ML - UPDATE N.59

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ML - UPDATE N.59
MUSICLETTER
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La prima non-rivista che sceglie il meglio della musica in circolazione - www.musicletter.it - Anno IV - Update N. 59
THE GENTLEMEN’S AGREEMENT
AEROSMITH, AMANDA PALMER, THE CLASH,
BLURT, ARMY OF ANYONE, COLORE PERFETTO, DAVID BYRNE & BRIAN ENO, HOODOO GURUS, OF MONTREAL, ARAB STRAP,
THE SMITHS, KARDIA, THE ZTT BOX SET (AA.VV.), THE RURAL ALBERTA ADVANTAGE, BUENA VISTA SOCIAL CLUB (AA.VV.),
EDDIE VEDDER, JEFFREY LEE PIERCE, MASSIMO VOLUME, THIN LIZZY, IVANO FOSSATI. CINEMA: INTO THE WILD.
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chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
Pasquale Boffoli
Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
Luigi Farina
Luca Mezzone
Daniele Briganti
Domenico Marcelli
Massimo Imbrosciano
Michele Camillò
Luca Rea
Claudia De Luca
Fedra Grillotti
Alessandro Busi
Gianfranco Alessi
Massimo Megale
Antonio Anigello
Valerio Granieri
Stefano Sciortino
Luigi Lozzi
“Aniè 'a vita è 'na strunzata”
L’Uomo In Più di Paolo Sorrentino
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informazioni e contatti
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copertina update n. 59 / 2008-11-21
The Gentlemen’S Agreement
photo by Paola Di Domenico
ML 02
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update n. 59
sommario
Special Interview
04 THE GENTLEMEN’S AGREEMENT by Luca D’Ambrosio
Recensioni
12 THE RURAL ALBERTA ADVANTAGE Hometowns (2008) by Claudia De Luca
13 AMANDA PALMER Who Killed Amanda Palmer (2008) by Antonio Anigello
14 IVANO FOSSATI Musica Moderna (2008) by Jori Cherubini
15 COLORE PERFETTO Il Debutto (2008) by Franco Dimauro
16 OF MONTREAL Skeletal Lamping (2008) by Nicola Guerra
17 AA.VV. The ZTT Box Set (2008) by Franco Dimauro
19 KARDIA Kaleidocristo (2008) by Valerio Granieri
20 BUENA VISTA SOCIAL CLUB (AA.VV.) At Carnegie Hall (2008) by Luigi Lozzi
22 THE SMITHS The Sound Of Smiths (2008) by Franco Dimauro
24 DAVID BYRNE & BRIAN ENO
Everythings That Happens Will Happen Today (2008) by Massimo Bernardi
26 EDDIE VEDDER Into the Wild (2007) by Stefano Sciortino
27 EARLIMART Mentor Tormentor (2007) by Claudia De Luca
28 ARMY OF ANYONE S.T. (2006) by Manuel Fiorelli
29 ARAB STRAP Monday At The Hug & Pint (2003) by Luca D’Ambrosio
30 MASSIMO VOLUME Lungo I Bordi (1995) by Alessandro Busi
31 HOODOO GURUS Blow Your Cool (1987) by Franco Dimauro
32 JEFFREY LEE PIERCE Wildweed (1985) by Marco Archilletti
33 BLURT In Berlin (1981) by Massimo Bernardi
35 THIN LIZZY Jailbreak (1976) by Nicola Guerra
36 AEROSMITH Rocks (1976) by Manuel Fiorelli
Live Review
37 AMANDA PALMER Milano, Musicdrome (17.10.2008) by Antonio Anigello
Speciale
38 THE CLASH by Domenico De Gasperis
Altri percorsi | Cinema
41 INTO THE WILD by Stefano Sciortino
© ML 2005-2008
BY L UCA D’AMBROSIO
ML non ha scopi di lucro, il suo unico obiettivo è la diffusione della buona musica
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update n. 59
special interview
THE GENTLEMEN’S AGREEMENT
Indie folk partenopeo
© 2008 di
Luca D’Ambrosio
Napoletani
dei
Campi
Flegrei,
i
Gentlemen’S Agreement sono una
delle
rivelazioni
più
interessanti
dell’attuale panorama indipendente
italiano. Artefice di
una musica
tanto popolare quanto elegante e
moderna, la band partenopea con
l’esordio Let Me Be A Child (Materia
Principale/Family Affair, 2008) ci
consegna una raccolta di canzoni
originali e diverse dal solito cliché
alternativo d’oggigiorno. C’è un po’ di tutto in questo disco: rock, folk, swing, manouche, blues,
country, dixieland e porzioni di canzone francese (la chanson). Un album “circense”, allegro e
frizzante ma allo stesso tempo intriso di un celato romanticismo. Tra telefonate e scambi di mail,
ne abbiamo parlato con Raffaele Giglio, voce e leader della formazione “campagnola”.
Allora Raffaele, finalmente l’album d’esordio: come ci si
sente a qualche giorno dall’uscita ufficiale?
Ti ringrazio, ci sentiamo tutti bene, anzi benone. Siamo in fase di
preparazione
finale
per
una
goliardica
spassosa
esilarante
presentazione del disco che si terrà il 29 Novembre al Duel Beat di
Napoli; ci esibiremo con Langhorne Slim (U.S.A pre e post Obama)
e saremo affiancati sul palco dalla Little Farm Orchestra, una
miscellanea di musici che credono, come noi del resto, nella
campagna! È tutto pronto, anche le scenografie del concerto sono quasi concluse, ci tengo molto
al lato estetico di un Live. Vorrei che le persone presenti alla presentazione del disco, se ne
tornino a casuccia propria, abbastanza ubriache di musica e con in mente solo il pensiero di aver
passato una serata insolita e di gusto. Credimi è difficile attirare l'attenzione per circa un'ora. Non
importa quanto hai suonato bene, o quanto sono brave le persone che suonano...è una situazione
speciale che in molti recepiscono per poco.
Quali sono le aspettative nella peggiore e nella migliore delle ipotesi?
Non ci sono peggiori o migliori ipotesi ma, per rispondere in maniera più esaustiva alla tua
domanda, nella peggiore delle ipotesi credo che ritorniamo tutti a seminare i campi! Eh eh eh,
non cambia poi tanto! Nella migliore delle ipotesi, invece, mi auguro di imparare tanto ancora sul
mio strumento e anche personalmente. Poi non ci penso molto a questa cosa, sai perché?
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special interview: the gentelemen’s agreement
Quando saremo vecchi e decrepiti, quando metteremo la bavetta per mangiare, le uniche cose
che ci ricorderemo saranno queste, intendo la gioia di aver composto qualcosa, aver trovato belle
persone accanto e aver realizzato qualcosina. Intangibili, senza prezzo...allora questo pensiero mi
basta già per motivarmi e farmi andare avanti. Dunque, alla fine, almeno il cielo è sempre
piacevole, anche quando è grigio...diciamo un grigio piacevole che poi significa pioggia o neve.
Insomma significa sempre un cambiamento premonitore...ma non mi sento spaventato, anzi,
sono fiducioso, il disco mi guiderà bene oltre tutti i ponti, dentro ogni galleria, senza mai
sbagliare.
Let Me Be A Child è un titolo che riassume l’essenza stessa
della musica e della filosofia dei Gentlemen’S Agreement.
Come dire: nella vita lasciamoci guidare dall’istinto, dalla
passione e non prendiamoci troppo sul serio…
Let Me Be A Child è nato in molto semplice. Nell'Agosto del 2007
mi sono rintanato nella mia stanza, armato di un 4 piste a nastro,
molto facile da usare. Molte idee, disegni qui e là, tutte le mie
chitarrine, "solo" e soprattutto "indisturbato". Ho lasciato andare
la mente, partorendo belle cose ma anche innumerevoli cazzate!
Ho preso come iter produttivo il disegno...è partito tutto da uno
schizzo di un grande fiore. Con petali più grandi e altri più piccini.
Nei petali più grandi ho inserito le canzoni a durata più lunga e
nei petali più piccini le canzoni che duravano meno. Avevo già
delle canzoni pronte, ho creato delle canzoncine che potessero fare da tramite tra le canzoni di
lunga durata. Poi tutto a un tratto le canzoncine piccole, da sconsiderate quali erano, sono
diventate anche loro importanti come quelle grandi.
Strana cosa è la musica. Una volta conclusa la bozza
delle canzoni, mirando indietro tutto il lavoro che avevo
fatto, mi sono reso conto dell'enorme miscellanea di
generi
musicali, swing, speed
country, manouche,
canzoni circensi russe, etc. Anche i testi, alcuni di essi
delle vere e proprie fiabe (vedi Cherry The Tighetrope
Walker o Mr. Grape). I disegni come organo primario
per una composizione musicale, insomma, divertimento
facile, immaturo, infantile...così Let me Be A Child.
Anche nell'art work abbiamo messo parecchi riferimenti
infantili, abbiamo creato una serie di errori (3 per la
precisone) molto banali ma tipicamente di chi ancora
non sa bene come funziona il mondo. È tutto nato
spontaneamente, senza alcun progetto ben congeniato
o chicchessia!
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special interview: the gentelemen’s agreement
Let Me Be A Child è un lavoro frizzante e
cristallino che mescola abilmente swing,
blues,
country,
rock,
dixieland,
sonorità
gypsy e porzioni di canzone francese (la
chanson).
Mi
l’infatuazione
dici
di
da
dove
Raffaele
Giglio
nasce
e
dei
Gentlemen’S Agreement per queste musiche
d’antan così stravaganti e diverse dai soliti
cliché “alternativi” d’oggigiorno?
Il mio amore per questa musica così vecchia è nata grazie ai vinili che un mio zio rock'n'roll mi ha
passato, innumerevoli, introvabili e pieni zeppi di storia ma le copertine tutte andate per via di
un'alluvione. Il mio amore per questa musica così vecchia è nata grazie anche alla mia famiglia!
Mio padre e mia madre sono due ex musici: mio padre suona il pianoforte, la chitarra e il basso;
mia madre aveva una voce stupenda. Ogni mattina mio padre, puntualmente, suona motivetti di
un'altra epoca, e nel corso degli anni ho incamerato quelle melodie così dolci e spontanee da
lasciarmi, spesse volte, stupefatto. Adoro il Quartetto Cetra ma anche il Trio Lescano, sono molto
ricche quelle canzoni e non so perché mi sento a mio agio, quasi mi commuovono a qualsiasi ora
io le ascolti. Ho immerso anche gli altri Gentlemen'S in questo mio amore per le vecchie melodie,
anche a loro sono piaciute e abbiamo tradotto tutto in chiave contemporanea. Il cliché
"alternativo" è talmente friabile che difficilmente risulta tale, nel senso: che cosa può essere
alternativo oggi? Penso che sia più alternativo per un ragazzo del 2008 fare swing, folk, country
che adattarsi ai canoni che la TV e la radio ci propongono. Io non mi ci sono adattato, è sempre
stata così la mia natura: vedo una cosa e faccio il suo esatto contrario. Io devo reagire e sparare
veloce, sputando quello che penso e che mi piace. Questo è un modo di proteggere il mio mondo
personale dalle bocche di quelli che lo avrebbero masticato e impedito di nutrirsi del proprio cibo.
Mi chiedi quali sono le mie influenze? Centinaia di migliaia, forse milioni perché ogni canone ti
riconduce verso il mare (vedi in The Sea) e non c'è mai stata "linguacantante" che potesse
imitarlo.
La
prima
volta
che
ho
avuto
modo
di
ascoltarvi
mi
sono
venuti
in
mente
immediatamente Violent Femmes e Langhorne Slim. Un abbaglio o sono riferimenti che
sentite molto vicini alla vostra musica?
Langhorne Slim lo adoro, mi piace molto il suo modo di intrattenere il pubblico e anche la sua
voce, soprattutto nei suoi dischi mentre i Violent Femmes li ammiro solo nel loro primo disco. Non
sono due band che ammiriamo più di tanto. Sicuramente siamo accostabili a entrambi per le
intense sonorità acustiche ma non sono due ascolti frequenti. Io ascolto di tutto, non ho limiti,
basta che sia fatto con un certo gusto. Sono principalmente un divoratore di vecchia musica e mi
cibo spesso di essa, forse con i Violent Femmes e con Langhorne Slim abbiamo delle affinità
perché ascoltiamo o abbiamo ascoltato le stesse cose. Questa ipotesi mi piace. Inoltre, ascolto
molto di più M. Ward o Neil Young, tutta la famiglia Buckley e soprattutto John Lennon e George
Harrison, ecco quelle lì sono le prime persone che vorrei incontrare in Paradiso. Di sicuro.
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Let
Me
Be
A
Child
è
un
disco
sostanzialmente allegro dalle cui pieghe
trapela però un celato romanticismo...
Ascoltando la vostra musica si ha quasi
l’impressione di stare al circo: si ride e ci
si rilassa ma alla fine dello spettacolo,
proprio quando ci si incammina verso
casa, si avverte una leggera sensazione
di
melanconia.
Raffaele,
ti
senti,
o
meglio, vi sentite un po’ “circensi”?
Oppure
pensi
che
a
una
certa
età
bisognerebbe evitare di andare al circo?
Qui ci hai azzeccato davvero tanto! Bravo! Io
credo che oggi giorno il mondo si sia congelato, dal punto di vista degli affetti interpersonali. Le
canzoni, le operette, le commedie, gli spettacoli in generale anticamente contenevano molto più
romanticismo, un tipo di romanticismo molto più poetico. Ecco, quella componente io la ricerco
spesso, non mi sento ridicolo ad affermare che l'amore è una forza trainante fuori dal comune, è
una forza coercitiva. L'amore di adesso, ovviamente non i tutti i casi, (intendo quello che vediamo
in tv, nei teatri o al cinema...) molto spesso è banale. Un film di Muccino può esaltare una mente
giovane, perché Muccino è di tendenza (no?) mentre un film come Metti Una Sera A Cena ti
incanta, ha incantato la vecchia generazione e incanterà ancora, il suo messaggio, il suo
sentimento è duraturo perché supera la banalità, diventando quasi poesia. Il Circo io l'adoro, ogni
inverno si ferma qui vicino casa mia ma non ci vado spesso e non perché mi sento inadeguato. Mi
diverte come il teatro, ma in maniera più semplice, in quanto ti porta in mondi diversi con pochi
mezzi e senza effetti speciali eccessivi. Il Circo è, per me, strettamente legato al sentimento di
melanconia. Non so perché ma è vero che quando si esce dal tendone e ci s'incammina verso
casa, la sensazione che ci portiamo sulle spalle è molto amarognola ma al tempo stesso dolce.
Comunque non si è mai troppo grandi per andare al Circo e poi: Moira Orfei come farebbe a
campare?
Il vostro è un folk raffinato e caldo che, tuttavia, riesce a essere anche ironico,
innocente e festoso, basta pensare a quanti strumenti aggiuntivi utilizzate: banjo,
cavaquinho, glockenspiel, tromba, basso tuba, fisarmonica, arpa assieme a campanelli
di biciclette, risate, pernacchie, un gatto in calore, clacson di automobili e rumori del
traffico di Napoli… Ecco, a proposito di Napoli, quanto ha influito (e influisce) questa
città nella vostra musica?
Noi tutti siamo di Napoli, precisamente dei Campi Flegrei. Un grande pezzo di terra pieno zeppo di
vulcani inattivi e di baie incantevoli. La nostra città dopo una vita intera, credimi, ci ha segnato
profondamente, positivamente e negativamente. Prima o poi devi farci i conti, prima o poi scatta
la tua reazione nei confronti di una città così particolare.
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La mia reazione è alquanto insolita, sono il tipo che ama stare da solo, andarsene al mare,
incastrare gli zoccoli in una piccola insenatura formata da scogli e prendere il sole su una
barchetta abusiva a Marechiaro nonostante intorno a me pulluli di animali furibondi senza decenza
e senza lingua, che emettono strani versi per comunicare fra loro e fumando quasi tutti canne,
anche in acqua. Continuo a sognare che questo sia il posto più bello del mondo e se sei fortunato,
è davvero è così! Musicalmente c'è chi da questa città prende solo rabbia e la sputa davanti a un
microfono e c'è invece chi come me sogna, sogna e sogna. La campagna è un mio modo per
evadere, per dissociarmi e per stare tranquillo a suonare. Io abito in una campagna civilizzata,
con molti spazi aperti e il mare vicino; un posto dove si ha ancora la possibilità di passeggiare in
bici, avere un bel giardino e soprattutto un po’ di tranquillità. Impagabile. Inoltre, la nostra
musica popolare (non la tarantella e non i neomelodici) è molto complicata come la musica antica.
La scrittura musicale pur essendo di stampo classico è, al tempo stesso, anche molto romantica.
Come e quando nasce
questo “Accordo tra
Gentiluomini”?
Mi sa che sto ancora
correndo! La mia strada
ha
visto
molti
cambiamenti perchè ho
scontato il mio periodo
da profugo, in termini
mentali e fisici. Molte
paure sono scomparse e
molti
atteggiamenti
sono caduti ma anche
molti sogni sono svaniti.
Dopo tutto questo ho imparato che non posso aspettarmi mai quello che non possono darmi.
Iniziare con la consapevolezza di sapere quello che non si deve fare è un buon passo nonché un
buon inizio. Innanzitutto i Gentlemen'S Agreement nascono alla fine del mese di Luglio del 2006,
è bastato innamorarmi dell'ukulele, trovare due giovani ragazzi senza troppi scrupoli, mettersi in
discussione e subito dopo abbiamo autoprodotto un Ep "The Gentlemen'S Agreement" e poi nel
Gennaio 2007 abbiamo autoprodotto un altro Ep "Cow" all'interno dei Seaside Studio di Bagnoli.
Poi, sai questo nome associato al nostro genere musicale mi fa pensare spesso a qualche scena di
un film di Paolo Sorrentino, tipo "Le Conseguenze dell'Amore" o giù di lì! Immagino due persone
eleganti che si scambiano questo Gentlemen's Agreement in aperta Campagna, decidendo dove
sversare tutta la "munnezza" che ultimamente ci ha ammazzato la terra. Dopo quasi un anno e
mezzo, due Ep autoprodotti, ben recensiti (la mozzarella di "Cow" è stata attentamente
assaggiata da Blow Up, Rockit, Rocklab…insomma tante!) e ben 73 date in giro per l'Italia,
abbiamo reclutato il trombettista/armonicista ed eccoci qui! Tà Dà!!
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Canti in inglese perché, culturalmente, lo senti più vicino?
Canto in Inglese perché mi esce spontaneo, ho vissuto in Inghilterra per un bel po’ quando ero
più imberbe e lo conosco abbastanza bene, mi sento a mio agio. È una lingua molto musicale, non
me ne frega nulla che siamo in Italia. Non cambia niente, ascoltiamo oggigiorno molti artisti non
inglesi che, nonostante tutto, cantano in "inglese" e non mi sembra che siano fenomeni
paranormali. Ognuno è portato a comunicare con una determinata lingua (a Napoli per un periodo
si usava mischiare il napoletano con la lingua americana) basta ascoltare i primi dischi di Pino
Daniele, James Senese e tutta quella scena lì! Molto interessanti nonché un'ottima musica. Io non
riuscirei a miscelare il mio dialetto con l'inglese ma all'epoca doveva risultare una novità, di
sicuro. Sono contento, anche perché domenica sul quotidiano "Il Mattino" è comparso un articolo
che parlava di questo fermento musicale e del loro comune denominatore nell'utilizzo dell'Inglese
citando noi, gli Atari, The Collettivo, The One's tutti miei amici anglofoni che fanno, per me,
buona musica. Questa cosa mi fa molto piacere. I confini si stanno finalmente aprendo e le
persone non si spaventano più di fronte a un italiano che canta in inglese o di fronte a un
islandese che canta, con il suo accento, in inglese. Basta sentirsi a proprio agio e tutto
l'imbarazzo e l'incertezza svanisce
Dove è stato registrato e mixato il disco?
Il disco è stato registrato in due studi senza limiti di tempo, prendendoci delle lunghe pause, atte
a stemperare la mente da un ascolto eccessivo delle canzoni. La batteria e il basso ai Seaside
Studio di Bagnoli, lo studio della casa discografica Materia Principale, un ambiente grande con
molti comfort ma soprattutto molto professionale mentre il resto della musica, compreso il
missaggio l'abbiamo effettuato agli MD Studio, sempre a Bagnoli, in compagnia dell'umilissimo
Massimo D'Avanzo, un signorone che ci ha insegnato molto. Abbiamo passato dei bei momenti,
anche alcuni momenti di crisi (quelli non mancano mai!). Lui abita e vive nello studio, possiede
una miriade di strumenti acustici, indossa felpe e suona la chitarra in maniera divina. È un uomo
maturo, esperto, con un gatto (presente anche nel disco in Gipsy), e un furgoncino Hippie. Il
mastering, invece, l'abbiamo affidato ad Alan Douches a New York (ha curato Sufjian Stefens,
Ben Folds Five, Convergence, etc) un'ottima persona. Ci siamo sentiti molto ed è stata una
esperienza molto soddisfacente, si è complimentato per il disco e ha optato per passare tutto il
disco su nastro, rendendo così il suono molto ma molto caldo. Persone davvero professionali, sia il
nostro sia Massimo D'Avanzo che Alan Douches.
Vi definite “campagnoli” perché non avete perso il gusto dei buoni sapori della terra?
È la Campagna che ci ha definiti "campagnuoli"...con la "u", fa molto più terrone! Eh eh eh! Tutto
a un tratto io ho incominciato a vedere la vita agreste come una vita molto saggia e sacrificata.
Vissuta con dedizione, la Campagna insegna. Proprio come diceva Aristotele nel saggio "La
Poetica", parla di MIMESIS, una imitazione della natura da trasporre nella propria arte, musica,
teatro e quel che sia, e nel ‘500 l'arte è stata esclusivamente imitazione della natura, vedi la
Sacra Triade (Raffaello, Leonardo, Michelangelo) ma non solo. Se lo facevano loro credo che
qualcosa di buono c'è davvero.
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Io dentro "the country" ci sto benissimo e poi, senza farlo apposta ci abito. È stata una scelta da
parte della mia famiglia quando abitavo a Londra...direi ottima scelta! Prima o poi la Campagna ci
seppellirà tutti. Come la musica!
Dal vivo siete davvero strepitosi. Vogliamo dire chi sono gli altri componenti dei
Gentlemen’S Agreement?
I Gentlemen'S Agreement" sono: Raffaele Giglio (voce, chitarra acustica, ukulele, cavaquinho,
mandolino, glockenspiel); Fabio Renzullo (cori, tromba, armonica, glockenspiel); Ivan Cannata
(cori, basso, cavaquinho, mandolino, glockenspiel);Luca Bravaccio (cori, batteria, shaker). Grazie
per "strepitosi", quando beviamo poco ce la caviamo, ci si diverte e soprattutto passiamo ore e
ore a suonare. Quando si suona la cosa più importante è divertirsi, non pensare troppo al
successo, ai soldi, alla perfezione.
A quale personaggio, artisticamente, vorresti somigliare?
Vorrei somigliare a un mix tra Charlie Chaplin, Hieronymus Bosch, Elvis e Fellini.
Trovo molto bello l’artwork di Roberto Amoroso. Da chi è nata l’idea?
Roberto Amoroso è a Napoli un giovane artista di punta. Il suo mestiere è quello di illustratore di
Fiabe, io volevo un artwork legato ai temi del nostro disco. L'ho incontrato, manco a dirlo, a un
concerto di Langhorne Slim a Salerno ma già conoscevo le sue opere. Le chiamo opere perché
sono tali! Dopo esserci conosciuti abbiamo capito che si poteva creare una connessione tra di noi
e un po’ alla volta ci
siamo
messi
all'opera.
Una volta registrate le
bozze
del
passato
disco,
tutto
al
ho
suo
estro, tradotto tutte le
canzoni lasciando vagare
la sua mente. Poi, molto
velocemente,
mi
ha
mostrato delle cose un
po’
di
cose
da
modificare, ma con molta naturalezza, del tipo:"Robè che ne dici di un biscotto?” e lui, in un
baleno, mi mandava una bozza. È un talento, un piccolo ometto con una mano gigante. Anche la
fotografa è brava. Si chiama Paola Di Domenico ed è anche la ragazza di Alfredo (Player 19 degli
ATARI)...tutto in famiglia, soprattutto tante belle cose in famiglia! Eh eh eh.
A proposito di “Belle Arti”, come procedono gli studi in Accademia?
Va tutto bene; potrebbe essere un polmone di creatività, invece è un polmone di perdite di
tempo. Peccato!
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Mi concedi una riflessione molto stupida?
Vai, spara!
Napoli non è solo immondizia come vogliono farci credere…
Assolutamente no! Siamo rovinati ma più in basso(lino) di così non si poteva andare! Io ancora
non so dove buttare la spazzatura e mi raccomando non differenziata perchè da me non si fa. Non
credete a quello che dice qualche cialtrone e nemmeno alla Tv...andate nelle zone più degradate e
vedete se c'è ancora crisi oppure no! Andate, andate!
Quindi, ancora una volta, grazie alle sue secolari e molteplici commistioni, Napoli si
rivela un centro vitale per la rinascita culturale di questo paese e i Gentlemen’S
Agreement ne sono una dimostrazione…
Più che una dimostrazione, siamo una delle tante risposte a questa città caotica, infernale,
perennemente in manifestazione, con tanto sole, tanto buon cibo ma dove l'underground
sprofonda, non funziona più bene, diventa più insicuro e latitante. Dov'è che se n’è andato
l’underground? Io credo che l'underground fiuti la terra e si fermi solo dove fino a due secondi
prima c'è stata miseria, violenza, esasperazione ma anche voglia di fare, rinascere e rimodellarsi
come argilla. Io ci campo con questa idea e credo che Napoli, diversamente da altre belle realtà,
sia estremamente genuina. Non abbiamo molto qui, nonostante la città sia grande e piena zeppa
di gente, ma quel poco che c'è è davvero pregno di un buon sapore. Mi fido ma soprattutto
fidatevi che se ne vedranno delle belle.
Senti, mi dici un motivo per cui i lettori dovrebbero comprare il vostro disco?
Un disco non costa poco. Un disco costa tanto soprattutto in questo periodo economicamente
disastroso. Che diamine, però, si comprano tante di quelle cazzate… Noi non ci arricchiremo con
le vendite di questo nostro esordio discografico, voi sicuramente sì! Almeno di sensazioni. Cos'è la
vita senza belle sensazioni? Affrettatevi, venite a un nostro fottuto concerto, andate in tutti i
negozi più importanti e incrementate la musica indipendente, intendo le piccole label...scaricatevi
invece un album di Dylan che ha talmente tanti di quei soldi che se ne fotte se lo scaricate o
meno. Per il resto... buona campagna a tutti. Hiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii Haaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa.
The Gentlemen’S Agreement sul web: www.myspace/thegentlemensagreement
Foto di Paola Di Domenico
Artwork di Roberto Amoruso
Intervista di Luca D’Ambrosio
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recensioni
ARTIST: THE RURAL ALBERTA ADVANTAGE
TITLE:
Hometowns
LABEL:
Autoprodotto
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.theraa.com
MLVOTE: 9/10
Sembra incredibile che una band come i Rural Alberta Advantage sia senza contratto e sia
stata costretta ad autoprodurre un album d'esordio eccezionale come Hometowns! Eppure è
così. Appare incredibile perchè è difficile trovare qualcosa di altrettanto originale fresco e pieno di
energia come questo trio canadese composto da Paul Banwatt, Amy Cole e Nils Edenloff.
Caratterizzato da una voce particolarissima, stranita e un po' stridula, il loro sound si basa su
chitarre acustiche o elettriche adrenaliniche ma soprattutto su una batteria frenetica e
imprevedibile che pompa energia senza esaurirsi e scandisce ritmi folkeggianti scatenati. Una
produzione pressoché inesistente, arrangiamenti scarni ed essenziali ma proprio per questo
efficaci e diretti. Nulla è superfluo, c'è solo la purezza del suono grezzo. Sin dal primo brano The
Ballad of The RAA si capisce subito che siamo di fronte a qualcosa di grandioso, da cui si sprigiona
un'energia sorprendente, come un tuffo al cuore, sensazione confermata da brani come The
Deadroads o Frank AB, o dalle bellissime ballate Sleep All Day e In The Summertime, struggenti e
cazzute allo stesso tempo. Insomma un suono graffiante e compatto lontanissimo dagli schemi
mainstream cui spesso ci troviamo a rassegnarci. Finalmente qualcosa per cui entusiasmarsi!
Claudia De Luca
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recensioni
ARTIST: AMANDA PALMER
TITLE:
Who Killed Amanda Palmer
LABEL:
Roadrunner records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.whokilledamandapalmer.com
MLVOTE: 8/10
Prodotto da Ben Folds e con la partecipazione d’innumerevoli ospiti, ecco l’esordio solista della
bella e talentuosa cantante dei Dresden Dolls. L’album si compone di dodici canzoni che
appartengono allo splendido e, speriamo clonabile, DNA della bruna Amanda, anche se molte
sono le nuove sfumature presenti nei solchi di questo Who killed Amanda Palmer. Essenzialmente
stiamo parlando, per intenderci, di una punk che suona una tastiera Roland, punk come sono stati
negli anni ottanta i grandi Violent Femmes o gli irlandesi Pogues, strumenti e sonorità differenti
ma spirito e attitudine uguale al 100%, solo in chiave più decadente e dark. Il trittico d’apertura
si alterna tra la struggente Astronaut e la folle Runs in the family (entrambe con la partecipazione
di Ben Folds), violini e singhiozzi conquistano mentre Ampersand sembra uscita da Yes Virginia,
dolce e sognante prima dell’allegra ed energica Leeds united. Il violoncello di Zoe Keating si fa
sentire con la ninna nanna di Blake Says, una delle canzoni meglio riuscite di tutta la raccolta.
Dopo la minimale Strength through music, ecco Guitar hero, con la presenza del Dead
Kennediano chitarrista East Bay Ray, elettrizza la seconda metà dell’album, dal piglio più rock,
vero tormentone della sporca dozzina. Have to drive è un po’ troppo strappalacrime e lineare, ma
ben introduce la soave cover di What’s the use of wond’rin? con la presenza della voce da
operetta di Annie Clark (Polyphonic spree) e la spensierata Oasis, con Amanda Palmer mai
così solare e pop. Su Point of it all mi piacerebbe, a dire il vero, scrivere una recensione a parte
ma mi limiterò a chiedervi una cortesia: ascoltatela, è stupenda! Another year è la parola fine di
un album che, nonostante non si discosti moltissimo dalle produzioni in coppia con il batterista
Brian Viglione, rende il merito a una brava cantante, splendida voce, che comunque ci regala tra
le migliori canzoni della sua, per adesso, breve carriera.
Antonio Anigello
ML 13
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: IVANO FOSSATI
TITLE:
Musica Moderna
LABEL:
EMI
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.ivanofossati.it
MLVOTE: 8/10
È pur vero che Fossati è apprezzato non poco da un certo pubblico che usa frequentare nonluoghi di caos calmo come Feltrinelli; ma non dev'essere un buon motivo per lasciarselo scappare.
Anno domini 2008 e Ivano continua con la solita classe a regalarci poesia, e c'è da esserne
contenti. Musica Moderna, composta da 11 tracce, non soltanto rappresenta un ottimo attestato
di presenza, ma uno dei dischi italiani più ammalianti dell'anno. A fare la parte del leone ci sono,
come di sovente, i sentimenti, sviscerati, analizzati e raccontati con estrema sincerità. Parole
scelte con cura del dettaglio per volare su nobili sentimenti: "So che vince l'amore, vince la
tenerezza, vince un piccolo bacio, vince una carezza"
canta nella title track. Ma il cantautore
genovese non trascura neanche la sociologia contemporanea: La Guerra dell'acqua o Il Paese dei
testimoni trattano con vis polemica, e invero qualche grammo di retorica anticonformista, temi
piccanti e forse non del tutto necessari: "È un cretino di una multinazionale a cui le cose vanno
dritte…". Ma a tirare in alto le sorti del disco ci pensano almeno una cinquina di tracce da
incorniciare: Cantare a Memoria, Illusione, L'Amore trasparente, Musica moderna e Parole che si
dicono; "Quasi tutti hanno un sogno da inseguire, io invece ho te…". Il Fossati che preferiamo,
inutile girarci intorno, è romantico, quello che innalza i sentimenti terreni a traguardo simildivino: "L'amore è forte e Dio lo sa...". Un plauso agli ottimi musicisti, i quali - pur ricamando un
deciso quanto perfetto contorno alle liriche - si fanno apprezzare per fantasia e inventiva (in
alcuni tratti di Last Minute, altro brano eccellente, sembrano far capolino i Pink Floyd o gli Orb).
In sintesi: pur non trattandosi di un capolavoro a tutto tondo - per quello rivolgersi a Discanto
(1990) o Macramé (1996) - è un album che, a conti fatti, risulta essere più di un "rimedio" alla
mediocrità della nostra epoca.
Jori Cherubini
ML 14
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: COLORE PERFETTO
TITLE:
Il Debutto
LABEL:
La Tempesta
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/coloreperfetto
MLVOTE: 7/10
Lo spirito di Moltheni aleggia pesante su questo debutto della band perugina. Un ectoplasma
piacevolmente ingombrante. La frequenza cromatica mancante per completare lo spettro
cangiante del Colore Perfetto. Un attestato di stima che si risolve nella partecipazione attiva di
Umberto al debutto di questa band che incide per la stessa etichetta e pratica il medesimo
produttore. Un debutto per niente acerbo o precoce vista la densità che pervade i dieci tasselli
che lo compongono. C’è questo clima intenso, questo vigore pastoso e androgino,queste
suggestioni che in passato abbiamo ritrovato nei dischi dei Lula o dei primi Tiromancino, in
certe cose del Circo Fantasma. E del Moltheni meno scorbutico. Una tensione che resta implosa
e diventa liquida, come nella superba distesa de L’essenza. Lo si potrebbe chiamare rock d’
autore, sfruttando quell’ orribile definizione usata per descrivere una sorta di incastro perfetto tra
l’ uso della modulazione acustica da band e l’ inclinazione a versarci addosso parole permeabili
agli umori, piastrine all’ opera per cercare di cicatrizzare ferite che resteranno aperte, come
piccole feritoie da cui ci si può setacciare l’anima. Qualcosa che ha a che fare col concetto di
“emo” originario: rock “emozionale”, cedevole alle storture delle giornate, agli umori cangianti,
cagionevole e imperfetto. Ricordate un album come The Bed Is In The Ocean dei Karate? Case
e stanze che diventano il centro del mondo dove tutto può succedere e ogni cosa ha un effetto
sulla nostra carne. È questo il mondo che qui si respira, questa densa melassa di ricordi (il sorriso
che aveva tua madre nel ’73…), di pensieri spiraliformi come “labirinti infiniti” e di sogni infranti
prima ancora di aprire gli occhi (quando il sole trapassa il cervello come lama rovente su
ghiaccio…) che satura l’aria delle nostre stanze fino a condensarla sulle pareti della gola come
catarro da fiele. Un debutto notevole.
Franco Dimauro
ML 15
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: OF MONTREAL
TITLE:
Skeletal Lamping
LABEL:
Polyvynil
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.ofmontreal.net
MLVOTE: 7/10
Fossi stato Kevin Barnes, voce nonché mente degli americani Of Montreal, mi sarei ritirato in
un ozio meritato e confortevole, soprattutto dopo aver dato alle stampe un disco dallo spessore
enorme quale era Hissing Fauna, Are you the Destroyer? Invece è passato solo un anno e mezzo
ed ecco spuntare nei negozi un disco che in mano scotta come il fuoco. Troppo il peso del
capolavoro precedente, troppe le aspettative e troppa la curiosità di sapere cosa la band di
Barnes avrebbe tirato fuori da quel pentolone bollente ricolmo di colori che tutto il mondo chiama
semplicemente pop. Skeletal Lamping da questo punto di vista brilla e illumina, è pieno zeppo di
riferimenti e non si fa mancare nulla, è una carrozza trainata da cavalli imbizzarriti e guidata da
fantini folli ed ebbri di musica, ma…ma…mancano le briglie! Così le buone idee rimangono solo
buone idee, le canzoni ci sono eccome e spaziano dal funk riempi pista di Gallery Pierce (il loro
personalissimo stile danzereccio e appiccicoso colpisce ancora) ai saltellanti motivetti irrorati dal
sole californiano di Four Our Elegant Caste e An Eluardian Instance a metà strada fra il passato
dei Beach Boys e il presente dei Flaming Lips, alle sperimentazioni più ardite di Plastis Wafers
(oltre 7 minuti di pop che nel finale si tuffa in un magma psichedelico ardito) fino al Prince più
romantico di St. Exquisite’s Confessions o al Lennon più essenziale di Touched Something’s
Hollow. Insomma, un grande disco di canzoni che prese singolarmente fanno girare la testa senza
dare punti di riferimento, ma nella visione globale assomigliano sempre più a un quadro astratto
di difficile interpretazione. Consiglio personale? Usate queste canzoni separatamente quando
preparate i vostri mix. Vi daranno dei geni. Quasi quanto Kevin Barnes!
Nicola Guerra
ML 16
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: AA.VV.
TITLE:
The ZTT Box Set
LABEL:
Salvo
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.salvo-music.co.uk
MLVOTE: 7/10
Se siete stati adolescenti durante gli anni Ottanta non ne siete passati indenni. Forse non ne siete
stati consapevoli e magari vi ci hanno costretto con l’inganno ma era impossibile non avere a che
fare con la musica della Zang Tumb Tuum. Se accendevate la radio o la tivù (e so che lo facevate)
non avevate scampo. E anche se con una smorfia di orgoglio da rocker musoni e catarrosi vi
rifiuterete di ammetterlo, inconsciamente i vostri muscoli, cardiaci e non, hanno battuto al ritmo
delirante di Relax dei FGTH o bestemmiato ogni volta che passava il tormentone di Moments in
love degli Art of Noise. Non lo sapevate ma quelle sono piccole macerie su cui il vostro terzo
orecchio si è sviluppato, al di là di ogni scelta consapevole. Che in quegli anni poteva voler dire
spaccarsi i denti pogando sotto un concerto hardcore, sciogliere il cerone ascoltando Robert
Smith fare le fusa, farsi cullare dal twee pop degli Aztec Camera, rullare cannoni sotto le
istruzioni dettate direttamente da Peter Tosh, comprare beatle boots col tacco cubano dal
piccolo importatore sixties per vestirsi come “quella” copertina degli Standells, quello che volete.
Fondata nel 1982 da Trevor Horn con l’aiuto della moglie Jill Sinclair la ZTT
rappresentò
l’emblema della trasversalità della dance music. Potevano starci tutti e ognuno poteva fare quel
che cazzo gli pareva. Un vero concetto di democrazia applicata alla musica. Musica dance creata
ed elaborata come se si stesse lavorando alla tela della Gioconda. Era uno dei concetti fondanti di
Trevor Horn, già all’ epoca dei Buggles: lavorare su una canzone pop come se si stesse creando
la cosa più importante e bella del mondo. Un perfezionista capace di spendere più di cento ore di
lavoro in studio solo per trovare il giusto suono di hi-hat, come viene raccontato da Paul Morley
nelle note del succoso libretto di questo box (Paul fu, tra l’ altro, colui che battezzò l’ etichetta con
quel curioso martellìo di parole che doveva ricordare il rumore di un fucile giocattolo e anche
quello di una drum-machine, NdLYS). E di piccoli capolavori pop il catalogo ZTT era colmo.
Basterebbe citare il tribalismo di plastica dei FGTH (una micidiale sequenza quella del trittico
Relax/Two Tribes/The power of love che inaugura il cofanetto), la grazia di una Duel dei tedeschi
Propaganda (uno dei pezzi pop perfetti degli eighties), il sapore decadente di una Slave to the
rhythm di Grace Jones (purtroppo esclusa da questo cofanetto per problemi legati ai diritti), la
voce da elfa di Bjork fissata su Ooops degli 808 State, i tetris algebrici che si incastrano su
Close (to the edit) degli Art of Noise, il soul morbido e ruffiano del Seal di Crazy, il funky
androide di Snobbery & Decay degli Act di Thomas Leer (roba per cui i nuovi alfieri del technopop, dai Ladytron ai Cut/Copy, pagherebbero tangenti ai Casalesi per poter scrivere, NdLYS), le
block rockin’ beats di Red Summer dei Sun Electric.
ML 17
musicletter.it
update n. 59
recensioni: aa.vv. | the ztt box set
A questa babele di suoni sono dedicati i tre cd audio di questo cofanetto celebrativo mentre il
quarto disco è dedicato agli esperimenti creativi del settore video della label, della cui potenza
mediatica Trevor fu uno dei primi a capire la portata (superfluo ricordare che la sua Video killed
the radio star fu storicamente la prima clip ad essere trasmessa da un canale dedicato, NdLYS).
Non ci sono i video che “bucarono” le scalette di MTV, VideoMusic e DeeJay Television per tutto
un decennio, ma una scelta che va dagli esperimenti di Godley & Creme su Two Tribes dei FGTH
alle riprese low-budget (200 sterline) per The Amusement di Andrew Poppy per poi planare con
le ali tese nelle produzioni video della seconda stagione (quella che loro stessi definiscono la fase
post-Seal), compreso il video diretto da Johnny Depp per That woman ‘s got me drinkin’ di uno
Shane McGowan in fuga dai Pogues. Sconsigliato ai fanatici delle chitarre-grattugia e dei
megaconcerti per palestrati con le spade di Artù tatuate sui bicipiti. E non perché questa musica
sia meno finta di quella, solo perché a Trevor Horn girerebbero i coglioni a vedervi girare attorno
alle sue creature di plastica.
Franco Dimauro
ML 18
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: KARDIA
TITLE:
Kaleidocristo
LABEL:
Killerpool Records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.kardia-musik.com
MLVOTE: 7,5/10
Però. Però. Che belle, le sorprese. D’improvviso, un piccolo, grande album, una piccola, grande
band che affonda, da subito, un colpo vincente. Dei Kardia avevo già un’idea abbastanza chiara,
perché i pezzi sul myspace non mentono. Ma averli visti dal vivo, e aver messo le mani su questo
Kaleidocristo mi fa capire che c’è spazio per pensare ad una nuova, grande band. Una band che,
addirittura, propone originalità, italianamente parlando, che mescola tanti begli ingredienti in un
sound già personale, che promette di diventare qualcosa per cui valga la pena uccidere. Pensate
all’elevazione incontenibile, volatile e ricca dei Dredg, un afflato epico, enfatico, senza soluzione
di continuità. Al basso pieno di Hook-lines, quasi cantabile, che sostiene e muove, memore di
tanta new wave o, più semplicemente (e recentemente) dei Placebo. A sognanti keyboards
decisamente ottantiane (vogliamo dire Alphaville? Diciamo Alphaville), che donano al tutto
un’aria, come dire, pop. A squarci di postmetal deftoniano, poderosi ma pieni di grazia. A
suggestivi testi in italiano, fatti di minimalismo crudo e poetico, molto poco pretenziosi o verbosi
(quanti maestri di retorica, in questo paese, vero? Ce ne accorgiamo davanti a testi come questi,
per contrasto). Il risultato? Un disco come minimo suggestivo, continuo, ricco e sorprendente
perché, nello stivale, nessuno sceglie queste soluzioni al problema dell’esprimersi: forse solo gli
amici Klimt 1918, ma nella lingua di albione, ed in modo certamente più rock. Qui gli ingredienti,
al meglio delle dosi rispettive, generano canzoni che non esito affatto a definire piccoli gioielli:
l’incipit Cenere brillante, dove il canto sale alto, e il cuore si gonfia nell’elegiaco trasporto, 21g e
kreutzbergsatori, dal basso onnipresente, e dalle splendide melodie, la meraviglia di luce, in cui lo
straordinario slancio emo-zionale dei Dredg si stempera in soluzioni melodiche decisamente pop
o la conclusiva L’universo, forse la cosa migliore del disco, un meraviglioso incastro tra Cure e
Deftones, interpretato con trasporto straordinario dalla splendida voce di Paolo. Fosse tutto su
questi livelli dovremmo gridare al capolavoro, invece, qualche volta, gli intrecci di tastiere
rimangono un po’ a galleggiare sul suono, quasi non amalgamati; altre volte (Senza forma, Inno
al buio), semplicemente, la qualità delle canzoni scende un gradino più sotto ed i ragazzi si
complicano un po’ la vita, con contorsioni che rendono il tutto più facilmente dimenticabile.
Peccati veniali, comunque: confido. Sento aria di capolavoro, già prossimamente. Supportate,
contattate, ascoltate: “l’universo galleggia in ogni lacrima di gioia”. Sette virgola cinque.
Valerio Granieri
ML 19
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: BUENA VISTA SOCIAL CLUB (AA.VV.)
TITLE:
At Carnegie Hall (2Cd)
LABEL:
World Circuit / IRD
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.worldcircuit.co.uk
MLVOTE: 9/10
Cuba, il crocevia della musica del mondo, è tornata l’isola felice che era prima che l’embargo
decretato dagli Stati Uniti quasi 50 anni fa ne affievolisse la spinta musicale. Tutto era iniziato con
la rivoluzione castrista del ’59 e aveva subito il colpo di grazia nel ‘61 con la crisi politica tra Cuba
e Stati Uniti denominata “della Baia dei Porci”, quando un gruppo di esuli cubani addestrati dalla
CIA mise in atto un tentativo di invasione dell’isola per organizzare un sollevamento popolare
contro Fidel Castro. Il fallimento dell’operazione e lo smascheramento del progetto fecero perdere
agli Usa la faccia dinanzi al mondo intero, avvicinarono Fidel all’Unione Sovietica e, quando un
anno dopo vennero installati a Cuba alcuni missili sovietici, questo portò gli americani a decretare
un embargo commerciale totale che, per quel che ci riguarda più da vicino, ha assunto i contorni
anche di embargo culturale, con l’effetto conseguente di rendere negletta la magnifica musica
dell’isola agli appassionati sparsi per il mondo. Si pensi anzitutto alla nutrita comunità latinoamericana degli Usa. Prima di quei fatidici eventi la musica cubana dominava incontrastata nel
settore della musica tropicale. Il grande “appeal” di Cuba aveva preso corpo nella seconda metà
degli anni ’40 quando negli Stati Uniti nasceva lo stile cosiddetto “afrocubano”, dovuto alla
mescolanza di bebop e sonorità latine ad opera di jazzisti americani e musicisti di origine cubana
e portoricana - che all’epoca avevano una nutrita colonia nella “Grande Mela” (la quale
mescolanza) simbolicamente si fa risalire all’incontro tra il sassofonista Charlie Parker e il
percussionista Machito. Ma anche ad altri musicisti va ascritto il merito di aver condotto il genere
al proscenio, in testa a tutti Dizzy Gillespie che nella sua band introdusse l’uso di strumenti a
percussione tipici della musica cubana come congas e bongos. Con il tempo altre sonorità presero
a essere sempre più frequentate dai jazzisti come il calypso e la bossanova trasformando
l'influenza latina in qualcosa di radicato nel tessuto connettivo americano. Negli anni Cinquanta
c'erano i Mambo Kings e nei locali alla moda di New York la gente impazziva per i balli
provenienti dai Caraibi al ritmo delle orchestre di Tito Puente, Tito Rodriguez, Celia Cruz.
Saltando a piè pari tutto il contributo offerto dai vari Santana, Gloria Estefan & Co., nei
Settanta poi è stata la Salsa a trainare la voglia di ballo latino. Sul finire degli anni Novanta però
si è generata una nuova frenesia e un rinnovato interesse per la musica proveniente dall'isola cui
ha contribuito in maniera determinante la felice operazione compiuta da Ry Cooder e da Wim
Wenders all’Avana con la (ri)scoperta dei “nonnetti” cubani, musicisti di valore dimenticati e
reietti, e con il successivo film-documentario.
ML 20
musicletter.it
update n. 59
recensioni
Basti pensare come un prodotto dichiaratamente di “nicchia” come Buena Vista Social Club – il
disco prodotto e coordinato da Cooder e fortemente voluto da Nick Gold, patron della World
Circuit, è stato registrato nei mitici studi Egrem dell’Avana - si è trasformato (per la bontà dei
suoi contenuti) in un eccezionale successo in tutto il mondo (è il disco di world music più venduto
di tutti i tempi). Gente come Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Ruben Gonzales, Omara
Portuondo (e non solo loro, ma anche tutti quelli che hanno preso parte alle session di
registrazione) – tutti vetusti ma musicisti virtuosi e interpreti immensi -, ha vissuto in pochi
folgoranti anni una nuova (in alcuni casi la “prima”) stagione di meritatissimi successi, in capo a
ballate stupefacenti e coinvolgenti, attraversando il bolero, il son più rurale cubano, ritmi
dimenticati come la guajira, od altri caratteristici quali guaracha, abacuà, chagui, mambo, son
montuno, descarga, con arrangiamenti puntuali e ricchi di sfumature garantiti da band con la
struttura di un tempo (sezione corposa di fiati, pianoforte, basso ed una serie di strumenti tipici
della tradizione come il tres, timbali, congas, bongos, maracas e gli insostituibili cori vocali). I
veterani Compay Segundo, Ibrahim Ferrer e Ruben Gonzales sono scomparsi in questi ultimi
anni, dopo aver assaporato il piacere sottile della popolarità internazionale, ma il testimone è
stato raccolta da una nuova generazione di musicisti, degni eredi della grande tradizione, che ci
lasciano intuire come un grande patrimonio musicale come quello cubano continuerà sempre a
essere ben rappresentato. Un lunghissimo preambolo per introdurre il disco in questione che
testimonia di un concerto evento tenuto dal Buena Vista Social Club alla Carnegie Hall di New
York il 1° luglio 1998 (e solo ora disponibile su CD), quando la splendida favola del progetto
accarezzato da Ry Cooder e Wim Wenders ha preso corpo trasformandosi in realtà. Un
concerto che al di là delle sue precipue qualità artistiche ha siglato di fatto la fine di un embargo
iniziato quasi quattro decadi prima restituendo al mondo artisti – al debutto fuori dai confini
dell’isola patria - che non meritavano di rimanere così a lungo sconosciuti.
Luigi Lozzi
ML 21
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: THE SMITHS
TITLE:
The Sound Of Smiths
LABEL:
Rhino
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.askmeaskmeaskme.com
MLVOTE: 7/10
Re-issue! Re-package, re-package! Re-evaluate the songs! Double pack with a photograph! Extra
track, and a tacky badge! In realtà le foto sono due, leggermente diverse ma tratte dalla stessa
session fotografica: una per il formato singolo, una per quello doppio. Due scatti che hanno il
primato di essere i primi a comparire su una copertina europea degli Smiths, due foto che
rompono il magico incantesimo creato dalla galleria iconografica elaborata dalla band di
Manchester. Natale è alle porte e le grandi case del disco cominciano a preparare i sottaceti.
Quest’ anno tocca agli Smiths finire nella boccia. Un doppio disco che riuscirà nell’ intento per cui
è stato creato: vendere i manufatti della ditta Marr/Morrissey sotto le feste natalizie. Pare che
Morrissey e Johnny Marr abbiano lavorato separatamente, da buoni nemici, alla stesura della
raccolta. Stephen, da uomo impegnato, ha “scelto” il titolo dando fondo alle sue ormai esigue
riserve di fantasia mentre a Marr è stato affidato il compito di stilare la scaletta. Una scelta che
sta a metà tra un best of (il disco 1) e un raritie by (il secondo cd della deluxe edition) e che
porta a quota otto le raccolte dedicate a una carriera illuminata da tanti, plendidi singoli e da
quattro soli album a conferma di un culto a cui è difficile sottrarsi e di una ottima macchina per
spillare soldi, che è quello che più interessa alla Warner, così come a qualunque altra
multinazionale del disco. E proprio in virtù del culto e della venerazione quasi apostolica che ha
sempre circondato la band inglese questo doppio finisce per disattendere le attese (qualora ce ne
fossero state) del “nocciolo duro” dei fan assumendo solo il tono della beatificazione ufficiale e
formale di materiale che da anni gira sulle navi pirata della digitalizzazione non canonica delle
rarità. Parlo delle prime preziosissime B-sides come Jeane (la mia personale iniziazione all’
universo dorato del mondo Smithsiano, NdLYS) o Wonderful Woman, due assolute perle della
poetica di Morrissey con parole che ti perforano lo stomaco peggio di un pranzo al McDonald’s.
Oppure di uno degli strumentali dell’ ultimo periodo (Money changes everything) che in origine
colorava la B-side di Bigmouth strikes again: peso specifico bassissimo (non ho mai capito
perché, pur considerando Marr il chitarrista per eccellenza, gli strumentali degli Smiths siano delle
assolute porcate). E poi ci sono altre cose che avevamo scordato senza rimpianto, come la cover
dei concittadini James What‘s the world? (l’altra cosa che veniva male agli Smiths, oltre agli
strumentali, erano proprio le covers. Cosa in parte riscattata dal fatto che chi si è cimentato con
le covers del repertorio Smithsiano, ha fatto la medesima mortificante figura, NdLYS), la New
York version di This Charming Man che funkeggia dalle parti di How Soon is Now? e Barbarism
begins at home.
ML 22
musicletter.it
update n. 59
recensioni
Le tracce live incluse sono tutte robe già edite (Meat is Murder come retro di That joke isn’ t
funny anymore Cat. # Rough Trade RT186, Handsome Devil sulla B-side di Hand in glove Cat. #
Rough Trade RT131, London sul live Rank! e What’ s the world? sul retro di Sweet & Tender
Hooligan Cat. # Reprise 9 43525-0) a testimoniare il fatto che in realtà Marr non si sia dedicato a
un ascolto attento delle tonnellate di registrazioni che riguardano la band ma si sia limitato a
scegliere dal già scelto. Un po’ come quando vai al ristorante e fai scegliere al cameriere. Col
rischio che ti rifilino quello che gli è rimasto in pentola o nella cella frigo e che urge far smaltire.
Cosa che in parte avviene, su questo disco. O sarà forse che quando si parla degli Smiths tutti si
diventa incontentabili e avidi. Che se anche fosse uscita qualche rara pepita nascosta avremmo
detto che forse era meglio cercare di più, più a fondo, anche a costo di respirare zolfo e saltare
per aria col grisù. Tutti contenti allora, dai. Lo regalerete o lo spacchetterete a Natale, se la
brama di possederlo non vi brucerà prima. La Warner rastrellerà un po’ di grana, gli Smiths pure.
At the record company meeting, on their hands, at last, a dead star!
Franco Dimauro
ML 23
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: DAVID BYRNE & BRIAN ENO
TITLE:
Everythings That Happens Will Happen Today
LABEL:
Todo Mundo / Opal
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.everythingsthathappens.com
MLVOTE: 6/10
Per giudicare questo album, frutto della collaborazione tra due dei mostri sacri del rock degli
ultimi 40 anni, credo ci sia bisogno di far finta che questo sia il loro primo parto a quattro mani,
dimenticandoci in totale coscienza di quella meraviglia che porta il titolo di My Life In the Bush
Of Ghosts. All'epoca in cui, si era nel 1981, quel disco fu immesso in circolazione (dopo anni di
lavoro) i due erano all'apice della loro creatività multiforme, un asse rock Londra – New York
contaminato dall'Africa, dal medio oriente, dalla black music, dalla curiosità intellettuale
insaziabile di due personaggi che in pochi anni l'uno (Byrne) e in una decina l'altro (Eno) li
avevamo visti allontanarsi a distanza siderale e velocissima dai rispettivi luoghi
artistici di
partenza. I Roxy Music di Brian erano già da tempo il giocattolo fascinoso e decadente di Ferry,
i Talking Heads poliritmici e postatomici di David già quasi un’icona per un nuovo decennio di
supposta nuova alta creatività rock. E dove Eno diversificava, dal punk all'ambient agli U2, Byrne
riscopriva la matrice pop intellettuale dei primi TH bagnandosi nel multimediale (i video, il film) da
un lato e nell'analisi dell'America rurale del reaganismo vigente dall'altro, non disdegnando idee
moderniste e intrecci tra varie forme artistiche (Catherine Wheel, la colonna sonora per Twyla
Tharp, tanto per o le produzione brasiliane della sua label). Era il periodo, per intenderci, in cui il
terreno sembrava comune per tanti, dai King Crimson ai tardi Clash fino ai Defunkt, per non
metterci dentro almeno altri 20 nomi. Eno e Byrne non sono mai stati fermi a prendere il sole sul
loro personale bagnasciuga ed è per questo che, a distanza di tanti anni, fa comunque sensazione
un nuovo disco che li mette assieme, quasi fosse o dovesse essere un compendio di tante
eccellenti avventure artistiche. In realtà proprio “My life” sembrò trarre una linea di demarcazione
tra il prima e il dopo delle loro rispettive storie ed a distanza di anni, dopo che la musica è
cambiata nei supporti, nelle possibilità tecniche degli strumenti, dopo il cd (che allora non c'era ed
ora è obsoleto), dopo tanti anni insomma viveva un curiosità legittima nel cercare di capire se i
due avrebbero creato una opera capace della stessa importanza artistica che ebbe quella di 27
anni or sono. In realtà più ascolto l'album e più mi viene in mente quel Wrong Way Up che Eno
realizzò nel 1990 con un altro grandissimo di tutti i tempi, John Cale. Una scrittura pop
leggiadra, positiva e luminosa, un disco molto cantato, piccole architetture trasparenti riconoscibili
dopo pochi ascolti (The river, My big nurse) e senza troppi spigoli, paradossalmente più vicine a
certi dischi solisti di Byrne, che in Wrong Way Up non prendeva parte al sodalizio, piuttosto che
a certi album solisti del De La Salle Eno dei ‘70 (Tiger Mountain o Another Green World) che
pure vengono richiamati da canzoni che proprio Eno sembra aver scritto più di Byrne.
ML 24
musicletter.it
update n. 59
recensioni
Solo che Wrong Way Up, che pure non riceve quasi mai degna attenzione quando (raramente)
se ne parla, conteneva tre/quattro capolavori che in “Everything...” non si scorgono affatto,
forse che il plot risulti un po' trito, segnato dall'ovvio passare del tempo. Disco deludente,
dunque? Tutto sommato no, a patto che, appunto, non si dia peso alle storie soliste dei due e
soprattutto non si tiri in ballo quel magnifico e riverberante capolavoro di tanti anni or sono.
“Everything That Happens...” si ascolta con piacere e distrazione, specie quando s'avanza
rotolando sui capriccetti finto soul di Strange Overtones, nella pur piacevolissima Home (che è il
brano che vi accoglie quando visitate il sito) o nel piccolo inno corale decisamente ‘70 di One fine
day, peraltro godibile. I suoni sono belli (la chitarra di Life is long), ricercati ma tutt'altro che mai
sentiti, come se la vena pop del duo alla fine risultasse standardizzata alla pari di una qualsiasi
produzione edulcorata e mainstream del momento (citiamo Timbaland, tanto per dire di uno che
veramente usa in maniera davvero eccessiva la carta carbone) e il fatto che il pop non si sposti,
in loro presenza, neanche di mezzo passo in avanti un po' dispiace. Alla lunga il disco spiazza un
po' perché giunge un pochino di tedio, inaspettato, in brani inizialmente promettenti come The
lighthouse, mentre I feel my stuff (la traccia più lunga) richiama certi Talking Heads tesi e
volitivi ma sembra non risolvere, se non confusamente, la pratica. Meglio allora, sulle stesse
coordinate di Remain In Light (1980, Talking Heads), Poor Boy. Che però non fa gridare al
miracolo funkatomico. Mi vien da pensare che se, in questa struttura morbida e canzonettara (mi
si perdoni il termine), si fosse osato un po' di più forse avremmo parlato di un (capo)lavoro in
tono minore, di una comunque ottima maniera di invecchiare artisticamente. Invece vien voglia di
un nuovo Eno un po' più coraggioso mentre dell'averne voglia di più dal duo non c'è quasi traccia.
Succede che ti viene più la voglia di scrivere, magari a beneficio di chi è più giovane, la storia
luminosa, folgorante ed irripetibile di due vicende singole che spesso si sono felicemente
incontrate piuttosto che descrivere i bei gesti attuali, che sembrano i sereni saluti e baci che gli
invitati si scambiano alla fine del pranzo di un matrimonio un po' noioso, quando non si vede l'ora
di giungere a casa per togliersi dai piedi quelle crudeli scarpe nuove che necessariamente
abbiamo dovuto indossare. D'altronde, come scrive Eno, proprio un pranzo a New York fu galeotto
(non si sposava, comunque, nessuno).
Massimo Bernardi
ML 25
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: EDDIE VEDDER
TITLE:
Into the Wild
LABEL:
J-Records
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.pearljam.com
MLVOTE: 8/10
Al già riuscitissimo “score” (commento sonoro, disponibile solo in download digitale) di Kaki King
e Michael Brook, sospeso tra Folk e New Age, Sean Penn ha chiesto a Eddie Vedder di
aggiungere alcuni pezzi suoi per la colonna sonora: la voce dei Pearl Jam - pur ritenendo non
mancasse nulla a quanto già avessero fatto King e Brook - ha accettato, sia per l’ amicizia che lo
lega al regista che per l’ interesse suscitato dalla storia. È forte la tentazione di considerarlo come
il primo album “solo” di Eddie Vedder (l'aspettativa alle volte gioca brutti scherzi) ma la
valutazione non può prescindere dal fatto che si tratti di una colonna sonora, a maggior ragione in
un caso come questo in cui le liriche di ogni pezzo rappresentano un elemento narrativo, un
complemento alle immagini e non un semplice substrato ad esse. Vedder ha fatto un buonissimo
lavoro (avrei voluto scrivere “ottimo” ma mi sono fermato in tempo per la consapevolezza del
ruolo giocato dalle incontrollate passioni che tutta la faccenda ha suscitato nel sottoscritto) senza
cadute di tono e senza la discontinuità che frequentemente caratterizza questo genere di lavori.
In alcuni pezzi si avvicina moltissimo ai Pearl Jam in sessione unplugged. I pezzi risultano
sempre adatti alle immagini e funzionano benissimo anche isolati da esse. Al buon esito del
progetto ha certamente contribuito, nella voce dei Pearl Jam, il riflesso degli avvenimenti narrati,
il richiamo (obbligatoriamente) ecologista del film, l’intesa con l'amico-regista (entrambi già
vincenti in occasione di Dead Man Walkin) e la registrazione nella sua Seattle. La scaletta fila
liscia, come la pellicola. Alcuni pezzi (in particolare le purtroppo brevi No ceiling' e Long nights e
la commovente Guaranteed con la quale ha vinto un Golden Globe) emergono per la loro forza
evocativa. Vedder è un discreto fingerpicker e si conferma (se mai ce ne fosse stato bisogno)
come una voce d' eccezione in grado di passare dal grido - che diventa quasi ululato in The Wolf:
certamente uno dei pochi a non cadere nel ridicolo in una performance simile - al sussurro, come
quello dell'alito di vento che ha accompagnato l'anima di Christopher Johnson McCandless dal
rottame del BUS 142, adagiato nel paesaggio apparentemente desolato dell'Alaska, alla vita
eterna.
Stefano Sciortino
ML 26
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: EARLIMART
TITLE:
Mentor Tormentor
LABEL:
Shout Factory
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.earlimartmusic.com
MLVOTE: 8/10
Aaron Espinoza e Ariana Murray sono i fondatori e membri permanenti degli Earlimart, band
che viene da Los Angeles ma prende il nome da una piccola cittadina sperduta della California.
Giusto per rimanere in tema di geografia, qui in Italia sono pressoché sconosciuti sebbene siano
attivi sin dal 1999 e abbiano pubblicato ben 6 album, uno più bello dell'altro. L’ultima loro fatica è
Hymn and Her (Shout Factory, 2008) ma l’album con cui li ho scoperti è il quinto. Mentor
Tormentor risale all'agosto 2007 e si compone di 15 pezzi in cui il mood californiano si sviluppa
con i suoi tratti caratteristici: ariosi passaggi intrisi di languida malinconia, visioni di spazi
sconfinati che regalano sensazioni di gioia e la libertà, atmosfere dilatate e seducenti e in cui i
temi portanti (relazioni interpersonali, amore, amicizia, emozioni…) creano un'atmosfera intima e
confidenziale. Le composizioni si sviluppano sostanzialmente da un intreccio in cui i ritmi scanditi
dal pianoforte fanno da contrappunto alla struttura melodica delle chitarre (Everybody Knows
Everybody). La voce vellutata e avvolgente di Aaron Espinoza, rassicurante nei brani più delicati
e romantici di raffinato chamber-pop come Don't Think About Me (non a caso gli Earlimart
stanno per andare in tour con i Wedding Present ex Cinerama ex Wedding Present...)
diventa altrove più determinata e graffiante sebbene sempre addolcita dai cori di sottofondo.
Dopo il brano di apertura decisamente interlocutorio ecco arrivare una spettacolare tripletta:
Answers & Questions e Nevermind the phonecalls, i pezzi più belli del disco, e la delicata Happy
alone (completamente scritta, composta e cantata da Ariana Murray) durante la quale non si
può fare a meno di andare con la mente a Elliott Smith. Gli omaggi al grande cantautore
scomparso sono disseminati profusamente qua e là per tutto l’album (The world, Justy because)
ma non voglio stare qui a disquisire se queste “citazioni” siano scientificamente ricercate o se
siano dovute solo dovute a involontarie e spontane rielaborazioni di un artista talmente amato.
Perché a parte Smith, altre influenze vengono alla mente, Matt Pond P.A., i Grandaddy,
Sparklehorse, anche se in versione meno sperimentale e più pop. Ma quel che conta è il
risultato, che è sicuramente qualcosa di molto personale e assolutamente valido.
Claudia De Luca
ML 27
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: ARMY OF ANYONE
TITLE:
S.T.
LABEL:
The Firm
RELEASE: 2006
WEBSITE:
www.armyofanyone.com
MLVOTE: 7/10
Sono sempre stato piuttosto scettico riguardo ai cosiddetti supergruppi; senza scomodarne troppi
mi vengono in mente i risultati altalenanti di Audioslave, Velvet Revolver o Hellyeah e
considerando gli Army Of Anyone nel medesimo novero, non mi aspettavo fuochi artificiali dal
loro album. Questo progetto è nato dalle ceneri dei californiani Stone Temple Pilots (da cui
provengono i fratelli Robert e Dean DeLeo) e dei Filter del frontman Richard Patrick,
coadiuvati dal batterista Ray Luzier (ex David Lee Roth band), e il disco che porta il loro stesso
nome è anche l’unico pubblicato nell’arco della loro breve parabola artistica. Quasi a voler
rispettare l’effettiva preponderanza percentuale, l’elemento S.T.P. appare più evidente rispetto al
background della band di Patrick, ma anche se le dosi non si equivalgono per quantità, non c’è
dubbio che queste si mescolino più che positivamente, dando vita ad un rock frontale, spesso
essenziale e che fortunatamente rifugge tanto le frequenti metamorfosi stilistiche dei “Pilots alla
ricerca di un’identità precisa” quanto le sterili iniezioni di elettronica che andavano a riempire
come filler le scalette dei vecchi lavori dei Filter. Il risultato è un onesto disco di matrice piuttosto
alternative rock e dalle tinte fortemente americane (il produttore è pur sempre la vecchia volpe
Bob Ezrin), con un pugno di brani energici, sapientemente alternati a ballate o comunque a
momenti più rilassati, che spiccano nel caso di Goodbye (pubblicata come singolo) e Father Figure
tra le prime e A better place o This wasn’t supposed to happen tra le seconde. Purtroppo però
stiamo pur sempre parlando di music business, di conseguenza, alla faccia della sua più che
dignitosa qualità, le copie vendute dal disco non hanno raggiunto nemmeno quota 100.000
rappresentando di conseguenza un fallimento commerciale se paragonato ai numeri realizzati
dalle rispettive band madri; l’implosione degli Army Of Anyone, seppur avvenuta in termini
amichevoli, è senz’altro figlia di fattori commerciali, gli stessi che hanno riportato Scott Weiland
(del post Velvet Revolver) e i fratelli DeLeo insieme per la prevedibilissima reunion degli Stone
Temple Pilots e Richard Patrick a tornare in pista coi suoi Filter (con un disco niente male,
Anthems for the damned del 2008). Più le cose cambiano e più restano uguali… è un detto
vecchio e trito ma a volte va anche bene così.
Manuel Fiorelli
ML 28
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: ARAB STRAP
TITLE:
Monday At The Hug & Pint
LABEL:
Chemikal Underground
RELEASE: 2003
WEBSITE:
www.arabstrap.co.uk
MLVOTE: 7,5/10
La mia vicenda con Monday at the Hug & Pint degli Arab Strap potrebbe essere paragonata
alla storia di Salim (se non ricordo male, credo di averla letta su un vecchio diario realizzato da
una comunità di recupero per tossicodipendenti) che si può riassumere così: “Salim era un
giovane pescatore che viveva sulle rive del fiume Gange. Un giorno, mentre tornava da una pesca
poco proficua, si mise a pensare a cosa avrebbe fatto se fosse stato ricco. Dopo aver percorso
qualche chilometro di strada, il suo piede calpestò un sacchetto che conteneva qualcosa di simile
a sassolini. Senza prestare particolare attenzione, lo raccolse e cominciò a gettare i sassolini nel
fiume con lo sguardo perso nel vuoto e una speranza nel cuore. Lanciò un primo sasso, poi un
secondo e così di seguito. Tra un tiro e l’altro immaginava una casa migliore, un posto migliore,
una vita migliore insomma. Giunto all’ultimo sasso, lo prese e lo rigirò tra le dita, l’osservò
attentamente
e
si
accorse,
con
immenso
rammarico,
che
quel
sasso
era
una
pietra
preziosa.” Ecco, qualcosa di analogo è accaduto al sottoscritto ascoltando questo quinta fatica
discografica
di Aidan
Moffat e Malcolm Middleton,
ovviamente
con
conseguenze
meno
sciagurate e con un epilogo di certo recuperabile (stiamo pur sempre parlando di musica, o no?).
Ero
convinto
che
il
duo
scozzese
difficilmente
avrebbe
realizzato
un
altro
disco di
qualità dopo The Red Thread del 2001, e per questo motivo avevo accolto la notizia dell’uscita
del nuovo disco con poco entusiasmo e scarsa partecipazione. Insomma, non avevo alcuna
intenzione di ascoltarlo. Allo stesso modo di Salim stavo cercando, altrove e non so dove, una
“felicità” che invece era a portata di mano. A distanza di alcuni mesi, invece, scoprire quest’album
è stato un po’ come trafugare nei propri sentimenti trasformando uno sbadiglio in un sorriso. Ciò
grazie alle atmosfere da camera di Who Named The Days, alle modulazioni armoniche di The Shy
Retirer e di Serenade e agli sviluppi indie folk di Loch Even Intro, Loch Even eAct Of Wow. Un
album ben equilibrato dove alle quisquilie anestetiche diMeanwhile, at the Bar, a Drunkard
Muses e Pica Luna si contrappongono gli spasmi conturbanti di Fucking Little Bastards (quando
i Sonic Youth insegnano l’arte del rumore!) e le dissonanze post-country e in odore di new wave
di Flirt(l’unico brano che sembra discostarsi da tutti gli altri). Composto da archi, beat elettronici e
passaggi elettroacustici, il nuovo lavoro in studio del duo di Glasgow si rivela incantevole e
prezioso come pochi altri oggigiorno, praticamente una piccola gemma del 2003.
Luca D’Ambrosio
ML 29
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: MASSIMO VOLUME
TITLE:
Lungo I Bordi
LABEL:
Mescal / Wea
RELEASE: 1995
WEBSITE:
www.myspace.com/volumemassimo
MLVOTE: 9/10
Capita spesso che i dischi si riesca ad apprezzarli dopo vari ascolti, quando meno lo si potrebbe
aspettare. La folgorazione per Lungo I Bordi, secondo disco della band emiliana Massimo
Volume, personalmente l’ho avuta dopo più di un anno dal primo ascolto. Di notte, mentre
tornavo a casa in macchina, iniziai a seguire più attentamente il testo della canzone Pizza express
e rimasi, come si suol dire, colpito. Queste liriche dalla narrazione quotidiana, prese
(stilisticamente) direttamente dallo scrittore statunitense Raymond Carver, trovano nella
recitazione di Emidio Clementi, talvolta monotona, talvolta espressiva fino alle lacrime, la loro
massima espressione. Sembra di vedere la stanza di Inverno ’85, così come le strade vuote dei
ventitré secondi di Da qui, o l’assoluta verità di quell’unico verso (“resta poco di questo amore dai
percorsi segnati”) che è il testo di Frammento 1. La pizzeria da asporto di Pizza express è un vero
ritratto, mentre Emanuel Carnevali è fisicamente presente ne Il primo dio, mentre scrive sui
tovaglioli usati. Ovviamente, la formula di una delle più importanti band post rock italiane, non è
fatta solo dalle liriche drammatizzate, ma anche da quelle basi strumentali sporche e ripetitive di
Egle Sommacal e Vittoria Butturini, che riportano alla memoria le sonorità di Joy Division e
Bad Seeds. È tutto questo Lungo I Bordi, un’opera che, una volta entrata in chi ascolta,
sedimenta senza andarsene più.
Alessandro Busi
ML 30
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: HOODOO GURUS
TITLE:
Blow Your Cool
LABEL:
Big Time
RELEASE: 1987
WEBSITE:
www.hoodoogurus.net
MLVOTE: 7,5/10
Esiste una legge non scritta ma molto sfruttata, spesso a sproposito: è quella secondo cui un bel
disco lo riconosci ascoltando in sequenza gli incipit di ogni brano. Venti secondi per pezzo e
capisci già se quel disco ti resterà sullo stomaco per millenni, se dovrai tornare a spiluccarlo
perché ti stuzzica il palato anche se al primo morso ti sa di cartone pressato o se invece te lo
porterai dentro per tutta la vita, come quel sapore di surrogato di cioccolato delle Girella o quel
gusto di liquirizia molle e appiccicosa delle mou da cinque lire della bottegaia sotto casa. Attenti,
perché c’ è gente che scrive intere recensioni usando solo questo metodo. Non perché siano più
bravi, ma solamente più pigri. Ora provate l’esperimento su questo disco per capirne l’efficacia.
Del disco, non dell’esperimento, zucconi! Blow Your Cool! è un investimento sicuro, fuori dalle
logiche del Dow Jones. È un pacchetto di felicità tascabile, da portarsi dietro e tirare fuori quando
serve. Come i goldoni ritardanti. È il toccasana per le giornate storte, per i viaggi in auto, per le
feste che si stanno alterando in abbiocco. Musicalmente è
quello che io chiamo “l’approdo
americano” dei Gurus. Un omaggio brillante alla febbre Paisley che aveva rigenerato la roots
music americana. Una riscoperta delle radici che i Gurus avevano già abbondantemente
collaudato nei due album precedenti ma che qui si compie in maniera definitiva pur senza
sacrificare lo smalto e la lucidità del classico Hoodoo-sound e coinvolgendo in prima persona la
“manovalanza” del movimento (le Bangles al gran completo e i Dream Syndicate). Le chitarre
scintillanti di Brad Shepherd e Dave Faulkner sono al massimo della forma e sembrano
luccicare come enormi dobro sotto la caligine del deserto texano. La scrittura è versatile e agile,
dalla classica ballata da bivacco di Come On fino al cheerleading-style di Good Times passando
per l’impetuoso assalto garage di Where nowhere is, le cupe arie western di My caravan, il
cowpunk baluginante di Out that door, la power ballad perfetta What‘s my scene che è una
miniatura dei Lynyrd Skynyrd seduti sotto le fronde degli eucalipti, l’ ariosa I was the one, il
passo implacabile e nevrotico della polverosa Middle of the land. Canzoni che ti si piazzano in
testa e che ti puoi divertire a cantare e strimpellare sulla chitarra. Roba che crea sudditanza per
la semplicità di cui è pregna e per l’ efficacia con cui ti avvolge, malgrado cominci a sentirsi una
certa puzza di lacca che si farà via via più forte, coi dischi della senilità. Un disco facile, sì. Il
difficile semmai è scollarselo da dosso.
Franco Dimauro
ML 31
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: JEFFREY LEE PIERCE
TITLE:
Wildweed
LABEL:
Statik / Symphaty For The Record Industry
RELEASE: 1985 / 2005
WEBSITE:
MLVOTE: 7/10
C'è una canzone che spiega benissimo chi fosse Jeffrey Lee Pierce. Si chiama From Temptation
To You, è una ballata disperata nella quale la sua voce tremolante e melodrammatica è
accompagnata da un pianoforte aggraziato oltre che dal solito (e solido) impianto di una rock
band. Pierce andò oltre il punk, oltre il blues: il suo era un canto nel buio, un rito pagano senza
speranza. Con i Gun Club scrisse pagine leggendarie che sono portatrici sane di brividi e di
sublime terrore. Da solo, ma ben accompagnato, si regalò un magnifico passaggio chiamato
Wildweed, un disco che fotografa la bellezza dell'underground nel decennio ipocritamente
ricordato per l'edonismo e per la greve dance music. In quei solchi c'è appunto From Temptation
To You, esempio di urgenza rock senza calcoli e di musica lasciata andare nel vuoto. C'è tutta
l'arte di Pierce in un disco quasi sconosciuto che la Sympathy For The Record Industry ha
diligentemente ristampato. The Midnight Promise è il manifesto di un meraviglioso eroe della
nostra musica preferita, è una trama power pop squarciata dal canto e da disperati e infuocati
assoli di chitarra. L'amore e la notte sono le immagini, nemmeno troppo metaforiche, del
messaggio intonato da Pierce, cantore triste come Neil Young, bello come Jim Morrison e
maledetto come un Johnny Cash privo di fede. La sua voce si perdeva tra sussurri e grida,
strozzata, ubriaca. Si accorse di lui Mark Lanegan, fino a ricamare insieme un blues favoloso
chiamato Kimiko's Dream House ma era già troppo tardi...
Marco Archilletti
ML 32
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: BLURT
TITLE:
In Berlin
LABEL:
Armageddon
RELEASE: 1981
WEBSITE:
www.tedmilton.com
MLVOTE: 8/10
Siete un po' stanchi di tutte le cose che ascoltate? Accendete la radio e vi rovesciano melassa
sonora e commenti sciocchi nelle orecchie? Il rock vi sembra un po' tutto uguale e davvero non vi
va a genio di dovervi sorbire l'ennesima cazzata pop che YouTube trasformerà nel successo più
veloce del secolo, l'ennesimo? Cercate nell'etere la vostra radio alternativa del cuore e trovate
che il rosso è diventato rosa e via discorrendo? Davvero non c'è una sola cosa che suoni almeno
un po' vitale e provocatoria, nulla che vi faccia veramente ridere dissennatamente? Siete in
macchina e nulla vi costringe a dare dei ceffoni alla radio piuttosto che scendere e malmenare il
povero coglione che vi ha appena sorpassato a destra? State quasi per dover ammettere che, sì è
vero, in fondo non c'è nulla di male e Baglioni e Zucchero sono due grandi artisti. E Pippo
Baudo un professionista. E Madonna ha talento. E... beh, dai, non esageriamo. Persino nei
momenti più bui il rock trova sempre una via per sgusciare fuori dalla nullità discografica e
dall'appiattimento culturale più brutale. Basta cercare e, sinceramente, se non trovate nulla (vi
dovete impegnare, però, la pagnotta ve la dovete guadagnare) allora voi probabilmente avete un
problema. Qualcosa c'è sempre. Magari potreste tornare indietro nel tempo e scoprire che ci sono
certi dischi che, veramente, non sentiranno mai lo scorrere del tempo. Pezzi di kriptonite di
urticante grezzezza che vanno benissimo in ogni decennio di tristezza e pallore, quando la vita
sembra scorrere banale piuttosto che bruciare nelle vene. Pensate che persino in tempi in cui,
siamo nel 1980, il rock viveva una delle sue felici stagioni di rinascita (chi lo chiama punk, chi lo
chiama new wave, chi new rock e via discorrendo), beh, persino in quel periodo davvero
interessante c'era chi già non ce la faceva più e non vedeva l'ora di grattare via con un chiodo
arrugginito la carrozzeria di quel rock che, comunque, in pochi anni si sarebbe trasformato in una
litania infinita di bambinetti dai capelli improbabili e tanta inutile falsa creatività nelle note.
Eppure eran davvero bei tempi e ogni giorno potevi scoprire un nuovo eccitante gruppo capace di
farti sperare che il rincoglionimento preconizzato da Orwell non fosse, in realtà, proprio dietro
l'angolo. Ted Milton, inglese, in compagnia di suo fratello era di quelli che non ci stavano mai.
Okay la psichedelia Ted l'aveva suonata, suonava anche il jazz (più che altro lo affascinava, il
jazz), insomma era uno giovane negli anni ‘70 che, a suo modo, invero un po' anarchico ed
insoddisfatto, era alla ricerca di qualcosa che fosse poco pulito, poco elegante, poco
accondiscendente e che fosse ruspante e disturbante. Ironicamente disturbante. Insomma uno cui
è meglio non dare l'impressione che vi stiate sedendo perché, immancabilmente, vi toglierà la
sedia da sotto il culo e riderà di voi. E vi strombazzerà il sax nelle orecchie, tanto per rimarcare.
ML 33
musicletter.it
update n. 59
recensioni
Questi erano i Blurt, una versione rock bianca del jazz di Ayler come era il funk di James
Brown per James Chance, della serie sono nero quando e come voglio ma sono pure incazzato,
bianco e suono il sax per fare male, piuttosto che per rimorchiare tardone in quei club di appassiti
vecchioni. Eppoi parlo, urlo, strepito, e pure tanto e credo che voi siate pupazzi (Puppeteers of
the world unite!). In Berlin, 1981, disco completamente dal vivo, vede i fratelli in ottima forma
(!) già dalla copertina, bei sacchi rosa di “mondezza” per un disco zeppo di raw energy e di
vetriolo. My mother was a friend of an enemy of the people rende l'idea già dal titolo, poi arriva il
sax, le urla di Milton, su chitarre in versione Fall-style (quindi “una nuova forma di bellezza”,
altro che accordi gentili e assolo tecnocratici). Il tappeto sul quale si balla è quello, ripetitivo e
ossessivo, sporco, semplice al limite del fastidio, eppure efficace, ipnotico. Se il disco è
disturbante quanto la poca gentilezza che Mark E. Smith dei già citati Fall ha emesso a
profusione per decenni nei suoi dischi, provateci un momento a farvelo entrare nelle vene e se vi
piacerà anche per un attimo vi troverete a essere fottuti piacevolmente e certamente vi
dimenticherete della noia. Altrimenti lo rifiuterete, come peraltro è possibile e non andrete oltre la
dichiarazione di intenti che è l'iniziale, deragliante, Cherry blossom polish, che però ha la capacità
di farvi muovere, cari ...e se tale cosa prenderà il via poi vi sentirete meglio. Il giorno dopo sarà
molto probabile che la vostra ragazza vi guardi in maniera strana, voi però sarete molto più
gentili di quanto non siete mai stati con lei, continuerete a versarle il caffè nella tazza con fare
sereno e calmo. Dopodiché, senza dire una parola, imboccherete la porta, la chiuderete dietro alle
vostre spalle e non è affatto detto che tornerete in tempo per la cena. Né per nient'altro.
Massimo Bernardi
ML 34
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: THIN LIZZY
TITLE:
Jailbreak
LABEL:
Mercury
RELEASE: 1976
WEBSITE:
www.thinlizzyonline.com
MLVOTE: 9,5/10
Che splendido ribelle che è stato Philip Lynott! Incapace di arrendersi alle esigenze dell’industria
discografica che negli anni ‘80 proferiva al pubblico il verbo della new wave, non abbandonò mai
la nave di quei Thin Lizzy da lui fondati a Dublino nel 1968, dedicandogli anima e corpo ( fatta
eccezione per le parentesi soliste) nonostante i problemi di eroina e alcolismo lo stessero
allontanando dal suo amato progetto musicale. A ben 22 anni dalla sua scomparsa (20 agosto
1951 - 4 Gennaio 1986) i Thin Lizzy continuano a essere ricordati, omaggiati, tributati e amati
perché capaci di rielaborare con stile diversi generi musicali (tra cui il blues, il soul, il folk e il
country) suonando prevalentemente hard rock. La voce emotiva, i testi profondi
e il basso
pulsante di Phil furono la colonna portante del gruppo, ma le armonie e gli intrecci delle chitarre
elettriche, i riff potenti, gli assoli posti nei luoghi speciali di una canzone e le nostalgiche ballate
da cantare alla propria amata (come non rimembrare Still in Love with you da Night Life del
1974) diedero al gruppo e all’irlandese di origine brasiliana la chiave per accedere nell’olimpo del
rock. E poco importa se la popolarità del gruppo non fu direttamente proporzionale alla sua
grandezza; qualunque persona (che mastica un po’ di rock e possiede un cuore puro e romantico)
si troverà nelle mani un disco dei Thin Lizzy non potrà fare a meno di tesserne le lodi. Se poi
quel disco si chiama Jailbreak (1976) potrà anche rimanerci secco. L’iniziale title track è un
pugno nello stomaco, un perfetto brano rompi ghiaccio per aprire un live, per guidare senza
pensieri e per gridare al mondo di uscire allo scoperto. E poi la scanzonata Running Back, con il
sax springsteeniano ad insediarsi fra gli assoli di Scott Gorham e Brian Robertson. In soli 36
minuti c’è spazio per godere del romanticismo senza tempo di Romeo and The Lonely Girl e Fight
or Fall (con la voce di Lynott che mette brividi per duttilità espressiva, quasi fosse l’anima a
cantare per lui), di cantare a ripetizione i classici The Boys are Back In Town e Cowboy Song e di
sentire la forza del rock in due brani con finali passionalmente intensi quali Warriors e soprattutto
Emerald. Un disco da riascoltare, da avere, da possedere per non dimenticare che la ribellione
romantica e autodistruttiva di Lynott si è tramutata in una farfalla che è scesa in strada con noi e
che ancora continua a volare.
Nicola Guerra
ML 35
musicletter.it
update n. 59
recensioni
ARTIST: AEROSMITH
TITLE:
Rocks
LABEL:
Columbia Records
RELEASE: 1976
WEBSITE:
www.aerosmith.com
MLVOTE: 9,5/10
Ho pensato a lungo a un incipit che rendesse giustizia a uno dei capolavori indiscussi e basilari
della storia dell’hard rock, ho rovistato in ogni angolo della mia memoria per ripescare remoti
aneddoti o frasi ad effetto ma dopo tanto impegno vanamente profuso, mi consola non poco il
sapere che avrei potuto serenamente trascrivere l’elenco dei musicisti della scena rock, hard e
heavy (ma non solo) che da tre decenni a questa parte si sono dichiarati innamorati e influenzati
dalla magia dei suoi solchi, per raggiungere il numero sufficiente di battute e consegnare questa
recensione. La band di Steven Tyler e Joe Perry (all’epoca noti come “toxic twins”) perfeziona
con Rocks il percorso già mirabilmente iniziato dal suo predecessore (Toys in the Attic del
1975) andando così a costituire un binomio irripetibile nell’ambito di una discografia comunque
splendente di luce propria, praticamente l’apice qualitativo del combo bostoniano. Prodotto dagli
Aerosmith stessi con la supervisione di Jack Douglas (per lui parla la marea di collaborazioni
eccellenti da Miles Davis ad Alice Cooper passando per i Cheap Trick), Rocks poggia
saldamente su una scaletta francamente inattaccabile, eseguita con passo deciso e sfrontato dalla
stessa line-up che ancora oggi impartisce puntualmente lezioni di rock’n’roll sui palchi di tutto il
mondo. Nella carica coinvolgente dell’opener Back in the saddle (un classico), nel passo vizioso di
Last child, nell’andamento selvaggio di Rats in the cellar o nell’appeal di Sick as a dog fino alle
atmosfere rarefatte della splendida ballad Home tonight, ci sono tutte le peculiarità che hanno
reso immortale quello che in origine era un semplice pezzo di vinile, ivi compresi i riff iniettati di
hard e blues di Perry, la voce pazzesca di Tyler e un carisma impossibile da eguagliare. Il mio
voto è un 9,5 soltanto perché sono certo che il mezzo voto che manca alla perfezione verrà
aggiunto da qualsiasi rocker di questo mondo, ogni volta che lo ascolterà, non importa se per la
prima o la centesima volta. Con Rocks l’Aero Force One vola spavaldo e altissimo, tracciando scie
imprescindibili per quanti ne abbiano più o meno vistosamente attinto: Motley Crue, Guns
n’Roses, Poison, Buckcherry et similia a iosa, se esistesse un gioco dell’oca del Rock’n’Roll, gli
Aerosmith sarebbero senz’altro il “Via” dal quale voi tutti siete partiti.
Manuel Fiorelli
ML 36
musicletter.it
update n. 59
live review
ARTIST: AMANDA PALMER
LOCATION:
Milano, Musicdrome
DATE: 17.10.2008
WEBSITE:
www.whokilledamandapalmer.com
photo by Stefan Cordelia (2008)
Una giornata particolarmente uggiosa accoglie il ritorno nel nostro paese della carismatica
Amanda Palmer, meglio nota come cantante e strimpella tastiere del duo Dresden dolls. Il
Musicdrome è semivuoto quando sale sul palco Jason Webley, cantautore da strada, con l’ardito
compito di scaldare le prime decine di persone assiepate davanti al palco. Capelli lunghi, barbetta
incolta e cappello da clochard, un pugno di canzoni e l’attenzione è tutta per lui. Nonostante che
su disco non trasmetta l’energia (e la leggerezza) del live, le canzoni divertono e mettono in
risalto le doti da grande intrattenitore di Jason, facile immaginarlo lungo un marciapiede in
qualche grigia strada di Seattle a cantare per i passanti...una canzone sul bere, danze e giochi
comandati dal palco fanno terminare il suo set con applausi, risate e una corsa generale
all’acquisto della discografia completa (20€ per tre bei dischetti). La seconda spalla è Zoe
Keating, violoncellista rastona e particolarmente simpatica, che propone una ventina di minuti di
composizioni sinfoniche, con intrecci di musiche preregistrate e accordi suonati dal vivo tutto
totalmente strumentale, probabilmente sonorità più adatte a una stanza da letto che non alle
mura asettiche del locale di via Paravia. Da San Francisco a Milano, con il suo italiano stentato,
non lascia molto ai presenti che, nel frattempo, iniziano ad aumentare sempre più, in trepida
attesa
della
pianista
bostoniana.
L’ingresso
di
Amanda
Palmer
è
decisamente
cupo,
accompagnata dai Danger ensemble, compagnia teatrale (o almeno si dichiara tale) canadese
composta di due uomini e due donne, avvolta da un velo di seta a mo’ di cadavere è portata di
peso sopra il palco fino al suo regale sgabello (del resto, come recita il titolo del suo nuovo LP, lei
è morta), causa anche la frattura di una gamba riportata dopo un incidente automobilistico
nell’ultimo tour irlandese (esattamente a Belfast). Appena avvenuto il contatto con la sua fedele
tastiera, l’energia della Palmer fa scuotere il centinaio di persone presenti, vestita solamente con
un reggiseno di pizzo e un corpetto ottocentesco è accompagnata da un biondo violinista e
dall’onnipresente violoncello di Zoe Keating, fa cantare tutti con le sue nuove canzoni da solista
presenti nell’ottimo album di debutto Who killed Amanda Palmer, dato alle stampe dalla
truzzissima Roadrunner. Da Astronaut alla bella e schizzata Runs in the family, passando per
Leeds united e Guitar hero, quasi lo suona per intero intervallando con una manciata di canzoni
delle bambole, come la ormai classica hit Coin-operated boy e Mrs O, con l’aggiunta di tre cover
abbastanza inquietanti, Umbrella (tra l’altro in playback con relativo balletto correlato dagli
stravaganti e ambigui Danger ensemble), Livin’ on a prayer di quel patinato di Bon Jovi con la
presenza del degno sconvolto Jason Webley e, in chiusura di show, Creep dei Radiohead
riproposta in unplugged con Amanda Palmer in versione voce e sei corde. Il saluto decisamente
divertito alla fine del concerto la congeda tra manifestazioni di affetto e approvazione di fans
esagitati che di questo cadavere che cammina (…o zoppica, fate voi) sono innamorati persi.
Antonio Anigello
ML 37
musicletter.it
update n. 59
speciale
THE CLASH
Something About England
© 2008 di
Domenico De Gasperis
Navigando su internet vengo a conoscenza della pubblicazione di un
live dei Clash. Si tratta di un disco che ripropone ventisei anni dopo
un concerto ottobrino del 1982 svoltosi allo Shea Stadium di New
York quando la band londinese faceva da spalla allo storico gruppo
di Pete Townshend: The Who. Ho sempre taciuto su quella che è
forse la Rock’n’Roll Band che ho amato di più, Pietre Rotolanti
permettendo, per una sorta di pudore che nello specifico è
direttamente proporzionale alla passione. Sarà la nostalgia ma
avverto il desiderio di raccontare la loro storia. Tra la fine degli anni
Settanta e i primi anni Ottanta lo “Scontro” ha rappresentato per chi
scrive qualcosa di unico:“Il piacere della scoperta e la consapevolezza che la mia vita non sarebbe
più stata la stessa”. In quegli anni il punk irrompe nel mondo della musica rock e non solo (è
anche fenomeno culturale e sociale) con una forza devastante. Recupera la genuinità del
rock’n’roll degli anni Cinquanta con una formula riveduta che racchiude velocità, ruvidezza,
tecnica approssimativa e nichilismo nei testi. Vengono spazzati via tanti ed eccellenti “dinosauri”
divenuti ormai insopportabili e inutili. I Sex Pistols sono sicuramente l’icona di tutto ciò ma i Clash
significano molto di più, la loro non è solo “furia iconoclasta”, vanno oltre. Nel marzo del 1977
Joe Strummer (voce e chitarra), Mick Jones (chitarra e voce), Paul Simonon (basso) e Terry
Chimes (batteria) fanno uscire il 45 giri contenente White Riot e 1977; due canzoni che
incarnano alla perfezione il sentire di quel momento: nella prima Joe vomita “Rivolta bianca /
voglio ribellarmi / rivolta bianca / una rivolta che sia mia”, nella seconda “ Nel 1977 / sei in mezzo
al grande nulla / e pensi che così non può andare avanti / ma i giornali dicono che migliora / a me
non importa perché tanto non ci sto / niente Elvis, Beatles o Rolling Stones”. Un mese dopo esce
il primo lp del gruppo. The Clash è uno degli album d’esordio più importanti della storia del rock,
sia per il contenuto intrinseco ma soprattutto perché fotografa alla perfezione l’anno (1977) che
avrebbe fatto da spartiacque tra quello che era prima e quello che
sarà dopo. Sotto l’aspetto sonoro siamo di fronte a una sorta di
garage primordiale, aspro e tagliente. Le liriche (populiste quanto si
vuole) sono un grido di guerra del sottoproletariato bianco contro il
potere economico e burocratico-istituzionale. Sono anni in cui il
Regno Unito attraversa una fase terribile di crisi economica e di
lotte sindacali. Rabbia bianca intesa non come orgoglio razziale ma
come reazione della generazione “no future” al disagio sociale ed
economico. Non vi è razzismo nei bassifondi, anzi sembra quasi
costituirsi una sorta di solidarietà tra i giovani bianchi figli della
working class e la comunità nera giamaicana. Non è un caso che l'unica cover presente nell'opera
prima del gruppo è Police & Thieves, una canzone reggae scritta da Junior Murvin e arrangiata da
Lee "Scratch" Perry. Oltre a White Riot ci sono altri gridi di battaglia che infiammano i kids di
Londra: Janie Jones, Remote Control, I’m So Bored With The Usa e London’s Burning. Il
messaggio culturale, sociale e politico dei Clash può essere sintetizzato nei versi di Garageland, la
canzone che chiude il disco: “Siamo una band da garage / veniamo dalla terra dei garage / non
voglio sapere che cosa fanno i ricchi / non voglio andare dove vanno i ricchi / pensano di essere
così intelligenti / pensano di essere così a posto / ma solo i ragazzi di strada conoscono la verità”.
ML 38
musicletter.it
update n. 59
speciale: the clash
Sostituito il batterista Terry Chimes con Topper Headon i “nostri” arrivano alla loro seconda
opera. Il disco pubblicato nel novembre del 1978 e registrato a San Francisco si chiama Give ‘Em
Enough Rope. A parte il trittico iniziale Safe European Home, English Civil War e Tommy Gun il
resto non è proprio memorabile. Prodotto da Sandy Pearlman, famoso per aver curato il suono dei
Blue Öyster Cult, il lavoro ancorché virile e ben suonato non contiene più le asprezze del
predecessore. Ma la cosa che lo penalizza di più è la mancanza di grandi canzoni. Sotto l’aspetto
politico ed economico il 1979 è un anno cruciale per la Gran
Bretagna. Il Primo Ministro laburista Leonard James Callaghan
non riesce più a contenere il disagio sociale provocato dalla grave
crisi economica e dai continui scioperi che gettano nel caos il Paese.
Il Governo viene sfiduciato, si va alle elezioni anticipate e i
conservatori conseguono un grande successo. Nel maggio dello
stesso anno ha inizio il primo dei tre mandati di Margaret
Thatcher che mette in piedi così la sua “cura” fatta di lacrime e
sangue. Torniamo ai nostri eroi. A metà dicembre del 1979 esce
quello che in alcuni referendum promossi dalle riviste musicali più
famose risulta essere costantemente uno degli album più votati e
quindi, secondo il giudizio di costoro, tra i più importanti della storia del rock. So benissimo che
queste votazioni, benché abbastanza indicative, vengono fatte per puro divertimento; è un gioco
e come tutti i giochi lascia il tempo che trova. Per quanto mi riguarda London Calling è uno dei
tre tomi (gli altri due sono Exile on Main Street e The River) costituenti “il Nuovo Testamento
del rock’n’roll. Per intenderci quella musica che traendo ispirazione dai grandi degli anni
Cinquanta (il Vecchio Testamento), ha saputo rinnovarsi attraverso la contaminazione con le tante
musiche popolari esistenti. La miscela esplosiva che ne viene fuori, aliena da influenze
psichedeliche e sperimentazioni varie, è solo un rock’n’roll ispiratissimo (sembra quasi che le
registrazioni di queste canzoni siano guidate da una mano divina) e adrenalinico che ha il potere
di farci ballare, soffrire, commuovere, piangere e credere nella forza salvifica del rock. In altre
parole London Calling è un calderone bollente di popular music dove il sapore, anziché provenire
dall’utilizzo del sale, si ottiene con l’impiego di tantissima anfetamina. Nelle diciannove tracce ci
sono il punk che diventa rock, il reggae, lo ska, il soul e il jazz. Il filo conduttore che tiene tutto
amalgamato è il rock’n’roll e ogni canzone diviene un potenziale hit. I brani andrebbero
commentati tutti, dalla voce cartavetro di Strummer in Brand New Cadillac al classico scritto e
cantato da Mick Jones (Train in Vain), ma per mancanza di spazio mi limito alla citazione di alcuni
versi della title-track: “Londra chiama le città lontane / ora che la guerra è dichiarata e la
battaglia in corso / Londra chiama i bassifondi / fuori dal guscio /
voi tutti ragazzi e ragazze”. Il combat rock ha trovato i suoi profeti.
Siamo alla fine del 1980 e il sottoscritto è in procinto di acquistare
la seconda copia in vinile di London Calling (in sostituzione della
prima ormai deteriorata dai troppi ascolti, un tempo su un disco ci
si stava anche per mesi e mesi) quando il mio negoziante di dischi
mi mostra la nuovissima fatica dei Clash, addirittura un triplo a un
prezzo appena superiore a quello di un album singolo. Devo dire
che il mio primo approccio con Sandinista! non è dei migliori,
troppo
variegato
e
lungo
quantunque
dotato
di
un
fascino
intrigante, troppo lento e dispersivo. Tuttavia più aumentano gli ascolti e più maturo la
convinzione di trovarmi di fronte a un’opera monumentale e complessa. Ma la cosa più importante
è l’aver capito che rispetto al predecessore quello che manca nelle sei facciate è l’adrenalina
ovvero il rock’n’roll in quanto ne è il superamento.
ML 39
musicletter.it
update n. 59
speciale: the clash
Sandinista! è un’opera antologica di musica totale pregna di
retorica terzomondista ma nel contempo ricchissima di riferimenti
sonori. Praticamente tutta la musica black con le sue svariate
sfaccettature: disco, soul, funk, jazz, gospel, calypso, salsa, reggae
e dub senza comunque dimenticarsi del rock, ci sono pure delle
incursioni nel country, nel folk e nel blues, insomma un viaggio
globale a 360 gradi e un’esperienza estenuante che ripagano
l’ascoltatore come forse nessun disco potrebbe fare. Il disco più
seminale per molta musica che verrà prodotta dopo fino agli anni Novanta e anche oltre. Di brani
memorabili il quarto album dei Clash ne è pieno, dal rap di The Magnificent Seven al duetto tra
Mick Jones ed Ellen Foley (all’epoca sentimentalmente uniti) nella canzone pop stile Motown di
Hitsville U.K., e poi ancora Something About England, Somebody got Murdered, If Music Could
Talk, Police on My Back, The Call Up e Charlie Don’t Surf. La diversità dei Clash rispetto agli altri
gruppi nati nell’epoca Punk può essere spiegata con quanto afferma Strummer in una conferenza
stampa tenutasi a Firenze nel 1981 in occasione della seconda venuta in Italia della band.
L’intervistatore gli chiede conto dei tanti generi musicali presenti su Sandinista!, Joe risponde:
“Perché mai non dovrei ascoltare Ray Charles o non so chi?”. Il 14 maggio 1982 esce il loro disco
più venduto di sempre, parlo di Combat Rock, quello che ritrae nella copertina i quattro
posizionati sulle rotaie di una ferrovia. Dopo un doppio e un triplo si ritorna all’album singolo e nel
caso specifico a una sintesi dell’universo musicale dei Clash. Combat Rock è un ottimo lavoro ma
non è all’altezza di The Clash, London Calling e Sandinista! Resta comunque l’ultimo vero
disco dello “Scontro” e presenta almeno tre autentiche perle; la prima è Should I stay should I go
dove Mick Jones
realizza il sogno di sentirsi come il miglior Keith Richards, la meravigliosa
Straight To Hell con il cantato triste e struggente di Joe Strummer e infine la pianistica e notturna
Death Is A Star. Topper Headon impantanato nell’eroina viene allontanato e sostituito
richiamando Terry Chimes; quest’ultimo farà parte dell’organico nella famosa tournèe in America
dove la band affiancherà gli Who. Nel settembre del 1983 è la volta di Mick Jones estromesso
dai Clash con un comunicato a firma di Joe Strummer e Paul Simonon, la motivazione è che si
atteggia da star e non più “da combat rock”. Solo per la cronaca: nel 1985 con un'inedita
formazione comprendente Strummer, Simonon, Nick Sheppard (chitarra), Vince White
(chitarra) e Pete Howard (batteria) la band partorisce Cut The Crap. Su questo disco brutto e
inopportuno stendo un velo pietoso. Ufficialmente lo “Scontro” non esiste più dal 1986 ma nella
sostanza la fine dei Clash risale al famoso comunicato del 1983. Il 22 dicembre 2002 Joe
Strummer lascia improvvisamente questo mondo, che triste Natale! All’inizio dell’articolo ho
accennato all’uscita di Live At Shea Stadium, secondo live ufficiale della formazione britannica.
Dai primi ascolti ho avuto l’impressione, come per From Here To Eternity pubblicato nel 1999 e
contenente esibizioni risalenti al periodo 1978-1982, di trovarmi di fronte a un bellissimo live ma
insufficiente a documentare la grandezza della “Last Gang In Town”.
ML 40
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update n. 59
altri percorsi: cinema
INTO THE WILD
Un film di
Sean Penn
Paramount Vantage / BIM
2007 (USA) / 2008 (Italia)
di Stefano Sciortino
Nei giorni immediatamente successivi all'anteprima della Festa del Cinema di Roma, nell’ottobre
2007, i media presentarono Into the Wild come la storia di un ragazzo americano benestante, di
nome Chris McCandless (ribattezzatosi Alexander Supertramp): dopo aver lasciato i suoi non
pochi averi in beneficenza, rinunciò alle sicurezze garantite dalla condizione alto-borghese della
sua famiglia per intraprendere una vita da girovago attraversando l'America, in autostop, per un
periodo di circa due anni; alla fine del suo peregrinare, venne in maniera fortuita ritrovato privo di
vita in un’isolata zona nei pressi del Denali National Park, in Alaska, disteso in un sacco a pelo
all'interno della carcassa di un bus abbandonato, utilizzato fino ad allora dai cacciatori della zona
come eventuale riparo. Era morto da circa 2 settimane e pesava pressappoco 30 kg. Accanto al
corpo vennero ritrovati, tra le varie cose, un diario e una macchina fotografica, rullino compreso.
Sean Penn ha atteso 10 anni per la necessaria autorizzazione a portare sul grande schermo i
fatti che, innanzitutto, descrivono un profondo dramma familiare. È un lavoro fatto con evidente
passione
e
cura,
anche
nei
particolari;
è
profondamente
americano
ed
enormemente
(ri)evocativo. Eppure non è un film memorabile e, alla fine, quella che rimane è un’impressione di
superficialità, di un’occasione perduta. L’aspettativa che un road movie è capace di suscitare almeno per una certa parte di pubblico - è molto alta e finisce inevitabilmente per condizionarne il
giudizio complessivo. Ma la causa per cui Into the Wild non è un capolavoro come avremmo
voluto e avrebbe potuto essere è un’altra e nasce, con tutta probabilità, da una scelta. Sean
Penn, come Jon Krakauer - autore dell’omonimo libro del ’96 - prima di lui, non ha ritenuto la
storia di Chris McCandless solamente interessante o degna di un soggetto cinematografico ma
ne è rimasto totalmente coinvolto sul piano emotivo; con la vuota magnificenza della stragrande
maggioranza dei film oggi prodotti, stracolmi di stimoli incapaci di proseguire al di là del nervo
ottico, ha voluto realizzare il suo personale omaggio a Chris McCandless; i fatti vengono narrati
nella maniera più vicina possibile alla realtà, nei limiti di una ricostruzione basata sulle
testimonianze di parenti, amici, sulle immagini recuperate dal rullino della sua Olympus ed infine
sulle note del diario (poche, in realtà). Penn era presumibilmente consapevole che la parte del
pubblico appassionata del genere “on the road” avrebbe in ogni caso apprezzato il suo lavoro,
mentre da un’altra percentuale del pubblico avrebbe ricevuto una stroncatura senza possibilità di
appello.
ML 41
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update n. 59
altri percorsi: cinema
Era invece assolutamente certo che Chris McCandless sarebbe entrato – per rimanervi - nel
cuore di una rimanente parte del pubblico, per motivi che andavano al di là dei meriti del suo film.
Aveva ragione. Sean Penn ha conosciuto i genitori del ragazzo - spesso presenti sul set - e alcuni
degli amici che Chris ha incontrato lungo il suo viaggio, alcuni dei quali hanno preso parte attiva
al film (per esempio il factotum Wayne Westerberg è stato assunto per dare una mano sul set,
mentre Jim Gallien interpreta se stesso: l’ultima persona ad offrire un passaggio al ragazzo e
quindi l’ultimo a vederlo in vita). Into The Wild è diventato per questo, e per altri motivi,
l’antitesi di quello che avrebbe potuto essere, vale a dire l’apologia della vita “on the road”, ma
rappresenta invece la disillusione e forse l’epitaffio di un modus vivendi capace di illudere
brutalmente e costantemente generazioni anche molto distanti tra loro, ma allo stesso tempo
fonte di inconsolabile dolore. Nel suo sincero e forse involontario revisionismo, Into the Wild
trascina con sé un altro degli incrollabili miti americani, entrato nel DNA di un intero popolo: la
Frontiera. Assieme a tutto lo stupefacente universo che è capace di rievocare, anche in chi non ha
mai messo piede nel continente americano ma ha passato molte delle ore della sua vita immerso
in film, libri e musica – sempre incapaci di circoscriverne la smisurata grandezza – che cercavano
di illustrarne qualche tratto caratteristico, ha continuato nei decenni a esercitare il suo incessante
fascino. Dileguatosi geograficamente il Far West è sopravvissuta nell’ immaginario del popolo
americano, è stata assimilata trasformandosi pressoché in un istinto; è stata dirottata da Jack
London (chiamato “il re” da McCandless) verso il Grande Nord ed è ancora oggi in grado di
scagliare sulla strada individui tormentati dal quotidiano enigma della propria esistenza. Non c’è
più all’ orizzonte una terra promessa - miraggio di libertà assoluta - un continente da esplorare,
una terra selvaggia da coltivare e da lasciare alla propria discendenza ma la Frontiera continua a
sopravvivere come ideale. Entrare nel selvaggio corrisponde al ripulirsi dalle scorie di una civiltà
decaduta e lasciarsi indietro tutte le mostruosità del vivere quotidiano. È la fuga. Combattendo
per la sua sopravvivenza Chris McCandless ritrova la sua umanità. "I have had a happy life and
thank the Lord. Goodbye and may God bless all!" (“Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore.
Addio e che Dio vi benedica!”) Christopher mcCandless non più ‘Alexander Supertramp’. In un
altro film, splendido, Paris, Texas di Wim Wenders, il fratello di un errabondo Travis (Harry
Dean Stanton) incapace di fermare il proprio passo verso l’ignoto e con lo sguardo fisso
sull’orizzonte, chiede: "Vuoi dirmi dove sei diretto Travis? Che c'è laggiù? Non c'è niente laggiù".
La frontiera è proprio questo: niente, e si trova agli antipodi di tutto quello che si decide di
lasciare alle spalle. Ma, strano a dirsi, il cerchio alla fine si chiude. La citazione chiave si trova in
conclusione del film ed è di Lev Nikolaevič Tolstoj: "Ho vissuto molto, e ora credo di aver
trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la
possibilità di essere utile con le persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a
ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri,
musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicita. E poi, al di sopra di tutto, tu per
compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?" Una generazione
come la nostra, orfana di punti di riferimento e con un recondito desiderio di risposte si risveglia
alla voce dei martiri, ma soprattutto scava alla ricerca delle loro profonde motivazioni: quella di
Chris McCandless era sbagliata. Per tutti, eccetto per lui. Ciascuno di noi si è fatto un'idea di
cosa Chris cercasse, e se un giorno riusciremo a ricreare in noi quel profondo silenzio
probabilmente troveremo anche la risposta che per lui ha avuto il costo della sua giovane vita.
Riposa in pace, benedetto ragazzo.
ML 42
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