi.]
Eccone un altro: guarda come brontola
nel porgerti il pane appena spezzato!
Tozzi ammuffiti di farina dura come il marmo,
che per quanto tu batta i denti
non riesci ad intaccare.
Il pane tenero, bianco, impastato
con fior di farina, è riservato al padrone.
Tieni a freno la mano;
abbi rispetto per quel pane.
Avanti, prova a mostrarti sfrontato:
addosso come un fulmine ti piomba
chi ti farà mollar la presa:
'Ospite sfacciato, attingi al paniere tuo!
Non sai distinguere il colore del tuo pane?'.
'Solo per questo dunque,
trascurando tante volte mia moglie,
mi sono inerpicato per il gelido Esquilino
in primavera sotto la furia di un temporale,
tra sferzate di grandine,
e col mantello tutto inzuppato di pioggia!'
Guarda quell'aragosta, che vien servita al padrone,
come guarnisce il piatto col suo lungo corpo
e come in mezzo a un mare di asparagi con la sua coda
sembra spregiare gli invitati,
mentre sulle mani di un servo gigantesco
passa trionfante tra voi.
E a te, vero banchetto funebre,
mezzo uovo che avvolge un gamberetto in un piattino.
Lui annega il pesce nell'olio di Venafro;
a te, poveruomo, vien dato un cavolo slavato
che puzza di lucerna
(…)
Giovenale,Satira V
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“L’accollo”
(…)Non molla. Mi tallona. «Insomma, cosa vuoi?» gli butto là. E lui:
«dovresti pur conoscerci» dichiara «siamo intellettuali». «avrò
per te» gli dico «stima ancor maggiore». Tentando disperato di
tagliare l’ora acceleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. «beato te, Bolano, spirito bollente!»
rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro, garrulo, ciarlava, proclamava
il suo entusiasmo per le strade, la città.
Io non replicavo. «ma tu» sogghigna «tu non vedi l’ora di
piantarmi in asso. Da un bel pezzo l’ho notato. Niente da fare: ti terrò
ben stretto, restandoti alle costole. Dove sei diretto, adesso?» «giri
inutili per te: vado a trovare una persona che certo non conosci. È
a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare»
«non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro, ti accompagno».
Mi si abbassano le orecchie, come a un somarello rassegnato suo
malgrado quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello
ricomincia: «mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno
quanto quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia
scrivere più versi, e più velocemente; chi danzi con maggiore grazia.
Se udisse il mio canto, Ermogene m’invidierebbe».
Era giunto il momento d’interromperlo: «hai ancora la madre,
dei parenti cui stai a cuore il tuo stato di salute?» «più
nessuno, tutti li ho sepolti» «beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
(…) Eravamo giunti al tempio di Vesta. Scoccava in quel momento l’ora quinta,
e « guarda caso » gli toccava presentarsi in tribunale,
in seguito a cauzione; se non fosse comparso, il processo era perduto.
«fammi un piacere» salta su «assistimi un istante». «fossi matto:
non mi reggo in piedi, di diritto civile non m’intendo,
e poi ho fretta d’andare dove sai». «e io che faccio?» dice
«rinuncio a te, o alla mia causa?» «a me, ti prego»
«nient’affatto» replica, e va avanti. È duro contrastare un vincitore:
finisco col venire dietro. «come va, con Mecenate?»
torna alla carica. «è un uomo assennato, coltiva pochi amici».
«nessuno ha saputo sfruttare più abilmente la fortuna. Avresti
un ottimo assistente, bravo a spalleggiarti, se soltanto acconsentissi
a presentarmi a lui. Garantito che allora li sbaraglieresti
tutti». «no, non è come tu pensi che viviamo in quel circolo:
non c’è ambiente più limpido, più immune
da simili bassezze. Non mi da nessun fastidio, t’assicuro,
che un tale sia più ricco, un altro più dotato di cultura: ognuno
ha il posto che gli spetta». «fantastico, incredibile!» «è
la pura verità!» «ma tu mi fai bruciare ancora di più
dalla gran voglia d’accostare il personaggio!» «se ci tieni tanto,
con le tue capacità lo espugnerai; è tutt’altro che invincibile:
proprio per questo, anzi, non concede facilmente un primo approccio» «non
mi smentirò: corromperò i suoi servi a colpi di tangenti. Se per oggi
resterò tagliato ancora fuori, non desisterò; aspetterò il momento
buono, cercando d’incontrarlo nei crocicchi, poi d’accompagnarlo. Non c’è
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nulla in questa vita, che si ottenga senza sforzo». Mentre si esibisce,
ecco spunta Aristio Fusco, caro amico, lo conosce benissimo, lui, quel
seccatore. Ci fermiamo per la strada «donde vieni?
Dove vai?» ci si chiede a vicenda, e si risponde. Accenno a tirarlo
per la veste, cerco di tastare con la mano le sue braccia insensibili. Gli faccio
dei segnali, strizzatine d’occhi: che mi tiri lui fuori dai guai! E invece,
dispettoso, ride, fa lo gnorri. Il fegato mi brucia dalla bile.
«mi pare che tu avessi l’intenzione di parlarmi in confidenza di qualcosa,
almeno, lo dicevi» «certo, mi ricordo. Te ne parlerò,
sì, ma in un momento più opportuno. Oggi è novilunio,
sabato: vuoi forse spernacchiare i giudei circoncisi?» «Non ho»
rispondo «scrupoli religiosi». «ma ce li ho io; soffro, come tanti, di qualche
debolezza in più. Abbi un poco d’indulgenza: un’altra volta ti dirò». Che
sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia
col pugnale sospeso sulla testa. Colpo di scena: viene incontro al seccatore
il suo avversario, e ad alta voce: «infame, dove scappi?» lo apostrofa;
e a me: «testimonieresti a mio favore?» non ho difficoltà a
porgergli l’orecchio. Vanno dritti in tribunale. Gridano ambedue.
Grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi.
Orazio, Satire,9
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Menenio Agrippa convince la plebe a tornare a Roma e vengono creati i tribuni
della plebe
Placuit igitur oratorem ad plebem mitti Menenium Agrippam, facundum uirum et quod inde
oriundus erat plebi carum. Is intromissus in castra prisco illo dicendi et horrido modo nihil aliud
quam hoc narrasse fertur: “Tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed
singulis membris suum cuique consilium, suus sermo fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo
labore ac ministerio uentri omnia quaeri, uentrem in medio quietum nihil aliud quam datis
uoluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes
quae acciperent conficerent. Hac ira, dum uentrem fame domare uellent, ipsa una membra totumque
corpus ad extremam tabem uenisse. Inde apparuisse uentris quoque haud segne ministerium esse,
nec magis ali quam alere eum, reddentem in omnes corporis partes hunc quo uiuimus uigemusque,
diuisum pariter in uenas maturum confecto cibo sanguinem. Comparando hinc quam intestina
corporis seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse mentes hominum.”
Agi deinde de concordia coeptum, concessumque in condiciones, ut plebi sui magistratus esset
sacrosanti, quibus auxilii latio adversus consules esset, neve cui patrum capere eum magistratum
liceret. Ita tribuni plebei creati duo, C. Licinio et L. Albinus.
Livio, Ab Urbe condita,II,32-33
Si decise allora di mandare alla plebe come portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di
straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini popolari. Una volta introdotto nel campo, pare
che raccontò questo apologo con lo stile un po' rozzo tipico degli antichi: «quando le membra del
corpo umano non costituivano ancora un tutt'uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo
linguaggio e un suo modo di pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare
a destra e a sinistra per provvedere a ogni necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto
zitto lì nel mezzo a godersi il bendiddio che gli veniva dato. Allora, decisero di accordarsi così: le
mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo,
né i denti lo avrebbero più masticato. Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo
stomaco, le membra stesse e il corpo tutto erano ridotti pelle e ossa. In quel momento capirono che
anche lo stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era
nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito equamente per le vene e arricchito dal cibo
digerito, il sangue che ci dà vita e forza». Mettendo in parallelo la ribellione interna delle parti del
corpo e la rabbia della plebe nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare.(…)
Si cominciarono le trattative per un accordo e lo si raggiunse a condizione che la plebe avesse i
suoi magistrati inviolabili ai quali spettasse il diritto di intervento contro i consoli e nessuno dei
patrizi avesse facoltà di assumere questa carica. Furono creati così due tribuni della plebe, C.Licinio
e L. Albino
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Strumenti parlanti
Nunc dicam, agri quibus rebus colantur. Quas res alii dividunt in duas partes: in homines et
adminicula hominum, sine quibus rebus colere non possunt; alii in tres partes: istrumenti genus
vocale et semivocale et mutum,vocale, in quo sunt servi,semivocale, in quo sunt boves, mutum,
in quo sunt plaustra.
Ora parlerò dei mezzi con cui si coltivano i campi. Alcuni li dividono in due categorie: uomini e
attrezzi indispensabili ai lavori agricoli; altri in tre categorie: strumenti parlanti,semiparlanti e muti.
Alla prima categoria appartengono gli schiavi, alla seconda i buoi, alla terza i carri.
Cassius scribit(…)mancipia esse oportere neque formidulosa neque animosa(…). Neque eiusdem
nationis plures parandos esse: ex eo enim potissimum solere offensiones domesticas fieri.Praefectos
alacriores faciendum praemiis dandaque opera ut habeant peculium et coniunctas conservas, e
quibus habeant filios. Ho enim fiunt firmiores ac coniunctores fundo. Itaque propter has
cognationes Epiraticae familiare sunt illustriores ac cariores.
Cassio,(…) quanto agli schiavi, scrive che non devono essere né paurosi né sfrontati.(…) E non è
opportuno neppure procurarsi parecchi schiavi della medesima origine, perché tali agglomerati sono
la causa più frequente di rivolte. Bisogna poi rendere più solerti i capi, dando loro ricompense e
adoperandosi perché abbiano un “peculio” e si uniscano con compagne di schiavitù che gli diano
dei figli. In questo modo diventeranno più fedeli e più attaccati al fondo. Ề proprio a causa di questi
vincoli di parentela che le famiglie di schiavi dell’Epiro sono particolarmente note e costose.
Varrone, De re rustica,1,17 (I sec. a.C.)
Uno storico, qualche anno dopo la promulgazione, raccoglie le diverse opinioni
dei cittadini sulla Lex Canuleia
Nam anni principio et de conubio patrum et plebis C.Canuleius tribunus plebis rogationem promulgavit
qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium temebantur.
Infatti all'inizio dell'anno il tribuno della plebe Gaio Canuleio presentò una legge sul matrimonio tra
patrizi e plebei in seguito alla quale i patrizi ebbero a temere che il loro sangue fosse contaminato e ne
fossero sconvolti i diritti detenuti dalle famiglie del patriziato.
Tito Livio, Ab Urbe Condita, IV
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Leggi delle Dodici Tavole
Non si avanzino proposte di legge che interessino singole persone. Tav. IX
Se il debitore ha confessato o la causa è stata aggiudicata, al debitore siano concessi trenta giorni.
(Se alla scadenza del termine il debitore non avrà ancora pagato)
il creditore gli getti le mani addosso, lo conduca in tribunale. Se la sentenza lo condanna, non
adempie, e nessuno si presenta a garantire in tribunale, il creditore lo conduca con sé a casa e lo
leghi con catene e con corde del peso non superiore a quindici libbre.
(Il debitore insolvente veniva quindi rinchiuso in un carcere. Il problema del suo sostentamento
veniva affrontato così )
Viva del proprio, se vuole. Se del proprio non vive, chi lo terrà in catene, gli offra una libbra di
carne al giorno. Se vorrà gliene dia di più.
( il debitore era quindi portato tre volte al mercato, in attesa che qualcuno lo riscattasse. Se questa
circostanza non si verificava gli veniva inflitta una pena crudele)
Al terzo mercato, il debitore venga tagliato in pezzi, e se qualcuno dei creditori avrà tagliato più o
meno non sia colpevole.
Se uno avrà amputato un arto e non si accorda con la vittima per l’indennizzo, gli si faccia
altrettanto. Se qualcuno, con la mano o con un bastone, ha rotto un osso,se lo ha fatto ad un uomo
libero paghi la pena di trecento assi, se lo ha fatto ad uno schiavo ne paghi centocinquanta.
Chi avrà scagliato un incantamento sul raccolto del grano altrui o avrà attirato il grano del vicino sul
proprio campo, sia punito con la morte.
Se uno è chiamato in giudizio, ci vada. Se non ci va, lo si conduca a forza con i testimoni.
A un ricco faccia garanzia un ricco; a un povero chiunque può far garanzia Tav 1
Si pater filium ter venumduit, filius a patre liber esto. Tab IV
Ciò che uno dispone per testamento circa il suo denaro e il suo patrimonio sia giuridicamente
valido.
Le donne a causa della leggerezza del loro animo, restino sotto tutela.
Se uno rompe la faccia a un libero con la mano e col bastone, paghi trecento, se ad un servo paghi
centocinquanta (sesterzi)
Se uno ruba di notte e viene ucciso, l’uccisione sia legittima
Se qualcuno pubblica un libello, che diffama o reca vergogna ad alcuno, sia condannato alla pena
capitale tav. VIII
Fontes Iuris Romani antejustiniani, l2,3,8
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Editto di Rotari
Se qualcuno avrà tramato congiure e ordinato disegni contro la vita del re, incomba su di lui la pena
di morte e i suoi beni vengano confiscati.
Se qualcuno d’accordo con il re avrà congiurato per la morte di un altro o, per ordine dello stresso
re, avrà ucciso un uomo, non sia incriminabile; né egli né i suoi eredi subiscano in seguito molestia
o requisizione di beni da parte della vittima o dei suoi eredi (…)
Se qualcuno avrà ucciso il suo padrone, sia ucciso egli stesso.
48. dell’occhio levato
Se qualcuno strappa un occhio ad un altro, si calcoli il valore (di quell’uomo) come se lo avesse
ucciso, in base all’angargathungi, cioè secondo il rango della persona; e la metà di tale valore sia
pagata da quello che ha strappato l’occhio.
49.Del naso tagliato.
Se qualcuno tagli il naso ad un altro, paghi la metà del valore di costui, come sopra.
50.Del labbro tagliato. Se qualcuno taglia il labbro ad un altro, paghi una composizione di 16 solidi
e se si vedono i denti, uno, due o tre, paghi una composizione di 20 solidi.
51.Dei denti davanti.
Se qualcuno fa cadere ad un altro un dente di quelli che si vedono quando si ride, dia per un dente
16 solidi; se si tratta di due o più denti, di quelli che si vedono quando si ride, si paghi e si calcoli
la composizione in base al loro numero.
52. Dei denti della mascella.
Se qualcuno fa cadere ad un altro uno o più denti della mascella, paghi per un dente una
composizione di 8 solidi.
53. dell’orecchio tagliato. Se qualcuno taglia un orecchio ad un altro, gli paghi una composizione
pari alla quarta parte del suo valore.
54.Della ferita al volto. Se qualcuno provoca una ferita al volto di un altro, gli paghi una
composizione di 16 soldi.
Monumenta Germaniae Historica, Leges, IV,42-45
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Ius civile et ius gentium
Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium
hominum iure utuntur : nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est
vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines
constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure
omnes gentes utuntur. Populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium
hominum iure utitur.
Tutti i popoli che son retti da leggi e consuetudini si valgono di un diritto che in parte è loro
proprio, in parte è comune a tutti gli uomini; infatti il diritto, che ciascun popolo si è stabilito da se
stesso, è specificamente proprio di quel popolo e si chiama diritto civile, nel senso di diritto proprio
della civitas, mentre quello che la ragion naturale ha stabilito fra tutti gli uomini viene osservato
nello stesso modo presso tutti i popoli e viene chiamato diritto delle genti, nel senso di diritto del
quale tutte le genti si valgono. Così il popolo romano si vale in parte di un diritto che gli è proprio,
in parte di un diritto comune a tutti gli uomini.
Gaio, Istitutiones,1,1
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Glossario
Le parole del diritto
ius e lex uniti a verbi
Iura dare: stabilire i principi che regolano i comportamenti degli uomini nella società.
Iura dicere: formulare le leggi generali ed enunciare la norma relativa al caso concreto posto in
esame.
Iura promere/respondere: dare consigli legali ad un cliente
Ius petere: reclamare un diritto, domandare giustizia
In ius vocare: convocare uno in tribunale
I verbi dell’iter legislativo
Legem ferre/rogare: presentare, proporre una legge
Legem promulgare : pubblicare una proposta di legge
Legem sciscere/iubere/accipere: approvare una legge
La parola italiana diritto deriva da directum che nel tardo latino sostituì la parola ius. Directum cioè
dritto significò per metafora ciò che è giusto in contrapposizione a ciò che è storto (e perciò
sbagliato). Anche in inglese la parola right significa dritto, giusto
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Le parole della politica
Res pubblica: lo Stato sia nella sua forma costituzionale, sia come organo che gestisce ed
amministra gli interessi pubblici quindi governo.
Civitas: lo stato come insieme di istituzioni dei cives, cioè coloro che possiedono il diritto di
cittadinanza . Possiamo tradurlo con “società civile”. Nella lingua italiana è prevalso il significato di
città peraltro già esistente in latino come metonimia.
Societas: il termine viene adoperato per indicare tutte quelle alleanze pubbliche o private, politiche
o militari, che implicavano un fine o un interesse comune di qualsiasi genere. In italiano il termine
società, in ambito politico, fa più che altro riferimento a alla società civile, cioè all’insieme dei
cittadini partecipi di una comunità organizzata.
Urbs: la città in senso territoriale, lo spazio di territorio che è racchiuso entro le mura cittadine e
che si contrappone a rus, cioè allo spazio del contado. In italiano il termine si è conservato in
aggettivi come “urbano”
Oppidum:è la città e qualunque luogo fortificato
Gens: indica il complesso delle familiae o stirpes legate fra loro da comune origine, nomi e riti
religiosi. In età arcaica il sostantivo fa riferimento solo alle famiglie patrizie (es. la gens Iulia); un
senso lato indica le popolazioni minori aventi un nome di origine comune.
Natio “popolazione, nazione” che ha comunanza di origine, di lingua e di costume. Cicerone usa il
vocabolo per indicare popoli lontani e barbari
Populus: il complesso di tutti coloro che costituiscono una comunità politica, uno Stato. Ciò che
determina l’unità di un popolo non è la comunanza di origine o di stirpe, ma la comune utilità. Il
vocabolo ha una forte valenza politica: si oppone al senatus e a plebs.
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