Etimologia della parola “Carnevale” La nave su

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Etimologia della parola “Carnevale” La nave su
Etimologia della parola “Carnevale” [v. anche Appendice, 1]
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Secondo alcuni, dal latino: “carnem levare” – nel senso che la festa del Martedì
Grasso prelude alla Quaresima (il periodo in cui non si dovrebbe mangiare carne).
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C’è chi propone un’etimologia abbastanza affine alla precedente, richiamandosi
al detto (tardo- o pseudo-latino) “carne, vale” (cioè: “carne, ti saluto”). Si tratta
però di una teoria filologica poco attendibile: al massimo potremmo parlare di
una rimotivazione popolaresca del termine in questione.
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Più convincente è il riferimento all’espressione “carrus navalis” (tesi sostenuta
dall’archeologo Hugo Winckler o dal poeta Karl Simrock), che rimanda a certe
festività presenti nel mondo romano, ed ancor prima presso civiltà più antiche,
come quella egizia o la babilonese. Questa teoria è avvalorata dalla circostanza
che alcune manifestazioni tipiche dell’odierno Carnevale – e presenti in culture
anche molto lontane e diverse tra di loro – appaiono molto simili, se non
identiche, alle cerimonie arcaiche che le hanno precedute di millenni.
La nave su ruote della festa babilonese
Nei giorni successivi all’equinozio di primavera, a Babilonia si rievocava il mito
cosmogonico narrato nel poema Enûma Eliš. Secondo tale mito, gli dei della luce
avevano lottato vittoriosamente contro le divinità primordiali del caos, sostituendo a
quest’ultimo un universo ordinato (kosmos, si direbbe in greco). In particolare, il loro
condottiero Marduk (il dio supremo, nel pantheon babilonese), aveva affrontato ed
ucciso la propria trisavola Tiāmat (la dea-madre originaria, identificata con l’immensa
distesa marina, priva di forma); quindi, con il cadavere della dea sconfitta, aveva
formato il mondo terrestre e quello celeste.
Al culmine della festa si svolgeva una processione, la quale percorreva le vie
principali di Babilonia per giungere al tempio di Marduk. Elemento centrale del corteo
era una nave montata su ruote, che portava a bordo le immagini del Sole e della Luna,
oltre ad una moltitudine di personaggi in maschera: l’invisibilità dei loro volti stava a
simboleggiare il caos che aveva preceduto (e nella rievocazione tornava a precedere)
la creazione del cosmo. Giunte al Tempio del dio, le persone mascherate scendevano
dal carro e, in quel momento, un altro personaggio che raffigurava la Morte toglieva a
ciascuna la maschera, a indicare da un lato la sua scomparsa nel caos e dall’altro la sua
rinascita nell’universo ordinato, dove persone e cose acquisivano forma e visibilità.
Il dio salvatore tornava così a trionfare,
dopo essersi eclissato di fronte alle forze
caotiche, allo stesso modo che il sole, dopo
aver percorso la parte inferiore dello Zodiaco
(in cui la notte dura più del giorno, e la forza
ostile delle tenebre sembra avere la meglio),
risaliva in compagnia degli astri primaverili,
dando inizio ad un nuovo corso del tempo e ad
una generale rinascita delle cose.
L’euforia per il ritorno dell’ordine si fondeva arcanamente, in tale circostanza,
con la rievocazione (solo in parte apotropaica) del caos primordiale: il periodo festivo
era vissuto con libertà sfrenata, e con un capovolgimento dell’ordine sociale e morale,
che giungeva fino alla destituzione e alla derisione del sovrano. Si vedano, su questo
punto, le tesi dello storico Mircea Eliade, riportate in Appendice [2
2].
Il “Navigium Isidis”
Questa cerimonia, diffusa in tutto l’Impero Romano dal II sec. d. C., rievocava
l’originario mito egizio, secondo il quale Iside aveva viaggiato per terra e per mare, in
cerca delle parti del corpo smembrato di suo marito Osiride (en passant, le aveva
ritrovate tutte tranne una, d’importanza non proprio secondaria, che aveva quindi
sostituito con una protesi d’oro). La ricomposizione del corpo di Osiride indicava già la
resurrezione dalla morte, ed era comunque la premessa per la nascita di Horus, il
nuovo dio destinato a restaurare l’ordine e la prosperità.
Molti secoli dopo, la sovrana Cleopatra avrebbe fatto breccia (a quanto si narra)
nel cuore di Antonio, apparendogli a Tarso nelle vesti di Iside, su di una nave dalla
poppa dorata e dalle vele di porpora. Comunque, la dea in questione ebbe un certo
successo nella cultura romana, dopo che fu entrata in crisi la religione tradizionale: i
festeggiamenti dedicati a Iside si tenevano (come quelli di Marduk a Babilonia) subito
dopo l’equinozio primaverile, in coincidenza col primo plenilunio. L’effigie della dea era
trasportata sul Tevere, fino in riva al mare, su di un’imbarcazione adornata di fiori; la
seguiva un corteo di altre barche cariche di gente mascherata, che intonava canti.
Si invocava, in tal modo la protezione della divinità per i naviganti, ma, più in
generale, Iside veniva onorata come simbolo del Principio Femminile e quindi della
fertilità, che vivifica il mondo (secondo quanto già espresso dall’antico mito egizio).
Dopo il trionfo del cristianesimo, la celebrazione del Navigium venne conservata
e tradotta nella Pasqua (anch’essa festa di resurrezione, che mantiene la medesima
cadenza annuale). La processione mascherata, estranea al rito cristiano, fu spostata
invece a quaranta giorni prima – serbandone però la relazione con l’altra festa.
Esistevano comunque, nel mondo romano, altre ricorrenze caratterizzate dall’uso
di maschere, che erano state introdotte in precedenza al culto di Iside, e che con
esso avevano poche relazioni. I Saturnali, ad esempio, che cadevano nel periodo del
solstizio d’inverno, erano in parte ricalcati sui riti dionisiaci della Grecia, dei quali
condividevano la sospensione dei criteri morali e delle norme civili. Aspetto essenziale
di queste feste era l’abolizione delle gerarchie: un vero e proprio rovesciamento
dell’ordine, che lasciava libero sfogo a scherzi e dissolutezze. Anche questi rituali
esprimevano simbolicamente una fase di complessivo rinnovamento, all’inizio della quale
il caos prendeva temporaneamente il sopravvento sull’ordine mentre, al termine, le
norme infrante erano ripristinate ed apparivano rafforzate. Il ciclo che aveva così
nuovo avvio esprimeva, ancora una volta, lo sviluppo dell’anno solare [v. Appendice, 2].
Il rapporto con l’aldilà
Rappresentando lo svolgersi della vita – ed il suo correlarsi e confrontarsi con la
morte – tutte queste celebrazioni erano strettamente connesse alle credenze relative
all’oltretomba (inferno o paradiso che fosse), e costituivano quindi una “porta” che
metteva in comunicazione i vivi ed i morti: sempre in prossimità del solstizio invernale,
i romani tributavano un particolare culto ai familiari defunti, dei quali invocavano la
protezione tramite offerte di cibo e di vino.
Le maschere sfoggiate in simili occasioni
esprimevano anche la sospensione della realtà
ordinaria, ed una sorta di “possessione” del corpo
vivente che le indossava, da parte di spiriti o forze
soprannaturali – che, se rese amichevoli, potevano
influire positivamente sulle vicende terrene. Il
festoso corteo che chiude le Eumenidi di Eschilo (e
il teatro stesso è ambiente festivo per eccellenza)
rientra a pieno titolo in questa prospettiva.
Angeli e demoni sono figure che ricorrono di
frequente nei rituali mascherati: Arlecchino, ad es.
mostra una chiarissima connotazione infera – ed il
suo stesso nome evoca figure della demonologia
dantesca. Il rapporto della maschera con l’aldilà ne
spiega l’uso in periodi festivi in apparenza estranei
al carnevale, come accade per esempio nel caso
della festività di Halloween – versione parzialmente
cristianizzata del Samhain, il capodanno celtico che
si celebrava all’arrivo della stagione fredda.
Le feste di stampo carnevalesco costituiscono un motivo ricorrente nella
cultura popolare (ed è in tale cultura che hanno le radici anche grandi espressioni
artistiche, quali la commedia e la tragedia greche). Il loro legame ai riti annuali ed al
tema del ciclico rifiorire della vita, ne attesta la funzione originaria di rimedio contro
l’angoscia di fronte alla morte ed al continuo mutamento della scena del mondo. «Il
comico – scrive lo storico e critico letterario Michail Bachtin – si configura come
creatore di storia, come affermazione di una possibilità di vita collettiva, di una
permanenza storica dell’uomo nella natura e al di sopra della natura, oltre la morte
degli individui. Si traccia così un universo utopico di libertà, fraternità, uguaglianza
che ha il potere di liberare da ogni angoscia».
Nel Medioevo, in particolare, i divertimenti carnevaleschi assumono un ruolo
essenziale nella cultura popolare: rappresentazioni buffe, processioni, manifestazioni
di sfrenata allegria, occupano per giorni interi le piazze e le strade delle città. A tali
feste, tutti partecipano da attori, non da semplici spettatori: ognuno beneficia della
rinascita collettiva, e la vita rinnovata esplode in una libertà assoluta. Lo sfogo
sessuale, come il bere ed il mangiare oltre misura, trascendono gli aspetti banalmente
edonistici e (come nell’antica orgia dionisiaca) assumono la valenza di un’affermazione
corale di energia e di euforica volontà di potenza, con cui l’uomo sperimenta l’eternità.
Anche in questo caso, come negli
antichi festeggiamenti babilonesi, il
caos (il grembo oscuro a cui le cose
ritornano, scomparendo) ed il cosmo
(l’ordine luminoso in cui tutte le
cose riprendono vita e visibilità) si
rivelano
enigmaticamente
intrec-
ciati: ogni manifestazione festiva
può essere ricondotta tanto all’uno
quanto all’altro. Allo stesso modo,
nella dottrina freudiana, Eros e Thanatos non sono soltanto due forze contrapposte,
ma due principi complementari che a volte sembrano trapassare l’uno nell’altro,
mostrando così la loro appartenenza ad un unico Fondo.
Una delle immagini simboliche che meglio esprimevano lo spirito festivo era il
viaggio su nave: sospendendo l’ordine quotidiano, si toglieva metaforicamente l’ancora
e si salpava affrontando il mare aperto. Il viaggio per acqua (immagine ricorrente della
morte) è inquietante, angosciante: nella rischiosa traversata si perde contatto con la
solidità della terra ferma; e la stessa paura del procedere verso l’ignoto può rendere
folle chi s’imbarca [v. Appendice, 3]. Il Carro Navale delle antiche tradizioni egizie e
babilonesi diviene, nel Medioevo, la Stultifera Navis, la nave dei folli.
Das Narrenschiff
In occasione del Carnevale dell’anno 1494, l’umanista Sebastian Brant dà alle
stampe, a Basilea, un poema satirico in rime baciate, che incontra subito un’accoglienza
calorosa: Das Narrenschiff, La nave dei folli. Il testo è una denuncia della meschinità,
spesso tragicomica dei comportamenti umani, che l’autore affronta e si propone di
redimere attraverso la forza dell’umorismo. Per chi sa riflettere, il riso può costituire
un elemento di penetrazione e di liberazione; per gli altri si risolverà invece soltanto
in un ghigno divertito, o magari si ridurrà ad una smorfia di dispetto, a bocca chiusa.
Il tema sarà ripreso, ma
più in grande stile, da Erasmo,
nel suo Elogio della Follia. In
quest’opera, il personaggio che
si presenta in veste di buffone,
tessendo le lodi di se stesso, è
non soltanto uno specchio in
cui si possono riconoscere i
“sileni rovesciati” (i potenti ed
i benestanti, i privati interessi
dei quali sono la causa di guerre ed ingiustizie), ma esprime anche la forza vitale insita
nell’essere umano che, traducendo l’ottusa bestialità, la cieca violenza, in riso, ne
dissolve la “serietà”, e quindi la credibilità stessa.
Rabelais (il Gargantua e Pantagruel esce circa due decenni dopo l’Elogio di
Erasmo) è un altro grande portavoce del riso, assunto nella sua ancestrale valenza di
istintiva, smodata e spesso oscena (ma genuinamente rivoluzionaria) festosità popolare.
In quanto illuminata dal riso, la follia cessa di essere semplice insensatezza, ed
assume un senso e una mèta: l’altra sponda, il nuovo mondo a cui deve approdare il
Carro Navale. Durante la navigazione, ognuno perde la propria identità (come indica
l’uso della maschera), ma ciò significa anche immergersi nel Gioco divino che regge il
cosmo: si badi che anche il gioco è una caratteristica fissa dei riti e delle feste che
celebrano il passaggio tra due periodi – o tra due epoche.
La figura del Folle appare, nei passi biblici o nella cultura medioevale (si veda il
Proslogion di Anselmo) come emblema di “chi non crede in Dio”; ma la follia del noncredente può diventare la follia di colui che in Dio si rispecchia, come San Francesco,
il Folle (o Giullare) di Dio. Già l’apostolo Paolo affermava che la sapienza di Dio deve
sembrare “follia” a chi si attacca alle cose ed ai metri di giudizio di questo mondo, così
come veniva preso per demenza, dai poveri prigionieri della caverna, l’entusiasmo di chi
narrava loro del mondo esterno e del sole. Anche la Follia evocata da Erasmo lascia
infine trasparire, sotto al proprio berretto a sonagli, la luce della Verità.
Appendice
1.
L’uso del vocabolo “carnevale” (o talvolta “carnevalo”) è attestato per la prima
volta dagli scritti del giullare Matazone da Calignano (fine del XIII secolo) e
del novelliere Giovanni Sercambi (1400 c.a.).
2.
Nel suo saggio Il Mito dell’Eterno Ritorno, Mircea Eliade scrive:
Ogni Nuovo Anno è una ripresa del tempo al suo inizio, cioè una ripetizione della
cosmogonia. I combattimenti rituali fra due gruppi di figuranti, la presenza dei morti,
i saturnali e le orge, sono elementi che denotano che alla fine dell’anno e nell’attesa del
Nuovo Anno si ripetono i momenti mitici del passaggio dal Caos alla Cosmogonia. … Allora i
morti potranno ritornare, poiché tutte le barriere tra morti e vivi sono rotte (non è forse
riattualizzato il caos primordiale?) e ritorneranno giacché in questo momento paradossale
il tempo sarà annullato ed essi potranno di nuovo essere contemporanei dei vivi.
Le cerimonie carnevalesche, diffuse presso i popoli Indoeuropei, ma anche nel
mondo mesopotamico o nella cultura egizia, hanno sempre valenza purificatoria
ed esprimono «il bisogno profondo di rigenerarsi periodicamente abolendo il
tempo trascorso e riattualizzando la cosmogonia». Sempre Eliade sostiene che:
L’orgia è anch’essa una regressione nell’oscuro, una restaurazione del caos primordiale; in
quanto tale, precede ogni creazione, ogni manifestazione di forme organizzate. … Sul livello
cosmologico l’orgia corrisponde al Caos o alla pienezza finale; nella prospettiva temporale,
l’orgia corrisponde al Grande Tempo, all’istante eterno, alla non-durata. La presenza
dell’orgia nei cerimoniali che segnano divisioni periodiche del tempo tradisce una volontà
di abolizione integrale del passato mediante l’abolizione della Creazione. La confusione
delle forme è illustrata dallo sconvolgimento delle condizioni sociali (nei Saturnali lo schiavo
è promosso padrone, il padrone serve gli schiavi; in Mesopotamia si deponeva e si umiliava
il re), dalla sospensione di tutte le norme. Lo scatenarsi della licenza, la violazione di tutti i
divieti, la coincidenza di tutti i contrari, ad altro non mirano che a dissolvere il mondo (la
comunità è l’immagine del mondo) e a restaurare l’illud tempus primordiale, che è evidentemente il momento mitico del principio (caos) e della fine (diluvio universale o
ekpyrosis, apocalisse). Il significato cosmologico dell’orgia carnascialesca di fine anno è
confermato dal fatto che al Caos segue sempre una nuova creazione del Cosmo.
3.
”Nell’orizzonte dell’infinito” (F. Nietzsche – La Gaia Scienza, af. 124)
Abbiamo abbandonato la terra e ci siamo messi in viaggio per nave! Abbiamo tagliato i
ponti – ed anzi, ancor più, la terra stessa – dietro di noi. E adesso, navicella! guarda davanti
a te! Ai tuoi fianchi si spande l’oceano; è vero, non sempre esso muggisce, ed a volte si
distende come seta ed oro, e come una sognante immagine di bontà. Ma verranno ore in
cui apprenderai che è infinito e che non c’è niente di più spaventoso dell’infinito. Oh, guai
al misero uccello che si è sentito libero e adesso urta contro le sbarre di questa gabbia!
Guai se ti prende la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – ed ormai non
v’è più alcuna “terra”!