ML - Update n. 62

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ML - Update n. 62
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© ML 2009 - FREE
La prima non-rivista che sceglie il meglio della musica in circolazione - www.musicletter.it - Anno V - Update N. 62
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BARZIN
MUSICA GUSTAF SPETZ, THE CRAMPS, THE PAINS OF BEING PURE AT HEART, AKIMBO, WARRIOR SOUL, NIL DURDEN,
DESTROY ALL MONSTERS/DARK CARNIVAL, JOHN LEE HOOKER, JAGUAR LOVE, CARLA TORGERSON, UOCHI TOKI,
GARLAND JEFFREYS, THE SOUNDTRACK OF OUR LIVES, GIRLS IN HAWAII, WINTERSLEEP, TYPE O NEGATIVE, ALCEST,
PETE MOLINARI, BLACK EYED DOG, DREW ANDREWS, FRANZ FERDINAND, JENIFEREVER, MOCKINGBIRD, WISH ME LUCK,
SUICIDAL TENDENCIES, SUPERNATURAL CAT NIGHT LIBRI BEPPE FENOGLIO FILM FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO.
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chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
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Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
Luigi Farina
Luca Mezzone
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VI PREGO, FATEMI USCIRE...
Costanza Savio
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copertina update n. 62 / 2009-02-20
© by LUKA
BARZIN | photo by RONIT NOVAK
ML 02
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update n. 62
sommario
MUSICA | SPECIALE INTERVISTA
04 BARZIN by Luca D’Ambrosio
MUSICA | RECENSIONI
09 GUSTAF SPETZ Good Night Mr. Spetz (2009) by Nicola Pice
10 FRANZ FERDINAND Tonight (2009) by Jori Cherubini
11 MOCKINGBIRD, WISH ME LUCK Days Come And Go (2009) by Nicola Pice
12 THE PAINS OF BEING PURE AT HEART S.T. (2009) by Luca D’Ambrosio
13 BLACK EYED DOG Rhaianuledada (Songs To Sissy) (2009) by Claudia De Luca
14 UOCHI TOKI Libro Audio (2009) by Massimo Bernardi
17 THE SOUNDTRACK OF OUR LIVES Communion (2009) by Franco Dimauro
18 DREW ANDREWS Only Mirrors (2008) by Alessandro Busi
19 AKIMBO Jersey Shores (2008) by Nicola Guerra
20 GIRLS IN HAWAII Plan Your Escape (2008) by Alessandro Busi
21 PETE MOLINARI A Virtual Landslide (2008) by Domenico De Gasperis
22 JAGUAR LOVE Take Me To The Sea (2008) by Antonio Anigello
23 NIL DURDEN Heads or Tails (2008) by Costanza Savio
24 ALCEST Souvenirs d’un Autre Monde (2007) by Valerio Granieri
25 WINTERSLEEP Welcome To The Night Sky (2007) by Claudia De Luca
26 JENIFEREVER Choose A Bright Morning (2007) by Valerio Granieri
27 DESTROY ALL MONSTERS/DARK CARNIVAL Hot Box (2006) by Franco Dimauro
29 FRIENDS OF DEAN MARTINEZ Random Harvest (2004) by Luigi Lozzi
30 CARLA TORGERSON Saint Stranger (2004) by Luigi Lozzi
31 TYPE O NEGATIVE October Rust (2003) by Manuel Fiorelli
32 WARRIOR SOUL Chill Pill (1993) by Valerio Granieri
33 JOHN LEE HOOKER Mr. Lucky (1991) by Luigi Lozzi
34 GARLAND JEFFREYS Don’t Call Me Buckwheat (1991) by Luigi Lozzi
35 THE CRAMPS A Date With Elvis (1986) by Franco Dimauro
37 SUICIDAL TENDENCIES S.T. (1983) by Manuel Fiorelli
MUSICA | LIVE REVIEW
38 SUPERNATURAL CAT NIGHT Firenze, Auditorium Flog (17.01.2009) by Antonio Anigello
ALTRI PERCORSI | LIBRI
40 BEPPE FENOGLIO Una questione privata (1986) by Marco Archilletti
ALTRI PERCORSI | FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO |
SECONDA PARTE
41 EL/LUI Luis Buñuel (1952) by Nicola Pice
42 VITE VENDUTE Henri-Georges Clouzot (1953) by Nicola Pice
43 LA DONNA DI SABBIA Hiroshi Teshigahara (1964) by Nicola Pice
È
© ML 2005-2009
BY L UCA D’AMBROSIO
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update n. 62
speciale intervista
BARZIN
Intervista
© 2009 di
Luca D’Ambrosio
La prima meraviglia del 2009 s’intitola “Notes To An
Absent Lover” (Monotreme / Goodfellas) del canadese
di origine iraniana Barzin Hosseini. Giunto al suo terzo
lavoro, il cantautore nordamericano ci consegna un
album
ineccepibile,
sia
per
la
qualità
degli
arrangiamenti che per l’immediatezza della scrittura
attraverso la quale Barzin, con il piglio sommesso e
discreto dell’uomo afflitto, racconta di vita e d’amore.
Canzoni da ascoltare tutte d’un fiato, con passaggi
slowcore e retaggi alt. country, che dispiegano tutto il
tepore
e
la
dolcezza
di
un
pop-folk
d’autore
estremamente raffinato. Un disco che abbandona certe
sperimentazioni di “My Life In Rooms” del 2006 per
dare spazio, invece, a una semplicità compositiva che
va dritta al cuore. Una vera e propria opera d’arte,
insomma,
che
riflette
tutta
la
sua
suggestiva
e
sfuggente bellezza già a partire dalla copertina. Di tutto
questo e di altro abbiamo parlato amorevolmente con lo stesso autore. Buona lettura.
Innanzitutto grazie per averci concesso l’intervista.
È un piacere per me parlare con voi della mia musica e del nuovo album. Grazie per l'interesse
che mi dimostrate.
A parte il freddo, cosa succede
in Canada?
Beh, questo è il paese dell'hockey,
di
un
governo
minoranza,
conservatore
neve
neve
di
neve,
Leonard Cohen e Celine Dion ma
sono sicuro che la vita qui non è
molto differente dagli altri paesi. La
gente si occupa delle stesse cose
che
occupano
persone
in
i
pensieri
Italia,
delle
Norvegia,
Germania… Dovunque io vada a
suonare mi rendo conto che la vita è la stessa. La lingua, l'architettura, le abitudini devono essere
differenti ma la gente è ancora in lotta con le cose che tutta la gente nel mondo combatte.
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speciale intervista: barzin
Allora Barzin, in questi giorni sta per uscire il tuo ultimo
lavoro “Notes To An Absent Lover” che segue "My Life In
Rooms" del 2006, un disco che fu accolto positivamente dalla
critica specializzata ma anche dagli ascoltatori. Alla luce di
quel successo, senti di avere una maggiore responsabilità
verso i tuoi ammiratori e verso la critica con questo terzo
album?
Tutte le volte che finisco un album lo percepisco sempre come se
fosse il mio disco definitivo. Subito dopo avverto una sensazione di vuoto: mi sento come se
avessi detto tutto quello che avevo bisogno di dire, e che non avrei potuto dire nient’altro. Come
quando ho finito “My Life In Rooms”. Quindi, a dire la verità quello che pensavo era se potevo
fare un altro album. Guardavo al futuro della mia musica e non riuscivo a vedere nulla. Quando
finalmente ho iniziato a lavorare al nuovo disco, mi sono sentito semplicemente felice di avere
una nuova direzione e una serie di nuove canzoni su cui lavorare. Quello era sufficiente per me.
Chiedere di più sarebbe stato troppo.
“Notes To An Absent Lover” è un disco sincero, scritto con il cuore, dove la melanconia
delle tue canzoni si evolve, brano dopo brano, con sentimento e introspezione
rispecchiandosi anche nel titolo dell’album…
Come ti ho detto prima non pensavo di essere realmente capace di scrivere un nuovo album dopo
“My Life In Rooms” ma quando ho finito quel disco anche la mia storia sentimentale di molti anni
era arrivata al termine. Tutto ciò mi stava mandando fuori di testa. Io sono sempre stato una di
quelle persone che riesce a scrivere e suonare proprio quando tutto sembra andare in pezzi. È
l'unico modo che conosco per evitare che tutto si distrugga nella mia vita. Quindi ho preso a
scrivere a più non posso, non stavo realmente pensando a un disco, stavo cercando di tenere tutti
i pezzi del mio mondo assieme. Quindi, tutto ciò che c'è nel nuovo disco è quello che ho scritto
proprio nel periodo in cui la mia relazione è finita.
Bella e toccante anche l’immagine rappresentata in
copertina. Perchè questa foto e, poi, chi è l’autore?
Sono felice che ti piaccia quella foto. È una foto davvero
adorabile ma anche un po' inquietante. Mi ricorda il lavoro di
Francesca Woodman. Lei era una fotografa americana che ha
fatto cose meravigliose. Si suicidò molto giovane, credo a 22
anni. Quando ho cominciato a lavorare sulla copertina avevo
questa immagine che via via prendeva sempre più corpo nella mia mente e ho cercato a lungo
qualcosa che fosse adatto, poi casualmente, su internet, l'ho trovata e ho capito che era perfetta.
Generalmente queste cose non mi succedono così, quindi ero molto felice che le cose fossero
andate in questo modo. La foto è di una fotografa che vive in Lussemburgo, Lena Junker.
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speciale intervista: barzin
Con
quest’ultimo
album
hai
abbandonato certe sperimentazioni
e certe astrazioni del passato per
dare vita invece, dalla scrittura ai
suoni, a un album più semplice,
immediato e diretto.
Sì,
ho
sentito
il
bisogno
di
essere
semplice, il più possibile, specie nei
testi. Non le volevo né troppo astratte
né troppo poetiche. Ero veramente alla
ricerca di un modo semplice e diretto.
Sarebbe stato impossibile per me parlare di questo argomento e fare un album sperimentale. Non
so come avrei affrontato la cosa in quel modo. Però vorrei ricordare che David Sylvian ha fatto un
disco molto sperimentale chiamato “Blemish”. Un album personale che parlava della fine del suo
matrimonio. Quindi, è davvero bello vedere gli artisti che si avvicinano a tali tematiche con un
stile più sperimentale.
Vedo che hai inserito anche Queen Jane, brano già contenuto nell’Ep del 2003 intitolato
“Just More Drugs”. Come mai questa scelta?
La prima volta che ho registrato “Queen Jane”, qualche anno fa, un amico mi chiese un brano da
utilizzare per un cd compilation di diversi musicisti dell’area di Toronto. Così, mi recai nel suo
studio e trascorsi mezza giornata per la registrazione e per il missaggio del brano. Quello fu tutto
il tempo che impiegai per quella canzone. E così mi è sempre rimasta l'impressione di non aver
speso molto del mio tempo su quella canzone. Io sono il tipo di persona che ama veramente
trascorrere molto tempo in studio a lavorare su un brano, e questa è stata una di quelle canzoni
che ho voluto rivedere e provare a registrare di nuovo.
Sono passati sei anni dall’esordio discografico. Quante cose sono cambiate nella vita
artistica di Barzin?
Credo che tu voglia intendere che non sono più interessato a sperimentare in musica come lo ero
3 o 4 anni fa. Mi sento di essere tornato alle cose semplici, a una scrittura di non più di tre minuti
e mezzo. Questo volevo quando ho cominciato a scrivere canzoni e in qualche modo mi sembra di
essere tornato agli inizi. Ma chissà, forse in futuro tornerò nuovamente alla musica sperimentale .
Sfogliando alcune vecchie recensioni ho letto tanti riferimenti: Tindersticks, Smog,
Sparklehorse, Mojave 3, Spain e via discorrendo. A chi di questi nomi ti senti
particolarmente vicino?
Oh, ammiro i Tindersticks, penso che Stuart Staples scriva magnifici testi e credo che tutta la
band sia matura e fatta di musicisti di talento. Ovviamente sono anche fan degli Smog e dei
Mojave 3 (bravo, ragazzo! ndr). Mi piace l'idea di sperimentazione che vive nella natura degli
Sparklehorse, è molto sottile ma efficace, per la mia opinione. Ho preso a modello alcune delle
canzoni del mio disco precedente proprio da Sparklehorse.
ML 06
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update n. 62
speciale intervista: barzin
Ascoltando “Notes To An Absent Lover” trovo che la tua
scrittura e il tuo mood abbiano qualcosa anche di Bonnie
“Prince” Billy. È soltanto una mia impressione?
Sì, posso capirlo. Penso che Will Oldham sia un grande scrittore di
canzoni. Per me, quello che mi fai è un complimento.
Che genere di musica preferisce ascoltare Barzin e quali sono i
suoi artisti o i suoi album preferiti?
Cerco di ascoltare più musica che posso ma la maggior parte delle
cose sono pop, rock e il cantautorato. Mi piace riascoltare vecchie cose
di tanto in tanto. C'è sempre qualcosa di affascinante nel modo in cui
certi dischi sono stati registrati. Così, cerco di tenerla come una abitudine di tornare indietro ai
‘50, ‘60, ’70 ma cerco anche di ascoltare nuovi artisti e le nuove cose, col tempo che posso
ovviamente, perché credo che oggigiorno in giro ci sia dell'ottima musica. Cerco di trovare
qualche album o qualche band che mi parli e mi spinga anche un po' più in là. Tra i miei favoriti ci
sono Leonard Cohen, Bob Dylan, Scott Walker, The National, Tindersticks, Lucinda Williams e i
Rolling Stones. Tra i dischi che non posso non citare direi “Whirl” di Michelle McAdory, “My Red
Scare” di Frankie Sparo, il primo dei Tindersticks e “Boxer” dei National.
La solita domanda di rito: qual è l’album del 2008 che ti è piaciuto di più?
Mi è piaciuto molto il disco dei Walkmen, si chiama “You & Me”, un disco che non mi ha ancora
stancato. Mi piace anche il nuovo dei TV On The Radio. E ci sono delle grandi canzoni anche sul
nuovo dei Portishead, “Third”. Poi c'è un artista di Toronto che si chiama Eric Chenaux, ha fatto
un disco delizioso per la Constellation, si chiama “Sloppy Ground”.
Presto verrai in Europa: quando in Italia?
Sto cercando di tornare in Italia, l'ultima volta ho ricevuto una calda e amorevole accoglienza. Ci
saranno tre date: il 26 marzo a Roma (Init); il 27 marzo a Pescara (Auditorium); il 28 marzo a
Rovereto (Teatro ex Cartiera).
Barzin, viste le tue origini iraniane, ti senti di lanciare un messaggio attraverso le
nostre pagine circa le orrende vicende accadute e che stanno accadendo nella striscia di
Gaza?
Credo che gli avvenimenti in Medio Oriente siano molto complicati, e c'è un sacco di storia sepolta
sotto tutto quello che sta accadendo adesso. Ma è molto preoccupante vedere le immagini di
innocenti civili uccisi a seguito delle azioni che Israele ha scelto di adottare. Penso che la
decisione di entrare a Gaza in quel modo rappresenti per Israele un dilemma filosofico: può un
paese estendere il proprio diritto di difesa fino a infliggere una punizione dalle proporzioni
esagerate e drammatiche che fa quasi scomparire le cause che l'hanno generata? Cerco di
guardare alla cosa nella maniera più obiettiva possibile ma non riesco a trovare nulla che
giustifica il livello dell'intervento israeliano. Un paese non può permettersi di fare come hanno
fatto loro, uccidendo centinaia di innocenti, bambini, donne e distruggendo le infrastrutture di un
paese che praticamente non possiede nulla.
ML 07
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update n. 62
speciale intervista: barzin
Grazie ancora per la disponibilità e
complimenti per il bel lavoro.
Grazie per la chiacchierata Luca e per
avermi dato l'opportunità di parlare di cose
che hanno grande importanza per me.
BARZIN: www.myspace.com/barzinhr
Foto by Ronit Novak and Trinh Kim Diep Nguyen
Intervista di Luca D’Ambrosio
www.musicletter.it
ML 08
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update n. 62
musica
ARTIST: GUSTAF SPETZ
TITLE:
LABEL:
Good Night Mr. Spetz
Imperial Recordings
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/gustafspetz
MLVOTE: 9/10
Forse non è tutto perduto, perché di tanto in tanto troviamo riscontro all’affannosa ricerca di
qualcosa (la musica) che riscatti la nostra vita dalla volgarità oscena di questo mondo. La release
dello svedese Gustaf Spetz - il transfuga degli Eskju Divine - Good Night Mr. Spetz è un
capolavoro di siderale bellezza pop, un concentrato di quanto meglio possa offrirci, la
dimostrazione (definitiva) che ci si può muovere nel solco della tradizione musicale senza
inciampare in derivativi quanto ripetitivi cliché. Gustaf Spetz sa regalarci sia l’emozione della
felicità che lo spleen più malinconico in modo intenso e duraturo per tutta la durata degli undici
gioielli di cui si compone il disco e in cui suona chitarra, pianoforte e violoncello riuscendo a
rileggere l’indie pop degli ultimi vent’anni (soprattutto quello di marca svedese) in chiave
beatlesiana e brianwilsoniana post Beach Boys. Il suo debutto solista si apre con la travolgente
Golden feathers affidata nell’esecuzione di una melodia contagiosissima al rincorrersi tra chitarra
e batteria che indurrebbero nell’errore di credere che l’autore vagheggi improbabili - ancorché
legittimi - atmosfere epiche. La successiva Every word I know più delicata e meno immediata
dimostra, invece, la profondità di Spetz e la sua volontà di sperimentare nel recinto pop: la voce
dell’autore s’inerpica su toni meno convenzionali da quelli acuti del brano precedente
contrappuntando una linea melodica che alterna un arrangiamento di tipo orchestrale a un altro
più “radio friendly”. In tutto il disco si percepisce, comunque, uno stato di grazia compositiva
poco frequente nel pop contemporaneo che è attribuibile anche al background dell’autore
svedese: l’aver suonato il violoncello in un “combo” di musica classica ha arricchito la capacità di
ricorrere a soluzioni inconsuete. Alfine, Spetz sembra aver assimilato perfettamente la lezione di
quei modelli grandissimi di cui si diceva prima, Beatles e Brian Wilson (si parva licet componere
magnis): contaminare la semplicità del pop con qualche elemento che da esso differisce. Al di là,
però, delle elucubrazioni iper-recensitorie ci viene offerto un disco che conquista al primo ascolto.
Ciascun brano è un “kick in the teeth”, una hit potenziale: Lava, ad esempio, nasconde delle
potenzialità dance; You and me, scelto come primo singolo, è una canzone d’amore per nulla
stucchevole, con un irresistibile pianoforte, Feel no fear è molto tesa nella sua drammaticità,
Starting again la concessione finale ai suoni “labrador”. Un disco prezioso, dunque, da custodire
gelosamente nell’animo e da riascoltare ogni volta che abbiamo bisogno di riscaldare il cuore.
Nicola Pice
ML 09
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update n. 62
musica
ARTIST: FRANZ FERDINAND
TITLE:
Tonight
LABEL:
Domino
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.franzferdinand.co.uk
MLVOTE: 8/10
I Franz Ferdinand sanno "danzare" con la musica, oltre a far ballare. Si distinguono facilmente
dal più dei colleghi della loro generazione per classe, bravura e un filo di originalità in contiguità
con gli anni della new wave. Caratteristiche grazie alle quali hanno saputo raccogliere - in forza di
tre album incisi dal 2004 a oggi - un numero di fan davvero copioso, dall'Europa all'America
passando per i restanti continenti terrestri. Tonight amplia lo spettro stilistico entro il quale si
muovono i 4 di Glasgow, inanellando una dozzina di brani dai toni un po' notturni (fa fede il titolo)
sebbene (o proprio per questo) più danzerecci che carezzevoli. Rispetto al precedente You Could
Have It So Much Better (2005, ML n. 20), e al sorprendente, omonimo, esordio del 2004 (ML n.
45), stavolta i ragazzi non più ragazzini, si concentrano meno sulla forma-canzone virando il
suono verso una pulsione esteriore, spesso assistita da un'elettronica utile al fine e mai
invadente. Un album che richiede un po' di ascolti prima di spogliarsi del tutto ma che si farà
gradire anche dai palati più rodati. Come potrebbero, difatti, non far muovere il culo canzoni
come Send Him Away col suo giro di corde ammiccanti, Lucis Dream - quasi 8 minuti da
incorniciare in bontà di bassi prorompenti e tastiere, vivaddio, intelligenti, chitarre-taglierino, un
ritornello che titilla i Pink Floyd degli esordi e una coda beat da ascensore con mirror ball
incorporato? Non sono però da meno Bite Hard, tra i pezzi migliori del lotto, che insieme a Turn It
On è già pronta e impacchettata per i dj-set da sala-ballo infernale, o l'irresistibile Cant Stop
Feeling. Il finale è affidato alla ballatina Katherine Kiss Me che ricorda la semplicità di Eleanor Put
Your Boots On contenuta nel penultimo lavoro e chiude il sipario su di un lavoro che lascia ancora
ben sperare chi, come quanti leggono e scrivono Musicletter, vede nel rock un'arte "superiore" e
necessaria.
Jori Cherubini
ML 10
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update n. 62
musica
ARTIST: MOCKINGBIRD, WISH ME LUCK
TITLE:
LABEL:
Days Come And Go
Blow up Records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.mockingbirdwishmeluck.se
MLVOTE: 8/10
"...e sediamo su sedie leggendo vecchie mappe, guerre finite, amori finiti, vite finite, e un
bambino gioca davanti a noi come una scimmia e noi diamo un colpetto alla pipa e sbadigliamo,
chiudiamo gli occhi e dormiamo..." ("Un trucco per alleviare il nostro sanguinare", Charles
Bukowski). Esiste secondo voi qualcosa di più indie di un'orchestrina pop (otto gli elementi) che
compone un brano di tanto in tanto - passando il tempo per lo più a suonare - e che solo dopo
cinque anni - e in maniera del tutto casuale - pubblica il suo primo lavoro? I Mockingbird, Wish
Me Luck provengono da Ängelholm, in Svezia, un piccolo paese più a nord di Malmö e hanno
scelto come nome del gruppo il titolo di una raccolta di poesie di Charles Bukowski.
Paradossalmente dello straordinario scrittore/poeta americano non hanno il sarcasmo dolente e
sferzante ma con ogni probabilità ne condividono il disincanto malinconico per le vicende
dell'esistenza. Nei nove brani - dalla breve durata complessiva di poco più di 35 mm.- affiora,
infatti, la nostalgia per il tempo che passa, il rimpianto per le occasioni perdute e soprattutto lo
struggimento amoroso. Tutto filtrato da un'attitudine tipicamente minimalista... del tipo "life in lofi mood". Le liriche dei fratelli Wennergren, però, sono eleganti e mai banali... ben sostenute dai
deliziosi contrappunti vocali di Joakim Norström e Cecilia Andersson nell'eterno gioco
uomo/donna. Nonostante Days come and go (uno dei momenti migliori del disco) sia stato
registrato in maniera casalinga con evidente penuria di mezzi colpisce per la sua bellezza e
maturità. Musicalmente i Mockingbird, Wish Me Luck sono un riuscito tentativo di sintesi fra la
dolcezza twee dell'indie pop svedese e le ubbie brumose di matrice britpop come se Jens
Lekman facesse il verso ai Belle & Sebastian avvalendosi anche dell'apporto del flauto
traverso, del glockenspiel, del banjo, della tromba, del violoncello e del trombone. Certamente,
da bravi svedesi, strizzano gli occhi al sound "labrador" (Sambassadeur in primis) ma gli influssi
- come si può facilmente intuire immergendosi nella delicata atmosfera di questo bellissimo disco
- sono molteplici: Azure Ray, Camera Obscura, Magnetic Fields e persino i Bright Eyes.
Chissà se Bukowski avrebbe apprezzato. A lui piaceva il soul-blues americano... e dinnanzi a
cotanta esibizione di nostalgia e di sentimentalismo, probabilmente, stringendo fra le mani un
bicchiere di bourbon avrebbe ammonito i due fratelli con queste parole: "...il passato è inutile,
siede sulle ginocchia degli dei mentre i secoli svaniscono nel loro marcio celere sfarzo."
Nicola Pice
ML 11
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update n. 62
musica
ARTIST: THE PAINS OF BEING PURE AT HEART
TITLE:
LABEL:
S.T.
Slumberland
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/thepainsofbeingpureatheart
MLVOTE: 7,5/10
Travolgenti e leggeri. Sono questi gli aggettivi più appropriati per descrivere i Pains Of Being
Pure At Heart, formazione con base a New York che infiamma questo inizio d’anno con sonorità
noise/pop lievemente lisergiche. Un sound vigoroso che dapprima ci frastorna e poi, nel giro di un
paio di ascolti, ci appassiona attraverso un incastro perfetto di voci e refrain estremamente
ruffiani, impossibili da non canticchiare (tra tutte, l’ammaliante Young Adult Friction). Una
leggerezza melodica dilaniata da chitarre elettriche, ora distorte, ora pulite e ora cariche
di feedback, in cui si ravvisano echi di new wave e passaggi dalle glasse sixties. Quelle realizzate
da Alex, Kip, Kurt e Peggy sono canzoni che entrano direttamente nella pelle; schegge
di pop adrenalinico
(Contender,Hey
Paul, Everything
With
You e Come
Saturday)
da
cui
debordano piacevolissime eccitazioni di adolescenziale memoria che prendono il titolo di A
Teenager In Love, The Tenure Itch e This Love Is Fucking Right. Un susseguirsi di richiami stilistici
(college rock, noise, shoegaze) rivisitati in chiave decisamente personale, dove è possibile fiutare
atmosfere alla Cure (Stay Alive) e rimandi di psichedelia cari agli Stone Roses (Gentle Sons).
Potrebbero essere i My Bloody Valentine a braccetto con gli Smiths, i Ride che fanno colazione
con i Field Mice oppure ancora i Jesus And Mary Chain che strizzano l’occhiolino ai Black
Tambourine. In realtà sono semplicemente i Pains Of Being Pure At Heart, ovvero: il lato più
elettrico, coinvolgente e brillante di certa musica pop in odore di revival. E, in uno slancio di
“gioventù”, tanto basta per annoverarli tra le scoperte più entusiasmanti e corroboranti della fine
degli anni zero.
Luca D’Ambrosio
ML 12
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update n. 62
musica
ARTIST: BLACK EYED DOG
TITLE:
LABEL:
Rhaianuledada (Songs To Sissy)
Ghost Records
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/mybandsnameisblackeyeddog
MLVOTE: 7,5/10
“The summer went too quick and september came like a thief at my door...” È così che una voce
profondissima e morbida emerge dal buio e si muove lenta e sensuale fra spire di fumo che
disegnano rose, quelle del brano di apertura di Rhaianuledada (Songs To Sissy). La voce dal
timbro così particolare è quella del varesino Fabio Parrinello, in arte Black Eyed Dog. E non è
un caso la scelta del suo nome d'arte, tratto da un brano di Nick Drake, visto che tradizione dei
songwriters è il viale oscuro che si percorre ascoltando le sue canzoni. Un riferimento sicuramente
impegnativo ma Parrinello supera egregiamente la prova. Il suo secondo album uscito a gennaio
per Ghost Records è complessivamente molto bello e coinvolgente e si snoda lungo 11 brani
acustici, delicati e intimisti, che ruotano intorno al tema dell'amore: dalla magia della sua
scoperta, all'abisso, all'esaltazione, in una giostra emotiva fatta di sfumature fra il dolce e
l'amaro. Bellissimi e struggenti oltre al brano di apertura Roses, i tre pezzi in sequenza Bullet
proof, Drink me, I got you, tre perle che risplendono per intensità in un album che non annoia
mai. Gli arrangiamenti, molto essenziali e scarni (un pianoforte, degli archi, una chitarra e strani
effetti elettronici che risvegliano il ricordo delle sperimentazioni di Sparklehorse), fanno da
contrappunto alla voce di Parrinello di un'intensità fuori dal comune, estremamente versatile.
Quello che colpisce non è solo la capacità poetica e la dolcezza dei brani ma soprattutto la
sincerità espressiva della voce che affonda morbida, dritta nel cuore, per risvegliare sentimenti
ancestrali, e che da sola è in grado di riempire lo spazio sonoro. È questa "The way to my heart".
Claudia De Luca
ML 13
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update n. 62
musica
ARTIST: UOCHI TOKI
TITLE:
Libro Audio
LABEL:
La Tempesta
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.myspace.com/uochitoki
MLVOTE: 7/10
La cosa che salta alle orecchie ascoltando il disco (disco?) degli Uochi Toki è il grande orgoglio
che mostra il gruppo (gruppo?) nella descrizione dell'opera, nel racconto della loro vita e dei loro
atti, artistici o meno. Orgoglio che traspare anche su internet, in cui si 'concede' (probabilmente
agli addetti ai lavori) “ecco quello che vogliamo che sappiate su di noi”. Orgoglio e cinico
disincanto, passione intellettuale e un certo snobismo ( naturalmente 'loro' non saranno
d'accordo), un po' come il Johnny Lydon che tempo fa chiosava, in luogo dei mille
ringraziamenti che infestano tuttora le copertine dei dischi, con “Thanx to no one”. Libro audio è
un disco di musica perché contiene dei suoni e una versione dell' hip hop secondo un piano di
'invettive' (mi si passi il termine) che trasforma l'originario concetto negroide in una forma ,se
non nuova perlomeno personale, pur se variamente sperimentata nei decenni al di qua ed al di là
dell'atlantico (penso ai Last Poets, ad esempio, lì c'era il jazz, il soul , qui c'è il rumore, le
macchine, sono passati decenni). Non esattamente solo un disco dunque, neanche un racconto,
forse frammenti di discorsi, spiegazioni, ragionamenti elaborati secondo una logica molto
'mentale' che prevede ben poco lirismo. Un libro audio. Come il precedente La chiave del 20 il
disco (libro?) ti investe in una dozzina di affilate rasoiate concettuali che poggiano su basi di
rumore stratificato, variamente dinoccolate nella ritmica, in cui i suoni a volte descrivono ciò che
viene detto mentre in altri momenti hanno il ruolo di rivaleggiare in protervia con il testo
urgentemente offerto da Napo. Qualcosa che potrebbe rimandare al lavoro dei Massimo Volume o
degli Offlaga ma qui la necessità della parola perde connotazioni poetico-stilistiche per snocciolare
via con potenza la critica, il disgusto, il consiglio, l'imbroglio. Al primo ascolto, se non ci si è mai
imbattuti in loro, gli Uochi Toki rischiano il rifiuto o, al contrario, intrigano per la chiarezza
dell'esposizione
che
sembra
fare
piazza
pulita
di
ogni
indecisione
e
di
belletto
che,
inevitabilmente, anche gli artisti 'alternativi' cercano di infilare nelle loro canzoni. Volendo fare un
parallelo concettuale nel rock degli ultimi 30 anni mi vengono in mente le canzoni volutamente
scarne e “brutte” dei Fall, anarchiche o anarcoidi come i nostri UO, fatto salvo la differenza che
qui non si suona basso batteria e chitarre. I Virgin Prunes, molto più docili dei coevi citati,
parlavano di A new form of beauty, una nuova forma di bellezza, artistica evidentemente, citando
a loro volta altri poeti e filosofi del diciannovesimo e ventesimo secolo.
ML 14
musicletter.it
update n. 62
musica
Libro Audio non è, tuttavia,
un flusso di coscienza ma un racconto che prende vita dal
quotidiano di chi sembra rifiutare le facili ed inutili comodità del mondo contemporaneo, che
analizza le tristezze di comportamenti codificati, spara a zero sulle ipocrisie del nostro calvario
giornaliero per trarsene orgogliosamente al di fuori o raccontare gesta del passato da una ottica
che diviene ribelle suo malgrado, per il rifiuto netto di ideologie e dell'indotto ideologico. In questo
senso il disco libro audio è uno strumento di non facile ascolto neanche per chi ama l'estremo
nella musica ed è abituato alle dritte e larghe autostrade dell'hip hop affollate però di parole come
fossero automobili. Non è un disco di quelli che dimentichi di togliere mentre fai altre cose
(impossibile per me scrivere mentre ascolto dei passaggi che sono andato a ricercare per aiutarmi
a scriverne) e in questo presumo ci sia un limite per chi voglia pensare che un disco o un libro
audio possa essere ascoltato decine di volte (molto meglio e assai più coinvolgente prevedo siano
gli Uochi dal vivo, come chiamano le loro esibizioni, concerti?). Fin qui la descrizione dell'opera,
filtrata attraverso la personalità e le esperienze di chi scrive. Un’ombra, un pensiero però cresce e
divora le mie cellule mentali proprio mentre ascolto di nuovo, per l'ennesima volta, il disco (libro
audio, okay). Oltre a un’affiorante monotonia nella stesura dei suoni, forse il limite delle
invettive/reasonings di Napo è nell'impressione di venire affrontati di petto da un uomo investito
di un sapere e di una verità per certi versi inaffrontabile, e dunque schiacciante, quando vomitata
in faccia con una discreta carica di violenza (il nostro, forse giustamente, la chiamerebbe
chiarezza). Il grillo parlante, tanto pedante quanto giovane, è sempre lì nell'angolo a far capolino
e a dare la sensazione che, in tutto questo tornado di parole, manchi un po' di umana 'pietas' o di
pietas per l'umanità dolente che, alla fine, siamo noi. Forse coloro che hanno qualche anno sulle
spalle e qualche esperienza di occupazioni, di comuni, di aggregazioni e via elencando concetti
oramai abusati ricorderanno quel periodo in cui, più spesso di quel che si vuole ammettere, non
sembrava possibile mostrare nessuna debolezza borghese, quando un qualsiasi gesto era passato
ai raggi x da qualcuno che si sentiva in dovere di farti notare quanto questo fosse poco
necessario, quanto rispecchiasse la tua non ancora avvenuta trasformazione nell'uomo nuovo e
soprattutto quanto fosse poco rivoluzionario. Come se bastasse chiamarsi via, con una semplice
voce, da secoli di condizionamento e di asservimento per diventare nuovi veramente. A volte,
ascoltare Napo che descrive come lui vivrebbe certe situazioni, come se le vive con la ciurma,
quello che vogliono fare e quello che non vogliono fare, quello che tutti dovrebbero fare… assale
una sensazione di oppressione, come se a vecchie orrende regole borghesi, che ci stanno
ammazzando tutti, venisse sostituito una nuova forma di controllo, apparentemente più naturale,
più vera, più, talmente più che alla lunga mostra un inaspettato impaurente volto nascosto che
non fa piacere scoprire. È l'urgenza, è lo schifo di tutto quello che abbiamo vissuto e che viviamo
continuamente, è una naturale idiosincrasia verso tutti coloro che ci dicono ogni giorno come
dobbiamo vivere e morire? E' una reazione, e come tale comprensibile ma destinata al fallimento,
verso un accerchiamento da tutti i lati della propria personalità? L'afflato poetico, per quanto duro
e inflessibile, ha nella musica un ruolo molto importante: rende i concetti capaci di acquisire più
dimensioni, di relativizzare, di offrire un appiglio o una manica affinché colui che anche venga
colpito duramente possa comunque indossare questo vestito, sentirselo addosso a poco a poco,
riconoscerlo e riconoscersi dentro.
ML 15
musicletter.it
update n. 62
musica
Tutto questo, volutamente, sembra mancare in Libro Audio. Chissà se Napo quando si ascolta,
se si ascolta, a queste cose ci pensa. Chissà se la sua affascinate testa anarchica, che si rivolge
alle moltitudini ,tiene conto di quello che significa proporre le sue visioni su una scala di umani
che non sia solo quella della sua ciurma o di piccole entità praticamente autosufficienti. Sono però
sicuro che se lo chieda. Il buono, per usare categorie desuete nonché vetuste, c'è, naturalmente.
Libro Audio, in epoca di totale asservimento dell'arte allo spettacolo, per il piacere del re e della
sua corte, in un mondo di venti/trentenni che replicano comportamenti e segnali che non hanno
più alcuna funzione se non mercantile, è un sasso iconoclasta gettato senza cura, come una
piccola bomba,
su un mercato pieno di gente curva ed oramai sottomessa, forse un gesto
disperato ma lucido di una irriducibilità ,speriamo perenne e che, comunque, solleva interrogativi,
magari fa pure incazzare, fa si tuttavia che anche chi ne scrive si ponga domande da un po'
dimenticate e sotterrate dall'urgenza di risolvere problemi che qualcun altro ha creato per lui. Chi
l'ascolterà?
Massimo Bernardi
ML 16
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: THE SOUNDTRACK OF OUR LIVES
TITLE:
LABEL:
Communion
Akashic
RELEASE: 2009
WEBSITE:
www.tsool.net
MLVOTE: 7/10
Poche band odierne riescono nell’esperimento della lievitazione. In realtà anche gli illusionisti lo
fanno sempre meno, peraltro ricorrendo sempre agli stessi trucchi. Che poi è un po’ quello che
fanno anche i Soundtrack Of Our Lives. Trucchi vecchi e abusati per chi frequenta il loro
catalogo ma sempre di grande effetto ed efficacia. La copertina da selezione del Reader‘s Digest
lascia basiti per la bruttezza e merita di entrare nella Top Ten di worstalbumcovers.org ma
valicata quella frontiera, dietro quei sorrisi Durbans della coppia incartapecorita che brinda con un
succo di vitamine al ritrovato equilibrio dell’ età senile, ecco schiudersi il “solito” mondo dei
TSOOL. Che non è quello popolato dalle giovani rockstar pompate dalle cartelle stampa, col
bukkake di gel in testa e ben vestite. Troppo difficili da sdoganare per i sifilitici che bevono Red
Bull davanti agli schermi HD o che ascoltano Virgin Radio illudendosi davvero di stare ascoltando
una rock radio. Talmente non commerciabili che la Warner ha gettato la spugna e li ha di fatto
abbandonati alle loro orbite, occupandosi solo di gestirne la distribuzione nazionale. E così,
svincolati dal peso di obblighi commerciali, i Soundtrack si concedono il lusso di un album
doppio. Tutto ciò che deve accadere in realtà succede sul primo disco. È là che il rock
obliquamente psichedelico dei TSOOL si eleva e si muove sulla terra come cumuli di vapore, a
volte con l’incalzante passo di un Koyaanisqatsi (l’incedere Spacemen 3 dell’ iniziale Babel On, il
pulsante raga di RA88, il boogie anni Settanta di Thrill Me, il garage di Mensa‘s Marauders) e
altrove foriero di grigi presagi (Universal Stalker, l’elegia funebre di Second Life Replay, la resa
pinkfloydiana della Fly di Nick Drake). Il cd due è una stampella del primo, rielaborando i colori
già usati per la tavolozza dell’altro. Mancano però le tinte forti, sia quelle dei colori accesi che
quelle della scala del grigio, tutto pare più brumoso, appesantito dalla condensa e vischioso di
licheni. A dominare è il lato più folky dell’ensamble svedese, come nella corale Flipside
ammantata di chitarre acustiche e con quell’aria di libertà freak che si respirava nella
sceneggiatura di Hair. O nei dischi dei Blind Melon, per chi li ricordasse ancora. L’ immersione
nel mondo dei TSOOL è dunque totale, e questo potrebbe essere un bene per i fan di vecchia
data ma potrebbe rivelarsi una zavorra per chi si accosta alla band solo perchè solleticato dal
prezzo ridicolo con cui troverà questo Communion tra gli “scarti” dei negozi, al massimo fra un
paio di anni. Io lo feci anni fa per Behind The Music, e ancora oggi ne godo copiosamente al
solo pensarci. Non simulate gli orgasmi, pivelli, ma fatevi travolgere.
Franco Dimauro
ML 17
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update n. 62
musica
ARTIST: DREW ANDREWS
TITLE:
Only Mirrors
LABEL:
Minty Refresh
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.drewandrews.org
MLVOTE: 7/10
Se cercate Drew Andrews su Wikipedia, vi si aprirà una pagina di disambiguazione che vi farà
scegliere fra il musicista e l’omonimo pornoattore. Una volta scelto il musicista, scoprirete che
l’autore dell’album Only Mirrors è un californiano di ventinove anni, già appartenente alla band
Via Satellite, alla sua prima prova da solista sulla lunga distanza (era uscito un EP dal titolo I
Could Write A Book). Bene, cosa dire di questa nuova sfida? Personalmente direi che è
superata, e a pieno merito. Only Mirrors è infatti un disco intenso e vario che, recuperando la
delicatezza del cantautorato più dolcemente acustico dei vari Cat Stevens, Nick Drake ed Elliot
Smith, riesce ad unire le melodie sofferte, ma mai lancinanti, dei Radiohead più scarni, con
l’impronta più beatlesiana dell’indie-pop inglese. I brani di forza sono vari, dall’apertura Only
Mirrors, fino alla chiusura più leggera e spazzolata Wide Awake, passando per la malinconica
eterea ballata Angeli, per la più cupa Counterfeit e per la quasi-natalizia Trading Faces. Ma ciò
che più conta in Only Mirrors, non sono i momenti di forza, ma proprio il loro opposto. La
grandezza di questo piccolo album è infatti la sua compattezza, il suo disegnarsi, scegliendo una
dimensione molto intima, come un unicum senza sbavature e ben orchestrato.
Alessandro Busi
ML 18
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update n. 62
musica
ARTIST: AKIMBO
TITLE:
Jersey Shores
LABEL:
Neurot
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/akimbo
MLVOTE: 7,5/10
Ho sempre avuto una paura fottuta degli squali, nonostante non sia mai stato abbagliato dal
"sorriso" di quei mostri tecnicamente perfetti. Una paura che negli anni è diventata fobia e che
mi fa addirittura sobbalzare dalla sedia quando involontariamente mi trovo di fronte alla sola
immagine del famigerato squalo bianco. Per esorcizzare questo strano difetto ho deciso di
"tuffarmi" in Jersey Shores, sesto album degli americani Akimbo da Seattle. Un concept sulla
terrificante invasione (appunto) degli squali sulle coste del New Jersey nel 1916 che ripropone, in
musica, la tensione, il terrore e la calma dopo questi violenti attacchi. Edito da Neurot Records
(la stessa etichetta dei Neurosis) il disco è un concentrato di metal attuale e lisergico pieno
zeppo di riferimenti che attinge a piene mani dai granitici riff dei Melvins fino a dilatarsi in suite
noise-psichedeliche senza perdere d’occhio l’impatto dei brani; lunghi, evocativi e ben strutturati
che schizzano hardcore dai pori e si solidificano in lenti e magmatici blues di scuola Kyuss.
Dall’iniziale e violenta Matawan, al gioiello di 11 minuti Lester Stillwell (la chitarra di Aaron
Walters è un acuminato dente che mastica e sputa tutta la carne che trova) fino alla conclusiva
Jersey Shores, che parte dilatata, esplode in un centrale stoner devastante e si quieta con il
rumore delle onde del mare. Un’esperienza incredibile che mi ha fatto a brandelli. Ma forse sono
solo gli squali verso i quali ora nutrirò ancora più timore.
Nicola Guerra
ML 19
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update n. 62
musica
ARTIST: GIRLS IN HAWAII
TITLE:
LABEL:
Plan Your Escape
Naïve Records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.planyourescape.be
MLVOTE: 8/10
Se devo pensare a una parola che possa descrivere Plan Your Escape dei Girls In Hawaii, la
prima che mi viene in mente è malinconia. È proprio su questa emozione indefinita e latente
infatti che lavora il gruppo belga, proponendo un disco fortemente indie-rock, che risente delle
grigie atmosfere nordeuropee. Se l’inizio sereno-variabile-pop di This Farm Will End You Up
introduce in punta di piedi in questa condizione di vuoto atmosferico, è alla fine, dopo aver
ascoltato Plan Your Escape, che ci si trova come ipnotizzati, come drogati da qualcosa che non si
sa cosa sia ma che si fa sentire e come. Fa stare bene e male, piano e forte. Bored graffia e
stride, mentre Shades Of Time è come accarezzasse piangendo; Couples On Tv è un gioco strano,
inquietante, e Road To Luna e Grasshopper agitano come una corsa sotto la pioggia. Sun Of The
Sons porta nell’inerzia festosa della domenica mattina invernale, Field Of Gold è la prima volta
che sei stato lasciato e non capisci bene cosa succeda ma senti che qualcosa sta cambiando,
Colors è un umido tramonto di fine agosto, dopo il temporale solito, Birthday Call è un
compleanno passato in una stanza d’albergo, pensando che forse qualcosa d’altro avrebbe potuto
essere, e così via. Troppe immagini si potrebbero ancora richiamare, e ognuno troverà le proprie.
Ognuno, se avrà la pazienza di lasciare che il siero dei Girls In Hawaii abbia effetto, potrà
adattarlo alla propria vita e farlo diventare carta velina per i propri occhi. Plan Your Escape è
infatti un prodotto per tutti, per tutti coloro che vogliano prendersi mezz’ora e ripensare alla
propria vita, pronti al dolce-amaro segno personale che questo compito inesorabilmente lascia.
Alessandro Busi
ML 20
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: PETE MOLINARI
TITLE:
A Virtual Landslide
LABEL:
Damaged Goods
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/petemolinari
MLVOTE: 9/10
Più passano gli anni e maggiormente mi convinco che nell’ambito dell’arte dei suoni l’unico
discrimine sensato è quello che distingue la buona dalla cattiva musica. Con questo preambolo è
naturale che chi scrive rimane infastidito da certe espressioni falsamente saccenti di tanti addetti
ai lavori (professionisti e non) del tipo: fenomeno revivalistico, recupero creativo, autore datato,
artista innovativo e compagnia bella. Tutto questo per dire che Pete Molinari è il tipico musicista
che si presta a tali considerazioni ed è esattamente ciò che è accaduto nell’anno appena
trascorso. Il suo secondo lavoro A Virtual Landslide uscito nel 2008 ha avuto sostanzialmente
un buon riscontro di critica ancorché molti abbiano cercato di ridimensionarne la portata artistica
in quanto musicalmente ferma agli anni Cinquanta e ai primi Sessanta. Bravo sì ma datato.
Molinari è un giovane di 22 anni nato nella città di Chatham situata nella contea del Kent in
Inghilterra e le sue origini italiane, maltesi ed egiziane ci danno la conferma di come la perfida
Albione sia diventata negli ultimi decenni la nazione più cosmopolita d’Europa. I suoi riferimenti
culturali e musicali sono tutti americani e non superano gli anni Sessanta (Woody Guthrie, Bob
Dylan, Phil Ochs, Leadbelly, Kerouac e Hank Williams per citarne alcuni). Il giovane non ha
resistito a quel viaggio che un po’ tutti noi, innamorati di certa sottocultura americana, abbiamo
sempre sognato di fare. Con la chitarra a tracolla ha girato per due anni l’America frequentando
soprattutto quei posti precedentemente battuti dai suoi eroi. Tornato in Inghilterra ha inciso nel
2006 Walking Off the Map, un disco austero, rigoroso e quadrato dove già s'intravede un
talento enorme e la capacità di scrivere canzoni di una classicità impeccabile. Passano due anni e
il Nostro colora le sue ballate folk, country e blues con dosi misurate di pop, rock e soul. Il
risultato è A Virtual Landslide, un capolavoro che mi ha costretto a fermarmi. È noto ormai a
tutti che in questi tempi di produzione discografica sterminata gli ascolti siano rapidi e un po’
superficiali, tutti abbiamo la frenesia di passare al nuovo disco. Tuttavia le dodici canzoni di
questo piccolo hobo mi hanno inchiodato all’ascolto per intere settimane quasi fossero tornati i
tempi in cui l’uomo di Duluth mi rubava almeno un’ora al giorno. Autentiche gemme il cui
commento rischia di trasformarsi in un’estenuante esercizio di ricerca di aggettivi adatti a
descrivere una musica senza tempo, prerogativa solo dei geni. In estrema sintesi: It Came Out Of
the Wilderness e Adelaine riportano al Dylan elettrico di Bringing It All Back Home e
Highway 61 Revisited, Oh So Lonesome For You e One Stolen Moment sono splendide ballate
che se hai un cuore rischi di brutto mentre è ineluttabile farsi rapire dall’incantevole valzer di Dear
Angelina e dalla conclusiva ed evocativa Lest we Forget. Basterebbero queste tracce per fare un
grande disco ma A Virtual Landslide non è solo un grande album, è qualcosa di più e quindi
ecco che arrivano Look What I Made, I Don’t Like the Man That I Am e Sweet Louise a regalargli
l’immortalità.
Domenico De Gasperis
ML 21
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: JAGUAR LOVE
TITLE:
Take Me To The Sea
LABEL:
Matador Records
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/jaguarloveband
MLVOTE: 7/10
Provengono da Portland i Jaguar Love (Johnny Whitney – vocals/piano, Jay Clark –
drums/bass/keyboards e Cody Votolato – guitar/bass), composti da ex membri di Blood
Brothers e Pretty Girls Make Graves, il loro album di esordio è lontano anni luce dalle sonorità
proposte in passato con le vecchie band. Dopo il post-hardcore a tinte indie/emo/scremo dei
fratelli di sangue, produttori di cinque LP dai titoli This Adultery Is Ripe (2000), March On
Electric Children (2002), Burn, Piano Island, Burn (2003), Crimes (2004) e Young
Machetes (2006) e almeno tre (gli ultimi) assolutamente da non perdere (oltre a innumerevoli
singoli ed EP), i Jaguar Love immergono le mani in un mare di suoni pop e R&B. Per inteso,
Johnny non ha perso l’abitudine di strillare e di varcare il limite del sopportabile con la sua vocina
stridula, ma lo fa controllandola e adattandola a una forma canzone diretta e decisamente più
melodica (in alcuni frangenti, per i vecchi fans, incredibilmente melodica) e per questo riesce a
rendere originale e fresco un prodotto che del tutto non lo è. Take me to the sea si apre con
Highways of gold e Bats Over the Pacific Ocean, i Blood Brothers in versione indie pop, la vocina
da pelle d’oca di Whitney passa le unghie sul vetro alternandola a melodie robuste e retrò,
piacevolmente easy. Non ci si dimentica dei ritmi rock forsennati e ballabilmente funky di Jaguar
pirates mentre la canzone che non ti aspetteresti mai di ascoltare dall’autore di Crimes è la love
(?!?) song Georgia. Dopo la tagliente e spigolosa Vagabond ballroom (che personalmente non
inserirei tra i picchi dell’album), Humans evolve into skyscrapers, piacevolmente pacchiana e
lineare, ha sicuramente le potenzialità per diventare la più cantata ai concerti. Suoni acidissimi e
storie visionarie (Antoine and birdskull) alternate a profumi soul anni sessanta e venature blues
(Bone trees and a broken heart) ci preparano al binomio finale di The man with the plastic suns e
l’allegra pop song My organ sounds like…Tutto suona bene, i Jaguar Love sono un buon palliativo
al malessere di chi nei Blood Brothers vedeva un gruppo eccezionale, eccentrico e innovativo
anche se, a tratti, il senso di dejà vu e alcune trovate decisamente pompose e volutamente
popular, rendono il progetto un po’ troppo glitterato (almeno per i miei gusti).
Antonio Anigello
ML 22
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: NIL DURDEN
TITLE:
LABEL:
Heads or Tails
Unsigned
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.nildurden.com
MLVOTE: 7,5/10
Compito di noi piccoli “giornalisti del web” è istillare la curiosità nei lettori i quali, il più delle volte,
ne sanno più di noi… Quindi è con immensa gioia che vi presento un cantautore rock italiano che
si rifà apertamente a Jeff Buckley con pezzi originali da accordature southern e sfumature
classic rock, con testi essenziali e una voce incisiva ed energica che lascia poco spazio a
virtuosismi inutili. Sto parlando del solo project di Nil Durden cantautore e chitarrista rock che
combina elementi classici del songwriting americano con un rock ruvido e istintivo, influenzato da
Black Crowes, Led Zeppelin, con aperti richiami più intimisti alla Nick Drake. L’EP di esordio
autoprodotto Heads or Tails è un prodotto che ha tutte le carte in regola per “sfondare” anche
oltreoceano: registrato in Italia
e messo a punto a Londra da John Davis (Stereophonics,
Snow Patrol, R.E.M.) presenta quattro tracce di
straordinaria compattezza
e lucidità
compositiva. Nil Durden intreccia in ogni brano le chitarre acustiche con l’overdrive di una
Stratocaster del ’61, senza appesantire i brani si lancia in groove potenti così come in rarefatte
ballad: il live feeling di Nothing Right Lately riporta al rock sanguigno dei Black Crowes,
l’atmosfera onirica di Just to kiss you Goodnight e della lenta splendida Dreams and Dimes
trovano echi in alcuni pezzi di Ben Harper e, a mio avviso, nella lezione della dark wave più
raffinata. In Findway che sembra, col suo ritmo diretto e incalzante, provenire da un locale sullo
Strip road di Los Angeles c’è spazio perfino per una punta di sleaze. Se vi piacciono Led
Zeppelin, Black Crowes, Soundgarden, Black Stone Cherry non mancate di ascoltare Nil
Durden, fatevi una capatina nel suo MySpace dove potrete avere un assaggio della sua arte in
attesa (credo breve) che qualche etichetta, anche d’oltreoceano, allunghi l’orecchio…
Costanza Savio
ML 23
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: JENIFEREVER
TITLE:
Choose A Bright Morning
LABEL:
Midfinger
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www. jeniferever.com
MLVOTE: 9/10
C’è qualcosa di particolare, qualcosa di indicibilmente struggente, in questo disco. Qualcosa di
inafferrabile, che va oltre le parole e le note. È quel tipo speciale di malinconia, quell’abbandono
composto e pieno di grazia che trasforma la tristezza in estasi, la malinconia in gioia, che riga il
volto di lacrime guardando lungo un orizzonte e sentendosi contemporaneamente infinitamente
pieni eppure impossibilmente vuoti. Quanto spazio, in questo disco. Quanta grazia, quanta
malinconia, e quanta bellezza pura ed estatica. Quanto spazio in questo disco. Una lunga,
splendida, inequivocabilmente nordica sinfonia, agevole a penetrare nei luoghi dell’anima. Un
disco che offre tantissimo, di nascosto, in una forma quasi dimessa, in canzoni simili tra loro
all’apparenza, come in una stanza buia, dove si distingue qualcosa solo dopo qualche secondo di
abitudine alla mancanza di luce. Disarmanti, ecco come possiamo definire i Jeniferever: per la
naturalità con cui danno vita all’incrocio stilistico che abbiamo sempre sognato: A ghost in the
corner of your eye, Opposite attract, The sound of beating wings, le altre: un’incrocio tra
l’emotività dei primi Karate, i Cure maestosi e eppure tremanti dell’inimitabile Disintegration la
ieratica, quadrata e profondissima introspezione strumentale dei Mono, uno splendido mondo di
spazi infiniti, popolati di dolore lancinante ma sordo, ovattato, cantato con grazia infinita, suonato
con una misura e un minimalismo perfetti. un dolore che diviene agevolmente poesia, la stessa
poesia senza speranza dei testi, piccole, malinconiche, disarmanti costruzioni. Canzoni animate di
crescendo che si trasformano facilmente in cerchi concentrici di vuoto cosmico ed esistenziale,
tutto così semplice, ovvio, chiaro. Non ci sono risposte, non ci sono domande: i Jeniferever ,
ogni maledetta volta, conducono in un luogo pieno di grazia e privo di vita, perché attutire e
anestetizzare le sensazioni è l’unico modo di arrivare a domani. La fissità di un lago ghiacciato,
agitato in profondità da correnti misteriose e invisibili, il mondo osservato da dietro un vetro,
quando fuori piove, la poesia racchiusa nell’avere per l’ennesima volta il cuore spezzato: una
raccolta di canzoni talmente belle, aggraziate, dolci, che prendono lentamente possesso di noi:
non siamo affatto certi che la fuori esista un mondo pronto ad ascoltarle.
Valerio Granieri
ML 24
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: WINTERSLEEP
TITLE:
LABEL:
Welcome To The Night Sky
Labwork
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.myspace.com/wintersleepmusic
MLVOTE: 7/10
I Wintersleep, band canadese formatasi nel 2001, hanno già una certa gavetta alle spalle
avendo pubblicato tre album e avendo girato in lungo e largo fra festival e concerti esibendosi live
e guadagnandosi sul campo la stima e l'amore dei loro fan. Nel 2008 hanno anche vinto il Juno
Award (Canada's Music Awards) come New Group of the Year e alcuni dei membri della band
portano avanti progetti paralleli o collaborazioni come Holy Fuck o Hayden. Il loro ultimo album
Welcome To The Night Sky pubblicato nell'ottobre 2007, sarà distribuito in Europa nel febbraio
2009 in concomitanza con il loro tour europeo. Questo fa ben sperare affinché i Wintersleep
raggiungano presto la fama che meritano anche qui in Italia perchè questo disco è sicuramente
uno dei più belli e coinvolgenti che mi è capitato di ascoltare negli ultimi mesi. Prodotto da Tony
Doogan (Mogwai, Belle & Sebastian e Super Furry Animals), Welcome To The Night Sky
è un album viscerale che parla direttamente al cuore piuttosto che al cervello. Un disco immediato
in cui melodia e ritmo hanno un ruolo primario e che si apprezza sempre più ascolto dopo ascolto.
A un primo impatto può sembrare un classico album di ottimo indie rock, ma quando si comincia
a metabolizzarlo rivela anche sfumature e dettagli che ne fanno decisamente qualcosa di più
complesso e maturo. Esattamente come nel titolo dell'album, è come guardare un cielo notturno
in cui si vedono tante più stelle quanto più si guarda a lungo. Il brano di apertura Drunk On
Aluminium col suo respiro esitante ci introduce pian piano in un paesaggio emozionale di ampi
spazi e di libertà disegnato da chitarre nitide e instancabili. A seguire Archeologist col suo tappeto
ritmico reiterato e ossessivo è il vero brano di apertura e prelude alle sensazioni che, un brano
dopo l'altro, si faranno sempre più vivide e luminose. Evidenti sono i riferimenti a gruppi come i
Band of Horses o i Sunny Day Real Estate ma gli elementi ritmici, melodici e la voce
vagamente stranita di Paul Murphy si mescolano fra loro in modo assolutamente personale come
dimostra l'originale ballata Weighty Ghost. A pezzi più tirati, oscuri e cupi dal ritmo fortemente
incisivo (Murderer) si alternano altri più dilatati in cui la melodia ricamata dalla voce potente di
Paul Murphy è sostenuta da gioiosi coretti stile REM (Astronaut). Oblivion lascia senza respiro per
potenza del suono, energia e ritmo travolgente e poi si torna alla calma (apparente) di Laser
Beams per chiudere con Miasmal Smoke & The Yellow Bellied Freaks: un muro di suono creato
dalle chitarre potente e grandioso che esplode in vette epiche soltanto accennate nei brani
precedenti. Un album spettacolare da non perdere assolutamente.
Claudia De Luca
ML 25
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: ALCEST
TITLE:
LABEL:
Souvenirs d’un Autre Monde
Prophecy
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.alcest-music.com
MLVOTE: 9/10
Sogni di bambino, occhi stupiti aperti sul mondo, altri infiniti mondi dentro. Quanto di più puro
abbiamo avuto, nella nostra vita divenuta poi invariabilmente difficile, cinica, disincantata. È
questo che significa crescere, no? Ecco, incanto è la parola giusta per affrontare questo album.
Avere ancora, ostinatamente, nonostante tutto, quella capacità innata di stupirsi e incantarsi,
ecco di cosa abbiamo bisogno: per vivere e per trovare le chiavi di questa musica, una musica
potentissima
e
fatata,
semplice
eppure
stratificata,
compatta
ed
insieme
dai
confini
miracolosamente incerti, come certi splendidi sogni. È difficile non abbandonarsi, non piangere di
gioia, non allargare le braccia e respirare in profondità, non sorridere di quel sorriso pieno di
consapevolezza e per questo così bello. Questa one man band francese, guidata dall’enigmatico
Neige (Peste Noire, Amesoeurs), proveniente da un black metal fosco ma originale; approda,
alfine, a sgranati e sognanti lidi shoegaze, e la mutazione si rivela stupefacente, inedita,
impossibilmente bella. Per descrivere quest’album (vestito, peraltro, di una meravigliosa
copertina) non si può fare altro che usare la parola magnifico. Spirali di ipnotiche chitarre, ora
potentissime ma sognanti, ora desolatamente acustiche dominano in lungo e in largo esaltate da
una produzione che privilegia la compattezza del suono ma, incredibilmente, non ne definisce mai
esattamente i confini; canzoni monolitiche eppure sgranate e sognanti come elegie, impreziosite
da vocals mai invasive, mai dominanti, quasi come temessero di disturbare; ricordi di un altro
mondo visto con gli occhi di bambino, concept esplicitamente menzionato nel titolo dell’album e
nelle parole di Neige, quando intervistato. Vibra di quella gioia lontana alla quale non si può
tornare, quest’album. Vibra di ricordo e di vita ma il ricordo non assume mai i toni del rimpianto,
no: la dolcissima malinconia in cui ci getta è quella della meraviglia che ammantava il nostro
sguardo infantile, ed il dolore è solo quello del distacco che ci separa da essa, lo spazio, il tempo,
il vivere. È inutile analizzare, inutile citare titoli, argomentare: è tutto uno slancio, una meraviglia,
uno sgranare di occhi, uno stupirsi, un ricordare. Uno dei dischi più belli e commoventi degli ultimi
dieci anni, e basta. Estasi e nostalgia.
Valerio Granieri
ML 26
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST:
DESTROY ALL MONSTERS/DARK CARNIVAL
TITLE:
Hot Box
LABEL:
Lost Patrol
RELEASE: 2006
WEBSITE:
www.niagaradetroit.com
MLVOTE: 7/10
Se state scorrendo alacremente queste pagine col vostro dito medio mollemente appoggiato sulla
rotellina del mouse anziché alzato in cenno di saluto ai politici che stanno lavorando per
peggiorarvi la vita, suppongo che non ci siate finiti per caso. E suppongo pure che molti di voi
conoscano quanto noi, se non meglio, la storia di Ron Asheton, dal giorno in cui infilò il jack nel
suo amplificatore nella cantina dei Prime Movers, fino al suo improvviso decesso, proprio lo
scorso mese (taciuto da tutti i notiziari che si sono affrettati a organizzare tavole rotonde e
quadrate sulla scomparsa di Mino Reitano, per dire, NdLYS). Tuttavia, per dovere di cronaca,
accenniamo brevemente alla storia di quanto stiamo trattando: siamo nel 1976 e Ron, reduce
dalla disfatta dei suoi New Order, torna ad Ann Arbor mentre l'onda punk sta montando
eleggendo i suoi Stooges a padri putativi del movimento. Qui Ron ritrova il suo vecchio amico
Larry Miller che lo invita a sentire quello che sta combinando con la sua band. Si tratta di
esperimenti jazz/rock che molto devono alle divagazioni free-rumoriste di Fun House. Ron
rimane subito affascinato da quella voglia di sperimentare che sente latente nella band così come
viene investito dal fascino misterioso che avvolge la bellissima Niagara, femme fatale e musa
ispiratrice degna di Nico. In breve tempo Ron entra nel gruppo e lo stravolge, portando con se
Michael Davis reduce dallo sfascio degli MC 5 e portando il suono del gruppo vicino alle tensioni
urbane di quegli anni. Il suono dei Destroy All Monsters diventa l'esaltazione del decadentismo
metropolitano di fine anni Settanta e vive dello scontro tra le personalità di Ron e Niagara.
Ufficialmente la storia ha vita discografica brevissima. Tre singoli incisi tra il '78 e il '79 dopodiché
per Ron è tempo di dare il via all'avventura New Race e per Niagara di dedicarsi nuovamente
alla sua passione per la pittura. Ma quando nel '90 Ron dichiara di voler rimettere in piedi i
Destroy All Monsters siamo in tanti a schierarci, ancora una volta, dalla parte del torto. Ron e
Niagara tornano effettivamente insieme. Accanto a loro però non ci sono più né Mike Davis né
Rob King, vecchio asse ritmico dei DAM, ma addirittura Scott Asheton alla batteria e Cheetah
Chrome dei Dead Boys alla seconda chitarra. Si tratta di qualcosa di nuovo, che come tale va
battezzato: è la nascita dei Dark Carnival. Il disco esce per la Simpathy for the Record Industry
con la produzione di Don Fleming (tra i più ricercati produttori del periodo e leader dei Gumball,
NdLYS) mentre tutto il mondo è distratto dalle camicette di flanella di Kurt Cobain e, Cristo,
almeno per il trittico d’apertura è quanto di più malsano e spiritualmente vicino al suono tossico
degli Stooges pre-Raw Power sia mai stato inciso.
ML 27
musicletter.it
update n. 62
musica
Le chitarre di Ron e Cheetah sono un maelstrom, un turbine metallico che in pezzi come Let there
be dark o Bloody Mary risuonano come fauci metalliche che strisciano sull'asfalto mentre Niagara
è una dark lady la cui voce monocorde e perentoria si plasma nel mare denso di quel rovinoso
muro sonoro. Cop's Eyes è puro Stooges-sound, con la ritmica pesante di Scott a evocare i
ricordi di TV Eye e il riff pneumatico di Ron che ti entra nelle viscere. Il disco si appiattisce quindi
in un suono meno tellurico che forse avrebbe richiesto un po’ di lavorazione in più per prendere
fuoco davvero. Pochi se ne accorsero allora, ma Last great ride finì quell'anno in molte playlist di
irriducibili dello Stooges-sound. Veniamo dunque a questo box: 5 CD e 1 DVD che sono di una
bellezza pari a quella della barbie nera Niagara. Sul primo CD tutto il repertorio studio dei DAM
Mark III (manca Goin' to lose, forse per problemi di royalities), da cui svettano come sempre le
immagini decadenti di Bored e You 're gonna die ma anche il rock'n’roll rumoroso di Ghost on the
highway suonato con i Demolition Doll Rods. Ancora DAM sul secondo disco, stavolta
fotografati dal vivo, lungo il triennio ‘81/’83. Il terzo e il quinto CD sono invece registrazioni live
dei Dark Carnival: la prima catturata la notte di Halloween del '97 in quel di Coney Island e le
altre in quel di non so dove, nel '95. Il repertorio è quello delle band di Ron: Stooges, Destroy
All Monsters e Dark Carnival, con un’eccezione per la ripresa di Little Girl dei Syndicate of
Sound, un pezzo eseguito sul palco come omaggio a Stiv Bators che la considerava una delle
più belle rock songs di sempre. E come non dargli ragione? Sul quarto CD c'è la ristampa
integrale di Last Great Ride, di cui vi ho già accennato. E, visto che se non possedete la versione
originale, è l'unica ristampa a oggi disponibile potrebbe valere la pena comprare l' intero box
anche per avere solo quello. Sul DVD invece la ripresa di un concerto del Febbraio '91, con Ron
già ampiamente sovrappeso a contrastare con le chiappe e le tette di Niagara sempre ben tornite,
come quindici anni prima. Misteri del rock 'n’roll. Certo gli ammiccamenti di Miss Lynn Rovner
su I wanna be your dog sono ben altra cosa rispetto alle mutilazioni di Iggy Pop così come fa un
po' tenerezza vedere Ron perdere la distorsione della sua chitarra proprio mentre si deve lanciare
nell' assolo di quel pezzo, ma è un documento che val bene la pena di avere tra i propri scaffali
dedicati al Detroit-sound storico.
Franco Dimauro
P.S.: dedicato alla memoria del mio “big brotha” Ron Asheton.
ML 28
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: FRIENDS OF DEAN MARTINEZ
TITLE:
LABEL:
Random Harvest
Glitterhouse/Venus
RELEASE: 2004
WEBSITE:
www.friendsofdeanmartinez.com
MLVOTE: 8/10
Settimo album per Friends Of Dean Martinez a partire dal 1994, anno della loro costituzione, e
la conferma della scelta di un percorso artistico che si è andato consolidando nel tempo. Il gruppo
di Tucson – che avrà un ulteriore album nel 2005, Lost Horizon - è alfiere di un post-rock che
affonda la propria credibilità in una serie di malinconiche ballate strumentali, con sonorità tra il
psichedelico e il minimale, e atmosfere decisamente noir, ma radicate in un solido country-blues.
In questo ambito sono in buona compagnia con i più affermati Calexico e con gli Scenic, o Giant
Sand e Naked Prey con cui hanno intrecciato i loro destini, volendo circoscrivere l’area di
provenienza alla sola Arizona. Avrebbero voluto chiamarsi Friends Of Dean Martin, in onore di
un certo cinema d’altri tempi, poi vi hanno aggiunto quella “ez” finale per non incappare in
problemi legali; e qualcuno ha pensato bene di indicarli come i moderni epigoni di Morricone per
quanto concerne il sapore “western” che proviene dalle loro tessiture musicali. A noi invece – se a
un paragone cinematografico dobbiamo ricondurci - ricordano di più le implosioni sonore del duo
Lynch-Badalamenti. In Random Harvest si coglie la decisa evoluzione verso il “dark” rispetto
alle prove iniziali (l’album d’esordio The Shadow Of Your Smile e quelli immediatamente
seguenti) che erano all’insegna di uno stile più disimpegnato e kitsch, con la vivace chitarra di Bill
Elm a disegnare un clima tra lounge-exotica e tex-mex. Ed è Bill Elm l’indiscusso leader ed unica
vera costante di un progetto assai variabile in quanto a line-up, egli si fa carico oltre che
dell’utilizzo di ogni tipo di chitarra, anche dell’impiego dell’organo che conferisce un “colore” da
colonna sonora e/o da musica “ambient”. Ripcord, ballata magnifica e persuasiva, con quei tratti
che ricordano il Neil Young “ruggine” e più acido, è la cosa migliore del disco.
Luigi Lozzi
ML 29
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musica
ARTIST: CARLA TORGERSON
TITLE:
LABEL:
Saint Stranger
Glitterhouse/Venus
RELEASE: 2004
WEBSITE:
www.walkabouts.com
MLVOTE: 7/10
Dopo un ventennio trascorso a foraggiare l’avventura sonora dei Walkabouts, autrice principale
del repertorio alt-rock della formazione di Seattle (ma nessuna attinenza con il grunge) assieme a
Chris Eckman, Carla Torgerson compie nel 2004 il grande passo di un disco solista sulle “piste”
del suo alter-ego (che il suo effort da titolare unico, The Black Field, l’ha rilasciato qualche
tempo prima). Non è un lavoro peregrino né il frutto di un azzardo, ma lo sbocco naturale per la
vena creativa di una veterana della scena folk che addirittura sembra aver atteso troppo per
compiere il fatidico passo. Vi ha lavorato per circa un quinquennio prima di consegnarlo alle
stampe, non proprio sicura di quanto volesse ottenere ma certa che doveva essere qualcosa di
diverso dalla musica espressa con il suo gruppo di riferimento (altrimenti a che pro?) ma anche
da ciò che aveva fatto in coppia con Eckman (come Chris e Carla si sono divertiti ad incidere un
paio di dischi con materiale, in prevalenza acustico, non propriamente adatto ai Walkabouts;
N.d.R.). L”urgenza poetica doveva essere controbilanciata dai brani giusti e dall’individuazione del
più adeguato contraltare sonoro. La scelta, quasi per caso, è stata determinata dall’amicizia
allacciata con Akis Boyatzis, leader di un gruppo punk greco, Sigmatropic che del progetto è
divenuto co-produttore e deus-ex-machina dell’impianto musicale. Carla parte benissimo con un
trittico di ballate belle e ispirate, dalle armonie accattivanti e pregne di vibrazioni positive, cavalca
le influenze crossover con la sua voce elegiaca ed un mood scuro e intimo, ma a non convincere
del tutto è l’uso eccessivo dei sintetizzatori e quella sorta di “etno trip hop” che prende il
sopravvento procedendo in avanti. Interessanti le cover di Through December di Laura Veirs e
Guardian Angel di Tom Rapp dei Pearls Before Swine.
Luigi Lozzi
ML 30
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update n. 62
musica
ARTIST: TYPE O NEGATIVE
TITLE:
LABEL:
October Rust
Roadrunner Records
RELEASE: 1996
WEBSITE:
www.typeonegative.net
MLVOTE: 8/10
Quando i tuoi mentori sono innegabilmente i Black Sabbath, partire dalla loro imprescindibile
lezione, modernizzarla, arricchirla
e renderla
più
fruibile può rivelarsi
una
ricetta
con
modestissime probabilità di insuccesso. Sembra che questo non indifferente particolare non sia
sfuggito affatto ai Type O Negative che della band del leggendario Tony Iommi sono senz’altro
una accreditata versione degli anni Novanta e oltre. Non a caso i tempi di questo October Rust
sono prevalentemente lenti, intensi e cadenzati, neanche lontanamente paragonabili alle sfuriate
hardcore che avevano caratterizzato il fulminante e rabbioso debutto Slow Deep and Hard; ogni
passo è opportunamente meditato e le intuizioni già vincenti del fortunatissimo Bloody Kisses
(1993) vengono qui amplificate e sublimate da un feeling ancora più appassionato e coinvolgente.
Peter Steele è leader indiscusso, la sua voce profonda e cavernosa, il suo talento e
un’imponente presenza fisica e carismatica rappresentano il fulcro inamovibile e l’anima di una
band i cui componenti non si limitano però alla funzione di comprimari, basti ascoltare la pazzesca
mole di arrangiamenti, suoni e sfumature partorita delle tastiere di Josh Silver (co-fondatore dei
T.O.N.), elemento quest’ultimo di fondamentale importanza nell’economia dell’album e del mood
con cui è stato concepito. Le chitarre di Kenny Hickey sono invece inaspettatamente dilatate,
liquide, pastelli avvolgenti che, se da un lato perdono in spessore rispetto ai precedenti album,
dall’altro rappresentano un complemento propedeutico e perfetto al lavoro di Silver. Tutto il disco
è animato da un romanticismo oscuro e decadente che permea liriche e atmosfere; sui cardini di
questo concept, la band eccelle ma non da meno risulta essere nei toni ed episodi più leggeri;
l’andamento sincopato e settantiano del singolo My girlfriend’s girlfriend e la vigorosa rilettura di
Cinnamon girl (di Neil Young) lo testimoniano senza timore di smentita. Lasciatevi avvolgere dalle
fitte trame amorose di Love you to death, dai disperati richiami alla licantropia intrisa di pathos di
Wolf moon, dalla struttura emozionante e articolata di In praise of Bacchus, tre tra le chiavi di
lettura più efficaci di questo lavoro; non necessariamente ne rimarreste delusi, anzi… Non importa
che la si definisca più o meno impropriamente doom, alternative metal o gothic rock, furba e
ruffiana quanto vorrete, questa ruggine di ottobre è davvero difficile da raschiare via.
Manuel Fiorelli
ML 31
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update n. 62
musica
ARTIST: WARRIOR SOUL
TITLE:
Chill Pill
LABEL:
Geffen
RELEASE: 1993
WEBSITE:
www.koryclarke.com
MLVOTE: 9/10
Abbiamo un po’ di colpa, tutti. Inutile nascondersi, ragazzi. Se Kory Clarke non è divenuto il
lucido signore di tutto quanto c’era di “alternativo”, se le sue invettive ciniche, caustiche e
poetiche contro il Sistema e l’american way of life, se i suoi sermoni sul disfacimento
dell’Occidente non sono divenuti pane per tabloid e riviste scandalistiche e non hanno scatenato
pandemoni sulla loro effettiva autenticità sulla stampa di largo consumo, la colpa è anche di chi
non ha comprato i dischi dei Warrior Soul, quando uscivano. Certo, la Geffen (“thanks for
$upport” è la tagliente coltellata nei ringraziamenti) ha le sue colpe, ma non starò qui a
snocciolare il rosario delle occasioni (volutamente?) non colte nella carriera della band (anche se il
singolo hero e l’album capolavoro Salutations from the ghetto nation vanno per forza citati).
Comunque, i fatti sono che la band, incazzata e sfiduciata dall’ostracismo della Geffen e dagli
(immeritati) insuccessi, deve onorare il contratto con la multinazionale che prevede ancora un
album: il più duro, ostico, poetico e sognante, il più cupo e completo. Chill pill trasfigura le
influenze hard rock, new wave, psichedeliche in dieci brani mutanti, inquieti, corrosivi,
inclassificabili. Rimane l’influenza punk/hard rock, isterica, graffiante, concentrata in poche tracce
(Shock’em down, I want some, Ha ha ha, con sax isterico e il pensiero che corre a Funhouse), il
resto è pura poesia urbana, brividi, buco nero d’Occidente. Difficile dare definizioni: che confini
dare a Cargos of doom, che sotto la pelle del delirio visionario di Kory ed il guitar playing secco e
minimale di John Ricco (strepitoso e mai abbastanza lodato chitarrista) che taglia e brucia come il
sale sulle ferite rivela una struttura che è puro ritmo, pura costruzione basso/batteria, urgenza,
sogno? O alla calma apparente di Song in your mind, dove la coltre di chitarre effettate nasconde
il l’oscillare del ritmo, della infinita ed impossibile costruzione, sempre uguale eppure cangiante?
O al nero di Concrete frontier, come correre in un corridoio buio con le mani in avanti per cercare
di intuire la direzione e gli ostacoli, per restare in piedi, voce come una preghiera, ritmo come
battito cardiaco, chitarre come lame? O il miracolo di Soft, dove le chitarre di Ricco si fanno quasi
shoegaze, l’influenza dei Joy Division è più di una suggestione e Kory Clarke assume dei toni da
doloroso profeta dell’apocalisse?Un disco “troppo tutto” per il grande pubblico, la preconizzazione
del destino di un mondo che mostrava già i prodromi della fine e che forse non abbiamo avuto la
forza di sentirci rivelare, pronti a rassicuranti “conservatorismi” rock’n’roll (in questo senso la
conclusiva High road sembra quasi l’ennesimo sarcastico colpo a tradimento). Marcisce negli
scaffali, in ultra nice price, se ne circolano ancora delle copie. Affrontatelo, se avete il coraggio di
sentirvi dire che in fondo al tunnel non c’è niente.
Valerio Granieri
ML 32
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: JOHN LEE HOOKER
TITLE:
Mr. Lucky
LABEL:
SPV/Audioglobe
RELEASE: 1991
WEBSITE:
www.johnleehooker.com
MLVOTE: 9/10
Nel 1989 John Lee Hooker (classe 1917; è scomparso nel giugno 2001), con la pubblicazione
dell’album The Healer, andava incontro al periodo più fortunato (in termini di popolarità globale
e di riscontri economici) della sua carriera. Collaborazioni eccellenti come quelle firmate sul disco
da Van Morrison, Keith Richards, Bonnie Raitt, George Thorogood e Carlos Santana
contribuivano a riportare in auge il carismatico bluesman e a renderlo popolare presso platee più
vaste con la conquista di un Grammy Award, a permettergli di raccogliere i consensi entusiastici
della critica. È del 1990 l’ingresso dell’artista nella “Rock & Roll Hall Of Fame”. La (felice) mano
produttiva è del fidato chitarrista Roy Rogers che due anni dopo concede il bis con un’operazione
che prende il titolo di Mr. Lucky. Nuova occasione per attorniare il vetusto e leggendario
bluesman di ospiti di grido e il risultato è ancora migliore del precedente. Hooker aveva maturato
nella sua giovinezza artistica, in quel
del
Delta del
Mississippi, uno stile chitarristico
personalissimo e distintivo che affondava le sue radici nelle tecniche tradizionali del blues acustico
e che è stato modellato ed elaborato sul pianismo ipnotico di estrazione boogie-woogie, che gli
hanno permesso di raggiungere subito posizioni di rilievo sulla scena blues nel periodo postbellico,
tra artisti del calibro di Muddy Waters, B.B. King, Lightnin’ Hopkins, Howlin’ Wolf e Willie
Dixon. In carriera ha inciso oltre 100 album. Dunque un mito del blues, intorno al quale si è
raccolta in occasione delle session d’incisione di Mr. Lucky (dedicato alla memoria di Stevie Ray
Vaughan) la schiera dei suoi acclarati discepoli. This Is Hip è un boogie elettrizzante con Ry
Cooder alla chitarra, in Mr. Lucky troviamo Robert Cray, in Backstabbers invece Albert Collins,
in Stripped Me Naked Carlos Santana, in Suzie Johnny Winter, in Crawlin' Kingsnake Keith
Richards, senza dimenticare i vari Terry Evans, Bobby King, John Hammond e Nick Lowe.
Un pezzo di particolare bellezza è I Cover the Waterfront che ci offre un magistrale ed
emozionante duetto – sospeso, intenso e sognante - con Van Morrison che provvede (ringhiando
da par suo) anche alla parte vocale. I due creano una magica atmosfera, di quelle che solo
musicisti carichi d’anni e d’esperienza sono in grado di sprigionare. Un brano davvero speciale nel
quale emerge evidente la qualità artistica della musica; praticamente registrato in presa diretta
per evitare di perdere il feeling e la freschezza dell’interpretazione. Hooker in questa occasione –
la voce roca, calda e vibrante, il suono inimitabile e nitido della chitarra, - ha dato il meglio di sé e
che il lavoro sia pieno di energia, nonostante la venerabile età del suo principale protagonista, si
coglie fin dall’iniziale I Wanna Hug You.
Luigi Lozzi
ML 33
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: GARLAND JEFFREYS
TITLE:
Don’t Call Me Buckwheat
LABEL:
SPV/Audioglobe
RELEASE: 1991
WEBSITE:
www.garlandjeffreys.com
MLVOTE: 9/10
È importante non smarrire mai le tracce di trascorsi musicali importanti ma più fragili a sostenersi
con le proprie forze e che rischierebbero di soccombere all'oblio del tempo nel vorticoso
accavallarsi delle stagioni, delle mode e della musica (ahimè!) “usa e getta”. Chi come me segue
l’evoluzione della musica da decenni avrà di sicuro incluso Garland Jeffreys nell'eletta schiera
(per gli appassionati di nicchie autorali) dei "beautiful losers" del rock degli anni ‘80, al pari di
gente quali Southside Johnny, Bob Seger, Graham Parker, Gary U.S. Bond, Willy De Ville,
Elliot Murphy, Warren Zevon, Terry Allen. La sfortuna di Garland è stata probabilmente quella
di aver realizzato i suoi migliori lavori (rock-soul-latin boogie) alla fine degli anni Settanta (Ghost
Writer, One-Eyed Jacks e American Boy and Girl), sotto l’imperversare del verbo Punk/New Wave.
Oggi Garland, privo di contratto discografico, continua a esibirsi nei piccoli club o in tournée in
Europa, dove è ancora assai apprezzato, facendo spesso capolino in Italia cui è oltremodo
affezionato. La ristampa da parte della SPV (in edizione digipack rimasterizzata) di questo album
del 1991, smarritosi nei meandri di vincoli e cavilli discografici, riporta alla luce un lavoro
magnifico, capace di donare un’insospettabile freschezza all’ascolto e meritevole della vostra
attenzione assai più di tanti prodotti abitualmente in circolazione. Una lunghissima carriera (il
prossimo anno festeggerà i 40 anni dall’esordio discografico per la Vanguard con i Grinder's
Switch) e soli nove album solisti all’attivo, quasi tutti concentrati nel periodo 1973-83, il più
prolifico e fortunato. Il cantautore portoricano (ma anche sangue cherokee nelle vene) nato a
Brooklyn nel ‘44, ha assimilato ed elaborato le tematiche degli emarginati e i suoni multietnici
delle strade della “Grande Mela” con voce limpida, fiera e carica di soul, impregnando il suo verbo
di umori sonori variegati; qualcuno l’ha definito il “Lou Reed afroamericano”. Questo – che
giungeva nel ’91 a distanza di otto anni da Guts For Love e sarebbe stato seguito solamente da
un ultimo lavoro, Wildlife Dictionary del ’97 e da un’antologia, I'm Alive, nel 2006 - di tutti i
suoi dischi è quello più pervaso da un anelito politico contro l’intolleranza razziale, dall’urgenza di
trattare i temi dei diritti civili, enfatizzato da un corroborante abbrivio reggae (Racial Repertoire),
flamengo (Spanish Blood) e latin boogie. Oltre al brano che dà il titolo all’album, e ai pezzi citati,
Welcome To The World, The Answer, I Was Afraid Of Malcolm, Hail Hail Rock & Roll sono tra le
migliori cose da lui scritte in carriera.
Luigi Lozzi
ML 34
musicletter.it
update n. 62
musica
ARTIST: THE CRAMPS
TITLE:
LABEL:
A Date With Elvis
New Rose
RELEASE: 1986
WEBSITE:
www.thecramps.com
MLVOTE: 7/10
4 Febbraio 2009, Glendale, California. È qui che Elvis muore per la seconda volta, col cuore
bruciato da troppo rock‘n’roll. Muore Lux Interior e muore, con lui, tutto un concetto di
rock‘n’roll cannibale, lontano dall’ iconografia imbrillantinata dei bad boys anni ’50 e popolata
invece di pornografia, manie necrofile, pin-up volgari e musica di serie-B. Mi piace pensarlo
circondato dalle amorevoli attenzioni dei cadaveri di serial killers e puttane da motel di cui lui ha
cantato i tormenti, per trenta lunghi anni. Ma è un’immagine distorta, che rifiuta di piegarsi al
dolore per la scomparsa di uno degli ultimi veri rock ‘n’ roll heroes che hanno pestato un palco e
che si nutre ancora di quell’apologia del cattivo gusto di cui i Cramps furono portabandiera. In
realtà non lo sappiamo cosa c’ è dall’ altra parte, varcata la soglia dell’ aldilà. E ognuno è libero di
trovarci ciò che vuole: Buddha con la sua collezione di dischi chillout, Belzebù che si diverte con
gli spiriti delle pornodive, Visnù che piscia nel latte di Adissescien o Paolo Bonolis che sorseggia il
suo caffè polemizzando sul Festival con San Pietro. Quello che è certo è che smetteremo di
controllare gli aggiornamenti sul sito dei Cramps, nell’attesa disperata dell’ennesimo gesto di follia
da consumare sotto un palco o negli attimi di stravagante pazzia tutta intima e casalinga che
viviamo nella nostra casa, quando ci illudiamo che la vita possa avere le forme di Poison Ivy e
che moriremo in una bara a forma di chitarra, mentre portano il nostro feretro in giro per i vicoli
vecchi della città, accompagnati da una processione di zombie che ballano il twist su quelle ossa
porose come schiuma di lattice. Quello che resta, dunque, sono i dischi. Anzi, qualcosa di più, se
può consolarci: non i dischi ma I Dischi dei Cramps. Che fanno categoria a sé. I Cramps che
mettevano d’accordo tutti: garagers, rockettari, dark, rockabillies. I Cramps che mettevano in
disaccordo tutti: puristi, cattolici, moralisti, benpensanti, censori, sofisti, integralisti, ortodossi,
animalisti e fan dei Police. Mi piace pensare che Lux sia sceso (o salito, dipende dall’ascensore che
userà, NdLYS) a stringere la mano di Elvis. A celebrare A Date With Elvis, il più grande disco di
rock ‘n’ roll mai partorito da mente umana. Un album che si apre con un vibrato che scuote la
terra come un terremoto di sfrenata lussuria e che si chiude con la languida cover di It ‘s just that
song di Charlie Feathers. Tra l’uno e l’altra c’è il solito baccanale di sconcezze crampsiane ricco
di citazioni da vecchie bad-songs anni ‘50. Un suono che su questo album si fa meno scheletrico e
più carnale.
ML 35
musicletter.it
update n. 62
musica
Ci sono meno ossa e più frattaglie, dentro A Date With Elvis. Ci sono bimbi che cantano e
“gattine” che giocano a fare il cane, ci sono le chiocce di Link Wray che fanno il boogie, ci sono
le visioni tropicali di Kizmiaz (una ballata che, non chiedetemi perché, a me ha sempre ricordato i
Talking Heads del dopo-Eno), ci sono i Count Five shakerati dentro la giungla di Cornfed
Dames e il rockabilly criptico di Womaneed con Lux che si infila il microfono in gola come quando
massacravano Surfin’ Bird sul palco del CBGB ‘s e la gente si chiedeva da quale fossa fossero
saltati fuori. E c’è Lux che ci saluta con la sua mano da zombie mentre canta Aloha from hell:
Prenderò una vacanza, devo andare all’inferno. Vi manderò una cartolina. Sto per combinarla
grossa. Danzerò tra le fiamme, come un diavolo in maschera. Potrete sentirmi cantare: Aloha
dall’inferno! Aloha Lux.
Franco Dimauro
P.S.: dedicato alla memoria di Erick Lee Purkhiser. Per tutti e per sempre, Lux Interior.
ML 36
musicletter.it
update n. 62
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ARTIST: SUICIDAL TENDENCIES
TITLE:
LABEL:
S.T.
Frontier Records
RELEASE: 1983
WEBSITE:
www.suicidaltendencies.com
MLVOTE: 8,5/10
Immaginate uno studente del Santa Monica College che nel 1982 forma una band per puro
divertimento ma che ben presto si trova a dover sostenere un ruolo meno ludico di quanto
pronosticato fino a porre il gruppo al centro della sua vita: questa è la storia di “Cyco” Mike
Muir e della leggenda hardcore Suicidal Tendencies. Parlare di California potrebbe essere
fuorviante poiché la realtà dei S.T. non appartiene agli scenari paradisiaci di Venice Beach ma a
quelli più grigi e poveri dei sobborghi, quelli affollati dalla disperazione e dalla povertà delle
minoranze etniche e governati dalla violenza delle gang (non è stato mai ufficialmente smentito
che lo stesso Muir fosse appartenuto ai Crips of Surenos, il cui segno distintivo era la tipica
bandana blu calata fin sopra gli occhi). Chiariti questi aspetti, non sorprende che la ricetta
proposta dalla band fosse a base di hardcore punk crudo, diretto e violento, specchio fedele del
disagio sociale vissuto sulla propria pelle: con questi presupposti i Suicidal Tendencies hanno
acquisito solida credibilità e seguito a suon di concerti infuocati, richiamando così l’attenzione
della Frontier.
Fin dalla sua primissima pubblicazione, questo disco ha sortito l’effetto di un
sonoro calcio in culo rifilato senza troppi ossequi, un pugno di canzoni schiumanti rabbia, una
combinazione esplosiva di velocità, aggressività e ribellione (I shot the Devil era originariamente
intitolata I shot Reagan e vi lascio immaginare con quali metodi Muir e soci furono costretti a
censurarla), una scheggia impazzita che non tardò a far proseliti, tanto da spingerlo verso dati di
vendita all’epoca impensabili per una proposta così intransigente ed esplicita. La satira e
l’umorismo sono armi taglienti nelle liriche di Cyco Mike, colpiscono duro e lasciano il segno, si
tratta di espedienti che rendono chiari e fruibili temi tutt’altro che leggeri, senza per questo
edulcorarli, lame affilate che sottintendono la totale non omologazione alla politica interna
americana. Alle accuse di alienazione piovutegli addosso, Muir ha risposto con la punta di
diamante in scaletta, la mirabolante Istitutionalized, uno di quei pezzi che orgogliosamente
rappresentano e incarnano la natura di un genere musicale. Fronteggiate le bordate irruenti di
Memories of Tomorrow, Won’t fall in love today, Possessed o Fascist pig e provate a non farvi
trascinare e restare fermi… se ci riuscite. È innegabile che il proseguio della carriera dei Suicidal
Tendencies abbia diviso le opinioni di critici e fans (la sensibile sterzata verso sonorità hard e
metal sono state discusse e discutibili), tuttavia questo esordio omonimo ha invece messo
d’accordo le parti, consegnandoli di fatto alla leggenda.
Manuel Fiorelli
ML 37
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update n. 62
live review
ARTIST: SUPERNATURAL CAT NIGHT
LOCATION:
Firenze, Auditorium Flog
DATE: 17.01.2009
WEBSITE:
www.supernaturalcat.com
photo by Antonio Anigello (2009)
La bellissima Firenze ospita la serata di autocelebrazione dell’etichetta Supernatural cat, gestita
dagli Ufomammut, con un triplo concerto di tutto rispetto che affianca i romani Lento, ai
condottieri di Lodi MoRkObOt e ai già citati Ufomammut, il tutto impreziosito dalla mostra
poster di Malleus (sempre 2/3 degli Ufomammut accompagnati da una grintosa ragazzaccia) e
dalla relativa presentazione del catalogo completo delle loro opere intitolata The hammer of god.
Un viaggio di sette ore, un devastante Bergamo-Firenze-Bergamo in giornata, con l’attesa che in
tutta franchezza era ad altissimi livelli e, dopo una scappatella con i compagni di viaggio
bergamaschi al glorioso, e dispendioso, Rock bottom, finalmente l’entrata all’Auditorium Flog.
Il primo impatto è a dir poco sconsolante, io che, come un bimbo, mi aspettavo l’expo come una
mostra di Keith Haring, mi sono trovato proiettato alla sagra della porchetta di Sannicola (in
Salento, piatti abbondanti a poco prezzo, ottimo il vino!). Non voglio esasperare la situazione ma,
la presenza di una decina scarsa di stampe male appese alle pareti e un catalogo con i poster non
ancora esauriti (con prezzi variabili dai 60 euro ai 200 euro) non erano proprio quello che mi ero
immaginato (sette ore di viaggio, remember). Detto questo, i Malleus sono proprio talentuosi,
The hammer of god vale l’acquisto e io comunque il poster della serata me lo sono portato a casa,
al prezzo proletario di 25 euro. Verso le dieci inizia il primo concerto, l’apertura è assegnata ai
Lento, il quintetto ha un impatto devastante, tre chitarre, basso e batteria, niente voci e flussi
sonori che molto si avvicinano a Isis e Pelican. Dopo l’ottimo Earthen (2007) e il bellissimo split
con i boss della Supernatural Cat (contenente sei canzoni degne d’innumerevoli e ripetuti
ascolti), i Lento colpiscono i già numerosi presenti in sala e, nonostante non brillino di gran luce
propria, sembrano destinati a riservarci piccoli e acuminati diamanti per il futuro. E finalmente
arriva il momento del trio composto da Lin, Len e Lan, i condottieri di MoRkObOt, reduci dalla
pubblicazione del difficile, rumoroso e bellissimo terzo album Morto, che ripropongono per intero,
colate di noise puro figlie dell’improvvisazione e, anche se qualcuno storcerà il naso, della
psichedelia. Vero motore del MoRkObOt sound è la batteria, a momenti incredibilmente
coinvolgente, tra percussioni di lamiere e una grinta nel battere le pelli che riesce a destrutturare
il caos, gli dà ritmo e significato. Decisamente esaltante il faccia a faccia tra i due bassisti che,
separati solo da miriadi di pedaliere ed effetti, si seviziano a vicenda non certo a colpi di stiletto.
Sicuramente i vincitori morali della serata. Il locale è ormai quasi pieno per l’ultimo dei gruppi in
lista, gli Ufomammut sono una band ormai di culto e, come tale, si trovano di fronte fan in
trepida attesa e lisergicamente già in contatto con i tre piemontesi.
ML 38
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update n. 62
live review
Non deludono, il loro è un concerto che alterna un po’ tutto il loro repertorio, fatto di composizioni
che molto devono a gruppi come Neurosis e Godflesh, pezzi che convincono ancor di più in
versione live, rocciosi e fricchettoni allo stesso tempo, degni sicuramente di calcare palchi
internazionali di tutto rispetto. Unica pecca: la voce, come su disco, perennemente effettata tende
alla lunga a omologare le canzoni facendole assomigliare vagamente l’una all’altra. Comunque
molto bravi. Finito questo piccolo evento dal dolce sapore rock verso le due, contento e quasi
totalmente appagato dalla serata, raccolgo amici e amiche (la stoica Silvia con il suo sciare il
giorno dopo alle sei) e riporto le mie doloranti orecchie nella piccola e musicalmente dimenticata
Bergamo, per chiudere in bellezza questo fine settimana ci vorrebbe solo una bella vittoria
dell’Atalanta contro la capolista Inter… ma non si può avere tutto dalla vita… o sbaglio?
Antonio Anigello
ML 39
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altri percorsi: libri
BEPPE FENOGLIO
Una questione privata
Einaudi, 1963
di Marco Archilletti
La più bella intuizione di Beppe Fenoglio nel corso della narrazione di "Una questione privata" è il
distacco tra i pensieri di Milton e la realtà in cui il giovane è immerso. Il protagonista del breve
romanzo passa le pene dell'inferno nella selvaggia e disperata natura piemontese, durante
quell'incantesimo dell'umanità chiamato Resistenza, ma pensa ad altro. Pensa alla ragazza dei
suoi sogni, quella che si è (così sembra) sposata con un suo amico anch'egli partigiano. Pensa a
"Over The Rainbow" e alla fine di un sogno cancellato dalla guerra. Solo i proiettili risveglieranno
Milton da questo sogno, solo la condizione più estrema all'interno di un insieme già allucinato e
folle lo renderà partecipe della fatica, del dolore, del pericolo. La Resistenza è guerra senza pietà
e senza futuro, è guerra dove il passato è cancellato e il presente avvolto nella nebbia reale
(quella delle Langhe) e in quella ideale che non permette al partigiano di conservare le proprie
abitudini. La guerra ci priva di tutto: del gioco, della musica, dell'amicizia, del calore, dell'amore.
Quest'ultimo sentimento invade i pensieri del partigiano Milton fino a fargli dimenticare il fango e
il freddo che ostacolano la sua folle ricerca dell'amico rapito dai fascisti. La crudeltà definitiva del
nemico allontanerà Fulvia dalla sua mente per un solo minuto, quello necessario a fuggire con
tutte le forze rimaste. L'identificazione con l'eroe è totale: noi sappiamo una sola cosa in più
rispetto a ciò che lui conosce, per il resto ci innamoriamo con lui, sentiamo il suo stesso bisogno
di riposo, di sopravvivenza, di pace. Si è detto che Milton fosse il perfetto ritratto del partigiano
Beppe Fenoglio. Se così fosse, e non abbiamo motivo per dubitare, nella nostra mente dovrebbe
accendersi un faro sulla Resistenza, tragedia umana tanto nuda ed epica da diventare letteratura.
"Una questione privata" è anche una lezione immortale sui valori dell'individuo. Per quanto si
debba lottare per un mondo migliore, per la libertà e per la collettività, ci sarà sempre un posto
nel cuore che è riservato a un'intimità del tutto personale; ci sarà sempre un motivo per vivere
quando tutto sarà perduto, quando non ci sarà più speranza, quando le idee saranno cadute nel
vuoto. Tra tutte le illusioni, l'amore sarà l'ultima a farsi da parte, l'ultima a crollare sotto i colpi
della cruda realtà. Una questione privata ovvero la sopravvivenza.
ML 40
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update n. 62
frammenti di cinema rimosso: seconda parte
EL/LUI
Un film di Luis Buñuel
Regia di Luis Buñuel
Oscar Dancingers per Tepeyac Films
1952 (Messico)
di Nicola Pice
Tutti coloro che ritengono i film del “periodo messicano” di Luis Buñuel di serie “b”, dovrebbero
pensare per un attimo che il regista aragonese a trent’anni aveva già realizzato “Un chien
andalou” e “L'âge d'or” raggiungendo vette insuperate di maestria anche rispetto a coloro – come
Griffith ed Ejzenstejn – che avevano codificato il linguaggio cinematografico. Per quanto, infatti,
sia stata difficile la permanenza in terra messicana, per quanto carenti i mezzi produttivi avuti a
disposizione, alcuni film ivi realizzati contengono più di uno spunto interessante. “El” (Lui) – ad
esempio – rappresenta un momento di felice sperimentazione buñueliana… a dispetto dell’oblio in
cui cadde dopo la buona accoglienza ricevuta a Cannes. Il racconto delle vicende del quarantenne
Francisco, moralista ancorché molto ricco, non è privo d’iperbole. Innamoratosi di Gloria, la
fidanzata del suo miglior amico, dopo essersi eccitato alla vista dei suoi piedi durante le funzioni
religiose del giovedì santo, riesce a sposarla iniziando da quel momento, però, un percorso
“infernale” di scenate continue di gelosie, di urli e, persino, di un tentativo di omicidio (cercherà di
lanciare la moglie dalla sommità di un campanile). Vittima della propria follia allucinatoria,
diventerà frate e nella memorabile scena finale in cui la ex-moglie, risposatasi, lo andrà a trovare
in convento per verificarne la presunta santità (vox populi dixit), si congederà dalla neo-coppia
zigzagando allegro in pieno delirio. Le critiche, le censure e la (presunta) marginalità subita nel
corso degli anni non possono, però, tacitare l’importanza di un’opera che anticipa personaggi e
tematiche che troveranno una rappresentazione più incisiva nei film della maturità buñueliana: la
dissacrazione dei miti borghesi (la ricchezza e il matrimonio) e delle sue istituzioni (la chiesa in
primis e il potere), le ossessioni feticiste, la gelosia soffocante, l’impotenza sessuale. L’analisi
psicologica s’intreccia profondamente con quella sociale – secondo il dettato surrealista – e
significativa appare in questo senso la geniale sequenza dell’allucinazione di Francisco: la sua
follia evidenzia inequivocabilmente la malattia dell’intera classe borghese e la demistificazione
della religione nei suoi aspetti esteriori. Un coup de theatre che sostiene il meccanismo narrativo
nella scoperta di una doppia verità: psicologica e sociologica… come si diceva. Siamo nel 1952:
molti pensano che Luis Buñuel sia destinato ormai a un’aurea mediocritas e non sanno, invece,
che questo film è il punto di partenza con cui riprenderà la propria implacabile, acida, sulfurea
opera di demolizione del cinema e degli pseudo-miti della società intera.
ML 41
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frammenti di cinema rimosso: seconda parte
VITE VENDUTE
Un film di Henri-Georges Clouzot
Regia di Henri-Georges Clouzot
Fono Roma/Filmsonor
1953 (Francia-Italia)
di Nicola Pice
Per qualche misteriosa, fortunata coincidenza astrale (?!) talvolta coloro che passano la vita a
mostrare il disprezzo per le vicissitudini umane e, dunque, l’intrinseca assurdità delle vicende
stesse, sono baciati da un successo che arride in maniera così folgorante da indurci a pensare che
tanto apprezzamento nei loro confronti sia in fondo una tarda forma di risarcimento morale da
parte di tutti coloro che per lunghissimo tempo li hanno criticati e emarginati. L’ostracismo
recensitorio decretato per lunghi anni al regista francese Henri-Georges Clouzot, considerato un
rappresentante del “noir” più duro e crudele, sembrò magicamente terminare con il successo
straordinario di “Vite vendute” nel 1953. Se già con “Il corvo” e “Legittima difesa” questo “autore
maledetto” aveva mostrato quanto fosse insanabile la sua misantropia, in questo film accentua il
registro cupo, mettendo in scena i rifiuti di un’umanità incarognita e senza possibilità alcuna di
riscatto. Quali i motivi, dunque, di un consenso critico universale che fa vincere all’opera la palma
d’oro a Cannes, l’orso d’oro a Berlino e il BAFTA della British Academy? Da un lato c’è il desiderio
di sostenere la produzione di un autore ostracizzato e vittima di epurazioni, dall’altro la forza
straordinaria del film stesso: la tremenda avventura di quattro disperati (ex-gangster e
mercenari) provenienti dall’Europa e dall’America che sono alle prese con loschi traffici in un
povero villaggio guatemalteco. Clouzot introduce la storia con un lunghissimo prologo che serve
non solo a creare l’atmosfera della tragedia imminente ma anche a descrivere il disfacimento
morale e la desolazione che regna assoluta in quelle terre poverissime. Tutto scorre veloce ed
incalzante, fissato mirabilmente dal bianco e nero greve dell’obiettivo della fotografia sensibile di
Armand Thirard e avvolto dall’efficace musica della colonna sonora di Georges Auric. Il tono della
narrazione adotta i ritmi sospensivi del thriller non risparmiando, però, nulla del fatalismo
sarcastico a cui si ispira tutta la vicenda (Mario, infatti, pagherà con la vita la colpa del proprio
cinismo disperato). L’opera assume le sembianze del capolavoro perché tutto è perfetto nella sua
esemplare, irriducibile esasperazione: la recitazione nervosa, la tensione narrativa, una
malinconia strisciante e… su tutto “il clima Clouzot”, quell’acredine spirituale – la misantropia di
cui si parlava – sorretta da una spettacolare padronanza della tecnica cinematografica. Un talento
purissimo, quello del regista francese, che ne ha consolidato, alla stregua di Buñuel, la fama di
autore bizzarro: un folletto spietato e anarchico che ha saputo essere artista sincero e senza
mezze misure. E di cui si parla oggi troppo poco (nonostante qualche sfortunato tentativo di
remake hollywoodiano).
ML 42
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frammenti di cinema rimosso: seconda parte
LA DONNA DI SABBIA
Un film di Hiroshi Teshigahara
Regia di Hiroshi Teshigahara
Teshigahara Production
1964 (Giappone)
di Nicola Pice
Nel dopoguerra il cinema giapponese era resuscitato dalle proprie ceneri ma nulla faceva supporre
che sarebbe stato in grado di penetrare all'estero dove il Giappone, lungi dall'essere ancora una
potenza economico-industriale, era considerato come una “curiosità esotica”. La straordinaria
qualità di autori come Kurosawa, Mizoguchi, Ozu è il segno più evidente di un periodo di grazia –
durato almeno un decennio (1950-1959) – in cui il sistema delle major, affiancato dalle
produzioni indipendenti di sinistra, sembra solido, inattaccabile e trionfa al botteghino, mentre
i
film di prestigio conquistano il pubblico occidentale colto e i prestigiosi riconoscimenti delle più
importanti rassegne cinematografiche. Il clima culturale in cui matura l'arte di Hiroshi
Teshigahara, però, registra già il declino di quel sistema all'inizio degli anni '60 (crisi delle grandi
case di produzione e influsso della nouvelle vague). Infatti, anche Teshigahara è costretto a
fondare – come altri autori – una propria casa di produzione indipendente per finanziarie i propri
originali, visionari progetti - permeati dall'influsso letterario dello scrittore Kobo Abe – che
toccano il punto più alto con “La donna di sabbia”. Presentato a Cannes nel 1964 il film sconcerta
e scandalizza il pubblico. Come già il precedente “Otashiana” era apparso temerario e allucinato,
così quest'opera oscilla fra realtà e ossessione comunicando allo spettatore un profondo senso di
disagio psicologico. Quanto c'è di vero, infatti, e quanto di immaginato nella storia della donna
rinchiusa in una caverna sotterranea? E l'entomologo che prima studia i comportamenti della
donna e alla fine decide di rimanere lì solo, a quale imperativo etico obbedisce nella difesa del
villaggio dalla sabbia che avanza? Il soggetto, ancora una volta di Abe, è straniante nella sua
implacabile progressione narrativa grazie anche all'insolito ambiente sonoro creato da Toru
Takemitsu ed impregnato di surrealismo letterario, pittorico e cinematografico. Nelle pieghe
dell'affascinante simbolismo figurativo firmato dal bianco e nero di Hiroshi Segawa emerge il tema
della crisi o della perdita di identità sociale di un paese raggiunto dalla modernità ma
profondamente conservatore. Che il protagonista sia un entomologo è sintomatico: il bisogno
della ricerca minuziosa ed il gusto dell'abnorme costituiscono le caratteristiche salienti del cinema
di Teshigahara e, per di più, l'imprescindibile “lectio magistralis” per tutti i “maledettismi”
cinematografici che verranno da quel momento in poi.
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