PRICING E «BASILEA 2» Quali effetti sui tassi di interesse?

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PRICING E «BASILEA 2» Quali effetti sui tassi di interesse?
PRICING E «BASILEA 2»
Quali effetti sui tassi di interesse?
di DAVIDE ROMELLI
La realtà italiana è caratterizzata da una forte discrasia nei termini e nelle
condizioni di finanziamento concesso alle diverse tipologie d’impresa;
assistiamo infatti a profonde differenze per quanto riguarda la possibilità
di accesso al credito sia nelle diverse aree geografiche del Paese, sia in base alle dimensioni delle imprese stesse, nonché in relazione al settore di
appartenenza, a causa della maggior importanza data a caratteristiche facilmente individuabili attraverso la semplice osservazione dei dati: per
quanto riguarda le aree geografiche è senz’altro più facile l’accesso al credito
per le imprese che operano nelle regioni del centro-nord piuttosto che
per quelle attive nelle realtà meridionali ed insulari, nonostante proprio in
tali regioni le aziende di credito ottengano buona parte della loro «raccolta»; per quanto riguarda invece la dimensione aziendale è indubbiamente facilitato l’accesso al credito per le imprese di grandi dimensioni rispetto
alle piccole-medie imprese che comunque rappresentano una più che rilevante parte del mercato italiano. La differenza sopra indicata riguarda
sia in una fase iniziale la mera «disponibilità» dell’istituto di credito a
concedere finanziamenti, sia il tipo di «garanzia» richiesto al cliente in
termini di potenziale solvibilità futura ovvero di garanzie «reali», sia infine il vero e proprio «costo» del finanziamento.
Una delle variabili che notevolmente danneggia una corretta determinazione del prezzo di un finanziamento e la sua concessione è la
presenza di asimmetrie informative sul mercato dell’intermediazione che
interferiscono nel regolare svolgimento delle attività generando fenomeni
di adverse selection e di moral hazard da parte delle imprese prenditrici che
cercano di distinguersi per ottenere fondi a condizioni migliori, modificando nel breve e medio periodo le proprie caratteristiche senza considerare le conseguenze che eventualmente potrebbero derivare dall’alterazione delle informazioni.
Lo sviluppo del sistema bancario con l’intervento di operatori di
livello internazionale e di riflesso con l’aumento della dinamicità e competitività di ogni singolo gruppo bancario dovrebbero nel tempo portare
a una riduzione di queste differenze di trattamento; nel frattempo però il
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pricing del finanziamento, comunemente chiamato tasso di interesse di un
prestito, lungi dall’essere esclusivamente un ricavo per le banche, uno
strumento di politica economica e un costo per le imprese, è l’elemento
fondamentale alla base del «conflitto» di potere tra imprenditore e banca,
in quanto determinante nella creazione di valore per entrambi gli attori.
Senz’altro, qualunque sia lo scenario effettivo, questo «prezzo» assume
un’importanza fondamentale per il sistema economico nazionale e internazionale poiché da un lato influenza in modo determinante le decisioni
degli imprenditori circa la convenienza o meno di un investimento, e
dall’altro è una componente significativa per la gestione economica delle
aziende di credito, poiché permette alle banche di remunerare i costi derivanti dallo svolgimento delle attività di impiego attraverso
l’applicazione di un tasso che sia quindi coerente con gli obiettivi di redditività della banca.
Data la rilevanza connessa alla concessione dei finanziamenti alle
imprese è importante individuare quali sono gli elementi che contribuiscono alla quantificazione di tale indicatore e come si evolve la sua determinazione nel tempo attraverso una breve analisi delle principali evidenze empiriche rilevate sul pricing dei crediti e sulle sue possibili evoluzioni. La nostra analisi partirà da una presentazione dei modelli teorici di
determinazione del pricing di un finanziamento, poiché rappresentano il
presupposto su cui il sistema finanziario si basa per la determinazione di
tale valore: verranno pertanto trattati il modello di comparison pricing, il modello di intrinsic value pricing (alla base del Rorac, ovvero l’indicatore maggiormente utilizzato dalle banca per la determinazione del pricing dei crediti) e
infine il modello di Saunders (1996), che evidenzia come il tasso di interesse
sia determinabile a partire da un tasso base cui va aggiunto un premio
per il rischio relativo al finanziamento. Ovviamente qualsiasi finanziamento concesso dall’istituto di credito dovrà generare per lo stesso un
VAN (Valore Attuale Netto) positivo, ovvero una profittabilità
dell’impiego, e d’altra parte, nella determinazione del tasso da applicare al
finanziamento, risulta basilare la valutazione del rischio ad esso connesso. Si rende pertanto indispensabile una complessa fase definita «istruttoria di finanziamento», per mezzo della quale la banca riuscirà a esprimere
un parere sulla solvibilità potenziale del richiedente il finanziamento e a
determinare le condizioni contrattuali economicamente e finanziariamente più convenienti per la banca e al tempo stesso più appetibili per il
cliente. Tale istruttoria si articola in primo luogo attraverso un’attenta
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analisi delle informazioni aziendali, realizzata mediante la riclassificazione
del bilancio e la determinazione dei suoi indici, l’elaborazione dei dati ottenuti dalla Centrale dei Rischi e l’eventuale valutazione della garanzie
prestate a fronte del finanziamento.
Un secondo importante momento nella analisi delle componenti
che hanno influenzato ed influenzano il pricing, nonché l’attitudine delle
aziende bancarie a concedere credito è rappresentato da «Basilea 2», cioè
dalle modifiche apportate all’Accordo sul Capitale elaborato dal Comitato di Basilea, un’organizzazione internazionale che opera al fine di promuovere la cooperazione tra le banche centrali e altre autorità equivalenti
sui temi della stabilità monetaria e finanziaria, che viene utilizzato dalle
autorità di vigilanza italiane e della maggior parte dei sistemi economici
mondiali per determinare i requisiti minimi di capitale di ogni banca. Poiché si tratta di una determinazione quantitativa del capitale che dovrà essere accantonato dalla banca e quindi non «impiegato» allo scopo di garantire la situazione patrimoniale e finanziaria dell’istituto di credito, esso
rappresenta per la banca uno dei principali costi connessi alla concessione di un finanziamento e quindi influenzerà in modo determinante la valutazione della convenienza economica del pricing del finanziamento per
la banca.
Lo studio si completa da un lato con un’illustrazione storica delle
politiche di pricing nella realtà italiana, ottenuta attraverso rilevazioni effettuate a partire dagli anni Ottanta fino a oggi, che fa risaltare le differenze di trattamento tra grandi e piccole-medie imprese, tra diversi settori industriali e tra differenti aree geografiche, e dall’altro con una analisi
delle possibili evoluzioni del pricing del credito ipotizzabili in seguito
all’applicazione dei requisiti richiesti agli istituti di credito dal Nuovo Accordo sul Capitale elaborato nel 2004, comunemente chiamato «Basilea
2», che correla, come vedremo, il requisito patrimoniale della banca al reale standing creditizio del debitore. Ciò dovrebbe offrire l’opportunità di
ridurre, se non di eliminare, le storiche differenze di trattamento che abbiamo inizialmente evidenziato tra le varie classi di imprese e imprenditori, permettendo da un lato di premiare gli imprenditori più solidi e meritevoli di finanziamento e dall’altro di migliorare la concorrenzialità internazionale del sistema Italia in termini di accesso al credito.
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1. I modelli teorici di determinazione del pricing di un prestito e la
fase istruttoria di un finanziamento
Analizzeremo ora brevemente i modelli teorici per la determinazione del
pricing di un prestito e i passaggi essenziali dell’istruttoria di un finanziamento, perché è bene mettere in risalto il fatto che, prima della concessione di un prestito e la determinazione del suo pricing, in ogni banca esiste una complessa e fondamentale fase di analisi che permette di quantificare la bontà o meno del richiedente il prestito.
1.1 Modelli teorici di pricing
A livello teorico, gli approcci possibili per la determinazione del pricing
dei prestiti bancari sono riconducibili sostanzialmente a due modelli di
riferimento:
1. Il primo prevede l’aggiunta a un tasso base (rappresentativo del costo di provvista per la banca e solitamente approssimabile al tasso
interbancario) di un mark-up determinato in base alla forza contrattuale e all’abilità negoziale dei contraenti; tale mark-up dovrà comprendere sia un premio per il rischio generato dall’operazione, sia
la copertura degli altri costi non direttamente collegati alla provvista. Un elemento di condizionamento di questo processo è ovviamente rappresentato dai tassi praticati sul mercato per operazioni
analoghe.
2. L’altro modello richiede invece una precisa valutazione di tutti gli
elementi del prezzo di un prestito e, in particolare, implica la quantificazione del rischio di credito che l’operazione comporta oltre
all’individuazione del rendimento atteso che soddisfa le condizioni
d’equilibrio economico e finanziario della banca.
Va tuttavia premesso che, come per qualsiasi investimento, la concessione del credito alle imprese dovrebbe essere guidata dalla stima del
Valore Attuale Netto, in quanto un VAN positivo è condizione necessaria affinché l’operazione crei valore per l’impresa. Per esplicitare le determinanti del tasso d’interesse d’equilibrio dovremo porre il VAN uguale a zero, ottenendo così: i = r + L (1 – p), dove «L» è la perdita attesa in
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caso di default e il tasso applicato può essere scomposto nelle due componenti del costo del capitale («r») e della quota legata alle perdite attese.
In Italia, dalle ricerche empiriche, non sembra emergere, almeno
sino alla fine degli anni Novanta, una stretta relazione tra la rischiosità
finanziaria delle imprese e le politiche di pricing. Questo per la maggiore
importanza attribuita dalle banche a caratteristiche facilmente individuabili (dimensione, settore, localizzazione geografica), piuttosto che al rischio finanziario delle imprese. Come ricorda Cenni, i tassi praticati dalle
banche sono scarsamente razionali dal punto di vista economico. Tuttavia, negli ultimi anni si sta assistendo all’attribuzione di un peso crescente
alla valutazione della rischiosità delle singole imprese in seguito
all’avvicinamento delle banche ai metodi di valutazione richiesti da Basilea 2.
1.1.1. Il pricing dei singoli prestiti. Come già accennato, si può giungere alla
fissazione del prezzo di un prestito attraverso due vie: la prima fa riferimento ai prezzi praticati dalle banche per operazioni analoghe (Comparison Pricing), mentre con l’altra si «prezza» il rischio proprio di ciascuna
operazione isolatamente considerata, in modo da determinare il valore
intrinseco (Intrinsic Value Pricing). In entrambi i casi si dà per scontata sia
la valutazione del rischio sia quella di compatibilità con gli obiettivi della
banca.
1.1.2. Il modello di Saunders. Come abbiamo visto, diverse sono le metodologie sviluppate per la determinazione del tasso da praticare su un prestito bancario. È bene però ricordare che il tasso di interesse è solo uno,
sebbene il principale, fra i fattori che contribuiscono alla determinazione
del rendimento atteso dell’operazione. In sintesi, seguendo Saunders e
Dermine, possiamo individuare i fattori che influenzano tale rendimento
nei seguenti:
1. il tasso base di riferimento;
2. il premio per il rischio di credito relativo al prestito, legato alla
probabilità di inadempienza (default) del debitore e, in tale eventualità, alla percentuale di recupero ovvero di perdita (severity)
dell’esposizione: l’esistenza di garanzie, reali o personali, che rendano più agevole tale recupero, consentendo di contenere le perdite, dovrebbe ridurre l’entità del premio;
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3. le commissioni (di affidamento, di utilizzo, di massimo scoperto) e
le spese addebitate al cliente;
4. i costi operativi connessi al prestito (avvio, controllo, revisione del
fido);
5. il trattamento fiscale degli accantonamenti ai fondi rischi e delle
svalutazioni effettuate;
6. l’aliquota d’imposta sul reddito d’impresa.
Secondo Saunders il rendimento ex-post del prestito «k» sarà dato
dalla formula: k = f + (L + m), dove «L» è il tasso base, «m» il premio
praticato e «f» le commissioni richieste dalla banca. Egli dimostra, inoltre,
che la presenza di garanzie porta la banca ad affidare, a parità di tasso
praticato, imprese più rischiose (cioè con più elevata probabilità di default), riducendo la possibilità di fenomeni di razionamento del credito.
1.2. La fase istruttoria di un finanziamento
Come ricordano Cenni e Corigliano, volendo individuare i passaggi mediante i quali la banca dovrebbe giungere alla determinazione del tasso da
applicare su ciascun prestito, è opportuno distinguere le seguenti fasi: la
valutazione del rischio, la determinazione del suo costo e la quantificazione degli altri costi.
Si sta assistendo, in questi anni, a una crescente attenzione per la
valutazione del rischio di credito in seguito all’intervento delle autorità di
vigilanza (e in particolare del Comitato di Basilea) nella definizione dei
requisiti patrimoniali minimi. Per ogni rischio creditizio assunto nei confronti delle imprese, in attuazione delle disposizioni di Basilea 2, sarà necessario mantenere una consistenza patrimoniale che varierà in relazione
al rating attribuito alla società da parte della banca o di una società di
rating esterna. Per tale motivo, la concessione di qualsiasi finanziamento
da parte del sistema bancario è oggi preceduta da un’approfondita fase di
istruttoria (screening) il cui obiettivo principale è quello di determinare il
merito creditizio dell’ente o della società richiedente, con lo scopo di arrivare in primo luogo alla determinazione del rating, poi alla quantificazione del patrimonio di vigilanza e all’attribuzione del tasso di interesse
(pricing) del finanziamento.
Questo crescente interesse nella valutazione del rischio di credito
deriva anche dal fatto che le inefficienze nelle procedure di selezione del
credito determinano inevitabilmente un deterioramento della posizione
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competitiva della banca, in quanto essa, nel tentativo di evitare tale effetto, potrebbe assumere ulteriori rischi non svolgendo analisi sufficientemente approfondite in fase di concessione e non effettuando adeguati
controlli nel tempo. Per soddisfare queste esigenze e raggiungere i sui fini, la fase istruttoria si basa su analisi graduate, in funzione della complessità dell’impresa, compiute utilizzando principalmente il bilancio e i
suoi indici, i dati forniti dalla Centrale dei rischi e le garanzie prestate.
Bisogna notare che se l’attività di selezione delle imprese e il controllo della loro rischiosità costituisce tradizionalmente il core business della
gestione bancaria, nell’attuale sistema creditizio, caratterizzato da una
sempre maggiore concorrenza, la valutazione e la gestione del rischio del
credito assume un’importanza crescente e fondamentale, così come ribadito dal Comitato di Basilea. È per tale motivo che si va sempre più alla
ricerca di uno strumento in grado di incidere in modo significativo sulle
procedure di affidamento, incrementandone le velocità, contenendo i costi di gestione e, possibilmente, migliorandone l’efficacia in termini di
tempestiva individuazione delle situazioni di crisi. Va tuttavia evidenziato
che la stima del rischio degli impieghi è solo uno fra gli elementi di valutazione, in quanto per determinare, per es., il valore atteso dei prestiti
concessi, è necessario tenere conto anche del rendimento del finanziamento e, nel caso in cui si verifichi la crisi, della percentuale di recupero
prevista. Inoltre sia il rischio dell’impresa, sia l’effetto di garanzie andrebbero valutate congiuntamente al pricing del prestito perché la decisione di finanziare imprese relativamente rischiose potrebbe essere perfettamente giustificata della definizione di un adeguato tasso di interesse.
2. L’accordo di Basilea
L’esigenza di giungere a una regolamentazione comune del sistema bancario, in particolare negli aspetti di misurazione e gestione del rischio, ha
portato alla creazione di un’organizzazione internazionale, il «Comitato
di Basilea», che opera al fine di promuovere la cooperazione tra le banche centrali e altre autorità equivalenti sui temi della stabilità monetaria e
finanziaria.
Il Comitato è stato fondato alla fine del 1974 dai Governatori delle
banche centrali dei Paesi del G10 e dalla Svizzera, e opera sotto la supervisione della Bis (Bank of International Settlements); le indicazioni e gli stan54
dard proposti non hanno valore legale ma rappresentano raccomandazioni e linee guida la cui attuazione è affidata alle autorità di vigilanza nazionali. Il primo Accordo di Basilea sul Capitale è stato pubblicato nel 1988,
divenendo presto lo standard per la determinazione dei requisiti patrimoniali per le grandi banche operanti a livello internazionale. Successivamente, il 26 giugno 2004, i rappresentanti delle autorità di vigilanza e delle banche centrali che compongono il Comitato, hanno pubblicato il documento «Basilea 2», ossia il nuovo schema di adeguatezza patrimoniale
per le banche. Mentre il precedente «Accordo sul Capitale» si focalizzava
sull’ammontare di capitale a disposizione di una banca, quest’ultimo pone l’accento sulla misurazione e sulla gestione dei rischi bancari fondamentali quali il rischio di credito, di mercato e operativo. Si vuole, dunque, arrivare a determinare la perdita massima che una banca potrebbe
subire nell’anno a venire qualora si verificassero delle insolvenze impreviste.
Cercheremo ora di comprendere le regole imposte al sistema bancario dall’accordo, in quanto i requisiti minimi patrimoniali, che da esso
scaturiranno, rappresenteranno la base da cui partire per arrivare alla determinazione di un’efficiente tasso di interesse da applicare ai finanziamenti.
2.1. Il Nuovo Accordo di Basilea del 2004
Il comitato di Basilea per la vigilanza bancaria ha ultimato i lavori per la
definizione del «Nuovo Accordo sul Capitale» («Basilea 2») nel giugno
2004, pubblicando la versione definitiva del documento intitolato «International Convergence of Capital Measurement and Capital Standards». L’obiettivo
del Comitato non è solo quello di assicurare stabilità al sistema, ma anche
di favorire la diffusione delle innovazioni in materia di misurazione e di
gestione del rischio. Il Nuovo Accordo di Basilea introduce diverse novità nella determinazione dell’attuale coefficiente patrimoniale, mutando la
metodologia di stima di tale requisito a fronte del rischio di credito e
prevedendo ex-novo un requisito patrimoniale a fronte del rischio operativo, lasciando invece inalterato quello di mercato. Analiticamente, il calcolo del requisito patrimoniale minimo si basa sul rapporto tra il patrimonio di vigilanza (definito secondo le regole stabilite nell’Accordo del
1988) e la somma dei requisiti patrimoniali a fronte dei rischi di credito,
di mercato e operativo. In formula:
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Patrimonio di Vigilanza
__________________________________________________
> 8%
RWAcredito + 12,5 * [RPmercato + RPoperativo]
Dove «RWAcredito»è l’attività ponderate per il rischio di credito,
«RPmercato» il rischio di mercato e «RPoperativo » il rischio operativo. Il Nuovo Accordo si propone di superare i limiti delle regole di «Basilea 1», differenziando i requisiti di capitale in proporzione al rischio di ogni singolo
credito. Il patrimonio di vigilanza è composto da due differenti aggregati:
il patrimonio base, costituito principalmente da capitale sociale e da riserve di utili, e il patrimonio supplementare, principalmente rappresentato da debito subordinato a da altri strumenti ibridi che, non per natura,
ma per funzione economica, sono assimilati dalle regole di vigilanza al
capitale di pertinenza degli azionisti; tale patrimonio di vigilanza è ancora
calcolato in ragione dell’8%: l’innovazione principale consiste nel modo
in cui vengono determinati i coefficienti di ponderazione, che non sono
più fissi, ma quantificati caso per caso sulla base delle diverse variabili,
alcune inerenti l’impresa e sintetizzate nel rating attribuito alla stessa, altre
riferite alla forma tecnica del prestito e a eventuali garanzie collaterali.
Il rating consiste in un punteggio, un voto, attribuito all’impresa al
fine di esprimere un giudizio sintetico sul suo grado di affidabilità, cioè
sulla sua capacità di rimborso del prestito. Con riferimento ai soggetti abilitati dall’accordo all’emissione di rating, si distinguono i rating esterni da
quelli interni. I primi vengono rilasciati da agenzie specializzate, come
Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch, o altri soggetti non bancari riconosciuti come tali dagli organi di vigilanza. A essi potranno fare riferimento
le banche che sceglieranno di applicare il Nuovo Accordo nell’approccio
standard. È presumibile che tale metodologia verrà scelta dalle banche più
piccole in ragione della minore complessità e del minor costo
d’implementazione. I rating interni saranno invece prodotti dalle stesse
banche qualora scelgano il più sofisticato approccio IRB (internal rating
based). In questo caso, i vari istituti di credito dovranno sviluppare una
metodologia per l’elaborazione del rating che dovrà essere appositamente
validata dalle autorità. Le banche, qualora scelgano l’approccio IRB, potranno scegliere tra due differenti tipologie: quella base oppure quella avanzato. La differenza consiste nei diversi gradi di libertà attribuiti alla
banche nella determinazione dei valori da attribuire ad alcune variabili
chiave. La determinazione dei requisiti di capitale è molto semplice
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nell’approccio standard: è sufficiente applicare l’aliquota del 8% agli attivi
ponderati sella base dei coefficienti predeterminati. Nel caso dei prestiti a
banche, è facoltà delle autorità di vigilanza nazionali scegliere se il riferimento deve essere al rating della banca o a quello del Paese.
ESPOSIZIONI
Standard &
Poor’s
PONDERAZIONI PER IL RISCHIO
da AAA
a AA-
da A+
a A-
da
BBB+
a BBB-
da BB+
a BB-
da B+
a B-
< B-
da Ba1
a Ba3
da B1
a B3
< B3
Senza
Rating
Moody’s
da AAA
a Aa3
da A1
a A3
da
Baa1
a Baa3
Enti Sovrani
0%
20%
50%
100%
100%
150%
100%
20%
50%
50%
100%
100%
150%
50%
20%
50%
100%
100%
100%
150%
100%
20%
50%
100%
100%
150%
150%
100%
Banche
(rating banca)
Banche
(rating Paese)
Corporate
(imprese)
Retail
(privati e PMI)
Mutui ipotecari
residenziali
Mutui ipotecari
non residenziali
Scaduti
150%
75%
150%
35%
100%
da 100% a 50%
a discrezione delle autorità di vigilanza nazionali
150%
Il calcolo è invece molto complicato nell’approccio dei rating interni. Una volta quantificate le quattro variabili (PD, EAD, LGD, M), i corrispondenti valori devono essere inseriti, come fattori di input, in complesse funzioni di ponderazione da cui risulterà l’importo del capitale da
accantonare. Le funzioni di ponderazione sono diverse per ogni tipologia
di mutuatari: l’accordo distingue diverse categorie (portafogli) di crediti
(corporate, retail, banche, governi e banche centrali ecc.), in considerazione
del fatto che ogni tipologia di esposizione presenta caratteristiche specifiche con riguardo, per esempio, alle informazioni disponibili per la banca, al comportamento del beneficiario, al rischio dei singoli prestiti e al
diverso rischio complessivo dei portafogli in cui sono accorpati i prestiti.
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2.2. Aspetti problematici di Basilea 2
Il Nuovo Accordo sul Capitale, pur rappresentando una rielaborazione di
«Basilea 1» al fine di eliminarne i difetti e i punti critici, non è esente da
critiche e aspetti problematici. Tali limiti sono rappresentati da:
1. La difficoltà di raccogliere informazioni: il problema principale attiene alla difficoltà per le banche di raccogliere le informazioni e i dati necessari per poter realizzare le metodologie più avanzate per la misurazione del rischio. Le piccole banche, che non dispongono in
genere di forme evolute di risk management potrebbero essere soggette a requisiti patrimoniali più stringenti. La discriminazione tra
banche sarà ancora più rilevante in quanto il nuovo Accordo rischia di aumentare l’onere patrimoniale delle singole banche.
2. I rating interni: vi è il timore che il metodo dei rating interni penalizzi il finanziamento delle Pmi, inducendo le banche a ridurre il credito loro destinato e ad aumentare al contempo i tassi di interesse.
Da un punto di vista teorico l’effetto di una più accurata valutazione del rischio da parte delle banche dovrebbe essere quello di ridurre il costo del credito per le imprese meno rischiose e di promuovere un rapporto fondato sulla conoscenza e sulla fiducia reciproca. In pratica, però, vi è il rischio che i crediti concessi alle Pmi
siano, o continuino a essere, considerati più rischiosi. Non si tiene
poi conto che un portafoglio di crediti alle Pmi, a parità di perdita
attesa, presenta perdite inattese inferiori a quelle di un portafoglio
di prestiti alle grandi imprese, in ragione della maggiore importanza
relativa che l’andamento ciclico dell’economia ha nel determinare
le condizioni di queste ultime. C’è però da notare che le pressioni
della Banca d’Italia e la Bundesbank, volte a difendere la specificità
dei rispettivi sistemi economici caratterizzati dalla presenza di migliaia di piccole imprese, hanno portato a un testo definitivo
dell’accordo che prevede ora requisiti patrimoniali minimi ridotti
per le esposizioni delle banche verso le piccole e medie imprese.
3. La prociclicità finanziaria: questo problema, già presente nell’originario Accordo del 1988, rappresenta una fonte di preoccupazione ai
fini della stabilità finanziaria e macroeconomica. Infatti, quando il
capitale o le riserve accumulate durante i periodi di espansione non
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sono sufficienti a coprire i rischi associati alle fasi di rallentamento
congiunturale, le banche sono costrette a ridurre gli impieghi per
assolvere ai requisiti patrimoniali. La regolamentazione patrimoniale può influire sulla prociclicità finanziaria. Nei periodi di rallentamento economico, per es., in cui cresce la rischiosità dell’attivo, le
banche sono indotte ad accantonare maggiore capitale. Per una
banca il cui grado di copertura sia al limite dell’8%, questo deve
necessariamente avvenire a scapito di nuovi prestiti o del rinnovo
di prestiti già esistenti. Nel nuovo Accordo, oltre al capitale e alle
attività (come nel precedente Accordo), possono diventare sensibili
al ciclo anche i coefficienti di ponderazione per il rischio, provocando un aumento del requisito patrimoniale nei periodi di recessione. La prociclicità intriseca negli stessi metodi di rating e scoring si
ripercuoterebbe infatti prima sul calcolo della probabilità di insolvenza e poi su quello della ponderazione per il rischio. Per ridurre
l’impatto prociclico il Comitato propone che le banche quantifichino le loro stime della probabilità di insolvenza in modo adeguatamente prudente e previdente, o sottopongano la propria adeguatezza patrimoniale a prove di stress.
3. Possibili evoluzioni del pricing del credito in seguito a Basilea 2
Una delle principali critiche mosse al Nuovo Accordo sul Capitale di Basilea è il rischio che la sua applicazione, come già accennato, renda meno
accessibile e più oneroso il credito, soprattutto alle Pmi.
La normativa di «Basilea 1» prevedeva che la banca detenesse mezzi propri in misura sufficiente a coprire eventuali perdite per i rischi assunti nello svolgimento dell’attività, in quanto il rischio si quantifica in
termini di capitale da detenere a fronte di una certa esposizione. «Basilea
2» mantiene questa impostazione, modificando però il modo di calcolare
il rischio, e ciò ha alimentato i timori: se il rischio dovesse apparire maggiore (magari per un cattivo utilizzo delle metodologie o per un vizio intrinseco alla normativa) e quindi più elevato dovesse essere il requisito
patrimoniale, la banca potrebbe essere indotta ad alzare il prezzo del credito per remunerare il maggior capitale richiesto.
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Abbiamo già visto i modelli teorici per la determinazione del pricing
del prestito, ma la domanda più importante risulta ora: quale sarà
l’impatto di Basilea 2 sul prezzo del denaro?
Sappiamo che la fissazione del prezzo da parte di una banca che
non dispone di un sistema di rating sta nel ribaltare pro quota e indiscriminatamente la componente delle perdite subite sul portafoglio crediti su
tutti i debitori attraverso adeguati tassi di interesse. Per contro, una banca
che dispone di un sistema di rating è in grado di fare pagare il costo del
rischio direttamente a chi lo genera, essendo nella condizione di calcolare
la perdita attesa e la perdita inattesa per singolo prestito. Essendo in grado di calcolare con buona approssimazione anche la perdita inattesa, la
banca dotata di un sistema di rating può essere meno prudente nel quantificare la dotazione di mezzi patrimoniali, al di là dei livelli regolamentari
minimi. In questo modo, può ridurre la componente di costo legata alla
remunerazione del capitale proprio.
In realtà, numerose ricerche hanno supportato le ipotesi che le
banche italiane presentino diffuse condizioni di mispricing sotto due profili: da un lato, i prestiti risulterebbero mediamente sottoprezzati rispetto
al rischio e, dall’altro, i tassi di interesse risulterebbero non adeguatamente differenziati tra i prenditori in funzione del rispettivo rischio.
Sin dalla sua prima comparsa la proposta del Comitato di Basilea 2
ha generato un dibattito vivace sull’argomento, questo perché:
1. quando una banca concede credito, sopporta una certa dose di rischio;
2. il rischio va quantificato e coperto dal capitale;
3. il capitale ha un costo diverso (extra costo) rispetto ai fondi acquisibili sul mercato dei depositi;
4. maggiore è il rischio, maggiore è il capitale da “allocare”: aumenta
l’extra costo da sopportare.
Tale relazione può essere semplificata come segue:
Impiego in
attività rischiosa
(prestito)
Livello di
rischio
60
Livello atteso di
remunerazione
Questa è la naturale relazione rischio/rendimento, dato, in questo
caso, il legame diretto tra rischio e quantità di capitale. Sostenere, infatti,
che un investimento rischioso deve generare un rendimento elevato,
maggiore di quello atteso da un investimento non rischioso, è cosa naturale. È anche ovvio attendersi che la banca, da un impiego a un debitore
più rischioso si attenda una remunerazione più elevata. Si pone, certamente, il problema delle tecniche di valutazione adottate, ma la validità
della relazione rischio-rendimento è innegabilmente forte. In anni recenti
si sono diffusi, nella tecnica di gestione bancaria, gli indicatori di redditività corretta per il rischio (RAPM, Risk Adjusted Performance Indicator), che
integrano le misurazioni più classiche di ROE, ROI, ROA. Si tratta di
misurazioni basate sul concetto di capitale assorbito dal rischio, che indicano la relazione tra un certo margine prodotto da un aggregato (portafoglio, business unit, singolo prodotto) e il relativo capitale a rischio.
Si ottiene, in questo modo, una misura di performance rettificata per
tenere conto del rischio assunto. Possiamo esprimere in dettaglio un indicatore, cosiddetto RORAC (Return On Risk Adjusted Capital), come segue:
Ricavi – Costi
RORAC =
_____________________
Capitale a rischio
L’utile (Ricavi – Costi) è quindi rappresentato dal capitale assorbito
dal rischio (il denominatore).
In termini pratici, la relazione tra il rischio e il rendimento atteso
può essere schematizzata con alcuni calcoli. Supponiamo il caso semplificato di impiego per cassa a controparte privata per € 200.000: il coefficiente di ponderazione è oggi pari al 100%, l’attivo ponderato è uguale al
nominatore e il capitale assorbito all’8%. L’esempio si basa su semplificazioni:
1. tasso di finanziamento per la banca pari al 3,25% (è il tasso di trasferimento interno, oppure un parametro esterno pari
all’interbancario);
2. costo del capitale all’8%;
3. assenza di costi gestionali e tasse. Quest’ultima ipotesi è forte, dal
momento che, in realtà, il tasso di remunerazione degli impieghi
61
deve coprire il costo dei fattori produttivi, non solo il capitale (costi diretti e indiretti, tasse e imposte ecc.), ma è utile per la schematizzazione dell’esempio.
Spread richiesto su tasso variabile per remunerare l’impiego di capitale
(prestito per cassa e coefficiente di ponderazione al 100%)
200.000
184.000
Costo:
3,25%
Interessi:
5.980
16.000
Costo:
8,00%
Interessi:
1.360
Totale interessi passivi:
Rendimento atteso:
Spread su tasso variabile (3,25%):
7.340
3,67%
0,42%
Vedendo l’esempio sopra: l’8% dell’attivo ponderato (cioè 16.000)
deve essere remunerato al costo del capitale (ipotizzato all’8%), il resto
(184.000) deve coprire i costi di raccolta al 3,25%. Si ha un totale di interessi passivi per 7.340, corrispondenti al 3,67% dell’importo erogato.
Questo equivale a dire 0,42% sopra il tasso di mercato (3,25%). Tale entità corrisponde allo spread che la banca deve ricevere, oltre al tasso di
mercato, per remunerare il costo del capitale. Una variazione nella quota
di capitale rischiato si traduce in un’analoga variazione dello spread.
L’esempio seguente illustra il caso di impiego per cassa a controparte di cui sia ammesso un coefficiente di ponderazione al 20%.
Spread richiesto su tasso variabile per remunerare l’impiego di capitale
(prestito per cassa e coefficiente di ponderazione al 20%)
200.000
196.800
Costo:
3,25%
Interessi:
6.396
3.200
Costo:
8,00%
Interessi:
272
Totale interessi passivi:
Rendimento atteso:
Spread su tasso variabile (3,25%):
6.668
3,33%
0,08%
Si può notare una riduzione del valore dell’attivo ponderato (20%
di 200.000 = 40.000) e quindi il capitale necessario (8% di 40.000 =
62
3.200). Su riduce corrispondentemente la quota di costo elevato dovuta
dall’impiego di capitale: 272 da 7.340 e, in conclusione, lo spread da ottenere sul tasso di riferimento scende a 8 punti base.
Gli esempi esaminati riflettono situazioni molto semplificate, ma
che forniscono una chiara indicazione della necessità di soppesare il costo del capitale, nella misura in cui una quota di questo è chiamata a supportare l’impiego in attività rischiose.
A questo proposito, in uno studio recente presentato da Unioncamere, non ci si è limitati a esplorare la possibile distribuzione delle imprese italiane nelle classi di rating, ma si è cercato anche di misurare
l’impatto di tale distribuzione sul costo del credito. I ricercatori hanno
inteso identificare il costo del credito associabile ai diversi livelli di rating,
espresso come spread da aggiungere al costo della raccolta (ipotizzato al
3%), in modo tale che sia remunerata la quota di capitale da allocare quale misura del rischio. Ad ogni livello di rating viene determinata la quota
dovuta di capitale. I dati di input della simulazione sono:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
prestito con rimborso integrale al termine;
scadenza: 5 anni;
importo: 1 milione;
tasso di recupero: 55% (LGD pari a 45%);
tasso di remunerazione del capitale: 10%;
costi accessori per la banca: 0,03% mensile
(1,55% per cinque anni).
Le simulazioni sono state effettuate utilizzando, come dati di input
per la funzione di calcolo del coefficiente di ponderazione, quattro ipotesi di fatturato: inferiore a 5 milioni, 10, 25 e 50 milioni. I ricercatori ammettono, nel documento di presentazione, che i risultati ottenuti sono
stati tutto sommato abbastanza confortanti. Il grafico che segue ne propone una sintesi (sono state tralasciate le imprese con fatturato superiore
a 10 milioni): con «Basilea 1» si va da spread di 123 punti base (1,23%) a
384, mentre la simulazione su «Basilea 2» evidenzia un minimo di 41
punti base (fatturato superiore a 5 milioni) a 516 (fatturato a 10 milioni).
Per rendere meglio l’idea mostreremo graficamente gli spread applicati al
3% (adottato come tasso base) nel passaggio da «Basilea 1» a «Basilea 2».
63
25
20
15
10
5
In
f.
e
B+
B
BB
-
BB
BB
B
BB
BBB
+
0
BB
B+
Ae
30
Percentuale
imprese per classi
di rating
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
su
p
Tassi di
interesse
I risultati di una simulazione: effetto sul
prezzo del credito
Classi di Rating
Basilea 1
Basilea 2 (Fatturato > 5 mln. €)
Basilea 2 (Fatturato = 10 mln. €)
I casi di miglioramento del prezzo sono maggiori rispetto ai peggioramenti, anche se, in tutta evidenza, l’aumento di costo può sembrare
assai rilevante. Il risultato ottenuto complessivamente è, comunque, positivo, anche perché frutto delle pressioni delle banche centrali (tra cui
quella tedesca e italiana) all’interno del dibattito che si è tenuto. Tale miglior comportamento delle aziende con minore fatturato deriva soprattutto dalla minor ponderazione introdotta per le imprese appartenenti
alla classe retail, rispetto alle altre categorie di imprese. L’utilizzo di sistemi sofisticati di valutazione del rischio consente di effettuare misurazioni
più precise: una certa misura di aggiustamento del prezzo, effettuato dalle banche sul credito, è inevitabile. Ma si tratta di un aggiustamento che
fondamentalmente penalizza le imprese più rischiose, in uno scenario
che, di fatto, poco muta rispetto alla situazione corrente dove già alcuni
soggetti sono più rischiosi di altri. In conclusione, questa indagine rappresenta un supporto empirico utile per indirizzare il dibattito e la ricerca
che si renderanno necessari quando si tratterà di attuare la proposta del
Comitato di Basilea.
64
Ciò nondimeno i risultati vanno interpretati come indicazione di
massima. La simulazione non ha valorizzato, per diretta ammissione dei
ricercatori, il set di informazioni qualitative che, in molti casi, rappresentano la parte preponderante del rating interno della banca, particolarmente nel caso delle imprese piccole. Non si tiene conto, inoltre, degli aspetti
inerenti le politiche commerciali della banca e l’impatto delle dinamiche
competitive: il prezzo non è la risultante di un algoritmo di calcolo semplicisticamente applicato alla transazione proposta, bensì il risultato di un
processo negoziale complesso in cui il rischio si confronta con la forza
competitiva del proponente. Il posizionamento competitivo della banca,
in un ambito geografico o in un segmento di clientela, gioca oggi un ruolo fondamentale nella determinazione del prezzo; «Basilea 2» consentirà
di, o meglio obbligherà a considerare con maggior precisione
l’importanza del rischio nella formazione del prezzo del credito, ma non
permetterà di eliminare completamente il ruolo della negoziazione.
4. Conclusioni
Dal nostro lavoro di analisi è stato possibile verificare che le debolezze
strutturali che influenzano la fase del pricing di un prestito sono determinate da distorsioni generate nell’applicazione dei modelli teorici studiati
fin qui. Ciò risulta evidente anche attraverso la lettura delle verifiche empiriche sviluppate tra gli anni ‘80 e ’90 e in seguito.
Dall’analisi dei modelli teorici di determinazione del tasso di interesse dei finanziamenti è emerso che il comparison pricing, l’approccio seguito dalla maggior parte delle banche italiane, permette di valutare ciascuna nuova operazione di finanziamento sulla base delle condizioni medie di mercato applicate a prenditori di simile merito creditizio su prestiti
contrattualmente simili, permettendo così di ridurre notevolmente i costi
relativi alla fase di istruttoria del finanziamento. Un approccio che nel caso di assenza di un mercato obbligazionario di riferimento diventa poco
attendibile se non aleatorio a causa dell’utilizzo di serie storiche nella
stima della probabilità di insolvenza e della percentuale di esposizione
recuperabile.
Diversamente, l’intrinsic value pricing consente un calcolo del un tasso di interesse coerente con gli obiettivi di redditività della banca, utilizzando il modello del RORAC, che prevede la rimozione della neutralità
65
al rischio, condizione necessaria affinché il modello sia applicabile e verificabile nella realtà, permettendo così di quantificare con maggior rigore
le perdite attese e quelle inattese e favorendo l’avvicinamento alla valutazione prudenziale dei rischi prevista da «Basilea 2». Tale indicatore risulta
compatibile con l’utilizzo dell’EVA (economic value added) e può dunque
essere applicato al fine di massimizzare il valore dell’impresa. Non va tuttavia dimenticato che il RORAC è stato però più volte criticato in quanto
gli intermediari con alta redditività tenderebbero a non selezionare operazioni meno profittevoli per non ridurre la loro redditività media.
Infine, il modello di Saunders (1996), si basa come il RORAC
sull’incertezza di regolare rimborso del prestito (rimozione della neutralità al rischio), mettendo in risalto l’effetto positivo derivante dall’apporto
di garanzie che permetteranno alla banca di affidare imprese rischiose,
che in situazioni normali non sarebbero state finanziate.
L’analisi delle ricerche empiriche non ha fatto altro che confermare
le supposizioni circa le notevoli differenze esistenti, nel sistema bancario
italiano, tra modelli teorici e reali politiche di pricing seguite dalle banche
italiane che, come già detto, attribuiscono maggiore importanza a peculiarità facilmente individuabili come dimensione, settore di attività e localizzazione geografica, piuttosto che al rischio finanziario delle imprese.
D’altro lato, il differenziale di tasso applicato alle piccole-medie imprese
rispetto a quelle di maggiori dimensioni, a partire dall’inizio degli anni
Ottanta, mostra significative riduzioni, nonostante la migliore redditività
delle grandi imprese: tale evoluzione va ricollegata all’accresciuta pressione concorrenziale che ha indotto le banche a praticare politiche di prezzo
particolarmente aggressive, al fine di poter entrare in nuovi mercati.
L’analisi descrittiva dei tassi di interesse ha permesso, inoltre, di rilevare un’effettiva riduzione degli spread applicati nei diversi segmenti del
mercato creditizio (province e rami economici di attività), ancora una
volta testimoniata dall’accresciuta leva competitiva. Tutto ciò in un mercato del credito che rimane tuttora segnato da sintomatici fenomeni di
discriminazione di tasso legati ad aspetti di natura informativa. Fatto che
lascia ben sperare circa l’evoluzione futura del pricing grazie
all’applicazione degli obiettivi principali perseguiti da «Basilea 2», come la
riduzione delle asimmetrie informative, con la conseguente diminuzione
delle discriminazioni di prezzo applicate a imprese aventi le medesime
caratteristiche.
66
Uno degli aspetti strutturali destabilizzanti il sistema diviene dunque l’esistenza di asimmetrie informative sia tra banche interne e banche
esterne, sia nei rapporti con la clientela. Le prime trovano evidenza nel
fatto che le banche locali, godendo di maggiori informazioni rispetto a
quelle foranee potrebbero sfruttare il loro vantaggio informativo attraverso l’imposizione, alla clientela, di tassi più elevati rispetto al livello
congruo; effetto, questo, definito di «hold up», che comporta un vantaggio
monopolistico per la banca che non retrocede parte della rendita informativa al proprio cliente, a discapito dello stesso. Se, da una parte, si è
osservato che un rapporto di fidelizzazione del cliente alla banca che
comporti un elevato utilizzo delle somme accordate genera una riduzione
notevole, di circa quattro punti, del tasso d’interresse, dall’altra, una relazione che vincola il richiedente in via principale a una banca riconduce la
stessa all’attuazione di un comportamento opportunistico di hold up. Il
risultato principale rimane tuttavia il fatto che al rafforzamento del rapporto banca-cliente, il tasso applicato decresce in seguito alla riduzione
delle asimmetrie informative e, quindi, dei costi di screening e monitoring.
Dall’esigenza di assicurare stabilità al sistema e di favorire la diffusione delle innovazioni in materia di misurazione e gestione del rischio si
è proceduti all’emanazione dell’Accordo sul Capitale («Basilea 1», 1988),
oggi sostituito dal Nuovo Accordo sul Capitale («Basilea 2», 2004).
L’applicazione di tale accordo comporterà l’eliminazione delle discrasie
nei termini e nelle condizioni del finanziamento, in quanto le banche dovranno, per ogni cliente, acquisire oppure elaborare internamente un
rating relativo al soggetto da finanziare. Il giudizio sulla bontà o meno del
soggetto avrà notevole importanza sul capitale minimo da accantonare
per far fronte al rischio di quel determinato finanziamento. Ci si augura
che questo generi un effetto a catena sul pricing del credito, poiché tanto
migliore sarà il rating del soggetto, quanto ridotto risulterà il capitale minimo a garanzia, che rappresenta per la banca il principale costo derivante dal finanziamento e su cui verrà applicato il «ricarico».
Se da un lato si auspica l’eliminazione di tali fattori destabilizzanti,
dall’altro tale Accordo non esula da critiche e non è privo di aspetti problematici. Uno dei punti che generano maggiore preoccupazione è la difficoltà per le banche di raccogliere le informazioni e i dati necessari per
poter realizzare le metodologie più avanzate di misurazione del rischi, accompagnato dal timore che i rating interni possano penalizzare le Pmi. È
prevedibile infatti che le banche, per ridurre i costi dell’istruttoria, conti67
nuino a considerare altamente rischiosi i finanziamenti concessi a tale
classe di imprese. Un ulteriore timore, non meno importante, è che il
Nuovo Accordo possa alterare il normale andamento ciclico
dell’economia, attraverso l’accentuazione dei suoi effetti.
L’accordo di Basilea 2 dovrebbe tuttavia creare numerosi vantaggi
per le aziende di credito e per il sistema economico: la riduzione nel
prezzo dei finanziamenti sarebbe la conseguenza di una serie di consistenti aggiustamenti del sistema generale, a partire dalla diminuzione delle asimmetrie informative e dell’arbitrarietà nella scelta delle caratteristiche rilevanti per la concessione di un finanziamento.
Per le banche, in realtà, la revisione dei criteri di affidamento e di
valutazione è stata una scelta necessaria e non più procrastinabile, come
dimostra il numero crescente di default di grandi e piccoli. Una volta entrati in vigore i nuovi parametri, sarà più facile valutare l’affidabilità delle
clientela e intervenire con prontezza in caso di difficoltà. Il risultato sarà
una maggiore stabilità del sistema, con vantaggi per tutti. Dagli studi di
impatto effettuati al fine di determinare i possibili effetti derivanti
dall’applicazione di «Basilea 2» risulta chiaro che:
1. l’approccio standard aumenta i requisiti patrimoniali di tutte gli istituti bancari;
2. l’approccio IRB Base, genera una sostanziale diminuzione dei requisiti patrimoniali sia per le grandi banche, sia per le banche di dimensioni minori;
3. l’approccio Avanzato non comporta, invece, benefici particolarmente significativi per le banche minori, mentre per le altre dovremo distinguere tra segmenti: il retail è evidente sia quello che
fruisce dei cambiamenti maggiori, mentre per quello corporate si ha
una generale diminuzione dei requisiti patrimoniali.
Secondo una dettagliata analisi, distillata tempo fa da Morgan Stanley, ciò comporterà un’ondata di fusioni e acquisizioni in Europa. Le aziende candidate al ruolo di prede sono le piccole banche commerciali,
che hanno rapporti solidi con il territorio, questo sia per il maggiore onere che dovrebbero sostenere non applicando l’approccio IRB, sia per il
fatto che l’applicazione dei nuovi metodi di calcolo dei rischi libererà, per
68
le banche di maggiori dimensioni, circa il 30% del capitale vincolato. Si
può ipotizzare che il sostenimento di costi elevati di rating o nella fase di
istruttoria in seguito all’applicazione di «Basilea» possa determinare il
crollo di quegli istituti bancari privi di una posizione stabile sul territorio:
esse infatti potrebbero faticare a sopravvivere in un contesto che va
sempre più oligopolizzandosi attraverso il rafforzamento di gruppi assestati, quindi in grado di ripartire, in un’ottica di massimizzazione della
propria redditività, i costi derivanti da operazioni di finanziamento; nella
peggiore delle ipotesi si potrà assistere a un crollo della competitività diversamente da come auspicato dall’Accordo sul Capitale, se e solo se ciascun attore non saprà utilizzare al meglio e adattare alla propria area operativa le nuove disposizioni.
«Basilea 2» comporterà un certo aggiustamento del prezzo del
credito e penalizzerà le imprese più rischiose, in uno scenario che, di
fatto, poco muta rispetto alla situazione corrente, ma che soprattutto
permetterà di eliminare quelle differenze di trattamento che per anni
hanno caratterizzato il sistema bancario, focalizzando il pricing sulla bontà
o meno dell’imprenditore.
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