Dalla calligrafia al word processor, e la scuola?

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Dalla calligrafia al word processor, e la scuola?
Dalla calligrafia
al word processor
L
a tentazione è quella di ripercorrere l’itinerario di Raboni. Io sono
andato a scuola a quattro anni, ero figlio di madre maestra che aveva fatto le
tecniche, che aveva insegnato calligrafia
nelle scuole, convinta quindi che insegnare a scrivere bene non volesse dire
soltanto ispirare buoni sentimenti nei
ragazzi, ma anche impegnarsi a far sì
che tenessero bene i quaderni, e che
scrivessero «a regola d’arte» perché appunto per lei era arte.
Io mi adattai. Siccome due mesi
dopo l’inizio della scuola mi bruciai la
mano destra, cominciai a scrivere anche
con la sinistra. Però il dover tenere le righe ed i quadretti mi determinava qualche compressione, tant’è vero che una
volta dovevo finire un compitino, ma
era finito il quaderno e non ce n’era un
altro nuovo, per cui dovetti affrontare
l’ultima pagina, che era bianca, senza
righe, e questo mi procurò una specie
di ebbrezza visionaria insieme a scoramento angosciante. Perché, come faccio ad andare avanti? E mentre era presente mia madre, provai a scrivere una
O un po’ più larga di quelle che ci stavano nelle righe, mi guardò senza intervenire bruscamente ed allora io ne approfittai per fare una A ancora più grossa,
fatto sta che alla fine venne fuori una
vocale grossa così, come il quaderno.
Ed io ero tutto soddisfatto, per avere
trasgredito, per avere scoperto che uno
si poteva esprimere anche a modo suo.
Poi questa lotta per l’affermazione si
è meglio realizzata nei tempi successivi,
quando cercavo di fare la firma in un
certo modo. Dice San Tommaso che, ad
un certo punto, il giovane «Incipit esse
suum», comincia a diventare di se stesso,
non accetta più le forme grafiche con
cui è stato inserito nella corrente dei
parlanti e degli scriventi. Però avvertivo
che se la formula grafica fosse stata soltanto espressione mia, non sarebbe stata
accettata e non sarebbe stata gradita agli
altri. Il problema era questo, come faccio a diventare personale e nello stesso
tempo a farmi capire? Poiché avvertivo
quanto fosse importante scrivere a scuola, non solo nei compiti in classe regolari, sui fogli protocollo divisi a metà, ma
fosse importante scrivere durante le lezioni, per prendere appunti. Allora capii
che era importante anche la stenografia
e nel Liceo Classico Ariosto di Reggio
Emilia partecipai ad un corso con il sistema Gabelsberger-Noe, che mi servì
per un certo tempo. Io di quel periodo
però mi ricordo che mi innamorai di
una mia compagna e ricordo ancora
come si scrive la parola «amore», il resto
no perché non avendo acquisito una sufficiente perizia nella stenografia, finii
per riconoscere che è più facile per me
scrivere più cose con la mia vecchia grafia, magari con una stenografia personale, come per le parole in «zione» che
finiscono in un certo modo ecc. All’Università poi ho preparato le dispense dei
corsi, ho seguito all’Università Cattolica
il prof. Bontadini, la Vanni Rovighi ma
anche gli storici come Soranzo, Garzetti
e facevo gli appunti che trascrivevo e si
trasformavano in dispense dei corsi.
Però ho sempre invidiato coloro che attraverso la stenografia vera e propria
riuscivano a fare cose meravigliose.
di LUCIANO
CORRADINI
Docente di
Pedagogia
all’Università
RomaTre,
presidente
nazionale
dell’UCIIM,
Unione Cattolica
Italiana Insegnanti
Medi
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
e la scuola?
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RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
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Giorgio Campanini, docente a Parma, ex funzionario parlamentare, continua ancora adesso a scrivere currenti calamo, anzi currenti stilo (perché usa la
matita) tutto quello che sente nei convegni e poi pensa lui a ritrascrivere.
Oggi ci sono questi piccoli registratori digitali, ne ho comprato uno anch’io a Natale, però non ho ancora imparato ad addestrare il computer perché poi legga questi testi e trasferisca direttamente il parlato in scrittura nel
computer. È un obiettivo che mi ripropongo per quest’estate, se riuscirò ad
avere meno cose da scrivere e meno discorsi da fare e più invece tempo da dedicare per l’addestramento del mio
computer.
Noi siamo degli animali, inizialmente chirografi. La mano è quella che ci
aiuta, e ci aiuta a parlare oralmente. Io
mi esprimo molto alla napoletana con
le mani, ma a un certo punto sia il chirografo che il chirurgo tendono a sostituire la loro mano con strumenti che
sono più precisi. Ho un nipote chirurgo
che mi dice che stanno adesso imparando a intervenire sugli organi con i computer e questo garantisce una precisione maggiore nell’intervento e allora
perché non utilizzare questi strumenti?
Io sono stato fedele, ho portato il testo
(ed il dischetto di questo mio intervento) non chirografico, perché questo
mio venerato olografo è fatto di scarabocchi, quindi potrebbe il grafologo
studiarli come i cartoni dell’antichità.
Ma non posso continuare sull’onda
dei ricordi e debbo ricordare che i programmi per la scuola elementare del
1985, che propongono per la prima volta i temi dell’informatica e del calcolatore, tacciono invece sulla calligrafia, o
sulla buona grafia, per la prima volta
nella storia dei programmi della scuola
elementare. Neanche i «curricoli» scritti
dalla commissione De Mauro (2000),
non entrati in vigore, pur ricchi di spunti sulla scrittura, affrontano esplicitamente l’argomento.
Ci si può chiedere se la scrittura con
la tastiera, che si va diffondendo da anni
nelle famiglie e nelle scuole, cambi radicalmente il problema dell’insegnare a
scrivere e, più in generale, se il mutamento tecnologico possa sostituire sen-
za residui quel complesso di idee, di atteggiamenti, di comportamenti e di abilità che andavano sotto il nome di calligrafia.
La bella scrittura
in prospettiva storica
L
a risposta non è scontata, né di fatto
né di diritto. Per abbozzare una risposta argomentata, ricordiamo le fasi
attraverso cui è passata e sta passando la
scrittura.
Se la capacità di scrivere con lettere
alfabetiche segna il passaggio dalla preistoria alla storia, la stampa segna il passaggio alla storia moderna e l’elettricità e
l’elettronica segnano il passaggio alla storia contemporanea. La scrittura è dunque
legata alla fase dell’utensile, mentre gli
attuali mezzi di comunicazione utilizzano le successive fasi della macchina e
dell’automa. Ciò non significa, almeno
per il nostro tempo, la scomparsa, ma il
mutamento e sicuramente la riduzione
dei ruoli e dei significati della manoscrittura, un tempo esclusiva e dominante.
E come il leggere è inteso oggi come
attività di decodificazione che si applica
a diversi sistemi di segni, così lo scrivere
è venuto acquisendo significati diversi,
a seconda dei segni, dei linguaggi, dei
codici e degli strumenti che si utilizzano per lasciare traccia del proprio pensiero1. Per intenderci dobbiamo allora
parlare di linguaggio manoscritto o chirografico e della funzione che si può riconoscere nell’odierna società al manoscrivere.
In particolare si deve chiarire il significato e l’importanza dello scrivere
bene: bene non solo dal punto di vista
dell’articolazione del pensiero, dello stile e della struttura grammaticale (ortografia), dato che queste virtù sono proprie di qualunque linguaggio e di qualunque tecnica scrittoria, ma anche dal
punto di vista della leggibilità e dell’ele1 Si veda la Storia della scrittura. Strumenti, segni,
reperti dall’età della pietra a internet, Atlanti universali Giunti, Firenze 2001, vol. con CD-Rom.
Per l’analogia tra segni e immagini si veda L. Castellani, Leggere e scrivere audiovisivo, La Scuola,
Brescia, 1986.
ganza della forma grafica: appunto della calligrafia.
Diciamo subito che una diffusa opinione pubblica considera la calligrafia
come una specie di tortura appartenente ad un’epoca passata, come il corsetto
della nonna o il piegabaffi del nonno. Il
nostro tempo dovrebbe dimenticare totalmente un passato nel quale i bambini
venivano costretti entro schemi precostituiti, dalle fasciature per i neonati alle
divise, al galateo e ai modelli calligrafici
per i più grandicelli. Educare significava
prima di tutto addestrare i bambini a
«indossare un abito» fatto di regole di
comportamento codificate.
Oggi si esprime al massimo una benevola comprensione per la cura della
forma che si è nutrita in epoche nelle
quali l’ordine sociale e la repressione
degli impulsi erano ritenuti beni indiscutibili per l’organizzazione sociale. In
società di tipo gerarchico la norma svolgeva un ruolo fondamentale: l’etichetta
di corte, le buone maniere e la bella
scrittura costituivano altrettanti momenti di un’unica visione del mondo: il
comportamento era un po’ uno specchio dell’anima e l’anima del singolo
doveva riflettere in qualche modo l’anima buona della società, che trovava nella legge divina il suo fondamento.
«Onde vostr’arte è a Dio quasi nipote»,
si ripeteva con Dante. Per attuare un ordine che aveva insieme un significato
religioso, morale, estetico e sociale occorreva disporre di modelli eccellenti
ed esser tanto umili da imitarli con pazienza e perseveranza. E i modelli erano non solo le vite o, con caduta di
tono, le opere dei santi, degli eroi e degli
artisti, ma anche ciò che veniva accettato dalla tradizione o dall’autorità come
buono perché funzionale all’ordine sociale.
Arte e morale
nella calligrafia del passato
A
lcuni calligrafi-insegnanti, che
parlavano di educazione del «carattere», equivocavano volentieri sulla
parola, intendendola sia in senso grafologico sia in senso morale.
Uno scrittore docente e calligrafo famoso come Gaetano Giarrè metteva
una pregevole incisione ai centro del
suo libro (Firenze 1813), rappresentante
tre figure colte di fronte e di lato, con la
scritta centrale: «Positura della persona
che scrive». Ma sui lati si legge «Chi vuol di
gloria un raggio calchi il sentier del saggio».
La ricopiatura calligrafica non era
vista tanto come un banale ricalco,
quanto come una imitazione di un modello eccelso, che implicava una sorta di
ascesi2. E in un’opera dei suoi figli Raimondo e Brunone (Firenze 1813), tra
due figure intente a scrivere, compare
un angelo con tromba. Sotto la figura si
leggono i versi detti da Virgilio a Dante,
nel XXIV dell’Inferno: «... seggendo in
piuma, in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma, cotal
vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in
aere ed in acqua schiuma».
Il segno grafico va ben al di là di una
notazione convenzionale: esso è simbolo di un ordine ideale ed è «vestigio»,
ossia orma, sigillo con cui si lascia agli
altri la traccia della propria personale
presenza, se non si vuole scomparire
nell’anonimato come fumo al vento.
2
Cfr. C. Boncini, Bibliografia delle arti scrittorie e
della calligrafia, Firenze, Sansoni (Antiquariato),
1953.
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
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La concezione platonico-ascetica era
presente da molti secoli nella tradizione
occidentale e rifletteva intuizioni che si
trovavano nelle culture orientali.
Giannantonio Tagliente, nella prima
metà del Cinquecento, citava nei titoli
dei suoi libri la «Geometrica Ragione» e
Gerardo Mercator nello stesso periodo
parlava di «ratio scribendarum literarum»,
in un volume edito a Lovanio.
Non manca però un’impronta latina
e rinascimentale nella concezione del
vestigio che lo scrittore lascia agli altri
di sé e della sua attività: una concezione
artistico-artigianale, con venature utilitaristiche, di cui fornisce un gustoso
esempio il titolo torrentizio di un’«Opera di Frate Anphiareo Vespasiano da Ferrara, dell’ordine minore conventuale, nella
quale si insegna a scrivere varie sorti di lettere, et massime una lettera bastarda, da lui
novamente con sua industria ritrovata, la
qual serve al cancellaresco et mercatesco.
Poi insegna a far l’inchiostro negrissimo
con tanta facilità, che ciascuno per semplice
che sia lo saprà fare da sé. Anchora a macinar l’oro et scrivere con esso come si farà
con l’inchiostro parimente a scrivere con l’azuro et col cinaprio, opera utilissima et molto necessaria all’uso humano» (Venetia
1555).
Negli educatori l’intenzione morale
superava però di gran lunga le preoccupazioni utilitaristiche. La francese Amable Tastu, in un libro uscito in varie edizioni nel secolo scorso in Francia 3 ,
dopo aver presentato gli aspetti fisici,
posturali e tecnici della scrittura con
penna d’oca (filetto, pieno crescente,
pieno perfetto, pieno calante, etc.), presenta alcuni esercizi di copiatura (prima
lettere singole e poi legate e infine alcuni modelli), il cui contenuto illumina
singolarmente sugli intenti dell’operazione. «Non rinviate a domani ciò che potete fare oggi». «Ricordate che un bambino curioso che ficca il naso e ascolta dappertutto
è un essere scomodo che tutti detestano».
«Figlio mio non impegnatevi in una moltitudine di affari, perché fareste certo degli errori e fallireste». E così via.
La logica è quella del lavoro, dell’impegno, del poco ma buono, dell’aiutati
che Dio t’aiuta.
La calligrafia era chiaramente strumentale per questo progetto di uomo.
Occorre però notare che per lungo
tempo la scrittura non fu imposta a tutti gli scolarizzati.
La persistenza e i limiti
di un modello didattico
C
ome non era obbligatorio che tutti fossero artisti o artigiani, così
fino all’età moderna non era obbligatorio che tutti sapessero scrivere. Dagli antichi scribi ai monaci medioevali, ai notarii, prussiani l’arte scrittoria era riservata
a specialisti dello scalpello, del pennello,
del calamo, del punteruolo, della penna.
L’importante era saper leggere. In Prussia la scrittura divenne obbligatoria nella
scuola elementare solo nel 1716.
Quando principi illuminati, sovrani
costituzionali e repubbliche introdussero l’istruzione obbligatoria, la metodologia dell’insegnamento della scrittura
(il cosiddetto metodo alfabetico) non
era fondamentalmente cambiata dai
tempi dell’antico Egitto e di Platone:
un quaderno papiraceo del III secolo
a.C. mostra aste e lettere separate da
ogni contesto; e nel Protagora Platone
parla di un modello tracciato dal maestro con puntini tratteggiati.
La preparazione analitica da seguire
in vista del modello da copiare si è integrata nel corso dei secoli con rituali più
o meno complicati, che avevano lo scopo di predisporre l’anima e il corpo alla
fedele esecuzione del compito assegnato, si trattasse appunto della copiatura
o del dettato.
Significativo in proposito è il volume del famoso padre Francesco Soave
(1743-1806) l’inventore della parola calligrafia, che dedica oltre la metà del
Compendio del metodo delle scuole normali
alle «norme per l’insegnamento dello scrivere con buon carattere e con esatta ortografia»4.
La «norma» consisteva nel partire
3
A. Tastu, Education maternelle, 3ª ed., Plon, Paris, s.d.
4 P. Francesco Soave è anche autore di un Elementi della calligrafia, ossia L’Arte dello scriver bene
ad uso delle Scuole Normali, Mainardi, Modena,
1810. Si veda la voce Scrittura, stesa da A. M.
Bernardinis in G. Flores D’Arcais, Nuovo Dizionario di Pedagogia, Edizioni Paoline, Roma, 1982.
Globalismo, attivismo
e crisi dei modelli oggettivi
B
enché accettata nell’ambito di una
società che restava autoritaria anche negli spiriti più innovatori del tempo, questa metodologia non doveva essere molto motivante per gli scolari.
Parcellizzazione, ritualismo, distanza dagli scopi e dai significati del comunicare per iscritto sono i difetti più evidenti di questo metodo.
La rivoluzione portata dal metodo
globale, nato in ambiente attivistico, ha
perciò rappresentato una ventata d’aria
fresca nell’apprendimento della lettura
e della scrittura. Elaborare in gruppo
un testo libero, trascriverlo sinteticamente alla lavagna da parte del maestro
in caratteri stampatello maiuscolo, copiarlo da parte degli alunni e recitarlo è
sicuramente più motivante.
Da Decroly a Freinet a Dottrens si
cerca di motivare gli scolari e di semplificare loro il compito, oltre le remore
ortografiche5.
Questa svolta non è stata priva di effetti negativi. L’affermata centralità dell’alunno, in un contesto democratico
pluralistico inteso spesso come privo di
valori orientanti la crescita personale,
ha finito per condannare ogni norma
ortografica grammaticale e calligrafica,
come se si trattasse di una minaccia alla
libertà.
L’attenzione alla spontaneità e ai contenuti ha messo in ombra l’importanza
della regola e della forma dello scrivere.
Ogni norma calligrafica, in particolare, è
stata avvertita come arbitraria, astratta,
superflua, in nome della personalità di
ciascun ragazzo e della personalizzazione della scrittura. La bella copia e la bella
scrittura son diventate uggiose come i
vestiti alla marinara della nostra infanzia: anticaglie da guardare al massimo
con nostalgico compatimento.
Negli anni Sessanta M. McLuhan
avrebbe parlato di una più profonda rivoluzione, dalla fase della lettoscrittura,
che implicava la prevalenza del senso
della vista, e del concetto spazio-temporale lineare, di tipo euclideo e newtoniano, alla fase dell’audiovisivo, della plurisensorialità, della contemporaneità e
della multimedialità, che recupera, complicandola e rendendola più vivace, la
oralità primitiva e la iconicità sacrificata
appunto dalla lettoscrittura6. Lasciamo
questo discorso, con l’ampia letteratura
che ha alimentato e con le risorgenti alternative fra apocalittici e integrati.
Limitiamoci a ricordare che, con le
indubbie conquiste culturali e pedagogiche citate, pare a qualcuno che si sia
perso il diritto di lamentarsi per le illeggibili ricette di certi medici e per le «cacografie» (le tags) con cui certi ragazzi
«abbelliscono» i muri delle scuole e non
solo quelli7. Se il computer viene in soccorso alla medicina, non altrettanto si
può dire per le culture prealfabetiche
dei geroglifici metropolitani.
5 F. Bertoldi, Sommario di didattica, Minerva Italica, Bergamo, 1973; F. Deva, I processi di apprendimento della lettura e della scrittura, La Nuova Italia, Firenze, 1982; G. Germano, L’apprendimento
della lettura e della scrittura secondo un metodo fonematico, La Scuola, Brescia, 1982.
6 Cfr M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare,
Garzanti, Milano 1977 (1962).
7 Cfr. N. Via, Graffiti e culture giovanili a Roma,
tesi di laurea in pedagogia, Facoltà di scienze
della formazione, Università di Roma Tre (rell.
L. Corradini e M. T. Mazzatosta).
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
dalla conoscenza delle parti delle lettere,
dalle più semplici alle più complesse,
dallo stampato minuscolo tondo al
maiuscolo, al corsivo, maiuscolo e minuscolo. Dopo la lettura si poteva affrontare la scrittura, con tutte le fasi preparatorie: posizione del corpo, del capo, preparazione della penna, impugnatura, carta
rigata, inchiostro... Si copiavano prima le
parti delle lettere, poi le lettere intere disegnate sulla lavagna dal maestro, utilizzando la punta o il lato grosso del gesso,
per disegnare filetti o aste, dalle più semplici alle più complesse.
Solo in un secondo tempo si poteva
passare alle legature fra lettere secondo
le norme del carattere formato o italiano
o bastardo.
Per alleggerire il lavoro del maestro
alla lavagna, Soave consigliava incisioni
in rame di lettere o frasi da copiare e
l’autocorrezione e lo scambio dei quaderni fra alunni, a caccia dell’errore calligrafico e ortografico. Dopo lunghi esercizi si poteva passare alla dettatura con
carattere «curvo», «perché più spedito».
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Le istanze di bellezza e d’arte incluse nella calligrafia sono migrate nelle
arti grafiche, nel design, nella pubblicità: si sono specializzate ritornando tra
le élites dei moderni scribi, mentre le
masse sono sempre più attratte dal fascino delle immagini già confezionate e
dalla potenza delle macchine, rischiando forme inedite d’incompetenza manuale e di frustrazione comunicativa.
Alcune circostanze possono ridurre
la portata storica di questo rischio. Non
penso solo al generale ripensamento intorno al valore dell’artigianato, alla riscoperta del «fai da te» e al rinato gusto
per le penne stilografiche (non siamo
ancora alle penne d’oca!). Penso piuttosto al progredire della ricerca scientifica, che mostra sempre più l’intreccio
tra fattori cognitivi, affettivi e psicomotori; all’accresciuta sensibilità dei docenti per il ruolo della psicomotricità e
della iconicità nello sviluppo dei processi cognitivi; all’interesse per la continuità educativa e didattica, in particolare tra scuola materna ed elementare;
alla necessità di preparare lungamente
all’esercizio della scrittura i bambini
portatori di certe forme di handicap.
In effetti l’attivismo non è solo permissivismo e anarchia, come si vorrebbe far credere. Da Decroly alla Montessori si sono affermati princìpi di grande
fecondità scientifica e didattica e si è
sviluppato un settore di ricerca che in
questi ultimi decenni è andato avanti
senza l’onore delle cronache, ma con
molta serietà. Basti pensare, per la didattica della scrittura, ai lavori di Ferruccio Deva, e, per la psicologia della
scrittura, al grande capitolo della grafologia, che sviluppa attitudini psicodiagnostiche nei docenti che vogliano studiare scientificamente le produzioni
grafiche8.
I nuovi programmi della scuola elementare, letti sullo sfondo di tutti gli altri programmi che li hanno preceduti,
dall’unità d’Italia ad oggi, offrono diversi spunti per un recupero intelligente di
alcuni motivi della calligrafia, un’arte
oggi meno venerata e meno austera di
ieri, ma non meno utile per costruire
ancora indispensabili capacità di comunicazione e di espressione insieme chiara e personale.
La calligrafia nei programmi
della scuola elementare
U
na scorsa ai prog rammi della
scuola elementare e ai documenti
ufficiali del Ministero9, dalla legge Casati ai nuovi Programmi dell’85, ci chiarisce il senso di una evoluzione, in cui si
può cogliere lo spessore storico del problema che stiamo affrontando e in cui si
possono distinguere gli aspetti che potremmo chiamare permanenti dagli
aspetti contingenti ed accessori che
hanno caratterizzato l’insegnamento
della calligrafia.
L’Istruzione ai Maestri delle scuole
primarie sul modo di svolgere i Programmi approvati con R.D. 15 sett. 1860 (Regolamento applicazione della legge Casati) ricorda semplicemente che la calligrafia, prevista nella seconda classe (sezione
superiore) «eserciterà specialmente gli alunni nella scrittura fine e spedita, curando soprattutto la forma chiara ed uguale delle parole, in che consiste il pregio principale di
qualsiasi scrittura». Si aggiunge poi chiaramente che «Non è ufficio delle scuole elementari formare calligrafi».
Le istruzioni contenute nei Programmi del 1888 (Gabelli) raccomandano «di far servire la calligrafia all’intento di
formare la mano a un modo di scrivere chiaro e facilmente intelligibile», dato che «la
calligrafia ha insieme col disegno la mira indiretta di educare all’attenzione, alla precisione, alla pazienza e all’amore dell’ordine,
qualità tanto utili nella vita giornaliera,
nelle arti e nei mestieri, in casa, all’officina,
in qualsivoglia ufficio, sempre e dovunque,
ma purtroppo non comuni nel nostro paese e
che appunto perciò bisogna proporsi di afforzare con la scuola. Da essa dipende infatti
l’esito di molte cose in apparenza piccole,
che però sommate preparano inavvertitamente quello delle grandi».
Le Istruzioni relative ai Programmi
del 1894 (Baccelli) insistono su questi
8 Cfr. G. MORETTI, Grafologia e pedagogia nella
scuola dell’obbligo, Paoline, Roma 1970; G. Galeazzi, L’attività grafica nell’età evolutiva, in
AAVV, La scienza grafologica, oggi, Città Nuova, Roma 1976, pagg. 153-184.
9 Le citazioni che seguono sono tratte da: F. V.
Lombardi, I programmi per la scuola elementare dal
1860 al 1955, La Scuola, Brescia, 1975.
I Programmi del ’55 non parlano di
calligrafia né di bella scrittura, ma semplicemente di disegno e scrittura. «La
pratica della scrittura (non inclinata ma
dritta) aiuterà il fanciullo a migliorare sempre più, con l’affinamento del gusto estetico,
le caratteristiche che devono contraddistinguere ogni buona grafia, la quale dev’essere
semplice, chiara, scorrevole, leggibile, ma
sempre personale. Continuerà pure l’uso del
carattere lapidario nelle sue forme più semplici a fini pratici, scolastici ed extrascolastici, come ad esempio: intestazione di fogli,
di quaderni, di registri, di cartelli indicatori, di avvisi, di inviti, di manifesti ecc., al
fine di promuovere negli alunni l’abitudine
alla regolarità delle forme grafiche, alle proporzioni, all’ordine, alla simmetria, al buon
gusto. Sarà bene curare particolarmente
queste qualità anche nella scritturazione di
indirizzi su buste e nella compilazione di
moduli vari».
La scrittura nei Programmi dell’85
S
iamo così giunti agli ultimi Programmi, quelli dell’85, firmati da
Franca Falcucci10. Si parla ancora di scrittura, ma l’accento cade non tanto sugli
aspetti estetico-formali quanto su quelli
propriamente linguistici. La scuola deve
«assicurare all’alunno una buona competenza di lingua scritta (lettura e scrittura)». In
particolare egli deve «comunicare per
iscritto con interlocutori diversi in modo via
via più ricco e più articolato per contenuto e
forma», «scrivere in modo ortograficamente
corretto e con buon uso della punteggiatura,
con lessico appropriato e sintassi adeguata;
prendere note, appunti ecc., in forme progressivamente più funzionali e precise».
Scomparsa la calligrafia, scomparsa
la bella scrittura, resta la scrittura, di cui
interessano soprattutto gli aspetti funzionali e gli aspetti motivazionali. «Scrivere non è copiare graficamente (disegnare
lettere) e non è soltanto problema di manualità; è essenzialmente traduzione sulla pagina con mezzi adeguati (anche con alfabetieri mobili, con strumenti come la macchina
da scrivere ecc.) di contenuti che convogliano la pluralità di esperienza dell’alunno».
10 Cfr. C. Scurati, P. Calidoni, Nuovi programmi
per una scuola nuova, La Scuola, Brescia, 1985.
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
concetti: promuovere una scrittura nitida e bella attraverso esercizi che «guidino lentamente, ma con giudiziosa progressione, gli alunni a scrivere in corsivo ordinario nel modo chiaro e spedito»; far attenzione alle posizioni corrette del corpo;
curare l’ordine, la pulizia, il buon gusto.
Le Istruzioni relative ai Programmi
del 1905 (Orlando) raccomandano «che
l’esercizio calligrafico non si distacchi tanto
da quello di scrittura ordinaria da ingenerare l’abito di una doppia grafia, l’una trascurata e illeggibile, l’altra pretenziosa e di
uso raro e difficile». Si affronta il problema del rapporto tra standardizzazione
calligrafica e personalità individuale,
per notare che «non tarderanno a riflettersi nella scrittura, appena questa sia un poco
spedita, le individuali tendenze e attitudini
di espressione, le quali finiscono necessariamente, a dispetto di qualsiasi tirocinio
uniforme, per rendere diverse, inattese e addirittura personali le forme dello scrivere».
Si rinvia all’esperienza scolastica se scegliere la scrittura diritta o il corsivo ordinario e si raccomanda l’imitazione del
modello tracciato dal maestro alla lavagna, piuttosto che il ricorso a regole
astratte. Si conclude in questo modo:
«Che si scriva chiaro, nitido, regolare: questo deve pretendere il maestro, tenendo anche in ciò conto delle naturali disposizioni
di ciascuno».
I Programmi di studio del 1923, firmati da Giovanni Gentile, sono di una
singolare sobrietà sul problema: «Gli
esercizi di bella scrittura saranno facoltativi ed eseguiti non tanto su modelli calligrafici a stampa, quanto su modelli tracciati
dal maestro alla lavagna». Il maestro suggerirà poi «semplici fregi per i quaderni dei
compiti scolastici, nei quali la bella scrittura sarà così accoppiata al disegno».
I Programmi del ’34 ribadiscono che
«indipendentemente dagli esercizi sistematici di bella scrittura, questa deve dagli
alunni essere usata in ogni momento».
I Programmi del ’45 accomunano disegno e bella scrittura raccomandando
al maestro di «apprezzare e disciplinare
gradatamente» l’espressione spontanea
del fanciullo. «La bella scrittura, che è
pure un disegno regolato da norme fisse,
dev’essere curata nella scuola elementare
per ragioni di urbanità e come elemento
d’ordine e di accuratezza».
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La comparsa della macchina, sia pure
tra parentesi, toglie alla manualità grafica il suo primato e conclude un ciclo storico. All’inizio del secolo scorso la calligrafia era insieme strumento di formazione morale e mezzo praticamente unico di comunicazione stabile del proprio
pensiero. Si doveva scrivere soprattutto
per gli altri, in particolare per i superiori,
a cui si doveva presentare il meglio di sé.
La democratizzazione della società e
della cultura e l’influsso prima del positivismo e poi dell’idealismo e dello spiritualismo hanno contribuito a ridimensionare gli aspetti estetico-formali della
calligrafia, togliendola dal suo aristocratico isolamento e legandola al disegno
da un lato e alla scrittura funzionale dall’altro. Si potrebbe dire che la scrittura
passa gradatamente dalla poesia alla prosa, dalla sacralità della prescrizione alla
funzionalità dell’uso.
I nuovi Programmi non rinunciano
a sottolineare questa sorta di desacralizzazione della calligrafia, che peraltro
era già stata notevolmente reinterpretata in funzione didattica nei programmi
precedenti. «L’insegnante — si dice nei
Programmi dell’85 — accetterà qualsiasi
tipo di testo che l’alunno voglia produrre e
collaborerà con lui per rendere i testi più
adeguati alle intenzioni».
Le prospettive del word processing
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
N
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el testo citato le motivazioni e il
contenuto prevalgono decisamente sulla forma. E ciò non solo per il
carattere funzionalistico della nostra
cultura, ma anche perché sono già comparse sulla scena, dopo le macchine per
scrivere, meccaniche, elettriche, elettroniche, che s’incaricano di garantire la
leggibilità e la precisione del singolo segno grafico, le più recenti macchine per
l’elaborazione della parola (word processing). Il word processor (WP) è un computer che consente di produrre e di manipolare testi con tale rapidità, docilità e
potenza di servizio da cambiare non
solo gli effetti formati, ma la motivazione, la metodologia e la qualità dello scrivere. Le esperienze finora condotte nella scuola media e nella scuola elementare danno ragione a questa prospettiva11.
Le facilitazioni tecniche, una volta pos-
sedute certe elementari abilità, consentono ai ragazzi di concentrarsi più sul
contenuto delle cose da dire che sulla
loro forma esteriore.
Non avrebbe senso opporsi alle novità in nome della facilitazione funzionale che le nuove tecnologie comportano, quasi che il valore di un’attività consistesse nel sacrificio che questa esige.
Ciò che importa è che non vadano perduti quei valori in vista dei quali si è
mobilitata la calligrafia del passato.
Sul piano sociologico non è difficile la
lettura di quello che sta accadendo nella
scuola. Come l’automobile non ha eliminato la bicicletta, come l’industria non ha
eliminato l’artigianato, ma ne ha modificato in modo talora valorizzante il ruolo,
così la videoscrittura e il WP non faranno
sparire la manoscrittura, ma le daranno
un ruolo più circoscritto. Non è lontano il
tempo in cui un WP portatile, di prezzo e
di peso sopportabili da chiunque, entrerà
nella cartella di ciascuno scolaro e di ciascuno studente. Non è dunque eccessivamente avveniristico l’impegno ad elaborare una pedagogia e una didattica della
scrittura che esplorino le potenzialità
educative delle nuove tecnologie, in rapporto a prospettive di valore che non restino al disotto delle elaborazioni fatte ai
tempi della penna d’oca, della sabbia e del
calamaio. Basti pensare alla ricchezza dell’approccio di un Freinet e di un Don Milani alla composizione di testi operativi e
alle potenzialità nuove che il WP offre all’invenzione, alla manipolazione, alla
confezione finale dei testi.
I Programmi dell’85 e quelli della
scuola media del ’79 forniscono indicazioni per l’educazione linguistica, e in
particolare per la produzione dei testi,
che giustificano un cambiamento di prospettiva, ma non un abbandono della necessità «artigianale» della manoscrittura.
11 Cfr. A. Calvani, L. Chiti, «Word Processor» e revisione: nuove possibilità per la didattica della scrittura?, in Le nuove tecnologie nei processi inforrnativi: Informatica e Telematica, Studi e Documenti
degli Annali della Pubblica Istruzione, n. 41-42,
Le Monnier, Roma 1988, pagg. 90-107; C. Pozzoli, Scrivere con il computer, Bompiani, Milano
1986; M. Formisano, C. Pontecorvo, C. Zucchermaglio, Guida alla lingua scritta, Ed. Riuniti,
Roma 1986; P. Lollini, Didattica e Computer, La
Scuola, Brescia 1985.
L
a svolta è storicamente e scientificamente plausibile, nella sua ispirazione
di fondo, ma risulta piuttosto carente per
ciò che riguarda il problema a cui sono
stati attenti i passati programmi. Si dice
che scrivere non è solo problema di manualità, il che è verissimo. Di fatto però è
anche questo. Si parla di aiuto offerto all’alunno a rendere i suoi testi più adeguati alle intenzioni. E un’indicazione preziosa, che però non prende in considerazione gli aspetti oggettivi e interpersonali
della comunicazione manoscritta.
Si cita giustamente la macchina: non
si nota però che, se la chirografia non è
più l’unico modo per lasciar traccia del
proprio pensiero, di fatto costituisce il
principale (se non unico) strumento di lavoro degli studenti, quasi fino alla laurea,
e che gli esami di concorso, per tacer
d’altro, si svolgono ancora integralmente
o in parte sulla base di prove manoscritte. Gli aggettivi con cui i programmi scolastici hanno qualificato la scrittura desiderabile (bella, buona, utile, chiara, spedita, snella, nitida...) risuonano certo con
diversa forza persuasiva in diversi contesti storici; e parimenti si percepiscono
con diversa ripugnanza le qualità opposte della bruttezza e dell’oscurità.
Ciò non toglie però che esista, ora
come allora, il problema della «qualità»
della comunicazione, che non può non
prendere in carico anche gli aspetti formali, si tratti del linguaggio parlato o di
quello scritto. Come non ci si veste solo
per ripararsi dal freddo, così non si parla
e non si scrive solo per farsi capire in
qualche modo. E non si può diventare
troppo dipendenti da quelle formidabili
protesi che sono le nuove tecnologie delle comunicazioni.
Libri e quaderni sgualciti e sgorbiati,
grafie equivoche ed incomprensibili, testi
poco curati nella disposizione delle parole indicano non tanto il marchio irripetibile della personalità individuale, quanto
un insuccesso comunicativo che si ritorce prima di tutto contro chi ne è l’autore,
talora senza sua esclusiva responsabilità.
Ma come i segnali stradali, i divieti e le
contravvenzioni non bastano allo scopo,
se non c’è e una forza interiore che si
esprima in consapevolezza dei valori che
sono in gioco, così a poco servirebbero le
righe nei quaderni, i modelli di ordinata e
bella scrittura tracciati sulla lavagna da
qualche eroico maestro memore di un’arte antica, e magari le note di biasimo sui
quaderni, se non si sperimentasse e non si
capisse il valore insieme universale, intersoggettivo e personale dei segni che si
tracciano sulla carta e magari sui cartelloni, per conservare e per comunicare a sé e
agli altri i pensieri, i sentimenti, le idee
che danno senso e valore alla nostra vita
o a qualcuno dei suoi momenti.
Non avrebbe senso tornare oggi alle
figure di Gaetano Giarrè: ma se non ci
lasciano indifferenti le penose scritte sulla metropolitana di ragazzi che usano
ciò che loro insegna la scuola per sfogare
la loro rabbia e la loro solitudine, vale la
pena che si dedichi un po’ di tempo a
chiarire con quali mezzi la scuola nazionale, tra poco federale, funzionale, pluralistica e democratica di oggi cerca di rispondere ai bisogni di armonia, di meraviglia, di ordine e di comunicazione che
appartengono ai giovani non meno che
agli adulti, di ieri e di oggi.
Questo orizzonte di problemi chiama in causa anche quel problema apparentemente neutro che una volta andava sotto il nome di calligrafia e che oggi
va sotto il nome di word processing i due
modi lontani e apparentemente, opposti per educare l’espressione e la comunicazione attraverso la scrittura.
PAOLO A. PAGANINI
Ringraziamo con simpatia e cordialità
il professor Luciano Corradini, perché dopo
il poeta Raboni abbiamo scoperto in Corradini un acuto e disincantato poeta dell’educazione. Vorrei anche salutare un altro poeta, un poeta veneto, che ci ha raggiunti oggi,
Gian Girolamo Borgo, di Verona.
(Applausi).
Ed ora un personaggio, che occupa nel
giornalismo e nella ricerca universitaria un
ruolo di primo piano: polemista, saggista,
critico teatrale, docente di Semiotica all’università di Torino, siamo lieti di avere fra
noi Ugo Volli.
RIVISTA DEGLI STENOGRAFI
Considerazioni conclusive
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