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Gianni Bartolomei
Il Salto della Sposa
Romanzo
GraphicVit Editrice
© Copyright Gianni Bartolomei - Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, della forma e dei contenuti del presente
lavoro, tramite qualsiasi mezzo, senza previa autorizzazione scritta di Gianni
Bartolomei.
ISBN 978-88-908965-1-4
A mia madre
Vittoria Bartolomei
Ziziphon
te l’avevo promesso il giorno di Natale di
un anno fa.
NATALE 2013
Ai miei amici Orsi Polari.
Alla femmina che arrapa, e che è donna.
A tutte le Ziziphon della Terra,
sopravvissute alla mannaia del femminismo.
A tutte le madri, perché combattano sempre la mammina nascosta: senza darle tregua.
Ai miei figli, agli anelli precedenti e successivi perché si salvi un filo di pazzia.
Ai miei amati anellini Francesca e Agata
perché crescano donne felici e diventino
mamme capaci.
Cecilia ha seguito
con tanta pazienza
quest’avventura di carta
In ordine di entrata:
Il Commercialista
La Pedagogista
La Cuginetta
L’Editore
La Segretaria
Il Giornalista
La Psicologa
Il Commissario
Il Maresciallo
La Cugina
Il Palazzinaro
L’Ucraino
La Califfa
La Vice nonna
La Geometra
Ricciolo
Il Cambusiere
Il Giardiniere
L’Architetta
La Zia
L’Ereditiera
Muriel
Slanda
La Lettrice
L’Aquila
Noi possiamo dire il vero soltanto narrandolo attraverso la finzione e la
metafora, usando fatti accaduti e parole pronunciate nella realtà.
Gianni Della Vittoria
(Taccuino, pagina 11)
L’ANGELO STERMINATORE
per distinguerci dagli altri animali
siamo costretti a raccontarci da uomini
con attrezzi ridicoli che producono segni
chiamati parole (G.d.V.)
I
Il Ritrovamento
L’autopsia stabilì che i due coniugi erano morti avvelenati, lui ne
aveva cinquantotto, lei sessanta. La presenza di molecole amanitine e falloidine, specificate sul referto, suggeriva l’ingestione del
fungo che non perdona.
L’Amanita Phalloides è la leggenda del diavolo: affascinante e accessibile, vive in gruppetti aristocratici sotto una quercia o un castagno, può ripararsi all’ombra di un nocciolo o crescere talvolta
lungo una pioppeta. Ti aspetta ovunque e si offre col suo aspetto
innocente, ma basta ingoiarne un frammento e sei spacciato.
Quella domenica sera, marito e moglie dovevano tornare in città
dalla casetta isolata su nella macchia, priva di luce e di telefono. Nemmeno il cellulare prendeva il segnale nel risego in cui
era piazzata. Il lunedì, alle dieci, avevano appuntamento con gli
acquirenti del loro negozio di merceria, di cui volevano liberarsi per avere finalmente più tempo da dedicare ai propri hobby.
Uno di questi era proprio la raccolta dei funghi.
La mattina presto era toccato alla figlia diciassettenne e alla nonna andare a cercarli. Li trovarono distesi a traverso sul letto grande, supino e prona, con la faccia appoggiata al petto del marito,
la cartilagine del naso girata di novanta gradi, stecchita, come
fosse stata spinta verso sinistra.
Le due donne furono costrette a tornare indietro finché, alla
piazzola dove avevano lasciato la macchina, sul display del cellulare ricomparve il segnale. La ragazza istintivamente chiamò
la sorella, che risultò irraggiungibile, cosa da prevedere siccome
era partita da qualche giorno per un lungo viaggio con un amico,
l’ultimo fidanzato in ordine di tempo.
Soltanto allora fece il numero del Pronto Soccorso, cercando di
spiegare dove si trovavano, impresa non facile data la zona fuori
mano e le parole che le uscivano a frammenti, tra i singhiozzi
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trattenuti. Tornarono su, dove i poveri corpi gelavano il fresco
dell’autunno.
Nel primo pomeriggio giunsero i carabinieri, che avevano fatto
salire sulla jeep un medico e un’infermiera: l’ambulanza non ce
l’aveva fatta a superare l’ultima pettata sconnessa.
I sopravvenuti poterono soltanto costatare l’irreparabile.
Il medico disse che i segni erano di avvelenamento e lo stadio
di rigor mortis indicava che il decesso era avvenuto da circa
ventiquattr’ore. Il fatto che la donna fosse appoggiata sul petto dell’uomo mostrava che probabilmente gli era sopravvissuta,
fosse stato anche di poco.
La presenza di una padella in cucina, già lavata ma non tornata
al proprio posto, e le rimanenze di pulitura di funghi visibili nel
secchio, suggerivano quale fosse stato il menu del loro ultimo
pasto.
I militari, a quel punto, pregarono i presenti di uscire dalla casa
per evitare l’ulteriore incremento di impronte e la manomissione, in qualsivoglia modo, dello stato degli ambienti e delle cose.
Via radio informarono il loro comando e, dopo poco, ricevettero l’ordine di attendere l’arrivo del magistrato di turno.
Il medico prestò attenzione alle due donne, che si trovavano in
condizioni deplorevoli. Somministrò un farmaco alla signora e
fu preparata una bevanda calda per tutti.
Sorgeva la luna quando giunse, con una jeep della Guardia Forestale, il Magistrato. Ripartì quella dei carabinieri, dove erano state
fatte accomodare da un paio d’ ore le donne, che nonostante
le coperte erano esauste e infreddolite. Tornarono con la loro
macchina, guidata fino all’abitazione da un poliziotto di un’altra
pattuglia, in attesa sulla piazzola.
In nottata fu avvertito il fratello del defunto, residente nel paese
di origine della famiglia, distante duecento chilometri. Giunse
con la moglie, nella prima mattinata, dicendo che la figlia era
dovuta restare a letto con un febbrone.
Fu un caso che il fratello non fosse stato alla Baita con la coppia:
era ripartito il martedì precedente, appena cinque giorni prima,
dalla città dove aveva l’azienda tipografica, l’amministrazione
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della casa editrice e un appartamento a due passi dalla ditta. Anche lui appassionato della vita nel bosco, aveva rifiutato la presidenza del circolo micologico dove si recava in ogni ritaglio di
tempo libero e quasi sempre in occasione di mostre e convegni,
a cui partecipava attivamente.
« Ma saranno stati i funghi? » chiese l’Editore al medico loro
amico, giunto a fargli le condoglianze.
« Era troppo esperto mio fratello, e anche mia cognata non poteva confondere un porcino o un ovulo con il fallo maledetto »
ripeteva di continuo.
« Lo sapremo con l’autopsia che il Magistrato, di fronte a questa
duplice morte, avrà già disposto… - gli rispose il dottore - Anche lui probabilmente ha considerato quanto tu sostieni… e poi,
si ha un bel dire, ma questo decesso sincronico sconcerta: il veleno non fa a tutti lo stesso effetto e di certo non tutti hanno lo
stesso metabolismo cellulare, tanto meno epatico » poi aggiunse:
« Colpiti tutti due da un’epatite fulminante, dotata di cronometro. Bah, vedremo... ».
Non fosse servito ad altro, le ipotesi e le supposizioni davano
all’Editore il modo di frazionare la concentrazione ossessiva sulla stanza dove glieli avevano mostrati sul lettino di acciaio, scoprendoli per un momento.
Intanto alla Baita era giunta la Scientifica a studiare tutti gli oggetti, che nell’inventario diventano reperti numerati al pari di
quelli degli archeologi.
L’età dell’oggetto ha un valore molto relativo per la funzione che
vorremmo assegnare a ogni reperto, da cui pretendiamo risposte:
che sia passato un millennio o un giorno, la traccia che cerchiamo nel passato non è mai troppo netta, la relazione sistematica
con gli altri oggetti è spesso dubbia e, quando arriva il momento
di tirare le somme, i conti il più delle volte non tornano.
La conoscenza dei fatti pretende l’uso dei nostri sensi. Dobbiamo vedere, sentire, toccare, odorare, assaggiare. E quando succede qualcosa dobbiamo essere presenti. Poi, tanto, c’è da discutere lo stesso. Figuratevi ora che le pentole e i tegami, le sedie e i
tavoli, il letto, i pavimenti e le pareti, avrebbero dovuto restituire
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la parola a quei due miseri corpi senza vita.
Sì, la meccanica permise subito di stabilire che nella Baita c’era
stato qualcuno, di recente, estraneo ai due scomparsi: furono
rilevate tracce di un piede numero quarantasei che si era mosso soprattutto in cucina e in bagno. Ma le tracce sulle tavole di
quercia del pavimento, non avendo spessore, fornivano soltanto
il perimetro del piede, ancora visibile oltre la porta d’ingresso.
Aveva piovuto e i cinque scalini che raccordavano la piattaforma
della casa al terreno, lavati a dovere, non mostravano più niente
del percorso di chi era uscito.
I chimici stabilirono che i due soggetti avevano mangiato, “ingerito” dicono loro, quei veleni del fungo che da giovane somiglia
a un pene, ma che invece della vita dà la morte.
Però l’analisi delle rimanenze di pulitura, trovate nel secchio, risultarono di funghi commestibili e niente affatto tossici o velenosi.
Con l’indagine anatomopatologica si erano rilevati segni di sofferenza nell’apparato respiratorio, associabili a un fenomeno di
asfissia.
Aggiungendo la logica alla meccanica e alla chimica, si poteva
affermare semplicemente che i coniugi erano morti avvelenati e
che in casa erano state presenti una o più persone oltre a loro. Il
dato però contrastava con il fatto che i due erano partiti da soli
e, secondo quanto dicevano la figlia e la nonna, da soli erano
rimasti, come accadeva quando andavano lassù. Con “soli” si
intendeva anche in presenza di familiari: quando le ragazze erano bambine, i genitori le portavano spesso, ma soltanto loro. E
accadeva ancora.
D’altronde, che il titolare di quei piedi sconosciuti fosse un viandante era poco probabile: i passanti in un posto così sperduto
non costituivano certamente una folla; un boscaiolo, comunque,
un camminatore o un cercatore di funghi, un cacciatore poteva
essere transitato di lì. Ma perché uno sconosciuto, ammettendo
che lo avessero invitato a mangiare (cosa che le due donne escludevano), avrebbe dovuto muoversi tanto in cucina?
A complicare le cose si aggiunse la scoperta di due orme all’e16
sterno della casa, di identico perimetro di quelle visibili all’interno. Si erano salvate dalla pioggia sotto la tettoia della legnaia e
la terra argillosa, umida per la stagione e le condizioni atmosferiche, aveva stampato due piante che avrebbero soddisfatto le
esigenze di un ciabattino. Ecco, ora, attraverso la pressione nella
terra, si poteva rilevare, oltre alla foggia della suola, la profondità
dell’orma tanto da ipotizzare la stazza della persona che calzava
quelle scarpe.
E qui venne il bello: il titolare delle scarpe poteva pesare al massimo una quarantina di chili. Il peso di un ragazzetto o di una
donna molto giovane o piccola... Ma con un quarantasei di piede? Un mostro.
Seguirono i soliti interrogatori a tappeto e indagini a tutto campo, anche a trecentosessanta gradi, come sogliono dire. Una parte della pratica arrivò sul tavolo della Guardia Forestale, perché
di boschi e dei suoi frequentatori doveva saperne di più. La incaricarono di redigere una mappa delle case abitate e abitabili in un
vasto raggio, messe in relazione con le caratteristiche e abitudini
dei proprietari, e di compiere tutte le verifiche del caso.
Il Commissario, a cui furono affidate le indagini, vide subito nel
quadro una decisa tinta gialla: in primo luogo dispose l’interrogatorio di quanti fossero riconducibili alla famiglia di quelle
che, nel riserbo degli uffici giudiziari, si cominciavano a chiamare “vittime”.
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II
Un Quadro Cubista
Già la madre della defunta, durante la lunga attesa, aveva fatto un quadro della famiglia ai carabinieri, circumnavigando le
immagini di mezzo secolo, per giungere all’ultima volta in cui
s’erano visti. Aveva accostato una marea di fotogrammi, dando
alla storia la rappresentazione di tipo cubista che nasce da chi,
immerso nel dolore, non riesce e non vuole dare precedenze né
fornire maggiore o minore importanza a questo e a quello. In
certe situazioni estreme il mondo non ha più prospettiva, si decolora e diventa piatto. Così, ogni ricordo si ingigantisce e la cronologia viene ripudiata perché eliminandola non esiste la morte.
In questa cornice di pena, la nonna tentava ugualmente di ricreare con le parole la vita scomparsa, mettendo in fila i pezzi
del passato, costringendolo nell’impossibile ruolo di sostituire
l’inaccettabile presente. Perfino il Maresciallo si trovò coinvolto
nella paradossale contraddizione, da cui cercava di riemergere
con i grotteschi suggerimenti di chi, pur non conoscendo i fatti,
suggerisce rettifiche al racconto, per fornirgli la consequenzialità
che gli viene a mancare.
Da questa traccia iniziale seppe che il genero era giunto quasi quarantanni prima in città, appena diplomato ragioniere, con
un gruzzoletto ricavato vendendo la terra ereditata dai genitori,
scomparsi prematuramente.
Iniziò lavorando nell’ufficio del babbo di un suo amico, impresario edile emergente nel dopoguerra, che più tardi sarebbe divenuto un ricco palazzinaro. Conobbe la ragazza che avrebbe
sposato, anche lei appena diplomata, e si fidanzarono. Si iscrissero all’università, lui a Economia e Commercio mentre lei, che
veniva dalle magistrali, a Pedagogia.
Si sposarono dopo due anni e dopo altri tre ebbero la prima
figlia. La mamma, vedova e ora nonna, aveva un piccolo ma
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redditizio negozio di merceria che gli sposi ingrandirono e potenziarono, collaborando con la donna, che si sarebbe più tardi
dedicata a tempo pieno alle nipoti quando, dopo molto tempo,
diventarono due.
Il fratello rimasto al paese, di tre anni più grande, ebbe una storia in fotocopia. Iscritto al primo anno di Lettere, conobbe una
maestrina molto attraente che, non lontano dalle scelte della
futura cognata, frequentava Psicologia. Si laurearono insieme e
si sposarono. In tempi strettamente biologici ebbero una figlia.
Più tardi, la donna sarebbe diventata direttrice di una Scuola per
bambini in età prescolare (allora Asilo, poi Materna, poi dell’Infanzia: alla faccia della nomenclatura che spesso viene costretta a
definire contraddizioni evidenti, come “scuola prescolare”).
Il suocero era un tipografo sopravvissuto alle botte dei repubblichini: non era stato gradito l’uso che aveva fatto di un bancale di
carta. Subito dopo la guerra, dismessa la stampa di manifesti, le
legnate fasciste furono il miglior biglietto da visita per le amministrazioni repubblicane, da cui ebbe buone commesse.
Il genero era attratto dal mondo della tipografia e cominciò a
far capolino in azienda, curiosando dappertutto, ben accolto dal
suocero che non vedeva l’ora di avere qualcuno che gli desse una
mano. Diversamente dalla suocera che, già molto gelosa per la
figlia maritata, intravvedeva nell’ingresso del genero in tipografia
un’ulteriore diminuzione del proprio potere, dispotico su tutti i
familiari, imposto dal momento in cui si era sposata. Noncurante, il nuovo arrivato prese sempre più campo e, quando propose
di acquistare una macchina offset nuovissima, il suocero fu entusiasta, mentre la suocera scatenò il finimondo domestico.
Pensò di rivolgersi al fratello, che nel frattempo si era laureato
aprendo quasi subito uno studio da commercialista. Gli chiese
di informarsi se in città fosse stato possibile rilevare una piccola
attività litografica già esistente, in cui avrebbe investito volentieri
la propria metà del ricavato della vendita dei loro terreni.
L’occasione non tardò a presentarsi, benché la cifra richiesta andasse oltre quella massima prevista. E non poteva essere altrimenti, dal momento che l’ambiente da prendere in affitto era
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spazioso, ben messo e in una posizione ottima; le macchine in
uso da acquistare erano Heidelberg di recente costruzione, una
quattro e una due colori, cento per settanta. Fatto di non poco
conto, per far marciare l’azienda, fu la presenza di un macchinista molto capace, disposto a restare, così come altre quattro
persone, di cui due avevano un trascorso decennale in ditta.
L’affare venne combinato, ottenendo che una parte del pagamento fosse dilazionata. Da quel momento, certi lavori molto
curati di tipo editoriale, verso cui il genero aveva orientato la
tipografia in paese, furono eseguiti dalla nuova ditta anziché darli
a stampare a una tipografia locale più attrezzata.
Apriti cielo della suocera che cominciò a scalciare contro i due
uomini, nel silenzio della figlia per cui la madre aveva immancabilmente ragione. Per la prima volta (*) nella vita, il vecchio
tipografo, dopo aver spiegato che il lavoro svolto dalla ditta del
genero, oltre che migliore veniva anche a costare meno, osò alzare la testa intimando alla moglie di stare calma. Questo bastò
perché la donna arrivasse a minacciare la separazione.
Ricevuta un’estesa infarinatura sulla vita dei due fratelli e famiglie, il Maresciallo chiese alla signora di quando aveva visto gli
scomparsi per l’ultima volta.
« Mercoledì, sì, mercoledì - ripeté la donna - Era il compleanno
di mia nipote, che ora è in viaggio e non si riesce a rintracciare.
Cenammo tutti insieme terminando con la torta e le candeline,
ne ha finiti trentaquattro… oramai è una donna »
« È partita da sola? E dove è andata? » le chiese il Maresciallo
« No, l’hanno chiamata poco prima che si mettesse in tavola la
torta e lei ha risposto, credo, con un messaggio... ho visto che armeggiava con il telefonino... suo padre era nero, aveva notato la
valigia e una sacca pronte nel corridoio e le ha detto “Sei appena
tornata e riparti un’altra volta?” e rivolto a mia figlia: “ Questo
non è un albergo, mettetevelo in testa: dobbiamo tenerle anche
la bambina?”, al che mia nipote ha risposto che la bambina sarebbe rimasta con i nonni paterni... »
« Ma è sposata? - riprese il Maresciallo - Allora è partita con il
marito oppure... »
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« No, non sono sposati; hanno avuto questa figlia, ma non sempre vivono insieme »
« Ma allora con chi è partita? »
« Verso le undici ha squillato il telefonino e lei è scesa in strada
con le sue cose. Dalla finestra ho visto che l’aspettavano in macchina ed è salita »
« Chi l’aspettava e dove è andata? », ora stava prendendo il sopravvento la deformazione professionale del poliziotto che fino
a quel momento si era lasciato prendere, più che dalla storia, dal
dramma delle due donne, che tanto, aveva pensato, sarebbero
state sentite a verbale.
« Non lo so, penso con uno straniero che frequenta ultimamente; non l’ho mai visto, ma ho sentito la sua voce un paio di volte
in cui l’ha cercata al numero di casa »
« I genitori quando sono partiti? Venivano quassù per i funghi? »
« Certamente. Il babbo avrebbe voluto che li accompagnasse lei »
disse indicando la nipote rannicchiata sulla poltrona vicino al
camino, poi continuò: « Le bambine sono cresciute raccogliendo
i frutti stagionali del bosco, mio genero ripeteva che bisogna
vivere a contatto con la natura e approfittava di ogni momento
possibile per lasciare la città, portandosi perfino dietro il lavoro:
si è diviso tra il suo ufficio, l’amministrazione dell’impresario
edile che non ha mai abbandonato, seguiva anche la nostra merceria. Ora cominciava a rallentare e la vendita del negozio era il
primo passo. »
« Va bene, ma poi quando sono partiti? »
« Hanno atteso che tornasse da scuola lei, che non ha voluto
accompagnarli - e la donna aveva abbassato di colpo la voce Sa, Maresciallo, se ne potrebbe sentire responsabile: ha detto al
babbo che doveva andare da un’amica, che dovevano studiare
insieme... in realtà la sera dopo era venerdì e non aveva voglia di
rinunciare alla discoteca per i funghi, è giovane... Loro sono partiti la sera, saranno state le sei... giovedì sera... e li ho rivisti solo
adesso, qui… » concluse comprimendo la bocca con il fazzoletto
con cui s’era appena asciugata gli occhi
« Allora vi siete visti per l’ultima volta giovedì, signora, e non
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mercoledì »
« Sì, con loro giovedì ».
Questo e molto altro disse la nonna al Maresciallo dei carabinieri. Della rappresentazione cubista, di cui si è detto, abbiamo
fatto una breve sintesi. Altrettanto fece il Maresciallo inoltrando
una relazione al sostituto Procuratore della Repubblica di turno.
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III
La Cugina
La viaggiatrice, partita il mercoledì prima della tragedia, fu rintracciata dopo venti giorni dalle autorità, che l’avvertirono di
quanto era successo. Dopo essere stata in un club in Calabria,
un rifugio sull’Etna e in albergo a Gibilmanna, fu trovata a Lampedusa in compagnia di un quarantenne di origine ucraina, probabilmente lo stesso che era giunto quella sera a prenderla sotto
casa. L’uomo risiedeva da molti anni in Italia e aveva in città un
ufficio di import–export; viaggiava di frequente, tornando spesso in patria, pagava le tasse e rispettava le leggi del Paese che lo
ospitava.
Rientrarono subito. La ragazza pianse con la nonna e con la sorella e si recò insieme a loro al cimitero dove i genitori erano
stati appena sepolti, dopo che l’Istituto di Medicina Legale aveva
concluso il proprio compito ed era giunto il nullaosta del Magistrato.
Venne convocata da un commissario di polizia, che raccolse a
verbale le sue risposte a domande più o meno identiche a quelle
già poste ai familiari, aggiungendo se facesse uso di stupefacenti.
« In passato: sono stata curiosa… » rispose.
« Ci risulta che lei ne faccia uso tuttora e che il suo discontinuo
convivente, padre di sua figlia, spacci, seppure a piccolo livello ».
La donna, che sembrava seduta sulla brace e continuava ad appoggiare il piede destro spingendo sulla punta, facendo vibrare
la gamba, balbettò qualcosa che non si capì. Come tutti gli altri
fu pregata, appena firmato il verbale, di camminare su una specie
di guida di carta assorbente, spessa come un tappeto.
Navigava al buio il Commissario, ma non riusciva a cavarsi dalla testa le impronte rilevate alla Baita. Insisteva nonostante le
delusioni: esempio, l’impronta più grande, lasciata sul tappeto
della polizia, era quella dell’Editore, un quarantaquattro, con un
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peso di novantatré chili. E ora la viaggiatrice vi imprimeva un
trentotto, un piedino di una volta che non appartiene più alle
generazioni atletiche yankee life. Il peso era cinquantacinque. Il
Commissario le disse che poteva andare, ma che forse l’avrebbe
richiamata.
Era ancora bella, ma era stata bellissima prima di una serie di
amori da definire repressi, troncati ingiustamente per accondiscendere alle velleità materne, coltivate nel clima snobistico della
società micro borghese da cui provenivano, ma soprattutto legate al senso del possesso che nutriva la madre immatura verso
le figlie.
Aveva conosciuto amore e sesso a quindici anni, concentrando
fortunatamente le due componenti nella stessa persona. In questo caso un ragazzo di ventidue, con la testa a posto e un lavoro
sicuro, che però non era ritenuto prestigioso in casa. Faceva il
vigile.
La china della ragazza cominciò a diciottanni, con la decisione
di accontentare sua madre e poi di voler rientrare nel suo abito
da sposa.
La famiglia era cristiano-cattolico bigotta, praticante di quella
cultura mai accantonata che ha provocato nel tempo scismi e
cosiddette eresie, periodicamente riscattate da sant’uomini che
il potere temporale della curia ha saputo sfruttare adeguatamente. E quando non li ha soccorsi un Agostino, un Francesco o
un Bernardino, le eresie sono state represse da intellettuali così
astuti da permettere che, nonostante ribellioni platealmente motivate come quelle di Lutero, Roma ha continuato a vendere il
Paradiso, tenendo a guinzaglio l’inferno, gozzovigliandoci a bizzeffe.
La ragazza aveva diciotto anni scarsi, quando approfittando del
giro dei ritiri in questo o quel cenacolo, arrivò a partecipare a
uno di prima categoria a Milano, dove erano presenti ragazzi e
non più ragazzi, catecumeni e laici volenterosi d’imparare come
si devono percorrere le strade maestre dello spirito. Furono tre
giorni di piccoli e medi flirt e di scambi di indirizzi.
Dopo un mese, la ragazza, anziché recarsi a dormire da un amica
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come disse in casa, salì sulla macchina di un ultracinquantenne,
conosciuto al ritiro spirituale, che la portò in una prigione di
stato, di cui era direttore.
Quella notte di peccato, concessa senza riserve a un uomo dell’età di suo padre, le fu sufficiente per sentirsi abbastanza in colpa
verso il fidanzato che, dopo sei anni insieme, credette di dover
ripagare con un atto di lealtà (tale volle considerarlo). Così lo
lasciò, giustificandosi con sé stessa di essere andata a letto col
carceriere solo per poter lasciare il vigile, con cui doveva chiudere per accontentare la madre: scopo finale che redimeva qualsiasi comportamento. Per il povero fidanzato, con cui sembrava
filasse tutto liscio, fu un colpo durissimo: lui neanche sospettò
di essere stato tradito e tantomeno gli fu concesso di intuire, naturalmente, la catena mentale con cui la gatta morta aveva agito.
Rotto l’argine, la Cugina si mise in contatto con un altro “ritirato”, stavolta un po’ più giovane, ma particolare per chi come lei
viveva in una casa ben arredata, due bagni, col latte di gallina nella dispensa. Era un teatrante e viveva in una roulotte: l’aspettava
tutto il giorno per essere scopata a fine spettacolo.
Poi, sempre in quel periodo, accadde che un giorno sua madre
le mostrò il suo abito da sposa, che risaliva a quando aveva la
stessa età di lei. Provò a indossarlo, ma le risultò impossibile. Da
quel momento passò ore allo specchio a misurarsi e a constatare
le eccedenze, mettendo in discussione tutto il ben di Dio che
aveva amato il vigile e che avevano poi fottuto il carceriere e il
teatrante.
La donna bellissima cominciò, quando era sola, a non mangiare,
a sputare il cibo sul tovagliolo quando doveva fingere o a correre
a vomitarlo quando era costretta a dimostrare che mangiava.
Superato alla meglio il periodaccio, le sarebbero comunque rimasti segni indelebili in tutto il corpo: il seno, rigoglioso, le si
era come ripiegato a libretto e alcune parti ossee, denutrite nel
momento dello sviluppo, erano rimaste cartilagini, presentando
un’estrema fragilità. Della mente si vedrà più avanti.
Decise di ripartire con un fidanzato. Nonostante i guasti che si
era procurata, restava una calamita per gli uomini.
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Si mise con un neolaureato in ingegneria, tre anni più grande,
di vecchia famiglia di proprietari terrieri, convinta che stavolta
avrebbe funzionato per sé e per la mamma. Non fu così. Era andata a convivere in una bella villa con tanto di parco, giardiniere
a tempo pieno e due persone di servizio. Magari si sarebbero
potuti anche sposare, ma la mamma non resse e sobillò a tal
punto il marito che un giorno, accompagnato da un suo cugino,
si presentò al cancello e fece un tale finimondo che l’ingegnere
non vide di meglio che restituire la bambola.
Allora si mise con un giovane e valente avvocato, ma la mamma
disse che era troppo bello, che l’avrebbe fatta soffrire perché la
stoffa era quella del puttaniere.
Infine si fidanzò con un medico, tra l’altro ricco di famiglia, e
stavolta davvero si sentì odore di confetti. Senonché, proprio il
medico aveva il vizio di sniffare e quando era l’ora di far l’amore
spesso era suonato. Una sera arrivò il fornitore di sogni e se la
trombò. Finì con il droghista, gli diede una figlia, misero su casa
e passavano dei periodi insieme. Al momento della tragedia la
donna, come sappiamo, era con il cittadino Ucraino.
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IV
Il Cantiere
L’Editore e la moglie si trattennero in città finché non tornò la
nipote, che lui vedeva con gli occhi del fratello, disperato per i
ménage della figlia. Sentimento ora ingigantito dalla sua scomparsa.
C’erano da sistemare tante cose e l’Editore sentì la responsabilità
di prendersele tutte come proprie. Le tre donne avevano solo
loro come famigliari: erano quindi diventati un naturale punto
di riferimento.
Il negozio era già in parola e la nonna, che l’aveva lasciato da
anni nelle mani dei giovani, si mise comunque a disposizione
per quel che poteva servire; per lo studio da commercialista cominciarono a parlare con la dipendente più anziana, che espose
la situazione all’Editore, uomo ormai navigato anche nel campo
amministrativo: il più grosso cliente rimaneva il Palazzinaro, tanto che il Dottore, disse la signora, si recava settimanalmente nel
suo vecchio ufficio al Cantiere, come continuavano a chiamarlo,
anche se era divenuto un ponte di comando lontano dal cemento e dai muratori. L’amministrazione del Cantiere costituiva un
settore a sé, che il Commercialista curava personalmente. Per
il resto c’erano due ragazze che seguivano le pratiche di routine, piccole amministrazioni, denunce dei redditi, all’inizio anche
condomini, ma di questi ne era rimasto soltanto uno: guarda
caso legato a una signora che era la compagna del Palazzinaro,
vedovo da molto tempo.
L’Editore aveva conosciuto, prima del funerale, questo impresario che nella rico(di)struzione urbanistica del dopoguerra aveva
fatto i budelli d’oro. In più occasioni, il fratello gliene aveva parlato, descrivendolo così bene che non gli apparve come faccia
nuova; perfino l’abbigliamento, un’eleganza da gangster amico di
Frank Sinatra, gli sembrò del tutto normale, compreso l’anello al
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mignolo con vistoso brillante e un canino d’oro, segni inequivocabili di una certa ricchezza acquisita, esibita e datata.
Diversa e imprevista fu l’impressione che ebbe recandosi a trovarlo al Cantiere, come gli era stato chiesto.
Il Cantiere era un palazzo conformato a torre, non a grattacielo, che a partire dall’ingresso, contrastava con la figura del boss
giunto in chiesa al funerale facendosi precedere da una vistosa
corona di fiori.
La sigla del Cantiere CP in acciaio, ben visibile sulla facciata, si
ritrovava, con le dovute proporzioni, dappertutto: due iniziali
incrociate come la I e la S di Isotta e Sigismondo che si ripetono
ovunque al tempio malatestiano. Non era certamente un Leon
Battista chi l’aveva progettato, benché fosse riuscito a fornire
a un enorme blocco di uffici i connotati da palazzo del potere
voluti dal committente.
Visto lassù, dopo essere giunti dentro l’ascensore di vetro al decimo, undicesimo piano, l’uomo non era più quel misto di commendatore e cavaliere che non avrebbe meravigliato nessuno se
avesse concesso un prestito pretendendo il 100% di interessi:
lassù era un capitano di industria, un decisionista, un capo, uno
che sta in una cupola.
Esauriti i convenevoli, fatte transitare scenograficamente due
giovenche simil televisive veline, con la scusa di offrire un drink
all’ospite, il Palazzinaro disse al citofono che non ci sarebbe stato per nessuno. Poi invitò l’Editore a seguirlo.
Quasi al centro del grande salone c’era una colonna cilindrica in
muratura che, attraverso una greca raccordata al soffitto, costringeva lo sguardo a partire dall’alto per raggiungere il pavimento
con un cilindro di vetro, interrotto da quattro costole di acciaio:
una vetrina con tre ripiani dove erano esposti oggetti in metallo,
in vetro e in ceramica.
« Vede, qui tengo la sintesi del progresso umano: in alto la porcellana Han e Tang e in mezzo un Celadon, con cui dopo mille
anni i coreani superarono i cinesi; sulla mensola in basso c’è il
meglio dell’Occidente: una ceramica cretese di quindici secoli
prima di Cristo e un idolo egizio ancora più antico; gioielli etru28
schi, la moneta delle monete ossia il decadramma di Siracusa
con cui il tiranno finanziò la guerra del Peloponneso, una Kilix
attica con il dio che guida i nostri destini, Dioniso; sulla mensola
centrale, ignorando la cronologia e dando spazio al gusto, c’è il
nostro Rinascimento: quella brocchetta è probabilmente il pezzo più importante che possiedo, è una porcellana medicea, poi...
ma a proposito: lei ama l’arte? »
« Non mi è estranea, ma sono lontano da questo livello di conoscenza specializzata »
« Non faccia caso al mio parlare da cicerone, ho degli specialisti
e spero proprio che non si siano sbagliati: quando parlo, ripeto
la lezione »
« Ora non esageri, non faccia il modesto; se è una lezione l’ha
imparata bene ».
Il cavaliere (ora veniva da chiamarlo così, il Palazzinaro) tornò al
proprio tavolo e, senza sedersi, compose una combinazione su
di una tastiera vicino al telefono. La vetrina del progresso umano
cominciò lentamente a discendere fino a scomparire nel pavimento dove apparve un cerchio di acciaio, che poi era il cappello
della vetrina stessa. A quel punto una lamella sottile, sempre trasparente, ruotò lasciando un’apertura nel cilindro di vetro.
« Entri, la prego »
L’Editore per un momento pensò alla porta di una banca, poi
temette di entrare in uno di quei marchingegni che ti smaterializzano per poter viaggiare nel tempo: vuoi vedere, pensò, che
ora mi porta a Creta, a Roma, a Firenze e mi fa conoscere chi ha
fatto gli oggetti che abbiamo appena visto?
La lamina-porta si richiuse e, mentre l’ascensore partiva, il cavaliere (o commendatore, o Don?) gli disse:
« Vede, quando ho messo in moto la trasformazione, ho chiuso
anche gli accessi all’ufficio, perché soltanto quattro persone conoscono il mio piccolo segreto e nelle quattro è compreso lei,
che da oggi mi auguro vorrà rimpiazzare il suo povero fratello ».
Dopo poco approdarono a una terrazza che all’aria aperta sembrava sconfinata. Si trovarono in un giardino, curato evidentemente da un professionista, che terminava giù in fondo in uno
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strano gazebo, tutto nero.
« Ecco il mio rifugio, tutto ciò che mi sono potuto permettere
lavorando mezzo secolo. Il mio amico più fidato è il giardiniere.
Se guarda alla sua destra, vede una specie di tombino: è un altro
ascensore, abbastanza grande e robusto, che parte dal sottosuolo
dell’edificio, mascherato adeguatamente; un giorno, se le interessa, le farò scoprire il giochetto che si è fatto per nasconderlo.
Da qui giunge tutto quel che serve. Ma ora, prima che mi metta
a parlare dei fiori, che sono una mia grande passione, veniamo a
noi, al motivo per cui l’ho invitata ».
L’Editore cominciò a preoccuparsi. Un uomo di quel genere,
che lo aveva incluso tra i quattro visitatori del suo giardino, intendeva chiedergli qualcosa di importante: l’averlo messo a parte
del segreto significava dare per scontata una risposta positiva alla
richiesta che stava per fargli. Si sentiva nella condizione di chi,
entrato in un giro illecito, intende dire al capo che vuole uscirne.
E il suo disagio crebbe quando il padrone di casa si avviò verso
la loggia – così lo chiamò indicando il gazebo nero - informando
l’ospite che tale ambiente era isolato, al riparo da qualsiasi tipo
di grande fratello. Si trattava di un altro ufficio, munito di ogni
comfort e attrezzato per rimanervi sia a mangiare che a dormire:
una roulotte enorme con tutti i servizi.
« Man mano che cambia la luce le pareti si adeguano, sono fatte
di lastre fotosensibili con intercapedini che mantengono costante la temperatura. Ora però basta, l’avrò annoiata a illustrare tutte le mie bizzarrie »
« Niente affatto, di certo mi ha sorpreso, non capita ogni giorno di entrare in un mondo così e devo ammettere che non mi
aspettavo... »
« Con suo fratello ci riunivamo spesso qui, almeno una volta al
mese; sa, è cresciuto con me, era ventenne quando arrivò e fu
raccomandato da mio figlio. Ancora costruivamo palazzi condominiali e ci occupavamo di prefinanziamenti per gli acquirenti.
Facevamo un po’ di tutto per mantenere un cantiere, con una
cinquantina di operai da pagare a fine mese. Poi passammo alle
grandi imprese. Mio figlio volle imbarcarsi nei lavori in Africa:
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costruimmo strade, anche una grossa diga. Accidenti all’Africa.
Di soldi se ne sono guadagnati una montagna, ma l’Africa s’è
presa mio figlio... un incidente con un piccolo aereo, usato per
arrivare dappertutto, dai cantieri stradali a quello della diga... maledetta Africa »
« Mi dispiace, l’avevo saputo. La notizia comparve su tutti i media... »
« Da allora ho abbandonato l’Africa... ci siamo spostati all’Est,
diversificando i campi di interesse; quanto alle costruzioni, si
lavora in Italia, ma soltanto per progetti di un certo livello. Mia
figlia è architetto e non ho potuto lasciare l’edilizia per questo,
ma c’è un patto tra noi: lei progetta, dirige i tanti tecnici che
stipendiamo, ma gli spostamenti li deve fare per studio e per piacere, niente più turni ossessivi e corse da forsennati: m’è rimasta
solo lei »
« Capisco »
« Torniamo a noi. Lei prenderà il posto di suo fratello »
« In che senso? Ho già la mia attività e poi non ho la competenza
in materia »
« Non faccia chiudere lo studio da commercialista, funziona
bene, sarebbe un peccato. Esiste una grande somiglianza tra voi
due, lei e suo fratello; l’ho avvertito subito, altrimenti non l’avrei
condotta subito qui »
« Ma io non posso... »
« Mi ascolti bene: non deve mica buscarne la casa editrice. Anzi,
la può potenziare, servirà anche quella. Quanto alla competenza
non si preoccupi, le cose le seguiremo insieme, ormai è tutto
elettronico e disponiamo di programmi ben collaudati con cui
si lavora da molto tempo. Inoltre abbiamo un paio di persone di
assoluta fiducia e grande capacità su cui contare: il Giardiniere e
la signora mia amica, quella del condominio, di cui nel tempo ha
continuato a occuparsi suo fratello »
« Che c’entrano adesso il Giardiniere e la signora del condominio? »
« Il Giardiniere, l’avrà capito, è un appassionato come me di
piante e curiamo insieme il giardino: è il nostro hobby. In realtà
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siamo soci, lui è un esperto di informatica come pochi; mentre
la signora, a cui mi lega un profondo affetto da quando morì
mia moglie, conosce il diritto e le leggi dell’economia; riguardo
ai mercati ha il fiuto di un cane da tartufi »
« E il condominio? »
« Il condominio, in realtà, è costituito da suites in cui ospitiamo
le persone che ci vengono a trovare da varie parti del mondo. È
un posto sicuro, continuamente bonificato da intrusioni di sorveglianza... semmai qualche volta l’abbiamo usato noi per saperne di più sui nostri ospiti » disse ghignando con occhio porcino.
Ora l’Editore aveva letteralmente paura. Ma che faceva veramente suo fratello? Si trattava di spionaggio, di armi, di droga
o di che altro? Sullo scenario che il Capo gli aveva dischiuso ci
stava ogni inimmaginabile tipo di attività.
Il Palazzinaro si accorse, dalla fronte corrugata del suo interlocutore, di cosa gli transitasse per la testa, e si affrettò a chiarire
che non c’era niente di illegale nei loro affari. Ma l’Editore cercò
subito di bloccare l’altro temendo di toccare il punto di non ritorno. E, ai limiti della concitazione, replicò:
« Non voglio insinuare niente del genere, ma la prego di non
proseguire: non sono in grado e non voglio entrare minimamente in un giro che è molto più grande delle mie capacità e superiore alle mie ambizioni. A me piace mandare avanti la mia modesta
azienda, magari potenziarla; ho in mente di stampare una rivista
di cultura e politica, e il tempo che rimane voglio dedicarlo ai
boschi e alla famiglia »
« Non posso essermi sbagliato così di grosso - riprese il Capo
cambiando il tono e facendosi scuro - Potrei obbligarla, lei capisce, ma non voglio. Tenga presente che in mano a suo fratello,
dopo quasi quarantanni che era con noi e ora purtroppo nei suoi
cassetti, ci sono una quantità di cose delicate che occupano il suo
computer e su cui dovremo lavorare »
« Farò tutto ciò che serve per darle quanto la riguarda, ma ora s’è
fatto tardi sul serio e devo rientrare ».
Quando uscì dal Cantiere, l’Editore si diresse verso l’automobile
senza poterla trovare, poiché si era allontanato verso la piazzetta
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dove credeva di averla parcheggiata, mentre invece aveva posteggiato la macchina oltre il cancello del Cantiere, quando era
giunto qualche ora prima. Tornò indietro, suonò e si fece riconoscere al videocitofono. Per un momento, appena vide l’uomo
in divisa che gli veniva incontro, ebbe il dubbio di non poter più
tornare a casa e che il Palazzinaro avesse ordinato di segregarlo
nel sottosuolo, nella stanza da cui partiva il famoso ascensore segreto, fintanto che non avesse acconsentito a collaborare con lui.
Era bagnato di sudore, incerto nei movimenti. Aprì la portiera
frastornato e stanchissimo, come se stesse muovendosi in alta
quota senza ossigeno. Avviò il motore e, dopo una sgraziata partenza a canguro, riuscì finalmente a raggiungere la strada pubblica.
A casa comunicò soltanto che il giorno dopo sarebbero tornati
al paese, dopo aver fatto un veloce passaggio in ditta: tra l’altro
era in macchina il nuovo prontuario di polizia e l’Editore doveva
prendere accordi con il prefetto per la presentazione. Promise
alla nipote più piccola che per Natale sarebbero stati tutti insieme e che lui, comunque, sarebbe tornato di li a pochi giorni.
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V
Il Giornalista
La moglie, durante il viaggio, gli chiese il perché di quel mutismo
inconsueto e si sentì rispondere:
« Non ho voglia di parlare e basta. Ti pare che non debba essere
abbattuto? Torniamo da una scampagnata o da un funerale? ».
A cena, la figlia lo mise al corrente di quanto era successo in ufficio durante le due settimane, soprattutto di chi l’aveva cercato
e l’Editore la interruppe soltanto quando gli disse che un paio di
giorni prima aveva telefonato il Giornalista.
« T’ha detto che voleva? »
« No, ha chiesto di te e, saputo che eri ancora in città, ha concluso che avrebbe richiamato »
« E ha chiamato? »
« No »
« Figurati, con tutte le cose che ha per la testa quello... lo cercherò io domani » e così dicendo si alzò da tavola e uscì in giardino.
« Mettiti qualcosa, fa freddo » gli fece la moglie, andandogli dietro con un pullover, mentre la figlia sparecchiava per poi rigovernare, come era solita fare ogni giorno.
L’Editore passò la seconda notte a occhi spalancati. Gli rimbombava in testa quel “potrei obbligarla, lei capisce, ma non
voglio”, pronunciato in modo perentorio dal Palazzinaro. “... Ma
non voglio”: per ora, in quel momento non lo voleva, ma per
quanto tempo non lo avrebbe voluto? Quale tipo di materiale
conservava suo fratello e dove bisognava cercarlo?
Le domande, proiettate sullo sfondo del personaggio e dell’ambiente dove si era rivelato, lo trasferivano in una dimensione
fuori di un reale per lui possibile, neanche immaginabile. In due
settimane, un segmento compreso tra l’inspiegabile morte del
fratello e della cognata e la conversazione avvenuta nel giardino
del Cantiere, aveva perso i riferimenti di una vita ordinata e labo34
riosa. Gli sembrava di essersi imbattuto in una versione malefica
del Capitano Nemo.
La mattina dopo, arrivato in ufficio, si prese giusto il tempo di
firmare un paio di lettere che la figlia gli aveva appena battuto e
chiamò il Giornalista:
« Mi avevi cercato? »
« Volevo venire a salutarti… t’ho visto uscire dalla chiesa per il
funerale, ma c’era tanta gente, troppa dopo che ho visto il Palazzinaro »
« Eri in città quando è successo? »
« No, l’ho saputo mentre tornavo da Parigi: il titolo sul giornale
spiccava in prima pagina e l’ho letto già sulle mani dell’hostess
che me lo porgeva. Sono giunto in città due giorni prima del
funerale »
« Conosci il Palazzinaro? »
« Come non potrei? Seguo le sue iniziative da anni. Ora sta patrocinando il progetto di una delle più rovinose speculazioni edilizie della storia repubblicana. Lo conosco di vista e non vorrei
che questa conoscenza andasse oltre; il Palazzinaro appartiene
al ceppo di virus che va studiato attentamente perché attacca
l’urbanistica, quindi la nostra convivenza »
L’Editore alleggerì la pressione della cornetta sul proprio orecchio: la voce del Giornalista era salita di colpo pronunciando le
ultime parole.
« Senti, perché non capiti qui da me se hai un momento, o meglio: perché non vieni su a pranzo da noi? » e, rivolto alla figlia,
le disse di telefonare a casa per avvertire che avevano un ospite.
« Vengo lì in ufficio. Far capitare a una moglie qualcuno all’improvviso per metterlo a tavola, ti fai una nemica - si affrettò a
dire il Giornalista - Sto camminando sul viale, sono a due passi
da te »
Suonò e gli aprì una ragazza bruna, con gli occhi neri che ti
scrutano senza mai fissarti. Un giorno lui se lo sarebbe ricordato.
« Buongiorno, c’è l’Editore? »
« Il babbo è nella sua stanza e l’aspetta… » e gli fece strada.
« Così conosci anche il Cavaliere? » si sorprese a dire l’Editore.
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« Ti riferisci al Palazzinaro, immagino. I palazzinari sono il mio
veleno... oh, scusa. Con quanto è successo su alla baita la parola
cade a sproposito »
« Sei l’unica persona con cui posso confidarmi » gli disse abbassando il tono, poi si alzò informando la figlia che usciva col
Giornalista a prendere un caffè.
« Non voglio che nemmeno se lo sognino, in casa, quanto ho
scoperto. E poi ho scoperto soltanto la confusione che ora ho
in testa ».
E, interrompendo lo scombinato preambolo, raccontò per filo e
per segno della sua visita al Cantiere.
« Se ti dicessi che mi meraviglio sarebbe una bugia » proruppe
il Giornalista scuotendo la testa, come si fa apprendendo nuove
imprese di un vecchio tipo di protagonisti
« L’aria che hai respirato nel Cantiere del Palazzinaro non ti ricorda quella della villa Caltagirone al Circeo, ai tempi in cui al costruttore romano sequestrarono quattromila appartamenti? Era
su tutti i giornali: si seppe, per esempio, che per tenere lontani
i curiosi Caltagirone disponeva di una vera e propria centrale
sottomarina con motori che azionavano enormi eliche. Quando
un qualsiasi natante si avvicinava all’imbocco dell’insenatura alle
spalle della villa, unica via di accesso, le “guardie caltagironesi”
mettevano in moto, provocando una mareggiata forza sei.
In quel periodo, in cui i giornalisti colsero l’occasione per inventariare le bizzarrie dei ricchi, venne fuori quella di Tizio che,
per scoparsi le meglio del momento, le andava a prendere con
un sottomarino che emergeva in un laghetto al centro di uno dei
mille isolotti che si era comprato lungo la costa balcanica.
Comparvero aerei, aerostati, perfino una teleferica per giungere
fino ad un letto a baldacchino in cima a un monte, dentro un
castello dove te la darebbe anche la regina d’Inghilterra diciottenne. Lusso e lussuria vanno a braccetto con soldi e soldati. Le
femmine stanno con chi vince. E si è sempre vinto con la forza
e la prepotenza dei soldi »
« Già, la forza e la prepotenza: è questo che mi preoccupa. Quel
tipo non scherza »
36
« E a che gli servirebbe? Deve essere gentile con te, deve augurarsi che tu riesca a trovare ciò che vuole; la minaccia serve a
portarti al punto che trovare quella roba sia lo scopo delle tue
giornate, e il liberarti di lui un traguardo. Però credo che il suo
scopo sia un altro »
« Sì, e una volta trovato le carte, il CD, il non so che cosa... non
mi permetterebbe mai di sganciarmi, “ lei prenderà il posto di
suo fratello” sono state le sue parole imperative »
« Lo studio commercialistico per ora dovresti tenerlo aperto, ma
tu farai in modo di non trovare niente di ciò che vuole il Palazzinaro, così non correrai alcun rischio »
« Pensi che sia facile prenderlo in giro? »
« Lo sa che difficilmente troverai qualcosa o addirittura non esiste niente da trovare: chiede molto per ottenere molto meno.
Secondo me lui vuole soltanto che lo studio rimanga aperto; non
ne vedo la ragione, ma la scoprirai »
« Noi piuttosto, se riuscirò a riprendermi, dobbiamo parlare del
nostro progetto: la rivista va fatta »
« Al momento sono impegnato con diverse... »
« Se aspettiamo che tu sia meno incasinato, la rivista non si farà
mai »
« Ci sono impegni e impegni: è fissata l’udienza per l’escussione
degli ultimi testimoni del mio processo. Ti confesso che dopo
quattro anni, dieci udienze, uno sciopero della camera penale e
la sostituzione di un difensore che m’ha avvertito la sera prima
della sua adesione... si è perso un anno... la preparazione di un
testimoniale con migliaia di domande e... sono stanco » disse, col
modo disorganico di chi parla a se stesso
« Da quello che si sa ti sta andando bene »
« Sì, ho dimostrato che le mie denunce contro gli amministratori
e i privati collusi con loro sono fondate, ma le guerre in casa
sono sempre particolarmente cruente, sono le peggiori perché
toccano persone che non pensavi fossero collegate ad altre con
cui incrociavi da sempre un sorriso e un saluto e d’un tratto le
vedi cambiate, irrigidite. Solo quando tocchi certi interessi scopri come campava il vicino che era così gentile con te, e ora gli
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hai toccato il sindaco che stava sistemando il figlio o l’ingegnere
che stava per assumergli come segretaria la nipote. Il posto dove
vivi dovresti considerarlo per quella tana di cui ogni animale ha
bisogno, e le guerre farle altrove »
« E i giornali... i tuoi Numeri Rari? »
« Escono quando serve, sono rari per questo ».
È meglio chiarire subito, dopo avergli affibbiato questo appellativo, che il Giornalista tale non era. Ventenne, alla fine degli anni
Cinquanta, aveva collaborato a diverse testate, da cronista locale
già impegnato, però, a sollevare problemi di fondo con notevole
vigoria polemica. In un paio di anni era passato a occuparsi di
problemi di rilievo legati all’ambiente, all’urbanistica e ai beni
culturali.
Così giovane, gli avevano dato un tesserino da pubblicista, l’unico per lui possibile poiché non era mai entrato in una redazione,
coerente col fatto che non aveva frequentato nemmeno la scuola
elementare, giungendo alla licenza da privatista. Al pari con le
medie e con la scuola superiore, interrotta prima della cosiddetta maturità: non sopportava il banco, in cui si doveva essere
costretti da qualcuno che stava in cattedra a insegnare prima di
essersi preoccupato di imparare.
Al giornale aveva fatto la medesima carriera. Un giorno gli venne
tagliata una frase conclusiva di un servizio che riguardava l’operato di personaggi in vista del Consiglio Superiore delle Belle
Arti. Dall’articolo avevano tolto fatti e non opinioni.
Alle sue rimostranze il Direttore, famoso e stimato nel mondo
della stampa, disse:
« Chi è questo sbarbatello che vuol dire la verità? ».
Lo sbarbatello strappò il tesserino e glielo gettò sul tavolo. S’interruppe così la sua carriera da giornalista.
Dal momento che era incapace di starsene zitto di fronte a certe
situazioni, dopo qualche anno stampò un Numero Unico che
diffuse su scala nazionale ma, pur fingendo che fosse il numero
zero di un periodico, capì che il suo individualismo non gli permetteva di oltrepassare la collaborazione con se stesso.
Più tardi, riprendendo a coltivare il vizio di scrivere, stampare e
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diffondere, battezzò appropriatamente i suoi stampati Numero
Raro. Quindi, se c’era una persona in questa storia lontana dal
mestiere del giornalista, inteso come chi campa con i giornali,
era quella che chiamiamo “il Giornalista”: rispettosi delle regole
di questa società, che preferisce non chiamare mai le cose e le
persone con il loro vero nome.
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VI
Ricchezza Imprevista
Il Commercialista aveva lasciato un testamento. I familiari furono convocati da un notaio che ne diede lettura. Stavolta l’Editore andò con tutta la famiglia, così la figlia poté rivedere le
cugine alle quali era molto legata, specie alla più grande con cui,
al tempo dei loro sei, sette fino a quindici anni, passava ogni
estate due mesi al mare con la nonna, suocera dell’Editore, che
aveva comprato una casetta sulla spiaggia proprio per la salute
delle bambine. Già allora era passato di moda l’olio di fegato di
merluzzo, ma lo iodio no.
La nonna poi s’era ammalata fino a ridursi su una sedia, la Cugina cominciò a praticare il primo amore, la casa al mare venne
usata molto meno e mai per lunghi soggiorni. Nonostante ciò,
le due ragazze si tennero sempre in contatto: la figlia dell’Editore, di quattro anni più piccola, si sentiva subalterna alla Cugina,
bellissima e da lei considerata capace in tutto e di tutto, intelligente: era la sua pietra di paragone. Si vedevano ogni volta che
accompagnava l’Editore in ditta, si telefonavano e colloquiavano
in rete.
Il testamento mise in luce una ricchezza che sorprese tutti, tranne il fratello. Pur fingendo meraviglia, dopo l’incontro col Palazzinaro era preparato a ogni scenario inaspettato.
Il capitale, messo insieme dal Commercialista, era diversificato:
immobili, partecipazioni in diverse società, cassette di sicurezza,
conti in banca. Parte dei contanti e dei beni mobili erano destinati alla moglie, usufruttuaria degli immobili che sarebbero poi
andati alla figlia minore; la baita, un appartamento e una consistente somma in contanti al fratello, a cui aveva lasciato (con
espressa preghiera di tenerla in gran conto) una prima edizione
della divina commedia illustrata dal Dorè. Alla nipote aveva lasciato una collana di perle vere per quando si sarebbe sposata.
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Per concludere, un’assicurazione sulla vita, di cui erano beneficiari i due coniugi, reciprocamente.
La cosa che non sorprese nessuno fu l’esclusione, da ogni lascito
volontario, della figlia maggiore, che ora però sarebbe entrata in
possesso della propria quota del premio assicurativo milionario.
Dal giorno del ritrovamento le assicurazioni si erano immediatamente allertate, data l’entità della polizza.
Gli interrogativi erano legati alle circostanze della morte: il contratto assicurativo, stipulato dai coniugi, copriva tutte le cause di
decesso, tranne l’omicidio. Gli zerozerosette delle assicurazioni, anche se non potevano aver ottenuto copia delle risultanze
istruttorie in mano alla Polizia Giudiziaria e alla Magistratura,
erano riusciti ad aggirarsi nei loro corridoi fiutando sul perimetro esatto del dubbio e del mistero: venendo a sapere che contenevano la presenza di uno sconosciuto all’interno della Baita.
Chiunque fosse stato curioso avrebbe potuto osservare che per
un paio di settimane la casetta di legno era stata sigillata, e sorvegliata H24 da agenti che si davano il cambio. Venivano tolti i
sigilli quando arrivavano gli addetti, la Scientifica e il Commissario, e riapposti al momento in cui se ne andavano.
Il capitale cospicuo, venuto d’un tratto alla ribalta col testamento, annebbiò maggiormente la scena, mettendo i volenterosi
Sherlock Holmes in brache di tela.
Col passare dei giorni, questo Commercialista diventava una
noce sorda: l’amministratore e il revisore di conti si trasferivano
in uno spazio che attiene all’arte e alla poesia, equivoco curioso
e affascinante. Se lo scienziato non è altro che un inguaribile ottimista, assiduo frequentatore di ogni meccanismo conoscitivo,
la figura enigmatica che ora si scherniva dei poliziotti conferiva
al loro lavoro il senso di frustrazione e di testardo coraggio tipici
della prassi scientifica.
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VII
La Segretaria
Il 18 Dicembre 2009, venerdì, l’Editore e la figlia erano giunti in
città per due ragioni: alle undici era fissato l’appuntamento dal
notaio per la vendita del negozio di merceria e dovevano lavorare in ditta per riprendere i fili che negli ultimi due mesi, con
tutto quel ch’era successo, si erano allentati. La signora, di fatto
responsabile e direttrice dell’azienda, sarebbe venuta il giorno
dopo, sabato, per discutere di molte cose, non ultima l’attività
di raccordo svolta dall’ufficio in paese, sede ufficiale della casa
editrice, di cui si occupava la figlia/Segretaria.
La direttrice e la Segretaria avevano mandato avanti ogni attività
nel migliore dei modi, ma certe decisioni, che spettavano all’Editore, erano rimaste in sospeso e il rimettere correttamente in
marcia ciò che ne dipendeva era indifferibile.
La modulistica, che ormai fornivano alle amministrazioni pubbliche in mezza Italia, veniva stampata e spedita di routine, ma
già i manuali riservati ai diversi settori richiedevano un lavoro
di analisi e uno di contrattazione in cui il boss non poteva essere sostituito. Inoltre, da qualche anno, l’attenzione della ditta si
era rivolta anche alla codicistica, dove gli spazi si riducevano a
corridoi, spesso molto stretti, tra le aree ben definite dei grossi
editori, specializzati soprattutto nel saper gestire i rapporti con
gl’immutabili padroni della burocrazia statale. E qui la gara era
dura, ma l’Editore se la cavava benino.
Rimasero in ditta fino quasi alle otto. Squillò una di quelle musichette che solo i cellulari sanno farci udire. L’Editore si tastò,
si frugò…
« È il mio» gli disse la figlia che, mentre occhieggiava sul display
e pigiava il tasto verde, si alzò allontanandosi di qualche metro.
« Ciao. Sì, siamo in ufficio »
Era il fidanzato, che chiamava dal paese.
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« No, mangio qualcosa col babbo in casa; cuocerò una fettina e
poi andrò a letto. Domattina si ricomincia presto» per concludere: « Più tardi non stare a chiamarmi, spengo il telefono… se
torniamo presto ci vediamo domani sera, sennò mi passi a prendere lunedì a fine giornata, alla solita ora ».
A metà cena ancora il cellulare di lei, era la Cugina:
« Ti passiamo a prendere, tra mezz’ora va bene? »
« Per andare dove? No, domattina ci alziamo presto »
« Stiamo un’oretta, prendiamo un caffè in un posto carino, e poi
devo farti conoscere il mio uomo » e quest’ultimo argomento la
convinse
« Ma proprio un’ora, non di più; dammene tre quarti per essere
pronta ».
Al babbo non faceva affatto piacere che uscisse con la Cugina
e lo manifestò in mezzo a vari toni di ribrontolio, ma ormai la
figlia aveva trentanni e suo padre poteva farci poco.
La Cugina giunse con l’Ucraino e un amico, entrambi sui quaranta; sembravano fratelli. Biondi, robusti, di un’eleganza ridondante. La Segretaria fu fatta accomodare nella Jaguar superaccessoriata, la Cugina davanti col suo uomo e lei dietro con l’amico
che, appena si mossero, le sfiorò con la mano i capelli sussurrandole ch’era molto carina: queste erano tra le poche parole
imparate in italiano.
Entrarono in un pub accogliente e lussuoso, una sorta di circolo
privato, con più stanze comunicanti a musica diffusa e, mentre
si sedevano, la Segretaria notò nella stanza attigua una coppia di
donne che ballava.
Appena seduti, portarono una bottiglia di Dom Perignon e il
cameriere mostrò all’Ucraino la data sull’etichetta, ricevendo un
sorriso compiacente. L’Ucraino parlava italiano molto bene; l’amico ascoltava, con cenni di assenso e sorrisi, facendo partire in
un playback poco pertinente.
« Questa dunque sarebbe la famosa Segretaria, senza la quale tuo
zio non fa niente » disse l’Ucraino, che da quando erano entrati
teneva gli occhi appiccicati al tubino di lana che la fasciava, accarezzando i fianchi e il seno messi in risalto dal punto vita sottile
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e marcato.
« Non scherziamo. Ma che gli hai detto? » domandò a bassa
voce, rivolta alla Cugina, arrossendo visibilmente
« Gli ho detto la verità: sei tu che non ne vuoi prendere atto e
minimizzi tutto quel che fai, e forse ho capito perché: eviti che ti
si chieda ancora di più e... »
« Brindisi... da noi, chiunque proponga un brindisi, gli altri devono onorarlo bevendo tutto fino in fondo - disse l’Ucraino battendo il bicchiere della Segretaria - Vale per la Vodka, ma io lo
faccio anche con le bollicine, così pare che ti esploda la bocca
e sei felice » e cavò di tasca un tabacchiera di smalto, raffinatissima, evidentemente preziosa; mise una presa sul polso e vi appoggiò le narici, poi prese il polso alla Segretaria, che si ritrasse.
« Grazie, mi farebbe star male» e guardando la Cugina: «Ricordati la promessa: un’ora. Domattina il babbo mi dà la sveglia
presto »
«Ti riaccompagneremo tra poco, ma prima facciamo un ballo,
ascoltiamo insieme una vecchia canzone » e l’Ucraino si alzò
prendendole la mano, lasciando alla Cugina la tabacchiera che
aveva chiesto.
La portò nella saletta accanto e quando le cinse la vita lei sentì
una morsa incontrastabile che la incollò al corpo di lui, inchiodata da una inconfondibile massa dura che le si stampò sotto l’ombelico. La condusse, a tratti la sollevò, la spinse ballonzolando in
una seconda stanza con la luce quasi inesistente, giunsero fino
alla parete. Capolinea, il ballo era finito e non servivano più scuse: le uniche note che lei avvertì, sopra la musica fioca, furono la
zip di lui che discese e il frusciare della sua gonna che le arrivò
bruscamente sul viso. Le strinse le anche, ruotando le mani, perché divaricasse le gambe il necessario per averlo tra le cosce. Lei
reagì istintivamente stringendo e lui diede rapidi, violenti sussulti
mettendole le mani dietro, comprimendola ancora verso di sé.
Il tempo di scambiarsi affannose, ripetute vocali e furono esausti. Restarono per qualche momento paralizzati, aggrappati, sdilungandosi in punta di piedi lungo il muro, senza respirare. Poi
bastò che le appoggiasse la mano sulle spalle per farla scivolare
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fino a prenderlo con le labbra per ripulire strofinando l’arnese
che pareva avesse appena montato una chiara d’uovo.
« Vi siete conosciuti? - chiese la Cugina, già sniffata, quando tornarono al tavolo - Ma ancora non del tutto », e aggiunse con un
ghigno: « Balla con lui, così finisci la serata in bellezza » mentre
guardava l’altro che era rimasto al tavolo e, inutilizzabile, stava
beatamente groggy a gingillarsi con la tabacchiera aperta.
Più tardi, in camera, quando spense la luce, la Segretaria si ritrovò a occhi spalancati, pensando che se avesse avuto quel vibratore sempre disponibile nella borsa della Cugina, una volta tanto
lo avrebbe usato; non era per niente presa dall’Ucraino, ma dalla
situazione imprevedibile che aveva vissuto. Si masturbò fino a
farsi male, fantasticando sui luoghi comuni dell’erotismo, immaginando di trovarsi in ascensore, in un confessionale, a sandwich
tra due senegalesi. Ma non si piacque, anzi, si sentì nauseata.
Gli “enta” sono una boa e lei stava per concludere l’anno dei
ventinove. Era in grado di fare un bilancio sull’amore e sul sesso.
E lo stava facendo: quest’ultima esperienza, il coscialino violento e imprevedibile, fu l’occasione definitiva. Il comportamento
della Cugina, da lei inaspettato ma dall’altra previsto e voluto, le
sembrò chiarire molte cose. La pietra di paragone non appariva
più così lucente com’era sempre stata, fino al punto di essere
spinta in passato a somatizzarne le esperienze, covando invidia e
ammirazione per la sua spregiudicata sessualità.
La Segretaria si era concessa avventure limitate. Non che fosse
frigida, in realtà era femmina fino in fondo, ma per lei l’amore
non era una giustificazione catechistica per allargare a destra e sinistra, bensì un ideale sentito da quando aveva perso la verginità
con il primo maschio. Poi anche lei aveva cercato di accontentare
la mammina, senza però giungere alla mortificazione della propria dignità, come aveva fatto la Cugina infilandosi nel letto del
carceriere. Aveva piantato il suo primo fidanzato, concedendosi
poi una tregua feriale con gli amici per un paio di anni, senza
pagare gabelle troppo alte (sì, una sera, per disinnescare un pretendente con cui era andata troppo in là, un pompino l’aveva
dovuto concedere a freddo), poi si era nuovamente fidanzata e
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ancora, dopo anni, in qualche modo durava. Tuttavia nemmeno questo fidanzato andava bene, nell’ideario mamministico: era
soltanto un onesto impiegato. Ci voleva di più, talmente tanto
di più che l’accontentamammina non si sarebbe potuto mai trovare.
Passarono la domenica in ditta e, nel pomeriggio, li raggiunse di
nuovo la direttrice. Messa in pari la parte di pratiche arretrata,
l’Editore chiese se era pronta la bozza del Codice del Condominio
che lo preoccupava: usciva in concorrenza con quello della Tribuna, un editore di prestigio che vantava una meritata fama e
una lunga tradizione nel mondo del diritto.
Non era abituato a scendere sul terreno del commercio, di cui
“concorrenza” è sinonimo; la sua maniera d’imprendere era di
colmare zone editoriali vuote, dove esisteva la domanda di copertura e ciò lo aveva stabilito, di volta in volta, con sapienti
indagini, seguite da opportuni accordi per la vendita.
Era pur vero che il codice dell’editore piacentino aveva qualche
anno e che il suo doveva uscire fornito, oltre che di giurisprudenza, di un apparato di note di assoluto rilievo, scritto da due
dei maggiori specialisti in materia. D’altro canto esisteva l’ombra
di una revisione normativa di cui si parlava da tempo e che non
avrebbe tardato a uscire.
« Siamo in ballo e balliamo, ma prima di mettere in cantiere anche il Codice della Donna ci voglio pensare, magari ne parlo con il
Giornalista; lui di donne se ne intende, è un vecchio maschilista
nel suo privato, quindi, se c’è puzzo di demagogia l’avverte da
un chilometro »
Suonò il cellulare dell’Editore: « Guarda chi è, non voglio essere
disturbato »
« È il Giornalista » fece la figlia dopo aver coperto il microfono
con la mano, e il babbo le prese l’apparecchio:
« Lupus in fabula, si parlava proprio di te »
« Male, ovviamente »
« Peggio. Che c’è di nuovo? »
« Ti vorrei parlare di una cosa »
« Sono in ditta. Torno stasera, è urgente? »
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« Diciamo che vorrei parlarne entro un mese »
« Ci vediamo domani. Vieni a pranzo, anzi a cena, così stasera
avverto mia moglie che avrà a disposizione un giorno intero per
preparare. Va bene? »
« Va bene, a domani sera ».
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VIII
L’Editore
Al mattino, saranno state sì e no le sei, l’Editore era al tavolo del
suo inaccessibile studio in casa. Perfino la donna delle pulizie
doveva aspettare che fosse presente lui per svolgere le proprie
mansioni: il pensiero che, magari per dare aria alla stanza, venisse
soffiato o fosse spostato un solo foglio o che potesse finire nella
spazzatura un frammento di un che-so-io qualsiasi era sufficiente
a metterlo in ansia: la carta era Dio (ma scritta e stampata, come
gli ricordava il Giornalista, non era nemmeno più igienica).
Al di là delle giustificazioni che rilasciava in famiglia, quella stanza era la sua isola nella vita domestica, materiale e spirituale, su
cui imperava incontrastata la moglie, benché il teatrino che la
Psicologa teneva in piedi la mostrasse remissiva e indifesa, priva
di ogni potere decisionale, anche nelle stupidaggini.
L’Editore aveva messo sul tavolo il cofanetto che conteneva la
Divina Commedia, illustrata da Gustave Dorè, lasciata in eredità
dal fratello. Desiderava mostrarla al Giornalista la sera stessa in
occasione della cena, quindi occorreva che si guardasse bene l’opera in modo che, aggiungendovi le già rinfrescate notizie sull’illustratore, potesse parlarne con cognizione di causa.
Più che un cofanetto era una piccola cassaforte, fatta con uno
strano legno rossiccio coperto da una sorta di grata in ferro battuto. Ecco perché era così pesante, pensò l’Editore che aveva
portato via la scatola di cartone con su scritto “Divina Dorè”
senza aprire il pacco.
Insieme alla cassaforte c’erano un portamonete di cuoio con tre
chiavi, una rossa, una blu e l’altra verde, diverse per le tre diverse
serrature, e il biglietto.
Tenere sempre separate le chiavi dal cofanetto, riponendole in luogo sicuro.
Apri dal rosso al blu al verde. In ogni caso non forzare il cofanetto, verrebbe
distrutto il suo contenuto.
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« Oh, questa poi - gli sfuggì a voce alta - Sembra il PIN delle carte magnetiche... poi l’autodistruzione come nei film, sa di
complicazioni poliziesche ».
E così dicendo girò prima una e poi le altre due serrature, e
alzò il coperchio: finalmente poté vedere la grande copertina. Il
volume era del massimo formato, che il bibliofilo definisce “in
folio”.
La vera sorpresa gli sarebbe venuta incontro subito, sulla prima
pagina, protetta da una specie di carta velina, ma immediatamente non ci fece caso. Sfogliando, come si fa con un album di
fotografie, prima si gira il trasparente e poi la pagina. E fu per
questo che sul momento non diede alcuna importanza ai segni
tracciati con un pennarello che comparivano su alcuni trasparenti. Poi, invece, girando le pagine stampate senza dividerle dalla
loro protezione, capì che i tratti, vergati con precisione, erano
sottolineature di parole del testo dantesco.
La figlia bussò alla porta dello studio:
« È pronta la colazione »
« Ho da fare, prenderò qualcosa più tardi » le disse senza muoversi dal tavolo; dopo poco giunse la moglie, che girò la maniglia,
ma la porta era chiusa dall’interno.
« Ti aspettiamo, sbrigati. Io devo andare a scuola e dobbiamo
anche parlare di cosa si fa per cena stasera »
« Sto controllando dei conti da inserire in una scheda che sto
preparando e non posso smettere... - buttò là a casaccio - Ci
sentiamo al telefono più tardi... decidi tu... non posso perdere il
filo ora, scusa... » e il tono delle ultime parole non diede spazio
a repliche.
La colazione era un rituale sacro per l’Editore, che ne approfittava per discutere e comunicare le cose più importanti, lasciando
agli altri pasti una funzione più conviviale o di rifinitura degli argomenti trattati al mattino. Le due donne erano davanti alle marmellate e ai cereali, sorprese del suo comportamento: anche se
fosse stato di fretta, com’era accaduto in alcuni casi eccezionali,
il boss (la moglie usava in certi casi chiamarlo così) si sarebbe
comunque seduto a tavola per colazione.
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Le due donne parlarono comunque dell’argomento del giorno,
su cui la Psicologa si era già concentrata la sera prima, appena il
marito aveva comunicato per telefono l’invito al Giornalista, e si
era svegliata pensando a questo.
« Come primo vedrei le lasagne - fece la madre - Diciamo alla
donna di prepararle, le fa squisite. Gli piaceranno? Andranno
bene per cena o saranno pesanti? E il dolce? »
« Il Giornalista non ha problemi di stomaco, mangia a tutte l’ore,
cibi rozzi, come dice lui, quelli con trigliceridi sconsigliati dai
medici. Ha detto che è stato allevato a salsicce... » disse la Segretaria.
« E tu come sai tutte queste cose? »
« Ne parlava col babbo quando è venuto in ufficio, si sono intrattenuti nel corridoio prima di uscire; lui gli diceva che mangia di
tutto e molto, deludendo chi pensa il contrario giudicandolo per
il suo fisico essenziale »
« Sì, ma anche lui non è più un ragazzino… è più grande del
babbo, credo... »
« È un uomo particolare... Farei il coniglio per secondo, il coniglio con le patate »
« Anche? »
« Sono sicura che gli piaceranno »
« Su, andiamo, è tardissimo. Ti darò retta... prendiamo la macchina, ti lascio in ufficio e proseguo per la l’asilo »
Tornato il silenzio in casa, l’Editore si concentrò di nuovo sul
rebus che stava diventando la Commedia del Doré. Vuoi vedere
che ci saranno da osservare anche le illustrazioni, pensò. Stava scoprendo un fratello che non aveva mai sospettato. E dire
che quando vedeva qualcuno con la Settimana Enigmistica, il
Commercialista non perdeva occasione per commentare “beato
lui... piacerebbe anche a me...”. Proprio lui che nell’enigmistica
ci sguazzava.
Sfogliate con cura le tre cantiche, l’Editore contò venticinque
sottolineature, ma soltanto due di queste erano in rosso, mentre
una era in blu e ventidue in verde. Considerò per prime le due in
rosso, sia per la simbologia dei colori che per la quantità minore.
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Nella prima cantica, l’Inferno, precisamente nel primo canto e
nella prima celebre terzina,
Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/ché
la dritta via era smarrita.
erano sottolineate le due parole “ selva oscura”.
Nella cantica del Paradiso, quinto canto, la terzina interessata
era:
Avete il novo e ‘l vecchio testamento, /e ‘l pastor de la chiesa che vi guida; /
questo vi basti a vostro salvamento.
Le parole sottolineate erano cinque: “novo”, “vecchio testamento”, “vostro salvamento”.
L’Editore collegò tutto al Palazzinaro, a cui non aveva smesso di
pensare un istante, soprattutto per il freddo intervertebrale che
quel “potrei obbligarla” gli aveva lasciato; ma lentamente la paura stava dando il posto alla curiosità, forse al desiderio di conoscere un fratello che non aveva capito: si era sempre visto come
l’intellettuale nei confronti del Commercialista, che considerava
soltanto un contabile. Adesso era lui a dover fare i conti con
qualcosa di sfuggente, di cui però stava toccando materialmente
la complessità. Avvertiva un legame tra il Cantiere, i giochetti che
stava scoprendo, l’eredità insospettata che, nel bene o nel male,
toglievano alla figura del fratello lo stereotipo che certe professioni ti incollano per tutta la vita. Si sentì uno sprovveduto, un
incapace, un provinciale che si era sopravvalutato.
Quante volte aveva dato consigli e offerto opinioni pregni di
paternalistico senso di superiorità mentre l’altro, più giovane di
tre anni, aveva sempre recitato sorridendo la parte del fratello
minore, convincendo il maggiore del contrario di ciò che fosse
in realtà.
Questo misto di compassione e comprensione (compacomprensione), più vivo ancora oltre la morte, amareggiava l’Editore; lo
vedeva dipinto, scritto a lettere gigantesche, sulle colline che sta51
va guardando con l’inutile intento di rilassarsi, di interrompere la
tensione che l’impegno di sgrovigliare la matassa stava facendo
salire (i luogocomunisti direbbero “in progressione geometrica”).
Arrivò dal corridoio, stavolta provvidenziale, la voce della moglie:
« Ma sei ancora lì? Tua figlia ha già messo la pentola sul fuoco »
Non le rispose, ma si riebbe; mise a posto la Commedia nel suo
sarcofago e il sarcofago dentro un armadio che sembrava fatto
apposta. A tavola non disse una parola, nemmeno quando l’inarrendevole moglie commentò che, se era così assente, sarebbe
stato meglio rimandare l’invito per cena.
Lo soccorse la figlia che sussurrò alla mamma:
« Quando arriva lui cambia, avranno da discutere di tante cose
che li interessano ».
52
IX
L’Ospite
Era la prima volta (questa frase è immancabile in tutte le storie, ma va sempre precisato) che il Giornalista era ospite a casa
dell’Editore e comparve con due bottiglie di Nobile di quattro
anni.
« Avrei voluto portarvele oggi o meglio stamattina. Anche se è
appena maturo e non vecchio... sono maniaco della preparazione: se il vino non respira, non ossigena nemmeno chi lo beve »
« Un vino del genere… altro che ossigenare, semmai toglie il
fiato a chi ne beve troppo » fece l’Editore ridendo, mentre lo
invitava a entrare in sala.
« Bello, il fuoco acceso e la tavola apparecchiata… l’ultimo tocco
sarebbero i fiocchi a raviolo che vengono giù dietro i vetri »
« Mancano cinque giorni a Natale, anzi quattro, fa in tempo a
nevicare e sarebbe perfetto » osservò la Psicologa.
Come previsto dalla Segretaria che le portò in tavola, il Giornalista onorò due volte le lasagne e altrettanto fece con il coniglio,
senza controllare la quantità delle portate, come usa chi per educazione vuol prenderne una seconda volta.
Dopo quanto il Giornalista aveva detto sulla preparazione del
Nobile, optarono per servire un vino della cantina di casa: un
ottimo vinsanto, di quelli veri tappati con la ceralacca, anche se
sprecato per accompagnare un millefoglie di pasticceria.
« Il tuo vino si berrà la prossima volta, e si preparerà la mattina,
magari dicci come… noi siamo poco pratici di queste cose » gli
disse la padrona di casa, scusandosi per il dolce che non aveva
fatto in tempo a preparare e aggiungendo: « Non hai perso niente... »
« Non è vero. Non ci far caso, dice sempre così la mia Regina,
che è bravissima, specie nei dolci - commentò l’Editore - Vedrai quanti ne preparerà a Natale: vengono per qualche giorno
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la nonna e le cugine... siamo in zona Cesarini, in casa hanno già
tirato fuori le scatole con gli addobbi natalizi, inizierà domani il
controllo delle luci, delle ciabatte e delle prolunghe... »
« Forse verrà anche mia sorella - intervenne la moglie - e forse
anche la mia nipotina »
L’Editore si corrugò e si rischiarò la voce.
Intervenne la figlia che, seduta proprio accanto al Giornalista,
parlò per la prima volta (questo dato, si ripete, è significativo).
« Lei lo prende il caffè? »
« Se lo fa, sì »
« Ci vuoi l’anice? » chiese la padrona di casa
« No, ti ringrazio ».
Bevuto il caffè e fumata una sigaretta accanto al focolare, il
Giornalista disse all’Editore che si sarebbero visti il giorno dopo
e si apprestò a salutare.
« Che fai, vai a letto con le galline? Tu sei famoso come nottambulo »
« E non solo per questo » aggiunse la Psicologa, sprizzando mille
allusioni.
« Loro ora vanno in cucina e noi nello studio, dobbiamo parlare
di molte cose »
« Ad intervalli però, dato che a te il fumo disgarba e io, senza,
vado in iperossigenazione, e non riesco più a seguire i discorsi ».
Entrarono nello studio; l’Editore girò di nuovo la chiave e rivolto al Giornalista, di cui era evidente la sorpresa, disse:
« Ormai è un vizio, diventa il mio rifugio soltanto dopo questa
operazione. Loro non ci fanno più caso » e passò ad aprire l’armadio.
« Che ne dici? - esordì appoggiando il cofano della Commedia
sul tavolo - Che ci sarà qui dentro? Cerco di sdrammatizzare, ma
sono preoccupato. Inizio con la rossa, come prescritto, poi la blu
e a seguire la verde, ed ecco il libro che m’ha lasciato mio fratello »
disse appoggiandolo a favore del Giornalista, che raramente riusciva a seguire una qualsiasi operazione senza commentare o
porre subito domande. L’Editore continuò:
« Osserva bene, è il tuo mestiere o uno dei tuoi, ma in questo
54
campo sei proprio a casa tua, io non capisco nemmeno che strano legno sia ... »
« È spino, legno di rovo, detto dai falegnami “Spina Christi” per
la corona che ne fecero i Farisei. È uno dei legni più duri che
si conosca e non è facile trovare un tavola di questa larghezza disse, toccando l’interno del cofano - E con una serie di strisce
di ferro così spesse e così vicine... »
« Tanto c’erano, potevano farlo tutto di ferro »
« Eh, no - lo interruppe il Giornalista - A parte l’eleganza e il
significato di questa lavorazione, il legno non muore mai, ma
traspira e mantiene la carta dei libri. Vedi? Le fasce in ferro all’esterno, imbullonate alla carraia, forniscono così la robustezza ».
A quel punto l’Editore gli indicò, sfogliando qualche pagina, le
sottolineature e gli mostrò i conteggi, soffermandosi sui rossi. Il
Giornalista chiese all’Editore se poteva usare un foglio bianco
ch’era sul tavolo. Prese dal taschino della giacca la penna centrale
delle tre Pilot che vi teneva sempre (nera burocratica, azzurro
cielo fantastica, rosso sangue polemica) e tracciò tre spirali, una
accanto all’altra. Vi mise sopra “I”, “PU”, “PA” e tracciò tre
segmenti di unione tra le spirali. Sui segmenti scrisse CONFUSIONE AMORE MORTE = CAM. Aprì la porta finestra che
dava sul giardino e uscì. Accese una sigaretta e l’aspirò come chi
rompe una lunga astinenza, pensando a voce alta:
« Oggi è arrivato l’inverno sul calendario, anche se il solstizio è
domani, Marte. Io sono nato nel nome della luna, lunedì, due
giorni dopo la luna nera. Hai un calendario? O meglio: controlla
su internet. Dicembre… siamo nella fase buia... »
« Torno subito - disse l’Editore, che era rimasto sulla soglia del
giardino buio e freddo - Al computer è addetta mia figlia… »
Dopo poco si sentì la serratura che si richiudeva. L’Editore raggiunse il Giornalista che stava accendendo un’altra sigaretta:
« Devi proprio avere una gran voglia di fumare, è un freddo cane »
« L’ho fatto a Mosca, a Novembre dell’anno scorso, con meno
trenta... fumare è importante... nel fumo sono diventato un campione e poi l’arrosto chi riesce a farlo in questa cazzo di vita? Nel
fumo sono veramente bravo »
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« Tornando a noi…Sì, siamo nei giorni bui, è passata da poco la
luna nera. La nuova sorge giovedì, che è la Vigilia; il plenilunio
sarà per l’ultimo dell’anno »
« Settimana straordinaria: c’è odore di neve; scende dall’Alpe che
da qui vedrai in tutta la sua bellezza il 31... »
« Odore di neve? Come sarebbe a dire? »
« Senti, respira: lassù sta nevicando »
« E poi dicono che i fumatori perdono i sapori e i profumi… »
« I coglioni, vedi… ».
Rientrarono e il Giornalista, che in sottofondo aveva pensato di
continuo alla Commedia, disse:
« Nel mezzo del cammin si recita fin da bambini, mentre è meno conosciuto dalla gente avete il novo e ‘l vecchio testamento. Hai studiato
Lettere se non sbaglio: ricorderai che questo passo del Paradiso
viene messo in relazione con la terzina del Purgatorio State contente umane genti al quia/che se potuto aveste veder tutto/ mestier non era
partorir Maria. Ma guarda guarda, tuo fratello, come si divertiva:
ci ha fregato tutti, vuoi vedere?
Io lo conoscevo poco, e solo attraverso i tuoi racconti…ma
dopo la faccenda del testamento e questa morte singolare mi
aspetto di tutto ».
Il Giornalista passò poi ad analizzare il libro, anche se era lontano dai codici miniati di cui era specialista e sui quali aveva scritto.
« Ci sono molti particolari da considerare, però credo che non
ci siano richiami al significato metaforico del testo, né alla relazione tra parole e immagini. La chiave del gioco è semplice e sta
nel significato diretto delle parole sottolineate: è un racconto e
un’indicazione. Tuo fratello aveva tra i suoi libri un Vangelo e
una Bibbia? »
« Sicuramente… e oggi ne sono certo »
« Cercali, e poi ne riparleremo »
« E i segni blu e tutti quelli verdi? »
« Un passo alla volta… cerchiamo intanto di verificare una prima ipotesi, terra terra. Correre non serve »
« Crepo dalla voglia di conoscere la tua ipotesi naturalmente, ma
ho capito che vuoi interrompere il discorso. Cercherò i due libri
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tra quelli in casa delle mie nipoti. A proposito, vengono da noi
dopodomani o il giorno dopo: lo domanderò, così... »
« No, assolutamente - lo interruppe secco il Giornalista - Se
proprio dovessi essere obbligato a chiederlo, fallo quando sarai
in casa loro e a quel punto devi trovarli, quei libri, e prenderli:
potrebbero contenere altre indicazioni. Mi raccomando, non ne
parlare ».
Uscirono dallo studio all’una e mezzo suonate, orario molto insolito per l’Editore, che s’era già messa la mano due volte davanti alla bocca. La figlia era sul divano, con un portatile dell’ufficio
che fungeva da collegamento per chi, come la Segretaria, casa e
bottega non avevano un confine distinguibile.
« La mamma si scusa, non ha voluto disturbarvi. È andata a letto,
domattina entra presto. La saluta »
« Ricambiandola, la ringrazi per la cena. Grazie anche a lei, buonanotte »
« Ora, naturalmente, tu non andrai a letto, per te comincia adesso... come per i vampiri... » gli fece l’Editore.
« Farò due passi, poi a casa cercherò di terminare un pezzo che
sto scrivendo... »
« Ma tu eri venuto perché dovevi parlarmi, e io ti ho sfruttato per
le mie complicazioni. Che volevi dirmi? »
« A quest’ora non è il caso di parlarne. Ci sentiamo, buonanotte »
« ‘Notte » fece la Segretaria, che era rimasta in piedi accanto a
loro.
57
X
Re Mago
Al mattino, alle sette e trenta, la famiglia era a tavola per la colazione. L’Editore, ancora imbambolato dallo stravizio, per prima
cosa guardò fuori, verso l’Alpe, e la vide col cappuccio bianco.
« ‘Sto boia del Giornalista, fiuta la neve sul serio »
« Perché? » fece la moglie
« Me l’ha detto ieri sera: è uscito a fumare e ha sentito che da
lassù giungeva l’odore della neve »
« È un uomo particolare » commentò la figlia.
« Che dici se lo invitassimo a pranzo per Natale? - disse la mamma rivolta al marito - È solo. E magari viene volentieri da noi »
« Veramente ha una sorella e un cognato, dei nipoti e dei figli. E
qualche donna che... » rispose il marito.
« Non credo che abbia più rapporti con la sorella per via del
ristorante... » intervenne la figlia
« Ma tu che ne sai? » riprese la mamma.
« Me l’ha detto la mia amica che è andata a cena al suo ristorante,
un sabato; ora lo gestiscono altri, dice che l’hanno ridotto a un
pizzeria. Era tanto bello e... »
« Sì, con tutte le battaglie che tiene in piedi in paese, contro l’amministrazione e i soliti imprenditori che lui chiama “prenditori”,
si è isolato... Nemo profeta... - disse l’Editore guardando fuori
dalla finestra, a inseguire un pensiero - Comunque posso invitarlo, tanto dobbiamo vederci, può darsi oggi stesso ».
Alle undici telefonarono in ufficio dalla città: la nonna e le nipoti
sarebbero arrivate la mattina dopo con il treno di mezzogiorno.
« Bisogna andarle a prendere per evitare il trasbordo dei bagagli
e che debbano fare quaranta chilometri in pullman - disse l’Editore alla figlia - Vacci tu con tua madre, potete prendere la mia
macchina »
« Domani arrivano soltanto la nonna e la Cuginetta, la Cugina
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arriverà venerdì. Dobbiamo sistemare troppe cose, noi, in questi
giorni. E siamo indietro »
« Va bene, se vengono solo loro ci posso andare ».
In ufficio era un viavai di persone e i tavoli erano ingombri di
pacchi, la gran parte in arrivo e qualcuno in partenza. Quello
che in casa chiamavano “ufficio” era conosciuto ovunque come
la sede della casa editrice e, di conseguenza, la rappresentanza
era lì.
L’Editore aveva conservato la sede in paese, anche se ormai il
motore della ditta era in città, per tre motivi: affezione al proprio
campanile; gratitudine verso il suocero che ricordava sempre
(eroico, a maggior ragione, per aver sopportato la moglie, ripeteva) e anche perché la figlia avesse un’occupazione che, lasciandole la possibilità di gestire il tempo come credeva, le avrebbe
permesso di riprendere i libri e discutere quella benedetta tesi,
ultimo ostacolo alla laurea.
« Questo sulla mia poltrona desumo sia appena arrivato, cos’è? »
« L’ha mandato la banca, La scultura lignea nelle Marche. Sono
tutti libri che hanno inviato le banche, tutti sull’arte, tranne uno
in quattro volumi sulla medicina popolare… o sulla storia della
sanità, purtroppo non ho avuto il tempo di soffermarmi »
« Dobbiamo scegliere una di queste strenne - libri rari perché
fuori commercio - da regalare al Giornalista »
« Così te la tira addosso: se ti ricordi ieri sera, non so come siete
entrati in argomento, ha parlato di questo tipo di edizioni definendole “editoria sotterranea mangiasoldi”, che serve a tenere
in piedi le Fondazioni e basta. Diffusione di questi libri: zero.
Servono, a chi non li aprirà mai, per fare arredamento; oppure,
ha detto, servono agli antiquari che li comprano rivendendoli a
peso d’oro. Ha concluso affermando che si tratta di un’editoria
di mm... poiché esclude dai libri proprio chi li potrebbe leggere »
« Caspita… parli poco, ma registri tutto »
« Se m’interessa. Ha telefonato il Palazzinaro »
« Il Palazzinaro? »
« Sì, richiamerà »
Non aveva finito di dirlo che suonò il telefono: era lui. Istinti59
vamente, l’Editore avrebbe voluto farsi negare con una qualsiasi
scusa, ma realizzò l’inutilità di un rinvio:
« Salve, Commendatore, mia figlia mi stava dicendo della sua
telefonata. Ci siamo incrociati, la stavo per chiamare »
« Non importa, tanto lo faccio io… La penso spesso, non mi
dimentico di lei: quando viene a trovarmi? »
« Capiterò in città dopo le Feste, per ora le faccio tanti auguri »
« Contraccambio a lei e famiglia. A presto, l’aspetto ».
Conclusa la telefonata, l’Editore avvertì immediatamente l’esigenza di parlarne al Giornalista. È probabile che si sarebbero
visti ugualmente, ma l’Editore avrebbe forse aspettato la sua
chiamata. Dopo l’orribile voce che gli giungeva dal Cantiere, fu
invece lui a precipitarsi.
« Ce la fai a venire oggi? È sopraggiunta una cosa nuova, ma ti
prometto che prima si parlerà della tua »
« Verso le cinque ».
L’Editore, quando si videro, rispettò la promessa: lo fece sedere
sul divanetto della sua stanza e gli si mise sulla poltroncina di
fianco, dopo aver chiuso la porta, non a chiave in ufficio.
« Ti ascolto » disse l’Editore
« Di sicuro quel che devi dirmi tu è molto più complicato, ma
ciò che devo dirti io è abbastanza importante, almeno per me.
Durante gli ultimi sei mesi ho inviato al consiglio comunale periodiche comunicazioni, con cui ho tentato di smuovere le acque
putride in cui è immersa l’amministrazione: i consiglieri annaspano e il sindaco non ha polso. E continuano così, in queste
everglades nostrane, a ignorare situazioni di evidente illegalità,
lasciando campo libero ai soliti topi di fogna »
« Ho seguito le tue battaglie, le seguo da tanti anni attraverso
i mezzi pubblicistici che adoperi, come i cartelli che esponevi
sulle porte del ristorante, sicuramente originali. E leggo sempre
i tuoi giornali. Ma i tuoi compaesani si meritano le energie che
profondi in queste battaglie? »
« Nessuno si merita niente, io per primo. Ma qualcuno le deve
fare certe cose, non è possibile passare la vita sull’Aventino »
« Su questo non ci piove. Però, insisto, temo soltanto che tu sot60
tragga troppe risorse a quelle attività per cui sei diventato molto
conosciuto e stimato, come nel settore dell’arte. Anche in questa
direzione hai dei doveri, verso te stesso e ... ooh, sto facendo
una predica »
« Non preoccuparti, le tue parole mi dovrebbero gratificare.
Però, ri-però, gira nell’aria il progetto di concludere il mandato
elettorale che hanno ricevuto coprendo la collina di cemento:
valgono di più i miei ipotetici traguardi di studio in campo artistico o la nostra collina? Non è detto che possa riuscire a fermarli, ma devo rinunciare a provarci? »
« Messa così, nessuno può darti torto. Quindi che ti serve? Che
posso fare per te? »
« Molto. Intanto si potrebbero far giungere le notizie all’“assessrice” regionale all’urbanistica, che credo tu conosca
bene; poi darmi una mano se mi servirà, perché ho paura che
dovrò prepararmi a momenti sempre più difficili. Stavolta dovrò
prendere di petto la massoneria »
« La massoneria? Vuoi rogna a tutti i costi… »
« La deriva massone, gl’imboscati, i topi. Non ho niente contro
il Grande Architetto degli illuministi, contro la Ragione al posto della Fede e via di seguito: rispetto chi va oltre Tommaso
d’Aquino e il suo “dove finisce la fede comincia la ragione” e
gli contrappone un raziocinio illimitato... e, a dire il vero, non
ce l’ho nemmeno con quegli altri; sono degli sfigati, ma tocca
derattizzare per sopravvivere: qui da noi, per esempio, hanno
paralizzato l’amministrazione comunale »
« Dunque dunque, per quanto riguarda l’“assessrice”, come la
chiami, posso fare qualcosa, mi ha chiesto di pubblicare il suo
vademecum sui siti che esigono un vincolo... »
« Voi editori li avete in pugno, i vagabondi, tenete a catena le loro
velleità »
« Ma c’è sempre la concorrenza »
« Ma fra editori non vi mordete »
« E la seconda richiesta? »
« Per ora non lo è… al momento è solo un’ipotesi. Sto mettendo
le mani avanti; forse ho bisogno di un pizzico di sicurezza, di
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avere le spalle coperte. Ho quasi sempre cambiato provincia per
stampare i miei Numeri Rari, così cambio Procura della Repubblica »
« Procura? »
« Locus commissi criminis, la competenza a giudicare spetta alla Procura della provincia dove il reato viene commesso. Nel mio caso,
il luogo dove stampo il giornale. Appena escono i miei, vanno
subito in mano agli azzeccagarbugli dei cementicoli e degli erbivendoli, tanto per rimanere a casa nostra… »
« Che giornalista saresti senza beccarti una querela per diffamazione? »
« Non aver paura, un processo l’ho già subito qui, lungo e penoso (più che penale) e m’ha dissanguato in tutti i sensi.
Il ristorante m’è costato una fortuna e sono in causa... m’è toccato vendere un codice, l’altr’anno, per far fronte alle spese.
Avrei scommesso che non mi sarei mai separato da quel libro,
era stata una mia piccola scoperta: un pergamenaceo dell’inizio
del Quattrocento, miniato da un artista molto vicino a Gentile
da Fabriano. Ero praticamente arrivato all’attribuzione e l’ho dovuto vendere. Non l’ho regalato, anzi: l’ho fatto prendere a un
collezionista che lo conserverà bene e mi darà la disponibilità
per studiarlo (fattori importanti), ma resta un boccone amaro
per me. Bando ai piagnistei, concludo. Qualora dovesse maturare questa pubblicazione, se occorrerà, saresti disponibile per
stamparla o farmela stampare in città? »
« Come editore? »
« No, l’editore dei miei giornalacci resto io, sono anche regolarmente iscritto, ho solo bisogno di uno stampatore: sarebbe
una provincia vergine per me, e poi qui intorno non trovo tanto
entusiasmo per stampare i miei giornali. Il litografo che stampò
quelli che m’hanno fruttato il processo l’hanno fatto chiudere;
viveva di commesse delle amministrazioni locali e figurati: denunciando un’intera amministrazione comunale, come feci, non
gli commissionarono più nemmeno un biglietto da visita »
« Vai tranquillo. Vuoi stampare in città? Ci penso io, decideremo se usare le mie o altre macchine, ma ti garantisco la stampa;
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soddisfatto? »
« Va benissimo, ti ringrazio molto. Veniamo a te: che è accaduto? »
Bussò e fece capolino la Segretaria.
« Che c’è? Entra, entra »
« C’è il direttore del Monte di là, è la seconda volta che passa,
dice che parte domattina per le Feste e vuol farti gli auguri, e
ringraziarti per i vini... »
« Ma gli mandiamo ancora i vini? »
« È rimasto nell’elenco... »
« Anche questa è una delle cose da rivedere: non solo non ci
servono più incrementi di scoperto o nuovi affidamenti, ma... »
« Sì, ma che gli dico? È lì che aspetta »
« Hanno mandato qualche regalo? »
« Un volume, un’agenda in pelle e una cartella da scrivania di
cuoio vero… »
Il Giornalista si alzò dicendo che avrebbero aggiornato la loro
conversazione ai giorni successivi. Al che l’Editore, alzandosi a
sua volta:
« Sorveglialo perché non scappi » disse rivolto alla figlia; e a lui:
« Abbi pazienza, ci metto due minuti » poi uscì.
La Segretaria, rimasta nella stanza col Giornalista, appoggiò la
mano sul mouse e si mise a ripulire la scrivania del computer,
poi gli domandò se gradiva qualcosa da bere avvicinandosi al
mobile bar.
« No, sono andato a letto a giorno grande, sono in piedi da poche
ore e tra non molto mi aspetta una cena del maiale che durerà
fino alle tre o le quattro di domattina; è meglio che non cominci
a bere già da adesso... inizia la settimana, anzi comincerebbero
i quindici giorni santi; da qui alla Befana è tutta una cena, ma
tra qualche giorno partirò. È da una vita che si fanno ‘ste cose,
eppure ogni anno le rifaccio volentieri… ».
La Segretaria si stillava di fargli un’infinità di domande: la sua era
molto più che curiosità, rasentava il desiderio di partecipazione.
Ma non disse una parola, limitandosi a registrare ogni suono
che il Giornalista emetteva, non perdendo un solo movimento,
espressione e gesto, scrutandolo senza mai fissarne lo sguardo,
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attestando la sua presenza con brevi sorrisi.
Rientrò l’Editore e nel corridoio s’intravvide un uomo sui trentanni. Da come era appoggiato alla parete, si capiva che era in
attesa da un po’.
Lui e la Segretaria si scambiarono un segno con la mano. L’Editore le disse:
« Vai pure » e, rivolto al Giornalista: « È il fidanzato. Tu sei in
macchina? Non ho voglia di andare a piedi, sento che scroscia »
« Sì, ti accompagno io »
Appena rimasero soli gli riferì della telefonata e del tono ancora
una volta imperativo con cui il Palazzinaro gli chiedeva di andare
da lui. L’Editore era preoccupato perché non riusciva a capire
come comportarsi. Avrebbe dovuto basarsi su cosa volesse il Palazzinaro, il quale di fatto non si era espresso, dicendo soltanto:
« Lei prenderà il posto di suo fratello ».
Il Giornalista lo fece riflettere su diversi elementi che lo tranquillizzarono. Gli disse che anche lui ci avrebbe pensato e, continuando a parlare, uscirono dirigendosi alla macchina. Giunti sotto casa si trattennero, tanto che l’Editore gli propose di entrare
allettandolo con dei sambudelli, appena regalati nel pomeriggio
da persona fidata, che aspettavano di essere solo messi sulla gratella e mangiati.
« Così non vale. Sai quanto mi piacciono e mi fai venire l’acquolina, ma tra poco ho una cena; anzi, devo muovermi subito, è
su dalla Cesarina: con lo scroscio ch’è venuto, la strada sarà una
reglia ». Si salutarono, con l’impegno di riparlare a breve dei fatti
legati al Cantiere e al Palazzinaro.
64
XI
La Visita Medica
Ancora riunione del mattino, colazione ore sette e trenta. La
Psicologa quel giorno non doveva recarsi a scuola e ciò bastava
a spargere aria festiva. L’Editore esordì con il primo suono della
giornata:
« Quando hanno portato quei sambudelli, ieri, ho pensato subito al Giornalista. Tu - rivolto alla figlia - li schifi proprio, io
non ne posso mangiare troppi e tua madre li assaggia appena; li
regaleremo a lui se non viene qui. Gli ho detto di salire quando
m’ha accompagnato e ho avuto l’impressione che abbia preso
una scusa »
« No, era fuori a cena davvero, non era una scusa »
« Ma tu come fai a saperlo? » intervenne pronta la madre.
« Me l’ha detto lui in ufficio, mentre il babbo era di là col direttore del Monte, ieri sera »
« A proposito: l’hai invitato per Natale? » riprese la moglie.
« Sì, ma lui parte la sera stessa: va in capo al mondo, in Norvegia;
m’ha detto anche il nome di un paesino su in cima, in pratica va
al Circolo Polare Artico »
« Se parte la sera di Natale può venire a pranzo » insistette lei.
« No, il giorno di Natale, a pranzo, deve essere in casa. Ha detto
che non è mai mancato una sola volta nella vita »
« Ma adesso è solo »
« E infatti pranza da solo. Naturalmente lo hanno sempre invitato, ma anche quando era in buoni rapporti con la sorella rimaneva in casa »
L’Editore avvertì che le due donne erano, in diversa maniera, incuriosite e contrariate per l’assenza di quell’ospite che era giunto
in casa loro, per la prima volta (*), due giorni prima e del quale
già parlavano quasi come fosse di famiglia.
« E va a vedere l’aurora boreale da solo? » fece la moglie.
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« Chiediglielo - le rispose - Mi ha descritto un libro raro, così
bene che sembrava di vederlo, un codice miniato, un libro d’Ore.
È un piccolo messale che usava una gran dama di Borgogna seicento anni fa (sembrava la conoscesse: ha pronunciato un nomignolo in patois) e ora lo possiede una signora francese che abita
a Oslo o nel paesino dal nome che sembra italiano; ha una villa
o castello, non so. Da quel che ho intuito questa donna ha ereditato molte cose antiche. Credo che il Giornalista vada su da lei »
« Lui va su dal codice miniato » sfuggì obliquo alla moglie.
« Se non condisci con una presina di malignità tu stai male, vero?
- le fece il marito - Va senza dubbio a studiare quel libro che già
conosce e forse vorrà capire se lei intende venderlo ».
La figlia, che aveva ascoltato concentratissima senza accennare
una sola sillaba, si alzò di scatto:
« Si fa tardi. L’ufficio è un magazzino di pacchi, l’albero è da
cominciare, anzi da andare a prendere; dobbiamo tirare fuori i
pezzi del presepe e tu a mezzogiorno devi essere al treno. Guarda che mette a neve… »
« Ho le gomme termiche. Per gli addobbi non preoccuparti: li
faremo tutti insieme, ci aiuteranno le nuove venute. Sarà un divertimento per tutti ».
Il Giornalista rincasò che i carrarmatini della nettezza urbana davano la sveglia coi loro spazzoloni rotanti e si sorprese a pensare
ai giapponesi che coltivano la filosofia del silenzio nell’inferno
di Tokyo. Si ricordava dei ragazzi che correvano nella metropoli
addormentata a lasciare i giornali sulle porte delle case e il latte
portato su cariaggi ovattati... e l’esercito muto di cani sparpagliati all’alba nei parchi moscoviti con annessi padroni, signori
del freddo che manda in ferie i palazzinari: a meno venticinque i
cantieri chiudono per legge.
Pensò di essere un conoscitore di primi mattini, uno specialista
di risvegli: avrebbe potuto descrivere gli sbadigli di Parigi e di
New York, la faccia di un pilota che atterra per la prima volta
nel budello di Timbuctu; le ultime battute dopo una nottata di
tafferugli letterari da Ferlinghetti a San Francisco ma sempre e
solo all’alba. Il resto delle giornate, lui, l’aveva dormito o passato
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dentro un casco o sollevato a migliaia di metri da terra: la sua
vita gli scorreva, nella parte più conservatrice della sua rete neuronale, in questa maniera, normale o distorta che fosse. Pensò
alla cena, durata quanto il turno di un cottimista, alla distruzione
dell’ennesimo maiale e alla resistenza eroica di uno stomaco che
il Giornalista usava da settantanni. Ma non lo appesantivano né
la digestione, naturalmente in corso, né l’affollarsi dei sapori dei
bagordi passati. Anzi, continuavano a piacergli tutti i piatti tradizionali, oggi ritenuti poco salutari.
Si ripromise di riprendere un’usanza tralasciata per le intemperie
sociali di cui s’era trovato al centro, grazie alle sue battaglie giudiziarie e giornalistiche, legate a doppio filo. Lui dava ogni anno
una “cena del maiale”, che iniziava puntuale un minuto dopo la
mezzanotte del ventiquattro Dicembre.
Maiale femmina, scrofa o troia, allevata a ghiande e broda, ammazzata al raggiungimento dei duecentocinquanta chili: così la
prescriveva il Maestro. Poi l’animale veniva spezzato in casa,
nell’apposita stanza del palazzo, da vecchi norcini di chiara fama.
La sera del ventiquattro venivano apparecchiate in due sale attigue due tavole, identiche, ognuna capace di una trentina di persone. A mezzanotte (e un minuto, per non offendere la Vigilia
nera di nessuno) si cominciava: ciccioli, soprossata, migliaccio
con le animelle con sale e formaggio, salsicce, sambudelli, lombo, bistecca; tutto rallegrato da enormi pinzimoni di sedano, carciofi, finocchi, radici.
Alle due e mezzo si sparecchiava. Dopo tanti vini, si servivano
i liquori e sulla tavola sbrogliata comparivano le carte. Il gioco
della Bestia durava fino alle quattro e mezzo in punto e chi ce
la faceva passava nell’altra stanza dove, alle cinque (la puntualità
garantiva che non si era perso la testa) venivano serviti gli spaghetti aglio, olio e peperoncino e, a seguire, una cena identica
alla precedente.
Si chiamava “la Visita Medica”: in occasione dell’ultima, nel
2005, in cui erano partiti in ventidue, alle sette del mattino sulla
seconda tavola erano in sei a prendere il caffè. Era scontato che
il Giornalista, essendo organizzatore e ospite, desse l’esempio
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in ogni edizione della cena, che condusse senza saltare una sola
portata anche quella volta che aveva un febbrone da cavallo e,
mangiando, gli passò. Da qualche parte, nei cassetti, il Giornalista conserva la lista dei partenti della Visita Medica annuale e di
coloro che sono giunti orgogliosamente in fondo.
Il Giornalista preparò la caffettiera e la mise sulla piastra elettrica. Fuori, il rumore di passi e il vocio, sovrastati e intervallati dal
transito dei veicoli, inauguravano ufficialmente un’altra pagina
del calendario sottolineando, nella sua casa, la crescente precarietà dell’equilibrio tra mezzi di sopravvivenza e gli arnesi con
cui si ostinava ancora a combattere: si stavano pericolosamente
confondendo. Le stoviglie stentavano a farsi trovare al posto assegnato, l’olio non era nell’ampollina, la saliera era vuota e nel
cartone a portata di mano c’era il sale grosso; di tre confezioni
di pasta tre erano avviate, diverse e ciascuna insufficiente per
una razione normale. Due sedie e un tavolino erano occupati da
libri e cartelle di documenti. Affastellati, sovrapposti, impilati, si
apprestavano a sembrare armi le cui pallottole, anziché pronte
nei caricatori, erano ammucchiate intorno.
Vide la scena attraverso un banco di cirri, un velo di ghiaccio
d’alta quota, ma per pochi istanti quel fantasma traslucido ebbe
consistenza e lo fissò.
A chi aveva preso contropelo questa società, fin dai banchi di
scuola rifiutati, occorreva organizzazione: per lui che credeva
nel diritto e nella Legge scartando il mitra, la forza era tutta nei
libri e nel suo archivio; per chi, come lui, faceva l’alba da perditempo pretendendo poi di fare i conti con quelli che, mentre fai
baldoria, si riposano per fregare meglio il prossimo all’indomani,
occorreva un’organizzazione perfetta.
L’assenza di una donna correva sulle pareti scritta al neon e si
faceva sentire nella testa di un uomo che avvertiva la solitudine ma continuava a vivere mille vite orizzontali, allargatesi concentricamente dai suoi quindici, ventanni, assommandosi senza
privilegiare alcuna delle attività che erano nate e nascevano ogni
giorno.
L’assenza di una famiglia che ti apre un credito illimitato per
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finanziare qualsiasi avventura senza costringerti a considerare la
lunghezza dei passi rispetto alla gamba e l’assenza di tutte le cose
di cui aveva goduto e che conosceva bene, fu presente. Per pochi
attimi, ma ci fu. Con movimento simile a quello dei cani quando
escono dall’acqua, si scrollò tutto di dosso e uscì: alle nove (e
seguenti) doveva essere in tribunale.
69
XII
Natale 2009
La Cugina giunse, senza la figlia, il giovedì nel tardo pomeriggio;
l’accompagnò l’Ucraino, che non si fece vedere. Era già buio e
si fermò non proprio sotto casa dell’Editore. Sbloccò dall’interno il portabagagli perché lei prendesse una grossa valigia e una
borsa, e ripartì. Fece in tempo però a telefonare alla Segretaria,
in giro per negozi affollati dagli ultimi acquirenti:
« Che fai stasera? »
« Come hai avuto il mio numero? »
« Indovina… dai, rispondi alla mia domanda »
« Sono in casa con la famiglia » e mentre rispondeva non poté
evitare che quella voce la inchiodasse sulla parete del pub con
una forza irresistibile.
« Anzitutto, tengo a dirti che io la polvere non la uso, serve a tua
cugina. Finsi di aspirarla, ma era soltanto una scusa per mettere
alla prova te: volevo testarti »
« Ora lo sai. Ti saluto »
« Aspetta. Se vuoi continuiamo il nostro discorso con più calma… mi posso fermare e ti aspetto dopo cena dove mi dirai; la
mia macchina è spaziosa e ben riscaldata, ho una gran voglia di
spogliarti, baciarti dappertutto, infilarti la lingua nella fica e poi
scoparti »
La Segretaria era in mezzo alla gente. Lui aveva ripreso a comportarsi a parole come nei fatti quella sera. Si sentì imbarazzata
come se gli altri potessero vedere che quella voce le arrivava dritta sotto l’ombelico. Dovette tirare un gran respiro e rischiararsi
la voce:
« Ma che dici? Devi aver bevuto… ti saluto » e spinse il tasto
rosso.
A casa, salutando la Cugina che ancora non aveva visto, pensò
di raccontarle della telefonata, ma qualcosa la trattenne. Dopo
70
cena, mentre rifinivano l’albero con candeline e ciondoli in cerca
di equilibri e simmetrie, la Cugina le disse:
« Non esci? »
« Perché, hai voglia di uscire? »
« Io no, sono stanca. Ma tu, se vuoi, puoi farlo »
« Capita il mio fidanzato, viene a salutarvi »
« Sei ancora fidanzata con lo stesso? »
« Se avessi interrotto lo sapresti: ci siamo dette sempre tutto…
Sono sette anni che sto con lui »
« Appunto, è il famoso settimo anno... ».
Sopraggiunse la Cuginetta, che aveva dei problemi con il fiume
del presepe che si doveva immettere nel laghetto e la Segretaria
la seguì: aveva un gusto innato per sistemare ogni combinazione
estetica e una spiccata attitudine a costruire marchingegni casalinghi per rimediare intoppi che possono capitare ogni momento.
Erano a maneggiare carta stagnola e tavolette quando giunse il
fidanzato, che disse di essere passato per un salutino veloce, dato
che doveva alzarsi presto l’indomani: in ufficio avevano bisogno,
e poi doveva lavorare per la contabilità; erano molto indietro e il
principale voleva che l’inventario fosse pronto non oltre il ventotto del mese. Si lamentava: avrebbe dovuto lavorare anche la
mattina di Santo Stefano, tenendo sì conto che gli avrebbero pagato un super straordinario. In fondo, comunque, era un lavoro
sicuro con qualche soddisfazione, concluse, e risalutò. Accompagnandolo, la fidanzata gli disse che poteva venire a pranzo il
ventisei, ma lui quel pomeriggio sarebbe stato impegnato in una
partita importante di palla al cesto.
La mattina di Natale si incontrarono, il Giornalista e l’Editore,
poiché quest’ultimo gli aveva telefonato la sera prima.
« Allora si parte: a che ora devi essere in aeroporto? »
« Prendo l’aereo il ventisette »
« Ma s’è così puoi partire con calma... »
« No, devo essere a cena in città; parto nel pomeriggio, te lo
volevo dire perché, in qualche modo, diciamo che ti riguarda »
« Come? »
71
« Sono a cena con l’Architetta, la figlia del Palazzinaro »
« Brutto birbante. Non la conosco, ma tutti parlano di questa
splendida quarantenne. Dicono che sia anche un bravo architetto… è divorziata, vero? »
« Sì »
« Ti sistemi, eh? »
« L’avrei fatto a ventanni. Sono stato sull’orlo del matrimonio
a Vienna con la figlia di un socio non minore dei Krupp. Per il
diciottesimo compleanno, il babbo le regalò un attico sulla Mariahilfstrasse. Perdona la narcisistica reminiscenza, ma è per dirti
che certe scelte non l’ho fatte allora né più tardi e difficilmente le
farò a settantanni suonati. L’Architetta la incontro per via di quel
megaprogetto del Nuovo Polo universitario: una speculazione
edilizia con impatto devastante »
« Sì, questa la sera di Natale per il progetto urbanistico, l’altra a
Capodanno che ti ospita in cima al mondo per il codice miniato... a chi le dai a bere? »
« E allora prendila come preferisci »
« Scherzo, scusa se mi sono permesso... »
« Fa’ pure… Piuttosto ricorda che pensavo di dirtelo. Per via
di questa storia misteriosa del Palazzinaro con te, m’è venuto
in mente che, se capita l’occasione conversando, potrebbe venir
fuori qualcosa su tuo fratello, col dire che lo conoscevo, essendo
compaesani. Sarebbe naturale domandare cosa facesse tuo fratello con suo padre. Vedremo se ci sarà l’occasione »
« Io t’avevo chiamato perché volevo parlare del Palazzinaro:
quello vuole che ci vediamo dopo le Feste. Allora come mi comporto? »
« La prima cosa che devi fare in città è trovare i libri, la Bibbia e
il Vangelo, poi... »
« Ci penserò durante le Feste; tu quando torni ? »
« Non lo so »
« Buon viaggio e in bocca al lupo ».
Il paese era accerchiato dalla neve: piombava dalle montagne
mulinando sui tetti e nelle strade con folate rabbiose; lo spettacolo di qualche passante inclinato a spingere contro vento l’om72
brello toglieva al Natale la quiete e il calore che si godono sotto
le grandi coltri bianche stabilizzate sul terreno.
In compenso, a tavola, l’Editore era messo come un cristo. Aveva dovuto scegliere fra trovarsi la nipote, arrivata la sera avanti,
e la cognata giunta a mezzogiorno, più lontano ma di fronte,
oppure vicino avendole di lato. Pensò con rammarico al mancato acquisto della fratina di quasi cinque metri che a suo tempo
gli avevano offerto. Come rifinitura, la nonna, tra i cappelletti
in brodo e il cappone, si premurò d’informare il capofamiglia,
“altrimenti me ne dimentico”, che qualche giorno prima l’aveva
cercato il commendatore, telefonando agli uffici e a casa. Dovette anche ringraziarla. Al dolce fu la moglie a lanciare un’esclamazione che fermò i fotogrammi dei commensali con forchettine
e cucchiaini in aria.
« Non abbiamo fatto gli auguri alla Regina madre, è proprio vergogna! » e guardò stizzita il marito, poi rivolgendosi alla figlia
disse di chiamarla. La Segretaria lo fece: parlò con lei con la
sua voce sommessa, che in questo caso diveniva sottomessa, poi
diede il telefono alla mamma che, esaurita la sua razione di convenevoli, passò l’apparecchio agli altri.
« Chi è la Regina madre? » fece la Cugina accostandosi alla Segretaria, che aveva accanto, mentre la Zia, bevendo il terzo bicchiere
di vinsanto dopo numerosi bianchi e rossi, si stava trasfigurando
nella Santa Teresa del Bernini.
« Ma quella che chiamo la “Vice nonna”: la conosci, ci siamo andate - e le si avvicinò all’orecchio - quella volta che scappammo
di casa... »
« Che poi rimanemmo senza benzina... »
« E ci diede un passaggio quel meccanico col furgoncino, ricordi? »
« Sì, e poi ci fece pagare il biglietto... »
« Veramente lo pagai io ch’ero in mezzo, accanto a lui » e risero
entrambe divertite.
« E poi, per ritornare alla macchina, lo stop al vecchio aristocratico con la Jaguar, che ci invitò a pranzo al grill dove empimmo
la tanica di benzina: fu veramente gentile »
73
« Vedi, com’è buffo, a lui il biglietto l’avrei pagato volentieri e
non lo chiese »
« Non saremo state il suo tipo... ».
La tavola era divenuta il solito sconquasso di fine greppia: l’Editore s’era slacciato il corpetto del completo lievemente gessato
in blu e rosso, che metteva di rado, e il primo bottone dei pantaloni. La nonna fece una griccia per mascherare uno sbadiglio.
« Bisogna badare la Zia perché non caschi dalla sedia » disse la
Cugina.
« Il Bumbo non l’ha mai disdegnato, ma gli dà sotto da quando il
suo compagno l’ha piantata per la rumena che andava da loro a
servizio - le rispose l’altra alzandosi - Vado a dare una mano alla
mamma in cucina ».
Verso le sei vennero a casa due ragazzi invitati dalla Psicologa
come aspiranti cavalier serventi della Cuginetta, una matura adolescente con due tette a pera a picciolo in su (non a cipolla, che
quando le vedi ti fanno piangere) e un mandolino che qualcuno
aveva già suonato in gran silenzio, nonchè una wunderkammer
col labbro inferiore inconfondibile: un futuro di piacere e di distruzione per i maschietti.
Li squadrò, con gli occhi mezzani della vergine di Cardarelli,
mentre si presentarono col loro abito di chierichetti/sacrestani in libera uscita, reclutati nell’ambiente talare che la famiglia
frequentava. La sera, in discoteca, c’era il veglioncino di Santo
Stefano e i ragazzi avrebbero fatto un figurone con la fighetta
forestiera. En passant, i due, impacciatissimi, estesero l’invito
alle due adulte, che sorridenti lo declinarono con smaccata aria
di sufficienza.
Dopo cena le due uscirono da sole. L’aria si era calmata, il cielo
sereno. Il termometro era sceso alcuni gradi sotto lo zero e la
Cugina, in pelliccia un po’ mascolina di lupo siberiano e un colbacco di visone caudato, dono dell’Ucraino, fece presente che
non si sentiva troppo vestita. La Segretaria aveva un piumino
lungo fino al ginocchio e una berretta di lana. Doveva proteggere bene le orecchie, perché aveva sofferto in culla di una grave
forma di otite catarrale che le aveva lasciato una certa fragili74
tà dei timpani, specie quello destro. Le due donne erano come
l’ambiente intorno, distese e calme, tanto che ricordarono i tempi di una loro comune infanzia felice: la più grande quasi dodici
e l’altra otto, con la nonna al mare, lunghe vacanze tutte giochi
e sogni. Quel giorno che, proprio sulla spiaggia, la Cugina era
corsa in cabina impressionata per la prima mestruazione. E la
Segretaria che era cresciuta via via alla luce delle sue esperienze,
come chi segue qualcuno che avanza in un campo vergine di
neve fresca, trovando sicurezza nelle orme altrui.
Camminando si trovarono di fronte alla discoteca, e pensarono
di fare un saluto alla sorellina/Cuginetta. Dovettero costatare
che i più vecchi avevano ventanni, tranne tre o quattro mosconi
sui trenta (forse anche trentacinque), immancabilmente in cerca di un prosciutto senza garza di protezione, dove è sempre
possibile trovare alloggio. Uno di loro si accostò per salutare
la Segretaria, che fece le presentazioni, ma poi, accostandosene
un altro, dissero che se ne sarebbero andate di lì a poco, erano
senza biglietto.
La Cuginetta ballava a turno con i suoi due accompagnatori che
la marcavano veramente da vicino, seguendo ogni tanto la stagista di turno: una sembrava fare il verso all’Eva dei pittori controriformisti, avvitandosi intorno a un palo che fungeva da albero
del peccato; le mancava solo la testa del serpente. Salutarono la
ragazza e i due accompagnatori per tornare sul viale.
« Due ragazzi che l’asfissiano saranno un bell’ impegno per tua
sorella… »
« Mia sorella se li mangia a colazione. Ci si diverte, è molto più
sveglia di quanto sembra. Una sera l’ho anche portata al pub con
noi… »
« Con l’Ucraino? »
« Perché? »
« No, così… »
« E l’ha fatta ballare, si sono trattenuti abbastanza; lui ha la chiave di una saletta di là e credo ce l’abbia portata. L’ho visto da
come s’è seduta tornando al tavolo, che l’ha servita dietro: ci
sono gli adoratori del sole e quelli come lui, che adorano il culo »
75
« Non sei gelosa? »
« E di chi? Lui è un mandrillo di quelli veri e ha un tubo di ferro
che non si deve arrugginire. Per una volta, gliel’ho fatta provare.
La mia sorellina non è più vergine da un pezzo e l’importante è
che non rimanga incinta... se continua così - disse ridendo - non
ci rimane di sicuro »
« Di palo in frasca: perché non hai portato tua figlia? »
« Sai come siamo messi… Avrebbe voluto venire anche lui, c’è
stata l’ennesima discussione e sono venuta via: la bambina è con
suo padre e con i nonni, in fondo non l’ho mica lasciata all’orfanotrofio » concluse seccata e cavò dalla borsa la tabacchiera che
la Segretaria aveva visto quella sera al pub in mano all’Ucraino.
« Ne vuoi? »
« No, io no. Ma anche tu stasera lascia stare… siamo state così
bene, non fuggire » e le prese con tanto garbo la mano riaccostandogliela alla borsa.
Giù in discoteca, la Cuginetta era stata presa di mira da uno
dei mosconi, che verso le tre le si avvicinò invitandola a ballare.
Dopo poco, lei si rivolse ai cavalier serventi:
« Torno subito, mi deve mostrare una cosa » e ridendo volò via.
Ricomparve alle quattro e mezzo. Uno dei due lasciati in sala,
che era già in fase di innamoramento, le si rivolse con tono da
scenata: « A questo punto potevi farti accompagnare da lui... »,
ma l’altro intervenne: « Dai, tanto è ora di avviarsi a casa, ti riaccompagnamo ».
Il viaggio era breve. Giunsero sotto casa. Lei, da un lato voleva
rimanere equidistante dai due, dall’altro dimostrarsi la ragazza
cittadina disinibita che non si impegna con nessuno.
Appena la macchina si fermò, anziché scendere, da dietro passò
tra i sedili e si mise a sedere tra i due ragazzi, allargando le gambe
ai lati della leva del cambio. Poi si girò verso l’incazzato e gli appoggiò la mano sui calzoni accarezzandolo e, ruotando appena,
allungò l’altra mano sui calzoni del secondo. Ai due, che avevano
passato la notte sulla soglia di continui attacchi di priapismo,
ci volle poco a essere pronti: glieli estrasse e democraticamente
fece una sega a entrambi, poi con tempismo professionale, se76
guendo il loro crescendo, li finì, girando e abbassando la testa a
sinistra e a destra, con una delicata rapida fellatio in ore.
« Grazie di tutto e buonanotte » disse scendendo, mentre i due,
incapaci di rispondere, rimanevano lì intirizziti come baccalà salati. Non si sarebbe mai saputo se e dopo quanto tempo si fossero rimossi da lì.
77
XIII
L’Architetta
Il Giornalista e l’Architetta si incontrarono alle nove, lei dopo un
breve tragitto dalla città e lui dopo un disagiato viaggio di tre ore
con vari impicci da neve e ghiaccio. L’unico vantaggio era rappresentato dal fatto che, nel pomeriggio natalizio, le automobili
erano scomparse.
Il ristorante era su in cima alla collina, a terrazza sulla città. Lei,
che aveva riservato il tavolo, arrivò con una fusciacca di astrakan
sopra un tailleur rosso sangue di piccione, su cui la collana di corallo, di identico colore, scompariva. L’Editore non aveva torto:
era un’affascinante valchiria, che da vicino comunque dimostrava tutti i suoi quarantatré anni.
Il menu era da post prandium festivo, ma studiato per chi deve
pensare, parlare e forse spendere altre energie. Qualche tartina
e una coppa di De Castellane riserva, sgassato dal cameriere e
servito, poi un minicocktail per solleticare l’appetito.
« Siamo al punto di doverci vedere in una sera particolare perché
oberati di impegni: non so se sia un bene o un male. Domani
sera io parto per New York e anche lei, se ho capito, deve prendere il volo »
« Sì, ma con più calma: io parto dopodomani e rimango in Europa »
« Dove, se posso? »
« Oslo »
« Non sa quanto la invidio… Sebbene ultimamente, purtroppo,
si sia deteriorata socialmente, conserva un tocco parigino e uno
viennese nell’atmosfera civilmente agricola della Norvegia »
Brindarono ancora al loro incontro, mentre ognuno studiava il
proprio interlocutore con la nonchalance di chi la sa lunga sul
serio.
« Lei è sposato? Ha figli? »
78
« Divorziato »
« Idem, ma non mi ha risposto sui figli »
« Sì li ho, grandi con figli. Veniamo al motivo del nostro incontro
- disse il Giornalista, che non gradiva il monopolio intrapreso
da lei nello scegliere dove dirigere i temi della conversazione - Il
progetto del nuovo Polo Universitario è pronto? »
« En principe, per dirlo con la parola più adatta, sì, il progetto
di massima è pronto. Nelle sue grandi linee l’ho qui con me, è
a sua disposizione. Ovviamente mancano i quintali di carta che
riguardano le singole strutture, il loro stato attuale e di sviluppo.
Ma qui, in formato A4, ha un sommario e un indice delle costruzioni, delle cubature previste, può vedervi le strade e le altre
opere di urbanizzazione. Io mi fido di lei e preferisco, se deve
scrivere, che lo faccia con cognizione di causa »
« Architetto, quel che so dai giornali è già sufficiente per scrivere
una compiuta introduzione sull’impatto ambientale, che già da
solo sconsiglia la realizzazione di un simile progetto. Dopodiché
lei dovrà depositare il progetto in Comune per ottenere tutte le
autorizzazioni, e io ne potrò prendere visione »
« Vista sotto questo profilo, la nostra conversazione è inutile:
perché ci siamo incontrati? »
« Valeva la pena per averla al mio tavolo » le rispose con evidente
galanteria scherzosa, ma pertinente.
« Ecco: arrivano dei raviolini di granchio d’acqua dolce in brodo,
pensiamo a questi allora... »
« Una spoja lorda, rivisitata, di matrice romagnola »
« Lei è anche un gourmet »
« È da molto che mi tengono in questo mondo e ne ho fatte
molte... senza eccellere in nessuna »
« Ah, sì… va bene, anche modesto. Lei è un autentico pericolo »
« Disprezzo la modestia, per quanto ammiro l’umiltà »
« Ho capito. Toccate le secche degli aforismi, chiamiamoci per
nome, e tocca alla donna chiederlo »
« No, tocca al più vecchio e non c’è dubbio su chi sia tra noi due ».
Il cameriere stava per versare da bere quando lui, ringraziandolo,
lo dispensò dalla sua incombenza per il prosieguo del servizio.
79
Lei avvertì nel gesto sia la classe dell’uomo che l’intimità che lui
stava dando alla loro cena.
« Carte in tavola - fece lei - Valeva la pena di venire qui per conoscerti e mi auguro che possa essere lo stesso per te »
« È così anche per me »
« Ne deriva l’inutilità di consegnarti
queste carte »
« Non correre, il progetto è tanto importante per te da realizzare
quanto per me fermarlo »
« Ma che te ne viene? »
« Non mi pugnalare con questa maledetta domanda. Dovrei o
devo semplicemente risponderti che la città, a cui vuoi estirpare
il cuore, mi piace com’è. Occorrono altre ragioni per combattere
una battaglia e scrivere un libro sull’argomento per cercare di
vincerla? Col tuo progetto esporti le facoltà di studio più antiche
dalle loro sedi storiche in una specie di suburra di cemento dove
verrà svisata in primo luogo la dignità dell’insegnamento. Pensa
a Diritto, per esempio: il progetto calpesta le leggi fondanti della
tutela dell’ambiente e dei beni culturali e noi dovremmo vedere
la facoltà di diritto ricoverata in un abuso del genere? »
« Capisco ciò che dici, ma ripeto: ho bisogno di sapere ciò che ti
porterebbe l’eventuale vittoria »
« Più nemici di quelli che ho già, te compresa. Mettiamola così:
sono un classicista inguaribile, non un reazionario per carità.
Sono uno di quei classicisti che esige di salvare il meglio e che
aborrisce di fare d’ogni erba un fascio: uno che disprezza il nuovo per il nuovo, come certa scimmiottescante arte cosiddetta
“d’avanguardia”. Qui si tratta di interessi enormi, soldi solo soldi, e poi... e poi il Polo Universitario è lo specchietto, ma dietro
verranno Tribunale, uffici pubblici di ogni tipo e i grandi Palazzi.
Svuotati dall’operazione di export, verranno ristrutturati, venduti, avviliti e sviliti. Ti pare un’operazione di urbanistica degna
del nome? » e si accorse che stava facendo un comizio, alzando
la voce, quindi aggiunse
« Scusa. Hai voluto che ci si chiamasse per nome e io sto chiamando tutto per nome... ».
Lei doveva essere perlomeno infastidita per quelle critiche rab80
biose al suo progetto, e invece era incantata. Ne aveva conosciuti
di pazzi o idealisti, termini che per certuni sono sinonimi, ma
questo che aveva accanto era vero: se fossero stati soli gli avrebbe messo le sue mutandine nel piatto.
Mentre servivano uno sformato di carciofi da associare a un assaggio di rognoncini con patate duchessa, lei gli sfiorò la mano
« Sentiamo come sta il Nobile con questa portata. Su tua richiesta l’hanno preparato fin dall’inizio »
« Bisogna però escludere i carciofi, buonissimi, ma non per bere.
I carciofi, come il fegato di maiale, due cibi di cui sono ghiotto,
non vanno d’accordo col vino. Si può tentare col bianco, un
Cervaro della Sala, o con un vino allegro come il Lambrusco, ma
rimane sempre una forzatura. Scegliamo: o si mangia lo sformato di carciofi o si beve il Nobile »
« Si beve il Nobile » decretò l’Architetta.
Per concludere giunse un vassoio di castagne flambé con due
coppette di ciliege sotto spirito.
L’Architetta aveva deciso:
« Vieni a casa mia? »
« L’unica domanda più maligna di quella “ Che te ne viene a te?”
è questa. La tua bellezza, il fascino e l’attrazione che provo sono
fuori discussione, ma sto andando a Oslo da una donna e tu...
noi non siamo da una notte sulle soglie di un check-in »
« Io vado a trovare mio figlio, che studia ad Harvard…è il suo
primo anno di università; l’altra mia figlia è a Londra, vuol dire
che stanotte tornerò ancora da sola in quella casa che mi diventa
ogni giorno più larga »
« Dimenticavo: tu conoscevi il Commercialista che è morto avvelenato con la moglie su alla baita »
« Sono stata al funerale… perché me lo chiedi? »
« Era un mio compaesano e so che lavorava da tempo per tuo
padre »
« Il Commercialista era molto amico di mio fratello. Militari di
leva insieme, fu lui a farlo assumere da mio padre e venne apposta in città. Io avevo cinque, sei anni all’epoca, ne correvano
sedici tra me e mio fratello. Poi il Commercialista aprì il suo
81
studio e da dipendente divenne collaboratore di mio padre. Più
tardi, dopo la morte di mio fratello in Africa, divenne una specie
di socio, una persona di famiglia nel Cantiere ».
Prima di salutarsi, l’Architetta appoggiò due grosse buste, con il
suo progetto, sul sedile della macchina del Giornalista:
« Così ti ricorderai di me » gli disse.
Promisero di rivedersi e ognuno prese la sua direzione.
***
Il pomeriggio del ventisette il Giornalista arrivò a Oslo. L’ultima
volta c’era stato otto anni prima, diciamo per lavoro (termine da
lui aborrito: ripeteva che viene usato solo per indicare attività
odiose svolte per campare) dovendosi recare al Museo Nazionale per una consulenza. All’aeroporto lo aspettava l’Ereditiera. Si
erano conosciuti qualche mese prima e da qualche tempo non
si vedevano.
Ma essersi trovati li significava che si volevano.
L’aveva infatti incontrata a Parigi, a fine Settembre, alla Biblioteca Nazionale; si erano frequentati per più di una settimana e
avevano stretto un patto: l’aurora polare insieme (metafora del
loro incontro) per bruciare la scopa vecchia e nell’intervallo di
tempo nessuno strascico telefonico, elettronico, skype-video,
postale. Due mesi di silenzio, poi si sarebbero sentiti a data fissata, nel giorno del solstizio, dicendosi se l’appuntamento fosse
stato ancora valido.
Ci fu una curiosa discussione per stabilire chi dei due avrebbe
dovuto chiamare il ventuno Dicembre, poiché in pratica chi l’avesse fatto si sarebbe scoperto, dimostrando che aveva deciso
di confermare l’incontro. Nemmeno l’e-mail sarebbe stata adatta perché comunque uno dei due l’avrebbe ricevuta per primo.
Giunsero alla conclusione di darsi un appuntamento all’aeroporto di Oslo-Gardermoen: solo allora avrebbero saputo. Ma
immaginare quell’uno dei due che avrebbe potuto trovarsi lassù
da solo era stato terribile. Si accordarono sul telegramma, da
spedire il giorno ventuno alle undici di mattina (il Giornalista
82
non era d’accordo per l’ora “antelucana”, ma poi accettò) a cui
sarebbe seguita una e-mail di avvenuto ricevimento.
Questa nuvola romantica, bianca, sfumata nell’azzurro di un
temperamento crepuscolare, affascinava entrambi e l’avevano
capito dalla prima passeggiata lungo la Senna, curiosando per
le bancarelle dei librai. Lui, sul far della sera, l’aveva presa per
mano e giunti alla scaletta di Quai-Voltaire erano discesi sulla
panchina del fiume, risalendo verso il Ponte della Concordia e il
Petit Palais.
Alla luce dei primi lampioni avevano fatto l’amore.
L’Ereditiera aveva un nido che si affacciava sul cimitero di Montmartre e il Giornalista disponeva, similcasa, della camera N. 59
all’Hôtel Pas de Calais in Rue des Saints-Pères: a volte, arrivando
all’improvviso, trovava la camera occupata e ne rimaneva contrariato, ma generalmente i proprietari facevano in modo che
ne potesse disporre. Ci aveva dormito la sera dell’otto Maggio
del Sessantotto, quando all’incrocio tra i Santi Padri e Boulevard
Saint-Germain, ingombro dei primi blocchetti disselciati dagli
studenti della vicina École de Médecine, gli avevano rovesciato il
taxi su cui poi lanciarono una molotov. Da quella sera di scampato incendio, trovato rifugio al Pas de Calais, giusto a meno di
cento metri, i tetti sottostanti alla finestra della N. 59 erano stati
la sua Parigi.
Anche sul primo letto c’era stata una discussione tra loro: lei
voleva che andassero nel suo nido e lui nella sua camera sui tetti.
« Ma come… in un albergo? » aveva eccepito lei.
« Meglio in un albergo, nella mia camera, che nel tuo nido: non
mi dire che non hai mai ospitato nemmeno un altro » aveva ribattuto lui.
Tirarono a sorte per dare una precedenza. Poi lo fecero sui letti
di nido e di albergo.
In quei pochi giorni avevano avuto solo un flash della loro possibile vita insieme, a cui s’erano trovati a pensare senza dirselo, ma
questo fu sufficiente per ricevere gratificazioni nella vita intima
e in quella sociale. Lei, che aveva compiuto trentacinque anni
all’inizio dell’estate, aveva un corpo solido e la pelle levigata; cal83
da come una creola, anche i suoi gemiti erano aristocratici, ma
di una sensualità che zampillava. Perfino all’orgasmo giungeva
senza essere sguaiata, convincendolo che stessero realmente salendo verso l’infinito.
Per lui contava molto quanto lei, carnalmente, riuscisse a fargli sentire che il miracolo sortiva dal suo modo di essere virile,
trasmesso esattamente sulla giusta lunghezza d’onda. Quando
uscivano erano una coppia che prendeva la scena, una coppia
fatta su misura per Parigi. Lui conservava le physique du rôle
del sessantottino, capelli molto lunghi che ora, anziché sciolti,
erano raccolti in folta coda; barba incolta e bianca, tracciata di
nero, che acuiva l’impatto degli occhi marroni a guardia di un
naso aquilino. Alto e magro, camminava naturalmente senza mai
appoggiare il tallone, cosa che sarebbe stata normale col passare
degli anni. Lei, di un biondo castano, gli arrivava all’altezza della
bocca. Il corpo era magnifico, il viso particolare con uno sguardo alla Simone Signoret.
Una coppia originale, di artisti, se volete bizzarra. Lui poteva
essere uno scrittore on the road e lei una violinista.
Una notte, mentre dormivano abbracciati, lui la condusse al
Grand Circle, il casino più esclusivo della Ville, circolo privato
famoso in tutto il mondo. La condusse in uno di quei sogni che
quando ti svegli stai male, perché sono così chiari e colorati che
ti ostini a impedire che quella realtà, col risveglio, possa evaporare.
« Prima o poi ti racconterò in che modo strano sono divenuto
socio di questo circolo, sennò potresti credere che sono un milionario o un mafioso. Qui ho giocato con gli invertebrati della
moda e coi petrolieri, ho visto sudare i potenti della terra aspettando che uscisse dal sabot la seconda carta. Come siamo tutti
travestiti di una sicurezza inesistente… ».
Nelle sale da gioco le donne non erano ammesse e lui, comunque, non avrebbe mai giocato in compagnia. Scesero la scala per
raggiungere il ristorante che, sotterraneo, si trovava sotto l’Arco
di Trionfo e più precisamente sotto la lampada del Milite Ignoto
(i francesi non ne volevano sapere di un connubio del genere,
84
ma finché campò il boss corso, amico di Pompidou, il circolo
rimase aperto, fino al Novanta circa). Li fecero accomodare al
tavolo che lui, poco prima, aveva fissato per telefono.
Il maître venne subito da loro, salutò il Giornalista con rispetto familiare e fece un inchino alla signora, complimentandosi
con lui attraverso uno sguardo di complicità discreta. La cena fu
all’altezza del giardino tropicale dove cenavano, delle divise dei
camerieri, delle stoviglie preziose dove venivano serviti ricette
classiche e manicaretti, e del cerimoniale. Uscendo senza saldare
il conto soltanto una donna come lei, cresciuta in ambienti fuori
dell’ordinario, poteva intuire che il fatto fosse normale per un
socio. Anche se le avrebbe destato meraviglia apprendere che il
Giornalista non pagava proprio, poiché era sempre ospite quando voleva. Il circolo viveva su gente della sua specie, che, pur
non essendo ricca, trascinava il tavolo alle stelle, come era successo più volte, e tutti nell’ambiente ricordavano alcune famose
partite.
***
VARDO
Nella dimora su a Vardo, in cima alla Norvegia, trovarono il camino acceso. La casa aveva la facies più del castello che della
villa; in dépendance alloggiava la famigliola del casiere, moglie e
marito, che l’avevano vista crescere e consideravano il luogo casa
loro, con una figlia rimasta nubile: erano loro i veri residenti.
Assunti dal nonno dell’Ereditiera, banchiere austriaco di terza
generazione, allorché acquisì quella proprietà dopo le prime
smargiassate di Hitler, vi erano cresciuti e invecchiati. Il nonno,
messa la proprietà nelle condizioni migliori con un grosso lavoro di ristrutturazione nel 1938, quando anche Mussolini varò
misure anti ebraiche, si ritirò lassù tra i fiordi, a Vardo, a spiare
che piega stesse prendendo il mondo, sempre più scuro, specie
per gli ebrei.
Il banchiere sbagliò i suoi calcoli prediligendo il Circolo Pola85
re Artico alla casa che aveva sulle colline ginevrine, poiché la
fascia estrema scandinava sarebbe poi stata al centro di scontri
catastrofici. Così, nel ‘42, lui e la moglie lasciarono le consegne
e un gruzzoletto alle persone ormai familiari e migrarono direttamente negli States.
« Voglio che tu abbia almeno un’idea di me e delle mie origini.
Mio padre nacque a Boston e laggiù sposò, appunto, una bostoniana di razza che è mia madre. Tengo a dire che io però sono
nata a Parigi, più precisamente a Neuilly, ottantesimo distretto,
Hôpital Americain. Da bambina, dopo la morte di mio nonno, che era tornato quassù dopo la guerra a vedere il miracolo
del suo rifugio sopravvissuto alle bombe, venivo con i miei, che
amavano questi boschi e la gente del posto. Mio padre, poliglotta, parla, oltre al norvegese, il dialetto di Vardo, uno dei tanti
aasen esistenti ».
S’incupì, girando per la stanza dove spiccava un grande paesaggio, uno dei rari che forse Munch aveva dipinto nei momenti di
pausa tra un attacco dissociativo e il susseguente. Poi riprese:
« Un giorno i miei si sono separati, e ora passano il tempo a
telefonare nelle diverse case, alle persone di servizio, per sapere
se c’è l’altro, prima di recarvisi con qualcuno. Mia madre non ha
un amante, e nemmeno mio padre perché ne ha una per ogni... »
« Ti addolora la situazione dei tuoi... »
« Ho sofferto molto quando è successo. Nessuno dei due ha
chiesto il divorzio. Continuano a frequentare gli stessi ambienti
e quando uno arriva trova le tracce dell’altro... mia madre gli ha
fatto degli scherzetti... - e finalmente sorrise - Te ne racconterò »
« Dove sono stati a Natale? »
« Non so ufficialmente dove fosse mio padre, non ci siamo fatti
nemmeno gli auguri, ma era a Miami... mia madre in Bretagna
da mia zia ».
Ora si erano seduti e si guardavano senza parlare, leggendosi reciprocamente negli occhi la soddisfazione di essere arrivati insieme in cima alla loro scommessa, cominciata per gioco e divenuta
un divanetto davanti a un camino che ardeva.
E loro erano lì, a scaldare il fuoco.
86
Per tre giorni uscirono soltanto per camminare sulla neve, senza
programmi e meta, commentando lo spettacolo del bosco di cui
si vedevano le masse ma non i verdi ch’erano sommersi dalla
neve. Lui aveva chiesto e ottenuto di non servirsi dei domestici
per quei giorni: aveva bisogno di solitudine e di evadere da qualsiasi forma di socializzazione. Oltre a lei vide solo un cervo, che
a pelo riuscì d’un balzo a saltare il recinto e sfuggire ai due bovari
delle Fiandre che l’avrebbero azzannato.
Si mossero il trentuno, al mattino, per avvicinarsi al nord il più
possibile. Il giorno prima avevano tirato fuori dal garage un piccolo camper veloce, un Ford con due posti per dormire, attrezzato per quei climi. Era stato fatto modificare dal padre di lei
ai bei tempi con sua madre per osservare i ghiribizzi colorati
dell’aurora polare.
I casieri assicurarono che era tutto a posto: ogni mezzo presente
in garage, compresa una motoslitta, erano sempre controllati e
periodicamente messi in moto.
« Lei lo sa, Signorina - aveva detto il casiere - che, specie suo
padre, arriva all’improvviso e vuol trovare la casa come se ci
abitasse tutto l’anno ».
La modifica apportata al camper consisteva in un tetto interamente di plexiglass a intercapedine, in modo che avesse tenuta
termica e non si appannasse. Una grossa stufa, termostatata e
con una particolare uscita, garantiva un tepore costante. Il Giornalista era entusiasta di quell’aggeggio e dell’idea di passarvi la
notte. Il cielo polare è stato talmente fotografato da esimerne la
descrizione.
Lui da sempre rispettava il rituale del volo del primo dell’anno
e voleva organizzarsi. Possedeva un brevetto internazionale e
avrebbe potuto noleggiare un piccolo aereo al club con cui si
erano messi in contatto all’estremo nord.
Dormirono lassù e sul portatile consultarono il Meteosat: prometteva bene, fortunatamente, per i prossimi giorni.
***
87
Primo Gennaio, ore dieci.
Il Giornalista gridò, come di consueto: « Via dall’elica » e azionò
la messa in moto del vecchio Cessna 172 che aveva noleggiato. Raggiunta la minima temperatura dell’olio consentita rullò
sul breve raccordo. Lei, che gli era accanto, lo guardava curiosa
eseguire ogni minimo movimento. Al punto attesa, anche se era
l’unico traffico esistente, si fermò per abitudine e si mise a quarantacinque gradi rispetto alla pista. Eseguì la prova dei magneti,
aria calda, parzializzatore carburante, controllò la posizione della
levetta dei serbatoi e la constatò “su entrambi”, diede manetta
e si allineò sulla pista. Un’occhiata alla manica a vento, che era
verticale. Ruote frenate, un terzo di potenza, via i freni e cloche leggermente indietro per alleggerire il ruotino, tutta manetta
fino a raggiungere la velocità di rotazione. Un colpetto deciso
e il sole permise a lui di indicarle, già in volo, l’ombra del loro
aeroplano che correva sulla terra. Puoi decollare centomila volte,
ma il trovarsi sospesi resterà sempre un miracolo.
Il 3 Gennaio era il compleanno del Giornalista. Passarlo assieme
a lei gli apparve d’un tratto come l’inizio di un nuovo ciclo di
abitudini, e l’idea lo disturbava.
Le comunicò che aveva un impegno e che il due sarebbe dovuto
ripartire. Lei ne fu profondamente contrariata, ma cercò di assorbire l’immotivata, imprevista e improvvisa decisione. Fecero
giusto in tempo a tornare a Vardo e proseguire per Oslo dove
lui prese l’aereo. L’Ereditiera si sarebbe fermata ancora un paio
di giorni per sistemare alcune cose, prima di rientrare a Parigi.
Stavolta non dovevano inventarsi scommesse. Il loro rapporto,
nato lungo la Senna, cresciuto nell’attesa e maturato tra le betulle, aveva raggiunto il bivio in cui due persone devono decidere se
girare insieme le pagine del calendario, mischiando le abitudini di
due vite autonome. In misura diversa lo capirono e infatti si salutarono con un generico “ci sentiamo”, un bacio e un abbraccio,
una stretta forte forte.
In volo sullo Jutland, si sorprese a guardare l’orologio che lei gli
aveva regalato, riflettendo sul compleanno e sul calendario: un
Piaget col quadrante azzurro, “come il cielo”, lei gli aveva detto:
88
« Dove tu vivi realmente ».
Sulla cassa, a contatto col polso, l’Ereditiera aveva fatto incidere
ci ha già pagato il suo tributo. Era il finale modificato (da “gli” a
“ci”) di certi versi, molto enfatici, che lui aveva citato, una sera
a Parigi:
Chi è stato felice una volta/ per sempre sfuggirà alla distruzione/ la vita se
lo lasciasse/ gli ha già pagato il suo tributo.
Una lettura dei quindici anni. Quei versi erano stampati sul foglio di guardia di un romanzo che narrava la vita di un pilota di
linea, in servizio tra Londra e New York, ai tempi in cui la rotta
non era diretta e si faceva scalo all’isola di Terranova. E a Shannon questo pilota aveva una donna che vedeva per una notte
ogni quindici giorni. Finché il pilota non venne destinato a una
rotta diversa.
89
XIV
Guerre di Carta
Il Giornalista era appena tornato in paese. La mattina del 10
Gennaio dell’anno nuovo, l’ufficiale giudiziale gli notificò la
richiesta del Pubblico Ministero per l’archiviazione di una denuncia presentata due anni prima. Lui le concludeva con quella
formula, apponendola in calce, al pari di un timbro: “In caso di
richiesta di archiviazione, il sottoscritto intende essere informato
ai sensi degli artt. 406 e 408 c.p.p.”.
Il codice di procedura gli concedeva dieci giorni per presentare
l’opposizione. Si mise subito al lavoro. Corse al capoluogo e si
recò alla segreteria del sostituto procuratore che aveva firmato
la richiesta, per visionare il fascicolo ed estrarre copia degli atti.
More solito (i legulei, anche odierni, amano il latinorum) l’articolo 408, cioè l’obbligo di comunicare la richiesta di archiviazione,
era rispettato, altrimenti i magistrati avrebbero interrotto definitivamente i contatti con quel popolo in nome del quale avrebbero dovuto agire; ma l’articolo 406, l’obbligo di comunicare la
richiesta di proroga del termine delle indagini, da tempo non
veniva rispettato e il popolino degli avvocati e dei loro clienti
poco assistiti ci aveva fatto il callo. Così il Giornalista scorse le
carte contenute nel fascicolo, e constatò senza sorpresa che le
indagini, obbligatoriamente da concludere entro sei mesi dall’avvenuta iscrizione nel R.G.N.R. (Registro Generale Notizie Reato) a norma dell’art. 405 c.p.p., si erano protratte senza alcuna
giustificazione formale per due anni.
A questa enorme violazione procedurale, divenuta consuetudine, si era arreso anche lui: l’insufficiente organico della magistratura a fronte del pletorico numero di procedimenti dava agli
attributi della nostra Giustizia, la spada ...sed lex e la bilancia...
omnes equaliter, la consistenza di un bubble gum.
Estrasse subito le copie pagando l’urgenza e se ne tornò a casa.
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Era cosciente di essere guardato come il bizzarro ibrido tra l’hidalgo di Cervantes e il travet di Gogol’ che, avendo perduto il
naso, lo andava cercando in tutti gli uffici pubblici. Ma non era
riuscito, per non subire passivamente, a trovare un’alternativa
alla Legge.
L’agenda dei suoi procedimenti giudiziari in corso era gremita. Gli avvocati si stavano defilando perché, oltre a non aver da
mungere una mucca grassa, il Giornalista non era neanche il tipo
di cliente che pendeva dalle loro labbra, considerando come oro
colato tutto quel che gli si diceva. Anzi, dovevano stare attenti
a non pisciare un millimetro fuori del vaso per non prendersi
un rimbrotto: il Giornalista aveva cominciato trentanni prima a
studiare il Diritto e la Legge.
Si era comprato un Codice Penale, il giorno di San Valentino
del 1982, per difendersi da un notaio, un avvocato e due affaristi
che, in concorso tra loro, lo avevano truffato e derubato. E lui,
dopo due mesi, un Sabato Santo, depositò la sua prima denuncia: un papier di quaranta pagine con un pacco di allegati. Il Pretore (ancora esisteva: quando capace e onesto, era un caposaldo
della giurisdizione) con cui aveva conferito denunciando i fatti
verbalmente, gli aveva raccomandato di mettere tutto nero su
bianco, fin nei minimi particolari. Un giovane procuratore legale
gli avrebbe poi raccontato che il Giudice, al riguardo, si era lasciato sfuggire: « Finalmente qualcuno che si esprime in italiano
e che ti dà piacere a leggerlo ».
La condanna rivolta al Giornalista fu quella di aver peccato di
idealismo: prendeva i codici troppo sul serio. Idealista, ma peggio ancora: giocatore, di quelli che non frequentavano le bische
e quindi escludevano dal loro universo i bari. Nel tempo avrebbe
sentito straripetere, da legulei e azzeccagarbugli, refrains del tipo
“la giustizia cammina con i piedi degli uomini” e, dai professionisti che mettono le mani avanti: “Le cause vanno fatte, altrimenti sarebbe come voler vincere alla lotteria senza comprare il
biglietto”. Ma a convincere il Giornalista che i codici lo avrebbero messo sulla buona strada contribuì quel Pretore, che all’epoca
formulò puntualmente i capi di imputazione nei confronti del
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terzetto (il più accorto dei quattro si era sottratto fermandosi in
limine). Peccato che la Procura della Repubblica, a cui per competenza passavano i reati con una pena edittale superiore ai tre
anni, chiese ed ottenne l’archiviazione dell’intera vicenda.
Una Magistratura aveva funzionato e una no, aveva pensato il
Giornalista: parità. Non si arrese. Più tardi, raccolte nuove prove
(“nuovi elementi”), si rifece sotto depositando un’altra denuncia,
stavolta direttamente in Procura.
Dopo poco il terzetto venne incriminato con ipotesi molto gravi: art 368 c.p. Calunnia, art. 640 c.p. Truffa e art. 641 c.p. Appropriazione Indebita con varie aggravanti. Iniziò una serrata
istruttoria che durò un anno.
Intanto però (è il però che guasta la vita) erano passati otto anni
e il Giornalista dovette cominciare a capire che non c’era una
sola Giustizia, ma che questa andava distinta in penale, civile e
amministrativa. Il Diritto veniva indicato come privato e pubblico, esistevano un diritto di famiglia e uno ecclesiastico, perfino
della navigazione...
Il sistema giudiziario permetteva di alimentare duecentomila studi di avvocati, milletrecento tribunali, magistrati, segretari, cancellieri, impiegati dei diversi livelli, ufficiali giudiziari... soltanto
molte giustizie potevano tenere in piedi un esercito del genere.
Ecco: era accaduto che, mentre il neofita, l’autodidatta, l’idealista
e il giocatore concentrati in una sola persona, portavano avanti la
sacrosanta battaglia in sede penale, il terzetto aveva agito in sede
civile. E con delle cambiali, ottenute in modo così scorretto da
far ipotizzare formalmente la truffa, erano giunti a spogliare il
Giornalista di numerosi beni mobili e a cuccargli l’appartamento
che abitava nel palazzo insieme a sua madre, sfrattandoli giusto
cinque giorni prima di Natale, 18 Dicembre 1985. Metafora delle
metafore: in quell’appartamento avrebbe aperto uno “Studio”
proprio il legale che, per conto del notaio del terzetto, aveva seguito l’esecuzione fino ad ottenere lo sfratto. Quando si dice la
deontologia professionale! (qui l’esclamativo è d’obbligo).
Va considerato il fatto che, se chiunque, anche analfabeta, può
inoltrare una denuncia e di conseguenza promuovere un’azione
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di fronte al magistrato penale semplicemente rivolgendosi ad un
ufficiale di polizia giudiziaria, per rivolgersi al giudice civile si
deve passare per un legale iscritto all’ordine, organismo che ne
dovrebbe garantire capacità e onestà.
Il Giornalista aveva provveduto scegliendo, per sicurezza, un legale di un foro lontano mille chilometri da quello del suo paese.
Ma purtroppo il giudice civile, non essendo iniziata alcuna azione penale, aveva seguito le proprie procedure, coi risultati di cui
si è appena parlato.
Dopo otto anni, iniziando un’istruttoria formale, il Giornalista
aveva pensato alla possibilità, in caso di processo, di costituirsi
parte civile allo scopo di riprendersi il maltolto: ancora una volta
doveva farsi rappresentare da un avvocato. E si rivolse a un penalista di spicco, uno che gli piacque perché avrebbe potuto fare
il professore, ma faceva soltanto l’avvocato.
Fu molto chiaro: « Lei è capace di seguire da sé la fase istruttoria; la cosa difficile l’ha già ottenuta: farli incriminare. Quando il
giudice istruttore depositerà gli atti, pronunciandosi quasi certamente a favore dell’archiviazione onde ottenere ulteriori prove,
interverrò io. Ci sono trenta giorni per presentare una memoria
di opposizione e con quella si riuscirà a farli processare ».
Le previsioni furono esatte: il giudice depositò un’ordinanza di
trenta pagine, con cui praticamente additava i comportamenti
dei componenti del terzetto come reati, rilevando tuttavia che le
prove non erano sufficienti per rinviarli a giudizio. Il Giornalista telefonò immediatamente all’avvocato, apprendendo da una
segretaria (i fatti superano troppo spesso la fantasia) che questi
era morto il giorno prima, fulminato da un accidente, mentre
giocava a tennis. Aveva un po’ più di cinquantanni e una salute
di ferro.
Proprio in quei giorni si fece vivo l’avvocato “civilista” appartenente a quel foro lontano mille chilometri, con cui il Giornalista
non si era più visto né sentito. Guarda caso passava da quelle
parti. Fu messo al corrente di quanto era successo e, ovviamente,
si offrì di intervenire. Così prese gli atti dell’istruttoria e ripartì.
Il Giornalista lo chiamò quando mancava una settimana alla sca93
denza dei trenta giorni.
« Sto terminando di studiarmi la pratica, non temere: provvederò nel migliore dei modi »
Poi, al Giornalista che lo chiamò di nuovo il giorno della scadenza per avere una copia della memoria depositata, rispose: «
Credimi, ce l’ho messa tutta, ma era inutile insistere perché il
giudice ha già deciso… non ho potuto fare niente ».
Si sentì un po’ minchione e un po’ cornuto, ma non contento. E
andò avanti, studiando e litigando, dicendo a sé stesso e, quando
costretto, agli altri, che di fronte alle furbizie e alle prepotenze
si deve scegliere tra il bastone e il codice: non credendo di poter risolvere con la violenza, lui sceglieva la Legge. Impostata in
questi termini, spesso è come porgere la guancia o la natica. E
il calvario è assicurato.
Di fatto, la sua vita era stata una lite fin dall’inizio, un prendere
la società contropelo. Non furono le battaglie che scatenò ovunque sentisse puzzo di furbi a metterlo nelle sabbie mobili di questa società, ma il lento instaurarsi di specifici contenziosi anche
nel luogo dove risiedeva. Le battaglie in casa cominciarono ad
appesantire le sue giornate, poiché divennero un filo di refe che,
ovunque fosse, lo tratteneva.
Pian piano, anche se aveva ottenuto risultati positivi in varie sedi
della giurisdizione, dovette constatare che lui, quando gli andava
bene, non perdeva. E da questo a vincere ce ne corre. I suoi diritti venivano riconosciuti in secondo o in terzo grado, nelle sedi
più alte e più possibilmente lontane dal pollaio del paese e della
provincia, dove gli avversari cercavano di reclamizzarne il suo
mestiere di rompiballe.
Sappiamo come si riesce a campare dappertutto, appoggiandosi
l’uno all’altro, scambiando favori con paure, cercando di riposarsi scaricando pesi e responsabilità sul prossimo e sul vicino,
come se uno risparmiandosi in questa vita potesse guadagnarsene un’altra in cui un giorno passerà all’azione. E così facendo, in
un paese, un borgo, un piccolo centro in cui ti contano anche gli
starnuti, il cielo diventa sempre più grigio.
94
XV
Il Vecchio e il Nuovo Testamento
L’Editore si sentì meglio quando seppe che il Palazzinaro era
andato in America con la figlia, subito dopo Natale. Non aveva
deciso di farlo per salutare il nipote studente ad Harvard, ma gli
servì come scusa per sottoporsi alla visita di un eminente cardiochirurgo: da qualche tempo la sua pompa sfiatava. In Italia
esistevano dei luminari nel settore (da noi le chiamano “eccellenze”: termine duro a morire), ma il personaggio era troppo
conosciuto e non voleva far sapere delle sue défaillances; e poi,
nella testa della gente della sua generazione, l’America restava
pur sempre l’America.
Era nato nell’anno della Grande Crisi, il Palazzinaro, ma quando
ebbe quindici anni la stessa gente aveva dimenticato i salti dalle finestre di Wall Street e acclamava gli americani mangiando
il loro pane bianco e fumando Virginia. Quanto venne dato in
cambio fu ignorato da chi, come lui, nel baccanale dell’economia
post bellica trovò la strada per arricchirsi. Oggi i rari sopravvissuti con le piaghe ancora aperte e i pochissimi con le cicatrici,
ne nascondono i segni perché non li vogliono più neanche al
museo. Questo insieme di fattori ha formato la base su cui si è
sviluppata l’economia e la politica, generando quella schiera di
accattoni, del portafoglio e dell’anima, che esalta nelle piazze
idoli e fantasmi della società attuale.
Giunto in città, l’Editore fu assorbito dai problemi della ditta,
non ignorando l’ufficio del Commercialista, al cui riguardo andava presa una decisione. Allo stesso tempo non gli venne meno
il pensiero di andare dalle nipoti, a cercare la Bibbia e il Vangelo
di cui aveva parlato col Giornalista.
Era arrivato in città senza la Segretaria, essendo rimasta a casa
con le cugine che sarebbero rientrate tra qualche giorno. La
nonna aveva approfittato per tornare prima: doveva sistemare
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le piante e il tanto che preoccupa sempre le vecchie casalinghe.
Fu incerto se fosse il caso di parlare dei libri o aspettare che si
ricomponesse la famiglia. Poi, ritenendo di complicare troppo,
come succede quando un pensiero ci è così presente da farlo
sembrare manifesto a chiunque, le disse che avrebbe voluto cercare dei libri tra quelli di suo fratello. E lei rispose che avrebbe
potuto farlo a suo piacimento, quando avesse voluto.
Ci andò il giorno dopo. La nonna gli fece il caffè e lui cominciò a
scorrere lungo le mensole del salotto. Era un pot-pourri, da vecchie annate del Reader’s Digest un tempo di moda, alle guide di varia geografia, per passare ai ricettari e alle guide gastronomiche,
ai vini, accanto a vocabolari di evidente estrazione scolastica,
romanzi che dovevano essere riferibili alla moglie e alle nipoti.
Aprì uno scalandrino e salì a controllare sull’ultimo scaffale, che
sosteneva esclusivamente testi scolastici, del liceo e universitari,
appartenuti al fratello e alla cognata. Un vocabolario di greco
antico segnava il transito al liceo classico della figlia più grande,
diplomata col massimo dei voti, iscritta a matematica superando
quattro esami con trenta per poi piantare tutto senza neanche
volerne più parlare.
Entrò nello studio del fratello, una stanza di quattro per cinque
con una portafinestra che dava su di un terrazzino. Le pareti
erano dedicate totalmente alla biblioteca, che contrastava, in clima wikipediano, con un portatile del massimo formato, lasciato
aperto sulla scrivania e che nessuno aveva più toccato. La parete
spezzata dalla finestra era per i libri di consultazione: vi spiccavano una Treccani edizione ridotta, l’Enciclopedia della Scienza
e della Tecnica di Garzanti, il Grande Dizionario della Lingua
Italiana del Battaglia UTET Editrice; un DEI, Dizionario Etimologico Italiano, i Sinonimi del Tommaseo e altri due recenti
volumi di Sinonimi e Contrari.
Sulla mensola più bassa, all’altezza della scrivania, c’era un’immagine dei due fratelli da giovani che giocavano con un cane
lupo. L’Editore la prese, aprì la porta finestra e uscì sul terrazzino; passò la mano sopra il vetro per togliere una polvere che solo
lui vedeva, mosse il quadretto per evitare i riflessi della luce. Poi
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tornò nella stanza e lo rimise dove stava.
Nella dirimpettaia parete corta erano sistemati i vocabolari e l’Editore rimase sorpreso trovandovene tre di russo, oltre a una
grammatica e l’occorrente elettronico e cartaceo per il corso di
insegnamento. Non aveva mai saputo che suo fratello avesse studiato il russo, ma ormai era preparato a ogni tipo di scoperta.
D’altronde era lì proprio per scoprire e si sentiva in modo strano, quasi un intruso... Già, gli venne in mente, mio fratello avrà
tenuto lo studio chiuso a chiave come faccio io? Si stava dimenticando di cosa fosse venuto a cercare, rendendosi conto che
stava cominciando a inseguire una persona scomparsa quando
non poteva più porle nemmeno una delle mille domande che gli
si affollavano in testa: lo sconosciuto, l’impostore era nato con
la pubblicazione del suo testamento.
Si chiese perché la polizia non avesse esteso le ricerche all’abitazione, circoscrivendole alla baita. Specialmente dopo che il
testamento aveva rivelato una ricchezza imprevedibile, sarebbe
stato normale un ampliamento delle indagini. Ma forse avevano
scelto di lavorare senza far troppo chiasso, seguendo criteri che
sfuggivano a chi non era addetto a quei lavori.
Gli parve ancora più importante trovare i due libri, come se dovesse farlo per aiutare suo fratello a nascondere i propri segreti.
Ma era giusto che lui si rendesse complice di qualcosa che andava assumendo contorni a dir poco equivoci?
« Ha trovato quel che cerca? »
« No, signora, ancora non l’ho trovato. Senta, mio fratello viaggiava? »
« Continuamente, ma non stava via molto »
« Dove andava di solito? »
« Non lo so. Una volta partiva con qualche abito estivo e la settimana dopo invece metteva in valigia roba invernale, non ho mai
saputo dove andasse. Mia figlia diceva che andava a visitare dei
clienti, grosse ditte di cui teneva la contabilità e l’amministrazione »
« Parlava russo? »
« Un giorno, andando in ufficio con mia figlia e la mia nipotina,
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era di sabato ed era solo, lo sentii al telefono che discuteva in
una lingua incomprensibile…non saprei dirle che lingua fosse.
Ci vide e quasi subito finì la conversazione. Ricordo che parlava
con un telefonino e non con l’apparecchio fisso ».
L’Editore si spostò sulla parete centrale: sulla prima mensola,
partendo dal basso, erano allineati classici di letteratura, con
quattro diverse edizioni della Divina Commedia, interessante
un’anastatica della prima edizione a stampa del Decamerone e
un’altra dell’edizione aldina delle Metamorfosi di Ovidio. Sul secondo scaffale alcuni capisaldi della Filosofia, di Economia e di
Politica. Al Diritto era riservata, seguendo il senso di lettura, la
parte finale della mensola: un po’ più di mezzo metro di buoni
propositi, condensati nei codici; attirava l’attenzione un consistente volume di diritto comparato. Salendo, vide che sul terzo
livello proseguiva il tema dello scaffale sottostante, ma si notava
un particolare curioso: gli argomenti erano mischiati in gruppetti, ognuno dei quali era tenuto insieme da squadrette metalliche verniciate di smalto nero. Da ciascun gruppo spuntava una
scheda di cartoncino con un titolo in stampatello e sotto, con
scrittura minuta, degli appunti.
Inforcando gli occhiali, si mise a leggere: comparivano alcune
date, dal 1982 al 1991; una scheda aveva la data del 2000, ma
era vuota. Si tiravano paralleli di contenuto tra scrittori, filosofi,
economisti e politici, al di là delle epoche e dei contesti culturali. Ecco perché aveva fatto la suddivisione a gruppi su quello
scaffale che, a un primo sguardo, sembrava sostenesse una miscellanea.
Che razza di personaggio, questo fratello. Com’era riuscito a simulare la propria ragionieristica figura senza cadere mai nella
trappola delle citazioni e dei commenti saputi, a cui non sfuggono, fosse per una volta, neanche i più umili?
E dire che, a pezzi e bocconi, avevano passato molto tempo
insieme, discutendo d’ogni cosa. Mai quell’ipocrita si era tradito. Le sue osservazioni non debordavano dal buon senso di un
uomo normale, intelligente, rodato dall’esperienza. L’Editore si
sentì come un nano che aveva scoperto di essere il più basso in
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una comitiva di nani.
« Preparo qualcosa per cena » gli disse la signora passando nel
corridoio.
« Ma che ora ho fatto? È vero, è già da un po’ che ho acceso la
luce... Mi aspettavano anche in ditta... »
« Sono le sei passate, ma intanto preparo. Lei continui tranquillo ».
L’Editore neanche sentì le ultime parole: era salito all’ultimo
scaffale. Si cominciava con Gli Orfici, poi Il Talmud… era una
sezione dedicata alla Metafisica, alla Fede, alle religioni del mondo. Erano presenti sei edizioni della Bibbia e otto dei Vangeli:
due, in aggiunta, riservate a quelli apocrifi. Scese dalla scala, si
mise a sedere guardando fisso quei sedici volumi, pervaso da un
nonsoché di timoroso: sapeva, ardiva sapere che tra quelli avrebbe trovato i libri che cercava.
Risalì deciso e si fece da sinistra. Il terzo volume della Bibbia
era finto, simile alle bottiglie camuffate che i vecchi ubriaconi
contrabbandano in biblioteca. Però non aveva tracce di un tappo
o di qualsivoglia organo di uscita. Si vedeva invece una sottile
cerniera sulla costola e, nel concavo delle pagine riunite, rilevava
una piccola bandella di ferro con la serratura.
Ci siamo, pensò rumorosamente in tutta la testa. E la chiave?
Guardò ancora la serratura e vide che accanto era dipinta a vernice una chiave rossa: ormai diventava tutto facile, si doveva trattare della chiave rossa della Commedia del Dorè. Scorse verso i
Vangeli. Ci avrebbe scommesso, il terzo era finto.
In equilibrio sulla scala, fece il numero del Giornalista:
« Avevi ragione, ho trovato i libri »
« Quali libri? Dove sei? »
« Sono in città, sono arrivato ieri. Scusa, disturbo, sei ancora
all’estero? »
« No, ci siamo incrociati. Sono rientrato stanotte »
« Ho trovato i due libri che avevi detto di cercare »
« Ora ho capito. Come sono? Che contengono? »
« Ne parliamo a voce. Ti fermi in paese? »
« Lo stretto necessario: devo fare un salto a Londra, mi fermo
un giorno »
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« Bene, ci sentiamo a breve ».
La signora aveva messo al caldo la minestra di verdure, che sapeva essere gradita all’Editore. Erano le nove. Per secondo gli
aveva cucinato un bollito con la salsa verde e come contorno il
puré di patate. Erano quasi le undici quando lo salutò:
« Sono contenta che abbia trovato i libri che cercava. Suo fratello
le era molto affezionato, parlava sempre di lei ».
100
XVI
Il Libro d’Ore
A Londra il Giornalista doveva incontrare il numero uno dei
collezionisti di manoscritti e di codici miniati. Recentemente ne
aveva acquistato uno in asta, via telefono, all’Hôtel Drouot per
centocinquantamila euri; il giorno dopo aveva concluso una lunga trattativa, con un armatore greco, per una Bibbia delle trentatré righe, forse la più bella ancora in mani private, per sette
milioni di dollari.
Il collezionista, australiano d’origine, oltre che proprietario
esclusivo di giornali e televisioni, cointeressato nei mezzi di comunicazione di mezzo mondo, voleva un parere su alcuni pezzi di un archivio e biblioteca che gli avevano offerto. A questo
andava aggiunto il suo interesse per il libro d’Ore di proprietà
dell’Ereditiera, a cui il Giornalista aveva accennato mesi prima,
avendolo studiato in facsimile per conto di un museo, le cui finanze purtroppo battevano fiacca.
L’appuntamento era al Baglioni all’ora di pranzo e l’australiano
vi giunse con il facsimile del materiale da mostrare al Giornalista. Il pranzo fu servito in una saletta riservata, in modo che
poterono discutere tranquillamente guardando le immagini che
erano state opportunamente preparate per essere scorse su uno
schermo. Il magnate (sia Francia sia Spagna pur che se magna)
teneva alla prima impressione dello studioso: la voleva osservare, poi gli avrebbe lasciato il materiale per uno studio adeguato.
Giunti all’immancabile Porto, si parlò del Codice dell’Ereditiera. Il Giornalista ripensò al colloquio di Natale con l’Editore e
alle frasi allusive, scherzose, sul suo interesse nei confronti della
donna: l’Editore non aveva torto, durante i giorni passati con lei
non gli era passato per la testa di accennare al Codice.
Il Giornalista prese il telefono e la chiamò
« Ciao, da quant’è che non ci vediamo…mi riconosci? »
101
« Stento davvero, perché mi ero già messa il cuore in pace sapendo che avrei dovuto essere io a chiamarti »
« Sono a Londra con un signore che sarebbe interessato al libro
di preghiere. Che ne dici? »
« Dico che sono disposta a venderlo »
« Mi occorrerebbe il facsimile…me lo potresti spedire via Traco
o altro mezzo veloce all’indirizzo che ti do? »
« No, te lo porto, arrivo in serata »
« Ecco - fece, rivolto all’australiano - se vuole possiamo vederci
domattina »
« Lei è unico. Intanto prenda questo piccolo acconto » disse tirando fuori il libretto degli assegni, scrivendo e staccandone uno,
che gli porse.
« Ma per che cosa? »
« È venuto a New York apposta, a Luglio scorso, per darmi il
suo prezioso consiglio, poi un viaggio a Vienna e un altro a Parigi: è per le spese ».
Erano ventimila sterline.
Non correva mai così tanto lardo tra chi studia e chi compra. Di
solito, il mondo del commercio degli oggetti, comuni e preziosi,
è animato dalla furbizia esasperata, dal sospetto e da una vera e
propria avarizia. Signorilità zero.
Normalmente, nessun operatore del settore Anticaglie e affini si
sarebbe comportato come il Giornalista, che aveva telefonato di
fronte al cliente al proprietario dell’oggetto del desiderio, senza
tante manfrine. La regola dei mercanti è che le cose devono essere fatte cadere dall’alto, ammantate di difficoltà per reperirle, per
carpirle al proprietario che ne è innamorato e che vende “perché
ha bisogno”: quest’ultimo fattore è sempre il più convincente
e soddisfa la componente cravattara dell’homo sapiens sapiens
cresciuto nel sistema capitalistico.
Ai livelli del collezionista australiano e dell’Ereditiera, collegati
da un vero studioso, i fatti possono essere diversi. L’australiano, passato sui cadaveri d’ogni nazionalità, cultura e fede, per
giungere dove era giunto, poteva permettersi di gareggiare con
l’inettitudine economica dell’Ereditiera e l’ingenua arroganza
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dello studioso, considerandola una vacanza per nulla inferente
con i suoi metodi pescecaneschi, conservati integri per le grosse
iniziative imprenditoriali. E non per questo regalava nulla, ma
con quei pochi, “unici” come aveva detto, poteva e doveva fare
il signore.
L’Ereditiera telefonò da Parigi dicendo che era in aeroporto e
stava per imbarcarsi. Suppergiù avrebbero impiegato lo stesso
tempo: il Giornalista a raggiungere Heathrow da Kensington e
lei a sbarcare.
Si abbracciarono con la foga di chi non si vede da chissà quanto e non da pochi giorni. Cenarono al ristorantino indiano a
Notting Hill: al Giornalista, che non amava alcun tipo di profumi aggressivi, la cucina indiana non si confaceva granchè, ma
quell’ambiente near Portobello lo rallegrava e lei ne fu entusiasta. Risotto e pollo al curry, accoppiamento di banalità, ma stettero sul sicuro.
Lui aveva prenotato la camera nel cuore del silenzio londinese,
un alberghetto dove aveva cominciato a vincere un’avversione
iniziale per Londra, quando lavorava alla trascrizione di un manoscritto conservato alla National Library. A quei tempi Londra
gli sembrava la fine del mondo e Parigi casa. Un po’ come quando doveva trattenersi a Milano e andava a dormire a Bergamo,
su ai Cappuccini: e non era per la donna che aveva su piazza
(a Milano ne aveva un’altra), ma per l’aria irrespirabile dei “ghe
pens mi”, che i bergamaschi riuscivano a mimetizzare con “polenta e osei”.
Poi, col tempo e la genialità femminile, si era rassegnato a farsi
guidare per Londra e per Milano e aveva respirato l’aria antica
e genuina delle due città. Ora passeggiava nel freddo ceruleo e
stellato di South Kensington, lontano dai nebbioni dei mostri
londinesi anni Cinquanta, ed era quasi sulla soglia della felicità,
con la sua gnocca che gli stava incollata e l’assegno dell’australiano in tasca.
Avevano messo il do not disturb sulla porta e, come da programma, si fecero portare in camera il brunch a mezzogiorno.
Scesero che era nuovamente buio e il portiere comunicò che
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avevano telefonato alle dieci del mattino, ma il not disturb è sacro, di certo per gli inglesi. Il magnate, che era dovuto partire
con urgenza, aveva lasciato detto di chiamarlo. La parte d’anima
napoletana del Giornalista lo permise a malincuore, non aveva
voglia di niente altro più di quello che aveva in quel momento.
Rimasero d’accordo che si sarebbero incontrati a Milano, dove
l’australiano si sarebbe fermato al suo rientro dal Brasile.
L’Editore telefonò mentre erano a cena:
« Sono in paese, dove sei? »
« A Londra »
« Quel giorno è diventato lungo »
« Sì, mi fermerò ancora... » lei gli mise la mano sul telefono e
disse: « Una settimana » e lui, scrollando la testa, riprese: «… un
paio di giorni »
« Fatti vivo appena puoi. Ho con me i due libri…buona vacanza giornalista » concluse malizioso l’Editore, avendo avvertito il
tramestio del telefono e il frusciare delle parole.
Lei gli stette di traverso durante tutta la serata e sembrò non
bastarle che lui avesse delle scadenze a casa. Era costretto a rientrare, come le spiegò.
« Vengo con te » gli disse.
Questa proposta imprevista lo spiazzò: la donna che aveva avuto
tutto dalla natura e dalla società, che poteva scegliere se dormire
a Parigi o a New York, oppure starsene appartata nella sua casa
al Polo Nord, ovunque servita e riverita, corteggiata, aveva soltanto bisogno di legarsi a un uomo, forse perfino di accudirlo.
« E poi magari ci sposiamo e facciamo quattro figli » le rispose
con tono apertamente ironico. A tempo di riflessi, quasi per riprendere le parole che gli erano sfuggite, aggiunse: « Mi farebbe
piacere, ma sono talmente incasinato che non potremmo conservare questa magica atmosfera in cui siamo finora vissuti »
« Mi consideri una bambola? » e si fece molto seria.
« No, il fatto è che non voglio trasformare il nostro incontro nel
preliminare di una routine in cui, nel mio caso, c’è già il peggio
della vita quotidiana e delle complicazioni sociali. La nostra è
nata come favola e tale deve restare »
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« Mi consideri una bambola viziata ».
Il Giornalista approfittò di quei due giorni ormai programmati
per recarsi al reparto fotografico del Victoria and Albert Museum, dove poté ritirare immagini già da lui ordinate, evitandone
la spedizione. La condusse al British e la guidò nel nostro Rinascimento: le fece osservare la “rigliata” (un raglio che sembra una risata) dell’asino nella Natività di Piero della Francesca,
commentando che quella tavola sarebbe stata a meraviglia su a
Vardo. Ma lei era lontana. Stavano contando le ore che restavano.
Ancora una volta si strinsero forte forte in aeroporto, imbarcandosi per destinazioni diverse.
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XVII
Ipotesi
Il giorno dopo, il Giornalista informò l’Editore che era in paese
e nel pomeriggio si incontrarono in ufficio.
Al telefono gli aveva fatto un discorso che il Giornalista doveva
finire di decifrare. Giunto alla porta, gli aprì l’Editore, cosa che
non accadeva mai, mentre diceva alla figlia:
« Prima di partire spiegaci come funziona con questi dischetti »
e, rivolto al Giornalista: « Mi auguro che ti vada bene il portatile,
è stata una vera occasione: un 50% di sconto reale e siccome mi
avevi detto che ti serviva, l’ho preso »
« Non gli andrà bene, è Windows; lui ha un Mac se ricordo... » e
rivolta al Giornalista: « Mi sembra che ce lo disse a cena »
« Sì, ho un Mac, ma sarà un’occasione per conoscere l’ambiente
Windows... »
« Dai, prendi un CD e facci vedere bene l’inserimento, come si
apre e come si espelle…lo sai che non ho molta pratica di questi
aggeggi e non vorrei combinare pasticci » disse l’Editore alla
figlia.
« Vedrai che se la caverà da solo » fece alludendo al Giornalista,
che continuava a non aver capito il senso e lo scopo della bugia.
« Dai, che tua zia ti aspetta... »
« Guarda che non è indispensabile che ci vada, se vi serve resto
volentieri » e aggiunse: « Telefono e dico che non vado »
« No, no…dopo tua madre chi la sente? ».
La Segretaria mostrò come si faceva l’operazione, d’altronde
elementare; volle ripetere che sarebbe rimasta volentieri e, visto
l’atteggiamento di suo padre, se ne andò.
« Mia cognata, fortunatamente, ha trovato un uomo a un centinaio di chilometri da qui; è divorziato e ha una figlia della stessa
età della nostra. Sono diventate amiche e mia moglie ha piacere
che esca dal giro del paese e faccia nuove conoscenze »
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« Non è fidanzata tua figlia? » scappò di bocca al Giornalista,
mentre giocherellava col mouse del nuovo computer
« Sì, ma il fidanzato passa il tempo libero giocando a palla al
cesto e nei fine settimana ha le gare; poi mia moglie non lo vede
adatto a nostra figlia. Io non ci troverei… dopo sette anni che
stanno insieme... ma vacci a discutere, con la Regina... vuole così »
« Mi spieghi la montatura del computer acquistato per me con
lo sconto? »
« L’ho comprato apposta dopo che ho trovato i dischetti a casa
di mio fratello. Non voglio inserirli in nessun computer dei nostri per far sì che non restino possibili tracce, così ho pensato
di inventare questa balla. Il computer lo usiamo in silenzio e, al
massimo, potrei tenerlo nel mio studio sotto chiave »
« Dove sono i CD? Li hai già guardati? »
« No, eccoli qui » e tirò fuori dalla borsa di cuoio i due volumi, li
aprì con la chiave e ne mise sul tavolo il contenuto.
« Sono ventiquattro: dodici nella Bibbia e dodici nel Vangelo;
sono numerati progressivamente ».
Inserirono il primo disco: comparve una carta dei due emisferi
su cui era sovrapposto uno schema ad albero. Lo scritto era in
caratteri cirillici. I blocchi dello schema erano numerati da uno a
venticinque. Ognuno degli altri dischi aveva un analogo schema
a blocchi sovraimpresso a una carta di una particolare zona, che
era facile intuire riguardasse le località i cui nomi erano indicati
su ciascuno dei riquadri, con i quali terminavano le ramificazioni
dello schema stesso. E questo fino al supporto numero ventidue
compreso. Il ventitré e il ventiquattro contenevano un sorta di
agenda o rubrica con indirizzi e numeri di telefono. L’ultimo
sembrava un libro di conti.
« Andiamo al bar, beviamoci sopra e riflettiamoci… è una sciarada o uno scherzo che ci fa quel volpone di tuo fratello? »
Gli riferì della biblioteca trovata nello studio del fratello, del corso di russo e della differenza che stava delineandosi tra la persona che aveva conosciuto e quella che andava scoprendo.
« Non credo che ne verremo a capo » disse l’Editore.
« Ciò che ha pensato un uomo, un altro prima o poi lo può ri107
pensare, sudando sette camicie o affacciandosi a una finestra che
trova aperta quando non se l’aspetta: come sempre ci vuole un
gran culo ad azzeccare subito la strada giusta; oppure ti capita la
sfiga di imboccare quella più lunga o che addirittura non porta
da nessuna parte: il famoso vicolo cieco. Ma è per questa ragione
che non si deve pensare in fretta »
« Ci voleva che fosse scritto in russo per complicare le cose. Tu
magari lo conosci… »
« “Niet” e “Da”, e qualche altra parola. E l’alfabeto. Non bastano. La mia amica di Parigi lo parla e ha un amico all’Università
di Tromso che insegna e traduce dal russo. Ma non corriamo,
intanto riflettiamoci »
« Meno male che il Palazzinaro è ancora in America… chissà che
farà, ho saputo che si tratterrà ancora »
« Tienlo per te – ma a te lo devo dire – ieri sera m’ha telefonato
la figlia, che rientra da sola in città: suo padre non sta bene e deve
trattenersi in America per accertamenti »
« Le domandasti di mio fratello? »
« Sì. Tuo fratello era diventato una persona che contava molto
nel Cantiere »
« Di male in peggio: vuoi scommettere che c’è dentro Al Qaeda? »
« Eh, quanto corri… Di sicuro, a meno che tuo fratello non
fosse l’imperatore dei burloni, si tratta di affari a largo raggio;
d’altronde oggi il mondo è grande come un palmo di mano e
l’asse terrestre è fatto di soldi »
« Passiamo ad altro: il giornale di cui mi hai parlato? »
« È prematuro… te l’ho chiesto per avere le spalle coperte ed
essere pronto se occorre. Ma se ottenessi qualche risultato con
le lettere agli amministratori comunali ne farei a meno. Non ci
tengo a stampare tanto per stampare o per sfogarmi. Il giornale
è una denuncia con cui tento di sollecitare le autorità, mettendole di fronte al popolo; ma se son tutti popolino, chi di dovere ti
fa il muro di gomma e la cosiddetta società rimane nel merdaio
dove vegeta »
« E la nostra rivista? »
« La faremo, la faremo. Ma anche quella dovrà uscire se ne sen108
tiremo il bisogno. Di cartaccia, stampata per sbarcare il lunario,
ce n’è già troppa: sembra che sia più facile sbarcare sulla luna che
sbarcare il lunario ».
Tornando in ufficio il Giornalista gli disse che, prima di rimetterli al loro posto, voleva dare un’occhiata ai dischetti. Gli mulinava
in testa il fatto del numero di quei supporti. Erano quasi vuoti,
perché? Perché tutto quel frazionamento? Si trattava di DVD capienti, ognuno dei quali avrebbe permesso di contenere da solo
il materiale completo. Ma ora questo problema era secondario.
Intanto bisognava almeno farsi un’idea sul mondo in cui avevano fatto capolino. Nemmeno fossero atterrati dentro un quark.
Inserirono di nuovo il primo disco e si misero ad osservare i due
emisferi. Vi erano tracciate linee continue e tratteggiate di colori
diversi. Visionando il secondo supporto, leggendo dei nomi sui
blocchi, constatando la corrispondenza geografica con le località, il Giornalista ebbe un Eureka:
« È una rete mondiale di oleodotti e gasdotti: vuoi vedere che hai
ragione e c’entra anche Al Qaeda? »
« Oleodotti, Gasdotti? »
« Sì, guarda la seconda carta, che rappresenta il Mediterraneo,
il Nord Africa e l’Est fino alla Siberia. La Turchia è cerchiata in
rosso e passando al Tirreno ci sono linee tratteggiate che uniscono la Sardegna e la Corsica con la costa italiana: sono progetti
sottomarini. Guarda, sono molto piccoli, ma ci sono dei numeri
sulle linee a metà del tratto di mare e non possono che indicare
la profondità a cui passano o devono passare le tubazioni. Per
quelle quattro cose che ho letto, i percorsi corrispondono a ciò
che esiste e alle previsioni di espansione delle reti distributive »
« Mi spaventa. Il Palazzinaro è un costruttore di strade, di dighe,
di megapalazzi e interi quartieri, ma che c’entrano i gasdotti? »
« Forse lui è il vero palazzinaro, che non è un mestiere bensì il
modo d’essere del drago nel nostro tempo. È il capitale, che ha
un’anima di cemento e di grattacielo, proteso verso il potere e il
dominio. In questi dischi osserviamo la rete arteriosa e venosa
della nostra società. Vai avanti, inserisci i dischi e gireremo il
pianeta »
109
« Spero che sia la parte dello scrittore e del romanziere che agisce
in te adesso »
« Senza dubbio. È la finestra di cui parlavo prima e la può aprire
soltanto la fantasia. Dopo possiamo procedere a tutte le verifiche che vogliamo e che è giusto fare, ma senza un’ipotesi si resta
al palo. Il Palazzinaro è una specie di Al Capone con gli aggiornamenti del caso. Comunque un tipo solido, senza complicazioni intellettuali, terragno, che naturalmente non può dirigere
una ragnatela del genere, ma esserne il punto di riferimento e di
coordinamento. Il capo Cantiere, appunto ».
Telefonò la Psicologa ch’erano le nove:
« Salti la cena stasera? Ci sono gli avanzi, la donna oggi non c’era
e io non ho fatto altro »
« Le salsicce ci sono? »
« Quelle ci sono sempre »
« Sono con il Giornalista, tra poco veniamo su »
« Potevi avvertirmi. Lui è abituato a caviale e champagne, tu
lo condanni alle salsicce... dammi mezz’ora, faccio ameno due
spaghetti ».
Il telefono era in vivavoce e il Giornalista, che ormai non poteva
declinare l’invito, disse che le salsicce andavano benissimo, meglio del caviale.
110
XVIII
Terzo Grado al Femminile
« Avevo uova e gota, ho fatto la carbonara…so che ti piace, o
sbaglio? »
« Glielo hai detto tu? » disse il Giornalista all’Editore
« No, mia figlia » rispose la moglie.
Il Giornalista rimase sorpreso di questa segnalazione dei suoi
gusti. Mentre arrotolava con la forchetta, pensò a quando poteva
aver parlato della carbonara, che gli piaceva preparare e mangiare. Siccome era un chiacchierone, ne doveva aver discusso con
l’Editore. Registrava proprio tutto la Segretaria, si disse. E l’aveva anche riferito alla madre, cosa a cui lui non avrebbe pensato:
dipendeva dal fatto che spesso le donne in casa non sanno di che
parlare, concluse da vecchio maschilista.
« Ne prendi ancora? » gli fece la donna mentre gli metteva sul
piatto un’altra abbondante razione di spaghetti
« Sono buoni, però non aprire il vaso: le salsicce a questo punto
sono sprecate »
« Farà paura a te mangiare due salsicce » e rivolto alla moglie:
« Piuttosto, versagli il vino »
« Lo prende da sé…fai veramente come fossi a casa tua. Non ci
racconti dei tuoi meravigliosi viaggi? » disse la padrona.
« Viaggi: sempre nuovi per definizione, viaggi... »
« Come gli amori. Non ti sei stufato? »
« Di che? Di fare disfare rifare le valige ogni tanto mi stufo,
ma… »
« E delle donne? »
« Lascialo mangiare in pace, di che t’impicci? »
« Non mi dà noia, si può toccare qualsiasi tasto. Dicono che
le donne siano il sale della vita e altre banalità: fanno parte del
gioco dei contrari che tutti dobbiamo giocare... io ho giocato
abbastanza e sono in cima alla vita »
111
« Non fare il vecchietto - intervenne l’Editore - Pochi ventenni
reggerebbero il tuo ritmo »
« Condivido: mi sono domandata tante volte, ci siamo domandati - si corresse - dove trovi l’energia per arrivare dappertutto e
non rinunciare mai alle tue battaglie contro il mondo »
« Esagerata »
« Tu come definiresti denunciare intere amministrazioni pubbliche, politici e professionisti collusi e stampare queste denunce su
giornali come editore, distribuirli in edicola e affrontare processi? Per me è una vera e propria guerra »
« Hai una fan » fece l’Editore
« Ma come se non bastasse, mi dicono che anche nel campo
dell’arte non ti sei legato a nessun carro accademico, anzi combatti anche quelli… ma non ti riposi mai? » proseguì la Psicologa.
« Ci voleva lei per entrare negli affari tuoi. Non per caso ha fatto
Psicologia e gli psicologi si occupano delle rotelle altrui. Se permetti, ne approfitto per farti una domanda su un fatto di cui si
sente parlare in giro e... »
« Dì pure, non ho grossi segreti e sono curioso di sentire: ogni
tanto apprendo di aver fatto cose che non mi sognerei neanche
di pensare »
« È vero che una decina d’anni fa un personaggio molto noto,
ricco e potente ti chiese di costituire un museo e tu rifiutasti per
ragioni ideologiche? »
« Non sta proprio così. Più volte ho rinunciato a progetti di
notevole interesse, ma per ragioni di politica culturale o di arroganza finanziaria di chi li proponeva: una volta c’erano di mezzo i padroni del vapore sul serio. Sognavano Il Museo dell’Occidente. Bella come idea e avevano previsto, stanziato somme
ragguardevoli. Il guaio è che credevano di poter ordinare una
scultura di Fidia o un quadro di Leonardo; qualcuno di loro, che
contava, identificava i soldi con Dio, e in modo spudoratamente
calvinistico pensava diomelihadati vuoldirechelimerito. Il Museo
dell’Occidente, dopo un anno di studio e di preparazione, finì a
Milano, alla prima riunione collegiale, non lontano dalla Scala, in
un tempio della Finanza, nel tempio… »
112
« Non sapevo di questo progetto: sei un pazzo… Io mi riferivo
a una persona che poi è divenuta un personaggio pubblico di
primo piano. Ti dava carta bianca, mezzi praticamente illimitati,
aereo privato per viaggiare e tu, siccome si mise a fare politica,
avresti rifiutato »
« Sì, forse ho capito, ma non sta così: probabilmente avrei potuto ottenere quell’incarico, mi avevano contattato e avevo incontrato un suo emissario. Niente di più. Poi questo signore assunse
una posizione pubblica che non condividevo (e che più tardi
ho combattuto) e ho interrotto i contatti. È possibile che non
saremmo comunque approdati a nulla »
« Quindi è vero: sei un pazzo scatenato »
« Alt, invertiamo rotta. Ora facciamoci i cavoli vostri: siete andati
su alla baita dopo il dissequestro? »
« No, non ci siamo più tornati; gli oggetti tra l’altro sono tuttora
sotto sequestro... »
« Ci tornerete? »
« Non me la sento. Mi piacerebbe andare a funghi, ce ne sono
anche in questo periodo; in primavera ci saranno i prugnoli... ma
non riesco a tornare neanche al circolo micologico... »
« Non dovevo parlarne »
« Invece hai fatto bene, ci torneremo; anzi, se ti fa piacere sei
invitato fin d’ora »
« Sarebbe un’occasione, con un esperto come te. Ho passato lunghi periodi alla macchia, isolato per cercare i difficilissimi tempi
della concentrazione. Mi sento in colpa per l’ignoranza che mi
è rimasta sulle creature vegetali, funghi in primis, di cui sono
molto ghiotto. Secondo me, tra i prodotti spontanei, i prugnoli
puttaneggiano col palato quanto i tartufi… entrambi si sposano
con le uova: frittate spesse e non girate dove il prugnolo affoga »
« Siamo in clima di confidenze stasera - riprese la Psicologa con
un sorrisetto volpino - Dicono che avevi cuoche giovani e carine
con te »
« Oh, ma... » intervenne l’Editore.
« Lascia, posso rispondere. Tra la metà degli anni Settanta e la
metà degli Ottanta portavo avanti una ricerca sui linguaggi figu113
rativi, un lavoro di classificazione complesso e avvincente che è
finito in Tribunale, tanto per cambiare. Non vi voglio annoiare
con particolari scientifici e neanche giudiziari. Quello che ti interessa e risponde alla domanda sono le donne. Avevo delle collaboratrici ventenni – io ero prossimo ai quaranta – che mi hanno
seguito per dieci anni. Devo molto a loro e di quel lavoro, a cui
non ho rinunciato, rimangono due casse di materiale. Purtroppo
dei falsi collezionisti si erano offerti di finanziare questa mia ricerca, in cambio della pubblicazione dei loro pezzi nel libro che
era quasi pronto. Prima litigarono tra di loro, poi si misero insieme, mi calunniarono e mi spolparono. Ci rimettemmo, io e mia
madre, l’appartamento dove abitavamo e un’intera collezione di
ceramiche antiche »
« Che brutta storia, un po’ la si conosce perché la gente ne ha
parlato » disse l’Editore guardando la moglie con aria di rimprovero.
Il Giornalista sorrise e continuò: « Mi buttai a studiare Diritto,
per legittima difesa, e riuscii a farli incriminare ma, al momento
opportuno, giunse il mio avvocato a dargli una mano e tutto finì
in una bolla di sapone. La storia, con quei falsi collezionisti, iniziò nel 1978. Sono trascorsi oltre trentanni e sono passato di lite
in lite. Sì, ho curato un museo e alcune collezioni, continuo, però
una volta sollevato il coperchio di questa società è impossibile
non litigare, e tantomeno raggiungere un accordo »
« Ho visto un tuo giornale degli anni Sessanta, è in biblioteca.
E già litigavi: l’avevi sottotitolato Foglio Polemico, m’è piaciuto per
l’eleganza grafica, ma soprattutto per i contenuti e la scrittura »
« Che si doveva combattere l’ho capito nella culla – ecco: Polemos = Battaglia – ma soltanto entrando fino al collo nel merdaio, venendo carnalmente tradito dal mio difensore, toccando
l’arroganza dei ricchi, osservando chi origlia dietro le porte e poi
gabella per suo ciò che ha rubato, solo allora lo stato di guerra
diventa continuo e irreversibile »
« Ne hai passate… » disse la padrona di casa cambiando espressione.
« Venia per lo sfogo, ma non riesco a rimanere indifferente. E
114
poi, diciamo come stanno le cose: intendo rivalutare i serpenti,
non quelli finti a due gambe, ma il crotalo, il mamba, anche la
nostra vipera. Quindi non voglio che si diluisca il mio veleno,
con cui va colpita questa cazzo di società. Se credessi nella violenza sarebbe tutto più facile, ma per loro fortuna l’ho esclusa,
almeno fino ad oggi: non è quello il rimedio radicale che ci serve »
« In certi casi è indispensabile » commentò l’Editore.
« Non certo la violenza dei dittatori e dei loro generali laccati,
neanche quella dei padri e tanto meno il ricatto dei padroni »
« Porgi l’altra guancia? »
« No, si cerca di mandarli in galera »
« E se trovi giudici corrotti? »
« Li ho trovati. In tal caso se ne cercano altri: la Giustizia è un’utopia che deve essere coltivata con caparbietà fino a quell’estremo dove tu mi vuoi portare, fino a costringerti a usare la forza,
che non è più violenza. Diventa legittima difesa »
« Vedi, ci sei arrivato: ognuno dice che è stato l’altro ad attaccare »
« L’utopia della Giustizia è un sentimento individuale e soltanto
i mitomani riescono a infinocchiarsi; l’utopista deve saper tenere
in tasca una pistola con la pallottola in canna, sicuro che la userà
soltanto quando la sentenza passata in giudicato è frutto di prepotenza »
« Ma non vale se è lui che giudica ingiusta la sentenza »
« Alfine l’individuo deve spendere sé stesso: ricorre al codice che
s’è costruito a prezzo di mille attese e sconfitte. Il codice dell’utopista autentico non proviene da astruse farneticazioni, ma da
un’esperienza quotidiana di lotta solitaria, non risponde a nessun
tipo di fede, ideologia o confessione. Risponde esclusivamente
alla propria lucida coscienza. E solo a quel punto, se la forza
diventa il suo imperativo, tira il grilletto con profonda delusione
e l’amaro della sconfitta »
« Tu lo faresti? »
« Lo farei ».
« Sapete che ore sono? Manca un quarto alle due. Solo con te
mio marito può scordarsi l’orologio ».
115
XIX
La Pizza Umberto I
La Pasqua nel 2010 cadeva il 4 Aprile. Il giovedì precedente era il
giorno del pesce, delle burle e degli scherzi. Il Giornalista si trovò a osservare la scrivania del proprio Mac, appena acceso e già
pronto a operare: sapeva di sconfitta il fatto che lui invece non
fosse ancora sveglio del tutto e che necessitasse di altro tempo
per prendere i giri.
Di solito, le operazioni iniziali che faceva erano nell’ordine: cliccare sul dashboard accedendo ai post-it di promemoria, poi al
calendario perpetuo dove erano segnati gl’impegni che la sua
vita torrentizia trascinava con sé.
Nella particolare agenda che s’era costruito, affibbiandole impropriamente questo nome, in quel giorno campeggiava il segno
del pesce con l’appunto, quasi didascalico:
Definisci valore rituale pesce del primo Aprile e quello simbolico del pesce
cristiano – 1 Aprile 1980.
E da trentanni quel pesce rimaneva lì in compagnia di altre mille disparate, strampalate cose e dei tanti problemi concreti da
risolvere.
Mentre cercava di astrarsi dalle difficoltà economiche quotidiane,
che diventavano sempre più pesanti, telefonò la banca, o meglio
chiamò il direttore di una delle tre con cui aveva ancora rapporti:
« Posso aspettare fino a dopo Pasqua. Se nella settimana non
compare un versamento sul conto corrente dovrò prendere
provvedimenti. Passo a un altro settore e devo lasciare i conti
in ordine »
« Ho appena acceso il computer e in primo piano, sui promemoria, ho questo impegno. Mi faccio vivo la settimana prossima »
« Auguri ».
Il sollecito proveniva dalla BNL, l’istituto il cui direttore aveva
seguito le battaglie giudiziarie del giornalista e gli aveva concesso
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un certo spazio di manovra, accordandogli uno scoperto che
spesso superava largamente. Ora però il Giornalista, andandosene il direttore, avrebbe perso molti punti nella sua già zoppicante economia. Riguardo alle altre due banche la situazione era
migliore (?) perché il debito in una era a zero e l’altra concedeva
una rateazione per estinguerlo e chiudere i rapporti.
Suonò ancora il telefono, stavolta il cellulare: un’altra rottura di
scatoloni pensò, tanto da lasciare che si esaurisse il concertino
dentro la tasca del giubbotto, ch’era agganciato all’attaccapanni.
Ma dopo poco riprese e il Giornalista si mosse. Era l’Architetta:
« Sono tornata da Dallas con mio padre: l’hanno operato, sta
meglio. E sto molto meglio anch’io. Ho passato un brutto periodo. Ti posso invitare a cena? »
« Mi prendi alla sprovvista, sono un po’ incasinato... »
« Capita mai che tu non sia incasinato? »
« Anche questo è vero, ma... »
« Niente “ma”, scusa se sono invasiva... avrei bisogno... vorrei
riparlare con te del mio progetto e... e poi ho voglia di vederti, il
tuo ottimismo aggressivo vale un ricostituente»
« Però ti invito io e ti condanno a una pizzeria »
« Va benissimo, mi attira l’idea di pizza e birra. Si comincia anche
a Parigi ormai… »
« Frequento volentieri le pizzerie, non a Parigi però. Non dovevano massacrare gli Champs-Élysées con tutte quelle insegne »
« Lasciamo Parigi e veniamo a me, che ora sono in una città
molto più vicina »
« Mi organizzo... »
« Non ce la fai per Pasqua? »
« Ci giochiamo l’accoppiata, come alle corse dei cavalli? La prima
volta per Natale e la seconda per Pasqua… Mi organizzerò, ti
chiamo ».
Qualche giorno prima aveva parlato con l’Editore, che faceva la
spola tra il paese e la città per districarsi nei numerosi impegni.
Gli aveva chiesto di visionare il Codice della Donna, di cui mal digeriva la prefazione. Erano rimasti d’accordo di vedersi nei giorni pasquali e, naturalmente, sarebbe stato gradito ospite a casa
117
loro. Si risentirono il sabato e il Giornalista gli disse che sarebbe
andato in città. Per tutta risposta l’Editore scoppiò in un “neanche a farlo apposta” poiché anche lui e famiglia vi si sarebbero
recati il lunedì, trattenendosi qualche giorno.
L’Editore richiamò il Giornalista la sera stessa per invitarlo a
pranzo il martedì di Pasquetta, aggiungendo che annesso al loro
appartamento avevano un monolocale indipendente che non
usavano mai, nato apposta per gli ospiti: ne avrebbe potuto approfittare per quei giorni. Il Giornalista ringraziò dicendo che un
buco per dormire ce l’aveva e l’altro ridendo ribatté: « Lo so, tu
un buco lo rimedi sempre... ».
La sera di Pasqua, il Giornalista e l’Architetta s’incontrarono sul
piazzale della stazione, di fronte a una delle poche porte antiche
sopravvissute allo scempio ottocentesco dei fornici che aveva
crivellato la cinta rinascimentale.
L’Architetta s’era smagrita: quei mesi di avanti e indietro tra il
Texas e il Cantiere, per cui il babbo era preoccupato, l’avevano
lievemente segnata conferendole uno sguardo più profondo, distaccato e aristocratico. Erano rimasti sul posto il Giardiniere e
la Califfa, ma il Palazzinaro aveva bisogno di sentirsi presente in
plancia.
Abbracciò il Giornalista come fossero vecchi amanti. Lui le mise
una mano sulla spalla e si avviarono a piedi verso il centro storico. Piovigginava, e arrivarono a destinazione passando di portico in portico.
Lui aveva prenotato un tavolo d’angolo. Non era una pizzeria ma
un vecchio e curato ristorante, che ultimamente aveva inaugurato
questa nuova attività per venire incontro anche alla sua clientela, divenuta meno spendereccia. Vagarono insieme in quell’universo fantasioso che sono divenute le sterminate liste delle
pizze, divertendosi a commentare questo e quel termine, questo
e quell’accoppiamento, la fusione di lingue romanze e slang di
varia derivazione, legati a personaggi della mitologia e della storia, il tutto accompagnato da dettagliati elenchi della miriade di
ingredienti che facevano pensare alla dispensa come alla dependance dei mercati generali. Scelsero la pizza “Umberto I”, che, a
118
differenza di quella intitolata alla moglie Margherita, essenziale
e leggera, era ricoperta d’ogni tipo di verdura e di insaccato. Il
Giornalista non gradiva affatto certi mix, però voleva trasgredire
e bere birra al doppio malto, che non beveva mai.
Arrivarono in tavola con grande coreografia, enormi e colorate, verrebbe da dire fumanti. Giunse il proprietario a salutare il
Giornalista e, per come le si rivolse, conosceva anche l’Architetta, sebbene in modo meno familiare: d’altronde lei era una
persona molto in vista, anche fuori della sua città.
« Sei stata altre volte? »
« Non mi pare… Sarà che mi mettono spesso sulla cronaca e
spesso in fotografia, collegandomi alle diverse iniziative edilizie... »
« Alle varie speculazioni... »
« Poi ne parleremo. Hai voglia di farmi sbronzare con questa
birra super? - e tagliando la pizza - Dovevano chiamarla pizza
“Minghetti” e non “Umberto I” »
«Perfida. Alludi alle chiacchiere sulla tresca tra la regina e lo statista bolognese? »
« Non voglio insinuare. La regina fece innamorare Carducci e lei
invece si innamorò di Marco Minghetti. Umberto doveva essere
scarsino in tutti i sensi. È naturale che Margherita si innamorasse
di quell’ emiliano focoso, colto e affascinante: sarebbe quindi più
appropriato che questa pizza cambiasse nome »
« Lo suggeriremo al proprietario. Comunque, per quel che si sa,
non ci fu niente tra i due »
« Al solito, sono gli uomini a tirarsi indietro, non so se per onorare qualcosa o per pavidità. La regina avrebbe voluto, ma lui
doveva rispetto al Re. Forse noi donne siamo più immorali o
meno pavide, che dici? »
« Ci penserò » e sorrise guardandola di sghimbescio.
« Tra loro correvano trentatré anni, più che tra me e te. Lui aveva
settantanni e lei trentasette »
« Non mi volevi parlare del tuo progetto? »
« Sì, anche se ne ho poca voglia stasera. Come dicono gli avvocati, in estrema sintesi... »
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« “In buona sostanza”, amano dire »
« Bravo. Allora diciamo: in estrema sostanza - e trattenne una
risata - Mio padre mi lascia decidere, questo progetto è mio.
Inoltre, l’edilizia è divenuta per lui una voce secondaria da tanti
anni »
« Ma in realtà, cos’è oggi il Cantiere? » domandò il giornalista
con una foga che non sfuggì a lei
« Perché me lo chiedi? È un cantiere »
« Non puoi rispondermi con una tautologia. Se un progetto gigantesco come il tuo, di un valore economico enorme, viene
considerato un balocco della figlia – scusa il termine che ho usato, ma per tuo padre sembra sia così – cosa devi pensare che sia
il Cantiere? O tuo padre prende in considerazione di costruire da
Brasilia in su oppure c’è qualcosa che non torna »
« Non hai torto. È la prima volta che qualcuno mi dice senza mezzi termini ciò che molti pensano. Neanche io so esattamente cosa avvenga nel Cantiere. Di fatto, durante la degenza
di mio padre in America, ho svolto la mansione di corriere di
messaggi cifrati, tra mio padre e i suoi due… non saprei come
definirli... la Califfa è la sua compagna, ma anche una donna capace e autonoma, mentre il Giardiniere un tecnico informatico
di primissimo piano. Forniscono consulenze a livello mondiale,
indagini geologiche di ogni tipo, e hanno contatti nell’intero
pianeta ai livelli più alti dell’imprenditoria, della finanza e della
politica »
« Perché i nomi “Califfa” e “Giardiniere?” »
« La prima per la sua autorevolezza nei pareri e autorità all’interno dell’organizzazione; il secondo ha sempre condiviso con
mio padre la passione per le piante di cui il Cantiere è pieno: un
giorno se vuoi ti porto a vederlo. Son dei bei tipi, il Giardiniere
e il Palazzinaro »
« Anche tu lo chiami così? »
« Palazzinaro, Commendatore, Cavaliere, sa bene come viene
indicato, davanti e dietro le spalle. Non se la prende affatto... »
« Anche tu cominci a sembrarmi un bel tipo »
« Dunque ce l’ho fatta… ti porto a letto questa sera ».
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Era un mattino di sole e nella veranda sembrava un inizio d’estate. Il Giornalista era disteso sul divano, trasferitosi dal letto
senza cambiare praticamente posizione. Rovesciò la testa per
guardare una pianta spilungona che raggiungeva il soffitto. Beveva il caffè, cercando con lo sguardo un posacenere, che lei gli
porse dicendo:
« Ti vedo scuro stamattina. Stanotte, molto tardi, quando ti sei
addormentato, avevi delle lunghe apnee, poi ti sei messo a parlare… ce l’avevi con qualcuno; glie ne hai dette di tutti i colori »
« Mi può accadere, in passato ho avuto anche episodi di sonnambulismo con deambulazione »
« Non ti fermi mai, benedett’uomo... »
« Sembra di no » pronunciò assente dalla stanza dove si trovava,
alla ricerca del punto di un orizzonte che non esisteva.
« Senti, avrei bisogno di un favore. Devo fare un regalo molto
importante e mi occorrerebbe un oggetto antico, un’opera d’arte. Prescindendo dal prendere un bidone, che non è mai gratificante, non posso rischiare che questo regalo risulti fasullo.
Affiderei a te questo incarico: sei libero, ti do carta bianca »
« Fammi capire: non sono mica un commerciante… È pur vero
che da qualche tempo bazzico gli antiquari per tamponare la svenarella che mi provocano gli erbivendoli e i cementicoli... »
« E chi sarebbero? »
« I venditori di erbe di ogni tipo: erba voglio, erba che illude,
erba che uccide, erbe; i cavernicoli del cemento sono i cementicoli – una sottocategoria – che mangiano colline e scorticano il
letto dei fiumi: sono truppa dei palazzinari. Combatterli non è
soltanto spendere tempo per raccogliere prove, fotografarne le
imprese, scrivere, stampare, diffondere la carta e mettere in rete:
è calarsi nei loro pozzi, viaggiare al buio dei loro corridoi, insudiciarsi nei loro acquitrini. E quando riemergi ti ritrovi ad aver
perso il filo dei tuoi pensieri migliori, speso entusiasmo e ottimismo. Ma questa moneta non basta: vogliono soldi gli avvocati, i
cancellieri, gli uscieri... »
« Mi dispiace di averti ricondotto nel mondo dove forse eri stanotte quando t’incazzavi, non volevo... »
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« Non preoccuparti, nei momenti che precedono la partenza di
una corsa il cuore di un pilota arriva a duecento battiti e li supera, poi si normalizza a centocinquanta, con scatti a centottanta
a ogni sorpasso: l’ho fatto per dieci anni questo mestiere e credo che mi allenassi per la vita d’inferno e d’inverno che faccio
adesso »
« Volevo acquistare un pezzo antico e, facendolo tramite un
esperto del tuo livello, sarei in una botte di ferro »
« Bene, ci penserò. Che tipo di oggetto desideri e quanto vuoi
spendere? »
« Scegli tu e stabilisci il prezzo… te l’ho già detto ».
Passarono in casa quel lunedì: tutti due volevano guardarsi dentro specchiandosi negli occhi dell’altro. Sentivano di non poter
archiviare la loro repentina conquista di familiarità alla voce
“scopate”, per spiegarla con la cinica capacità che l’esperienza
fornisce a certuni per bruciare le tappe, permettendogli di affacciarsi nell’anima di un’altra persona come un turista. Loro non si
erano soltanto compenetrati carnalmente, ma stavano entrandosi dentro senza alcun tipo di preservativo, fisico e spirituale. Lui,
tra l’altro, fu attraversato dal pensiero che lei non s’era preoccupata di prendere alcuna precauzione, nemmeno dopo aver fatto
l’amore, rimanendogli accanto. E non era di certo in menopausa.
Il Giornalista nel pomeriggio si mise a girare la casa, mentre
pensava a quei discorsi sul Cantiere, che gli confermavano la
bontà delle ipotesi da lui formulate. Consulenze geologiche e
gasdotti andavano d’accordo. Ma era convinto che comunque
fossero un paravento.
La casa occupava gli ultimi due piani di un grande palazzo nel
centro storico: uno di quei maxiabusi degli anni Sessanta e Settanta. Convivevano antico e moderno, attraverso oggetti di notevole valore. Nella palestra era sistemato un polimaterico di
Massimo Campigli.
Si salutarono il martedì mattina. Lei abbracciandolo lo ringraziò,
sussurrandogli: « A prestissimo ».
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XX
Codice Donna
L’ambiente era diverso, ma il rituale identico; identici gli strumenti e gli scopi. L’Editore, la Segretaria, la Psicologa, il Giornalista. Quattro come al tavolo da poker, ma qui la posta era il
solito pranzo. Non ci dovevano essere né vincitori né perdenti.
Non erano necessari né si ammettevano bluff. Viceversa, il Fato
e le fattucchiere stavano preparando una sequenza di combinazioni inedite, costringendo i giocatori a partecipare a una partita imprevedibile, il cui esito sarebbe stato per loro impensabile.
Come nei giochi d’azzardo reali.
« Oggi abbiamo cucinato i fegatelli di maiale… la responsabilità
della scelta è sua - disse la Psicologa guardando la figlia - Li abbiamo portati dal paese e abbiamo preso il Lambrusco. Dici che
si dovrebbe bere acqua o qualcosa di allegro, frizzante: è così? ».
La Segretaria era arrossita, dando un’occhiata alla madre come
a chi abbia tradito un segreto. Il Giornalista non rispose, ma
stavolta era sicuro di non aver parlato con l’Editore né con nessun altro della famiglia di questa sua idea di accoppiamento dei
sapori. Come faceva a saperlo? Sembrava che gli leggesse nel
pensiero.
« L’ha letto lei da qualche parte? » domandò il Giornalista.
« Sì, in una rivista di cucina » si affrettò a rispondere la Segretaria,
che teneva lo sguardo fisso nel piatto, mentre la madre la guardava con fare interrogativo.
« L’importante è che siano buoni » intervenne l’Editore, eliminando la bolla di imbarazzo che si stava gonfiando senza che ne
capisse la benché minima ragione.
Al dessert il Giornalista prese la busta che, arrivando, aveva appoggiato sul pavimento, in un angolo della stanza.
« Ve l’avrei dato in ogni caso, ma non prevedevo di aprirlo qui
e neanche di vederlo scartare; avrei voluto lasciarvelo sabato
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sera» e, dopo averlo estratto dalla scatola, appoggiò sul tavolo
un grande uovo sormontato dal fiocco. La madre incaricò la figlia e lei, ancora accigliata ma ubbidiente, divise con diligenza
l’uovo lungo la saldatura. La sorpresa era in tre pacchettini con
i nomi. Erano tre portachiavi: all’Editore un orso, alla Psicologa
una renna, alla Segretaria un microscopico calendario del sole di
mezzanotte del decennio successivo.
« Vengono da lassù? » chiese la moglie leggendovi “Norge”.
« Da Vardo, un villaggio e poco più... dopo c’è solo il Polo
Nord… e le cose che vi ho portato »
« Grazie di esserti ricordato di noi. E li hai conservati da Natale
fino a Pasqua per farli mettere nell’uovo? »
« Che c’è di strano? »
« La tua vita frenetica, in mezzo alla quale hai trovato lo spazio
per un pensiero così gentile » sentenziò la Psicologa che, seguita
dall’Editore, disse alla figlia di ringraziarlo per tutti. L’uno e l’altra si dovettero alzare, indugiarono e poi, rigidi come due tavole,
si sfiorarono le guance.
« È tornato il Palazzinaro - disse il Giornalista guardando l’Editore - Si è operato al cuore. Ha superato bene l’intervento e
laggiù gli hanno certificato una pellaccia veramente resistente »
« Lo andrò a trovare, anzi ci andremo insieme » e, rivolto alla
figlia: « Non voglio trattenermi molto e se ci sei tu me la caverò
meglio »
« Perché devi andare a trovarlo? » chiese la moglie
« Non ti ricordi? Mi aveva cercato già a Natale: dobbiamo parlare
dell’amministrazione di cui si occupava mio fratello prima di… »
« Sei molto informato » disse lei volgendosi verso il Giornalista
e proseguendo: « T’informa sua figlia? »
« Ma vuoi farti gli affari... » le fece il marito, inutilmente perché
lei aveva preso una qual confidenza col Giornalista, essendo capace di trattare l’argomento in modo amichevole, gratificando il
maschio con una certa compiacenza tutta femminile.
« La norvegese sa dell’Architetta? ».
La Segretaria si alzò e si mise a sparecchiare, quando arrivò la
Cuginetta che, dopo aver salutato, si rivolse alla sparecchiatrice:
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« Il telefonino dove l’hai messo? Sono due ore che il tuo fidanzato ti chiama… ha telefonato a me pregandomi di contattarti,
sta venendo in città... »
« Sì, m’è rimasto in borsa, è anche scarico... ma perché viene
qui? »
« Chiediglielo » disse l’Editore e la Cuginetta le mise in mano il
suo cellulare.
« Ciao, perché vieni qui?... Sì, ti avevo detto... per portarmi in pizzeria stasera ti fai quattrocento chilometri? Tu domattina lavori...
sì, sì, ci sentiamo quando arrivi » chiuse e restituì il telefono.
« Quel disgraziato domattina è in tilt: non è abituato a saltare il
sonno, si rovina la giornata come succederebbe al sottoscritto scosse il capo l’Editore, rivolto al Giornalista - Non siamo mica
come te che dormi a comando, alla svelta e quando vuoi, siamo
normali... poveri comuni mortali. Bando alle chiacchiere: volevo
che tu dessi un’occhiata a quel Codice della Donna. Traccheggio gli
autori da troppo tempo e devo decidere se stamparlo o meno »
« Un’occhiata gliel’ho già data, s’è per questo… semmai ti devo
restituire la bozza, ho scritto qualche appunto »
« Quando te... »
« Mi avevi consegnato la bozza - intervenne la Segretaria, che
transitava silenziosa di continuo - per dargliela mesi fa e io l’ho
fatto appena lui è venuto in ufficio »
« Perfetto. La tua prima impressione? »
« Me l’avevi accennato e lo condivido: le pagine introduttive
sono infarcite di un populismo femminista, rintracciabile anche
nel commento. Ciò non depone a favore di quel distacco che si
deve pretendere da chi ci presenta delle leggi e intende chiosarle.
Populismo e demagogia: uno scapolo e una zitella sterili che si
sposano »
« Allora non lo pubblichiamo »
« Ci sono da fare dei rilievi scontati, di evidenza banale: “Codice Donna”, senza preposizione articolata, è da apparentare ai
codici giallo o rosso del pronto soccorso: vuol suonare così? Va
specificato, esprimendo un parere. Si casca in un tipo di vittimismo che nega le pari opportunità, da cui proverrebbe il codice di
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cui parliamo. Se invece mettiamo la preposizione, “Codice della Donna”, viene spontaneo suggerire un “Codice dell’Uomo”,
naufragando nel ridicolo. O si parla di diritti umani senza distinzione di sesso, e quindi si parla di Diritto e di Legge, evitando
ogni riferimento, oppure si produce aria fritta ».
La Segretaria si era fermata e seduta. Ora lei, messo in funzione
il Sony che aveva nella testa, avrebbe registrato ogni cosa e filmato con la web camera delle aree 18 e 19 (dove starebbe l’auriga
di Platone). Nel tempo a venire avrebbe ruminato, analizzato e
tratto le sue silenziose conclusioni, lasciando alla “gatta morta”
il compito di decidere i comportamenti che più le sarebbe convenuto assumere.
« Ero certa che l’avrebbe mitragliato - arrivò la voce della moglie
dalla cucina - Te lo avevo detto, ma condivido molte osservazioni che ha fatto »
« Ho solo espresso principi ovvi, ora dimmi ciò che non condividi » le fece il Giornalista
« Il tono con cui affermi certi principi » rispose arrivando e sedendosi con loro
« Ci siamo: infatti queste leggi nascono per contrastare il tono
dei maschi, che dovrebbero diventare tutti voci bianche. Poi
però a letto dovrebbero avere tutti il vocione... »
« Bravo... » fece l’Editore.
« Eccoci, due uomini coalizzati »
« No, non la buttiamo in goliardia - riprese il Giornalista - Il
discorso è serio: nessuno esce indenne dall’orrore dei massacri
commessi dagli stupratori e dai folli in genere né da uomini gelosi e prepotenti. Ma di lì a giungere ad un’incriminazione per
violenza sessuale, com’è accaduto in Inghilterra, perché un marito non ha interrotto un rapporto sessuale in corso su richiesta
della moglie… lascio a voi il giudizio. E su questo versante si
apre il discorso sulle molestie e sullo stalking, che si possono
configurare in mille modi, la cui interpretazione è troppo spesso
arbitraria »
« Che suggeriresti? » riprese la Psicologa.
« Di andarci con i piedi di piombo. Le leggi non si promulgano
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e si modificano convulsamente come sta avvenendo per queste.
Non c’era bisogno di nuovi nomi per reati vecchi. Lo sanno tutti
che il reato di violenza privata tutela chiunque sia costretto con
qualsiasi mezzo, fosse anche uno sguardo intimidatorio, a subire o agire contro la propria volontà. Si possono indicare nuove
fattispecie che aggravano il reato, inasprire le pene ammesso che
serva, ma non incrementare gli articoli del codice, che sono già
troppi. Populismo e demagogia muovono i politicanti ».
Suonarono alla porta. Era il fidanzato e il suo arrivo fu provvidenziale, sia per sospendere la discussione avviata verso un
tedioso trascorritempo, sia perché il Giornalista voleva ripartire:
stava subendo un’amichevole tipo di violenza privata.
Salutò, porse le solite gratulatorie, a presto. L’ultima immagine,
mentre usciva, fu della Segretaria immusonita di fronte al suo
fidanzato che si sbarbava quattrocento chilometri per portala in
pizzeria per poi meritarsi, magari, di essere disinnescato con un
lacchezzo da autostoppista su camionista in marcia. Pensò al Codice Uomo, senza preposizione articolata.
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XXI
La Geometra
Il giorno dopo, mercoledì, l’Editore accompagnò la moglie alla
stazione. Doveva rientrare per i suoi impegni di direttrice della
scuola. Poi, con la figlia, si recò al Cantiere. Uno dei portieri li
fece attendere in un salotto per più di mezz’ora, per giungere a
dirgli che il Cavaliere era impegnato: lo avrebbe chiamato lui, in
giornata. Uscendo gli sembrò che la figlia scambiasse un cenno
della testa con un giovane, elegantissimo, che saliva le scale.
« Lo conosci? »
« L’abbiamo incontrato in discoteca quando sono uscita con la
Cugina, non so chi sia e non l’avrei salutato se lui non l’avesse
fatto per primo » rispose cercando di controllarsi. Era l’Ucraino
e si stava domandando cosa ci facesse lì. A regola, se aveva visto
lui, significava che erano tornati. Appena restò sola chiamò la
Cugina:
« Sono andata al Cantiere col babbo e ho incontrato sulle scale
il tuo uomo »
« Veramente è di tutte, specie della mia sorellina, che se lo fa
mettere anche negli occhi ».
« Perché allora siete sempre fuori insieme? »
« Interessi comuni »
« Il babbo mi ha chiesto chi era e ho detto che l’avevamo incontrato casualmente in discoteca. Lavora al Cantiere? »
« S’interessa di import-export, lui lavora dappertutto »
« Ti fermi in questi giorni o riparti? »
« Non dipende da me, può darsi che ci vediamo ».
Intanto, al paese, il Giornalista s’era appena alzato; erano le undici, e stava fumando vicino alla finestra che dava sul giardino
pubblico, la tazzina appoggiata sul davanzale. Pensò che aveva
cominciato a prendere il caffè a quarantanni, ai tempi in cui le
donne che vivevano con lui, collaborando alla classificazione
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della maiolica antica che egli conduceva, gareggiavano per portarglielo al risveglio. E lui aveva cominciato a sorseggiarlo per
gratificare quelle mani con la pelle di pesca; poi col tempo era
divenuta un’abitudine. A fumare invece aveva cominciato a otto
anni, arrotolando carta velina intorno a foglie secche di quercia
triturate, facendo il verso allo zio Pietro che mescolava tabacco
e un liquore che avrebbe dovuto dare aroma alla nube di fumo
in giro per la stanza.
Capitavano ancora di tanto in tanto anime buone a preparargli il
caffè (viveva di antiche rendite), ma spesso, come quella mattina, preferiva farselo da solo. Rimanevano due giorni per andare
in banca a portare i soldi. In tasca aveva esattamente 946 euri e
pezzi di rame. Le ventimila del magnate australiano erano cascate a fagiolo, contribuendo a sanare il debito verso la banca con
cui era a zero. Nell’armadio cassaforte c’erano due ceramiche,
uno smalto di Limoges, le sculture crisoelefantine di Cyparus.
L’Architetta voleva un oggetto importante. Era inutile andarlo
a cercare, poteva dargliene uno dei suoi e risolvere i problemi
contingenti. Le telefonò:
« Ti serve ancora il pezzo antico da regalare a... »
« Certamente, l’hai trovato? »
« Sì: è un piatto di Deruta rinascimentale, costa sessantamila »
« Va benissimo, me la cavo con poco »
« Potrei fare un salto a portartelo »
« In questo momento sono a Berlino per un convegno, torno
martedì »
« Dovevo pensare alla possibilità che tu non ci fossi, telefonandoti prima di farmi dare il piatto. Ho detto che l’avrei pagato lunedì... va bene, lascia stare... provvederò io e... in qualche modo
farò »
Lei avvertì subito il problema e riprese:
« Niente affatto, il convegno termina sabato; avevo intenzione di
andare a Parigi domenica direttamente da qui, ma non è urgente.
E inoltre preferisco incontrare te. Ci vediamo sabato in serata,
va bene? »
« Per me va benissimo ».
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Chiamò il direttore della BNL, comunicandogli che sarebbe andato in banca il lunedì. Durante la notte aveva tirato vento di
tramontana, penetrando con raffiche rabbiose nella cappa del
camino. Spazzato il cielo, la giornata divenne mite e assolata. Era
primavera.
Passò sulla strada un amico, gli fece un cenno con la mano:
« È una vita che non ti vedo » gli disse.
« Sono tornato da poco e riparto » rispose il Giornalista.
« Beato te che sei sempre in giro per il mondo » aggiunse l’altro.
Si salutarono.
Gli aveva telefonato la sua amica Geometra e a pranzo sarebbe
andato da lei che abitava in un paese distante venti chilometri.
Però ora bisognava togliersi la vestaglia - che metteva di rado, ma
che metteva perché era un dono della madre - e doveva decidersi
a uscire. Stava chiudendo la finestra quando vide la Psicologa
che attraversava la strada. Gli fece un cenno con la mano, poi il
gesto di mangiare indicando la bocca e, avvicinandosi, lo chiarì
modulando con le labbra: « Dove vai a pranzo? ».
La informò. Ciao ciao.
Guidando verso il pranzo, evocava una tessera del mosaico che
è ogni vita. Il suo era molto colorato, variegato se non chiassoso. Aveva conosciuto la Geometra oltre dieci anni prima (con
esattezza dodici) nell’ambiente del volo: era appassionata di paracadutismo e lui per aria ci navigava fin da bambino, con tutti i
mezzi possibili. I lanci li aveva dovuti sospendere già a diciannove anni, a causa di un grave incidente sul campo di Fontanarossa
a Catania. Per festeggiare i venti passò par avion sotto un ponte,
così angusto da essere ritenuto impossibile. Di questa impresa
parlarono i normali mezzi di informazione e quelli aeronautici di
tutto il mondo, ma le Autorità italiane lo punirono ritirandogli il
brevetto. Avrebbe ripreso a volare dopo quattordici anni.
Conobbe la Geometra per il cielo, ma penarono insieme per le
disfunzioni che si incontrano sulla terra. Difatti, in poco tempo
divenne la sua indispensabile collaboratrice nelle battaglie contro
i cementicoli e i compari erbivendoli: studio di piani regolatori,
concessioni e progetti traguardati alla luce della normativa vi130
gente, documenti da ottenere nei labirinti delle amministrazioni
pubbliche da allegare a specifiche denunce. Era un lavoro massacrante, reso improbo dalla frustrazione degli inesistenti risultati pratici (il Giornalista, si è detto, quando andava bene veniva
ascoltato e gli si riconosceva ragione, ma i colpevoli restavano ai
loro posti e gli abusi sopravvivevano).
Tra i due andava avanti così da dodici anni, impegnativi come
secoli. Ravvisavano il segreto di questo ininterrotto rapporto
nell’averne reciprocamente evitato la trasformazione, come sarebbe potuto accadere normalmente a due eterosessuali. E specialmente lui conosceva quei meccanismi che, lubrificati dalla
passione e dal sentimento, logorano e giungono a distruggere
anche macchine apparentemente perfette. Eppure, gli venne in
mente, con l’Ereditiera avrebbe dovuto filare sull’olio, stante
l’assenza di ogni fattore estraneo alle loro indiscutibili attrazioni.
Ma a Londra era bastato un diniego; il pensiero di uno stupido
equivoco lo angustiava.
A tavola il Giornalista e la Geometra avevano molte cose da
dirsi. Lei iniziò con l’osservazione che da tempo non le portava
o inviava testi da battere, dal che deduceva la presenza di una
nuova operatrice word, scartando l’ipotesi che lui avesse deciso
di imparare per rendersi autonomo.
« Brancolo sempre sulla tastiera con due dita e non dispongo
di alcuna operatrice. Uso il computer come squinternato salvadanaio di immagini e di idee. Miracoloso è che non l’ho ancora
sbattuto dalla finestra »
« Hai smesso di scrivere? »
« Scrivere è un vizio e finisco le penne, ma cerco di interrompere la fase intermedia alla pubblicazione: i manoscritti sono
più disponibili a dormire in un cassetto. Quando si evolvono in
Garamond si montano la testa. Del resto, mi hai battuto l’opposizione all’ultima richiesta di archiviazione, non te lo ricordi? »
« Sì, ma sono passati dei mesi… non è mai successo »
« Ho in mente di uscire con un giornale, Numero Raro, ma voglio essere sicuro di non poterne fare a meno. Anzi, dato che
ti sento assalita da nostalgia, ti passerò una lunga, e ultima, co131
municazione da inviare ai consiglieri comunali. Se insisteranno
a fare gli struzzi, dovremo almeno raccontare le loro imprese »
« A dire il vero non ho tanta voglia di mettermi a decifrare i tuoi
sgorbi, corretti e ricorretti all’infinito - fece ridendo - Ma se occorre dovrò rassegnarmi »
« Come al solito ».
La mise sommariamente al corrente dei suoi viaggi, accennò alle
preoccupazioni economiche, che si intersecarono: anche la Geometra aveva subito ritorsioni di varia natura e tipo in dipendenza
di quel loro lavoro che non ingrossa le file degli amici.
« Ci sentiamo, in questi giorni sarò fuori. Ciao».
Il sabato a mezzogiorno il Giornalista era in città. Lo chiamò
l’Editore:
« Sono giunto ieri sera in paese. Vieni da noi stasera? C’è il notaio di cui ti ho parlato e che vorrei conoscessi, non è la solita
figura che vedi come fumo negli occhi »
« Lo lascio ugualmente tutto a te, molto volentieri. Sono in viaggio da questa mattina presto, tornerò lunedì »
« Mi dispiace. Vorrei la tua opinione sullo strano comportamento del Palazzinaro. Non sono riuscito a parlarci… »
« Ne discuteremo, ti saluto ».
Nel primo pomeriggio lo chiamò l’Architetta, che fu contrariata
di saperlo già in città mentre lei doveva ancora partire. Le garantì
che comunque avrebbero cenato insieme.
Quella sera nella mente del Giornalista le cose precipitarono.
L’Architetta aveva fatto preparare la cena in casa. Disponeva di
molte persone, compreso un cuoco, tra guardaspalle e segretari.
Il padre voleva che nel suo stretto entourage non ci fossero donne responsabili di alcun settore, che poi era sintetizzato nella sicurezza, tenuta in gran conto, come il Giornalista ebbe modo di
costatare. Unica eccezione, una sorta di fantesca che l’aveva vista
nascere, ma rassomigliava più a un carabiniere che a una balia.
E gli sembrò di essere sulla porta di un mondo, oltre che affatto
diverso da quello visto la prima sera, talmente estraneo da sentire un gelo diffuso in tutto il corpo. Soltanto nei film l’aveva
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intravisto e nella realtà gli si confermò di plastica.
« Non si è liberi neanche disponendo di mezzi propri, accidenti
a loro - esordì l’Architetta mentre prendevano un drink sulla
veranda e dava ordini perché non fossero disturbati - Avevamo
un piano di volo per decollare alle quindici e ce lo hanno fatto
slittare per l’arrivo di non so quale capo di stato... se mi fossi servita di una linea pubblica sarei arrivata in anticipo. Ma mio padre
dice che è più sicuro usare i nostri aeroplani »
« Quando siamo arrivati qui una settimana fa non mi ero accorto
che avessi intorno tanta gente »
« Mi ero organizzata dal giorno prima e il mio piccolo esercito si
era disposto per un servizio efficiente ma diverso, “di long see”,
come lo chiama chi si occupa di sorveglianza. Essendo fuori,
non mi è stato possibile ripetere l’operazione. Servita la cena se
ne vanno il cuoco e la balia, gli altri sono già fuori, e rimarremo
tu ed io »
« Meno male, temevo che ne avremmo avuto qualcuno in camera da letto »
« In ogni caso, quando vorremo hai una camera riservata e ti
accompagneranno in albergo: non voglio che mio padre veda tra
me e te un rapporto diverso da quello che esiste tra una collezionista e un esperto d’arte »
« E l’altra volta? Siamo stati quasi due giorni senza uscire; i tuoi
gorilla, visibili o invisibili, credo riferiscano lo stesso »
« Sai, una volta non lo preoccupa; è un capriccio »
« E quando ti sposasti? »
« Non era uno del tuo tipo, ma del nostro giro »
« Sei divorziata, mi dicesti. E lui? »
« È morto ».
“Tombola”, disse la voce interna del Giornalista, che non aveva
mai amato le vedove: per carità, non si possono colpevolizzare,
ma di certo non hanno mai allungato la vita a nessuno.
E mentalmente si toccò le palle.
La sequenza delle vivande era squisitamente scelta e ogni vino
puntuale. Lui lo notò, ma non gustò niente. Era stordito, deluso,
sul punto d’essere incazzato. Raccolse le forze per mantenersi
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calmo e possibilmente sorridente. Al solito caffè prese la sua valigetta metallica (ne aveva una collezione: ultimamente la penuria
di soldi gli faceva pensare che, se avesse avuto la metà di ciò che
avevano trasportato le sue valigie, si sarebbe comprato un atollo
come Lindbergh) e ne trasse il contenuto. Tolse il piatto dall’extraball che lo proteggeva e le disse, mostrandoglielo:
« Intanto il primo impatto: ti piace? »
« Lo pensavo più piccolo, ha una tavolozza calda, attraente. Non
mi dire niente, voglio osservare l’iconografia e capirne il significato »
« Prendilo » e lo posò sul tavolo. Lei lo inclinò verso di sé per
guardare meglio l’oggetto, passando la mano sulla superficie
concava della grande scodella
« È raffigurato San Francesco che riceve le stimmate sul Sacro
Monte »
« Esatto. Gli è accanto Frate Leone e sono a La Verna. A sinistra,
sospeso, è il Cristo che dalla croce dardeggia le stimmate al Santo, e sulla pianta c’è un gufo »
« Come mai la presenza del gufo? »
« Un simbolo laico e cristiano: come il gufo vede nel buio della
notte, il sapiente fende con lo studio quello dell’ignoranza; in
versione religiosa, l’uomo può vedere nel buio con la fede »
« Epoca? »
« Intorno agli anni Trenta del Cinquecento, a Deruta ».
Lei si alzò, dirigendosi verso la porticina di uno studiolo che
si affacciava sulla grande sala. Si trattenne il tempo necessario
per uscire con una busta a sacco, di quelle robuste marroni a
soffietto, fermata da un gancio metallico. La depose sul tavolo,
accanto al piatto:
« Sono sessanta, mi sembra che tu abbia stabilito questa cifra… »
Lui assentì: « Ho molte cose da sbrigare, penso che mi convenga
riprendere la strada stasera, a quest’ora troverò meno traffico e
in meno di tre ore... »
« Pensavo si pranzasse insieme domani, dovrei anche controllare
alcune cose alla casa in campagna »
« Magari un’altra volta... »
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« Ci rivedremo? »
« Ci rivedremo » e si salutarono, lui le appoggiò le labbra sugli
occhi e le passò una mano sui capelli.
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XXII
Il Campanile di Giotto
Il 24 Giugno è la festa di San Giovanni, il cugino temerario di
Gesù. A Firenze la primavera, che sul calendario aveva ceduto il
posto all’estate da tre giorni, conservava ancora il proprio tepore. Il Giornalista stava discutendo con un custode su in cima al
campanile di Giotto.
« Signore, glielo ridico per l’ultima volta: è proibito fumare, siamo in chiesa »
« Innanzitutto non siamo in chiesa. E poi sappia che recenti studi hanno stabilito, senza ombra di dubbio, che Gesù fumava e
da domani una circolare vaticana imporrà il fumo ai preti, che
dovranno fare opera di apostolato e consigliarlo a tutti i fedeli
- disse con tono deciso, che non prevedeva repliche - Sembra
che il Signor Philip Morris venga appositamente a San Pietro a
comunicarsi dal Santo Padre ».
Il custode, messo di fronte a tanta sicurezza da parte di questo
uomo con la barba bianca e la lunga coda, ammutolì. L’aspetto
era dell’artista e dello studioso. Benché fiorentino, scafato e rotto a ogni fesseria, il custode borbottò qualcosa e si allontanò.
Si sentì una risata e, contemporaneamente, due mani sbucarono
da dietro le spalle del Giornalista e gli coprirono gli occhi.
« Sei arrivata finalmente. Sei in ritardo, il campanone ha suonato
da un pezzo »
« Falso, sono in ritardo di sei minuti esatti... »
« In sei minuti si fa in tempo a morire, specialmente se uno è già
morente per la voglia di riveder qualcuna »
« Ah, sono contenta: io sarei qualcuna? »
« No, tu sei tutte - e girandosi le prese il viso tra le mani - Ho
voglia di darti un bacio indiano…» le bisbigliò strofinando il suo
col naso di lei, poi si baciarono con calma e con molta convinzione.
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Mentre si spostavano e si affacciavano, le braccia messe a cintura
doppia, lui scoppiò a ridere.
« Ripensi a quel povero custode? »
« In lui rivedo un custode e un cameriere di cinquantanni fa »
« Uhmm… »
« Avevo meno di... forse... no, avevo proprio ventanni... 26 Settembre ‘58, il Ponte... deve essere quell’Ottobre.
Mi trovai a Venezia con una ragazza più grande di me: era una
maestra delle mie parti e avevamo organizzato l’appuntamento
con fatica… erano altri tempi; sul campanile di San Marco, su
in cima, un custode ci redarguì perché ci sfiorammo con un bacio, ricordandoci che eravamo in chiesa. Discesi, ci sedemmo da
Florian e un cameriere ci ri-redarguì per un bacio. È una storia
di campanili e di guardoni » e accese una sigaretta.
« Ci siamo rivisti dopo mesi, e dopo tre secondi già pensi a un’altra donna »
« Sono immagini di carta colorata, come quella degli aquiloni:
non appartengono a nessuno, neanche a me, e ti danno allegria
ma nessuna nostalgia. Le mie donne oggi sono tutte su questo
campanile »
« Buuum... » fece lei e, notando la presenza di un gruppo di turisti, aggiunse: « Veramente ce n’è un bel numero e niente male ».
L’Ereditiera era arrivata da Vardo a Oslo, passata per cambiare
valigia a Parigi e imbarcarsi subito per Firenze. L’appuntamento
era fissato da quel giorno che si erano lasciati, e non perfettamente soddisfatti, a Londra, con l’intenzione di continuare lo
stesso stile giocoso con cui era iniziata la loro storia: se nessuno
dei due telefonerà prima, ci vedremo il 24 Giugno sul campanile
di Giotto a mezzogiorno. Erano vivi. Erano a Firenze. Erano
sul campanile di Giotto. Era mezzogiorno e quaranta e avevano
riaperto al segno lasciato qualche mese prima. Il racconto continuava.
« Sai la strabellissima novità? Ero a Vardo e sono arrivati tutti
due »
« Chi tutti due? »
« Mio padre e mia madre; hanno finto di non sapere, nessuno dei
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due, che l’altro arrivava. Sono anni che si evitano andando nelle
varie case con precisione svizzera. E guarda caso hanno sbagliato proprio a Vardo, che è stato il loro nido preferito. Ci siamo
ritrovati a casa tutti e tre insieme, come una... »
« Come una famiglia »
« Come una volta, che significa anche come una famiglia, naturalmente… »
« Ecco perché sei così felice: credevo fosse per me »
« È vero che quando il cuore è già aperto riceve meglio, ma io
sono felice di essere qui con te. Mi sarebbe piaciuto che fossi
stato con noi lassù; ti ho pensato intensamente, stavo per chiamarti »
« Bel genero avresti proposto a tua madre, dieci anni più vecchio
di tuo padre »
« A parte il fatto che avete la stessa età e tu sembri suo figlio, ti
dà tanto noia questo fatto dell’età? »
« Per niente, se sta bene a te... ma tutto il mondo è paese... tirare
su i figli, vederli crescere... »
« A me piacerebbe avere un figlio con il tuo cuore e i tuoi occhi
e piacerebbe anche a mia madre: un figlio italiano. Da ragazzina
s’era innamorata di un lombardo... »
« Con un lombardo posso ancora reggere il confronto... dai, andiamo a pranzo... lo so: stai per dirmi che sono fissato con due
cose e una è il mangiare ».
Furono incerti se rimanere per lo spettacolo dei fuochi che la
sera sarebbero partiti da Piazzale Michelangiolo.
Ma avevano voglia del mare e lui della Liguria. Intanto tirò dritto
per Porto Venere perché era curioso di sapere se esistesse ancora
la Taverna del Corsaro, giù al porto.
« Roba del Millennio scorso - le disse - Andavo per la zuppa di
datteri, non so neanche se si possano pescare più. Avevo una
Ferrari Scaglietti a due posti. Una sera eravamo saliti in tre davanti e, tornando, uno dei due passeggeri ebbe l’impressione che
in un sorpasso andassimo dritti sul muso di un camion: non era
abituato a vedere il film della strada a certe velocità. Gli prese
una mezza congestione, dovemmo portarlo a un pronto soccor138
so, ma si rimise alla svelta. I datteri sono pesanti ».
Giunti all’altezza di Sarzana, si fermarono per rifornire la macchina e prendere un caffè.
« Dobbiamo tornare con calma: qui ti devo far vedere uno dei
grandi Cristi a occhi aperti, forse il più antico, 1138, dipinto in
croce e firmato Guglielmo; un altro firmato Alberto Sotio, 1187,
è a Spoleto…tutti e due i Crocifissi ti guardano da risorti: non
vogliono ricordare a nessuno di aver patito la croce per riscattare
un peccato che coinvolgerebbe l’umanità. Questo di Sarzana è
straordinario. Senti, ci torneremo con calma e ci dedicheremo a
Cristo e ai datteri, Porto Venere è a due passi. A La Spezia devo
andare al museo fatto da quell’industriale morto qualche anno
fa... non ho conosciuto Lia... Stasera c’è quasi luna piena, la natura supera la cultura: arriverei fino al faro di Portofino… hai
voglia di camminare per salire lassù? »
« Quando parli di queste opere d’arte ti si illumina la voce come
quando hai detto della Ferrari... »
« Anche il rombo di un dodici cilindri è musica, evoca l’equilibrio e il nostro desiderio di perfezione »
« Ecco, un bambino dovrebbe nascere con i tuoi entusiasmi contagiosi, avrebbe già avuto molto dalla vita »
« Faccio girare sempre un disco della mia vita, metto un DVD
autobiografico, passato presente futuro non li ho mai distinti
bene, istigo Narciso con Dioniso e li faccio assistere da Mnemosine... di te non si è parlato... il tuo rapporto con l’arte lo intuisco:
sei cresciuta tra collezionisti e... l’educazione religiosa... »
« Mia madre, en principe, è cattolica, mentre mio padre è di derivazione paterna protestante, di fatto agnostico; io ho ricevuto il
battesimo ma in chiesa ci sono entrata più per vedere l’arte che
per assistere alle messe. I miei si sono sposati in municipio »
« Perché se hai pensato sul serio di telefonarmi da Vardo non
l’hai fatto? Siamo stati dei mesi senza sentirci »
« Non ci siamo chiesti niente durante i nostri tre - non so come
devo chiamarli - soggiorni insieme a Parigi, poi a Vardo e a Londra e… potremmo essere sposati o... »
« Sei sposata? »
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« No, mai stata e non ho un fidanzato; l’ho avuto…»
« A me non domandi niente? »
« Lo immagino, sarai stato tutto e sei... penso ogni giorno di
telefonarti ma poi temo di... mi sono rimessa a studiare storia
dell’arte e mi sembra di esserti più vicina ».
Stavano costeggiando le Cinque Terre e lui citava posti dove prima o poi sarebbero andati, piatti da assaggiare, i sempre più rari
luoghi dove poter bere i famosi vini.
Scendendo da Rapallo verso Portofino, lui ripensava ancora al
millennio scorso, I found my love in Portofino... Fred Buscaglione che
si schianta ai Parioli con la Thunderbird rosa shocking, 1960…
Cardarelli seduto sulla sedia con la coperta sulle ginocchia, in
via Veneto… era morto l’anno prima: un pescatore di spugne,/avrà
questa perla rara.
Il Giornalista a quei tempi aveva conosciuto la dolce vita, compresa per lui tra le Ferrari Berlinetta e l’uscita della Jaguar EType. Cinque anni vitaioli, inutili, spensierati. Poi i disastri economici, a cui riparò sua madre e...
« Sei lontano, non sei con me... »
« Siamo arrivati » e non riusciva a liberarsi di quei tempi in cui
sulla piazzetta di Portofino lui veniva a Febbraio... gl’incontri
furtivi di un ragazzo con una signora della Milano bene all’Hotel San Pietro a Sestri e il gelato a Bocca d’Asse, si mischiavano
immagini e sensazioni…
« Mangiamo qualcosa e poi saliremo al Faro ».
Rimasero tre giorni nella zona, noleggiarono un gommone, ormeggiarono e nuotarono, fecero l’amore. Lei disse che avrebbe
voluto andare a Montecarlo. Aveva detto ai suoi della partenza
per l’Italia e il babbo le aveva domandato se fosse capitata ultimamente a Montecarlo: stabilirono che nessuno dei tre vi si era
recato da molto tempo.
« Ci sono delle ceramiche di Picasso nella casa di Montecarlo,
forse a te interessa vederle… »
« Avevo un’amica che abitava lì vicino a Vallauris, ogni tanto
gliele regalava... »
« E quell’amica ce l’hai ancora?... Scusa »
140
« È roba del secolo scorso »
« Non del millennio: dunque è abbastanza recente ».
Passando da San Remo lui nominò il Casino, remind d’una nottata particolare al tavolo grande, poi un flash al cartello Diano
Marina: la strada, ora divenuta autostrada, scorreva più rapida,
ma lui non era sulla Ferrari, bensì al volante di una modesta Fiat
Grande Punto, che di grande aveva solo il nome.
La casa di Montecarlo era un attico sopra la curva del Tabaccaio;
il portiere li accolse con il rispetto per la donna che era e la premura dovuta a chi è sempre presente con denaro puntuale per
tutte le necessità, senza alcun ragionieristico controllo.
Il Giornalista si affacciò dal balcone, verticale sulla famosa curva, e si rivide sulla March di Formula 3, era il 1976; l’invito era
arrivato con le firme di Grace e Ranieri. Si era qualificato bene
con quel macinino, ma al terzo giro lo fermò la bandiera nera:
stava andando a fuoco. Vinse Giacomelli.
Sembrava che la dispensa fosse stata rifornita la sera prima. L’Ereditiera aveva apparecchiato all’aperto per la colazione, con fette biscottate e ottime marmellate inglesi. Nonostante l’eruzione
pompeiana di cemento subita dal Principato, il sole e il riverbero
di quel golfo mettevano allegria.
Lei gli chiese se avesse risentito il magnate australiano.
« Sì, mi ha chiamato un mese fa dicendo che arriverà a Milano.
Gli interessa il codice miniato; ho risposto che t’avrei cercato.
Aspetta una mia telefonata »
« Perché non me l’hai detto? »
« È la nostra storia: nessuno di noi due telefona e ognuno aspetta
di vedere se l’altro si presenta all’appuntamento… siamo schiavi
del gioco»
« Quando venni a Londra con il facsimile volevo portarlo e lasciartelo, ma siccome è legato a una storia di famiglia sfortunata
non l’ho fatto: lo vendo per scaramanzia, e non voglio che tu lo
tenga con te. Vorrei darti dei talismani e non oggetti che attirano
energie negative »
« Ma allora mi vuoi bene »
« Non si vede? »
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« Una cosa è innamorarsi, infatuarsi, appassionarsi e un’altra voler bene. È raro che accada tra due amanti. Certi sentimenti si
riservano ai figli: possono non cercarti mai e la tua preoccupazione è solo quella che stiano bene e siano possibilmente sereni.
Gli amanti si vogliono, si possono amare, ma... »
« Vuol dire che io ti voglio anche bene »
« A parte la Cabala e la scaramanzia, sai che quel libriccino vale
un paio di milioni e tu me lo affideresti così... »
« Puoi prenderlo anche domani »
« Facciamo una cosa: lo mettiamo in banca a Milano; i banchieri
vivono di sfortuna (degli altri) e quando viene l’australiano lo
porto direttamente lì »
« Sembra una buona soluzione ».
Dopo due giorni lui l’accompagnò a Nizza, dove lei prese l’aereo
per Parigi. L’avrebbe chiamata lui: si sarebbero visti a Milano per
sistemare il codice in banca.
142
XXIII
La Buca del Pero
Alla fine di Luglio anche i mezzi vacanzieri annusavano le vacanze vere. Agosto è il mese della temporanea amnistia degli schiavi:
si preparano a festeggiarla con lampade UV, mangiando tutti i
vegetali rossi del mondo, le schiere di impiegati e dipendenti che
vogliono debuttare in spiaggia con la tintarella, per non perdere
un giorno di quel breve periodo per cui vivono, che attendono
per undici mesi, maledicono durante e rimpiangono dopo. In
spiaggia il popolo fantozziano non gode, ma viene annichilito
dal proprio destino disumano di gaudente impreparato: la famosa nuvola s’incarica di seguire ognuno per mortificarlo e farlo
specchiare di continuo nell’orribile se stesso. Non si suicidano
perché la ritengono un’iniziativa troppo grande per loro.
Il Giornalista sfotteva l’Editore sottoponendogli questa prospettiva per l’imminente partenza della famiglia a cui s’era aggiunta
la Cuginetta, ormai sempre più presente in paese che nella sua
città: aveva trovato da far bene sul posto, tutti corteggiavano la
forestiera e lei non poteva chiedere di meglio. Avevano anche
parlato di un trasferimento per la scuola, dato che, a suo dire, il
paese era tranquillo e avrebbe studiato con maggior profitto. Di
lì a due anni l’aspettava l’esame di maturità; ne aveva persi giusto
due, a causa di un grosso incidente i cui postumi non erano ancora scomparsi completamente.
Cenavano all’aperto, sotto i ciliegi che s’erano difesi da più di un
mese di sole a picco accartocciando le foglie.
« Niente vacanze? Rimani in paese? » gli domandò la padrona
di casa.
« Andrò al fiume, su in collina, se sarà possibile trovare un gorgo
dove la gente permetta di vedere l’acqua »
« La piscina non ti attira? »
« A me piace l’acqua fredda e preferisco prendere funghi e ver143
ruche soltanto se deve accadere: andarsele a cercare non mi sembra il caso »
« Noi andiamo qualche giorno nel nostro rifugio al mare e poi in
montagna, dove si sta molto meglio » disse l’Editore.
« Hai una casa al mare? »
« Piccolissima, diciamo che è una grande roulotte di cemento »
« Ma tu hai già una bella abbronzatura e non sei certamente il
tipo da lampada » riprese la Psicologa rivolta al Giornalista.
« L’ho presa con due giretti in gommone e qualche nuotata a
Giugno, poi ho fatto dei conati di surf sul lago, ma non sono
capace. Mi dicevano che era come lo sci, invece... ».
La Segretaria e la Cuginetta stavano sul pianerottolo che dava
sul giardino, indaffarate a costringere un frullatore in una valigia
che rifiutava di chiudersi. Arrivò il fidanzato che, per aiutarle, ci
mise un ginocchio e spaccò qualcosa per cui venne compensato con tre parole non proprio gentili. Andavano in un isolotto
greco dove c’erano soltanto bungalow, difatti portavano diversi
attrezzi, lampade e bombolette del gas.
La Segretaria si avvicinò al Giornalista:
« Vuole il caffè? » e stranamente lui non rispose il consueto “Se
lo prende” o “Se lo prendete anche voi”, ma con un “Sì, grazie”.
Rimasero fuori fino a tardi, faceva un gran caldo e il giardino,
posto in posizione collinare, lo mitigava.
« Che hai deciso per il tuo Numero Raro, ti hanno risposto gli
amministratori? - gli fece l’Editore - Lo stampi? »
« Aspetto. Ho deciso d’inviare un’ultima lettera agli amministratori, e in base a come reagiranno deciderò. Ne parleremo non
prima di Ottobre o Novembre »
« È adatto Novembre per la diffusione? »
« Semmai lo mando in edicola poco prima di Natale, è il periodo migliore dell’anno: ci sono dei giorni in cui la gente non sa
che fare, in paese ci sono i parenti venuti per le feste e si è più
propensi a leggere e discutere. Inoltre, gli emigrati che tornano
tengono più degli altri alla salute della loro culla. E le opinioni
espresse da facce e voci che non vedi e non senti tutti i giorni sembrano meno faziose: sono ascoltate con il sentimento di
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quella poesia con cui gl’indigeni rivestono la madre...
In questa valle dove son nato/io morirò/senza uscire dalla mia culla/gli
stessi monti le stesse trine/e i panni di bucato... »
« Chi è ? »
« Nicola Palarchi, faceva il veterinario; era un parente intellettuale di Fucini »
« Sì… lo conoscevi bene? »
« Mi sollecitava a continuare le mie traduzioni di Baudelaire: chi
non s’è innamorato dei Fiori del Male a quindici anni? Palarchi
era capace di parlare latino e greco antico, e sapeva a memoria
almeno metà della letteratura poetica francese dell’Ottocento. I
simbolisti lo incantavano. “Non ho mai assistito al tradimento
così grande di un poeta, ma continui”, mi diceva. E ogni tanto, quando mi ospitava nel suo studio a notte già fatta (era un
premio per me), declamava le mie traduzioni in italiano. Poi lo
seguivo nel divertissement di ritradurle in francese. “Funziona,
funziona. Continui e non sprechi il dono che ha ricevuto da sua
madre”. A quei tempi, un monumento come Palarchi dava del lei
a un ragazzino spelacchiato come me, pensa… »
« E quelle traduzioni dove sono finite? »
« Per carità, non chiedermi certe cose. La mia vita è la somma
di infinite speranze disattese. Non ci ha rimesso nè la cultura
né l’umanità, semmai chi ha creduto in me. Sono un produttore
mediocre. Possiedo, in molti campi, qualche numero che ha illuso chi mi ha conosciuto e frequentato, ma non ho quel colpo
d’ala che... credimi, non lo dico per modestia, sta così ».
Tornato a casa, il Giornalista si mise a programmare, sul foglio
libero al centro del tavolo, il suo Agosto.
Non era la prima volta che decideva di concludere uno dei tanti
lavori portati a metà. Spesso, anzi, ne aveva cominciato un altro.
Stavolta era solo, senza neanche una di quelle volontarie che capitavano a dargli una mano in casa o, come l’amica Geometra,
a mettere in bella copia i ghirigori del suo cervello battendo i
manoscritti al computer. Anche lei, una volta tanto, era andata
al mare.
Era veramente solo. Prima di coricarsi cercò di elencare ciò di
145
cui aveva bisogno, considerando il fatto che le ferie trasformano la vita del formicaio e dell’alveare nel sistema umano, quindi
disorganizzato e imprevedibile, in cui se ci sono tre negozi che
vendono penne, facilmente chiudono nello stesso periodo. E
gli uffici comunali, che dovrebbero curare queste cose, vanno in
vacanza prima degli altri.
Il programma fu casa e fiume, ritmi lenti per riflettere e fare il
punto della situazione. La casa involveva verso l’inagibilità e il
fiume pullulava. Decise di liberare un tavolo, ammonticchiando
le carte in uno scatolone; salì in collina fino alla gola dove l’acqua
era scura e fredda: la Buca del Pero era in abbandono da tempo,
troppe le leggende e troppi i morti annegati.
I rami di quell’albero che si voleva facesse frutti d’oro, sfioravano la superficie dell’acqua giungendo da cinque o sei metri più
in basso.
Sulla destra della cascata, che sovrastava il gorgo, la chioma del
pero sommerso lasciava uno specchio libero di circa tre metri: la
buca in cui un tempo i ragazzi misuravano il coraggio e l’abilità
di tuffarsi.
Poi, qualche temerario si immergeva per cogliere le pere d’oro,
che sarebbero apparse a chi fosse riuscito a raggiungere il fondo
e, risalendo lungo il tronco, esplorare ramo per ramo, toccando
l’intera superficie del legno che ancora, nonostante gli anni, non
era marcito. Nessuno li aveva trovati quei frutti perché nessuno era riuscito a compiere l’intera operazione. Mentre qualcuno,
si diceva, nel tentare questa mitologica impresa, c’era rimasto.
Una volta, per recuperare un annegato, erano dovuti intervenire
i sommozzatori dei Vigili del Fuoco.
Alla Buca del Pero non era mai caldo. A parte i seicento metri
di altezza, il luogo si trovava in una strettoia dove il sole batteva
soltanto un paio d’ore al giorno.
Per una frazione di secondo il Giornalista ebbe un attacco di
panico. Ma il motivo non era, come sarebbe stato naturale, il
tuffarsi di colpo in quel frigorifero com’era sua antica abitudine.
La paura lo sfiorò invece mentre si era disteso nell’ultimo spicchio di sole ad asciugarsi. Dall’alto dei campi e della macchia gli
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giungeva il concerto monotono e incessante delle cicale, accanto sentiva lo sgocciolio dell’acqua che in Agosto, non essendo
sufficiente per produrre la cascata, scivolava lungo i massi, dal
bordo dei quali pioveva sul gorgo.
Capì che quel fremito era dipeso dall’aver perso l’allenamento al
silenzio e alla solitudine. E forse la solitudine era moltiplicata per
mille dal groviglio dei ricordi. Si accorse che erano passati cinque
anni dall’ultima volta che s’era tuffato nella Buca; e oltre mezzo
secolo dal primo tuffo che per il ragazzo di allora significò una
vittoria.
Gli venne in mente, gli apparve l’impressionante scalinata del
cimitero militare di Redipuglia con la parola “PRESENTE” impressa su ogni scalino. Lui, ora, ci vedeva il nome e le facce di
tanti coetanei, amici e conoscenti. Le loro voci, le risate e gli
improperi (di chi aveva appena subito uno degli scherzi da prete
che si usava fare normalmente), sebbene non riuscissero a vincere l’acqua e le cicale, gli rintronavano la testa.
Amici non ne aveva più e neanche compagni di tuffi e di risate.
Era solo, alla Buca del Pero come a casa. D’altronde le uniche
creature con cui da decenni aveva famigliarizzato erano donne,
delle quali un tempo poteva parlare con quei due o tre amici
stretti, confidando alti e bassi. Ma, toccato il secondo decennio
degli “anta”, le confidenze amorose erano divenute impossibili
per svariati motivi.
La masnada dei vitelloni, nottambuli perditempo, era già un ricordo lontano. Con la compagnia, sebbene nutrita, dei nuovi venuti nel giro delle macchine da corsa e degli aeroplani, poteva
condividere molto, ma molto meno di tutto. Erano dei collaboratori che gli davano la carica per stringere i denti ai cento metri
da una curva maledetta o per abbassare la quota delle esibizioni
acrobatiche fino a lambire la terra. Per chi è dentro un abitacolo
o una carlinga, i dieci o i centomila spettatori sono un muro grigio assetato di disgrazie: l’unico premio è l’abbraccio e il brindisi
con chi ha lavorato con te e ti aspetta. A un livello più profondo
ci sono le carezze di una donna, completate dall’approvazione
silenziosa di un amico.
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Il Giornalista aveva sempre parlato poco della sua vita privata,
ripeteva che i soldi e le donne ognuno ha i suoi. Però, anche lui
aveva vissuto un periodo magico in cui l’entusiasmo dell’amore
e le gratificazioni dell’amicizia si erano compenetrati.
L’uomo e la donna, al loro debutto sociale, si esibiscono l’un l’altro stando insieme e tengono a confidare a qualcuno le proprie
passioni, come per ingigantirle. Da una certa età in su questo
cambia, soprattutto per il maschio.
La figura femminile, che ne ravviva l’immagine, può divenire
fonte di invidia e di scherno da parte di chi consuma il tempo
a spiarsi allo specchio e sta ingobbito col braccio alzato sopra
la testa, a ripararsi dai fulmini del decadimento che paventa in
ogni istante. Questi non accetterà che esista qualcuno in grado
di sottrarsi alla regola: e la compagnia della donna è il segno inconfondibile di una tale insopportabile eccezione.
Tutto ciò che viene fatto diversamente dagli altri va nascosto. Se
la natura distratta ti ha lasciato la vista o l’udito quasi intatti, la
pelle non si è avvizzita, il fisico ha conservato elasticità, lo devi
nascondere, te ne devi scusare: almeno con quelli che, per età,
dovrebbero esserti biocolleghi.
Il Giornalista lasciò queste idee malmostose giù nel gorgo e
risalì: passando ad altro, con la facilità con cui si gira una maniglia e si entra in una stanza. Aveva promesso all’Editore di
approfondire il discorso sugli oleodotti e sulle ventitré sottolineature in verde su altrettante pagine del Vangelo e della Bibbia.
Disponeva di molti appunti che sarebbero dovuti bastare per
le opportune verifiche delle ipotesi già formulate. Poi, o meglio al tempo stesso, siccome era rimasto indietro e ora tutto
si faceva urgente, c’erano le cause e le denunce in corso. Da
aggiungere, la pubblicazione del libro I Tre Poli, che riguardava
il maxi progetto dell’Architetta (e della macchina che retrostava
al Cantiere), la cui stesura era finita: doveva essere completato il controllo dei numerosi dati e delle didascalie alle tavole,
concludendo con la rilettura del testo che avrebbe comportato inevitabili correzioni, soppressioni e aggiunte. L’argomento
era delicatissimo. Al piano economico sarebbe spettato il primo
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posto, ma il Giornalista non era mai stato un buon ragioniere
e lo metteva regolarmente “in calce” a tutti quei programmi su
cui ogni tanto si accaniva con determinazione. Le cose troppo
pratiche non erano per lui.
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XXIV
Facce da Casco
Per l’Agosto 2010 l’aveva passata liscia. Non era stato bersagliato, more solito, con un procedimento giudiziario di urgenza,
approfittando del periodo in cui anche gli avvocati andavano al
mare, tranne quelli che, al soldo di uno dei tanti suoi avversatori, erano interessati a colpirlo. Difatti, certi tipi di procedimenti
non beneficiavano dell’interruzione dei termini dovuta alle ferie
giudiziarie e bisognava opporvisi entro cinque giorni. Il guaio è
sempre lo stesso. In sede civile occorre un legale che firmi l’atto.
In quei casi il Giornalista si rammaricava di non aver preso uno
straccio di laurea in Giurisprudenza, ma immediatamente, pensando che la conseguenza di ciò sarebbe stata l’appartenere a
un ordine e navigare in tanta colleganza (di avvocati in vacanza
durante le ferie giudiziarie che durano fino al quindici Settembre
ma che non valgono per certi procedimenti utili a loro per sorprendere gli sprovveduti), concluse che preferiva sputare sangue
e dignità correndo per spiagge, laghi e montagne a elemosinare
il sigillo della scienza giuridica.
Una volta, un quattordici di Agosto, gli avevano notificato un
decreto penale di condanna (imputato del reato più onorevole
per un pubblicista: la diffamazione) a cui ci si può opporre entro
dieci giorni. Opposizione impegnativa, sotto il profilo formale,
per lui che allora non sapeva cosa fosse un tale provvedimento.
Però, fatto meraviglioso, in sede penale il cittadino può fare a
meno dell’avvocato. Prese il codice di procedura e si studiò quale
forma avrebbe dovuto prendere l’opposizione, che riuscì a presentare entro i termini richiesti.
Terminate le ferie giudiziarie, i tribunali ri-ospitavano frotte di
toghe calzate Hogan e clienti convocati “alle nove e seguenti”,
in attesa a mezzogiorno che fosse chiamata la loro causa. Testimoni stremati chiedevano sbadiglianti di poter uscire a prendere
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un sandwich e un caffè, ma venivano dissuasi con secchi “da un
momento all’altro tocca a noi”.
Anche il Giornalista aspettava, seduto in un corridoio. Stava leggendo qualcosa, prendendo appunti, quando lo chiamò al telefono l’Editore che gli chiedeva di incontrarsi appena possibile.
Si videro nel pomeriggio, nell’ufficio della casa editrice. Gli venne ad aprire la Segretaria, la cui abbronzatura greca ormai un po’
sbiancata le conferiva un lampo aggiuntivo di vitalità, sottolineato da un ninnolo esotico su un abbigliamento che ancora non
cedeva alla divisa paesana di tutti i giorni.
Qualunque maschio avrebbe considerato, seguendola come fece
il Giornalista verso la stanza dell’Editore, il dondolare armonico
dei suoi fianchi in movimento. Ma lui era distratto nelle sue crescenti preoccupazioni. Era altrove.
« Delle vacanze abbiamo parlato per telefono - disse l’Editore e dovremmo esserci ricaricati. Ora tocca riprendere da dove si
è lasciato - poi abbassò la voce - Usciamo, non voglio che mia
figlia intuisca che c’è per aria qualcosa di complicato. Ha delle
antenne che non immagini. Se lo avvertisse, lo riferirebbe subito
a sua madre e sarebbe peggio che avere addosso due detective.
Non voglio che abbiano preoccupazioni ».
Si sedettero a un tavolo fuori del bar non lontano dall’ufficio e
sul viale videro transitare il sindaco col suo scooter.
« Dovrebbe girare sempre col casco, così può nascondere la faccia da culo… - disse l’Editore - Si è fatto arruolare dai massoni
di quinta categoria… »
« È arruolato da tutti lui, da sempre; ora è più che mai un burattino in mano all’Erbivendolo - rispose il Giornalista, accendendo
una sigaretta - Non ti dà mica noia se fumo? Tanto siamo all’aperto… »
« Sparliamo del sindaco? »
« Se uno porta la sua faccia in Comune se ne può parlare quanto
si vuole e a voce alta »
« Ma si può finire in Tribunale come te »
« È vero, però se ne può uscire con una sentenza che stigmatizza
la deretanalità di quella faccia, come poi è effettivamente stato… »
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« Certo, ti sei preso una soddisfazione che vale una vita. Se pensi
che noi tutti, più o meno, campiamo sottostando a certe facciacce senza quasi fiatare o addirittura inchinandoci a loro »
« Ora vuoi passare ai grandi manovratori, immagino »
« Sì, vorrei parlare della mia situazione con il Palazzinaro: non
mi ha più cercato. Ho scorso per l’ennesima volta il contenuto
dei CD e non so che pensare. E, soprattutto, non so come devo
comportarmi »
« Dopo che ci siamo incontrati diverse volte per dedicarci a quel
materiale, ho riflettuto sugli appunti che ho preso. Si tratta, senza
dubbio, della rete mondiale di oleodotti e gasdotti, già esistenti e
da costruire. Si distinguono con le linee continue e tratteggiate.
L’ultimo CD è un libro di conti, come si era intuito a prima vista:
un’amministrazione dei compensi ricevuti per le consulenze e i
progetti eseguiti dal Cantiere; pagamenti di dipendenti in varie
divise secondo i paesi e qui si apre un capitolo diverso; somme
ingenti che recano delle sigle di cui non si trova riscontro da
nessuna parte, e questo sembra il capitolo più misterioso. Il giro
di soldi è davvero strabiliante »
« Il Palazzinaro avrebbe quindi trasformato il Cantiere in una
ditta di consulenza e progettazione? »
« Sì, su per giù. Il lavoro di consulenza, che appare reale, secondo me funziona da specchietto per... »
« E le sottolineature in verde che significano? Ogni parola rimanda a un file »
« Infatti, tuo fratello ha lasciato un’apparente sciarada, che in
realtà si risolve in un messaggio molto semplice. Si è limitato a
frazionare al massimo le informazioni.
Nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai in una selva oscura/che
la dritta via era smarrita: ci dice soltanto che a trentacinque anni,
come aveva quando è entrato nell’organizzazione, capì di essersi
trovato in mezzo a un mare di problemi che doveva ancora capire, ma si rendeva conto che stava abbandonando la strada retta
per qualcosa di equivoco. Dopo averci informato del suo stato
d’animo, ci indica dove sono i dati con cui lavorare: avete il novo e
il vecchio testamento, e così abbiamo trovato i due libri-contenitori.
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Infine ci sono le venticinque sottolineature, corrispondenti a parole che costituiscono le password per i venticinque dischetti.
Grosso modo, ciò che dovevamo decifrare è tutto qui »
« Mi convince, anch’io lo penso... ma poi? A che servivano i dati
e cosa c’era... cosa c’è dietro questa immensa amministrazione? »
« Secondo me tuo fratello li amministrava e basta, questi dati:
formalmente, infischiandosene se il dare e l’avere si riferissero
a Caio o a Tizio che abitavano in Indonesia o a Canicattì. È
ovvio che sapesse di quale giro si trattasse e quanto riservata
fosse quell’amministrazione, ma ovviamente ne esiste un’altra
ufficiale, che non teneva lui. E questo per evitare, in caso di guai
che, per confronto, fosse provata la sua malafede. Lui avrebbe
recitato la parte dell’ignaro contabile »
« Quindi, mio fratello faceva il depositario di tutto il materiale
esistente e svolgeva la sua attività da commercialista né più né
meno di quella che svolgeva per una ditta qualsiasi, può essere.
Ma il corso di russo e i viaggi? »
« Fino a che punto fosse… che parte e che quota avesse nella
grande partita non siamo in grado di stabilirlo. Potremmo fare
altre ipotesi, ma ci serve? »
« Non lo so, e... »
« Per esempio, sarebbe ragionevole supporre che il libro dei conti, la partita doppia, passasse al Giardiniere, che sappiamo essere
un mostro dell’informatica, e alla signora che, a detta del Palazzinaro, è un mago dell’economia. La macchina elaboratrice potrebbe essere situabile nel giardino del Cantiere: lassù, nell’ambiente di cui il Palazzinaro ti ha descritto la riservatezza a prova
di ogni intrusione »
« Dunque, condividendo che non abbiamo interesse a superare il
livello di ragionevoli supposizioni appena messe sul tavolo, torniamo alla domanda cardine, che ho fatto all’inizio: come devo
comportarmi? »
« Tre scelte: fingi di non avere rinvenuto niente; prendi l’intero
malloppo e lo consegni al Palazzinaro; consegni tutto alla Polizia
Giudiziaria o meglio alla Magistratura »
« Hai toccato la ferita. È da allora, dal giorno dell’avvelenamen153
to, che mi ossessionano tante domande. Perché la tua ipotesi di
rivolgersi agli uomini della Legge? Colleghi questa amministrazione alla loro morte? »
« Tu hai ripetuto e insisti sul fatto che tuo fratello e tua cognata
non potevano non riconoscere il fungo velenoso: si sono suicidati? »
« Lo escludo categoricamente, ne sono certo sia per l’uno che
per l’altra »
« Esclusa la scelta di una volontaria soppressione, resta l’omicidio. Riesci a individuare, nella vita di tuo fratello, una situazione
lavorativa o altro in cui sia possibile rintracciare l’insorgere di un
movente? »
« No, l’unico ambiente misterioso in cui ho scoperto che operasse mio fratello è il Cantiere. E nell’ambiente dove girano montagne di soldi può succedere di tutto. D’altronde ci siamo trovati
di fronte a un mondo che non riusciamo a definire e abbracciare,
ma non si è rilevato alcunché di criminoso »
« Sono convinto che, avendo i mezzi della polizia per lavorarci a
tempo pieno, il bandolo si trova. Ce n’è per tutti, dalla Finanza
all’Interpol. Ma scherzi? Un’organizzazione del genere non è di
tipo meramente commerciale. Sai, ho pensato di metterci a studiare la cosa, ma... »
« Ti pareva. So che si corrono questi pericoli a provocare la tua
curiosità. Non è pensabile: bisognerebbe lavorarci a tempo pieno, come hai detto, viaggiare, eseguire verifiche in loco, servirebbe un budget lontano dalle mie possibilità. Inoltre, a noi non è
consentito accedere a certe informazioni, documenti... ci fermerebbero subito »
« O ci eliminerebbero, che è più semplice »
« Già. Ci penserò e ne riparleremo ».
Tornarono in ufficio.
« Per riposarci - disse l’Editore - parliamo di politica: che ne pensi dell’attuale governo? »
« L’ultima volta siamo andati avanti per tre ore sull’argomento.
Hai ancora intenzione di convincermi? Senti piuttosto, se hai voglia di camminare domattina andiamo a raccogliere l’aglio ursino
154
su in montagna, tra i faggi »
« Ci saranno anche i funghi, ha piovuto »
« Dove vado, oltre i mille metri, non li ho visti, ma devo dire che
non li conosco e non ci guardo. Allora, vuoi venire o no? »
« Non ti farebbe male » gli disse la figlia che, quando la porta era
aperta, stava con loro ascoltando e registrando in silenzio senza
perdere un battito di ciglia.
« Vacci tu, se hai voglia di fare una scarpinata di quel genere »
« Io sì… » profferì lei quasi con un soffio.
« Domani ci aspetta una giornata campale, va battuta la relazione
allegando i documenti: bisogna spedire tutto per corriere alla
signora in ditta » poi, rivolto al Giornalista:
« Prima del fatto della capanna (così chiamavano in famiglia la
baita) non ho perso una riunione del circolo micologico e studio
sempre i funghi tramite le immagini e le mostre. Vado anche nel
loro habitat, ma con molta calma, arrivando in macchina il più
vicino possibile, e col Suzukino non devo mai camminare molto.
Tu invece traversi i crinali e sali le macchie fino in cima all’Alpe.
Non fa per me »
« Va bene, ho capito: porterò giù l’aglio e lo metterò nei vasi ».
155
XXV
Un Piccolo Museo
Una sera comparvero i colori sul platano, che era diventata la
pianta più conosciuta di tutte quelle esistenti in paese. L’intermittenza delle luci faceva brillare l’aria che stava intorno all’albero, dilatando la chioma già imponente, eliminadone i contorni.
Era l’ultima decade di Novembre, ma i grandi magazzini sollecitavano il portafoglio della gente calandola già nell’atmosfera
natalizia. Non smontavano neanche più, passata la festa, questa macchina variopinta che invadeva il paesaggio, superando in
altezza le case: ogni anno il Natale veniva acceso col semplice
gesto di inserire una spina togliendola dopo la Befana. I commercianti suonavano le loro campane e gli operai del Comune si
preparavano a seguirli, approntando le decorazioni che avrebbero messo la leggenda di Cristo al centro di una fiera delle vacanze. Molti si preparavano a riaprire le scatole dei propri addobbi
e delle statuine del presepio, e insieme si controllavano le attrezzature e gli abiti per la settimana bianca.
Il Giornalista, che per “deformazione professionale” amava il
passato e più degli altri rispettava le tradizioni, era solito accendere l’albero soltanto la sera della Vigilia. Era molto infastidito
dall’aggressione commerciale a un patrimonio così delicato, che
consisteva nel riunire intorno al focolare un popolo senza tempo, mostrando a tutti il volto disteso della tregua.
In quei giorni, doveva essere il primo Dicembre, lo chiamò l’Architetta:
« Domani vengo dalle tue parti a vedere dei terreni e delle vecchie case: mi piacerebbe avere un punto di riferimento nella tua
zona, che è bellissima. Vengo in elicottero e posso atterrare dove
ti rimane comodo, così ci vediamo »
« Domani dovrei andare a... » provò a dire lui per evitare un incontro che non gradiva nei paraggi di casa, ma lei lo interruppe:
156
« Vengo un altro giorno, quando ci sarai e potremo vederci.
Sono io che decido l’appuntamento con chi si occupa del mio
acquisto »
Il Giornalista, capita l’inutilità di un rinvio, rispose:
« Rimando il viaggio, è un impegno che posso spostare senza
problemi. Magari ci vediamo all’aeroporto, quando hai fatto le
tue cose. Ci metto una mezz’ora ad arrivare e ne approfitto per
recarmi in un ufficio in città »
« D’accordo, diciamo che intorno all’ora di pranzo avrò già eseguito la visita. Ti chiamo da là ».
Il Palazzinaro non friggeva con l’acqua: l’elicottero con cui arrivò sua figlia era un AS 355 Écureuil della francese Aérospatiale,
biturbina sei posti, un gingillo altamente professionale che poteva volare in sicurezza con ogni condizione meteorologica, di
giorno e di notte.
Discese con il portamento di una vera amazzone. Si scambiarono un bacio senza troppa effusione; lei salì sulla macchina del
Giornalista che la condusse in una trattoria isolata vicino alla
curva del fiume.
« Ti piace la zuppa di anguille? »
« Sì, è molto che non la mangio, mi ricorda il lago di Lesina… i
tomboli del Gargano »
« Qui è diversa. Non hanno i sedani di mare, ideali per dare al
brodetto l’allegria che è parente della paprika e del peperoncino,
ma penso che la gusterai ugualmente »
A tavola, lei entrò subito in argomento:
« So che sei andato in Comune e hai estratto le copie dei documenti che riguardano il mio progetto. Stai già scrivendo qualcosa
di definitivo? »
« Ho completato la stesura del libro, ora devo affrontare la parte
del lavoro più difficile »
« Pensi di farcela a impedire la realizzazione del mio progetto? »
« Non sono così potente: uno scribacchino illustra, cerca di spiegare e di convincere, denuncia quando occorre, ma non ha i
mezzi per comprare chi decide. Deve augurarsi che i suoi scritti
vengano letti da un funzionario onesto e capace, due attributi
157
che raramente vanno a braccetto »
« Insomma, tu sei deciso a stopparmi »
« Credo di essermi spiegato quando cenammo insieme la prima
volta, la sera di Natale di quasi un anno fa »
« Me la ricordo, rifiutasti il mio invito... di venire a casa mia... ».
Il Giornalista non riusciva a individuare il confine tra l’amazzone e la donna che alle ultime parole aveva dato un tono dolce,
mostrando una fragilità che poco si accompagnava alla figura
manageriale data in pasto alla gente. Si sentì toccato da quell’atteggiamento che gli sembrò spontaneo, quasi sfuggitole contro
la propria volontà. Le prese la mano dicendole di assaggiare il
vino bianco e di rilassarsi. Era un vinello vergine dell’Isola del
Giglio che l’oste recuperava in quantità modesta, servendolo a
pochi clienti.
« Bisogna trasportarlo con grazia, di solito si beve dove nasce.
È un vino senza corpo, in cui si cerca una particolare fragranza
che, per nostra fortuna, questa bottiglia ha mantenuto » disse per
sviare il discorso dal suo libro, di cui aveva parlato fin troppo.
« D’accordo, passiamo ad altri argomenti: oggetti antichi, ne hai
ancora? »
« Ecco cosa vuoi veramente da me. Cerchi un venditore di fiducia » e sorridendo le versò altro vino, proponendo un brindisi “
a tutto”.
« Ce li hai? Me li vuoi vendere o no? »
« Dammi due, tre giorni »
« Ci conto, me li porti... stavolta non ti mando in albergo. Non
mi hai nemmeno domandato se mi è piaciuto il posto che sono
venuta a vedere e se lo acquisto diventando tua conterranea »
« Quando voi parlate di acquisti c’è da tremare, potrebbero essere migliaia di ettari che, dopo le vostre “realizzazioni”, diventano
irriconoscibili »
« Sembra che parli di Gengis Khan. Si tratta di una quarantina
di ettari, un bel podere in pianura con due casali grandi, niente
di particolare e non riguarda mio padre. Vorrei possedere un
rifugio. Te ne parlerò quando verrai, spero, nei prossimi giorni ».
Tornando a casa, il Giornalista perlustrò mentalmente i due ar158
madi metallici che nel tempo avevano contenuto una quantità di
pezzi da museo: lui che non riusciva a odiare nessuno riservava tutto l’orribile sentimento per il risparmio, ma nel caso delle
opere d’arte diventava addirittura avaro, perché gli dispiaceva
privarsene.
Se avesse avuto l’animo del commerciante, avrebbe potuto sentirsi soddisfatto con un cliente come l’Architetta, da cui un antiquario sarebbe andato avanzando per chilometri in ginocchio. E
invece il pensiero di cedere dei pezzi lo rattristava. Si diceva che
lui doveva studiare gli oggetti, stando lontano da quel feticismo
del collezionista che spesso annebbia la conoscenza: però il bel
ragionare gli produceva lo stesso effetto che hanno i discorsi
saggi, fatti dai fumatori accaniti, contro il fumo.
Si fece coraggio e aprì gli armadi. Sapeva bene quel che c’era:
ogni oggetto, che aveva acquistato negli anni, era stato studiato
e schedato; li aveva osservati tutti insieme, ultimamente, quando
aveva ceduto il piatto di Deruta all’Architetta; ora gli toccava di
nuovo scegliere a chi restituire la libertà di sottoporsi alle voglie
del migliore offerente.
Fatti i conti, prese una decisione drastica. Vendere tutto era la
soluzione: poteva pagare diversi debiti, che lo avrebbero alleggerito spiritualmente; stampare il libro I Tre Poli come editore
(non poteva proporlo all’amico perché il contenuto del saggio
toccava la sfera del Palazzinaro, che in quel momento di stallo
era meglio, per lui, non stuzzicare); poteva garantirsi un periodo
di quiete per concludere alcuni progetti rimasti a metà o soltanto
da rileggere e correggere.
Sommando il valore che il Giornalista diede singolarmente agli
oggetti, sarebbe stato equo ricavare centocinquantamila euri.
L’Architetta non avrebbe eccepito anche se ne avesse chiesti
duecento, ma proprio per questo si attestò su centoventimila.
Lei si fidava e doveva pagare di meno.
Era l’11 Dicembre, sabato, festa degli aviatori intorno alla Madonna di Loreto. L’Architetta fissò l’appuntamento per quella
data, forse lo fece apposta, anche se considerava il Giornalista
più aviatore per il modo di comportarsi a terra che per il vizio di
159
capriolarsi in cielo.
Un fine settimana particolare, di sesso striato d’amore, di sensazioni confuse e confessioni impacciate. L’Architetta era stanca,
aveva realmente bisogno di un rifugio dal mondo che l’aveva
cresciuta. Da una madre che non l’aveva cullata e che poi era
scomparsa senza lasciare né traccia né ricordi.
« Credi che io non capisca che hai ragione? Non sono Wright,
ma ho studiato con interesse Architettura: mi piacerebbe progettare volumi e costruire equilibri, ma con mio padre non è possibile. Sì, hai ragione, siamo palazzinari. Benché da tanto tempo
viva in un’altra dimensione, non c’è una carta che lui non voglia
vedere, e non gli puoi sottoporre il progetto di una villa: ti guarderebbe con compassione. Nonostante la morte di mio fratello e
il volere che io rallentassi e studiassi, in casa nostra non si riesce
a pensare in piccolo, a dimensione d’uomo: si deve trasformare una periferia, valorizzare un’azienda agricola, ottenendo una
variante del piano regolatore, trasformandola in una banlieue. Si
deve investire cento e ricavare diecimila... si deve speculare... e
corrompere... è un vizio o una filosofia di vita... come per te è il
gioco »
«Allora è inutile che scriva I Tre Poli, eri impaziente di conoscere
il titolo: eccolo. Se la pensi così, rinuncerai al progetto? »
« Ho depositato le carte e preso i dovuti impegni... »
« Pensi che non lo sappia? Tu procederai nel tuo programma e io
nel mio... la celeberrima, famosa dialettica degli opposti »
« Che m’hai portato? »
« Te l’ho detto per telefono: un piccolo museo »
« Mi piacerebbe acquistare quella proprietà che ho visto, ristrutturare le case restaurandole, e sistemarci questi oggetti e altri che
potremmo trovare »
« Hai già tanti pezzi... »
« Non è roba mia, sono acquisti fatti da mio padre, con spirito di
rappresentanza. Vorrei costruire un posto da zero e con te forse
potrei cominciare a fare l’architetto ».
Di nuovo domenica e di nuovo il Giornalista sulla veranda, accanto alla pianta spilungona di cui non chiese mai il nome. Le
160
marmellate inglesi, l’Architetta in vestaglia rossa con il serpente
piumato dei Maya o il drago cinese che, stando molto vicini,
erano indistinguibili (ammesso che in quei momenti a loro importasse). Dopo il secondo o terzo caffè e una bella dose di sigarette, il Giornalista aprì la sua valigia e le illustrò i cinque oggetti
che le aveva portato, consegnandole l’elenco:
1 – Placca in rame smaltato con il Crocefisso incorniciato dai
quattro Evangelisti, cm.12 x 10. Limoges, sec. XII – XIII;
2 – Piatto/tondino in maiolica, con la tesa decorata a trofei: su
di un cartiglio compare la scritta “Valeria B.” e su di un altro “ 7
de giunio ... 12”. Al centro, sul cavetto, il cuore bitrafitto. D.cm.
26, Casteldurante inizio sec. XVI;
3 – Coppa in maiolica della serie “le mie donne” di Giò Ponti
in blu e oro zecchino graffito. D. cm.19, Manifattura di Doccia
1928;
4 – Scultura di tipo “criselefantino” in bronzo dorato e avorio,
che raffigura una donna in piedi in un passo di danza. H. cm.42.
Sulla base in marmo rosa compare la firma “DH. chiparus…
Paris”, 1930 circa;
5 – Calamaio in maiolica con quattro sculture che rappresentano
il Giudizio di Paride, H. cm. 21. Urbino, bottega dei Patanazzi,
1580 ca.
L’Architetta entrò nel solito studiolo e ne uscì con la solita busta,
stavolta di contenuto doppio. Gliela diede.
« Ti fidi così tanto di me? Potrei essermi sbagliato nello scegliere
gli oggetti e averli pagati troppo » le disse.
« Li conosco i miei polli. Non sei un commerciante e se sbagliassi lo faresti in buona fede. Un errore ai limiti della conoscenza
vale molto di più di un certificato di garanzia »
« Ma chi ti dice che io sia così bravo? »
« Negli anni li ho visti in fila i grandi mercanti e mercanti/studiosi che aspettavano mio padre. Ho sbirciato montagne di
expertise di questo e di quell’illustre Professore. Da quanto so
tu non ne hai mai fatti, e non sei di certo l’ultimo arrivato. Mi
basta questo.
Vieni con me a Mosca domani? Se si escludono i piloti e i due
161
steward, sono l’unica persona a bordo del Foker con cinquanta
posti »
« Perché prendi quello? »
« Dipende da mio padre, che segue ogni mio spostamento. Ci
sono tre aerei fermi per le verifiche calendariali, dieci Falcon
sono in giro per i signori politici e relative signore in tutto il pianeta. Volevo prendere il Lear a otto posti, a me piace, ma lui dice
che con il clima attuale è più sicuro volare a Mosca con il Foker,
che tra l’altro è nuovo... vieni con me, ci fermiamo due giorni,
devo soltanto far presenza a una cerimonia religiosa: non più di
due tre ore e sono libera »
« Mi dicesti che non volevi far sapere a tuo padre di una relazione stabile... »
« Ti ho già presentato a lui come il mio indispensabile consulente per gli acquisti di opere d’arte... sei uno scassaballe, ma ti
rispetta... »
« Vedo che il piatto con le stimmate di San Francesco è qui; avevo capito che la storia del regalo era una scusa: glielo hai fatto
vedere? »
« Gli è piaciuto… Andiamo a cenare con la Vodka? » insistette
lei.
« Devo rientrare »
« Mi pianti un’altra volta ».
162
XXVI
Slanda
In paese, i discorsi sul terremoto erano di casa, dato che la terra
tremava spesso. Sotto la loggia del palazzo comunale, dove si
affacciava un sopravvissuto Monte dei Pegni oggi denominato
Banca, un gruppo di persone discuteva sulla scossa che in nottata avevano avvertito in molti. Era ondulatorio, no sussultorio,
anzi prima un colpo secco sotto il culo e poi un dringolone a
stacciare: il lampadario oscillava ancora quando ho acceso la luce
in sala, diceva un tipo corpulento con la faccia rubizza, non si
capiva se colorata dall’abitudine al fiasco o dalla fifa. Il terremoto dimostra la vitalità della terra, guai se non ci fosse, buttava
là un tizio secco e allampanato con gli occhiali spessi da astigmatico, ostentando un’invidiabile saggezza. Sarebbe meglio se
fosse meno vitale la terra, suggeriva un giovane ridanciano che
passava vicino al gruppetto.
Il Giornalista s’era alzato da poco, il campanile suonava la mezza
e le chiacchiere sismiche, che gli giunsero passando di striscio, gli
fecero pensare ai suoi esperimenti da novello Leonardo in otto...
sedici... 64ttresimo. Quanti anni erano passati da quando si era
messo a costruire modellini per simulare le scosse del terremoto? Troppi, pensò. Da bambino aveva dormito in tenda tre mesi
a causa di una sventola di... ora non ricordava se l’ottavo grado
era Mercalli o Richter. Probabilmente Mercalli, poiché la magnitudo otto, espressa coi gradi del geofisico americano, spiana.
« Giornalista, da quant’è che non ti vedevo… » gli disse, avvicinandosi a mano tesa, un uomo alto e magro con una folta capigliatura bianchissima. Portava un cappotto doppio petto color
cammello, su cui risaltava una camicia di peloncino a quadretti
rossi. Una lunga sciarpa di lana fatta ai ferri, rossa, scendeva ai
lati della camicia.
« Slanda, sono contento di vederti, penso spesso ai tuoi orologi
163
e mi mancano le tue meridiane: le progetti e le costruisci ancora?
Uno di questi giorni che sono a casa ci incontriamo e mi illustri
il funzionamento dell’ultima »
« Sai che non mi piace parlare con nessuno delle mie cose. È
diverso con te. Ma senti quel che è accaduto ieri sera: ero a leggere i giornali al Caffè, quando è giunta la crema del paese per
l’aperitivo. A un certo punto, un noto imprenditore, a cui stavano tutti mielosamente intorno, s’è messo a parlare di arte. Non
ho potuto evitare di sorprendermi e ho istintivamente rizzato le
orecchie. Il tipo ha detto che la sua ditta sponsorizza una grande
mostra di pittura moderna e si è messo a fare i nomi degli artisti. Quando ho sentito il nome di Schöenberg è stato più forte
di me dire, senza alzare la testa dal giornale (ma lo devo aver
quasi urlato) “Schöenberg non è un pittore, ma un musicista.
È quello che ha inventato la musica dodecafonica. Vorrai dire
Rauschenberg, il precursore della pop art”. Allora, il tipo si è
corretto prontamente, dicendo “Sì, scusate, è stato un lapus... so
bene che Emberg è quello della musica cafonica...” »
« Giusto la musica dei cafoni va bene per lui. Scommetto che
queste cazzate le ha dette l’Erbivendolo. C’era anche il Cementicolo? Sai di chi parlo? »
« Così mi offendi. Ho seguito tutte le tue battaglie e letto i tuoi
Numeri Rari, te l’ho raccontata apposta la storiella. Piuttosto,
come fai, essendo in viaggio di continuo e occupandoti di tante
cose che accadono fuori, a tenere sotto controllo quel che succede in paese? »
« A parte il fatto che in certe vicende ci sono dentro fino al collo,
quasi ai capelli, questo è il mio paese »
« Che bischero che sono… Hai affrontato anche un grosso processo per dirgliele sul muso... »
« Slanda, ci lasciamo con la promessa di vederci presto. Vado, mi
chiude il giornalaio ».
Etimologia popolare del soprannome. Il babbo di Slanda aveva
lavorato come minatore in Belgio negli anni Venti, e al ritorno
raccontava di aver girato molto, giungendo fino ad Amsterdam,
in “Oslanda”. Nessuno ha mai saputo se l’avesse detto con con164
vinzione o se quel nome gli fosse scappato per errore, magari
una sola volta. Ma i cosiddetti amici non persero l’occasione e
da allora lo chiamarono Oslanda, poi contratto in Slanda, appellativo che il figlio ereditò.
Lo Slanda giovane, a differenza del padre, era un lettore onnivoro e un uomo da definire coltivato sul serio poiché ai libri, che
sapeva prendere con le molle, alternava lavori di ogni genere
usando mani che erano sempre quelle della domenica. E con
quelle mani, controvoglia e lavorando al minimo necessario, ci
arrotondava una striminzita pensioncina sociale.
La vita dell’uomo delle meridiane, classe 1917, che ora marciava intrepido verso i centanni, era un romanzo. Giovanissimo
arruolato nella milizia portuale, a Genova nel ‘37 aveva volato
sull’idrovolante con la marchesa Carina Negrone, che gli aveva
regalato un caschetto di cuoio da aviatore. Nella guerra mondiale fece parte dei servizi segreti. Evaso da una prigione nei
Balcani, entrò nella divisione Garibaldi, ma dopo la guerra non
aveva voluto raccogliere, come fecero in tanti, i vantaggi che si
presero i vincitori. Repubblicano perché era nato sotto un re,
aveva trascorso la vita da individuo sdegnoso di ogni congrega.
Dal giornalaio, mentre ancora pensava a Slanda, il Giornalista
incrociò l’Editore.
« Uccel di bosco, da che parte del mondo torni? »
« Giretti qui intorno, niente di particolare »
« Capiti da noi a cena? Mia moglie vuol sapere dell’aglio ursino,
si sono messe al computer, lei e mia figlia, e hanno trovato notizie e ricette. Ma poi, l’hai preso questo aglio? »
« Sì, ne ho messo un po’ sotto alcool, come faccio con l’aglio
cinese »
« Tu dimmi dove lo trovi il tempo per fare tutte queste cose. Allora quando dico che vieni da noi? Anche l’aglio cinese... »
« Dopo Natale, che è sabato, ossia fra tre giorni. Verrò la prossima settimana »
« A proposito, mia figlia ha battuto le pagine che le hai lasciato
e ha detto che se hai bisogno puoi dargliene altre. Ci ha lavorato
anche a casa e ho visto che ne parlava con la mamma ».
165
La sera stessa gli giunse un’e-mail con una trentina di pagine
corrette de I Tre Poli. La Segretaria era stata un fenomeno a decifrare le nevrotiche correzioni che il Giornalista aveva apportato
al testo, battuto e stampato come sempre dall’amica Geometra.
Aveva parlato pochi giorni prima con l’Editore del lavoro che
stava portando avanti e della sua inettitudine con la tastiera, aggiungendo che era a carico della Geometra per ogni scritto. La
Segretaria, che non perdeva una parola del Giornalista, il giorno
dopo aveva dato al babbo la sua disponibilità a fare quel lavoro
e l’Editore l’aveva riferito all’amico.
Ora, il Giornalista stava leggendo le pagine al computer, confrontandole con le originali di cui la Segretaria aveva fatto le
fotocopie. Era un vero cimitero ciò che aveva affidato, senza
un minimo di vergogna, a quella disgraziata: con la presunzione
inconfessata, o forse neanche avvertita, che il lavoro degli altri
gli fosse dovuto.
Era rimasto orfano del babbo a diciotto mesi. Figlio unico fino a
nove anni, quando la madre si era risposata dandogli una sorella;
era cresciuto attorniato da donne che avevano coltivato in lui
un qualche sentimento padronale del mondo circostante. Fuori
dalle mura del Palazzo, dove era nato e cresciuto, si era ritrovato
leader in ogni situazione: questo non aveva ridimensionato certe
tendenze nel modo di socializzare.
Fu sorpreso e meravigliato nel constatare con quanta precisione
la Segretaria fosse riuscita a seguire i rinvii alla pagina successiva o precedente, interrotte in certi casi più volte, costellate di
segni-geroglifici con cui egli indicava il punto in cui si doveva incastrare una frase, una parola o un’intera nuova pagina, seguendo il suo pensiero tradotto in parole scritte a letto, in macchina
poggiando su quel supporto disponibile in quel dato momento
o in situazioni diverse. Il tutto era complicato dal fatto che la
Segretaria non aveva mai visto, prima d’allora, la sua calligrafia.
Tuttavia non trovò un solo errore nelle trenta pagine consegnate, che erano divenute trentasei. Rimase strabiliato.
Approfittò delle Feste per far presente all’Editore quanto avesse
recepito l’interessamento di cui era oggetto. La sera della Vigilia
166
si fece Re Mago, mandando a casa loro una capiente cesta di
vimini. Sapeva che sarebbero stati riuniti i parenti, con le tre
donne giunte dalla città e la Zia con il compagno e la figlia, di cui
i genitori della Segretaria favorivano, in crescendo, la frequentazione: mirata all’aggancio di un buon partito, sostitutivo del non
soddisfacente fidanzato locale.
Il Giornalista aveva sparpagliato nel contenitore regalini che servissero, almeno approssimativamente, per tutti. Evitò di recarsi
di persona, sia per quel suo carattere poco propenso ai convenevoli e alle nuove conoscenze non essenziali, sia perché non
voleva rischiare di non potersi sottrarre a un cena di carattere
così ristretto come quella della Vigilia.
La cesta conteneva, di base, olio di podere estratto artigianalmente, due bottiglie di Re Fosco 1999, un pecorino secco delle
gole di Antrodoco e un guanciale stagionato (come dire “è pronta l’amatriciana, la vera gricia”, non quella tradita con il pomodoro che si deve chiamare matriciana e che si trasformò scendendo dai monti sulle piane romane: il Giornalista lo accennava in
un bigliettino), un vaso di salsicce e uno di sambudelli sott’olio,
un salame e un capocollo. Un vasetto particolare era riservato all’aglio ursino sotto alcool. Incastrati e nascosti c’erano dei
piccoli doni: cinque agendine con penna, sei foulard di Hermes
Vintage, un finto libro di brandy spagnolo stravecchio (evidente
sottinteso per l’Editore), un’efficiente levapunti per l’ufficio in
sostituzione di quello che c’era, poco funzionante. Una tovaglia
natalizia a grandi petali rossi, tessuta a mano, fungeva da coperchio.
Aprirono la cesta il giorno di Natale e la Psicologa telefonò subito al Giornalista:
« A un uomo che sa organizzare certi regali le donne non possono resistere. Auguri. Hai deciso quando ci concederai la tua
presenza? Mercoledì o giovedì? »
« Non ho impegni, decidi tu »
« Allora giovedì. Ah, come vanno quelle correzioni? »
« Perfette, grazie »
« Mia figlia ha detto di portarle, se vuoi, tutto il materiale che
167
devi correggere o scrivere »
« Grazie, saluta tutti ».
Il tempo di tornare in poltrona a rincorrere gli anelli di fumo
(esercizio che lo aiutava a pensare) che si riaccese il telefono, era
l’Ereditiera:
« Disturbo? Se non hai cambiato abitudini, dovresti essere solo a
casa per questa ricorrenza »
« Esatto. Come stai? »
« Sono a Vardo con i miei. Sembra che la riconciliazione resista.
Se fossi qui, avrei tutto »
« Hai già moltissimo, il più importante... »
« Ti andrebbe se ci vedessimo? Che ne dici del fine anno quassù?
Oppure vengo io... »
« A Venezia » rispose. Negli anelli di fumo aveva visto un progettino di ritorno al passato che era indeciso se attuare, e la telefonata giungeva precisa a dare all’incertezza l’avallo cabalistico di
un lancio della monetina.
« A Venezia... Non ci vediamo mai, però i nostri rarissimi incontri, come tu dici, sono favolosi. Venezia... e quanto tempo
mi concede il mio signore? Devo partire con la borsetta o con
la valigia? »
« Dal trenta dell’anno vecchio al cinque dell’anno nuovo. Noi
procediamo a favole concentrate: il primo Gennaio si fa volare
l’anno nuovo, il tre si festeggia la mia inarrestabile vecchiaia, il
cinque ci separiamo perché non sei ancora adatta per la parte
della Befana »
« Appuntamento da subito, dove e a che ora? »
« A piazza San Marco... non è stagione da campanili; tu arriverai
da Tessera in taxi e io metterò la macchina al garage di Piazzale
Roma... a Piazzale Roma alle cinque del pomeriggio... ho un’idea »
« Il trenta a Piazzale Roma alle cinque della sera, l’ora del poeta ».
Prima che lei telefonasse, lui stava scorrendo la lista dei debiti da
pagare, delle spese più urgenti ed era giunto alla conclusione che
gli sarebbero occorsi almeno i duecentomila calcolati come valore dei pezzi ceduti all’Architetta. Ma, bando alle ciance, aveva
168
deciso per centoventimila e quelli erano. Siccome non bastavano
a garantirgli un breve futuro spensierato, tanto valeva tentare un
incremento del gruzzolo, investendone una parte.
Sua tipica idea imprenditoriale: il Casinò.
La telefonata dell’Ereditiera era l’avallo del destino, non aveva
più dubbi. Capitale destinato per la partita cinquantamila. Ora
s’erano aggiunti i sette giorni con lei e, mentre parlavano al telefono, gli s’era aperta la finestra su un altro ritorno: Torcello,
la Locanda di Cipriani, a far piano diecimila. Donna adatta nel
posto ideale. Al diavolo la maledetta riflessione, tanto si muore e
lui di rimpianti non ne avrebbe avuti sicuro.
Il libro sui Tre Poli andava stampato e distribuito, e per portarlo
alla pubblicazione occorrevano minimo quattro mesi. Riducendo le spese drasticamente (bastava non viaggiare, tanto doveva scrivere) dai quindicimila mensili poteva scendere a tremila.
Tirando le somme, dodicimila per campare e dodicimila per la
stampa, brossura semplice e zero colore, calcolò ventiquattromila. Cinquanta per la partita e dieci per Torcello, ottanta... e più.
Ne restavano quaranta, un po’ meno, da lasciare a casa. Basta coi
conti precisi, si disse, ne era stufo.
La cosa più urgente e difficoltosa in quei pochi giorni era rimediare un posticino confortevole a Torcello. Una suite junior
sarebbe andata a meraviglia, ma ... pensò di chiamare il grande
pentolaio magico, Eugenio Medagliani, e/o il suo siamese re dei
fornelli Gualtiero Marchesi. Aveva rapporti amichevoli con entrambi, mentre non conosceva Cipriani che, con i due appena
citati, era intimo.
Si ottiene tutto a questo mondo con una raccomandazione, e
questo era l’unico tipo di favore che il Giornalista si sentiva di
chiedere. Ottenne la suite junior, come desiderava.
Si accorse che l’appuntamento con l’Ereditiera per il trenta si
accavallava con la cena in casa dell’Editore. Tra l’altro, aveva
preso l’impegno con la Psicologa, che non faceva mai niente in
prima persona, delegando chiunque avesse a tiro. In ogni caso,
trovò naturale telefonare all’Editore, chiedendo di anticipare a
mercoledì.
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Del parentado erano rimaste in paese la Cugina e la Cuginetta.
La minore era ormai di casa e l’altra comunque veniva appena era possibile, specialmente in assenza dell’Editore che non la
sopportava.
« Vedo che andiamo lontano per fine anno… torni su al Polo
Nord? » si rivolse la Psicologa al Giornalista, dandogli giusto il
tempo di accomodarsi.
« Andrà dove vuole » intervenne il marito.
« Lei va veramente al Polo Nord? » domandò la Cugina
« Non la stia a sentire. Ho un appuntamento di lavoro domani,
non lontano da qui e dopo, tanto sono in viaggio, raggiungo
degli amici in montagna »
« L’anno scorso andò sul serio al Circolo Polare Artico, quest’anno non ce lo vuol dire, ma una donna che l’aspetta c’è di sicuro
da qualche parte »
riprese la padrona di casa.
« Avrà la sua donna, non farà il giro del mondo, anche lui non è
più un ragazzino» aggiunse la Cugina.
« Brava, glielo dica » buttò là il Giornalista.
« Si vede che non lo conosci » sbottò in malo modo l’Editore,
mentre la Segretaria e la madre si alzarono in sincronia, andando
a prendere le vivande in cucina.
« Sai - riprese la Psicologa, che era appena tornata a sedersi - mi
sono permessa di leggere anch’io I Tre Poli, quella trentina di
pagine che ci hai dato e che sembrano costituire alcuni paragrafi
di introduzione »
« Sì, diciamo che si tratta di una carrellata sui problemi che l’esportazione delle attività dei centri storici provoca all’ambiente,
all’urbanistica e al paesaggio »
« Certo che non le mandi a dire. Suggerisci perfino che dietro al
Cantiere ci sia qualcosa di più complesso. Parli di mafie. Credo
che non farai felice la tua amica Architetta »
« La farà felice in un’altra maniera... » scappò detto a denti stretti
all’Editore.
La Segretaria si alzò con mossa repentina e senza sorridere chiese al Giornalista se desiderasse il caffè. Poi si allontanò. Le altre
170
capirono che sarebbe stato opportuno cambiare argomento e
tacquero.
Preso il caffè, il Giornalista e l’Editore uscirono in giardino. Il
primo accese una sigaretta e l’altro parlò:
« Mi ha telefonato la Monaca, la primogenita. Quella malanima
di mia suocera cominciò a mettermi contro proprio lei. Una volta t’ho accennato qualcosa. Mi avrebbe fatto piacere se ci fosse
stata per Natale, al posto di mia nipote, ma mia figlia non vuol
più vedere neanche l’ombra di sua madre. Quel serpente di suocera è riuscita a rovinare figlie e nipoti. Così devo sopportare
l’atmosfera che puoi vedere e sentire in casa mia e non so che
rimedio trovare »
« Ti ha chiamato per gli auguri? » disse, non trovando altre parole.
« Per sentirci. Sa che le voglio bene e che mi manca molto. Che
faresti al mio posto? »
« Purtroppo... mi dispiace che tu ne soffra ».
Era molto freddo, rientrarono e il Giornalista poco dopo si accomiatò.
171
XXVII
Effemeridi a Venezia
Il Giornalista giunse a Venezia all’ora stabilita. Appena arrivato
a Piazzale Roma fece il pieno di benzina, come sempre prima di
una partita. Così che il ritorno fosse garantito.
Era da Giugno che non si vedevano, sei mesi suonati che neanche si sentivano. Ma si avvicinarono in modo familiare, come
quando si è imparato bene un mestiere o un tragitto e il tempo
trascorso non riesce a guastare la spontaneità dei gesti e l’armonia che ne deriva.
Si diressero verso il Canale della Giudecca per noleggiare un motoscafo. I loro piedi, passando dal fondo stabile del marciapiede
a quello ballerino dell’imbarcazione, trasmisero a tutto il corpo
l’incertezza frizzante che si accordava con la brezza, sposandosi
naturalmente con la gioia che li stava prendendo. La laguna sa
sempre come accogliere gli amanti, proiettando su ogni spruzzo
microgrammi e microsecondi di inesplicabile felicità.
Torcello, l’isola. E dentro l’isola il lusso, la lussuria e l’amore,
l’illusione di eternità: quando l’enfasi e la retorica si toccano e si
respirano, ma vengono superate e sconfitte dal turbine del sangue e dello spirito. Quando il sangue è poesia.
Il giorno dopo, a mezzogiorno dell’ultimo giorno dell’anno, un
altro motoscafo. Prima tappa il Lido: il meteo del giorno dopo,
sabato 1 Gennaio 2011, prevedeva qualche foschia con sereno
e sole sul Veneto orientale. Si recarono a San Niccolò, all’Aero
Club a prenotare un velivolo per il volo di battesimo del nuovo
anno, poi ancora mare e motoscafo verso la Giudecca, per superarla e giungere in Canal Grande. Era gaudioso questo passare
fisico e mentale terra mare cielo.
E lui volle aggiungere un tocco strampalato al loro strampalato
momento, portandola in un ristorante giapponese a Venezia: a
giocare con le hashi che, le disse, erano la metafora più calzante
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dei loro incontri. In quel prendere il cibo, addirittura in chicchi,
con due bastoncini, abbarcando stringendo perdendo sollevando ricascando, à la façonne drôle européenne, c’era la stessa voglia di rischio e di scommessa di chi vuole trasformare non solo
l’amore, ma anche il carburante della vita in un gioco.
« ... ma l’amore somiglia a un gioco/è stupendo ma dura poco... è questo
che mi preoccupa » fece lei intonando l’aria di Un’estate fa.
« No, la canzone dice che è l’estate e non l’amore che somiglia
a... »
« Sì, sì, estate/amore come il nostro: cambiamo musica, ho paura »
« Qui siamo al sicuro. Venezia è un test dell’amore: finché non
ci cacciano significa che siamo innamorati. Gli storici, azzeccagarbugli come i loro togati colleghi avvocati, non hanno mica
mai detto che Venezia sorse come serra di uomini e donne in
fase di innamoramento. L’editto fondativo stabiliva che vi potessero risiedere finché fossero stati innamorati: al primo segno di
abitudine… raus: sulla terra ferma nel mucchio dei riproduttori
svogliati e forzati, dei discendenti di quelli che scopavano per
ottenere il premio da Mussolini, oppure che lo fanno per imitazione o per fare footing »
« E noi perché lo facciamo? »
« Per follia pura, rischiando a ogni bacio di riprodurci. Solo questo è amore, senza pillole e paracadute »
« Sarebbe come dire mettiamocela tutta: è il minimo che si possa
fare per creare la vita »
« Ho voglia di un Matusalem - bevo me stesso - andiamo da Florian e vediamo se i camerieri sono cambiati: meno rompicoglioni
e più comprensivi »
« Hai intenzione di baciarmi al tavolo? »
« No, di scoparti sull’ingresso, poi ti stendo sul pavimento e ti
spoglio: faccio linguacce a tutti e grido “gola, gola”... ci stai? »
« Trasfondi più che entusiasmo, mi piace vederti così ebbro di
vita ».
Camminavano sghembi, non abbracciati ma avvinghiati, formavano una V, in una Piazza San Marco che sembrava messa in
173
posa da Francesco Guardi, con capannelli di gente che si preparava al cenone, ai brindisi e ai fuochi d’artificio.
L’ottimismo di certi caffè è proverbiale. Florian teneva una fila
di tavoli all’aperto, rassicurando gli avventori con tre lampade
a gas. Gl’innamorati si chiudono in estate e stanno all’aperto
d’inverno, attratti verso il posto meno frequentato, l’originale e
l’irrazionale. E loro iniziarono i saluti all’anno vecchio all’aperto,
con un brindisi al Rum, e trasgredirono con un bacio.
« Naturalmente conosci Ca’ Vendramin… ci sei mai stata a giocare? » le disse.
« Forse una volta al Blackjack, non ricordo bene… ma non sono
una giocatrice »
« Ora ci facciamo un salto, ti va? »
« Va bene, andiamo. Ma in giacca a vento? »
« A parte il fatto che ormai entra gente anche con le Adidas o
le Camper come abbiamo noi adesso, è solo dopo cena che per
sedersi ai tavoli occorre la cravatta e un vestitino un po’ soirée
per le donne ».
Passeggiarono per le sale, ammirando gli splendori dell’antico
palazzo dogale. Il Giornalista si accorse di non aver mai guardato con attenzione gli ambienti di quel palazzo dove, periodicamente, era entrato da quando aveva raggiunto la maggiore età.
Per lui era sempre stata la casa del gioco.
Si avvicinò al direttore di un tavolo di Chemin de Fer e, prendendolo in disparte, gli quasi sussurrò:
« Vorrei prenotare un posto al tavolo per la partita della Befana »
« Lei, signore, è già stato nostro ospite? »
Il Giornalista sorrise e, cavando di tasca un biglietto da visita
(non li usava in nessun caso, tranne in un’occasione del genere
per la quale se n’era appositamente munito) gli disse:
« Purtroppo, anzi troppe volte, sono stato vostro ospite: ossia
quelle in cui ho perso. È passato molto tempo, ma forse c’è ancora qualcuno che mi conosce »
« Farò del mio meglio; la sera del cinque Gennaio di solito è
molto affollata. Ecco, tenga il biglietto del casinò, le scrivo il mio
nome e nei prossimi giorni può telefonare, così le farò sapere se
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sono riuscito ad accontentarla »
L’Ereditiera lo guardò con fare interrogativo, sorpresa di quel
colloquio inaspettato; lui le disse solo: « Ti spiegherò ».
Era occupato a poter arrivare dappertutto, tipico del suo modo
di essere.
Dunque, avrebbe voluto giungere a Torcello a cena, poi sul Canal Grande per i fuochi e in piazza per il ballo. Poi tornare a
Torcello. Erano le otto e non aveva detto a nessuno delle sue
intenzioni. Stabilì che se volevano godersi le prossime ore a Venezia dovevano restare sul posto, preoccupandosi di avere un
motoscafo per il dopo mezzanotte.
Intanto pensò che al Casinò i motoscafi attraccavano tutta la
notte (se lo disse per esperienza) anche a fine anno; andarono
al bancone del bar per sapere se si poteva cenare. Ricevuta una
risposta positiva, telefonò alla Locanda Cipriani, chiedendo che
fosse messa nel frigorifero del loro nido una rozza Veuve Clicquot, uno champagne di valore scaramantico, legato ai momenti
più vispi della sua vita.
« Pronti…via. Ho organizzato tutto, sei pronta? Fai conto che
tu sia sulla rampa con gli sci ai piedi e che tu stia per lanciarti in
uno slalom »
« Ho seguito, ti ho visto molto impegnato e indaffarato. Ora sei
con me? » e lui la baciò.
« Diamo spettacolo? »
« Non siamo in chiesa. Hai fame? Ancora c’è tempo per la cena»
e, rivolto al barman, ordinò due coppe di champagne.
Al casinò si mangiava sempre in modo dignitoso: era buona perfino la galantina che un tempo veniva servita fino alle cinque
del mattino ai giocatori, benché a quelle ore e con quei pensieri
s’erano già giocati anche il palato.
Altrettanto furono all’altezza della situazione la sera del 31 Dicembre 2010, aggiungendo il tocco galante di una rosa alle signore.
Abbandonarono il loro tavolo un’ora e mezzo prima di mezzanotte. Lasciando il Caffè Florian qualche ora avanti, il super organizzato Giornalista aveva corrotto un cameriere – la casa non
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accettava prenotazioni di sole bottiglie per quella sera – facendo mettere al fresco due bottiglie di Veuve Clicquot. Pensò che
era la prima volta ( si è detto che le prime volte vanno sempre
ricordate) che aspettava l’anno nuovo in piazza. A Vienna era
solito andare tutti gli anni nella bolgia di Piazza Santo Stefano,
ma dopo il brindisi in casa o, come accadde nel 1961, dopo aver
brindato all’Opera per il ballo delle debuttanti, frack obbligatorio (il Giornalista lo aveva noleggiato).
Negli anni Novanta aveva passato un fine anno al Circo (Togni
o Orfei ?) a Firenze, con ballo sulla pista in cui, dopo l’una, erano entrate le tigri a fare l’altalena, volteggiando, al limitare della
gabbia di protezione, sopra la testa degli spettatori: fortuna che
le tigri non avevano ingerito neanche un sorso di champagne.
Usciti dal Casinò, si avviarono nel gondolio che accompagna chi
cammina lungo i canali. Quando vi giunsero, Piazza San Marco
era gremita. Lui andò a prendere lo champagne dal cameriere di
Florian e, con le due bottiglie, si allontanarono dalla piazza, ma
capirono subito che da Rialto arrivava un’orda, sparpagliata per
la Frezzeria, diretta a San Marco. Si vedevano le lucciole come
fosse Luglio in un campo di grano, anziché Dicembre sulla laguna; erano torce elettriche in movimento di gente che le accendeva e spegneva secondo il bisogno.
Cambiarono direzione e, attraversata la Calle dei Fabbri, giunsero al Rio San Zulian.
Finalmente un portichetto, in uno spazio meno illuminato, sembrò offrire un angolo ospitale.
« Avremo come colonna sonora il clamore di San Marco, ma ora
abbiamo il nostro angolino riparato dove brindare... e lo faremo
onorando il rituale... » disse il Giornalista.
Poi allentò il tappo, lo accompagnò seguendo il conto alla rovescia che giungeva dall’altoparlante della piazza, cavò di tasca i
due flûte presi da Florian e... incrociarono i bicchieri... bevvero
e si baciarono. Le infilò il tappo nella tasca interna del giaccone,
sfiorandole i capezzoli sui quali indugiò finché divennero turgidi.
« Tienilo da conto, a casa ci faremo un taglio per metterci un
soldino... porta fortuna... ».
176
Stretti in quel rifugio provvisorio, furono un corpo solo, l’uno di
fronte all’altra. Si accarezzarono, si strinsero fino a soffocarsi, le
bocche e le mani corsero dappertutto sui loro corpi come fossero nudi. Le tolse le mutandine, raccolse la bottiglia che aveva
appoggiato per terra, si scostò quel tanto che permettesse di
allargare la t-shirt che lei aveva sulla pelle e le versò pian piano,
appoggiando la bottiglia sul collo della maglietta, lo champagne
rimasto.
Lei fu percorsa da un brivido - l’aria e lo champagne erano freddi
ma non fu per questo - mentre lui, abbassandosi e correndole
con la bocca lungo il vestito, quasi a morderlo, giunse a bere
dalle sue grandi labbra. La costrinse, fremente, a subire un piacere al cui eccesso lei sembrava volesse sottrarsi, bisbigliando
mormorando guaiolando mugolando, torcendosi a scatti finché,
ai limiti dell’eccitazione, lui si rialzò e si fusero in modo stupefacente. Gridarono il loro orgasmo come fossero l’unica coppia
vivente sul pianeta.
Per la prima volta (*) si confessarono, fino nelle virgole, tutto il
loro amore.
Il resto fu contorno: il ballo sulla piazza gremita in cui tornarono a eccitarsi, l’altra bottiglia che bevvero insieme a una coppia
tedesca di mezza età già fradicia di vino, il ritorno a Torcello in
motoscafo, l’ultimo champagne in camera prima di abbracciarsi
e piombare nel sonno.
Sveglia a mezzogiorno, colazione e motoscafo per il Lido. All’Aero Club era pronto l’aeroplano.
Decollo, ampia virata. Prua verso Venezia, salendo a 2500 piedi,
ottocento metri di altezza, per osservare il panorama, poi scendendo a cinquecento un giro sulla laguna, e per il ponte della
libertà fino a Mestre. Seguendo la Romea giunsero a Chioggia.
Seguirono il Litorale di Pellestrina, che prosegue su quello del
Lido. Giunti sulla punta, verticale di San Nicolò, accostarono a
destra, verso ovest, seguendo il Litorale del Cavallino per giungere al Lido di Jesolo, proseguirono fino a Caorle e ancora con
prua invariata arrivarono alla Laguna di Marano. Con una virata
di 180° si misero sulla via del ritorno: erano comparse le Effe177
meridi, le prime stelle della sera, che danno a chi è in volo a vista
una ventina di minuti per atterrare (rispettando le norme).
Passarono sull’Isola di Sant’Andrea e su Lignano Sabbiadoro e,
volando con una prua costante sulla costa, posarono le ruote
sulla pista da cui erano partiti. Il battesimo dell’anno nuovo era
compiuto.
Fecero una lunga passeggiata per il Lido passando davanti al
Grand Hotel e alla dirimpettaia sede estiva del Casinò; la lanterna magica del Giornalista proiettava immagini del passato,
e le immagini divennero più nette rasentando l’Hotel Quattro
Fontane. Ritornarono verso l’acqua per reimbarcarsi.
Finalmente si rannicchiarono nel loro confortevole nido alla locanda di Torcello. Erano trenta ore che scorrazzavano insieme,
mangiando e bevendo nel modo vitalistico di chi è felice. Il Giornalista viveva di stress positivi, ma ora anche lui aveva bisogno
di riposo; soprattutto desideravano concentrarsi su loro stessi,
senza essere il quadro di una qualsiasi cornice. Un consommé
di legumi, carne bollita e purè di patate. Si unirono ancora e si
addormentarono profondamente.
Il secondo giorno dell’anno era domenica. Fu lei per prima a
scendere dal letto e aprire un’imposta, dare un’occhiata fuori annunciandogli che il sole era divenuto un chiarore all’orizzonte.
« È l’alba? » inviò la sua voce il Giornalista, da sotto le lenzuola.
« Sì, se aspettiamo ancora verrà quella del tuo compleanno. Sono
quasi le quattro, ma del pomeriggio »
« È presto, vieni a letto, è tanto tempo che non facciamo l’amore ».
Alle otto lui telefonò perché servissero la cena nella suite junior
di cui erano signori incontrastati. E tirarono dritti, senza uscire
dalla loro alcova, fino al giorno dopo.
Il 3 Gennaio si presentarono, per la prima volta (*), a pranzo nella sala del ristorante. Lei era stupenda. Sì, stupenda: una gnocca
con i controfiocchi, una signora uscita dal pennello di Vermeer.
Lui era il vecchio che era, un insieme che ne dimostrava una sessantina, con l’elasticità di un fisico da quarantenne.
« Se non fossi l’incosciente che sono, mi metteresti veramente
in imbarazzo »
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« Io sono completamente a mio agio e sono orgogliosa di essere
al tuo fianco. Ti dirò: vorrei avere qualche anno in meno, per più
ragioni »
« Dimmene una »
« Per darti un figlio, per esempio »
« È ottimo, questo fegato d’oca. Non scherza il signor Cipriani,
è sicuramente Doyen olandese »
« Perché cambi discorso quando nomino un figlio? »
« Perché dei figli è inutile parlarne prima che la donna sia rimasta
incinta. Se accadrà me lo dirai »
« Ma tu lo desideri? »
« Sì, se lo desidera la mamma. Ti senti mamma? Poi, non accadrà
mica che ti comporterai da mammina? »
« Così mi offendi »
« Non è affatto mia intenzione, ma interrogati sul serio: a parte
la spinta naturale alla riproduzione, perché vuoi un figlio? »
« Intanto, non si può prescindere dalla natura... »
« Touché... »
« Posso dirti anche col cervello perché lo desidero. Voglio un
piccolo come te quando eri piccolo, per conoscerti fin da bambino e farti da madre, crescerti e... - si mise a ridere - Toglierti
per tempo tutti quei brutti difetti che oggi non si possono più
annullare »
« Te ne approfitti perché siamo in pubblico, ma io sono capace
di torcerti il collo anche in mezzo alla gente » e le mise affettuosamente le mani intorno alla gola.
« Gli auguri te li ho fatti al risveglio, ma che facciamo oggi di
particolare? Stasera preferirei cenare nella nostra junior, ti va? »
« Ci sono un paio d’ore di luce, esploriamo Torcello. Dopo si
fa un salto a Venezia e per cena, come vuole Vostra Signoria,
torneremo qui nella nostra isoletta. Domani dobbiamo visitare
la Basilica di Santa Maria e la Chiesa di Santa Fosca, le conosci? »
« Sui libri, mi sono ripassata la lezione quando ci siamo dati appuntamento »
« Anch’io è da molto che non torno in queste chiese. I preti qualcosa di buono l’hanno fatto, sebbene per fini diversi da quello di
179
voler gratificare i nostri occhi ».
A Venezia venne spontaneo il confronto dell’atmosfera di San
Marco la sera di Capodanno con quella del lunedì. I più erano ripartiti e da Florian c’erano stranieri a tutto riposo. Faceva molto
freddo e i due ordinarono una bombarda alla livornese; lui all’ultimo momento cambiò chiedendo un riscaldatore legato alla sua
giovinezza paesana: un ponce al mandarino.
« Ho guardato il calendario del 1938, il 3 Gennaio era lunedì:
oggi è esattamente il tuo compleanno »
« Eppure lo sai che dopo i quaranta non si festeggia più il compleanno… »
« Vale per i comuni normali, non per i matti ».
Tornando in motoscafo, non si arresero a sedere in cabina. Bardati con sciarpe e berrette, formarono un corpo solo e giunsero
indissolubilmente intirizziti.
Aveva chiesto di scegliere lei la cena ed era andata personalmente a ordinarla al maître all’ora di pranzo. Il Giornalista ne capì
il perché quando, a conclusione di una sequenza originale e gustosa, nella saletta della junior comparve una torta con tanto di
candelona azzurra.
« Azzurra come il tuo cielo, che è la tua vita e che ora amo
anch’io » e gli consegnò un pacchettino. Dentro una scatolina,
anch’essa preziosa, c’era un accendino di smalto azzurro con le
iniziali in oro e la data, lunedì 3 Gennaio 2011.
« Dove l’hai fatto...? »
« In Bretagna, a Vannes, da un orafo che ha studiato e lavorato
a Limoges e che serve da sempre mia madre e anche mia zia »
« Allora tua madre l’ha visto »
« Sì e le è anche piaciuto; anzi, le ho chiesto consiglio prima... »
« Ci sarà voluto del tempo per farlo »
« L’avevo ordinato a Giugno, dopo il nostro appuntamento a
Firenze e il viaggio in Liguria... »
« E, e... come... quando pensavi di darmelo? »
« Ho guardato il calendario dell’anno della tua nascita e ho ordinato subito l’accendino. L’ho usato come portafortuna e vedi
che ha funzionato: per il tuo compleanno siamo insieme. Sono
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stati giorni bellissimi » e lo abbracciò commuovendosi.
Per la prima volta ( ancora una volta *) il Giornalista provò un
sentimento di tenerezza per l’Ereditiera, fino a quel giorno oggetto di passione e di attrazione, da lui inquadrata dentro la propria aristocratica indipendenza, sicurezza, velata delle volte da
una possibile componente capricciosa. La strinse a sé, e l’accarezzò con tanta dolcezza:
« Ma tu allora mi vuoi bene »
« Ne abbiamo già parlato. Io mi sento la tua donna e, se me lo
permetterai, vorrei aiutarti. Nel tuo cielo passa troppo spesso un
tipo di nuvole che lo rovinano. Sta a te dirmi dove mi vuoi e con
quale ruolo, e io ti seguirò ».
Il giorno successivo visitarono le chiese, poi decisero d’imbarcarsi per un giro delle isole. Ancora un motoscafo e videro
dall’acqua più o meno quanto avevano visto dal cielo, con una
prospettiva diversa. Attraccarono soltanto a Burano, ripromettendosi di ritornare disponendo del tempo che sarebbe servito:
come si dice sempre in questi casi, e quasi mai si realizza. Per
loro, purtroppo, fu così.
Giunse la scadenza che il Giornalista aveva dato al loro soggiorno, il 5 Gennaio.
« Ti ho detto al casinò, quando ho parlato con quel croupier, che
ti avrei spiegato. Questa sera gioco a Chemin de Fer, mi hanno
riservato un posto al tavolo, ho avuto la conferma per telefono »
« Io non posso assistere, immagino »
« Difatti, quando gioco queste partite sono molto concentrato,
sarebbe come se non fossi lì con te »
« E se io ti aspettassi qui o a Venezia, dove vuoi? »
« No, comunque vada, dal momento che inizio a giocare fino alle
cinque o le sette (in certe occasioni il Casinò protrae l’orario) se
va bene, devo stare solo e tornare a casa da solo. Ci devo dormire sopra e soltanto allora, qualunque sia stato l’esito, la partita
è finita »
« Non è un gioco, è molto di più »
« Vedi, metto in ballo una somma importante per le mie possibilità e inoltre il gioco travalica sempre la posta. L’esito della
181
partita porta con sé, che tu lo voglia o meno, segnali e presagi...
c’est compliqué, ma chérie. La parola Gioco (non giuoco) ha
assunto un significato molto equivoco: vi si confondono l’ingenuità del bambino e la disperazione degli adulti. Invece, proprio
quello d’azzardo, un certo tipo, rifiuta ogni sentimento, ci mostra i rischi che noi corriamo ogni attimo in cui una cellula può
commettere un errore di replicazione. A quel tavolo ci si allena
a non sfuggire alla realtà, senza per questo farne un dramma »
« Potrei venire in società con te, saremmo più forti, ho con me
carte di credito senza un limite di prelievo. Potrei portarti fortuna. Oppure gioca per me... scusa, ho detto una stupidaggine... »
« Mi dispiace, ma devo essere solo. Però questa volta, se vuoi, ci
lasciamo in modo diverso: a Pasqua ci vediamo e decidiamo se
vivere insieme. Vengo io a Parigi: appuntamento agli ChampsÉlysées, al George Cinq a mezzogiorno del Sabato Santo. Che
ne dici? ».
Lei gli saltò al collo e lo strinse in una maniera diversa dal solito.
I suoi occhi tornarono a inumidirsi e disse parole a voce così
bassa che non furono comprensibili. Lui decise di accompagnarla fino a Tessera e attese con lei che fosse chiamato il volo. Poi,
non visto, aspettò il decollo dell’aeroplano. Il comportamento
dell’Ereditiera lo aveva turbato.
182
XXVIII
Chemin de Fer
Alle sei il Giornalista era di nuovo alla rimessa di Piazzale Roma.
L’appuntamento al Casinò era per le dieci. Si avviò con calma
verso il Ponte degli Scalzi, ripensando alla sera di tanti anni prima quando, sedendosi al tavolo, aveva detto al direttore del Casinò che avrebbe fatto tanti colpi a Chemin quanti erano gli scalini
del ponte (quaranta a salire e altrettanti a scendere). Così tanti
no, ma ne fece quattordici, un numero enorme. Però non erano
presenti, in quel momento, avversari all’altezza di quell’incredibile serie di raddoppi. Le puntate furono minime e la vincita si
ridusse a un’elemosina.
Era giunto a Campo San Geremia e si fermò, vicino a Palazzo
Labia, a leggere un manifesto che contestava l’idea di vendere
quello che veniva definito “il gioiello della Rai”. Poi salì il Ponte
delle Guglie in Cannaregio pensando che non bastano neanche
le carte buone per vincere: una volta aveva letto in un codicillo
seicentesco napoletano che per fare la festa alla Fortuna bisogna
toglierle sette abiti, ognuno dei quali nasconde sette corpetti e
sette corsetti. I corpetti e i corsetti sono tenuti da stringhe incrociate molto difficili da sciogliere, perché il caponodo è nascosto.
E l’operazione di denudare la bella signora va conclusa nel tempo di svuotare la più piccola clessidra da tavolo. Gli vennero in
mente la Buca del Pero e i suoi frutti d’oro sommersi.
Era ancora presto e, girellando, aveva svoltato a sinistra giungendo al Ghetto Nuovo; passò dinanzi al Museo Ebraico e in
Campiello Farnese gli prese voglia di un caffè. Vide però che era
l’ora di avvicinarsi a Palazzo Vendramin Calergi. Avrebbe cenato al ristorante della Casa, in passato gli aveva portato fortuna;
non doveva cambiare neanche il menu: due penne al pomodoro saltate in padella, una macedonia, un bicchiere di Sauvignon
dell’Oltrepò Pavese e un caffè. Bisogna presentarsi leggeri al ta183
volo, per studiare i giocatori e decidere una linea di gioco. Poi,
chi riesce a resistere, mangia durante la notte.
Rasentato Campiello D’Anconetta discese verso il Canal Grande
percorrendo Rio Terra di Cristo e, dopo poco, arrivò all’ingresso
di terra ferma del Casinò.
Salite le scale, mentre stava entrando nella prima sala, riemerse
nei suoi pensieri l’Ereditiera: non riusciva a cavarsi dalla testa l’espressione di lei quando l’aveva salutato passando il varco doganale. Cercò di distrarsi. Con quell’immagine davanti non sarebbe
riuscito a concentrarsi sulla partita. Andò a cambiare i soldi e si
mise distrattamente a puntare qualche spicciolo alla Roulette, un
tipo di gioco che non sopportava, come tutti i giocatori di Poker
e di Chemin de Fer.
Passeggiò per le sale, non vi rientrava da molto tempo. Erano
cambiati i vestiti della gente, ieri divise e ora prêt-à-porter; era
rimasto il clima di ipocrita sacralità che pervadeva l’ambiente,
conferendo ai tavoli il potere evocativo dell’ara sacrificale, su cui
il giocatore si disponeva a immolarsi con l’alterigia di un Kamikaze.
Ma questo valeva per i dostoevskiani individui romantici, che
accorrevano ai tavoli per farsi del male, eccitandosi dell’attesa,
dando spazio a una letteratura falsa e affascinante con cui la borghesia e il popolino hanno nutrito e nutrono i propri idoli, in
positivo e in negativo. Per loro, il giocatore è un malato, deve
essere il vizio, deve essere il male, e nessuno deve permettersi
di scalfire queste certezze. Equivarrebbe a chiudere di colpo le
arene e gli stadi, dichiarare la fine del voyeurismo, sostituendolo
con l’obbligo di pensare.
Il Giornalista doveva allontanare dalla propria mente l’Ereditiera, dimenticando che l’aveva costretta a partire. S’impegnò in
una sorta di reportage sul teatrino in cui si trovava, rimuginando
vecchie riflessioni sui protagonisti e sugli spettatori.
Le case da gioco sono nate per coloro che non vogliono giocare
perché non accettano neanche l’idea di perdere, però non possono fare a meno del brivido che il solo odore dell’azzardo è in
grado di dargli ( il “loro” nella costruzione dativa fa un po’schifo).
184
Lo scopo dei Casinò è far convivere dentro un edificio, appositamente predisposto e arredato, persone che vogliono giocare - per cui perdere e vincere rappresentano soltanto due ovvie
possibilità - con i drogati di suspense, e con una massa di altri
individui che si stillerebbero di giocare purché gli fosse garantito
di vincere. In questa maniera, il Casinò è divenuto lo specchio
della società di ieri e di oggi. Il giocatore è una bestia rara, che
forse si mischia a questa gente per rafforzare il suo innato senso
di misantropia.
Al Casinò la messinscena è persuasiva (poco convincente) con
tavoli di panno morbido verde, sovrastampato, dove un personaggio sacerdotale in smoking, con tanto di papillon sullo sparato candido, officia con appositi strumenti, incastrato nel tavolo
stesso dove si svolge la partita. Non circolano neanche i soldi,
ma dischetti variopinti chiamati fiches, gettoni che rinviano al
denaro ma non lo sono.
Il Giornalista si mise a suddividere i vari giochi secondo il temperamento dei tipi di giocatore che dovevano soddisfare.
La Roulette è l’azzardo messo in mutande: una pallina che gira,
che ognuno vede e può seguire, e che si ferma a caso. Chi gioca assiste, senza poter toccare niente. E soffre. Vale anche per
coloro che empiono interi librettini dei numeri che escono, illudendosi di intelligenza probabilistica come i giocatori del lotto.
Al Trente et Quarante e al Blackjack si usano le carte, ma chi
gioca non può toccarle, assiste.
Ai Dadi e a Chemin de Fer chi gioca, invece, partecipa fisicamente: è questa sensazione di influire sul risultato che fa da spartiacque tra i due gruppi di giochi.
Ai Dadi, non a caso l’invenzione più antica, è proprio così: il
giocatore lancia e imprime forza e traiettoria ai due cubetti che,
dopo aver rotolosobbalzato, mostrano la faccia col punteggio.
Come nella realtà di ogni giorno, siamo noi a promuovere le
azioni, salvo essere incapaci di seguirne lo svolgimento nelle frazioni millesimali che ne determinano l’esito.
Lo Chemin de Fer, la Ferrovia, sembra la migliore simulazione di
ciò che succede nel nostro modo di esistere. Viene fatto il pasto185
ne: si mischiano sei mazzi da Poker, da 52 carte, appoggiandoli
sul tavolo e muovendolo con le mani in tutte le direzioni. Poi,
qualsiasi persona presente che lo chieda può scozzare le carte: a
questo punto, costituito un unico mazzo, le carte vengono messe in una cassetta larga quanto la loro altezza, e su questo lato più
lungo vengono appoggiate, con il dorso rivolto verso l’uscita. Il
pastone è pressato, in coda, da un blocchetto di legno con un
rullino lungo la base levigata posta in leggero declivio, finché la
prima carta spunta sul davanti della cassetta (sabot) in cui esiste
un’apertura sufficiente per appoggiare le dita della mano, che
premendo possono far scorrere e uscire la carta. Al tavolo, che
è ovale, sono seduti, in appositi spazi segnati e numerati, sette
o nove giocatori. A metà del semiovale, tra l’ultimo e il primo
giocatore, siede su apposito sgabello, alloggiato in un incavo, il
croupier. Egli dà inizio alla partita spingendo la cassetta verso lo
spazio numero uno. Il giocatore, indicato come “banchiere”, la
prende e stabilisce la posta. Sta al giocatore che gli sta a destra (
la Ferrovia corre in senso antiorario) chiamare il banco o lasciare
che lo faccia un altro seduto al tavolo. Se nessuno dei seduti al tavolo lo chiama, può intervenire qualunque altro presente in sala.
Il banchiere (orrendo termine! L’esclamativo qui è inevitabile),
individuato il “chiamante”, appoggia uno o più dita sulla prima
carta e la fa scorrere sul tavolo: è quella dell’avversario. Poi ne
fa scorrere un’altra per sé e di seguito per l’altro e per sé. Il gioco si svolge con due carte di partenza e una terza che ciascuno
dei giocatori può prendere o rifiutare, in modo simile al Sette e
Mezzo e altri giochi popolari. Se il banchiere vince, la posta raddoppia e questo può scegliere se continuare o ritirarsi, passando
la mano a un altro.
Analizzò il paragone che stava facendo, gioco-vita, e gli parve
ragionevole considerare lo Chemin il più rappresentativo. La
società è costituita da un pastone di individui con dei ruoli già
assegnati, come il due o la donna o il fante; col tempo vengono mischiati e, crescendo - ecco la partita - può succedere che
due carte di segno inferiore, sommandosi, ottengano un risultato migliore di altre due più qualificate in partenza, che però
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sommandosi danno zero, e si annullano. La partita è già decisa al
momento in cui le carte vengono inserite nel sabot: le coppie di
carte sono già disposte ma non si conosce come sia il pastone e
quali siano le sequenze.
Il Giornalista, pensando e rimuginando, era giunto alla sala ristorante e si accomodò. Mentre cenava si impegnò a passare in
rassegna i vari giochi. I Dadi e lo Chemin erano, in due maniere
diverse, la metafora cristallina della vita. Gli sembrò poi che il
Poker fosse da collocare a metà strada tra la Roulette e il Biliardo
e quest’ultimo fosse superato, nei giochi di abilità, soltanto dagli
Scacchi, che però non sono un gioco, ma un esercizio di logica.
Era giunto al caffè e un direttore di tavolo arrivò a comunicargli
che gli avevano riservato il posto numero cinque, un posto che
non lo entusiasmava, ma si preparò serenamente lo stesso.
Il croupier stava sistemando il pastone nel sabot. Il Giornalista
salutò, buonasera, e prese posto sulla poltroncina del settore numero cinque. Scorse con lo sguardo il tavolo e lo colpì l’unica
donna presente, piazzata al numero sette: una signora sulla sessantina, di taglia forte, come direbbe un sarto, con una collana
di perle vere scalate a partire da quella centrale, grossa come un
nocciolo di pesca; alla mano destra portava un diamante spropositato, accecante. Poi si accorse che, al numero uno, accanto
al croupier, era seduto il Professore, così tutti lo chiamavano, un
docente universitario veneziano, di ceppo nobile, con cui aveva
giocato più volte, tanto tempo prima. Era invecchiato, naturalmente, ma era riconoscibilissimo. Si guardarono per un momento, il Giornalista era indeciso, ma fu il Professore a muovere
la testa e si scambiarono un cenno. Tra i restanti quattro notò
soltanto un uomo sulla cinquantina che, dall’atteggiamento e da
come aveva disposto le fiches, sembrava un giocatore professionista. Gli altri tre erano, con tutta evidenza, delle comparse.
Infine perlustrò i posti per osservare la consistenza delle somme
esposte e constatò una media di ventimila. Tranne la signora, che
aveva davanti cinque gettoni da mille.
La cassetta toccò al Professore, che aprì di mille. Il banco fece
due colpi e cadde. Il numero due aprì di cinquecento e cadde al
187
primo colpo. Velocemente toccò al Giornalista che, per sua regola, si metteva sempre all’altezza del massimo del tavolo e aprì
di mille. Il suo vicino chiamò il tavolo, cioè metà della posta, ma
la signora che era dopo di lui disse:
« Banco », guardò le carte e scoprì un nove. Il Giornalista girò le
sue e aveva otto: l’inizio non fu entusiasmante.
Il sabot giunse alla signora, che disse con voce ferma:
« Vedo il tavolo », che significava far equivalere la posta a tutto
ciò che i giocatori avrebbero voluto puntare, non escluso le persone che in piedi avevano già fatto capannello. Così, a freddo,
fece effetto questa mossa, tipica di un perdente che all’ora di
chiusura tenta di rifarsi con uno o due colpi. Il Professore e il
Giornalista incrociarono lo sguardo e si astennero dal raccogliere l’evidente provocazione, utile comunque per tastare il polso al
tavolo, che fu generoso puntando una discreta somma. La signora, che aveva poche fiches davanti, venne assistita dal direttore
che coprì le puntate, poi le fece portare un vassoio di gettoni,
dietro il rilascio di una semplice firma.
La signora vinse la mano e il nuovo banco; detratti i diritti del
Casinò, salì a ventiduemila. Vinse ancora e salì a quarantaquattro. Con un gesto secco, il Giornalista battè la destra sul tavolo
e disse “Banco” e la signora, dopo un attimo di esitazione, diede
un schiaffetto alla cassetta per allontanarla, “Passo”. Il croupier
indisse l’asta, partendo dal numero uno, toccando il settore con
la punta della sua lunga paletta di faggio, e invitò i giocatori a
rilevare il banco, prendendo il seguito: il Professore si offrì di
aprire di quindicimila, il suo vicino non fece offerte e al numero tre, il cinquantenne che sembrava un professionista, disse
“All’altezza”, prendendo la cassetta, banco quarantaquattromila. Il Giornalista aveva già sollevato impercettibilmente la mano
per batterla ancora, quando la signora fece sentire la sua voce:
“Banco”. La regola favoriva il Giornalista, che stando al numero
cinque aveva diritto di precedenza, ma quell’intervento lo spiazzò e stette fermo. La signora, guardate le carte, le girò: otto, e
vinse. Il Giornalista si alzò, disse al croupier che si allontanava
e che, quando fosse giunto il suo turno, aprisse per lui di mille,
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dando il banco fino al quarto colpo. Aveva quindicimila davanti
quindi, se avesse perso tutti i colpi, i soldi sarebbero bastati per
quindici giri.
Attraversò le sale, discese le scale e uscì. Aveva bisogno di fumo
e di aria aperta. Si mise a parlare col pacchetto delle sigarette, mentre inanellava le boccate verso l’alto, passeggiando sulla
piazzetta antistante all’ingresso.
In quei casi riandava a esperienze passate, anche molto lontane.
Possedeva un archivio in cui era in grado di rivedere quasi ogni
mano, ricordando gli interventi dei singoli giocatori, fotografati
al loro posto con l’istantaneo atteggiamento che avevano assunto in quel momento: talvolta è uno sguardo, un gesto o un
battito di ciglia a decidere di star fermi o muovere la mano, pronunciare la fatidica parola: “Banco”.
Ripercorse la partita di Divonne, 1970, quando da Ginevra, dove
era giunto per una grossa vendita all’asta, la sera prima era andato a quel Casinò, oltre il confine, e alle tre di notte stava perdendo una somma notevole. Si era infilato nella toilette e, seduto sul coperchio del water, aveva tirato giù un po’ di conti: era
scomparsa la metà dei soldi previsti per l’acquisto di un pezzo
raro da battere il giorno dopo e si era accorto di aver condotto
il gioco in modo contrario al suo schema e al suo temperamento
di giocatore. Non era tipo da starsene in difesa, come aveva fatto. Tornò al tavolo e cambiò tattica. Al mattino si alzò con una
perdita insignificante e fu soddisfatto.
Il Giornalista ripercorse le sale di mezza Europa. A Lindau, sul
lago di Costanza, l’acqua dei tre confini, dove si davano appuntamento contrabbandieri e giocatori professionisti di ogni nazionalità, bari da coltello e revolver nel taschino al posto del
fazzoletto. Una sera, in una partita regolare (soltanto i polli sono
ciechi), il Giornalista si trovò nella stessa situazione di Divonne,
reagì e vinse.
Per ultimo considerò un altro fattore, non meno importante:
la sperequazione del capitale, le risorse che, se inferiori a quelle
degli altri giocatori, non consentono di ammortizzare colpi sfortunati per poi rifarsi. E le conseguenze di una menomazione
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simile le aveva subite nel 1996 proprio lì a Venezia, sedendosi
con cinquanta milioni (c’erano ancora le lire) che aveva perso
in quattro balletti. Conclusione: il tavolo era molto più ricco di
lui e non poteva che giocare la partita, seguendo il suo temperamento.
Tornò al presente e si sedette di nuovo al tavolo. Vide subito
due gettoni da diecimila che prima non c’erano: il posto numero
cinque aveva beneficiato di tre banchi di quattro colpi, di cui
tre non coperti in pieno (la Cabala sconsiglia di giocare contro
gli assenti). Si trovò con una vincita di ventinovemila e questo
parve un buon segno. Si arrivò alla fine del secondo pastone con
alti e bassi di routine, senza un banco decente per nessuno dei
giocatori.
Al bar si trovò vicino al Professore e gli domandò se conoscesse
la signora.
« È conosciuta in città - rispose - È vedova fresca di uno dei
notai più ricchi della zona ».
Erano le quattro del mattino quando arrivò la cassetta, nel punto
buono, al Giornalista. Aprì di cinquemila e fece quattro colpi; a
ottantamila passò il banco ma, come gli era normale, era pronto
per chiamarlo a chi lo avesse rilevato all’altezza. Si ripresentò la
stessa situazione dell’inizio della serata, solo che a rilevare il banco questa volta, anziché il professionista, fu la signora.
Il Giornalista disse deciso: « Banco » e, avute le carte, le girò.
Nove. In pochi minuti aveva vinto centosessantamila che, aggiunti a quelli di prima, portavano la sua vincita sui duecento.
Avrebbe potuto fare un pensierino sul tirare i remi in barca.
Qualcuno si sarebbe alzato andando a cambiare i gettoni, magari lasciando venti o trentamila con cui concludere la nottata.
Ma non sarebbe stato il matto che era, quello che a San Remo
una mattina aveva fatto “chiudere” il tavolo grande. Lui doveva
essere l’ultimo a lasciare il tavolo, quando non glieli finivano prima. Lui poteva scegliere come giocare, ma la durata della partita
doveva deciderla la sorte: come nella vita.
Il croupier dichiarò che stava mettendo nel sabot l’ultimo pastone,
erano le quattro e mezzo. Per i Giocatori l’unico pastone è l’ultimo.
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Dopo il primo rapido giro toccò al Professore la mano buona.
Uscì con diecimila e al terzo colpo, ottantamila, lo chiamò il professionista che, passandolo il Professore, lo prese da banchiere.
Lo chiamò il Giornalista che, avendo cinque, non chiese carta. Il
banchiere scoprì: aveva sei e il banco andò a centosessantamila.
Esiste una vecchia regola, secondo cui “il cinquista vince dopo”
e il Giornalista sapeva che quelle regole cabalistiche andavano rispettate. Controllò i soldi: le fiches non erano più sufficienti per
coprire la somma. Si frugò e diede fondo alla cassa: « Banco ».
Fuori le carte. Il banchiere le scoprì: otto, che vieta all’avversario
di poter chiedere carta. Il Giornalista girò le sue: nove. Il cosiddetto colpo di scuola: di solito ordinava champagne. Ma non era
a cavallo, aveva riacchiappato per i capelli la cassa, compresa la
vincita: acqua minerale. Per chi sta a guardare ( e ce n’erano tre
anche al tavolo, che avevano fatto un giochino tutta la notte ),
sarebbe stata veramente l’ora di giocare le ultime carte con una
testa normale. Ma il giocatore non ce l’ha, la testa di ricambio, e
la sua legge impone che a decidere sia l’ultima mano. E l’ultima
mano era vicina.
Aprì il Professore. Aveva ammonticchiato con ordine e per taglie
le fiches, pronto ormai per cambiarle, e ne aveva messe davanti
spaiate per complessivi venticinque. Aprì di venticinquemila e
fece tre colpi, a scapito del professionista, che prese il seguito
a duecentomila. Chiamò « Banco » il Giornalista; aveva sei e
dovette stare, crociare. Il colpo, se vinto, gli avrebbe fatto ritirare quattrocentomila. Invece il banco aveva sette e il Giornalista
perse.
Gli rimanevano in tutto ventimila e con quelle aprì: gli sarebbero
bastati due colpi, erano proprio gli ultimi, e si sarebbe alzato con
il doppio dei soldi con cui era partito da casa. Invece la signora,
che fece nove, gli ritirò gli ultimi soldi. Il gioco era finito e lui
era pulito.
Stava uscendo, quando lo raggiunsero due smoking. Uno di loro
si presentò: era forse l’ultimo sopravvissuto tra i croupier degli
anni Settanta. La faccia da bambino gli era rimasta intatta: di
mutato aveva la chioma nera, che s’era coperta di neve.
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« Si ricorda di me? Abbiamo passato delle notti uno di fronte
all’altro, io a servire le carte e lei a giocarle, qui e anche al Lido.
Lei era amico del direttore Vassetta, anche lui toscano, era di
Pistoia »
Il Giornalista li squadrò, poi mise a fuoco quello che aveva parlato:
« Sicuro che mi ricordo »
« Permette che le presenti il direttore del Casinò ? »
Lo fece, si diedero la mano e il direttore gli disse:
« Sa, noi conosciamo bene i nostri ospiti e ce li tramandiamo
di generazione in generazione. La carriera dei croupier è breve,
lui è un eccezione. Sappiamo distinguere a prima vista i professionisti, gli esibizionisti, i furbi che sono i più, e i rari giocatori
come lei »
« Dovrei prenderlo come un complimento? »
« Lo sa che si ricorda una sua partita dei primi anni Sessanta ? »
« Possibile... ma ero un ragazzino... e non ho avuto mai tanti
soldi da essere tramandato... »
« Questa è la ragione che lo fa ricordare. Senza offesa: basta che
qualcuno venga qui due, tre volte e faccia una grossa partita per
fargli i conti in tasca, per radiografarlo. Si seppe che non era il
figlio del miliardario quello che vinceva sessanta milioni di lire
e alle cinque di mattina se li giocò in un colpo con un famoso
fotografo americano che aveva sbancato una roulette. Sessanta
milioni di allora, ci si comprava un palazzo... »
« È ovvio che ricordi quella partita... per fortuna avevo già pagato la camera al Grand Hotel, rimasi al verde... e dire che una cifra
simile in quel momento mi avrebbe risolto diversi problemi... »
« Appunto... ma il giocatore tiene separato il mondo dal tavolo...
se deve vincere sa che lo deciderà il tavolo, che lui rispetta »
« Stasera mi ha maltrattato »
« Anche stasera, dopo... »
« Lasci stare, non dica quanti anni sono passati »
« Dopo tanto tempo, in un tavolo in cui almeno tre persone
avevano un capitale superiore al suo, lei ha tenuto in mano il gioco. Il casinò si regge, prima che sui soldi, sui rari giocatori che,
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facendoli girare, gli danno il peso che meritano »
« Lei è un apprezzabile filosofo »
« Io volevo ringraziarla » e gli diede un inserto di pelle che conteneva l’agenda 2011 del Casinò.
Il Giornalista discese insieme al croupier, che l’accompagnò fino
alla piazzetta.
« Chi era quel signore che mi ha dato il banco a duecentomila? »
« È un tedesco, un famoso coreografo... ha perso una grossa
somma stasera. Capita qui da noi due, tre volte all’anno... »
« Arrivederci »
« Signore, ha bisogno del motoscafo? »
« Grazie, vado a piedi, ho la macchina alla rimessa col pieno di
benzina ».
193
XXIX
Uno Scrigno Leggendario
Faceva giorno quando il Giornalista transitò da Ferrara. Guidando declamava, canticchiandola arrangiata, la famosa conclusione
del bollettino della vittoria firmato da Diaz il 4 Novembre 1918:
... discendono in disordine e senza speranza le valli che avevano salito con
orgogliosa sicurezza.
Un vecchio esercizio, quasi goliardico (fatto da lui che non apprezzava la goliardia) per rilassarsi e ammortizzare la sconfitta
che si concluse una volta giunto a casa, aprendo la teca dei ricordi o armadio dei trofei.
Li passò in rassegna, qua e là, com’erano disposti, senza ordine
cronologico: il giubbetto di renna che indossava il 26 Settembre
1958, il giorno dell’aeroplano sotto il Ponte; il gilet di panno
giallo con cui aveva giocato al Birillo d’Oro, una partita a biliardo
durata venti ore: in tutte le sale di Roma si parlò del “toscanino”
che a diciottanni aveva affrontato il campione della Bersagliera,
infliggendogli una sconfitta pesante anche in denaro. Più in là
trovò il casco decorato a penne di pavone indossato a Montecarlo l’ 8 Maggio 1976; il giubbotto di maglia di lana che portava
il 14 Ottobre 1972, quando sopravvisse al finimondo meteo del
volo notturno conclusosi per miracolo a Peretola; alcuni completi su misura, cuciti per una precisa occasione, come un appuntamento al tavolo di Poker; la tuta della discesa del Tevere
in occasione delle Olimpiadi 1960; un campionario di coppe di
vario genere, abbarcate sotto gli abiti appesi e distese sul ripiano.
Quella mattina ripose l’agenda del Casinò nella discarica del passato. Chiuse l’armadio e andò in camera. Si addormentò tornando col pensiero all’Ereditiera, al suo sguardo lucido di lacrime
trattenute. Aveva chiuso l’armadio, ma la partita con sé stesso
questa volta non era archiviata. Mentre si dava la sveglia facendosi il caffè, gli ronzavano nel solito scatolone i soliti problemi.
194
Il supplizio del Giornalista era rappresentato dal fatto che l’alternativa alle carte da gioco erano altre carte: l’esito delle denunce
che lui pubblicava non dipendeva né dal caso né dalla loro fondatezza, ma dal potere di corruzione che avevano i denunciati
per eludere la Legge: sfruttando la corruttibilità degli addetti al
sistema giudiziario, dal cancelliere che può ritardare un procedimento fino a far scomparire una pratica, agli ufficiali giudiziali
che amministrano le notifiche, i pignoramenti e gli sfratti, fino
al giudice che tira le somme.
Mentre nel gioco d’azzardo è la fortuna (e un pizzico di carattere) a decidere, al gioco della legge contano i vari tipi di lobbies
e di mafie: in definitiva, possono decidere i bari. E in quei casi il
giocatore corretto, che non sia un pollo, sa di aver perso prima
di sedersi al tavolo.
Per sua disgrazia, il Giornalista voleva ignorare l’esistenza di questo meccanismo scellerato. Aveva paura solo di pensarlo, poiché,
al momento in cui se ne fosse convinto, sarebbe stato costretto
a valutare il metodo del bastone, ricorrendo a quella violenza alla
cui utilità non credeva, contro la quale si era battuto e si batteva.
« Mala tempora currunt… » latineggiava aggirandosi per le stanze sempre più disordinate e malmesse, in cerca di un’idea folgorante per arrestare un’ombra che si allungava sul suo inarrendevole ottimismo.
Telefonò all’Editore che l’aveva cercato un paio di volte, come
risultava dal display del telefonino:
« Se l’offerta è sempre valida darei a tua figlia un mazzetto dei
miei fogliacci per metterli in bella copia »
« Sono in ditta per qualche giorno, ma vai pure all’ufficio e portale il materiale, lo farà volentieri »
« Aspetto il tuo ritorno, tanto devo ordinare le schede e scegliere
quelle meno impossibili da decifrare »
« Come vuoi… ti chiamo appena arrivo in paese ».
La sera stessa gli telefonò la Segretaria, dicendo che aveva parlato col babbo e che avrebbe potuto passare dall’ufficio o da
casa, come avesse preferito, senza preoccuparsi di scegliere il
materiale.
195
« Leggo bene la sua grafia, non mi dà alcun problema. Mia madre mi sta dicendo che può venire quando vuole. Non ci disturba affatto »
« Vi ringrazio veramente, ma è bene che prima riordini le pagine
di testo e le divida dalle tavole, è un lavoro che devo fare, altrimenti si accumulerebbero brutte copie su brutte copie e... mi
farò vivo... ancora grazie ».
Diede un’occhiata al meteo locale e vide che prevedeva tempo discreto per il giorno dopo. Controllò lo zainetto e scelse
gli indumenti: era dall’inverno prima che non saliva alla Ripa
della Luna in Gennaio. Da quando c’era andato in Ottobre, a
raccogliere l’aglio ursino, lassù oltre i mille metri, il mondo era
sicuramente cambiato da così a cosà. Controllò che nello zaino
ci fosse il giubbetto impermeabile, il grosso coltello da subacqueo a cui avrebbe aggiunto l’ombrello da mettere a spalla con
un cordino. I due attrezzi, coltello e ombrello, erano multiuso
poiché avevano anche un possibile fine difensivo, dato che non
si potevano portare armi da fuoco e non erano da escludere
incontri con animali più forti dell’uomo. Lui, tranne la volta del
lupo solitario visto a distanza e che passò senza neanche voltarsi,
non aveva incontrato alcun vivente. Semmai temeva gli umani
che, con la scusa della caccia di selezione, sparavano tra i monti
con carabine di portata chilometrica.
Al mattino, verso le otto, fece una frittata di due uova e la distribuì su quattro fette di pane. Empì una bottiglia d’acqua e, debitamente protette, sistemò l’una e le altre nello zainetto. Prese
la macchina fotografica; per ultimo si mise a tracolla l’ombrello
che, secondo alcuni, poteva servire a spaventare certi animali:
aprendolo, avrebbe ingigantito la propria sagoma e fatto apparire l’uomo più grande del reale, dissuadendo il possibile assalitore. Se non altro, l’ombrello poteva funzionare come placebo per
chi lo portava. Il Giornalista pensò che forse un flash potente
sarebbe stato un’arma migliore.
Incontrò la neve prima di fermare la macchina, ma arrivò ugualmente non lontano dal punto dove di solito la lasciava parcheggiata. Salendo, l’attenzione doveva essere rivolta alle spesse lin196
gue di ghiaccio che il fogliame secco, irregolarmente accumulato
dal vento e poi infradiciato, nascondeva, costituendo, specie nei
tratti in discesa, un costante pericolo. Lassù, tra l’altro, il telefono
prendeva il segnale a intermittenza e non ci si poteva fare affidamento. Sarebbe bastata una brutta distorsione a creare qualche
problema, dato che non c’era anima viva nei paraggi e la temperatura era decisamente sotto zero.
All’ora di pranzo arrivò in cima e l’accolse il sole. Si sedette su
una pietra grande e comoda, e si mise a mangiare. Ma bastò il
passaggio di una nuvola per avvertire il freddo dei millecinquecento metri. Si affrettò a finire e riprese il cammino verso la
Ripa dell’Alpe della Luna, un dirupo che strapiomba nei boschi
sottostanti per centinaia di metri.
I nomi assegnati a questa cascata di roccia friabile, unica interruzione visibile da Est in tutta la vasta faggeta, sono due, diversamente noti alla gente a seconda del versante da cui si sale. I
marchigiani la chiamano Balza del Frate mentre per gli umbri
e per i toscani è La Ripa. In questa ripa esiste una sporgenza
che sembra il corno di un’incudine, tradizionalmente conosciuta
come Il Salto della Sposa. Da tempo il nome, per gli umbri e per
i toscani, indica l’intera ripa.
Il Giornalista studiava da anni le leggende legate all’Alpe della
Luna, raccogliendo testimonianze orali e ogni fonte scritta. Osservava la Ripa dalle balze della Colubraia, che erano un belvedere ideale; scrutava quella rupe anche dalla terrazza di Tonino,
dove ogni tanto se ne stava comodamente seduto, a Figgiano,
gustando le tagliatelle della Mara. Lì c’era capitato una volta per
studiare gli affreschi della pievina di Santa Lucia, ibridi ma belli:
un rompicapo che lo calamitava.
Tornò nel primo pomeriggio, giusto in tempo per evitare un
temporale di cui lo sfiorò la coda. E si mise di buzzo buono
sulle carte del libro. C’era molto da fare, come sempre dopo la
prima stesura, quando si dice che siamo giunti al termine e si
sono numerate le pagine. Non aveva stampato l’indice, che, per
esperienze giù vissute, portava sfiga.
Un paio di giorni dopo telefonò l’Editore che era tornato, invi197
tandolo a cena:
« Così mangeremo un piatto condito con quell’aglio di montagna, di cui in casa parlano un giorno sì e l’altro pure. E, nell’occasione, porterai il materiale del tuo libro »
« Verrei volentieri, ma non posso distogliermi da questo impiccio - gli rispose il Giornalista, che in realtà si sentiva imbarazzato dall’evoluzione dei loro rapporti in senso casalingo - Mangio
qualcosa al volo e lavoro, non è il caso che rallenti adesso che ho
preso il via. Passerò dall’ufficio a consegnare il materiale a tua
figlia ».
Lo fece verso le sei del pomeriggio. Aveva con sé una cartella con un centinaio di pagine che, grosso modo, erano la metà
del testo. A parte, in una cartellina blu di cartone con l’elastico,
c’erano lunghe didascalie da correggere che si riferivano a piani
regolatori e progetti urbanistici di varie località italiane. Era la
parte più voluminosa e delicata.
« È un lavoro serio e impegnativo, non ti converrebbe proporlo
a un editore specializzato? » disse l’Editore, osservando il materiale che il Giornalista stava consegnando alla Segretaria.
« Lo conosci tu un editore specializzato nel combattere gli speculatori e i palazzinari? »
« Anche questo è vero, tuttavia sarà un onere che ti assumerai
con un modestissimo e insufficiente ritorno economico »
« Le mie imprese nascono con il traguardo di rimetterci il meno
possibile, ma il guadagno è fuori del mio orizzonte »
« Sei matto da legare »
« Semmai da slegare. Di lacci me ne hanno messi anche troppi e,
come ne rompi uno, te ne mettono due »
« Faremo la rivista e almeno non rimetterai i soldi, toccherà a
me ».
198
XXX
Acrobazia
Il Giornalista si era concentrato sulla relazione che L’Onorevole
Franceschini aveva fatto nel 1967 al Parlamento e sui risultati
dell’indagine condotta dalla commissione che lui presiedeva, sul
patrimonio storico e artistico italiano.
L’introduzione a I tre Poli prendeva le mosse dal concetto di bene
culturale, ponendolo al centro del dibattito svolto in tutte le nazioni. In un lavoro sulla speculazione edilizia e sui guasti che ne
sono derivati, non poteva evitare di chiarire certi concetti essenziali, osservando come avessero influito sulla legislazione e sulla
conseguente politica per renderla operativa.
Squillò il telefono: era il figlio di un grande aviatore con cui il
Giornalista aveva fatto il primo volo da bambino, quando costruiva aeromodelli, ricevendo i rudimenti dell’arte di volare («
Non di staccarsi da terra, cosa ben diversa e inutile » gli ripeteva
il Colonnello). L’aviatore era morto da trentanni, ma il figlio aveva a sua volta un figlio che aveva conseguito il brevetto.
« Senti, ce lo porti o non ce lo porti a fare quattro capriole con
te? »
« Più che volentieri, ma sono messo malissimo con un lavoro
che devo stampare. Appena... »
« Eh, se aspetti un momento di calma nella tua vita, allora buonanotte. Tanto vale che dica a mio figlio di mettersi il cuore in
pace… »
« No, ce lo porterò »
« Ci tengo anch’io che voli con te. Vorrei che lui capisse cosa è
il volo. Adesso, con questi polli d’allevamento, non imparano
un cazzo. Vorrei che tu lo strapazzassi, coi metodi della vecchia
scuola, e poi che tu mi dicessi, senza tante mezze misure, se ha
la stoffa o no »
« Va bene, un primo volo lo faremo domani; digli che mi chiami
199
stasera, così ci mettiamo d’accordo » concluse il Giornalista, che
non vedeva l’ora di intercalare alle scartoffie le uniche cose di cui
l’animale non poteva fare a meno: una di queste, molto importante, era il volo.
La mattina dopo il motorista, avvertito per telefono, fece trovare
pronto il SIAI SF 260 color aragosta. Mentre rullavano sul raccordo, si mise a scrosciare. Il ragazzo lo guardò, inviando la sua
voce timidamente in cuffia:
« Si procede? »
« Vorresti l’ombrello? Vai, vai, così ne approfittiamo per lavare
l’aeroplano. Quante ore hai? »
« Ottanta »
« Tuo nonno, a ottanta ore, aveva già abbattuto un Rata sui cieli
di Spagna. Dai, fai i controlli, allineati e... insomma fa tutto quel
che devi fare, considerami un passeggero. Vedi, laggiù c’è un
buco d’azzurro, dirigi là e portati a mille metri… hai azzerato
l’altimetro? »
« Quota raggiunta »
« Fai due giri di vite a sinistra... su, tira su, cloche alla pancia e
piede sinistro, uno e due, cloche al centro... e ora due a destra »
« Siamo bassi » disse il ragazzo al termine dei quattro avvitamenti.
« Naturalmente. Dai motore e torna un po’ in quota. Ora faremo
un looping e all’uscita un tonneau a sinistra, poi ancora looping
e un tonneau a destra. Non preoccuparti, ti seguo io » e così dicendo gli fece ripetere le due fondamentali figure due, tre volte.
« Per oggi basta, lascia i comandi. Ti faccio vedere... e sentire il
frullino. Hai stretto bene le cinghie? »
« Credo di sì » e non gli fece finire i controlli che il Giornalista
costrinse l’aeroplano all’autorotazione: « Una manovra brutale
– commentò - paragonabile ad un testacoda con l’automobile ».
Poi fece subire all’aereo altre figure più complesse, infine si diresse verso la pista.
« Ora stai attento: farò una manovra che non ti dovrà mai venire
in mente di ripetere, anche quando sarai molto esperto… ».
Tolse motore e si allineò alla pista, ormai vicinissimo, come se
200
atterrasse. Giunto in testata a cinquanta metri di altezza, il Giornalista diede potenza e picchiò con decisione fino a tre metri da
terra, poi tirò su il muso dando la restante potenza e salì virando
a sinistra, con rotazione della cloche a fondo, effettuando così
un tonneau, all’uscita del quale estrasse il carrello. Concluse la
virata di 360° e, poco dopo, posò le ruote dolcemente sulla pista.
Il ragazzo era confuso, sbalordito e felice: finalmente poteva dire
di aver volato.
Lasciandolo, gli fece un’ultima raccomandazione:
« Ricordati bene che l’acrobazia orizzontale richiede particolare attenzione a bassa quota: hai visto che nel tonneau si deve
spingere la cloche nella fase rovescia: uscire a muso basso porta
male. L’aviatore, sia a terra che in cielo, deve camminare a testa
alta ».
Il Giornalista salì le scale di casa, ma era molto lontano e indietro nel tempo, all’anno 1993 sulla verticale di Angera, a pochi
minuti dalle Effemeridi, stava chiamando la torre di Malpensa
perché lo autorizzasse a scendere per dirigersi su Vergiate.
Dalle prime parole della voce femminile, ben conosciuta, capì
che l’autorizzazione sarebbe stata negata. Simulò dei disturbi
radio e cambiò frequenza, annunciò a Vergiate che si dirigeva
sul circuito, seguì il Ticino e rientrò alla base. Era ai limiti del
carburante con il SIAI SF 260 marche I – SAAV, bianco e nero,
del locale Aero Club.
Ammesso che avesse sufficiente benzina per eseguire le procedure richieste e atterrare a Malpensa, il velivolo sarebbe dovuto
rimanere lì per la notte; avrebbero chiamato Vergiate per comunicarlo e l’indomani sarebbe stata aperta un’inchiesta per stabilire come mai l’I – SAAV si trovasse fuori orario sul lago Maggiore a chiedere l’ingresso al circuito di Vergiate. D’altronde lui non
avrebbe potuto raccontare della modifica apportata al previsto
volo di allenamento acrobatico: d’essere andato, dalla verticale di
Luino a cercare rogna dagli svizzeri, sconfinando sull’aeroporto
di Locarno, sulla punta del lago, per provocare la loro allerta
caccia e che, visti in decollo due PC 7, aveva fatto dietro front
e tirato su a tutta manetta, virando e salendo poi fino al Monte
201
Rosa. Non poteva giustificare il suo volo fuori orario con un giochetto che era divenuto una consueta scommessa per gli italiani
e per gli svizzeri, ma che da entrambe le parti si sapeva fuori della grazia di Dio. Un giochetto proibito come quello del tonneau
in virata in atterraggio, inaugurato a Vergiate con l’I – SAAV e
ripetuto in seguito con altri aeroplani, l’ultima volta qualche ora
avanti per mostrare la manovra al nipote del grande aviatore (i
giochetti fanno parte del mondo del Gioco). Preso dalle “cose
aeree”, aprì la borsa che era sul tavolo e diede un’occhiata ai suoi
documenti. Vide che il 30 Maggio gli sarebbe scaduta la visita.
Avrebbe dovuto recarsi all’Istituto Medico Legale dell’Aeronautica a Roma: erano cinquantacinque anni che si metteva a disposizione dei medici una mattinata all’anno in Via Piero Gobetti,
passando da un reparto all’altro sui tre piani dell’istituto.
Si rimise al lavoro, rinfrancato e caricato. Ma quando aveva raggiunto una profonda concentrazione, il fastidioso gracchiare del
computer (l’aveva scelta apposta la ranocchia) lo distolse. Era
un’ e-mail della Segretaria:
“Ho dei problemi con le didascalie, non per trascriverle, ma per
piazzarle al loro posto. Se ha da fare, posso venire io da lei, così
mi indica dove posizionarle”.
Lui le rispose: “Non ce n’è bisogno. Le batta come stanno, poi
le sistemerò. Sono assorbito da altre cose al momento. Grazie”.
Non gli fu possibile avere un attimo di pace quel giorno e forse
avrebbe fatto bene a prendersi, dopo la mattinata dedicata al cielo, un pomeriggio di tregua sulla terra: evitando traumi nervosi
non dissimili da quelli che potrebbe subire chi, mentre sta per
raggiungere un orgasmo, si sentisse bussare sulla spalla da qualcuno che gli chiede: « Scusi, ha da accendere? ».
Un antiquario telefonò per proporgli l’acquisto di una rarità assoluta, sia sotto l’aspetto della stampa in quanto si trattava di un
incunabolo del 1471, sia per il suo contenuto, trattandosi di un
Decamerone. L’antiquario disse che, se avesse acquistato l’incunabolo, gli avrebbe donato un altro libro che proveniva dalla
medesima biblioteca e che rientrava tra quelli di cui domandava
sempre il Giornalista: una cinquecentina di diritto romano. L’an202
tiquario concluse che avrebbe provveduto a spedirgli via e-mail
un’adeguata documentazione e aggiunse:
« Mi faccia sapere se è interessato all’acquisto, ho speso una tombola per questo blocco, ma l’incunabolo è ovviamente il pezzo
più importante... posso aspettare qualche giorno perché lei possa decidere... qualche giorno »
« Mi interessa eccome, ma non credo che potrò permettermelo.
Ho già fatto delle grosse spese ultimamente e... »
« Sa, con lei ho sempre un occhio di riguardo, sono spesso a
disturbarla per avere i suoi preziosi pareri e mi trovo in continuo
debito. Se le interessa, oltre a farle un prezzo speciale mettendoci sopra un guadagno all’osso, posso concederle un pagamento a
respiro... non si offenda... »
« No, anzi, la ringrazio. Le farò sapere, attendo la sua e-mail e le
darò subito una risposta ».
Il Giornalista non aveva bisogno di tempo per decidere, sapeva
bene che le sue risorse erano a lumicino, ma non voleva dichiararlo in modo perentorio, neanche a se stesso. Sarebbe bastato quel secondo di distrazione (del Padreterno) a Venezia, in
cui il coreografo gli aveva passato le carte e il sette, invece che
al tedesco, sarebbe toccato a lui: adesso avrebbe avuto in tasca
un mezzo milione... ma il condizionale non gli piaceva affatto e
certe cose non gli venivano neanche in mente: la partita doveva considerarsi chiusa, per le carte a Ca’ Vendramin e per lui a
casa, riponendo simbolicamente l’agenda nell’armadio. E se ne
preparava un’altra, di partite. A che gioco non si poteva sapere,
né dove né con chi e in che momento. Ci sono dei fessi, dei
presuntuosi, dei bambocci che lo sanno, ma il Giornalista non li
frequentava, sopportandone la presenza di tanto in tanto come
capita in una società dell’ottavo tipo come questa.
Guardò il calendario per controllare la scadenza di una concessione edilizia comunale per un’opera su cui stava scrivendo:
avendo già beneficiato di una proroga, l’inizio del lavoro, oltre
quella data, sarebbe stato abusivo.
Riudì lo scampanio della mezzanotte di qualche giorno avanti,
con cui si annunciavano le Ceneri e l’inizio della Quaresima, ri203
cordando alla gente di avere sulla coscienza un peccato originale.
Pensò al nonno Ciro che da bambino lo portava in duomo, il
Giovedì Santo, per assistere alla lavanda dei piedi; una volta gli
disse:
« Osservali bene: con questi ci dovrai fare i conti da grande.
Non sono tutti così umili. Alcuni sono innamorati dell’esempio
del Cristo, ma gli altri sono uomini normali con tanti difetti, che
però nascondono sotto la tonaca ».
Il Giornalista tornò al presente.
Dunque, se le Ceneri erano state il nove Marzo e la Pasqua cadeva il 24 Aprile, mancava poco più di un mese all’appuntamento con l’Ereditiera al George Cinq. Quell’ultimo suo sguardo, a
Tessera, lo turbava ancora. Aveva voglia di telefonarle, di sentire
la sua voce e di dirle fin da quel momento che aveva deciso di
vivere insieme a lei. Ma avrebbe infranto le regole del loro gioco
e si trattenne.
La giornata non era finita. Alle sette telefonò l’Avvocato, miracolo poiché già nel periodo schiavistico da praticante il professionista viene addestrato a non telefonare mai ai clienti: tocca
sempre a loro, che hanno bisogno. Stavano scadendo i termini
per intimare i testimoni per la causa contro l’ente irriguo e l’avvocato gli chiese di inviargli gli indirizzi, controllando che fossero corretti.
Aveva appena messo sul fornello la pentola per gli spaghetti
quando lo chiamò l’Editore:
« Vorrei che tu venissi a cena domani sera, non rifiutare altrimenti in casa credono che sia successo qualcosa tra noi due.
Questa volta, mi faresti litigare con mia moglie »
« Sarebbe un’occasione... scherzo. Vengo volentieri »
« Tra l’altro, lunedì vado in ditta per qualche giorno e prima di
partire avrei bisogno di chiederti una cosa. Ancor meglio sarebbe se ci vedessimo in ufficio: domani è domenica e mia figlia è
col fidanzato, così possiamo parlare tranquilli. Senti, io sarò lì
fino dalle cinque, vieni quando vuoi e alle otto andiamo a cena ».
204
XXXI
La Cosa in Sé
Quel sabato sera decise di collaudare l’orario notturno. A certi
orarii, il Giornalista era abituato fin da quando, a dodici anni,
partecipava agli allenamenti di tennis da tavolo con una squadra
e l’allenatore, che il giorno lavorava e abitava a una quarantina
di chilometri di distanza, era presente dalle otto alle undici di
sera. Considerando qualche partita che poi giocava con gli altri,
tutti più grandi di lui, tornava a casa molto tardi. Poi, dai sedici,
diciassette, si era imbrancato con una compagnia di maturi nottambuli ed era letteralmente cresciuto di notte.
Una cosa è applicarsi fisicamente, guidare da turista anche per
mille chilometri filati, bighellonare e debosciare, altra concentrarsi e voler sgraffignare quel poco che si riesce a tirar fuori
dall’esigua porzione di materia grigia che si utilizza.
Il cervello è una gran puttana: pretende tutto dando pochissimo.
Si ciba soltanto di zucchero e ossigeno, ma esige che il resto del
corpo lo alimenti stando a dieta strettissima. Difatti, se appesantisci il fegato, cala l’attenzione e la capacità di concentrarsi.
E come tutte le puttane, declina ogni colpa e attribuisce le sue
defaillances agli altri organi, che non gli hanno mandato abbastanza ossigeno e zucchero. E se provi a reclamare o ti incazzi,
di lì a poco ti manda il sonno.
Aveva già sperimentato tè (addirittura deteinato per non superare certi livelli di adrenalina), limone e tanto zucchero quando,
per il solleone, aveva scritto quasi interamente e stampato un
giornale di grande formato in sette giorni e sette notti, dormendo un massimo di tre ore. Ma ora doveva programmare un orario per dei mesi. Due o tre sarebbero occorsi per I Tre Poli e, a
seguire, per altri lavori lasciati a metà o completati per poi finire
nel cassetto.
L’idea di riprendere certe pagine interrotte si era fatta strada di
205
pari passo con il desiderio di vivere con l’Ereditiera. Per lui tutta
la mole di carta sparsa per la casa poteva rimanere lì a stagionarsi, siccome ripeteva che i libri diventano migliori restando inediti. E non si possono pubblicare se non si ha a chi dedicarli. Lui
era come quel pittore che non può dipingere senza una modella
che si metta pazientemente in posa. Poi, attraverso di lei, gli può
venire voglia di osservare il mondo, per smontarlo e ricostruirlo
come lui lo vede.
Il Giornalista, nonostante fosse cosciente che fumando riduceva
l’ossigeno nel sangue e quindi l’ossiemoglobina di cui è tanto
ghiotto il cervello, non accettava di dover fare l’atleta. Il sabato
sera cenò normalmente e uscì un paio d’ore, lesse giornali e tentò di mettere in ordine un angolino della casa, ma fu un esercizio
inutile.
Si mise a scrivere a mezzanotte. Considerando che l’avvicinarsi
del giorno annebbia e riduce le già parve possibilità intellettuali,
si propose di arrivare fino alle sei, un’ora prima dell’alba, orario
sindacale da vampiri, pensò, e ci rise sopra.
Ebbe un paio di crisi in nottata, ma riuscì a superarle alzandosi
e affacciandosi alla finestra, facendo il caffè che, smentendo le
leggende metropolitane, serve a tutto fuorchè a tenere svegli.
È invece ottimo per accompagnarsi al fumo, con cui interagisce (unico caso in cui si può usare questo abusatissimo termine)
egregiamente.
Com’è d’obbligo procedere oggi, si diede un voto, su una scala
da uno a dieci: fu sette. Di un’unità più alta fu l’ora in cui andò
a letto.
Alle due del pomeriggio riprese conoscenza. Uscì alle quattro,
camminò senza una meta e verso le sette giunse dall’Editore.
« Pensavo che ti fossi perso. La cosa che devo chiederti è molto
delicata... » principiò l’uomo.
« Ce ne siamo dette molte di cose delicate... vai avanti »
« Riguarda mia figlia. Ha dato tutti gli esami e da anni si è inceppata alla laurea. Non si può andare a Roma e non vedere il Papa »
« Dipende… uno può giungere anche fino al Vaticano e interessarsi solo al colonnato del Bernini »
206
« Mia figlia ha molto tempo libero e io sono disposto a dargliene
ancora di più. Ho cercato di riportarla sull’argomento “università”, ma con me si chiude a riccio, è muta su tutto. Sei l’unica
persona che può farlo, ti stima molto e a te almeno darà ascolto
e dirà che intenzioni ha per il suo futuro »
« Ci proverò, troveremo l’occasione... »
« Per ultimo, last but not least, come dicono certi avvocati, il
Palazzinaro non si è più fatto sentire »
« Ti dispiace o ti preoccupa? »
« Non ci scherzare, mi preoccupa naturalmente. Non credo che
l’intervento al cuore l’abbia ipossigenato e tantomeno che soffra
di amnesie »
« Ma lo studio, o ufficio commercialistico, è aperto? »
« E come farei a chiuderlo? Attirerebbe l’attenzione sul materiale
che ben conosciamo. Ci ho riflettuto molto: ora sono passati
diversi mesi e non ho visto arrivare dati di alcun genere... qualcosa che sia da contabilizzare. Il Palazzinaro quel giorno in cui
parlammo, al Cantiere, mi disse che si vedeva settimanalmente
con mio fratello. E ora? »
« Loro hanno una copia di tutti i dati e, in questi mesi, l’amministrazione l’avranno portata avanti il Giardiniere e la Califfa. Possono fare a meno di te. Il Palazzinaro vorrebbe arruolarti perché
nessuno, che abbia traccia dei loro affari, deve uscire dal giro »
« Appunto, che trattamento posso aspettarmi? »
« Forse, la prima mossa sarebbe quella di offrirgli l’ufficio del
Commercialista... rimarcando che ti spogli di tutto quel che hai
trovato al tuo arrivo »
« Dandogli il materiale informatico o fingendo di non aver trovato niente? »
« Forse fingendo di non... »
« Mi pesa in tutti i sensi, l’ufficio di mio fratello, dove per fortuna c’è la signora che, insieme alle altre, si guadagna le spese e gli
stipendi. Io cederei volentieri tutto a loro... »
« Credo che sia meglio aspettare, darei la prelazione al palazzinaro e i dipendenti alla fine: abituati da sempre col padrone,
sarebbero più soddisfatti »
207
« Senti, a cena c’è anche il notaio di cui ti ho parlato. È un coetaneo e amico d’infanzia di mia moglie, era nostro vicino dove stavamo i primi tempi da sposati, non ho pensato a dirtelo, ieri sera.
Vive da solo pure lui, ma vedrai che è un notaio particolare »
« Speriamo, non sopporto il noumeno dei notai, e il loro universale: la “notaità” ».
Andarono fino alla macchina del Giornalista che era arrivato a
piedi, vi salirono e giunsero davanti al cancello d’ingresso insieme al notaio, tanto che furono presentati prima di entrare.
« Ciao, aviatore - gli disse la Psicologa appena lo vide - Mia nipote frequenta quel ragazzo che hai portato in volo l’altro giorno.
Dice che sei un dio »
« Si viene a sapere tutto in un paese, ma ti garantisco che ancora
a quel livello non ci ero arrivato » e risero tutti insieme.
Sui monti aveva nevicato e il fuoco del caminetto metteva ancor
più in risalto il freddo intenso. Anche (e forse di più) risaltava
il tubino rosso di cashmere che stava dieci centimetri sopra al
ginocchio della Cuginetta e sottolineava le sue forme divenute
esplosive: qualcuno diceva che avrebbero dovuto obbligarla a
girare col porto di tette e di mandolino. Questi due elementi
formavano il corpo centrale di questa S Superba.
« Che eleganza - commentò il notaio - Ma non senti freddo? »
« Dopo deve uscire - rispose per lei la padrona di casa - E a diciottanni il freddo lo sentono gli altri ».
Mentre arrivava la Segretaria con un vassoio di crostini e la padrona, rivolta al Giornalista, diceva che per lui avevano preparato un antipasto diverso (da quando era scomparsa la madre non
li aveva più voluti assaggiare: erano una sua specialità), il notaio
passò alla politica:
« Che ne pensate di quel che succede in Libia? »
« Le dittature non sono eterne » rispose l’Editore.
« Lei che ne pensa? » disse rivolto al Giornalista.
« Che la vicenda libica servirà a illuminare la situazione italiana »
« In che senso? »
« L’attacco alla Libia, condiviso dal Ministro degli Esteri, servirà
a incorniciare il baciamano del capo del governo al Raiss, atti208
rando l’attenzione sul trattato di amicizia e sugli investimenti che
l’Italia si era impegnata a fare »
« Non è certamente un uomo di destra, lei »
« Io non voto »
« Ma che, vi date del lei? - intervenne la padrona - Adesso assaggiate le lasagne e lasciate stare la politica »
Poi aggiunse: « Voi due avete in comune la passione del diritto, il
notaio ha fatto le veci di Magistrato una volta, mi pare... »
« Le piace il diritto amministrativo? » chiese il notaio al Giornalista.
« È un diritto borbonico, lo sopprimerei » rispose, guardando
l’Editore che la pensava alla stessa maniera, mentre la Segretaria
gli diceva:
« Permette? A lei piace questo pezzo… » mettendogli sul piatto
un coscio di pollo.
« Spero che le patate siano arrostite bene, non sono scottate e
poi passate in padella, usando il trucchetto degli osti, come ci hai
spiegato. Sono fatte al forno » fece la Psicologa, guardando con
aria di complicità la figlia.
« Si sente, e c’è il finocchio selvatico al punto giusto, sono cotte
bene » le disse il Giornalista a cui si rivolse ancora il notaio:
« Secondo le tue idee, la pubblica amministrazione non si dovrebbe difendere… »
« Prima di tutto dovrebbe amministrare, poi rispondere delle
proprie deficienze, e spesso delle porcherie, di fronte al giudice
naturale di ognuno di noi... senza mettersi al riparo di un diritto
fatto su misura come quello amministrativo ».
Suonarono. Era per la Cuginetta che già scodinzolava per la
stanza, giustamente annoiata da quei discorsi barbogeni.
« Quando torni? » le chiese l’Editore che, come zio, si sentiva
doppiamente responsabile, dopo la morte del fratello.
« Andiamo da Don Gilberto per la catechesi e poi dobbiamo
decidere e prepararci per il ritiro spirituale che faremo a Pasqua.
Stasera c’è anche un rinfreschino in canonica perché finisce gli
anni il campanaro… »
« Appena fatto tornerà a casa, è con ragazzi perbene. E poi c’è il
209
prete... » intervenne la Psicologa.
I tre uomini, terminata la cena, si accomodarono in poltrona per
il solito caffè e, mentre le donne rigovernavano, il discorso tornò
sulla politica:
« Secondo voi come finirà per la Libia e che ripercussioni ci saranno da noi? »
« Il governo attuale non ci guadagnerà certamente con questa
brutta vicenda » commentò l’Editore.
« Prima toccherà al dittatore libico e poi al suo amico italiano »
aggiunse il Giornalista, scuotendo la testa con aria di commiserazione.
« Non credo sia così semplice. Ci sono molteplici interessi in ballo. Mi diceva l’altro giorno un mio facoltoso cliente, che ha fatto
investimenti notevoli in Libia, che Gheddafi può contare, oltre
che su un potere e una ricchezza personali enormi, su amicizie
internazionali a tutti i livelli. Non sarà facile rovesciarlo »
« È finita per lui » ribatté il Giornalista.
« La vedi in modo superficiale, c’è gente che sa molto, ma molto
più di noi su queste cose »
« Chi, per esempio? »
« Ho appena accennato al mio cliente, ma ce ne sono altri che
io conosco e di cui, ovviamente, non posso mettermi a fare i
nomi »
« Fa’ i cognomi... » e si mise a ridere, seguito dall’Editore, non
ottenendo un analogo atteggiamento dal notaio, che non gradì
affatto: anzi, apparve visibilmente contrariato che l’aver manifestato di essere una persona introdotta fosse stato accolto con
ironia.
La padrona di casa salutò gli astanti, l’indomani le suonava presto la sveglia. La Segretaria chiese se volessero ancora un caffè, poi si sedette in poltrona ad ascoltare gli strascichi di una
conversazione che ormai era inquinata da un velato rancore di
provenienza notarile. Non si capì come il notaio riuscì a svicolare portando il discorso sul sistema finanziario, tessendo le lodi
di un commercialista o avvocato (non lo volle chiarire bene),
suo amico, che conosceva i meccanismi più reconditi del mondo
210
delle banche e della Borsa. Sciorinò dati e cifre in tale quantità
da saturare quel che rimaneva dei cervelli dei suoi interlocutori,
già abbondantemente privati di risorse, sottratte dalla digestione.
L’unica veramente sveglia era la Segretaria che, al momento dei
saluti, si avvicinò al Giornalista dicendogli che se aveva altro
materiale avrebbe potuto darglielo, dato che l’altro era pronto.
211
XXXII
Muriel
Il mattino seguente, molto presto, il cellulare del Giornalista
suonò due volte fino all’esaurimento; lui ne avvertì, forse, gli
ultimi due squilli, dato che non lo teneva in camera. Scese dal
letto e andò a cercarlo. Lo rintracciò nel corridoio, appoggiato
sul ripiano più basso di un mobile dedicato alla gastronomia e
ai ricettari. Erano le sette. Stava guardando chi aveva chiamato,
quando l’apparecchio squillò di nuovo:
« C’est la mère de Muriel »
Era la madre dell’Ereditiera.
« Bonjour, quoi de neuf... »
« Muriel... n’est plus avec nous... is no longer... »
« Da dove telefona? »
« Da Parigi »
« Ma sei la mamma di Muriel che ha casa a Vardo ? »
« Sì »
« Dimmi, dove sei nata? »
« A Boston »
« Hai una sorella in Francia? Dove sta? »
« A Vannes, in Bretagna »
« Che cosa mi ha donato Muriel per il mio ultimo compleanno? »
« Un accendino smaltato azzurro... sono la madre di Muriel, della
tua Muriel, unfortunately »
« Dammi un momento, ti richiamo io » riuscì a mala pena a spiccicare, e sbandando raggiunse il letto cadendovi a sacco.
Non poteva essere lei. trentasei anni, era sanissima, bellissima,
piena di vita e felice, ricca, innamorata.
Non poteva essere morta. Lui stava sicuramente sognando. Troppe volte aveva subito fenomeni di sonnambulismo, perfino con
deambulazione. Che cos’era, a confronto, sentire una telefonata?
E le risposte, tutte puntuali, era normale che le avesse sentite, lui
212
le conosceva. E che poteva aver avuto, erano a Venezia due mesi
fa e avevano volato e stava benissimo, bevuto e mangiato, fatto
l’amore tutta notte... doveva sentire il suo medico di fiducia per
domandargli se una donna come Muriel a trentasei anni poteva
essere morta in due mesi. Oppure era stata una cosa improvvisa, quelle da una frazione di secondo: potrebbe essere accaduto
solo così, altrimenti lo avrebbero avvertito. Era accaduto un’ora
fa o ancora non era morta, glielo stavano dicendo per prepararlo
sapendo che era condannata. Ma chi era il sapientone che aveva
fatto la diagnosi? Tentò di alzarsi, ma la testa non era pronta,
non si era fermata, era ubriaco e spossato. Non si rese conto del
tempo che rimase in quello stato di dormiveglia.
Infine andò a lavarsi, buttandosi sulla faccia più volte le due
mani colme d’acqua. Poi decise di riprendere il telefono, ma aveva paura, poteva trattarsi di un sortilegio macabro.
« Basta - disse a voce alta - Devo telefonare »
« Mi scusi signora, l’ho fatta aspettare molto? »
« Non lo so, forse dieci minuti, ma non ti preoccupare »
« Che è successo ? »
« Muriel se n’è andata tre ore fa. Stava… stava male da due
mesi... »
« Come? Perché nessuno mi ha avvertito? »
« Tante volte ho pensato di chiamarti, ma lei non ha voluto. Mi
ha dato il tuo numero ieri sera, quando ha sentito... » e la donna
non fu capace di continuare. Il suo pianto sommesso e continuo,
disperato, sembrava inondare il telefono.
« Si calmi… ci possiamo risentire fra un po’ »
« Non voleva che tu la vedessi malata... la malattia me l’ha ridotta
male in poco tempo... voleva tornare guarita da te... avevate appuntamento al George Cinq per Pasqua... ».
Il Giornalista era un vecchio cignale che ne aveva passate di tutti
i colori. Gli erano morti amici davanti agli occhi negli inevitabili
incidenti legati ai suoi mestieri di pilota, per aria e per terra, s’era
trovato in mezzo alla sparatoria dei kamikaze giapponesi a Fiumicino, s’era trovato il mitra dei Vopos in bocca... e, quanto a
dolore, aveva perso sua madre: era collaudato a vedere e sentire
213
quel freddo frustrante. Ma non servivano a niente questi scudi
di esperienza di fronte a quanto gli stava precipitando addosso.
E il peso aumentava rapidamente, a dismisura.
« Sei ancora al telefono? »
« Sì. Che devo fare? »
« Vieni su dopodomani »
« Dopodomani? Come sarebbe a dire? »
« Non vuole farsi vedere, tu la devi ricordare come l’hai conosciuta. Vuol tornare a Vardo e ce la portiamo dopodomani o il
giorno dopo. Vorremmo, io e mio marito, e Muriel per prima,
che facessimo il viaggio insieme »
«Parto oggi, richiamerò io. Giungerò per tempo a Parigi e tu mi
dirai quando sarete pronti ».
Prese la prima valigia che gli capitò, nella stanza delle valigie:
quei contenitori erano la sintesi più veritiera della sua vita. Prese
la valigetta di cuoio naturale che gli aveva regalato un amico della Eastern Airways, la portavano i piloti americani in cabina. Ci
buttò dentro qualcosa, indossò un piumino e mise in macchina
il giaccone cinese da grande freddo, acquistato a Mosca nel ‘93
per supplire a quello dimenticato a Fiumicino. Prese i soldi e
partì per Milano.
Giunse la sera stessa a Orly e doveva decidere dove alloggiare.
Era scontato, normalmente, che andasse all’Hôtel du Pas de Calais in Rue Des Saints-Pères, ma quella sera era molto diverso.
L’ultima volta c’era stato con Muriel: nella N. 59. Andò là, era
libera; la prese ma non salì in camera.
Si mosse in strada. La direzione era già nel programma di
quell’automa. Discesi i Santi Padri si trovò alla scaletta di Quai
Voltaire. Non vide neanche la massa del Louvre che aveva di
fronte, appena al di là del fiume; e anche il ponte della Concordia, dove giunse assente, fu soltanto il cantuccio che li aveva
uniti la prima volta (*). C’era un cumulo di cartoni al loro posto,
da cui spuntavano due povere scarpe e, poco più in su, un ciuffo di peli bianchi. Prima si sentì offeso da quella presenza, se
avesse avuto una pala l’avrebbe scaricata nella Senna. Poi provò
un senso di invidia animalesca per la condizione dei Clochard.
214
Il grande dolore impedisce di pensare, ogni cambio di emozione
avviene per impulsi essenziali e remoti, cavernicoli. Ora Parigi era soltanto i loro posti. Scheletrica, senza strade né selciati,
niente lampioni nè cieli sbiaditi di Mistral. Soltanto i loro posti,
dove rintracciare, ricostruire il suo volto, sentire le sue mani che
lo tiravano, «... dai, corri... attraversiamo... ci torneremo qui... ».
Emerso a Piazza della Concordia, che non vide, l’obelisco segnalò alla parte neuronale della macchina che si trovava a due
passi dalla Biblioteca Nazionale dove si erano conosciuti. Alfine sollevò lo sguardo e, spostandosi di novanta gradi a sinistra,
scansò l’Opera e la Gare de Saint-Lazare, puntando alla collina
del Sacro Cuore. Vide la sua, la loro stanza. Una terrazza sul romantico sacrario di morti famosi che ora vedeva come un crudo
cimitero.
Si mosse verso il ponte dell’Alma, svoltò a destra, poi imboccando a sinistra il grande viale si diresse verso il loro appuntamento: al Giorgio Quinto, ai Campi Elisi, a due passi dall’Arco di
Trionfo e dal Grand Circle: il sabato di Pasqua. Era in anticipo, il
Giornalista: « Stramaledetto baro che mi hai battuto senza spiegarmi le regole di questo gioco, si mise a strillare… stramaledetto bastardo che non dai rivincite... stramaledetto vigliacco che
scompari con tutto il mazzo ».
Entrò al George Cinq, ordinò Veuve Cliquot e si fece portare
due coppe. Bevve, brindò, vide il fondo, riprese la strada. Parigi
non poteva avergli fatto questo.
Camminò molto, cambiando percorso, cercando di pensare, ma
vedeva solo immagini, Saint-Cloud e la terrazza del suo amico
italiano dove arrivava il panorama della città, la panchina al Bois
de Boulogne. Si trovò a passare la Senna a Chaillot sbattendo
il muso sulla Torre Eiffel. A Champ-de-Mars lui aveva abitato nell’altro millennio... passò davanti alla Scuola Militare, poi
gl’Invalidi, Boulevard Raspail, quante volte, troppe volte l’aveva
fatto... se non avesse fatto l’amore con lei sarebbe stata ancora lì,
ma l’esserci senza amore... esserci è solo amore... la vide farneticando parole, sospiri, baci...
« Fu a Vardo e a Venezia… io non dovevo costringerla a parti215
re... la colpa è miaaa... » gridò a squarciagola; una coppietta felice
gli passò accanto e lo guardò, povero ubriaco, e sorrise... Rue des
Rennes e poi i Santi Padri, traversò Boulevard Saint-Germain,
ancora scendendo verso la Senna, non era cambiato niente tranne lui, che ora era solo... arrivò in albergo, non importa l’ora. Si
buttò vestito sul letto, senza neanche allentarsi le scarpe, e cadde
come fulminato nel sonno. Riprese coscienza dopo poco, erano
le sette, ventiquattro ore dopo l’assurdo annuncio, e chiamò la
mamma di Muriel:
« Sono a Parigi »
« Ci possiamo vedere oggi pomeriggio, dopo le quattro. Tu sai
dov’è la nostra casa, in Rue de... »
« Sì »
Si abbracciarono e piansero in assoluto silenzio. Anche il Giornalista ne aveva bisogno.
« Dov’è? » le domandò.
« A Neuilly, all’ospedale americano…dove è nata… »
« Chi c’è con lei? »
« Suo padre »
« Voglio sapere »
« Ti faccio un caffè, fuma pure, so tutto di te e delle tue abitudini. Ti conoscevo anche fisicamente, Muriel mi ha mostrato le
fotografie dei vostri viaggi e... parlava sempre di te... “lui farebbe
così, direbbe questo…”. Ti avrebbe chiamato tutti i giorni e invece stavate mesi in silenzio senza vedervi né sentirvi »
« Voi vi vedevate spesso…»
« È dipeso dai periodi. Quando sono a Boston lei non viene,
non le piace Boston. Ti devo dire cosa è successo. Muriel era
incinta e ha scoperto la malattia sottoponendosi agli esami per
la gravidanza »
« Era incinta? »
« L’ha scoperto dopo che siete stati a Venezia... »
« Perché non mi ha... »
« Voleva esserne certa prima di dirtelo, ma quando si è interrotto
il ciclo ha avuto, di lì a pochi giorni, dei grossi disturbi. Eravamo
a Vardo e siamo andate a Tromso, dove esistono un centro uni216
versitario e un ospedale efficiente. La situazione è apparsa subito
preoccupante, ma curabile. Erano stati individuati dei calcoli alla
cistifellea, ma certe analisi indicavano una forma infiammatoria
al pancreas. Mio marito ha telefonato a un grande specialista in
America che gli ha consigliato di rivolgersi all’ospedale americano di Parigi, dove abbiamo, tra l’altro, buone conoscenze. Abbiamo noleggiato un aereo e abbiamo portato Muriel qui a Parigi, i
primi di Febbraio, forse il dieci ».
Il Giornalista sentiva le parole giungergli flebili, come inviate
da lontano. Si era versato altro caffè e continuava ad accendere
sigarette, che appoggiava su un portacenere, dimenticandole e
accendendone un’altra.
« E all’ospedale americano che hanno fatto? »
« Muriel si preoccupava per il bambino e i medici le hanno detto
che la gravidanza proseguiva, ma aveva contribuito a scatenare
una pancreatite »
« Quindi è stata colpa della gravidanza? »
« No, sono stati forse i calcoli. In ogni caso, sarebbe successo
ugualmente, solo che i medici parlarono di un trapianto e Muriel
lo rifiutò in partenza poiché significava rinunciare al bambino »
« La colpa è della gravidanza »
« No, la colpa è del fatto che tutti ci hanno capito poco e che la
pancreatite non perdona: in pochi giorni... »
« Basta, ho capito, non ti torturare... ho capito ».
Andarono insieme a Neuilly. Il Giornalista attese fuori dall’ospedale, finché lei tornò col marito. Si presentarono e andarono
tutti tre a prendere qualcosa in un bistrôt non lontano.
« Ho dato disposizioni per partire domani, l’aeroplano sarà
pronto a decollare alle quattordici. Arrivo a Vardo alle diciassette » disse il babbo.
Mentre andava a prendere un taxi, il Giornalista pensò che si era
sempre sentito a casa, in quella somma di tanti borghi e di contrade che formano la capitale del mondo, benestante e gaudente,
che è Parigi. Anche a Londra si sentiva lontano. Bastava un volo
di meno di un’ora per atterrare a Le Bourget e far ritorno al proprio paese, camminare nelle proprie strade. Bastava ordinare due
217
uova al tegamino nel primo bistrôt, che non erano più eggs and
bacon, ma diventavano uova col prosciutto.
Per la prima volta (ecco un’altra prima volta) il Giornalista si sentiva estraneo a questa città. Non poteva credere che ora Parigi
volesse offrirgli qualcosa che non fosse vita. Temette la tristezza.
Nei momenti più difficili l’aveva contrastata con la rabbia, era
ricorso agli sfoghi meno dignitosi per un uomo, giungendo a
afferrare un lembo della tovaglia sparecchiando la tavola brutalmente. Ora era come se le forze lo avessero istantaneamente
abbandonato: gli mancavano anche per i gesti più scomposti e
disperati. La condanna era dover assistere.
Non poteva essere la città che gli aveva dato passione amore denaro, slanci di autentica ribellione, gioia di esistere, la stessa che
gli imponeva di subire impotente questo spettacolo: una cassa
anonima di alluminio, quasi un tubo, ripudiato perfino da una
rosa che, non trovando appoggio, era scivolata sulla scaletta; la
bara veniva caricata su un aeroplano per liquidare, con l’ignominia della sconfitta, lui e la sua donna.
Si calarono tutti tre nella coltre silenziosa dei boschi di Vardo.
Al breve viaggio verso il cimitero parteciparono la zia, giunta da
Vannes e ripartita subito dopo, e i casieri, che piansero lacrime
sincere. Poi non li disturbò più nessuno. Nessuno aveva voglia
di parlare e nessuno aveva niente da dire. Trascorsero in un silenzio di neve alcuni giorni. Il Giornalista ripercorse ogni passo
fatto con lei e passò del tempo nel piccolo camper con cui erano
andati a vedere l’aurora boreale.
Comparve il sole una mattina, entrò di prepotenza attraverso
le finestre a portare un chiarore che stavano dimenticando. La
madre di Muriel propose di andare a trovarla, avrebbero parlato
di lei davanti a lei. Nella cappella era accanto al nonno, mancava
un’immagine per renderla presente. La madre si rivolse al Giornalista:
« Muriel desiderava che ci fosse messa questa foto che le hai
scattato qui vicino nei giorni dell’ultimo dell’anno, poco più di
un anno fa »
« L’importante è che non venga ritratto io… » rispose cercando
218
di mitigare, con una piccola battuta, l’atmosfera drammatica che
permaneva.
« Lei sarebbe contenta della tua presenza, sei dappertutto... l’hai
viste le fotografie in camera sua… »
« Sembro suo nonno »
« A parte il fatto che non è vero, lei era orgogliosa di mostrarsi
con te »
« Sì, lo so, ma spesso mi divertivo a dirglielo e lei si arrabbiava »
« Lei diceva che dei due la più vecchia era lei, in ogni senso, e mi
raccontava delle sue difficoltà a tenerti dietro certe volte perché
vuoi arrivare dappertutto »
« E il figlio? »
« Voleva che avesse il tuo sangue e sareste stati insieme per quanto il destino avesse stabilito »
« Quant’è ingiusto che sia rimasto io, con il doppio dei suoi anni »
« Muriel diceva che valeva più un anno della tua vita che tutta la
sua. “Lui, in un anno - diceva - può fare un libro, portare a termine uno dei suoi progetti o inventarne un altro: noi, le persone
normali, che facciamo in un anno o in una vita? Ripetiamo le
stesse cose, sopravviviamo”, concludeva. E anch’io l’avevo capito. Era decisa a stare con te fin che tu e il destino glielo aveste
permesso »
« Avevo deciso di chiederle di vivere insieme, quando ci saremmo visti a Pasqua »
« Era ciò che desiderava. Ti voleva bene e si è preoccupata per
te fino all’ultimo momento. “Salutamelo, mamma”, sono state le
sue ultime supplicanti parole »
« E tu saresti stata soddisfatta come mamma sapendoci insieme? »
« Te l’ho detto: l’avevo capito anch’io il suo modo di sentire e la
sua felicità sarebbe stata la mia »
« Ma non avresti desiderato il principe azzurro? »
« Quello lo desiderano le mammine per solleticare sé stesse, e
non le mamme »
« Tu sei una madre. E io ora perdo colei che non sarebbe stata
una suocera: ho perso due donne »
« In questi ultimi mesi ha capito anche mio marito e ha scoperto
219
di avere una donna come figlia, nel momento in cui se n’è andata. Mi aveva confessato la paura di aver cresciuto - non avendola
allevata, si rammaricava - una bambola o, cosa ancora peggiore,
una gatta morta, perché con lui parlava a monosillabi. Adesso
soffre di non aver capito prima. E ti è riconoscente, dato che
solo grazie al suo amore per te si è reso conto di che pasta era
fatta veramente sua figlia »
« Dovrò ripartire »
« Puoi rimanere quanto vuoi, partire e tornare quando crederai »
« Non sono tuo figlio, sono più grande di te »
« Ma nemmeno un amico. Per due mesi sono stata nonna di tuo
figlio... sei un familiare... e dobbiamo parlare del Codice miniato »
« Già, il libro d’Ore, aveva ragione Muriel... quel libro è maledetto »
« So che dovevate venderlo ad un magnate australiano... se hai
degli impegni è a tua disposizione, sennò lo doneremmo alla
Biblioteca Nazionale in ricordo di Muriel, se tu sei d’accordo e
prepari una scheda. Muriel lo temeva e quindi non te lo do: era
sempre preoccupata che ti potesse accadere... »
« Ora non può accadermi più niente »
« No, non devi abbatterti in alcun modo. Negli ultimi giorni,
Muriel ripeteva che tu hai bisogno di una donna che si curi di
te, come voleva fare lei. Diceva che a pochi uomini è indispensabile la pazienza e il bene di una madre, uniti alla passione di
un’amante, per essere seguiti ogni giorno. Lei si è sinceramente
augurata, quando ha capito di non avere scampo, che tu trovassi
una donna così e sono certa che la troverai. Un’ultima cosa: per
qualsiasi bisogno di qualunque tipo, noi siamo qui ».
Il babbo di Muriel gli disse che l’avrebbe fatto accompagnare a
Milano con l’aereo, ma il Giornalista rispose di preferire il treno.
Avevano programmato, lui e Muriel, di scendere da Vardo fino
in Italia in ferrovia, dove era possibile in vagone letto, con colazione in “camera” e pranzo in carrozza ristorante. Pensò che
al George Cinq c’era andato, adesso voleva esaudire quest’altro
loro desiderio. Non aveva voglia di tornare in paese, gli sembrava di aver cambiato fisionomia e non intendeva spiegarsi con
220
nessuno. Usando il treno, qualche giorno di ritardo lo avrebbe
guadagnato.
Durante il viaggio cercò di alternare, alla lucida confusione dei
ricordi, lo scorrere del facsimile del Codice che aveva portato
con sé: preparare una scheda su quel libro era un modo di stare
ancora con Muriel.
221
XXXIII
Le Meridiane
Il Giornalista giunse a Milano al tramonto, e fece in modo di
arrivare in paese in nottata. Non voleva vedere nessuno. Sul cellulare c’erano tante chiamate, tra cui quelle dell’Editore e una
anche della Segretaria. Era scomparso da due settimane senza
dare segni o segnali di vita, un messaggio a nessuno.
Si mise, ma distrattamente, a perlustrare la casa.
Uscì due volte in dieci giorni, soltanto per andare a rifornirsi in
un supermercato a qualche chilometro dal paese.
L’archivio, motore di tutte le vicende giudiziarie, penali e civili,
era ai minimi per funzionare: gli inserti ad anelli con la loro iscrizione sul dorso, che empivano tre mensole a tutta parete nella
stanza del computer, conservavano la separazione utile a trovare
quanto serviva con una certa velocità. Invece i libri di diritto e i
codici erano mischiati, aperti e incastrati uno dentro l’altro, alle
opportune pagine, seguendo un ordine sottolineato da fogli e
post-it che erano serviti un mese e mezzo prima a svolgere un
lavoro che, praticamente, ora andava fatto tutto daccapo.
Su di un post-it di quelli rettangolari grandi, aveva appuntato che
l’argomento proseguiva in un documento appositamente messo
sul desktop del computer, ma non si leggeva il titolo poiché,
probabilmente, era finito lo spazio e il nome era stato scritto su
un altro post-it piccolo aggiunto, forse scollatosi e caduto.
Gli si accapponò la pelle al pensiero che situazioni dello stesso genere esistessero in ogni settore della “cartolibreria” in cui
aveva trasformato la casa, nell’insano intento di abbracciare lo
scibile e, contemporaneamente, portare avanti la sua variegata e
multiforme lite col mondo. Trascorse un’altra settimana in questa esplorazione, condotta da un uomo stanco e avvilito, svuotato da una morte che non gli concedeva scappatoie.
Poi, una mattina, telefonò a Slanda:
222
« Ti verrei a trovare, ho bisogno delle tue meridiane »
« Quando vuoi, mi fa piacere ».
La casa di Slanda si trovava nella parte più antica della città murata. Era la fetta, terra-tetto, di una costruzione a schiera medievale, larga come una scala con le orecchie: ossia con una stanza
di quattro per quattro a sinistra e a destra della scala, sei vani in
tutto salendo per tre piani, oltre a un fondo abbastanza grande a
pian terreno, quasi per intero trasformato in officina. Il servizio
igienico, all’origine inesistente e poi costituito a piano terra da
un licite col tappo ricavato all’interno del fondo, era divenuto
uno stanzino a sbalzo, aggettante in un orto, inventato al primo
piano tramite uno di quei tipici abusi del dopoguerra che avevano conferito a molte dignitosissime case di poveri ma orgogliosi
artigiani, il tocco di squallida improvvisazione dei contadini.
Il posto privilegiato della casa era una soffitta striminzita con
annesso abbaino che Slanda aveva dotato di un bell’infisso con
un vetro unico: nessuno sapeva, tranne il Giornalista e un nipote non troppo efficiente del padrone di casa, che lo Slanda era
anche un attento osservatore del cielo e che si era costruito un
telescopio da far invidia alla Galilei. Il Giornalista gli diceva tutte
le volte: « Te lo invidierebbe Galileo stesso ».
Si diedero una pacca sulla spalla, poi Slanda tirò fuori il fiasco
per augurarsi con un bicchiere una reciproca salute.
« Giornalista, ti vedo diverso dal tuo solito, sei giù... »
« È vero, sono un po’ a terra, per questo ho bisogno delle tue
meridiane ».
Non si vedevano spesso, anzi molto di rado negli ultimi anni, ma
sapevano tutti due che il bisogno di meridiane significava parlarsi in modo spontaneo, artigianale, perché arguto e costruttivo.
Lo Slanda parlava poco e con poca gente, soprattutto scartava
gl’impiegati “di concetto”, d’accordo in pieno col Giornalista:
sono quelli che comandano e non sanno ragionare, perfetti portaordini del padrone.
Il Giornalista applicava un criterio selettivo, ma parlava molto
sia perché temeva che i concetti non fossero mai abbastanza
chiari, sia per specchiare le sue parole e vedere che effetto faces223
sero sugli altri: ascoltava quel che dicevano ragionandoci sopra
e facendo le dovute considerazioni. Salvo però fregarsene completamente del loro parere quando si trattava di decidere.
« Slanda, m’è presa una mezza idea di andarmene per sempre.
Sono stanco e vuoto dentro… »
« Chi non produce merci è alla mercè dei mercanti, e tu non produci mai qualcosa di mercantile, quindi il vuoto l’hai intorno »
« No, lo sento dentro »
« Hai i tuoi aeroplani, i tuoi libri... e le tue donne... »
« Non ho niente in questo momento. Scrivere può servire, ma
dovrei costruire un personaggio come Il piccolo Principe e anche
Saint-Exupéry quel bambino l’ha pagato con la vita... sto lavorando a un libro troppo serio, pratico, parlo di ambiente e di
urbanistica, di politica... »
« I fatti fottono solo chi fa finta, e tu non sei un baro. Sono
sicuro che riuscirai a dare a questi fatti di cui ti occupi un volto
e una dimensione tua, originale. Se non sarà quella del Piccolo
Principe non vuol dire nulla: parlerai di suo padre, con tutti i
difetti che hanno i Re »
« Sei bravo anche con le meridiane del discorso; tuttavia, certe
volte il cervello capisce mentre il cuore è più forte e spadroneggia a suo piacimento, mettendoci sull’attenti »
« Il cuore di un aviatore è abituato a gestire accelerazioni positive
e negative, una dietro l’altra, me l’hai spiegato proprio tu. Sono
pericolose per gli altri, non per un pilota aviatore »
« Discorso logico, non fa una grinza, forse avevo bisogno che
qualcuno me lo ricordasse. Dubito però sulla mia attuale capacità di poterlo recepire »
« Senti, non mi rompere le scatole. Per me sei un punto di riferimento. Hai cominciato la vita passando sotto i ponti e non la
puoi concludere buttandoti dal loro parapetto o andando a piangerci sotto. Quello dell’uomo coraggioso è un ruolo che reciti da
cinquantanni e... »
« L’hai detto, che recito... è realmente il mio? »
« Premesso che qualcuno sotto i ponti ci deve passare, chi vorresti che lo facesse, il ragionier Buchetti? »
224
« Sei sicuro che sia necessario passarci? »
« Sono sicuro che la razionalità vada tenuta a catena dal suo contrario e non con le chiacchiere: a costo della vita è indispensabile
agire in tutte due le maniere. E poi, quello che tu hai fatto a ventanni, con il calcolo, la ragione e il coraggio, è molto più vicino
al comportamento di un piccolo principe che a quello del Re ».
Salirono in soffitta. Vedevano il paese radendo con lo sguardo i
tetti, come se le file di coppi, unite, fossero una mescola con cui
raccattare le case. Il Giornalista pensò a Talamone e al Casinò: in
Maremma, dove trentanni prima aveva abitato per due anni sulla
scogliera, aveva una stanza simile, anche se lussuosa, con il tetto
che raccattava Santo Stefano e il Giglio; al Casinò la mescola
serviva per passare il sabot ai giocatori e per smistare le fiches.
A Talamone aveva concepito un figlio, che poi aveva lasciato,
voluto far abortire... nuvola scura che si affrettò a scacciare.
« È un bel borgo... » disse il Giornalista.
« Peccato che sia abitato »
« Se è per quello, siamo rimasti in quattro gatti dentro le mura. Il
Cementicolo e l’Erbivendolo hanno esportato persone e soldi »
« Veramente l’Erbivendolo ha anche restaurato... »
« Ristrutturato, vorrai dire, manomesso a spese di Pantalone »
« E tu li hai puntualmente denunciati »
« Con quale risultato? »
« Non sta a te prendere la parte del cinico... »
« Sì, hai ragione, mi si adatta quella dell’ hidalgo... »
« Io faccio Sancho Panza? »
« Tu non hai bisogno di me, hai le tue mani con cui fai cose meravigliose... sono io che giro a vuoto »
« Mica tanto, le tue denunce non fanno il solletico, difatti non
li ho visti sorridere. Fatto sta che la gente ha paura, sta sempre
zitta e le guardie spesso non fermano i ladri »
« Il difetto di base è l’indifferenza »
« Ci metterei la pigrizia e la noia. L’ottanta o novanta per cento delle persone vive per svagarsi (dicono così), riposarsi, rilassarsi. Ecco il calcio, la formula uno, le motociclette, l’atletica, i
telequalcosa, le sagre da primavera all’autunno, i concerti fatti
225
da chiunque abbia a portata di mano un barattolo di latta e un
mazzolo per percuoterlo... tanti palii di origine medievale che nel
medioevo non si sarebbero mai sognati di fare... »
« Ma lo sport, forse... »
« Se non facessero un minestrone di tutto, servito sulla scodella
dell’insoddisfazione continua, condita di chiacchiere e cattiveria.
Ci sono dei professionisti che servono, gratuitamente, calunnie
e delazioni con lingue che tagliano e cuciono... »
« Le tue meridiane sono sempre molto utili, proverò a portare
avanti I Tre Poli. E, se ce la faccio, ti prometto che avrai la prima
copia »
« Ti prendo in parola ».
226
L’ALPE DELLA LUNA
XXXIV
Il Kilt
Il Giornalista, tentando di uscire dalla cappa in cui si trovava
e di riprendere il lavoro su I Tre Poli, cominciò col farsi sentire
dall’Editore. Chiese venia per essersi eclissato senza rispondere
neanche al telefono.
Siccome non desiderava neanche sfiorare il discorso di che cosa
fosse accaduto, si trincerò dietro un indefinito impegno che lo
aveva costretto lontano. L’Editore non si permise di approfondire, ma dal tono della voce si capì che avvertì qualcosa di molto
anomalo. Il Giornalista dovette accettare, però, l’invito a cena,
dopo essersi permesso di chiedere e aver avuto conferma di essere l’unico invitato. Non ce l’avrebbe fatta a sopportare la presenza del notaio, disse a sé stesso.
« Ben tornato - esordì la padrona di casa - Ti vedo cambiato,
assorto, lontano. Che ti è successo? È morto il gatto? ».
Domanda meno idiota, le avrebbe risposto, non potevi farla. Si
meravigliò di come una donna sensibile e intelligente come lei
fosse andata così fuori del seminato, impressione che fu sottolineata dallo sguardo critico che, stranamente, la Segretaria ardì
rivolgere alla madre. Ma la curiosità sul confine della gelosia doveva aver costretto la Psicologa a farsi sfuggire un simile comportamento. A lei sembrava che il Giornalista fosse diventato familiare al punto da dover conoscere i suoi spostamenti. Quindici
giorni di silenzio erano troppi.
«Anche lei mi ha chiamato - disse lui rivolto alla Segretaria - Immagino che abbia pronto da tempo il materiale che le passai »
« Sì, infatti, credevamo che tu ne avessi urgenza - intervenne la
madre, prima che la figlia riuscisse ad aprire bocca - Ma evidentemente non era così »
« Hai deciso di portarlo in fondo, questo lavoro? » gli chiese
l’Editore, mentre la Segretaria gli serviva i cannelloni di ricotta.
229
« Basta, grazie. Avrei deciso di concluderlo, da domani riprendo
in mano il lavoro» e aggiunse rivolto alla Segretaria: « Mi dispiace
di averle messo fretta e poi... »
« Non si preoccupi, se il lavoro è già fatto è meglio. Mi auguro
che lei ora ci si possa concentrare ».
La Cuginetta, che si era trasferita definitivamente in paese per
la scuola, faceva ormai parte della famiglia e anche quella sera,
molto elegante e ipersensualizzatasi con sapienti tocchi di trucco, appena conclusa la cena fu prelevata da uno dei suoi compagni di catechesi.
« Quando andiamo a trovare la Regina madre? » disse l’Editore
rivolto alla moglie e alla figlia, chiedendo scusa al Giornalista di
entrare in un argomento estraneo alla loro conversazione: « È
una signora che ha l’ingresso sul nostro stesso pianerottolo, nella
casa dove andiamo ogni tanto, in città »
« È vicino alla ditta? » fece il Giornalista, che era assente, tanto
per dare l’impressione di partecipare alla conversazione.
« No, è nella città intermedia, dove ho pensato qualche volta di
aprire un ufficio ma, dopo la scomparsa di mio fratello e tutti gli
impegni che sono seguiti, nemmeno parlarne ».
« Ha telefonato diverse volte, la signora; non sta bene e, dato che
ha superato da qualche tempo l’ottantina, sarebbe il caso... » si
fece sentire la Psicologa.
« Ci andate tutti ? » le fece il Giornalista, continuando a dar fiato
alla bocca con una sorta di sorprendente automatismo.
« Non lo so, decide tutto lui » e, abbassando la voce, mentre gli
si avvicinava: « Io in casa non comando niente… »
« Avete una parentela? »
« No, abitava già lì quando comprammo la casa molto tempo fa;
vive sola, è vedova... »
« Due volte vedova - aggiunse l’Editore - Andò ad abitare lei
nel nostro appartamento a quei tempi » disse indicando la figlia «Quando frequentava l’università » e non poté esimersi dal
guardare il Giornalista, quasi a ricordargli l’impegno di parlarle
proprio di quel delicato argomento.
« È una signora sveglia e gentile; per nostra figlia è come fosse
230
una nonna » concluse la padrona che, indomita, riprese a curiosare sul Giornalista.
« Non sarai mica tornato al Polo Nord, hai quella riccona lassù
e... ».
Il Giornalista, che non si aspettava questa nuova intrusione, per
di più giunta addirittura a toccare un tasto tabù, stette per alzarsi
e andarsene, poi lo colse la voglia di darle uno schiaffo, ma tutto
avvenne nel profondo. Qualcosa comunque girò nell’aria, tanto
che l’Editore fu costretto a intervenire:
« Io credo che sia l’ora di piantarla. Non hai capito o non vuoi
capire che non ha voglia di parlare, specie di queste cose? » e,
rivolto al Giornalista: « Scusala, certe volte è davvero invadente »
« Lascia stare, dipende da me che non sono in forma. Niente
Polo Nord. Ci andai quella volta per un libro, non ho concluso
niente ed è finita ».
Il Giornalista non gradiva affatto riferirsi, anche indirettamente,
a ciò che riguardava Muriel e tenne a rispondere in modo che
non si avvicinassero più certi argomenti sui suoi viaggi. Ma la
Psicologa continuava a guardarlo di sottecchi, con un sorriso da
Gioconda. Che avrà in corpo questa Psicologa, continuò a pensare tutta la sera il Giornalista, mentre la Segretaria si era alzata
di scatto, appena la madre era uscita con quella domanda. Per
poi tornare chiedendo a lui se avesse gradito il caffè.
Prima di salutarsi, la Segretaria gli consegnò il materiale, e concordarono che, appena controllato, le avrebbe dato ciò che ancora rimaneva da battere.
Il Giornalista pensò di riprendere l’orario notturno che aveva
già sperimentato e, in un paio di notti e parte del giorno, riuscì a
ritrovare il filo del lavoro. Così dette alla Segretaria il testo fino
alla conclusione, eccetto alcune didascalie delle tavole finali.
Dopo qualche giorno gli telefonò la Psicologa, dicendo che la
figlia era andata in ditta con il babbo ma che sarebbe tornata la
sera: il materiale, in parte battuto, lo aveva lei e poteva passare a
prenderlo a casa.
Ci andò verso le cinque e mezzo.
Aveva lasciato il motore della macchina acceso, pensando di pre231
levare la cartellina e andarsene. Invece la Psicologa gli chiese di
entrare in casa per controllare il materiale e dirle come andava:
lo avrebbe riferito lei alla figlia.
La faccenda andò per le lunghe e la padrona gli chiese di restare
a cena: tutto improvvisato, precisò, prosciutto e melone oltre le
solite salsicce sott’olio sempre pronte nel vaso. Quando furono
le otto e la donna lo invitò a mettersi a tavola, a lui che propose
di aspettare gli altri riferì che l’Editore e la figlia avevano cambiato programma e sarebbero tornati l’indomani, mentre la nipote
era fuori con amici e sarebbe rientrata molto tardi.
La Psicologa aveva raggiunto lo scopo di rimanere sola con lui
senza che il marito potesse limitare le domande mettendo un
argine a quel suo desiderio di sapere che aveva assunto aspetti
morbosi.
Il Giornalista avrebbe avuto bisogno di tutto in quel particolare
periodo, tranne di trovarsi al centro di un tipo di indagine “conoscitiva” di cui d’altronde era esperto: la sua vita era trascorsa
in mezzo alla curiosità, specie dell’altro sesso nei suoi confronti
e, già molto giovane, aveva cominciato a difendersi da questo
comportamento femminile che gli risultava sgradevole. Sentirsi
avvicinato e addirittura corteggiato con l’unico scopo di ficcare
il naso nelle sue rotelle, lo riduceva a puro oggetto e questa non
è certamente una sensazione piacevole per nessuno.
Quella sera la padrona di casa fece in modo che lui parlasse più
possibile, dirigendo la conversazione verso un ventaglio di argomenti attraverso poche essenziali parole, sorrisi, allusioni, atteggiamenti che rasentarono la provocazione.
La donna conservava tutte le caratteristiche della propria naturale bellezza, che col passare del tempo era riuscita a miscelare
con il fascino di una maturità sensuale e attraente. Era diventata
quella che si suol definire una sirena, capace di esercitare, non
soltanto sugli uomini, un fascino torbido e misterioso. Messa
così, si trovavano a scontrarsi due animali ugualmente pericolosi, il cui magnetismo personale poteva essere usato in modi
imprevedibili.
La Psicologa non si era cambiata per cenare, indossando capi
232
particolari, adottando la tecnica delle trasparenze o delle assenze
di vestiario (i suoi scopi erano diversi), anzi s’era coperta con
eccesso, indossando una sorta di kilt lungo, composto di due veli
sovrapposti, leggeri ma non trasparenti, fermati da una grossa
spilla. Ogni tanto, quando si alzava per le esigenze della tavola,
i due teli stentavano a sovrapporsi, facendo balenare la perfetta
rotondità delle sue cosce ancora lisce e sode. Un punto rosso
suggeriva le mutandine.
Finita la cena, lo fece accomodare in salotto, sul divano, per
prendere il caffè e, a quel punto, mentre lui si era acceso una
sigaretta, gli volle mostrare un profilo Facebook di cui avevano
parlato. Prese il portatile e gli si accomodò accanto. Lo appoggiò
equamente a metà sulle loro gambe e, dopo alcune manovre,
indicando un’immagine, spinse il computer verso di lui, con le
mani che lo sostenevano. Fu un attimo, ma con il mignolo, che
lui avvertì sul glande come un artiglio, lei gli sfiorò il membro,
constatando che la voce di lui, che aveva mutato il timbro, dipendesse da quella turgidità.
Il Giornalista, per un attimo restò paralizzato, fu sul punto di
scansare di colpo il computer, prenderle la testa e abbassarsela
sui calzoni. Invece si rischiarò la voce, si mosse dicendo un banale s’è fatto tardi e, il tempo di salutarsi, se ne andò.
Soltanto una pulsione animalesca, un lampo erotico di particolare intensità, scattato in modo equivoco e imprevisto, inaspettato,
avrebbe avuto il potere di spostare l’attenzione del Giornalista
su una donna, pieno come si trovava della morte di Muriel. Ma
lui non aveva guardato una donna: aveva subito l’aggressione di
una femmina.
233
XXXV
I Tre Poli
Il Giornalista era andato dalla Psicologa a ritirare il testo battuto
dalla Segretaria, ma quella sera se ne dimenticarono entrambi.
Era comunque finita bene, pensò giocando sulle parole, che tale
scopo non si fosse risolto in una scopata. La Psicologa la sapeva
troppo lunga per far scadere il loro rapporto ad un livello che
avrebbe impedito a lui di mantenere l’amicizia con l’Editore. Il
dubbio che avesse ipotizzato di dare il via a una tresca non gli
sembrò realistico, ma la presunzione della donna di poter correre impunemente sul filo delle mutandine pur di soddisfare la
propria curiosità, non gli piacque. Lei non aveva elementi per
giudicare il Giornalista così scorretto, avendo raccolto, invece,
prove del contrario.
Dopo quell’episodio lui, impegnato sempre a evitare che i suoi
rapporti con l’Editore divenissero casalinghi, cercò di ridurre al
minimo le visite in casa, recandosi soltanto in ufficio. Così fece
per prendere il testo de I Tre Poli, che si avviava a presentarsi
come stesura ultima.
Dal momento che iniziò la correzione definitiva, ossia quella
precedente la bozza di stampa, la Segretaria dedicò uno scaffale
con tre ripiani, situato nel suo ufficio, al materiale riguardante
quel lavoro: tanto che l’Editore disse alla figlia che ora alla casa
editrice esisteva un ufficio del Giornalista. Lei aveva poi aggiunto uno sgabello di fronte alla propria poltroncina, e il fidanzato
un giorno le domandò se l’avesse messo appositamente per “lui”
(il Giornalista), ormai divenuto una presenza fissa.
Al momento in cui la litografia gli presentò il preventivo, il Giornalista/editore ridusse drasticamente la tiratura da tremila a mille
copie risparmiando, oltre alla carta, il costoso lavoro di rilegatura: la copertina però, anziché in brossura, all’ultimo momento
fu scelta rigida, dietro consiglio dell’Editore e della Segretaria,
234
seppure rivestita di un plastichevole imitlin. Nonostante i tagli,
questa impresa lasciò la cassa del Giornalista magra e avvilita.
Il libro andò in macchina i primi di Luglio, con un caldo arroventato e umido che un tempo avrebbe fatto rizzare i capelli
al più bravo dei cromisti, specie per stampare le gradazioni del
rosso. Per fortuna che I Tre Poli, se si eccettuava la copertina, era
tutto in bianco e nero.
Il Giornalista si trovava in una litografia a otto chilometri dal
paese con la Segretaria, quando telefonò l’Architetta:
« Sei vivo? »
« Come te. Tutti due avremo avuto da fare molte altre cose… »
« Che fai di bello in questo momento? »
« Sono in tipografia a stampare il libro, avrei chiamato per dirtelo »
« Il libro sul mio progetto? »
« Il tuo progetto mi è servito come spunto. Il libro tratta del
problema dei cosiddetti Poli, riportando esempi in campo internazionale: in Italia, soprattutto, perché la parte soccombente di
questo fenomeno urbanistico è il centro storico, e noi ne abbiamo più di tutti gli altri »
« L’Italia è un enorme centro storico, quindi sarebbe impossibile,
secondo i tuoi criteri, costruire il nuovo, comunque sia » rispose
l’Architetta, scaldandosi.
« Senti, lasciamo perdere, ne abbiamo discusso abbastanza, ti
pare? Ti manderò il libro e se avrai voglia di leggerlo ne riparleremo »
« Verrò là io, siccome devo tornare a dare un’ultima occhiata al
podere per deciderne l’acquisto, che dipende anche da te »
« Non vedo che cosa c’entri io »
« Te lo dissi: “compreremo insieme opere d’arte per circondarci
di belle cose”. Mi vuoi privare dell’esperto? »
« Ho la testa da un’altra parte... »
« Ti ha accalappiato una donna? »
« Non sono mai stato tanto solo »
« Vengo a prendere il libro ».
La Segretaria era rimasta in disparte, lui si era allontanato ma lei
aveva capito – come sempre si capisce se qualcuno parla con una
235
persona di sesso diverso – che si trattava di una donna, e aveva
allungato l’orecchio cogliendo quel “non sono mai stato tanto
solo”: nel suo particolare registratore lo mise in grassetto e lo
sottolineò.
Ritornarono con la bozza della parte stampata e la sera stessa,
ognuno con la propria copia, procedettero alla correzione. Alle
tre di notte lei gli inviò via e-mail il testo accompagnato dal messaggio:
“ Ho trovato i refusi che vede. È molto interessante il contenuto,
che ho riletto con piacere. Se crede vengo in tipografia. Dalle
otto sono pronta. Buonanotte”.
In giornata andò in macchina l’altra parte del testo, uscì la prima
bozza delle tavole e la quadricromia di copertina. Fecero due
copie di tutto, lui mise il lentino sulle crocette del colore per
controllare la precisione dei registri e storse il naso.
Il litografo, con cui aveva fatto altri lavori, commentò che una
macchina in grado di accontentarlo non era stata ancora progettata, glielo dica lei signorina che la perfezione non è di questo mondo, concluse il povero stampatore. Tutti gli addetti alle
diverse macchine lo conoscevano come un rompiballe, ma lo
stimavano, trattandolo con molto rispetto.
Stavolta l’e-mail gli giunse alle quattro di mattina (il Giornalista
dormiva abitualmente poco e quando stampava per niente; non
si deve regalare un minuto delle correzioni, da eseguire finché
non ti cavano la carta di mano: quando va in giro, la creatura
deve autodifendersi).
“ Mi sembra una bella cosa. Alle tavole bisogna che guardi lei.
Sono orgogliosa di partecipare col poco che posso. Alle otto
sono pronta. Buonanotte”.
Lui le rispose:
“Grazie, mi farebbe piacere che desse un’occhiata anche suo padre”.
Il terzo giorno fu tirata la bozza completa del testo e la prima
delle tavole. Ne trovarono una corretta della quadricromia. Il
litografo, che poi era il proprietario, disse al Giornalista di averla
controllata personalmente. Aggiunse, mostrandogli la scaletta di
236
macchina, che il venerdì la macchina era occupata per un lavoretto abbastanza veloce ma che non poteva essere dirottato da
altra parte.
Mancavano due giorni. Il Giornalista era abituato a quelle minacciose pressioni dei tipografi, sempre impensieriti quando
dovevano stampare per lui a causa del numero delle bozze che
pretendeva: sia che fosse un libro che un giornale.
« Il nero su bianco ha le sue legittime pretese » ripeteva.
Loro sopportavano perché in fondo sapevano che aveva ragione, ricordando i tempi lontani in cui erano innamorati dell’arte
della stampa e non dovevano fare la busta paga per i dipendenti,
né portare moglie e figli in grande vacanza due volte l’anno, oltre
ai cinquantadue fine settimana e tutto il resto.
« Entro giovedì sera bisogna liberare davvero la macchina - disse
il Giornalista alla Segretaria mentre tornavano - Non è stato un
cane: ha accettato di riscuotere la metà dei soldi alla consegna e
l’altra sulla riscossione del venduto »
« Vedrà che mille copie andranno via alla svelta e dovrà sicuramente ristampare »
« Non lo dica, porta jella »
« Oh, mi dispiace... »
« Scherzo... ma mica tanto » e si mise a ridere.
La sera dopo gli telefonò l’Editore:
« Mia figlia mi ha obbligato, mi ha messo il tuo libro sul tavolo a
colazione, qualcosina ci ha fatto anche lei... »
« Altro che qualcosa... è stata bravissima »
« A proposito di bravure: non ti dimenticare di quel discorso
sull’università »
« Lo farò, ma devo trovare il momento... »
« Da colazione ci ho fatto pranzo col tuo libro. Mi pare una
bella opera, che avrei stampato volentieri. Mi è piaciuto molto
il sommario ragionato e l’indice analitico, dove compaiono una
quantità di nomi che rinviano a settori spesso impensabili. Ho
notato l’appendice dove riporti perfino una mappa dei furti di
beni naturali: ulivi dalla Puglia e dalla Calabria, querce dalla Toscana e dall’Umbria, scogli e sabbia dalle isole, il cono dei trulli...
237
tutta roba venduta a peso d’oro... Le pagine sono aumentate rispetto a quelle che avevi previsto, e poi quante tavole. È un libro
da studiare »
« Sarà un bel mattone… »
« Ma li tieni svegli, i lettori. L’ha scorso anche mia moglie e ti abbiamo segnato alcuni punti dove vai giù molto pesante... nell’introduzione, ad esempio, a pagina 30, quel discorso che comincia
con “Soltanto un’Italia fascista, monarchica e papalina poteva
preparare il terreno a una corruzione così capillare, di cui sta
facendo le spese... ” e poi, concluso il discorso generale, fai una
serie di nomi e cognomi che fa rabbrividire. Non sono entrato
nel merito del discorso tecnico-urbanistico che illustri con dovizia di dati e di tavole, ma più scorri il libro e più... ci devi aver
lavorato molto... “È il libro di un pazzo scatenato”, ha detto mia
moglie, e la cosa più pazza è che lo scrivi in modo che lo possano
capire tutti, elemento molto scomodo per i corruttori... »
« Grazie, la pre-recensione è ottima ».
Giovedì sera, 7 Luglio, il libro era stampato e passò, accompagnato da un grosso sospiro di sollievo del litografo, in legatoria.
Il Giornalista aveva portato due bottiglie di Veuve Clicquot e
bevve coi tipografi, come faceva sempre a fine stampa.
« Abbiamo cominciato a stampare di lunedì e concluso con il
primo quarto di luna, che sorge stanotte » pensò ad alta voce
mentre guidava, tornando a casa in macchina.
« Lei guarda a queste cose? »
« Sono loro che guardano noi ».
238
XXXVI
Confidenze
Il Giornalista decise di mantenere la promessa fatta all’Editore.
Sapendo che era andato in ditta da solo e sarebbe tornato nel
pomeriggio, si recò all’ufficio. Già di primo mattino il sole dava
una sensazione di caldo e chiese alla Segretaria di poter uscire sul
terrazzino della sua stanza per fumare, evitando di offendere le
narici dell’Editore, che riusciva a sentirne il puzzo (secondo lui)
a giorni di distanza. Stando appoggiato, di spalle, alla ringhiera
del terrazzino, si rivolse a lei, che gli si mise di fronte in piedi a
un metro dalla portafinestra:
« Non ho mai capito se ha completato l’università ».
La Segretaria lo guardò tra sorpresa e contrariata, arrossì visibilmente, si mise a sedere, accostando la sediola della scrivania.
« Solo lei può permettersi di farmi una domanda del genere... è
un argomento che non sopporto... »
« Le chiedo scusa e me ne vado » e, detto fatto, lanciò il mozzicone nel cortile sottostante, traversando la stanza per uscire.
« Aspetti, ho detto che solo lei può entrare in questo argomento.
Mi sono fermata anni fa e non ho discusso la tesi… »
« Ha scelto la carriera domestica? Si sposa e manda avanti la
casa… mica male per una donna »
La Segretaria si rasserenò, cominciando a parlare con quel tono
sommesso che le era naturale, o che col tempo era divenuto il
suo modo di esprimersi:
« Ho abitato, durante il periodo dell’università, nell’appartamento di cui parlavano i miei, quando è stato l’ultima volta a cena.
Entravo dalla porta di fronte a quella dove sta la signora a cui i
miei si sono riferiti come “Regina madre” e “Vice nonna” »
« Ma lei studiava, dal momento che gli esami li ha dati »
« Mi sentivo parcheggiata in quella casa, allontanata dal paese
perché la famiglia aveva ben altro a cui pensare »
239
« In paese non c’è l’università, era normale che stesse lì dove
stava »
« Ma non tornavo mai, praticamente nessuno mi veniva a trovare
e si interessava di me. Ci vedevamo per la contabilità mensile e si
parlava di quella e poco più »
« Mi meraviglia: come mai questo tipo di rapporto? »
« La mia e la famiglia di mio zio, un tutt’uno per come erano
legati i due fratelli, in quel periodo hanno vissuto nella tragedia,
a causa delle figlie più grandi. Prima mia sorella, quella che il
babbo chiama “la Monaca”, poi mia Cugina, hanno combinato
diversi guai per via di amori sfortunati »
« Ma lei che c’entra con loro? »
« Infatti, non ci sono entrata… ma non sono neanche entrata
negli interessi di nessuno, presi com’erano dalle vicende delle
altre due. Mia sorella ha abortito, ha tentato di farsi del male e
poi è scappata con una specie di santone, un appartenente agli
Hare Krishna, o un frate laico, non ho mai saputo bene… ecco
perché il babbo la chiamò Monaca e quel nome le è rimasto; mia
Cugina invece ha partorito una bambina, concepita con il suo
fornitore di coca. Mio padre e mio zio erano fuori di testa per
queste situazioni che li assorbivano totalmente »
« Credo che abbiano cercato di tenerla lontano da questa situazione spiacevole »
« Ho cercato di pensare a un motivo del genere, ma molto più
tardi, per leccarmi le ferite. Allora però ero sola e mi sentivo
abbandonata. Mi ero messa a risparmiare sul cibo per fumare,
e fumavo parecchio. Sì, studiavo, ma non bastava per empire le
giornate »
« Lei ha fumato? Che cosa? Non ce la vedo… »
« Sigarette, come le sue; poi ho smesso, ma non perché non mi
piacesse… »
« Perché? »
« Per esercitare la mia volontà: dovevo lasciare un ragazzo di cui
ero innamorata, ma non piaceva a mia madre; così, prima smisi
di fumare e poi lasciai lui »
« Sono esterrefatto, oggi è di gran moda dire “rimango basito”,
240
ma non ci doveva mica andare la mamma col suo ragazzo »
« Lo so, ma mia madre lo faceva per il mio bene, lei è l’unica che
mi ha un po’ seguito e mi ha compreso »
« Non credo, visto come tratta i suoi sentimenti »
« Lo fa per me »
« E poi che altro faceva a quei tempi? »
« Frequentavo un uomo, un trentacinquenne, con cui andavo
al mare tutti i fine settimana… i miei non l’hanno mai saputo »
« Anche adesso va al mare nei fine settimana, nella casa che avete, col suo fidanzato… me l’ha detto suo padre »
« Ultimamente no, lui gioca a palla al cesto e mia madre ha piacere che vada da mia zia, che spesso viene a prendermi. Ho conosciuto un uomo, un antiquario, che abita a Roma, una sera sono
andata da lui in treno. D’accordo con la figlia del compagno di
mia zia, abbiamo inventato che andavamo a dormire da un’amica… »
« E il suo fidanzato? »
« Gioca a palla al cesto, e a mia madre non piace… »
« Dopo sette, otto anni di fidanzamento? »
« Ha cominciato ultimamente a criticarlo… »
« L’Editore che pensa di questa situazione? »
« Il babbo non mi comprende, lui dà ordini e pretende obbedienza »
« Io sono convinto che tra voi galleggi un grosso equivoco… »
disse il Giornalista.
La Segretaria aveva rotto il ghiaccio e sembrò contenta di essersi
confidata, ma solo perché si trattava dell’uomo con cui voleva
comunicare. Il Giornalista non venne sfiorato dal pensiero che
lei stesse cercando un modo qualsiasi per stabilire un contatto
meno formale con lui, altrimenti si sarebbe comportato diversamente, non lontano da come aveva fatto con la madre di lei.
Le situazioni erano diverse sotto molti aspetti, ma le componenti che spingevano le due donne ad avvicinarlo, se non si assomigliavano avevano in comune una curiosità di tipo eterosessuale.
Fu così che il Giornalista chiamò l’Editore per dargli la buona
notizia di aver parlato con la figlia. Si videro nel tardo pomerig241
gio di quello stesso giorno.
« Allora ce l’hai fatta » cominciò l’Editore.
« Non ho fatto niente, ancora. La strada è a dir poco in salita.
Tua figlia ce l’ha con voi e soprattutto con te. Forse non discusse
la tesi per farti dispetto, per attirare la tua attenzione: si sentiva
abbandonata »
« E di riprendere lo studio e... »
« Come corri… Non abbiamo neanche toccato il presente, siamo al preliminare: non mi ha detto perché si inceppò. Devo
ammettere che non sono portato al gioco degli strizzacervelli, a
cui non credo: è roba che farebbero loro. I guai sono sorti, certamente, molti anni fa in casa »
« Su questo non ci piove... quel serpente a sonagli di mia suocera
prima le fece di tutte per mettermi contro quella più grande e
poi la più piccola. Perché, caro Giornalista, le colpe in casa sono
sempre del babbo che pretende questo e quest’altro, che non
capisce le esigenze di una ragazza... »
« Hai usato la parola giusta, “pretendere”... l’ho sentita stamattina »
« Ma che vuoi che io abbia preteso? Il lavoro mi ha lasciato sì e
no il tempo per pisciare e spesso, tornando tranquillo per il fatto
che alle figlie pensavano le adulte, ho trovato delle sorprese orribili. Poi a rimediare ci deve pensare quello con i pantaloni, e lo
pretendono le adulte: “sei tu l’uomo” ti dicono, e così diventi il
cerbero. Storie vecchie, conosciute ma poco considerate »
« Pensa, mi apri la porta di un mondo che non ho mai osservato e che a prima vista, però, sento che determina il carattere
delle persone... sono stato sempre totalmente distratto dalle mie
cose... »
« Quel serpente a sonagli... che dovevo fare? O salvavo la facciata o dovevo rifare la casa dalle fondamenta. Hai un debito
con chi ti ha dato due belle figlie che da piccole sono un amore
e ci giochi. Magari fanno più capricci le adulte che le bambine,
ma metti tutto nel pacco e sopporti con naturale comprensione.
Quando, passati quattordici o quindici anni, capitano i primi dolori, che fai? Le butti tutte quante dalla finestra? »
242
« Mi fa paura affacciarmi a questa finestra, io che non ho mai
provato le vertigini. Me le vuoi far provare adesso, da vecchio? »
« Un aviatore come te... »
« Appunto ».
L’Editore aveva appena cominciato, sentiva proprio il bisogno
di sfogarsi. E interrompere qualcuno che ha iniziato a vomitare
fiele è veramente un’impresa.
Al Giornalista, proteso a quel traguardo, venne in mente lo scherzo fatto a un fotografo che aveva portato in volo, per scattare
immagini dopo il terremoto in Umbria: gli aveva raccomandato
di prendersi dei brevi intervalli tra una serie di scatti e i successivi, poiché volteggiavano già da un paio d’ore e l’accelerazione
intossica, il primo a cedere è lo stomaco. “Io sono abituato, non
mi fa niente” e altre sbruffonerie, gli rispose. Quando furono in
vista dell’aeroporto, ma con ancora i tempi tecnici da rispettare
per l’atterraggio, il Giornalista, come ogni buon pilota sempre
attento alle condizioni di chi trasporta, vide che il fotografo aveva cambiato colore e strabuzzava gli occhi. Aveva notato che il
fotografo indossava un maglione molto lungo. Stette pronto e,
al momento in cui dischiuse la bocca in modo inequivocabile,
tenne la cloche ferma con le gambe mentre, con entrambe le
mani, gli tirò su il maglione e glielo legò sopra la testa, a mo’ di
uovo pasquale.
Quale poteva essere una manovra equivalente da eseguire sull’Editore? Forse tirargli su la divisa da timorato borghese che nessuno gli aveva imposto di infilarsi, tanto tempo fa, costringendolo
a sentire che tanfo ributtante hanno le squisite cibarie ingoiate
quando, invece che lasciate trasformare naturalmente, ci tornano
in faccia per un nostro volontario attacco di presunzione?
« Lo rifaresti? Ameresti ancora tanto la vecchia facciata da tenere
in piedi la casa a tutti i costi? » buttò sul piatto il Giornalista.
« Ci penserei dieci volte e non lo darei per scontato, come ho
fatto finora »
« È già un passo avanti »
« Non è giusto che il babbo debba essere il cerbero e la mamma
la cagnetta che lecca amorevolmente i suoi cuccioli. Vedi qual è
243
il risultato? I cuccioli non sono cresciuti bene, il babbo è soltanto
temuto, le adulte continuano a fare le bambine e non si risolve
niente: un giorno ti trovi in un asilo, con dentro persone invecchiate, con le quali non puoi più nemmeno giocare »
« Quanto ha inciso sulla tua vita? »
« Parecchio: una rabbia che mi porterò dietro fino alla tomba.
Una rabbia non costruttiva, che non conduce alle rivolte e alle
rivoluzioni. Una rabbia che diventa pece e ti fa una pania intorno, a piramide: ti trovi dentro un trullo appiccicoso. E il lavoro,
l’impegno, i progetti, anziché qualcosa da condividere per gioire
diventano un’alternativa, una via di fuga alla rabbia e alla disonorevole rassegnazione… »
« “Rassegnazione” è una parola complessa per un cattolico praticante »
« Facciamolo un’altra volta questo discorso, è lungo per me da
spiegare. Io ero un socialista fin da ragazzo, laico... poi... lasciamo stare... Guarda piuttosto mio fratello: si è scoperto che non
era certo un impiegato, eppure ne ha passate come e più di me
con la mia cognatina, considerando poi che la suocera era un angelo, a confronto del serpente a sonagli che ho tenuto in casa io »
« Non può essere che esageri, fermo restando una ragione di
fondo? »
« Può darsi, ma l’ambiente, che ora conosci abbastanza, non mi
sconfessa »
« La Monaca non la conosco, ma questa più piccola mi sembra
diversa, servizievole, capace, sensibile... »
« Sì, le sono molto affezionato, è sempre disponibile e ho con lei
quel debito di averla trascurata a suo tempo, ma le adulte sono
riuscite a nuocerle lo stesso, addestrandola a fare la gatta morta »
« Vacci piano, così la maltratti »
« Ma ha sufficiente intelligenza per difendersi da quell’animale,
credo ».
Era tardi, suonò il cellulare del Giornalista, ci vediamo si dissero
toccandosi le mani. Spinse il bottone e vide che era l’Architetta:
« Ho letto il libro che mi hai mandato. Non ti ringrazio… è
veleno puro e le tue accuse non consentono alcuna smentita, an244
che parziale: hai documentato ogni parola che comunque avresti
potuto mitigare »
« L’osservazione più banale è che se mitigassi non sarei più io… »
« Verissimo, ma che dovrei dire a chi addita la razza di mio padre
come la materializzazione del male? »
« Non sono la persona adatta a risponderti » .
245
XXXVII
Screzi
Il Giornalista non poté esimersi dal partecipare alla cena sotto
i ciliegi sfioriti ma generosi di frescura, che fu organizzata per
brindare a I Tre Poli, a cui aveva dato man forte la Segretaria e
che tutti in casa avevano scorso, segnalando refusi e pericolose
punte avvelenate. In un caso era stata sostituita la parola “ladro”
con “furbo”, ma l’autore aveva messo accanto, tra parentesi, “da
fur, furis = ladro”.
C’era anche il notaio che si presentò, in mezzo agli altri in maglietta, con un vestito bianco di lino, camicia azzurra e cravatta
blu a pois, seguito da un alone di profumo. Si rivolse subito al
Giornalista, con ironica baldanza:
« Ho visto il suo libro e ritengo che ce la metta tutta per andare
dritto in galera »
« Verrà lei a tirarmi fuori? »
« Ne sarei capace, ma non credo che lo farei, bisogna lasciar
campare la gente per poter campare anche noi »
« Infatti se non fossimo costretti a scendere fino a certi compromessi, i notari non esisterebbero più da un pezzo »
La Psicologa intervenne a sproposito dicendo:
« Ma come, vi date ancora del lei? »
« Forse il notaro preferirebbe che fossimo costretti a darci del
voi » fece il Giornalista.
Avvertita la pericolosa piega del discorso, l’Editore prese l’iniziativa, facendo saltare un tappo e mettendo in mano al notaio una
coppa di champagne ingiungendogli, in modo apparentemente
scherzoso ma perentorio:
« Stasera si brinda a questo libro, ti ho invitato apposta. Le recensioni spetteranno ai critici di mestiere e, se ci dovessero essere
strascichi giudiziari, li affronteremo. Ora siamo qui per brindare
e salutarci, prima di partire per le vacanze ».
246
Il notaio capì che non gli rimaneva che sorridere o andarsene:
guardò la sua amica Psicologa e scelse la prima soluzione. A
sventare ogni possibile ritorno rissoso ci pensò il tornitore, detto
Ricciolo (appunto per i ricci di metallo che fa l’utensile quando
lavora il materiale), un amico d’infanzia dell’Editore:
« L’ho avuto anch’io il tuo libro e mi sono divertito. Non posso
seguirti nei discorsi difficili sui piani regolatori e sui criteri urbanistici, di cui parli in termini tecnici, ma quando hai detto le cose
sul muso a quei signori politici che ci governano, ho provato una
gran soddisfazione. So che siete molto amici tu e Slanda, che
viene da me, ogni tanto, per fare i suoi lavoretti: siete i meglio,
voi due »
« Dato che ne parli, dopo cena, quando usciamo, ti do una copia
del libro per Slanda: gliel’avevo promessa e mi faresti un piacere
a portargliela ».
È passato un altro anno, pensò il Giornalista, sentendo la Segretaria che diceva alla madre di un vestito da mettere in valigia per
la partenza. Era preoccupata per i suoi timpani delicati perché
non aveva mai volato e la scelta dell’aeroplano per andare in vacanza col fidanzato l’aveva comunque fatta per provare la novità.
La cuginetta, per la prima volta (*), partiva da sola: l’aspettava
un’imprecisata comitiva a Canazei.
Il Giornalista, che voleva ringraziare la Segretaria per il suo lavoro, la seguì quando dalla tavola in giardino stava dirigendosi
in casa: « Metta questo in valigia » e le porse un pacchetto. Lei,
sorridendogli sorpresa, lo aprì e vide una macchina fotografica
compatta, una Olympus...
Ne aveva comprate due, una per lei che aveva un gusto spiccato
per le inquadrature, come si era reso conto vedendola lavorare
e parlandoci durante la redazione del libro, e una per sé [con cui
un giorno avrebbe fotografato lei].
Per il secondo anno partirono tutti per le vacanze e il Giornalista
rimase in paese. Era normale, diceva lui, i vagabondi devono
lavorare il Primo Maggio e per Ferragosto.Niente ferie per loro.
Fu per lui l’estate delle ri-esplorazioni solitarie dei crinali dell’Alpe e dei liberi pensieri alla Buca del Pero. Una giornata per il
247
traversone da Bocca Trabaria al Passo di Viamaggio e un’altra,
sul tragitto quasi perpendicolare, da Montelabreve alla Spinella.
Viaggiò per fonti e grotte, in cerca di leggende e di testimonianze del passato, lasciando che il tempo gli scorresse addosso senza lancette e scadenze, che purtroppo si sarebbero ripresentate
lampeggianti al ritorno in paese.
Gli mancava Muriel, la sua assenza diveniva spesso lancinante. Il
tempo sfumava, come un antidepressivo, i contorni del dolore,
ma i luoghi dove lui aveva pensato di portarla mostravano il perimetro della sua immagine vuota.
E pensare che si erano incontrati cinque volte in un anno e mezzo, senza mai sentirsi o inviarsi un solo messaggio. Ora che non
c’era, quell’idea che aveva avuto di viverci insieme gli faceva sentire l’assurdità di essersi lasciati separare da intervalli così lunghi.
Sapeva, il giocatore, che ogni partita si svolge su percorsi previsti
sulle mappe dei giochi e si conclude con tre possibili esiti: vinci,
pareggi o perdi. L’unica differenza con le partite della vita verteva sul pareggio, che non era mai riuscito a individuare; forse
era costituito dall’oblio, ecco perché gli antichi si erano costruiti
il mito del fiume Lete. I seguaci di Pitagora sconsigliavano di
bagnarsi nella sua acqua, dato che sulla memoria si baserebbe
la saggezza, ma l’amore degli amanti è sempre stato estraneo a
questa noiosa virtù.
Perché la grande esperienza che lui aveva accumulato, misurandosi con le logiche di tutti i giochi, non gli permetteva di accettare la perdita di Muriel, considerandola una delle tre conclusioni
esistenti di tutto ciò che ha una dinamica e quindi di tutto ciò che
è vita? Perché rischiava di provare un sentimento di sfortuna che
costituisce la negazione del gioco?
L’inutilità di cercare spiegazioni e il bisogno di qualcosa di pratico da portare a termine servirono a mettere in cantiere la scheda
per il libro d’Ore di Muriel che ora, cedendo alle lusinghe dell’oblio, avrebbe dovuto maledire perché era stato l’occasione del
loro incontro. Invece riuscì a mettersi al lavoro come se accanto
a lui ci fosse stata lei, con cui lo aveva sfogliato, ammirando
l’esecuzione di ogni singola miniatura. Si soffermò sulla pagina
248
del presepio, ricordando che le aveva fatto osservare come il
linguaggio dei miniatori desse a quel soggetto un carattere di
spontaneità che alle tavole e alle tele, destinate a un ruolo di rappresentanza, era estraneo.
La scheda, di una ventina di pagine, su quel libro che conosceva
ormai a memoria, fu la medicina per gli attacchi di sgomento che
lo accompagnarono, a singhiozzo, per il mese di Agosto.
Telefonò alla mamma di Muriel:
« Signora, l’ho chiamata per avvertirla che la scheda è pronta... »
« Mi sembra che ci siamo dati del tu... »
« Scusami, tua figlia non manca solo a te, non mi trovo in gran
forma. Ti spedirò la scheda tra qualche giorno »
« Noi pensavamo che fosse un’occasione per rivederci »
« Ho molti problemi, ma in primo luogo non me la sento di ritornare nei posti dove sono stato con... » e la sua voce s’impastò.
Seguì il silenzio.
« Comprendo. Io e mio marito avremmo bisogno di parlarti.
Vorremmo che tu ci considerassi di famiglia, permettendoci di
darti una mano. Muriel mi diceva che sei in guerra col mondo e
c’est l’argent qui fait la guerre »
« Ringrazia anche tuo marito, ma per ora le cose materiali mi
vanno bene. Insieme alla scheda ti manderò un libro che ho appena stampato ».
Salutandola, sperò di essere stato convincente sulla questione
economica e, su quel punto, appena tolse dall’orecchio il cellulare, si trovò a riflettere.
A parte il fatto che era rimasto con quattro soldi e navigava già
in piccoli debiti, nel tempo non si era fatto alcuno scrupolo ad
accettare aiuto dalle donne con cui aveva vissuto, ma non l’aveva
mai accettato da quelle ricche. Le povere condividono e possono
essere ripagate, mentre le ricche, anche senza volerlo, ti comprano. I ricchi pensano a una cosa e, soprapensiero, imbracciano la
carta di credito.
249
XXXVIII
L’Esplosione
A due anni dalla tragedia, la baita, o capanna come la chiamavano
in casa, scomparve. L’Editore chiamò il Giornalista:
« Si è incendiata la capanna, forse un fulmine. Non c’è più… »
« Quando? Chi te l’ha detto? »
« Si sono fatti sentire dal commissariato, vogliono che vada nei
loro uffici. Parto domattina »
« Fammi sapere, in bocca al lupo ».
I tecnici stabilirono che la Capanna era stata fatta saltare con la
dinamite, siglando l’azione in modo inequivocabilmente mafioso.
D’un tratto, il luogo del misterioso avvelenamento ridiventava
protagonista.
Il Commissario si fece da capo, riaprendo in gran segreto un’istruttoria. Cominciò parlando con tutti gli agenti che allora intervennero sul luogo, poi con il medico e l’infermiera, e con il
responsabile dell’esame autoptico. Più tardi sentì il proprietario e
infine i componenti della famiglia delle due vittime.
L’elemento che avrebbe dato sviluppi alla vicenda emerse semplicemente dal colloquio del Commissario con il Maresciallo dei
carabinieri che intervenne per primo sul posto.
Il Maresciallo, invitato a ripercorrere con pignoleria tutto ciò che
aveva visto, trovato, ascoltato e saputo dai presenti quel giorno,
arrivò al punto in cui la nonna delle ragazze parlò della cena di
compleanno della sorella maggiore che, proprio quella sera, era
partita per un viaggio.
Tornando alla cena, il Maresciallo si ricordò che la nonna, a cui
aveva domandato che rapporti ci fossero tra le due sorelle, gli
aveva risposto che, diversamente da quelli esistenti tra il padre e
la figlia maggiore, le due ragazze erano molto legate. Per dimostrare quanto queste si volessero bene, la signora aveva riferito al
Maresciallo che la più piccola aveva fatto stampare apposta un
250
foulard di seta con la fotografia della sorella che la teneva in braccio quando lei era piccolissima. Aveva regalato questo foulard alla
festeggiata quella sera, poco prima di servire la torta.
Il Commissario fermò il Maresciallo:
« È sicuro del racconto che le fece la signora? »
« Sì, certissimo, signor Commissario ».
Dopo l’avvenuta esplosione, quest’ultimo si era rifatto da capo,
osservando con la lente anche una cacatina di mosca.
Quell’insignificante oggetto, alla luce del racconto del Maresciallo, era divenuto la prima traccia concreta da seguire. Nel verbale
redatto dalla Scientifica si parlava di un foulard trovato nella tasca
di un accappatoio nel bagno della Baita, ma non vi compariva
nessuna ulteriore descrizione. Il luogo di ritrovamento era insolito, ma non determinante.
Il Commissario si mise immediatamente in contatto con la Scientifica; questa gli rimise una fotografia del reperto che confermarono essere di seta, serigrafato.
Appena vista la fotografia, constatato che l’immagine era di una
ragazza con in braccio una neonata, cominciò a sentire gli interessati. Per primo l’Editore, che era il proprietario della baita,
essendone l’erede.
« Quando è stato per l’ultima volta alla Baita? »
« Mai, dopo i fatti. Ci ho pensato tante volte, ma non me la sono
sentita »
« Le risulta che altri ci siano andati? »
« No »
« Ha lei la chiave? »
« Veramente la chiave è sempre stata nascosta sotto un ceppo,
vicino alle fascine del forno, che è all’esterno. Era più comodo
per tutti noi e non rischiavamo, com’è successo i primi tempi, di
giungere lassù e trovarci fuori di casa per essersi dimenticati la
chiave »
« Lei era alla cena di compleanno di sua nipote mercoledì 7 Ottobre 2009?»
« No, ero partito da poco dalla città e vi sono tornato il giorno
dopo l’incidente, ossia il martedì »
251
« Martedì 13 Ottobre 2009? »
« Il martedì, il giorno dopo. Io e mia moglie arrivammo al mattino, verso le dieci »
« Lei sa che regalo fece la sua nipote più piccola alla sorella, la sera
del suo compleanno? E se sì ce lo descriva ».
« Non ne so niente »
« Lei ha dei nemici? »
« Che io sappia, no »
« Ci pensi bene, c’è qualcuno che le ha chiesto qualcosa e gliel’ha
rifiutata, denaro o... un favore... »
« Perché mi fa queste domande? »
« È la prassi in certi casi; non si può escludere che l’incendio sia
doloso o che ci siano altre cause che hanno determinato la distruzione della Baita »
« Per esempio ? »
« Un’esplosione da gas. Ci pensi bene, non ha ricevuto una telefonata, un biglietto, un messaggio anche attraverso una terza
persona, riconducibile a una minaccia? »
« No, Commissario. Ma l’hanno fatta esplodere? Devo preoccuparmi? »
« Stia tranquillo, da questo momento sorveglieremo noi la situazione, ma lei ci segnali anche la più piccola cosa anomala che le
dovesse accadere, ci teniamo in contatto. Prego, può andare ».
Poi il Commissario chiamò il Maresciallo dei carabinieri:
« Devo interrogare la famiglia del Commercialista e quindi vanno convocati i componenti, anzi le componenti poiché sono tre
donne. Sarebbe opportuno che espletasse lei questo incarico perché già la conoscono, soprattutto la ricorderà la nonna delle due
ragazze, dato che foste una giornata insieme e parlaste a lungo.
Mi raccomando: devono stare tranquille, Maresciallo, le faccia venire qui dicendogli che si tratta di una pura formalità, ma devono
venire tutte tre insieme, in modo che nessuna possa parlare con
l’altra prima del proprio interrogatorio »
« Posso prendere una macchina senza i segni di riconoscimento,
con un agente in borghese e condurle qui direttamente »
« Veda lei, l’importante è che non si allarmino e che vengano
252
tutte e tre insieme. Le convochi, dopo quello che è successo è
normale »
« C’è un problema, Dottore: la ragazza più giovane non abita più
in città, sta al paese, in casa con lo zio »
« Segua l’iter che riterrà più consono alle nostre esigenze e andrà
bene ».
Il Maresciallo si attivò immediatamente e, per prima cosa, si recò
a casa della famiglia del Commercialista. La signora, che era già
informata (la notizia comparve anche in cronaca: Scompare la baita
dei coniugi morti avvelenati due anni fa: un incidente?), disse che poteva
presentarsi lei per il momento, perché la nipote più grande era
fuori città. Il Maresciallo concluse la visita dicendo che non c’era
alcuna fretta e che avrebbero atteso il ritorno della nipote.
Intanto l’Editore aveva chiamato il Giornalista, per comunicargli
che stava tornando in paese e che voleva incontrarlo.
Si videro nel bar di un paese vicino, dato che il Giornalista era in
movimento e quella località era di strada per tutti due.
« Come mai questa urgenza? » chiese il Giornalista.
« Ecco: guarda il giornale che mi ha messo da parte la signora
dell’ufficio di mio fratello. Anche i cronisti dubitano che sia stato
un incidente »
« Loro lo fanno per mestiere, suggerire certi dubbi, sperano sempre che le cose si tingano di giallo: il nero e il giallo, che poi vanno
insieme, sono le tinte più richieste e più vendibili »
« Sarà, ma il Commissario mi ha messo in subbuglio con domande e allusioni. Non è stato affatto un incidente... no di certo »
« Il Palazzinaro? Non vorrei che fosse stato o avesse contribuito il
mio libro: I Tre Poli hanno messo in vetrina i suoi affari... »
« Ci ho pensato per tutta la strada. Non al tuo libro che potrebbe,
adesso che lo dici, aver svegliato il can che dorme. Ho pensato al
lungo silenzio del Palazzinaro, di cui abbiamo parlato più volte.
Un silenzio che alla fine si interrompe con un preciso avvertimento »
« Non può essere scartata questa ipotesi »
« Che si fa? »
« Si aspetta, come il più delle volte siamo costretti a fare nella vita ».
253
XXXIX
Un Modello
I commercianti accendevano il Natale un’altra volta, con largo
anticipo. Stavano sovrapponendo la commemorazione novembrina dei defunti con la festa per la nascita di Gesù. L’avvicinare
questi due eventi, diametralmente opposti, rendeva concreto il
noto aforisma secondo cui l’uomo è un pacco consegnato dalla
levatrice al becchino. A differenza che Gesù non sarebbe morto
perché la carne è mortale, ma essendo stato concepito appositamente per morire. Chi anticipava la festa non era affetto da
questo genere di complicazioni intellettuali: era costretto a farlo
perché commercio e confusione fanno pariglia.
La notizia del giorno in casa dell’Editore fu che la figliola aveva
piantato il fidanzato, che da un mese non si dava pace, tentando
in ogni modo di ricucire un rapporto durato quasi dieci anni.
La madre della Segretaria, che si era mostrata comprensiva con
lui promettendogli i suoi buoni uffici, aveva invece avvertito subito la sorella, poiché ora non c’era più bisogno che la figlia si
recasse a trovarla con la scusa di andare a far visita alla sua, con
cui erano diventate amiche. Ora, la figliola poteva tornare sul
mercato dei flirt e dei fidanzamenti in modo ufficiale e legittimo:
trovando magari un buon partito, ma soprattutto riprendendo a
fare quei giochetti che alimentavano le chiacchiere familiari quotidiane movimentando una vita piatta e monotona.
Le due sorelle, madre e Zia, facevano i conti senza l’oste. La
Segretaria si era svegliata e un bel giorno, specchiandosi, si era
schifita di quel musino di gatta che le avevano infilato in casa,
costringendola a vivere una vita doppia, silenziosa e oscura.
Non consideravano ciò che passava nella sua testa, tanto meno
potevano capire il motivo che le aveva fatto maturare la rottura del
fidanzamento, portandola più tardi verso decisioni sorprendenti.
Finalmente la Segretaria aveva deciso di affrancarsi dalla mammina.
254
Da tempo, incombendo i trentanni, aveva cominciato a fare i
suoi conti con la vita quotidiana, in una prospettiva generale.
E, naturalmente, il fulcro era il rapporto con l’altro sesso. Si
sentì stracarica di esperienze amorose, mettendo nel conto le
proprie, a partire dalla perdita della verginità a quindici o sedici,
aggiungendovi quelle della sorella e della Cugina. Gli amori di
quest’ultima, in particolare, li aveva come somatizzati, tramite il
racconto molto confidenziale vissuto di volta in volta, quando
i fatti erano accaduti. Tanto da essere in grado di confrontare
ogni sciocchezza che le accadeva, con i maschi, con una simile
rintracciata nel vasto campionario delle innumerevoli sciocchezze della Cugina.
La Segretaria aveva pensato che la miglior soluzione per capire
quanto le era successo e ciò che doveva apprestarsi a fare sarebbe stato prendere a modello un uomo per confrontarlo con
quelli conosciuti in passato, che conosceva al presente e per gli
altri a venire.
L’unico soggetto di cui disponeva e a cui poté riconoscere le caratteristiche dell’uomo fu il Giornalista, sia per la figura nel suo
insieme, sia per la complessità che la rendeva misteriosa. Non
considerò né l’età né le ragioni per cui era entrato nella sua sfera
sociale, né valutò i legami che egli aveva con suo padre. Le serviva un modello e lo prese dove era possibile. Da lui comunque si
poteva scendere, non salire. Era un modello che inconsciamente
sognava fino dalla fanciullezza.
Così, a partire dai tempi in cui ebbe i primi contatti col Giornalista, intorno al 2009, la Segretaria mise in funzione quel suo
particolare apparato di registrazione che le permetteva di non
perdere un atteggiamento, un’immagine, neanche un gesto o una
parola. Con un vero e proprio lavoro sperimentale, si adoperò ad
analizzare le reazioni di lui di fronte a ogni tipo di avvenimento,
di accadimento, di situazione gradevole e sgradevole.
Il primo risultato pratico fu la cancellazione del povero impiegato con cui era fidanzata: la vita non poteva ridursi a disporre di
un compagno per lo struscio serale nel corso del paese, la pizza
e le gite al mare nei fine settimana, inframezzando la ginnastica
255
sessuale con una vacanza estiva in montagna o sulla Costa Azzurra, barattando sentimenti con giochetti e chiacchiericci con
cui, in definitiva, ognuno tentava di evadere. Poteva, doveva esistere un’alternativa.
Tentò di fare un conto di ciò che gli uomini le avevano dato e di
come lei li aveva ricambiati, per capire quali fossero stati i desideri che avevano spinto le due parti a frequentarsi e a stare insieme. Ne sortirono le già contabilizzate osservazioni che l’avevano
determinata, senza mezzi termini, a tornarsene libera.
Le tre fasi, corteggiamento, innamoramento e intrattenimento
quotidiano erano segnate dallo stesso desiderio e dalla medesima
curiosità, dalla stessa battaglia contro la noia che aggravava la
paura della solitudine perché la consegnava a un tempo vuoto;
la richiesta di sesso era stata più o meno la stessa e la sua soddisfazione era variata in base agli odori, sapori e ineffabili caratteristiche della pelle, misure dei genitali e resistenza ai preliminari
dei diversi compagni.
Gli orgasmi, in percentuale erano stati gli stessi e di una loro
riuscita sincronica restava soltanto il desiderio.
La sua galleria di maschi era vuota; semmai, pensò infastidita, le
rimaneva quella sensazione subombelicale dovuta all’Ucraino. Se
confrontato al modello, lei non aveva mai incontrato un uomo.
La Segretaria arrivò a meravigliarsi del distacco, quasi scientifico,
con cui stava procedendo a questo lavoro, toccando punte di
glaciale cinismo di cui, tuttavia, si sentì orgogliosa.
Cercò di elencare le ragioni per le quali aveva eletto a modello
il Giornalista: l’intelligenza, la combattività, l’ottimismo, il coraggio, la decisione, la caparbietà, l’ironia... lo sguardo, il timbro della voce... la dolcezza... un adulto con dentro un bambino intatto. Forse lo ingigantiva, ne faceva un monumento. Ma
controllò bene: quelle caratteristiche le possedeva. Di più: si era
dimenticata l’entusiasmo, la follia contagiosa di cui esistevano
innumerevoli prove tangibili, sia sul piano fisico che intellettuale. Era l’uomo del Ponte e dei suoi giornali, i Numeri Rari. Non
esistevano dubbi: il suo modello doveva possedere quei requisiti.
La conclusione a cui pervenne fu che una donna ha bisogno di
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un uomo che possa chiederle veramente qualcosa di vitale, facendola sentire necessaria; le richieste anche dei migliori impiegati
(mentalmente la quasi totalità, anche se spesso mascherati) non
possono che essere il trantran quotidiano, domestico e sessuale.
Forse era questa la spiegazione dell’equivoco tra i due sessi, la
fallace domanda di principi azzurri, sognati dalle mammine e inculcate nelle figlie, ambiguità che si dissolveva nello scontro col
desiderio irrinunciabile della donna che esige soltanto un uomo.
Passò alla fase pratica, chiamiamola operativa: che esperienze
aveva fatto col Giornalista? Si era privata del sonno per correggere le bozze del suo libro, per esempio. Che aveva ricevuto in
cambio? Una sensazione mai avuta, la certezza di essere servita
a costruire un discorso, di aver collaborato con qualcuno che
combatteva non per soldi o per vincere la noia, ma per vivere:
qualcuno che sentiva l’importanza di quella collaborazione che
gli era stata essenziale.
« Io devo tutto alla donna - aveva detto un giorno - Gli uomini
sono superficiali e presuntuosi, mentre la donna ti dà la carica e
la voglia di migliorare, ti fornisce l’indispensabile occasione e la
responsabilità della dedica ».
Dal momento in cui approdò a certe conclusioni, la Segretaria, in attesa di incontrare un uomo, si mise, coerentemente con
quanto aveva capito e sentiva, a disposizione del suo modello,
del tutto ignaro del lavorio che la sua infaticabile collaboratrice
stava facendo.
Era abituato, il Giornalista, a trovarsi intorno donne volenterose, affascinate dal suo temperamento e dal lavoro che svolgeva.
Tuttavia, bastava non lasciare spiragli di alcun tipo, che permettessero di pensare a una possibile trasformazione dei rapporti,
per mantenere certi equilibri, molto proficui per svolgere le sue
attività.
Il Giornalista sfruttava queste situazioni, senza mirare però a
trarne alcun utile, tranne il piacere che si prova nel vedere un’impresa o un’opera conclusa.
Nel caso della Segretaria, i due continuavano tranquillamente a
darsi del lei, che avrebbe potuto non significare niente, se non
257
fosse che se lo davano convinti. Almeno fino al momento in cui
(ma questo riguardava lei) interruppe il fidanzamento ufficiale.
L’occasione di nuove notti d’insonnia per preparare battaglie di
carta fu offerta dall’Editore, che chiamò il Giornalista per concretizzare l’idea di cui gli parlava periodicamente:
« Sei disposto a fare questo benedetto numero zero della rivista,
per poi passare al periodico? »
« Ci pensavo l’altro giorno, mettendo a posto certe carte. Avrei
un’idea per prendere due fave con un... o due piccioni con una
fava, o meglio con una schioppettata, perché il materiale che ho
è più vicino a un fucile che... »
« Dimmi, scommetto che andrà bene »
« Ricordi che un annetto fa, o forse più, ti chiesi, nel caso in cui
avessi avuto bisogno, di farmi stampare uno dei miei Numeri
Rari? Bene, credo che potremmo servirci di questo materiale per
il numero zero della rivista, che ne dici? »
« Di che materiale si tratta? »
« Dell’acquitrino politico in cui ristagna il nostro Comune e dei
soliti alligatori da strapazzo che ci nuotano, ma stavolta bisogna
lisciare anche i finti idealisti della massoneria »
« Ora ho capito: vuoi costringermi a diventare amico con tutti »
disse l’Editore mettendosi a ridere.
« Gli argomenti sono gli stessi che potremo dibattere in campo
nazionale e abbiamo il vantaggio, per questa che è praticamente
una prova di organizzazione e di stampa, di avere il materiale
quasi pronto. Potremmo uscire dopo Natale, forse a Febbraio »
« Hai carta bianca, ho bisogno di concentrarmi su qualcosa di
diverso dalle mille rogne quotidiane, a costo di andarne a cercare
di peggio… perché con lui la serenità è esclusa del tutto, non è
vero? » fece rivolgendosi alla figlia, che era già intenta a prendere
appunti.
« Che sta scrivendo? » le chiese il Giornalista.
« Ho messo la data in agenda e ho segnato che ha previsto l’uscita della rivista per Febbraio: che titolo gli darete? »
« Se ne parlerà - rispose, rivolgendosi all’Editore - Hai qualche
idea? »
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« Si era parlato di un titolo come Polis, ma facciamo in tempo a
decidere».
259
XXXX
Il Foulard
Il Commissario aveva passato i dati della Cugina a chi di competenza per sapere dove fosse e con chi, chiedendo una sorveglianza discreta degli eventuali spostamenti, poiché era tassativo non
insospettirla. Si seppe che aveva preso un volo per Atene, con un
pacchetto vacanza di quindici giorni. Era sola e non furono segnalati spostamenti di rilievo, se non escursioni di tipo turistico.
Quando tornò, il Maresciallo dei carabinieri fece avvertire la Cuginetta dai suoi colleghi dell’arma al paese, recandosi personalmente dalla signora e dalla sorella maggiore, convocando tutte
tre per lo stesso giorno.
Alle dieci del mattino le tre donne si presentarono al commissariato e furono fatte accomodare in stanze separate, dicendo che
avrebbero reso le loro dichiarazioni contemporaneamente ad
agenti diversi, così si sarebbero liberate alla svelta. In realtà furono interrogate tutte dal Commissario, che iniziò con la signora:
« Dobbiamo parlare dell’incendio della Baita, o “Capanna”,
come so che la chiamavate, ma partiamo da lontano: lei ricorderà la cena del compleanno della sua nipote più grande, qualche
giorno prima della tragedia, immagino… »
« Come fosse ieri sera, Dottore »
« Serviste una torta, come si fa per un compleanno, con le candeline, suppongo... »
« Naturalmente, l’avevo preparata io e ricordo che piacque molto… »
« Ci furono dei regali, che si ricordi? »
« Io regalai dei soldi alla festeggiata. Sa, con questi ragazzi oggi
non è facile azzeccare i loro gusti, meglio i soldi... »
« Soltanto lei fece il regalo? »
« No, la sorella aveva preparato per tempo il suo: le aveva fatto
fare un fazzolettone, un foulard, con una fotografia di quando
260
erano più piccole tutte due, la minore era piccolissima »
« È questo, signora? Lo riconosce? » e il Commissario, che aveva
preso in carico il foulard dalla Scientifica, lo mostrò alla donna,
che lo guardò sorpresa di trovarlo lì.
« Sì... – rispose – Credo proprio di sì... sì, è questo, sono loro due
sulla spiaggia… »
« La ragazza che ricevette il dono se lo provò o se lo mise? Ricorda? »
« Eh, sì... se lo mise subito e lo portò via, perché era in partenza »
« Con chi partì? »
« Non lo so... »
« È già stato verbalizzato a suo tempo. Può essere che fosse un
uomo ucraino con cui fu rintracciata in montagna? »
« Può essere; frequentava uno straniero, l’avevo sentito al telefono... »
« Va bene, ma la nipote passò dalla Baita? »
« Non mi risulta… i genitori partirono il giorno dopo, il giovedì,
e non si dissero niente... suo padre era molto contrariato... »
« Perché? »
« Vecchie storie tra lei e suo padre... »
« Per ora può bastare, su questo punto ».
Poi le furono fatte domande simili a quelle già poste all’Editore,
dicendo, ormai in modo meno velato, che non era stato un semplice incidente, ma che qualcuno, anche un possibile vandalo,
aveva fatto sparire la Baita. La donna non seppe dire nulla in merito a possibili nemici dei familiari e venne licenziata facendola
accompagnare in una sala d’attesa. Venne introdotta la Cuginetta, a cui il Commissario mostrò direttamente il foulard:
« Lo riconosce? »
La Cuginetta prese il foulard, lo rigirò tra le mani, lo odorò.
« Perché è qui? »
« Lei mi dica se lo riconosce... »
« L’ho fatto stampare io per regalarlo a mia sorella... »
« Ne ha fatti stampare due? »
« Ci pensai, ma poi ne feci fare uno solo... »
« Ne è certa? »
261
« Sì... »
« Quando l’ha regalato? »
« La sera del compleanno di... prima della disgrazia... »
« E sua sorella lo indossò? »
« Sì, se lo mise, era adatto alla stagione... si commosse anche... »
« Sua sorella andò alla Baita quella sera? »
« Non lo so... non credo... andava... forse al mare... »
« Con chi era? »
« Con un amico, credo... »
« Non sa chi fosse? »
« No » rispose, mentendo spudoratamente.
« Si tenga a disposizione, per ora può andare ».
Venne introdotta la Cugina.
« Quando furono trovati morti i suoi genitori, lei dove si trovava? »
« Al mare »
« Con chi era? »
« Da sola »
« Quanto tempo era che non andava alla Baita? »
« L’ultima volta c’ero stata in primavera »
« Quindi, quanti mesi? »
« Quattro, cinque mesi prima »
« Lei ricorda che qualche giorno prima della tragedia fu festeggiato il suo compleanno: le fecero dei regali? »
« Non ricordo »
« Chi venne a prenderla quella sera? »
« Un amico... »
« L’Ucraino con cui fu trovata dalla polizia, quando la cercarono
per comunicarle quanto era accaduto? »
« No, quell’amico, con cui sciavo, l’avevo incontrato a Lampedusa soltanto da un paio di giorni »
« E allora chi era l’uomo che venne a prenderla la sera del compleanno? »
« Un amico che mi portò fino alla stazione »
« Conosce questo? » chiese, mostrandole il foulard.
La Cugina rimase paralizzata; non mosse un dito, un muscolo
262
per avvicinare la mano alla stoffa che il Commissario aveva aperto sul tavolo.
« Lo guardi bene, c’è la sua fotografia... è stato rinvenuto nel
bagno della Baita: chi l’ha messo nella tasca dell’accappatoio?
Perché andò alla Baita e con chi era? »
La Cugina cominciò a tremare e a digrignare i denti, come stesse
per avere una crisi epilettica; poi prese a singhiozzare, appoggiando le braccia e la testa sul tavolo.
« Lei è in stato di fermo, diciamo per reticenza... a breve vedremo ».
La nonna e la Cuginetta presero un taxi e, giusto il tempo di salire, telefonarono all’Editore. Fu nominato un avvocato perché
assistesse la donna due giorni dopo di fronte al Giudice, che
trasformò il fermo di polizia in arresto: con l’ipotesi di concorso
o favoreggiamento in duplice omicidio.
263
XXXXI
Bilancio di Fine Anno
Pensando alla sua vita, anche il Giornalista si mise a fare, al
pari delle imprese commerciali, l’inventario di fine anno. Il suo
era somigliante, omologo a quello delle ferramenta, che hanno
un’indefinita quantità di articoli e di fondi di magazzino.
Fu temerario nel fermarsi a guardare, a occhi aperti, la propria
condizione.
Non sapeva più calcolare da quanto tempo ammucchiava la
roba, pur di riuscire a non desistere. Viveva alla giornata, scandita ormai dai bisogni elementari a cui ancora riusciva a provvedere. Benché malridotto, curava i numerosi contenziosi giudiziari,
preoccupandosi di salvare il cervello per iniziarne, se fosse occorso, degli altri.
I Tre Poli era stato venduto in quantità appena sufficiente per
pagare il residuo al litografo, e non era andata male. In cassa gli
rimanevano duemilatrecento euri, bastanti a coprire le bollette, l’assicurazione dell’automobile, un contributo unificato per
depositare una citazione già pronta. Il contante, limitando agli
spiccioli i doni natalizi, poteva appena farcela a scrinare l’anno
vecchio. Gli armadi metallici, costruiti da decenni per conservare oggetti di grande valore, erano divenuti un rifugio ideale per
le ragnatele.
La cucina e la camera cominciavano a confondersi. L’unica maniera che aveva trovato per andare avanti senza dar segni visibili
di resa era dedicarsi ai mucchi di fogli che via via divideva, utilizzandoli per l’ultima opposizione a una richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero o per inoltrare una nuova denuncia,
infilandoli poi dove c’era un angolino libero. Non se la sentiva
di riarchiviarli: la malinconia, che negava a sé stesso di aver mai
conosciuto, lo aveva aggredito con la morte di Muriel e da quel
Marzo maledetto una casa ordinata non aveva più senso. Erano
264
passati duecentocinquanta giorni dal momento infame. Il figlio
di Muriel a Natale avrebbe avuto tre mesi.
La Segretaria si rendeva totalmente disponibile e lui, nascondendo ogni difficoltà, lasciava che sopperisse alle diverse manchevolezze, come ad esempio la stampante del computer guasta o
il Mac Mini a cui s’era bruciata la lampada dello schermo e che
quindi non portava più con sé. Di consueto stampava lei in ufficio e gli metteva a disposizione il portatile.
La sera della Vigilia, mentre le figlie erano venute per montare
l’albero, gli balenò un flash sulla Segretaria, così devota, sempre
attenta, pronta in ogni momento a esaudire ogni suo desiderio.
Ma lo spense subito. Tra poco avrebbero dovuto mettere sul
tavolo la rivista, non era il caso neanche di porsi un minimo dubbio sulla natura dell’entusiasmo che la spingeva a collaborare. Le
piaceva il lavoro, punto e basta.
In quei giorni decise di dedicarsi a preparare il materiale della
rivista, trovandogli un posticino nel reparto non giudiziario. Si
accorse anche che il cuore della sua restante biblioteca (una parte
era andata perduta in una casa in montagna sotto una frana e
un’altra era rimasta in città, in mano all’ultima convivente, sette
anni prima) era sottosopra: non ritrovava più niente. Al momento s’impose di soprassedere.
Liberò un piccolo tavolo a bandelle, compresi i sei cassetti, e vi
sistemò articoli già pronti e cuciti, fotografie e documenti suddivisi con fascette ed elastici, tutto quello che doveva essere pubblicato. Così, quanto serviva per la rivista era in salvo.
Che avrebbe detto l’Editore scoprendo quella situazione, impensabile per chiunque avesse conosciuto e conoscesse il Giornalista? Temette che il suo pozzo di ottimismo si stesse asciugando.
Mai si sarebbe sognato di toccare quei limiti di confusione che
purtroppo corrispondevano al marasma in cui versava spiritualmente.
Dovette constatare che i contenziosi giudiziari erano aumentati
e che aveva dedicato sempre meno tempo ai suoi studi, perdendo i contatti con il mondo dell’arte. Di fatto, si era lasciato ingoiare da quel pitone smidollato che vegeta nei paesi, impiegando
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ogni energia per combattere una banda di spelacchiati tacchini,
sopravvissuti al pranzo natalizio.
Che onore poteva derivare da una vittoria sull’Erbivendolo e sul
Cementicolo? Ma il Giornalista non era a loro che faceva la guerra, bensì alla macchina giudiziaria che li graziava, permettendogli
di portare in giro le loro facce stinte di armigeri dei corridoi.
L’ultimo giorno dell’anno lo riservò all’Alpe della Luna. Salì alla
Ripa. Cielo terso, salvaguardato da un freddo gelido, intensificato dal vento che passava, dai mille in su, a lisciare una coltre di
neve alta fino al ginocchio.
Venne rapito dalla bellezza di una solitudine naturale, con tracce
di vita che non si mostrava, suggerita dalle orme del capriolo
e della volpe, del lupo. Bastò quella giornata, la fatica, le folate
taglienti in faccia, il buio sopraggiunto prima del previsto a rendere avventuroso il cammino, per ritemprarlo di nuove energie.
Muriel gli camminò accanto tutto il giorno. Poi, sul crine, nel
gorgheggiare che animava le gole, a un tratto udì la voce della
Segretaria che lo chiamava. Gli sembrò che venisse dal dirupo, e
corse ad affacciarsi. Muriel gli fece una carezza, lei forse ti vuole
bene, gli sussurrò.
266
XXXXII
Polis
Non sempre sotto la neve ci sta il grano. Polis, la rivista dal titolo
provvisorio molto banale, nacque nella neve e andò in edicola in
primavera. L’Editore era indaffarato in città, con le due ditte – la
casa editrice e lo studio del Commercialista, che avrebbe voluto
liquidare ma... lo spettro del Palazzinaro & Co. gl’imponeva di
tenerlo aperto.
In paese, il 30 Gennaio si mise a nevicare con grande impegno,
preparando uno di quei tappeti che gelano di notte, in attesa di
ringiovanirsi con la prossima nevicata.
Il Giornalista aveva già trasferito da due settimane il grosso del
materiale nell’ufficio della casa editrice. Lavorava a casa di notte,
spediva gli scritti via e-mail e la Segretaria accendeva il computer
alle otto e mezzo, spesso quando lui si era coricato da poco. Si
presentava sul tardi e una mattina le chiese se volesse accompagnarlo a prendere il caffè al bar accanto. La vide felice di accettare un invito del tutto normale che, da come reagì, lo si scopriva
invece inaspettato.
Un caffè basso e uno macchiato, la cameriera chiese per chi fosse l’uno e per chi l’altro, e li servì. Da quel momento, almeno una
se non due volte al giorno, il caffè diventò un intervallo che non
richiese più un invito, ma un’occhiata reciproca. Prima di rientrare dal bar s’intrattenevano sulla soglia del portone; lui dopo il
caffè doveva fumare una sigaretta, e non era più tempo di stare
in terrazza, ch’era troppo esposta, anche se stavano comunque
all’aperto, intabarrati come in Russia.
Col sopraggiungere del ghiaccio, la Segretaria diede forfait per
raggiungere l’ufficio in macchina e il Giornalista, a cui lo chiese,
si rese disponibile per evitarle una lunga e disagevole camminata
con gli stivali.
Lei inviava un sms: « Può venirmi a prendere? »
267
E lui rispondeva:
« Autista in loco entro cinque minuti » oppure « Agli ordini »
o con altre facezie, che dopo anni egli avrebbe rintracciato sul
telefonino.
Nella sua tana, mai nome fu così appropriato, la situazione si stava facendo scura per il Giornalista. I soldi erano finiti e campava
di panini e spaghetti. Le raffiche di vento, penetrando dal comignolo, forzavano la farfalla di ottone del paravento del camino,
in disuso da anni, impolverando di fuliggine la cucina. Per rimediare aveva appoggiato al paravento lo schienale di due sedie e,
per appesantirle, aveva messo sulla seduta otto volumi del Dizionario Enciclopedico UTET. Una notte, neanche questo bastò
e vi aggiunse due manubri di ferro da pesistica. L’ambaradan
sarebbe rimasto in loco fino alla buona stagione.
Nella dispensa aveva due grandi vasi di fagioli e di ceci, tre buste
di lenticchie, due confezioni di tonno in scatola, diversi pacchi
di pasta, qualche barattolo di pelati e di salsa già pronta, fatta in
casa. Finiti i piatti di cartone (che non gradiva) si arrese a lavare
quelli di coccio.
Doveva spaccarsi in quattro per far fronte alle tre cose indispensabili, che erano nell’ordine: le sigarette, il... anzi i caffè, la benzina.
Con l’aumentare del freddo e il persistere del ghiaccio che copriva interamente le strade, la notte, verso le tre, il Giornalista prese
l’abitudine di uscire, vestito da alta montagna, per lunghe passeggiate sulla strade deserte. Rientrava alle cinque, controllava
le carte, spediva le correzioni alla Segretaria e andava a dormire.
La bufera, che era divenuta la sua compagna notturna, gli rinfrancava i pensieri tenendo sveglio un antico ottimismo, a cui
la dedizione al lavoro della Segretaria aggiungeva una carica di
entusiasmo.
Il Giornalista parlava spesso con la madre, scomparsa il giorno
di Pasqua del ‘98, e ora chiedeva anche a Muriel di aiutarlo: notti
speciali, quelle venute in paese quell’anno, che gli permisero di
ascoltare le loro voci.
Non si fidava più dei vivi, ma soltanto di Slanda, dell’Editore e
268
forse della Segretaria; « Lei ti vuole bene, forse » gli aveva sussurrato Muriel su alla Ripa.
Sì, pensò, ma quel bene non doveva dilatare i limiti di confidenza
a cui erano giunti e che lui riteneva stabilizzati: le si presentava
ben vestito e senza problemi, attento a non dare a vedere che
spesso faticava per pagare il caffè.
Un pomeriggio la Segretaria, udendo per l’ennesima volta il segnale sonoro della riserva di carburante, gli domandò sorridendo se viaggiasse sempre ai minimi della riserva perché amava il
rischio: lui rispose, mentendo sfacciatamente, che era soltanto
guasta la spia. Poi, una sera che uscivano dall’ufficio, il Giornalista girò la chiave del quadro inutilmente: aveva parcheggiato la
macchina in discesa e la pompa non riusciva a pescare il goccio
di benzina (forse) esistente. Telefonò a un vecchio amico che gli
portò qualche litro e la macchina ripartì. Fu allora che la Segretaria, con molto garbo, gli chiese il permesso di fare un pieno:
« Al mio taxi » disse esattamente. Ma il tassista rifiutò.
L’Editore era rientrato in paese venerdì sera, 25 Febbraio, e gli
ultimi tre giorni del mese, dal sabato al lunedì, furono dedicati al
consuntivo della rivista. Il sommario degli articoli era pronto; si
usciva con il formato grande.
« Tanto per intenderci - disse il Giornalista - come era il settimanale Il mondo di Mario Pannunzio ».
Polis si componeva di dodici quartini, per un totale di quarantotto pagine, molte fotografie accanto ai documenti, per togliere
alle parole il sospetto delle chiacchiere e delle opinioni: gli opinionisti dicono, e i fatti chi l’ha visti l’ha visti.
« Vorrei - aggiunse il Giornalista continuando a giocare con la
lingua - mettere in prima pagina un motto di questo tipo: Chi
elègge ma non lègge/mortifica la légge (Gianni della Vittoria). Si parla di
politica e di democrazia, mi sembra, o mi sbaglio? »
Il titolo dell’articolo di chiusura, Repubblica e Reprivata, piacque
molto all’Editore, che commentò:
« Dicevi che avresti affrontato, quale campione, la situazione
politica e sociale del nostro comune, ma il titolo dell’articolo
rimanda con evidenza a questioni generali »
269
« Questo numero tratta dei guasti della nostra cittadina. Possiamo definirlo monografico, poiché i fatti che descriviamo e documentiamo sono accaduti e accadono qui. Repubblica e Reprivata va
bene in apertura o in chiusura, definisce lo spazio e il tempo in
cui vive la società, di cui il nostro comune fa parte »
« È un contenitore. E per la redazione? »
« Io ho dei contatti e tu conosci tanta gente. Il primo numero
può servire come proposta ai collaboratori, che devono sapere di economia e di diritto: la politica è nata per occuparsi del
corretto rapporto tra questi due mondi. Soprattutto occorrono
persone che non abbiano remore a dire le cose come stanno »
« Non è semplice... »
« Si sapeva. Ho molti dubbi sulla periodicità. Sono abituato a
stampare soltanto quando c’è veramente qualcosa da dibattere
e denunciare, altrimenti... Il periodico rischia di risolversi in una
macchina commerciale: ha delle scadenze, deve uscire... »
« Usciamo con un numero e spieghi il discorso che stai facendo:
è già molto se alla prima sortita riusciamo a chiarire la nostra
impostazione »
« Tieni presente che il periodico ha bisogno di alcune redazioni
che tengano sotto controllo due o tre province, per cominciare.
Gente del mestiere con cui concordare, nei casi di scandali provati, una denuncia alla Magistratura. E la denuncia dovrà essere
pubblicata, in modo che si amministri sul serio la Legge in nome
del popolo, di fronte al popolo >
« Vuoi tornare alla giustizia sotto la quercia, quella di Luigi IX
di Francia... sarebbe bello portare i giudici in piazza, ma vagli a
toccare i catafalchi del potere che hanno... sarebbe bello... »
« Sai, io vorrei semplicemente partecipare a un gioco pulito... ».
Visionato il materiale, la Segretaria consegnò al babbo una copia
di tutte le bozze e il Giornalista gli disse che la rivista non sarebbe
uscita senza che lui avesse detto la sua, pagina per pagina, concordando la veste e i testi definitivi, presumibilmente pronti nel
giro di due settimane. Se fosse stato per gli scritti, aggiunse, non
sarebbe andata così alla lunga, ma purtroppo si attendevano due
documenti importanti e qualche immagine ancora da scattare.
270
La rivista, impresa impegnativa sia sotto l’aspetto finanziario che
dell’indirizzo editoriale, avrebbe permesso all’Editore di provare
a se stesso di aver raggiunto un certo traguardo, tanto da soddisfare vecchi sogni di partecipazione autonoma alla vita politica.
Per il Giornalista, che in realtà era soltanto un mistico delle regole del gioco, quel tipo di battaglia si risolveva nell’aggredire
l’arroganza dei bari, di cui non sopportava l’esistenza.
Sia l’Editore che il Giornalista non potevano nascondere pulsioni donchisciottesche, che la gente avrebbe facilmente scambiato
per moralismo, alcuni l’avrebbero definito giustizialismo. Erano
rischi che dovevano correre, ma anche concetti da chiarire.
Parlarono a lungo di ogni risvolto, teorico e pratico, a partire dal
titolo della rivista, che come sempre appassiona e impegna, al
taglio grafico e dei contenuti, entrando nella scelta della tipologia
dei caratteri e del loro corpo; parlarono dell’architettura adatta a
contenere i loro dibattiti.
Lei seguì attenta e silenziosa, concentrata sul Giornalista, in quel
lavoro di indagine antropologica e poliziesca che si era messa a
fare, assistita dallo spiccato senso di osservazione che possedeva.
L’interesse, nato spontaneamente, divenne sempre più programmato, fino a diventare un lavoro, di cui il soggetto osservato non
si accorse. Ogni incontro era divenuto per lei la prosecuzione
dell’esperimento interrotto, magari molti giorni prima. Schedava
e classificava il suo modo di esprimersi a voce e per iscritto (lesse
tutto ciò che poté leggere di lui) annotando la corrispondenza e
le varianti, nel tentativo di capire l’autenticità dei suoi sentimenti
e del suo modo di vivere.
271
XXXXIII
A Carte Scoperte
L’Editore tornò in città e i due caffeinomani rimasero in paese a
spostarsi sulle strade ghiacciate, quattro volte al giorno in automobile per raggiungere l’ufficio e due volte al giorno a piedi per
recarsi nei bar cittadini.
Ormai spaziavano. Erano passati dal bar accanto a quelli più
lontani. Ogni cameriere, appena si sedevano (le prime volte consumavano al bancone), li anticipava subito ordinando:
« Un caffè basso per il signore e uno macchiato per la signorina ».
Si sentivano osservati e seguiti, ospitati con un certo riguardo,
specie dalle cameriere. E l’atmosfera di complicità che avvertivano intorno non dispiaceva a nessuno dei due, anche se dentro di
sé il Giornalista la liquidava o s’imponeva di minimizzarla considerandola una sorta di reazione naturale della gente che cullava
l’ipotesi di una coppia diversa dalle solite. Una relazione tra un
personaggio storico del paese che aveva passato i settanta e la
figlia trentenne di un noto editore non era cosa di tutti i giorni:
era sufficiente a scatenare una gara a premi per chi avesse potuto
accertare per primo il segno inequivocabile di un rapporto che
ancora nessuno poteva definire.
Il Giornalista era cresciuto al lume della curiosità, del voyeurismo che di sovente aveva alimentato chiacchiere velenose, anche
nocive per uno che avesse dovuto render conto a qualcun altro
del proprio modo di campare. Negli anni Sessanta, quando andava oltre la Cortina di Ferro, poco più che ventenne, e viaggiava
con la Ferrari, avevano fatto circolare l’immagine della spia, del
contrabbandiere di armi, di tutto purché fosse inusuale, quindi
adatto a spiegare come si potesse vivere fuori degli schemi entro
cui tutti erano costretti a rimanere incasellati. Si ventilò perfino
che avesse a che fare con una tratta di prostitute.
Non fu mai sufficiente, neanche col trascorrere degli anni, sape272
re che era un noto specialista di oggetti d’arte e che aveva curato collezioni private, alcune esposte al pubblico, con la ricaduta
economica che si poteva immaginare. Esisteva un personaggio,
indipendente e autonomo, amministrato dalla gente, che per
campare doveva muoversi nell’equivoco, violando ogni regola.
Per completare questa figura occorreva riconoscergli qualità che
fossero contradditorie: la battaglia giudiziaria e la lotta politica
da lui condotte andavano alla perfezione.
Fu così che, mentre la Segretaria lo studiava come modello di
uomo, la Psicologa si preoccupò di valutare il fascino legato al
personaggio. Le due donne avevano svolto indagini parallele: la
figlia si era dedicata a studiare la corrispondenza tra lui e il suo
uomo ideale, la madre a elencare gli ostacoli sociali alla loro frequentazione.
Lui rappresentava il tipo che una donna doveva escludere dalla
galleria dei suoi possibili interlocutori sentimentali. Possedeva
tutte le caratteristiche dell’uomo proibito. Ognuna ci sarebbe
uscita almeno una volta, ma nessuna avrebbe potuto confessare, nemmeno alla migliore amica, di desiderarlo, tanto meno di
averlo fatto.
Non si trattava di imputargli i difetti più comuni, che lui in ogni
caso possedeva al completo, come l’essere un donnaiolo e uno
scialacquatore, un nottambulo senza orari irrispettoso di ogni
rapporto convenzionale con i ritmi degli altri. Estroverso e contraddittorio, mostrava senza ritegno l’essere così egocentrico da
confinare con l’avarizia di se stessi, tipica degli egoisti. Distinto e
signorile, dei canoni maschili richiesti possedeva il portamento,
ma non la bellezza che in qualche modo avrebbe potuto giustificare lo slancio femminile.
Ora, a completare un quadro così negativo, si aggiungeva l’età
del cattivo soggetto, arrivato in cima alla propria identità di individuo che aveva rifiutato, senza incertezze e con sdegno, ogni
tipo di carriera, onde gli poteva essere contestata anche la presunzione. I detrattori lo bollavano come superbo e vanaglorioso; nonostante i loro sforzi, non sarebbero riusciti comunque a
definirlo saccente e spocchioso.
273
Non era modesto di certo, ma umile sì: lo dimostrava con l’incessante lavoro di aggiustamento, rifinitura e limatura di ogni suo
progetto, e ancor più della realizzazione di ciascuno di questi, di
cui non si dichiarava mai soddisfatto, caratteristica che in molti
riuscivano ugualmente a criticare, tacciandolo di perfezionismo.
Vennero i giorni della corsa finale per concludere la rivista, come
accade alla fine di un lavoro in cui si è costretti a fissare una scadenza, a cui però non ci si vuole rassegnare.
La Segretaria lo invitò a casa dopo cena. Una prima volta lavorarono fino alle undici e una seconda oltrepassarono l’una, giù
nella taverna con il caminetto acceso.
La madre non si fece vedere, ma sapeva di averli in casa e in
quei giorni aprì un primo spiraglio con la figlia, dicendole: « Se
non ci fosse tutta questa differenza di età, penserei che tu sia
innamorata ».
Quando serviva, la Segretaria sapeva assumere un volto da sfinge che neanche all’addestratrice di gatte morte era possibile superare. E così fece. Forse per impedire alla madre di rivolgersi a
lei in modo più esplicito.
Stiamogli vicino, diamogli una mano, vacci a letto se anche lui
lo desidera, ma non facciamo alcun progetto sul Giornalista,
avrebbe potuto dire, in un momento di sfrenata confidenza, la
madre alla figlia. Ma non poteva, perché se c’era una che capiva il
suo interesse per quel personaggio era proprio la madre, ragion
per cui temeva di non trovare il tono giusto per un discorso così
delicato. Si limitò a ripeterle: « Invitalo da noi, lui sa tante cose
di cucina, sarebbe bello vederlo in azione sui nostri fornelli… »,
proposta che la figlia riferì più volte, lontana dal (voler) capire
quella specie di ospitalità/complicità che la madre le offriva, pur
di poterli avere e controllare sotto il tetto di casa. Lui rinviò sine
die, per evitare la possibile ombra di un intreccio, anche soltanto psicologico. Quel gioco non gli piaceva. Ma fu una reazione
istintiva che soltanto dopo qualche tempo avrebbe recuperato
razionalmente.
Dopo la scomparsa di Muriel, poteva prevedere soltanto rapporti di natura fisiologica con le donne, e non gli sarebbe si274
curamente venuto in mente di cercarli in casa dell’Editore. Le
circostanze gli imposero però di riflettere su ciò che accadde
nelle prime due settimane di Marzo.
Venerdì 2 erano in ufficio e tornò l’Editore che era partito il
martedì 28 Febbraio. Mentre parlavano, telefonò la madre per
dire alla figlia che l’indomani la Zia sarebbe andata a trovare il
suo compagno e l’avrebbe condotta volentieri con sé. La Segretaria rispose che era impegnata, ma la madre dovette dire qualcosa di imperativo perché la figlia rispose con un no secco e
zittì il telefono. Comportamento ai limiti dell’assurdo, per lei, nei
confronti della Psicologa.
Il sabato continuarono il lavoro e la domenica si videro alle tre
del pomeriggio. Lui andò a prenderla a casa e arrivando in ufficio, mentre posteggiava la macchina, gli venne naturale manifestare che si sentiva colpevole di farla lavorare anche di domenica.
« È un piacere per me... »
« Non esageriamo, ristampare e correggere mille volte le mie elucubrazioni non può essere un piacere. Comunque la ringrazio »
« Questo lavoro mi interessa - ribatté insolitamente - Ma poi a
me piace lavorare con lei ». E pronunciò queste ultime sei parole
a voce più alta, con tono deciso.
A questo punto anche un giovane cretino avrebbe capito (di dover capire) mentre non poteva capire un vecchio matto, benché
narcisista, privo di qualsiasi sovrastruttura sociale e morale: era
stanco, amareggiato, abbarbicato a una solitudine che mascherava con tutti, come un buon giocatore di Poker quando bluffa.
Viveva della sua testarda volontà di non desistere e aveva trovato
nell’Editore un ottimo compagno, nella figlia una collaboratrice
molto efficiente. Non voleva nient’altro.
Lei comunque non si arrese. Passò alla fase due o tre, non si
saprebbe come definirla: aggiunse al suo lavoro sperimentale,
fino a tempo prima finalizzato soltanto a studiarlo come macchina umana, la componente analitica del “va’ e ritorna”, del
feed-back.
Concluso il suo esame dell’uomo in senso positivo, passò al corteggiamento. Aveva deciso, e mise in moto un meccanismo a
275
cui un mortale può difficilmente resistere. Cominciò con tutta
la riservatezza e la compostezza connaturate, a rendere dolce
quella disponibilità che era stata una presenza distaccata. Il farsi
trovare sempre al momento che serviva fu abbellito dagli occhi
che ridevano e da un senso di vita radioso.
Nonostante la situazione stesse precipitando, il Giornalista continuò a poterla ignorare, benché fosse rimasto sorpreso quando una sera l’Editore, rientrando da fuori e arrivando in ufficio,
sapendo che erano lì, volle fragorosamente annunciare il suo
arrivo. Come d’altronde aveva fatto una volta la Cuginetta che
il Giornalista, più tardi, avrebbe saputo essersi scusata con la
Segretaria per averla disturbata mentre era “con il suo amante”.
Ormai, per tutti, loro due erano una coppia, il cui darsi del lei,
con apparente convinzione, aveva fatto sorgere anche nelle persone più vicine una sorta di pudore che impediva ogni tipo di
intromissione. D’altra parte, i familiari per primi non potevano
ignorare che la loro bambina aveva varcato i trentanni.
Giovedì 22 Marzo. Il Giornalista era con l’amica Geometra; erano intenti a curiosare tra i banchi di una fiera che si ripete ogni
anno dalla notte dei tempi.
« Ti chiamano » gli disse la Geometra.
Era la Psicologa che, con la figlia, si stava facendo incartare la
porchetta.
« Venite a cena da noi » propose la Psicologa rivolta ai due.
« Grazie, verremo » e continuarono il loro giro.
Ma rimasti soli, la Geometra, approfittando della confidenza che
aveva col Giornalista, gli disse chiaro e tondo che preferiva non
accompagnarlo perché il comportamento delle due donne con
lui la metteva in imbarazzo.
Il Giornalista rimase interdetto, ma non volle approfondire.
Dopo oltre un anno sarebbero tornati sull’argomento e la Geometra si sarebbe spiegata nei dettagli.
Domenica 25 Marzo 2012, ore 19. Il Giornalista era in macchina, fermo, lungo la circonvallazione del paese. Stava esercitando
l’unica attività in cui si sentiva un campione.
« Qui - ripeteva - ce l’ho fatta ad andare in Formula 1 »; fumava.
276
E pensava.
Da tre giorni, ossia da giovedì sera, non era andato all’ufficio e
non si era visto con la Segretaria. Il lavoro era pronto per il litografo e non esistevano ragioni immediate per incontrarsi.
Stava pensando a lei, facendo quattro calcoli che furono spazzati via da una (terribile come un siluro) telefonata proprio sua.
Guarda caso di domenica, al quasi tramonto di un mese marzolino.
« Sono io - cominciò - Sono dalle parti di casa sua, che fa di
bello? »
« Sono lontano » mentì. Stava a qualche centinaio di metri.
« Girellavo, aspetto l’ora di cena... i miei sono andati alla messa... »
« Vuol prendere un caffè? » gli scappò con un automatismo che
lo sorprese.
« Sì, dove? »
« Ci vediamo al parcheggio degli autobus ».
Salirono in automobile e saltarono il caffè. Lui prese la strada
che usciva dal paese, non sapeva dove andare; proseguendo per
la via imboccata, si tenne strettamente a destra e si trovarono
sullo sterrato. Il traguardo fu sul primo poggetto, una radura
tra le vigne e gli olivi, sul prato dove li aveva condotti la breve
conversazione.
« Non credo sia più il caso che mi chiami per cognome e che ci
si dia del lei, il gioco si fa pesante - le disse il Giornalista - Potrei
innamorarmi e che succederebbe? »
« Forse ha ragione - fece lei con la sua vocina decisa - Ma io lo
sono già »
« Peggio - proseguì lui - Anche se mi fa molto felice ».
Si sfiorarono e passeggiarono. Lui le passò lentamente una
mano sui capelli. Un senso di gioia e di paura era nell’aria. Ma un
amore reciprocamente confessato lo può fermare, sul nascere,
soltanto il Padreterno.
277
XXXXIV
La Tana
Lui le domandava: « Andiamo a prendere un caffè? » e lei non
aspettava che quell’invito, ma una sera si erano confessati che la
caffeina stava diventando un carico eccessivo per il loro sistema
nervoso.
Così cominciarono a uscire senza la scusa del caffè.
Già da prima della sera in cui presero a darsi del tu, lei si era
avvicinata alla casa del Giornalista. Una volta l’aveva chiamato
addirittura di mattina presto; insonnolito, lui era riuscito a scendere le scale giusto perché nel palazzo c’era nato e si trovò la
Segretaria nell’entrata.
« Pioveva - gli disse - e mi sono riparata qui ».
Non gli passò per la testa di farla salire e si avviarono insieme
sotto la pioggia.
Altre due volte (tutto accadde in un mese) lei riuscì a entrare in
argomento, manifestandogli la curiosità di visitare la sua tana.
Ma lui, come si sa, non faceva entrare nessuno, poiché si era
ridotto a vivere in un casino inimmaginabile. Ora, a fine Marzo,
aveva subito, dopo quello del telefono, il distacco dell’energia
elettrica, motivo in più per tenere lontano chiunque.
Tirava avanti con i debiti che ancora poteva contrarre con la
cartoleria, per tenere in piedi le battaglie di carta, e i prestiti per
le spese quotidiane, in cui si alternavano la sua Lettrice di fiducia,
la Geometra e il Cambusiere, che era il responsabile dell’accampamento ai tempi delle corse in automobile.
Il Giornalista e la Segretaria si rividero la sera dopo, il 26 Marzo.
Era d’obbligo, gli disse, perché la luna stava crescendo e loro dovevano crescere con lei. E crebbero ogni sera, per una settimana
che valse un tempo incalcolabile. Furono soprattutto impegnati
a parlare del loro passato (quello di lei, siccome si faceva prima)
e della costanza di parlarsi in terza persona per tre anni; di ogni
278
particolare che giustamente li incuriosiva, specie in una vicenda
particolare come la loro, di cui entrambi non riuscivano a vedere
che piega avrebbe preso.
Il Giornalista avvertiva il peso della situazione e ogni piccola
richiesta di prestito gli costava sacrificio. Cercò, in ogni caso,
di tenere la Segretaria fuori dal giro dei suoi sostenitori, ma fu
impossibile. Una sera non poté impedirle di soddisfare la sua
reiterata richiesta di fare un pieno di benzina, poi di giungere a
visitare la sua tana.
Entrarono con una torcia elettrica in cucina, una specie di tinello: una stanza divisa tra zona cottura con acquaio e zona pranzo
con un tavolo rotondo, allungabile, con sei poltroncine; un’angoliera ottocentesca e due vetrinette sopravvissute del salotto
buono dei nonni; un tavolo antico da muro col sottostante ripiano. Tutto questo glielo descrisse dirigendovi il fascio di luce
di volta in volta, ma era arduo individuare le cose sotto i libri, i
giornali e i mucchi di carte appoggiati su ogni mobile, intorno
all’ambaradan del camino che si è già descritto. Alle carte si alternavano pentole, tegami e piatti che, le disse, non aveva avuto
tempo e voglia di rimettere al loro posto. Sulla spalliera di una
sedia era appesa una camicia e su un’altra la giacca di un pigiama.
A sinistra della cucina c’erano due stanze, una che era l’ingresso
dell’appartamento (da ripristinare) trasformata in biblioteca, con
mensole di legno che occupavano interamente le pareti lunghe;
nell’altra, che era stata la camera della madre, in cui permanevano i mobili, gli abiti e le altre cose, il Giornalista aveva aggiunto
due stipi metallici per i libri, alti fino al soffitto, che occupavano
lo spazio in angolo tra le due finestre. Come se uno avesse voluto evitare il contrasto con il disordine della cucina, anche i libri
erano sparpagliati, lasciati a mucchi, secondo le esigenze dell’ultima ricerca svolta. Il passaggio era ostacolato da scatole e bauli
di ogni misura e capienza.
A destra della cucina, uscendo attraverso l’apertura in un muro
maestro con lo spessore di un metro, passarono dinanzi a una
porticina di legno, ricavata in un tamburlano di multistrato che
l’amico falegname aveva costruito - quando nel 1985, il Giorna279
lista e la madre erano stati sfrattati di casa dalla banda notaravvocatile - per rendere indipendente la camera.
Tirò lungo: « Questa te la farò visitare un’altra volta » le disse.
Proseguirono per il breve corridoio, per lo stretto passaggio che
consentivano le due librerie messe l’una di fronte all’altra, con
uno spazio preciso per un vecchio cassone di legno sovrastato
da un’enorme tavola Paravia sul sistema circolatorio umano. La
libreria posta sulla destra terminava in uno stanzino intercluso,
adibito a dispensa, dotato di un vetusto frigorifero (l’altro, inserito nel mobile in cucina, era rotto).
Superato un gradino di altezza modesta, al termine del corridoio,
si entrava nella stanza dei servizi, con una lavatrice da riparare,
la caldaia dell’impianto di riscaldamento guasta, un vecchio tavolo allungabile su cui, da bambino, il Giornalista giocava a ping
pong: era l’ambiente più ingombro essendoci ogni tipo di scatole, di contenitori (su uno scatolone si leggeva, scritto in grande
col lampostil rosso “CHIAVI”) messi sotto il tavolo, accatastati
sul piano, dentro e sopra i pezzi di un vecchio, dismesso mettitutto in finto noce. Una porta immetteva in uno striminzito
bagno con una cabina doccia; attraverso una portafinestra (con
un vetro rotto da riparare) si accedeva a una scala a chiocciola in
ferro che scendeva in un chiostro; da una terza porta si entrava
nella stanza del computer, in cui era conservata la gran parte
delle carte giudiziarie.
Fu una visita rapida e informale. Il Giornalista non aveva voglia
di trattenersi in un luogo in cui fioriva la malinconia: non avendo
neanche la corrente elettrica, non poteva svolgere alcuna attività;
ci mangiava e vi andava a dormire il più tardi possibile.
Uscirono, presero la macchina e salirono su uno dei poggi panoramici della vallata, dove si stavano domiciliando dalle dieci di
sera alle due di notte e più. Erano forniti di giubbotti e coperte,
biscotti e bevande. Non avrebbero chiesto altro se non ci fosse
stato tutto il resto intorno, sia a lui che a lei.
Accadde un episodio che, in quel presente venne superato di
slancio, inserendolo di sfuggita tra le riflessioni del Giornalista,
ma che dopo molto tempo egli avrebbe richiamato alla mente,
280
allorché rivisse tutta la loro storia.
Sabato 7 Aprile era la seconda sera di luna piena, quella in cui il
nostro satellite raggiunge il massimo. Erano saliti a mille metri
sui contrafforti dell’Alpe della Luna, piazzandosi ai limiti del bosco, in posizione vantaggiosa per osservare il grande disco che
salendo si rimpiccoliva, illuminando, attraverso il parabrezza, la
tavola improvvisata della loro cena.
I bocconi e i baci si confondevano. Le carezze e gli sguardi,
esaltati dal chiarore lunare, li condussero verso il loro primo incontenibile trasporto erotico. La spogliò lentamente, baciando
ogni centimetro della sua pelle, esplorando la sua intimità con
la delicatezza e la familiarità di chi desidera fare l’amore e sente
quel desiderio ricambiato. Le fece scivolare le mutandine, accompagnando il percorso del rotolino finché le superò i piedi.
Poi, le mani di lui salirono dalle caviglie di lei, piuma leggera, su
su fino alle cosce, che si allargarono con un dolcissimo sospiro
di piacere. Le si mise sopra e, quando stavano per unirsi, lei fece
una secca rotazione, accavallò le gambe e si irrigidì. Le disse,
le chiese, domandò, allontanandosi e scansandola da sé. Poi si
riavvicinarono, si toccarono, lei si abbassò su di lui e conclusero.
Stettero a lungo distesi sui sedili, vicini ma senza sfiorarsi. Avvertirono il freddo, sollevarono i piumini, con cui si erano protetti, e
misero sulla pelle il plaid verde pesante. Lui fumava e le chiese:
« Perché? »
« Ho visto all’improvviso la faccia del carceriere »
« Ma quale faccia? »
« Te l’ho raccontato: il direttore delle carceri che mia Cugina
conobbe al ritiro e che una notte la portò nella sua abitazione
dentro la prigione... »
« Ma che c’entra? »
« Niente, ma mi è venuto in mente e mi ha fatto scattare. In quel
momento eri lui... aveva… avevi un cappello da pittore »
« E cominciamo bene... » e discussero a lungo. Lui già l’amava,
voleva capire e ricostruire ogni passaggio della sua vita perché
rinascessero insieme.
Lei aprì il thermos, bevvero il caffè, si divisero un pezzetto di
281
cioccolata, si rivestirono. La luna era diventata piccola, alta al
centro del cielo, quando la riaccompagnò nei pressi della sua
abitazione.
Una volta sul letto, il Giornalista si mise a seguire le ombre danzanti prodotte dallo spiffero che, attraverso la porticina di legno,
colpiva la fiamma della candela sul comodino. Gli sembrava di
poter riflettere meglio appoggiando i pensieri su qualcosa di evanescente, che a quei pensieri assomigliava.
Non gli piaceva affatto ciò che era successo qualche ora prima.
Lui era vedovo di Muriel da un anno e aveva avuto il tempo per
capire che oltre il bene di Muriel c’era solo quello della madre.
Che voleva da lui questa ragazza? Che cercava in lui la Segretaria,
oltretutto in un momento tanto disgraziato? Pensò che, prima
della confessione sulla radura, lei aveva già espresso il desiderio
di vedere la casa... l’antro... la tana del Giornalista. Non poteva
essere soltanto curiosità, dopo anni di lontananze e mesi in cui,
bene o male, si erano frequentati.
La possibilità che volesse incontrarlo in casa sua per consumare
un rapporto da Ultimo Tango a Parigi non era da scartare tout
court. Ma lui, quando si erano aperti al loro rapporto, si era imposto di farci l’amore in un modo nuovo: avrebbe dovuto inventarsi una sequenza mai eseguita. Spogliarla in piena luce (al
momento era senza corrente, quindi...) guardarla e dirle tutto
ciò che provava e desiderava, scorrerla tutta di baci e carezze,
entrarle con la lingua e con le dita in ogni minima piega e anfratto, domandarle di attimo in attimo ciò che provava e quello
che desiderava, giungere alla penetrazione mentre lei lo chiedeva e implorava, eliminando ogni componente sadica e brutale,
compiendo un autentico atto d’amore. Ma non era già successo?
Non l’aveva mai fatto con una delle cento con cui... non l’aveva
fatto con Muriel? O era rimasto un desiderio anche con lei? Un
desiderio che forse si può realizzare soltanto dopo aver capito
che la donna con cui stai ti vuole bene?
282
XXXXV
Armonia
Il numero zero della rivista andò in stampa nella litografia della
ditta, come chiamavano la sede in città. Vi si recarono lui e lei
con l’Editore, che a cena in un bel ristorante fece festa con loro.
«Ecco Polis » disse il Giornalista sfogliando una sorta di facsimile, una cianografia impaginata da correggere;
« Polis » ripeteva, ridendo su quel titolo provvisorissimo (rimarcava lui), banale e antiquato, che si poteva sopportare come allusivo contenitore di una chiacchierata fuori commercio. Carta da
distribuire ai futuri redattori per discuterne.
Fecero il conto delle querele potenziali che la rivista avrebbe
potuto incassare: giunsero a quattordici. In un caso si trattava
di due parole riferite al palazzinaro, anzi al cementicolo di turno
(in paese nessuno si elevava al grado di palazzinaro), il cui nome
era messo con tanto di cognome e nella frase successiva con un
nomignolo che però non lasciava dubbi.
Lui disse che forse il reato non era ravvisabile.
« La diffamazione invece è aggravata - affermò quasi soddisfatto
l’Editore - perché si configura nelle forme dell’insinuazione » e
lesse a voce alta l’intera colonna.
« Babbo - disse lei - siamo in un ristorante »
« Non strillo mica - le rispose - e poi, qui, chi li conosce questi? »
Al centro della rivista compariva una costruzione su tutta l’ampiezza delle due pagine aperte. La gigantografia faceva risaltare il
contrasto tra un ecomostro, di cui si vedeva completato il grezzo, e antiche mura urbiche con lo scorcio di un nucleo storico
sommerso e avvilito. L’immagine provocava disagio e un senso
di sgomento che ne qualificavano la riuscita pubblicistica. Come
didascalia, in corpo 20, c’era:
L’architettura è una chiave, voi ne avete fatto un grimaldello, che iniziava
proponendo di insignire della Betoniera d’Oro il nuovo sindaco
283
e l’assessore all’urbanistica, che praticavano quella religione da
veri bigotti.
Poi, con tono sarcastico, si passava a descrivere i rapporti tra il
responsabile dell’ufficio tecnico e il costruttore del palazzone,
con precise osservazioni sulla concessione a edificare e le varianti apportate in corso d’opera. La denuncia era articolata, fornendo dati e date, incrociando i documenti comunali con quelli della
soprintendenza, tirando una somma che non dava molto spazio
ai responsabili di quello sfacelo.
« Bisogna che mi informi - disse l’Editore - su quanto costa l’assicurazione per danni che possono derivare da condanne per
diffamazione. Tu dovresti essere pratico »
« Non me ne sono mai preoccupato - rispose il Giornalista L’unica assicurazione che ho cercato sempre di avere è il dire le
cose come stanno, documenti alla mano, senza lasciarle debordare nell’illazione, come fanno certi pennivendoli ».
Sfogliavano – ognuno dei tre ne aveva una copia – indietro e in
avanti; ultima venne la prima pagina con l’immagine di copertina. Lui si era rifatto al suo primo giornale estraendone un aforisma di Pitigrilli, un po’ goliardico ma efficace, ricopiato pari pari,
che correva tra due filetti sotto la testata del giornale:
Ai giornali e alle riviste servono più i nemici che gli amici, poiché gli amici
per dirne bene se li fanno regalare, i nemici per dirne male li comprano.
Anche l’immagine di copertina proveniva da una vecchia idea
che, a suo tempo, non era riuscito a realizzare. Aveva pensato di
stampare un mensile che, senza girarci tanto intorno con le metafore, si sarebbe intitolato Don Chisciotte e ogni mese l’hidalgo
avrebbe puntato la lancia contro un certo problema: una volta la
Sanità, un’altra l’Urbanistica...
Questo tipo di impostazione sarebbe servita anche per tentare di
risolvere il più grosso dei problemi per scrivere ciò che si vuole:
il non avere padroni né diretti né indiretti.
L’idea gli era venuta allorché a quei tempi, da ragazzo, aveva
detto a Mino Maccari già illustre e feroce pittore: « Si ha un bel
dire che è soltanto pubblicità, ma di chi sono i soldi che ti danno,
per reclamizzare le mutandine da bimbo? Come fai domani a
284
sbattere un tizio in prima pagina perché ha venduto un camion e
rimorchio di mutandine all’asilo comunale, se t’ha dato cento o
duecento mila lire per la pubblicità?
Allora, caro maestro, avrei pensato che ogni mese la copertina
del Don Chisciotte la dovrebbe dipingere su tela (l’olio su tela viene pagato di più), un pittore di grido come Maccari, Monachesi
(Burri no perché occorrono dei figurativi), anche espressionisti
come Guttuso e altri. Il pittore rappresenta l’hidalgo contro la
Sanità, l’Urbanistica o la Politica del Credito e via di seguito,
dando di volta in volta al problema trattato la faccia che l’artista sceglie. Il quadro dovrebbe essere donato alla proprietà della
rivista: una cooperativa a cui appartengono chi scrive e chi dipinge. Di stipendiati in un’impresa del genere ci può essere sì e
no un tuttofare di redazione. Poi, un bel giorno, si fa una mostra
e si vendono i quadri, e il ricavato della vendita andrà a quella
tipografia che avrà avuto il coraggio di stampare a credito…»
« Donchisciottesca anche la parte finanziaria, ma geniale - proruppe l’Editore - Io in quest’impresa non ci voglio assolutamente guadagnare, né ci voglio fallire » aggiunse guardando la figlia,
che pendeva dalle parole del Giornalista.
« Potremmo fare una società o una cooperativa, di cui potrei
essere socio al pari degli altri, ma che funzione avrei poi?» e continuò: « Bene, intanto sto mettendo i soldi per la partenza, poi al
posto di scrivere e dipingere gratis – ma quanti ne troveremo? potrei impegnarmi a stampare a prezzi di costo reale. Che dite?».
La figlia annuì senza distogliere gli occhi dal Giornalista, che
riprese parlando della copertina del numero zero.
« Per stavolta sono stati dati quattro soldi al pittore, che è bravo
e, per stare in linea col suo valore, fa la fame o giù di lì. Gli ho
dato l’idea con uno dei miei scarabocchi che, oltre al sottoscritto, riesce a capire solo qualche raro volonteroso. Questa prima
copertina è fin troppo scontata, ma volevo che fosse capita al
volo la rappresentazione: una ruspa enorme che alza la sua bocca contro una pieve romanica famosa, ben riconoscibile, della
zona di cui ci occupiamo in questo numero zero, che viene bloccata dalla lancia di un Don Chisciotte con un look moderno e un
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cuore antico, gli si vede dall’atteggiamento »
« Ma è il tuo ritratto – fece lei – E perché non ce l’hai detto? »
« Serve ad anticipare l’editoriale che ho riscritto all’ultimo momento - le rispose – È stata un’idea del pittore, quella di ritrarre
me dentro l’elmo del cavaliere »
« È proprio da te – riprese il babbo – Mi piace comunque…».
Erano le undici suonate quando lei fece presente ai due, ancora
infervorati a sfogliare e commentare, che i camerieri erano tutti
in piedi a braccia conserte e occhieggiavano verso il tavolo.
L’Editore chiese il conto e uscendo continuarono a discutere dei
collaboratori e di problemi di redazione. Si attardarono ancora a
prendere un caffè vicino al palazzo in cui l’Editore possedeva un
appartamento, dove anche la figlia andava a dormire quando col
babbo si recava in ditta. Il Giornalista aveva preso una camera
in un albergo non lontano da loro e la Segretaria gli aveva dato il
contante per fronteggiare le spese che l’Editore si era offerto di
pagare, ma al Giornalista non andava, preferendo fare il signore
a sbafo.
Lei, saranno state le due, gl’inviò un messaggino:
« Correggo le bozze »
E lui di rimando: « Sgobbona »
Ancora lei: « Ma allora non dormi nemmeno tu. Dimmelo, a che
pensi? »
« Alla rivista… – lui concluse – Buonanotte ».
Ebbe l’impressione che le avesse chiuso il telefono in faccia,
evitando che lo scambio scivolasse sul fatto che entrambi non
dormivano, a causa di essere vicini ma separati. Si domandò se
lui non fosse così preso dalla sua rivista da considerare anche il
loro amore secondario, ma andò oltre, chiedendosi quanto gli
interessi editoriali di lui influissero sul loro rapporto.
Le sovvenne un’immagine che la inquietò. La vide realmente
mentre si alzava per andare in cucina a prendere un bicchiere
d’acqua. Lui, un giorno, parlando di una sua ex, le confessò che
un mattino, svegliandosi, l’aveva guardata con sorpresa come
un’estranea che gli si fosse infilata dentro il letto. Bastò lo spazio
della colazione per dirle che era finita e non rivederla più.
286
« Allora sei proprio di quelli che escono per comprare le sigarette e poi spariscono » aveva replicato lei.
« No, è successo però, e non so perché ora sono uscito con
questa storia ».
La sera dopo, sempre a cena nel solito ristorante, l’Editore, preso
atto dell’avvenuta correzione della prima bozza e della necessità
di una seconda, disse che l’aveva riscorsa e riletta, che dopo tutto
riteneva che fosse giusto farne una tiratura media e mandarla in
edicola, come numero zero naturalmente, altrimenti avrebbero
dovuto considerarla soltanto una prova, senza alcuna validità per
quel che riguardava il collaudo della distribuzione, del gradimento degli edicolanti (i migliori recensori) e dei lettori.
« Va bene, se credi facciamo così - disse lui - Sei tu l’editore
» confermando che poteva far uscire la rivista nella scaletta di
macchina per il giorno dopo, eseguita la seconda correzione.
« Ce la facciamo - disse rivolto a lei - per domani? »
« Per domani sera – rispose – Considerate di far girare la carta
domani l’altro mattina ».
Il sabato di quella settimana Polis comparve in un migliaio di edicole che coprivano quattro province e un capoluogo di regione.
A seguire, duecento copie furono inviate alle librerie che avevano un settore dedicato ai numeri unici e alle riviste.
Tornando, il Giornalista non poté declinare l’invito che l’Editore
gli fece per un brindisi in famiglia all’iniziativa appena nata. Sottolineò che la moglie gli aveva appena telefonato in ditta perché
voleva le fosse confermato questo pranzo fissato per domenica.
Ogni edicola in paese aveva messo ben in vista Polis e fu tutto un
dire ho visto ho letto complimenti rivolti all’Editore e al Giornalista da parte delle persone che incontravano, mentre i protagonisti delle vicende denunciate sulla rivista passavano come
lasche.
Quella domenica, a tavola, mentre fuori la gente commentava
l’iniziativa di carta, si capì subito che la Psicologa aveva messo il
terzetto in stato d’imputazione. Diede il buongiorno, rivolgendosi al marito:
« Con tutto il plauso per il lavoro svolto, mi sembra che tu stia
287
abbandonando l’azienda, preso come sei da questa rivista… »
« Anche questo è lavoro editoriale... » le rispose l’Editore.
« Sì, per andare a rotoli... e tagliare i ponti con i clienti » gli fece
in malo modo la moglie che non si era mai occupata di questioni
aziendali, ma stavolta era diverso. Lei si sentiva tagliata fuori dal
terzetto che, lavorando gomito a gomito, favoriva il rapporto
tra il Giornalista e la figlia all’ombra del marito, che lei vedeva
protettiva.
Finalmente la madre era riuscita a riaverlo di fronte e soprattutto
ad averli di fronte tutti e due insieme. Dedicò un occhio per uno,
fisso, a lui e a lei, estendendo la sua valutazione alle reazioni e al
comportamento dell’Editore nei loro confronti.
Porse ogni vivanda con una gentilezza sottile e tagliente e quando furono al brindisi finale propose un « Auguriamoci che vada
tutto per il meglio » dirigendolo velatamente a lui e a lei che non
aveva mai smesso di guardare con occhi che, diversamente dalla
bocca, non accennarono a un sorriso.
L’Editore si limitò a dire: « Ma che cos’ha mai oggi la mia Regina? » usando, come faceva spesso, quel termine di cui il Giornalista aveva già capito, in parte, la valenza e che gli sarebbe apparsa
chiara molto più avanti.
Mentre prendevano il caffè sulla veranda, la Segretaria si assentò
e dopo poco lui ricevette un messaggino:
« Ci si vede stasera? Ti aspetto alle sette al parcheggio degli
autobus ».
***
Le Scuse Inutili
Quando si videro quasi l’aggredì:
« Che scusa hai preso per rimanere fuori a cena? Dove hai detto
che saresti andata? »
« A mangiare una pizza con le mie amiche »
« Esattamente con chi? »
288
« Ma che importa? Una scusa vale l’altra… »
« Una scusa fa schifo come l’altra, vorrai dire »
« Insomma, che vorresti che facessi? »
« Senti, non lo so, ma così non mi piace »
« Vuoi che dica ai miei che stiamo insieme e così va tutto per
aria? A me piacerebbe. Tra l’altro nei giorni che siamo stati su
per stampare la rivista mi sono venuti tanti dubbi »
« Quali? » disse mentre, già in movimento, facendo scivolare l’indice sul pollice, lanciava il mozzicone dal finestrino.
« Che tu sia interessato più alla rivista che a me »
« Non ti mettere in gara con la rivista, è una delle cose che faccio... »
« Anch’io sono una delle donne che... »
« Imbecille - si trovò a dirle - Pensi che uscirei con te se non mi
ci trovassi costretto? »
« Da chi? »
« Dal Padreterno dei sentimenti, stupidina » e la tirò a sé spettinandola con la mano.
« Dove andiamo? »
« Dove vuoi, per me è uguale »
« Allora andiamo in quella pizzeria su in cima al monte, ti va? »
« Sì sì, prendiamo quell’enorme pizza dai tanti gusti; l’ultima volta fu un’impresa finirla. Ne prendiamo una così e una normale,
poi ce le dividiamo ».
Erano arrivati da poco e camminavano lungo il muro di parapetto del belvedere sulla vallata. Il mondo era lontano, svanite le
riflessioni e gli interrogativi, le domande e l’esigenza di risposte.
Erano insieme.
Le suonò il telefono. Era sua madre. Lei rispose che glielo aveva
già detto, stava andando a mangiare la pizza con le amiche. Con
chi? E fece una serie di nomi che lui s’impose di non ascoltare.
Il Giornalista cambiò umore di colpo; questa donna, oltretutto,
è una spaccapalle, pensò, ma disse soltanto:
« Che voleva? »
« Mia madre - gli rispose - Non mi dà tregua »
« Allora? Non ci vediamo più fuori ufficio? » disse lui.
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« È impossibile - ribatté lei - A meno che non si voglia vivere in
ufficio e il babbo ce lo permetta. Io voglio stare con te, se ti va »
concluse con fermezza.
Fu la sera in cui, tornati in paese, si erano fermati ancora a parlare (il colloquio di chi non vuole congedarsi) nella penombra
del parcheggio di un centro commerciale. Erano lì abbracciati,
quando sopraggiunse una pattuglia in servizio. Si affiancò, chiesero i documenti e il libretto.
La Segretaria, ripartita la pattuglia, disse sorridendo al Giornalista che da quel momento il loro stare insieme era riconosciuto
dalla Legge. Era contenta.
***
Il Portatile
Il giorno dopo, la Segretaria era molto impegnata con il lavoro
della casa editrice ma, sapendo che il Giornalista doveva correggere la bozza di una denuncia che lei aveva battuto dandogli la
stampa, lo chiamò per dirgli che avrebbero potuto approfittare
della pausa del pranzo. Era una bella giornata, e suggerì di andare in campagna.
Si trovarono all’una.
Lei aveva in borsa dei panini, acqua, birra e un thermos col caffè.
E il computer portatile dell’ufficio. Li ospitò l’ombra di un pino,
sul prato adiacente a un impianto sportivo poco usato, dove si
recavano spesso, dato che era a due chilometri dal paese. Pranzarono e corressero il testo della denuncia. Il loro ufficio era
ovunque scegliessero di piazzarlo.
Fu lei che mise in rilievo quanto era bello poter lavorare insieme
nei posti che avrebbero potuto scegliere. Aggiunse che aveva deciso di acquistare un portatile per essere indipendenti. Telefonò
la madre, a cui lei rispose che era andata al bar, per pranzare, e
stava rientrando.
A lui disse: « A stasera ».
290
XXXXVI
Il Colloquio Interrotto
Trascorsa un’altra settimana, fu ancora domenica. E dopo un
pomeriggio insieme furono sul punto di ordinare una pizza. Lei
però disse che quella sera il babbo era a casa e doveva avvertire
che non sarebbe tornata per cena.
Chiamò e la madre le fece il solito interrogatorio. Poi, dopo uno
scambio concitato col marito, glielo passò: la Psicologa aveva
preso la decisione di scatenare il babbo.
A questo punto il Giornalista le prese il telefono e le impose di
dire con chi fosse veramente. Il babbo parlò di nuovo e in modo
concitato con la moglie, poi, rivolto alla figlia:
« Vieni a casa immediatamente ».
Si consultarono, lei sarebbe voluta rimanere, ma lui l’accompagnò a casa e se ne andò in giro da solo, accendendo due sigarette
per volta.
Dopo non molto, lo chiamò l’Editore, che aveva accanto la moglie, di cui si udiva il ronzio costante:
« Ti voglio vedere subito »
E lui: « Dove? »
« In ufficio » rispose.
Il Giornalista s’era fermato in un bar, prossimo all’ufficio, a prendere un caffè, quando sopraggiunse un’altra chiamata dell’Editore, che precisava: « Ti do cinque minuti ».
Era in casa, con la donna che lo pressava.
L’Editore arrivò come non l’aveva mai visto fuori di casa: lui,
sempre vestito bene, di un’eleganza sportiva al confine del ricercato, si presentò invece con un pullover sgualcito, buttato sopra
dei pantaloni di velluto che di solito usava per sfacchinare in
giardino. Il Giornalista lo seguì, mentre apriva la porta come se
la stesse sfondando. L’Editore si sprofondò nella sua poltrona e
il Giornalista dall’altra parte gli si sedette di fronte.
291
« Dunque, che vogliamo fare? » iniziò deciso a voce alta, ancora
carico dell’atmosfera di casa, mettendo le sue grandi mani sul
tavolo, proteso in avanti.
« Io voglio bene a tua figlia »
« Che tipo di bene? »
« Ci sto pensando - gli fece lui con calma e, soprattutto, con una
sincerità che traspariva - Non sono certo venuto a casa tua per
rubare una scopata con tua figlia »
L’Editore tolse le mani dal tavolo, arretrò appoggiandosi allo
schienale. Cambiò completamente espressione. Diede un profondo respiro e riprese.
« Tu non sai quanto io abbia patito con mia suocera, me la porterò dietro fino alla tomba; ha dispensato disgrazie a tutta la famiglia. M’ha avvelenato l’esistenza. Prima ha cercato di mettermi
contro la figliola più grande che … sempre c’è stata di mezzo lei,
quel serpente... e poi ha cresciuto la più piccola... »
« Quanti anni aveva quando è morta? »
« Chi? »
« Lei, tua figlia, la più piccola, quando è morta tua suocera… »
« Mah, quattordici, quindici. Ma ormai l’input lo aveva dato e
hanno continuato così, sempre zitte, allevate come gatte morte
e il fatto che la più grande si sia ribellata mentre l’altra sembrava
essere ossequiente non significa nulla. Poi le donne in casa mia
hanno fatto sempre come è parso a loro, facendo sempre finta
che le decisioni le prendessi io. Ah, la Regina, non ha mai smesso
di ripetere: “Per carità, ditelo a lui... io non comando niente... ” »
« So però, se mi permetti, che non ti sono mai stati bene gli
uomini che hanno frequentato le tue figliole e questo può aver
prodotto in loro una certa confusione. Anche la più grande è
stata allontanata, via via, da ogni pretendente »
« Io non c’entro in questo, ho avuto sempre molto da fare e il
resoconto di ogni cosa l’ho appreso la sera tornando a casa. Te
l’ho già dette queste cose... non mi credi? ».
Era stanco, tra il rassegnato e lo sconsolato e guardava il Giornalista come chi vuol capire se l’interlocutore è riuscito a oltrepassare le parole per comprendere l’intero contenuto del messaggio.
292
Suonò il campanello.
« Eccola » disse l’Editore e andò alla porta.
Tornò dicendo che c’era la moglie, rimasta in salotto.
E riprese:
« Dunque, dobbiamo concludere. Capirai bene che la nostra avventura, appena iniziata, non potrà continuare. La rivista è nata
col cuore e soltanto in un rapporto di amicizia poteva continuare. Dovrei scegliere... »
« Va da sé - lui rispose - Capisco e condivido ».
L’Editore si alzò, andò dalla moglie che tornò a casa. Ma la Psicologa richiamò mentre il Giornalista era ancora presente e l’argomento era ancora la suocera.
« Le ho preparato le valigie - disse la moglie – Diglielo »
L’Editore rispose: « Non ce n’è alcun bisogno ».
La Psicologa stava pigiando sul ricatto e sbandierava le valigie
come spauracchio di rottura irreparabile per lei, tentando di sovraccaricare lui dello sconquasso della famiglia.
I due uomini si alzarono, come avevano fatto tante volte dopo
una delle loro innumerevoli conversazioni (talvolta discussioni),
accalorate dai loro diversi punti di vista, da idee e ideologie contrarie, ma si alzarono carichi di tantissime altre cose che si sarebbero voluti dire senza, tuttavia, che nessuno dei due guardasse
l’altro in cagnesco.
Fu la sera in cui la Segretaria, tralasciando le valigie che la madre
le aveva preparato e mostrato, prese un borsone con quattro
stracci e andò da lui, rifugiandosi nel letto a una piazza e mezzo,
dove vissero per tutto il tempo che stettero insieme.
Nel ricostruire questo episodio si sono avute delle incertezze. Abbiamo narrato quel che gli parve fosse accaduto quella prima sera. Ogni tanto, non
ne capirono mai il motivo, le diceva che gli era piombata in casa di notte,
buttando sul pavimento un borsone di panni. Forse l’aveva sognato, ma a
lui sembrava che fosse accaduto veramente. Lei si era materializzata nel suo
letto. La data di questo evento è il 13 Maggio 2012: in paese c’era una
grande confusione per la visita di un capo di stato...
293
Nella realtà, quella sera lei gli aveva telefonato dicendo di venirle
incontro, saranno state le dieci o le undici, perché era venuta via
di casa. E lui l’aveva fatta salire in macchina, col suo borsone.
Poi, appena percorso meno di un chilometro, s’erano fermati,
quasi simbolicamente a metà strada tra la casa dell’Editore e
quella del Giornalista.
« Che facciamo? » disse mentre giocherellava irrazionalmente
con i comandi dell’automobile: aveva acceso il quadro, messo
in movimento i tergicristalli e non pioveva, spento e riacceso
ripetendo la manovra.
« Io ho già deciso, come vedi - gli rispose - Ma mi vuoi o non mi
vuoi? » aggiunse.
« Imbecille. È possibile che tu non capisca? Sono stato io qualche ora fa a obbligarti, quando parlavi al telefono, a dire con chi
eri in pizzeria. O l’hai dimenticato? È che non mi va di trasformare l’inizio del nostro stare insieme in una fuga. E non mi va
che tuo padre possa vederla e sentirla come una fuga... vuoi stare
con me o scappare da tuo padre? »
« Io voglio stare con te, finché mi vorrai... ».
Il Giornalista prese il telefono e chiamò l’Editore, azionando il
vivavoce:
« Sono qui con tua figlia - cominciò - fermo in macchina a cinquecento metri da casa tua. Che dobbiamo fare? »
« Quel che volete » rispose secco l’Editore, intanto che la moglie
seguitava a parlargli addosso.
« Ma è tua figlia - gli ribadì l’altro - e nessuno in questo gioco ha
intenzione di barare »
« Non sarai certo tu a darmi lezioni di come ci si deve comportare con i figli » giunse gridata la voce, ampliata dagli altoparlanti
dell’automobile.
« Lontano da me - replicò lui - il volerti insegnare qualcosa. Te
l’ho detto più volte, per questa vita ho soltanto da imparare, e
nemmeno se esistesse la reincarnazione prenderei le spoglie di
un insegnante »; il Giornalista ora si stava incazzando.
Si sentiva in sottofondo, in modo netto, la voce della madre.
Diceva che la figlia non aveva nemmeno preso le valigie e che
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erano a sua disposizione.
« Diglielo » ripeteva.
« Il mio numero ce l’hai - concluse il Giornalista - Anzi, il nostro
numero, a questo punto» e chiuse la conversazione.
Accese il motore e si avviarono pian piano, tanto che avrebbero potuto contare i giri delle ruote. Nessuna meta. Gli venne
in mente una soluzione e le disse che avrebbero potuto andare
dalla vice nonna, la bi-vedova Regina madre, evitando così di
mettere i suoi di fronte al fatto compiuto.
Passare insieme la notte avrebbe costituito un primo fatto irreversibile. Giungere di primo mattino a casa della Vice nonna,
che abitava nella città di mezzo, a cento chilometri, avrebbe costituito la prova che erano rimasti in macchina. Sarebbe stata la
prova che intendevano dare a tutti il tempo per riflettere e trovare la soluzione più corretta al problema.
Lei capì. Orientandosi in quella prospettiva, le venne in mente
che avrebbero potuto andare anche nell’altra città, più lontana,
dove c’era la ditta. Recarsi dalla signora, che fungeva da responsabile e stava col babbo da ventanni.
La Segretaria era molto in confidenza con quella signora, che l’aveva vista crescere e a cui, da piccola, veniva affidata quando l’Editore e la moglie si recavano in ditta andandosene dalla mattina
alla sera o anche per due giorni in giro. A lei dava noia l’automobile e preferiva restare con la signora, madre di una bambina
della sua stessa età, con la quale era diventata amica.
« Intanto - disse lui, che ora stava uscendo dal paese a velocità di
chi ha deciso dove arrivare - prendiamo la direzione della città
più vicina dove sta la Vice nonna. Se poi decidiamo per la ditta,
facciamo altri cento chilometri. Tanto, la prima città è di strada
per la seconda » concluse.
Sarebbero arrivati a destinazione troppo presto per suonare il
campanello a chiunque. Si fermarono in un’area di servizio, benzina e cappuccino. Poi di nuovo sigarette e parole. Lui le fece
presente che forse non era il caso di andare in ditta, nell’ambiente di lavoro di suo padre, rischiando di fare un passo falso
che egli avrebbe potuto non gradire affatto. Inoltre, proseguì, la
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condizione delle due possibili interlocutrici era molto diversa e
si trattava di scegliere la più adatta.
La responsabile della ditta era suppergiù coetanea della madre.
Condividevano figli coetanei e una vita simile, eccettuato il tenore reso diverso dalla disparità dei guadagni. La signora avrebbe
potuto immedesimarsi nella situazione per ovvie ragioni, ma il
suo ruolo di dipendente avrebbe in qualche modo condizionato
i reciproci comportamenti.
La Vice nonna, ultraottantenne bi-vedova senza figli, era legata da una lunga amicizia divenuta nel tempo similparentela; le
venivano riconosciute intelligenza e saggezza, conferendole un
ruolo matriarcale.
Convinti di non dover toccare l’ambiente della ditta, e valutate le
caratteristiche delle due signore, scelsero di fermarsi alla prima
città, che raggiunsero alle sei del mattino.
La fece riposare una mezz’oretta, allungata dal suo sedile a quello di guida, appoggiata sulle gambe di lui che l’accarezzava pregandola di riposarsi un po’, se non di dormire (che sapeva impossibile), almeno di allentare la tensione.
Fecero quasi le otto nel primo bar che avevano trovato aperto, non lontano dalla casa della signora prescelta. Si divisero un
bombolone caldo e lui, come accadeva e sarebbe sempre accaduto, non lesinò la crema alla propria barba riuscendo a schizzarsene un pochino anche sulla camicia. Fu l’occasione per un
sorriso e per lei di prendere una salvietta di carta e pulire il suo
bambino.
Usciti, lui restò in macchina mentre lei andò dalla Vice nonna.
Dopo un po’ ridiscese dicendo che la signora voleva conoscerlo.
Salirono insieme. La signora lo squadrò ben bene; lui capì, appena la donna aprì bocca, che si era già preparata ad aggredirlo:
gliene disse quante poteva, oltre a rinfacciargli il fatto che, appena si era accorto dell’infatuazione della bambina, lui avrebbe dovuto fare un passo indietro. Il Giornalista si limitò a rispondere
che se lui era vecchio, lei però non era una bambina, mantenendo un comportamento gentile e rispettoso.
L’Editore o sua moglie, o tutti e due, avevano già telefonato alla
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Vice nonna: ne ebbero l’esatta sensazione, come furono certi
che appena se ne andarono la Vice nonna informò i genitori
di lei. E questo era quanto avevano intenzione di ottenere. La
missione era compiuta.
Ripresero la direzione del paese, scegliendo il percorso più lungo. Anziché per l’autostrada, stavolta si diressero verso le grandi
vigne che inauguravano quei saliscendi protesi, attraverso i boschi, verso un’altra vallata e che salivano di nuovo per scrinare in
vista del loro paese.
Fu una giornata molto lunga, dipinta di tanti colori, profumi,
sfumature, sguardi, pensieri, riflessioni scritte, a volte scolpite da
lui su di lei e viceversa. Si lasciarono carpire dal sonno un tempo
breve in una pineta raggiunta attraverso uno stradino dove la
macchina passò di misura.
Pranzarono in una stanza gremita di scoiattoli imbalsamati, teste
di capriolo e di cervo che li guardavano con occhi vitrei da quei
legni foggiati a stemmi gentilizi, dove erano incollate. Formaggio e miele, finocchiona e un quartino di rosso, fette di pagnotta,
aria ricostruita di fattoria senza più fattori, che s’erano messi a
imprendere agriturismi.
Nel pomeriggio lui la condusse, strada facendo, verso un castello
che si vedeva da lontano e attirava lo sguardo. Si fermò lungo un
campo di avena e le disse:
« Qui una volta si fece notte con degli amici alla ricerca di un
boomerang australiano di gran pregio che, tornando, ci aveva
costretto a stenderci in terra, pena farsi tagliare la testa. Ripresici
dallo spavento - vedi, aveva girato laggiù il boomerang, dietro
le querce ricomparendo da dietro questa che è vicino a noi cominciammo a cercarlo. Non l’abbiamo più trovato; era bello, affusolato, in alluminio, lungo come un braccio. Può essere
un’arma micidiale se lo sai usare… »
« Che facciamo stasera? Mi porti a casa tua? » gli disse lei a bassa
voce.
« Su, andiamo al castello adesso…» e mise in moto per arrivare al
viale di cipressi che si concludeva in un maestoso cancello in ferro, con una grossa catena fermata da un lucchettone arrugginito.
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« Non è abbandonato, anche se l’apparenza è quella. È l’ingresso
secondario, che un tempo era principale. La leggenda - proseguì
il Giornalista - pretende che su questo cancello si sia impiccata
la quindicenne figlia del conte, delusa da un amore impossibile.
E il cancello non si volle riaprire: la catena e il lucchetto furono
trovati una mattina e nessuno sa chi sia stato a metterli. E come
vuoi che l’abbiano chiamato? Il Cancello del Diavolo, naturalmente »
« Sarà stato il conte» disse lei, toccando la catena.
« Ferma - le fece, prendendola per un braccio e tirandola indietro
- Non toccare il lucchetto, potrebbe aprirsi. Dicono che se un’altra ragazza, presa da un amore impossibile, tocca quel lucchetto
esso si riapre ma lei rimane fulminata »
« Se ce ne fosse bisogno, e può accadere, verrò al castello del
conte per toccare il Lucchetto del Diavolo » lei concluse.
All’esterno, lungo una rete, si arrampicarono su di un’erta aiutandosi con le ginestre che mostravano i primi gialli.
« Vai sicura, aggrappati: la ginestra non cede » le fece lui che la
seguiva.
Giunti in cima, si affacciarono sulla corte del castello, selciata di
pietre che convergevano sul pozzo centrale: la buca era coperta
da un’inferriata sulla quale stava appoggiato un grande vaso di
gerani rossi.
« Ma allora ci abitano » disse lei.
« Di tanto in tanto. È gente ricca che ci capita. L’ingresso è quello laggiù, oltre il muro, proprio all’opposto di dove siamo noi.
Dicono che vi abbia dormito D’Annunzio, nel periodo della
Duse: quasi come Garibaldi, il sommo vater - e rise - Ha dormito ovunque. Sei la mia Eleonora » aggiunse, prendendo con un
dito la rete, a cui erano addossati per non perdere l’equilibrio,
sulla punta dei piedi, stirati in su al massimo per uniformarsi al
terreno in forte pendenza.
Verso le cinque s’inventarono un gelato. La cosa più importante
era perdere tempo, il rinviare l’arrivo. Lei consultava il suo telefono di frequente. Avrebbe potuto chiamare la Vice nonna o
qualcuno dei suoi. Forse la Cugina: sarà al corrente o sarà riparti298
ta per uno dei suoi viaggi? Si chiedeva guardando lui di continuo,
che invece parlava di mille argomenti per non affrontare quello
che galleggiava tra loro senza muoversi di un dito.
Rimaneva da percorrere un’altra salita verso un altro bosco di
querce, poi avrebbero visto il panorama della vallata dov’erano
nati entrambi. In tempi diversi, separati da oltre quaran- tanni,
pensava lui senza però farsene un problema.
Avevano fatto tutto: si erano plurifermati, erano pluripartiti,
mangiato formaggio e miele, parlato e riparlato; lui aveva narrato leggende e raccontato perfino del boomerang, preso il gelato
e tastato il telefono tanto da consumarlo.
Le ruote, pian piano, come quando la sera prima erano partiti,
procedevano lo stesso, pur potendosene contare i giri.
Diedero un’occhiata sui sedili posteriori: c’erano sempre la coperta, i due giubbotti di lui e un giaccone felpato, che erano
serviti a proteggere le loro prime serate, ancora molto fredde,
passate insieme. Dentro il portaoggetti del cruscotto c’era una
tavoletta di cioccolato e una bottiglina di liquore.
Passarono in rivista la roba come fossero al campo base di una
scalata e dovessero decidere cosa mettere nello zaino prima di
partire. Ricordarono la notte in cui, un mese, prima i suoi erano
andati alla ditta e lei, con la scusa di un malanno improvviso, era
rimasta in paese. Insieme avevano fatto alba grande, in macchina, seguendo al secondo il trasformarsi della notte dalla collina
di un paese non lontano dal loro, guardando nel chiarore incipiente le luci che man mano si andavano spegnendo sui viali del
centro e sulla periferia, sulla zona industriale. Ed erano rimasti
abbracciati, incollati finché ci fu l’ultima lucina accesa. Avevano
preso un pezzetto di cioccolata tenendolo con le bocche che si
avvicinavano man mano l’una all’altra. Avevano bevuto un sorso
di latte di gallina.
Esaurito quest’ultimo ricordo, si resero conto che stavano iniziando la discesa e la vallata ora si vedeva nei particolari. Lui si
fermò, fece manovra e rimise il senso della macchina verso l’alto,
cabrò: magari avessi il mio aeroplano in questo momento, gli si
fece prepotente dentro la testa, e si sorprese a riflettere se desi299
derasse essere lassù libero di volare da solo o avere accanto lei.
Decisero di tentare di dormire, sapendo bene che tutti due
aspettavano una chiamata, un segno, un possibile accadimento
di qualsiasi genere.
Si trovavano nella condizione di chi, partendo per un viaggio, ha
caricato in fretta delle bottiglie, il pallone dei bambini e un manubrio da camera per la pesistica, dividendo le cose alla meglio
senza averle separate adeguatamente e bloccate. Ognuno ha le
sue soglie di sopportazione ai rumori che dopo poco cominciano, variando secondo il senso della curva, l’intensità delle frenate
e delle accelerazioni. Infine però, anche ai più sprovveduti e pazienti tocca fermarsi, prima che saltino i nervi e che gli oggetti,
sbattendo tra loro, si rompano.
Le cose, se sollecitate, sono costrette a trovare un nuovo baricentro, come stavano facendo loro due con la famiglia della
Segretaria.
Lei riuscì a dormire, di nuovo appoggiata sulle ginocchia di lui,
come quel mattino sotto casa della Vice nonna. Nonostante fosse stanca e provata, standogli vicina niente le faceva più paura.
Lui rappresentava per lei il porto sicuro, un riparo inaccessibile
a qualsiasi onda.
Non avevano fame, ma scendendo si fermarono a una bottega
lungo la strada, un generi alimentari di mezza montagna dove lui
talvolta sostava e, se le galline l’avevano fatte, si faceva cuocere
una coppia d’uova. Erano abituati, nella bottega, a vederlo transitare con donne diverse, sempre molto più giovani di lui. Ma
stavolta, vedendolo con la trentenne che ne dimostrava venti, il
padrone gli disse:
« È tua figlia? »
« No, un’amica. Le galline hanno partorito oggi? »
E poi, rivolgendosi a lei:
« Ti vanno al tegamino? »
Lei non rispose, mentre l’oste annuiva: le galline avevano partorito.
Pur di ritardare l’arrivo, incerti su dove approdare, mangiarono.
Uscendo, lui commentò il viaggio osservando che aveva finito
300
anche gli ultimi duecento euri che lei gli aveva dato la sera prima:
due pieni di benzina e le varie fermate...
« È proprio un bell’inizio, mi mantieni da più di un mese… bella
prospettiva per te. Ma sei sicura che ti conviene? » e lei gli mise
la mano sulla bocca:
« ... E zittati - fece sforzandosi di sorridere - Non sono questi i
problemi ».
Giungendo in paese, era ormai molto tardi, lui si fermò e le chiese quale strada dovesse prendere. Lei, senza tentennare, rispose:
« Quella per casa tua, se mi vuoi. Non mi presento da loro a
quest’ora. Ci andrò domattina a prendere le valigie ».
***
La casa di lui era nelle condizioni che si sono già descritte e il letto da una piazza e mezzo era rifatto come spesso fa uno scapolo:
tirando su le coperte, quando va bene.
Quella prima notte, timori o non timori, stanchezza o tensione,
non poteva non succedere. Era nel suo letto. Sia la componente
cerebromaschile che il desiderio fisico lo spinsero naturalmente verso di lei, benché si fosse ripromesso di aspettare e darle
tempo, dopo la sera del plenilunio in cui si era improvvisamente
sottratta alla penetrazione.
Giunti al momento di congiungersi, lei accavallò le gambe per la
seconda volta, scendendo poi lungo il corpo di lui per disinnescarlo. Il Giornalista si mise di scatto a sedere sul letto gridandole
provocatoriamente che, secondo Maometto, l’uomo può sparare
tremila colpi nella vita e lui calcolava di aver già triplicato. Quindi
non doveva temere di rimanere incinta. Poi si girò verso il comodino, tirò fuori una confezione di preservativi forse stantii,
dato che erano lì dai tempi dell’allora sopraggiunto spauracchio
aidiesse, quando ogni tanto ospitava una portapene bravissima.
Non fecero l’amore. Lei gli mise il preservativo e lui l’attirò in
una scopata commentata bestiale. Nessuno dei due rimase soddisfatto di questo pornoincontro.
Alle otto la sveglia telefonica. Si alzarono e uscirono senza nem301
meno prendere un caffè. Salirono in macchina fino davanti a
casa sua, dove le disse: « Scendi », aprì lo sportello e lo richiuse
dietro di lei.
Il Giornalista neanche accennò un saluto e ripartì.
***
Trascorsero due giorni, e lei gli inviò un messaggino (SMS =
Senza Mai Scordarti) con cui diceva:
« Il babbo ha voluto che l’accompagnassi, sono in ditta…».
Lui rispose semplicemente:
« Bene ».
Il giorno dopo nuovo scambio di SMS:
« Non posso starti lontana » e lui, in modo per niente originale:
«Nemmeno io».
La trascrizione dei loro Senza Mai Scordarti potrebbe saturare
un volume.
Lei stette via dal martedì al sabato. Il venerdì, dopo tanto messaggiare, usarono il telefono.
« Domani torno da te, se vuoi »
« Ti aspetto» le rispose.
Lei arrivò nel pomeriggio e prima di cena lo chiamò:
« Vengo al parcheggio degli autobus » e lì si trovarono.
« Le valigie? »
« Non le ho prese, basta quello che ho »
« Perché? Allora vuoi tenere i piedi su due staffe. Io voglio che
si stia insieme, purché la situazione sia chiarita bene. Sei sicura di
volerti trasferire a casa mia? »
« Stai a vedere che sono in mezzo a una strada: dai miei non ci
torno e tu non mi vuoi, sono davvero un’imbecille, come mi hai
detto tre volte »
« Imbecille. Ora te lo ridico; anzi aggiungo stupida. Non mi va
che tu scherzi su certe cose. Che io ti voglia è un dato che ha la
prova dei fatti. Falla finita ».
Lei allora gli spiegò che non s’era portata dietro niente perché la
madre, divenuta arcigna e sprezzante, aveva assistito impassibile
302
al lungo discorso che il babbo le aveva fatto in casa, concludendolo, rivolta a lei:
« Le valigie sono pronte da una settimana, prenditele e vattene ».
Il tono delle parole (poco) materne e l’atmosfera nel suo insieme
l’avevano spinta a uscire di casa immediatamente, senza fare un
gesto né rallentare con una sola parola l’unico percorso che al
momento voleva fare.
Stavano ancora discutendo quando sopraggiunse in macchina la
Zia che si portava dietro un grosso pacco.
« Vieni con me che ti spiego e ti do questa roba » le disse.
La Zia aveva un appartamentino a nord del paese, in una nuova costruzione quadrifamiliare dove abitava da sola. Mentre la
donna le aveva aperto lo sportello, lei lo guardò con un fare
interrogativo:
« Vado... se dici che vieni a prendermi, sai dove sta di casa. Ti
chiamo al telefono appena fatto ».
Passarono quasi due ore e lui cominciò a friggere. Prese la macchina e si portò sotto casa della Zia.
Fumò un paio di sigarette, poi fece il suo numero.
« Sì - gli rispose - Scendo subito», ma passò più di mezz’ora,
trentatré minuti per essere esatti. Lui spingeva sul pulsante del
cellulare di continuo e controllava l’ora come gli arbitri e la squadra vincente ai tempi supplementari. Discese, aveva gli occhi
gonfi.
Lui la incalzò:
« Che cavolo voleva la tua zia... accia? E il pacco? »
« Il pacco - fece lei - conteneva un po’ della mia roba, l’essenziale: scarpe, toilette, tre o quattro capi per la stagione che arriva.
Ma non ho preso niente »
Poi continuò: « L’ho fatto pensando a quel che avevi detto quando sono giunta senza valigie: “meglio così, la diano tutta a Nomadelfia la tua roba, tanto coi preti son culo e camicia”… »
« E in tutto questo tempo che vi siete dette? »
« Capirai, che m’avrà detto? Mi ha rifatto tutta la tua storia di
vecchio matto - te lo posso dire, hai detto che ti piace - mi ha
richiesto mille volte se ho pensato bene al passo che faccio e
303
cose del genere. All’ultimo ha proposto che restassi a dormire da
lei, in modo che trascorresse la notte, sottolineando il fatto che
porta consiglio, eccetera eccetera… »
Lui, da cinico orso, le fece:
« Potevi rimanerci, così non rischiavi di mettere il preservativo
a nessuno ».
Non si capì se lei volesse scendere o dargli una sberla, poiché gli
mise le mani sul volante. Fu lui a fermarsi, sul ciglio della strada, senza curarsi di controllare se quello fosse il punto adatto o
meno. Passò un pullman che quasi sverniciò la carrozzeria.
La prese, l’attirò a sé; lei pianse a lungo senza alcun rumore, lui
se ne accorse per l’umido delle guance che bagnava anche le sue.
Trovarono una pizzeria aperta, in un posto particolare, accanto
a una piscina in campagna ricavata sull’aia di una colonica rimaneggiata. C’era troppa gente. Scese lui, prese pizze e birra e
andarono a cercarsi uno scampolo d’aria meno usata dagli altri.
Lo avrebbero ripetuto sempre: che fossero state una pizza o due
fette di pane con l’olio, la vallata sarebbe divenuta l’insieme di
piazzole lungo le strade più panoramiche e meno frequentate, di
piccole radure nei boschetti, di angoli insignificanti che per loro
assursero alla dignità delle località più famose del mondo.
Protetti dalla sensazione che il luogo dove s’erano fermati fosse
stato costruito da qualcuno premuroso di poterli mettere a loro
agio, si rimisero a parlare.
« E l’Editore che t’ha detto in tutti questi giorni? »
« Niente, niente di particolare: aveva da fare e tutto è scorso
come sempre. Poi venerdì siamo partiti molto presto, mi ha detto che voleva passare per un saluto alla Regina madre, come
ha sempre chiamato quella che tu indichi come “Vice nonna”.
Ci siamo fermati da lei, anzi mi sono fermata perché il babbo
aveva da sbrigare alcune cose e ha stabilito che ci saremmo visti
per pranzo. È inutile che ti dica come mi ha accolta la signora,
che ovviamente era informata d’ogni nostra mossa e di quanto è
successo con i miei.
Ormai tutti mi hanno detto tutto, potrebbero consegnarmi un
304
DVD con le immagini e le parole. Il fatto che le parole le pronunci una o l’altra persona presenta l’unica variante del timbro
di voce e delle espressioni: “Quando tu ne avrai trentotto lui ne
avrà ottanta…”, “Se ti nascerà un figlio è come se fosse già orfano…”, “Ha rovinato la vita a tutte le donne che gli hanno dato
retta…”, “Una ragazza nel fiore degli anni, carina e intelligente
come te, può e deve farsi una famiglia con un giovane come lei e
lasciar cuocere quel vecchio nel suo ultimo brodo…”».
« In quest’ultima frase - la interruppe - che conteneva una serie
di stereotipi (benché veri in parte, eccetto le donne rovinate) la
bi-vedova ci ha messo una buona dose di cattiveria » e le prese a
morsa, fra l’indice e il medio, il suo bel nasino.
« E l’Editore? » insisté lui.
« Il babbo - riprese lei - è stato anche allegro a pranzo, ha tentato
di scherzare e di sorridere, senza rinunciare a girare intorno all’unico argomento che gli interessava, cioè che intenzioni avessi
tornando a casa. La domanda diretta non me l’ha fatta e io non
l’ho favorito. Poi, durante l’ultimo tratto di strada, sentendo che
stava iniziando un conto alla rovescia, ha buttato là un “Stasera
che fai?” e io ho detto “Perché?”, ma quasi inconsapevolmente
ho aggiunto: “Posso tornare anche a casa, ma io sto con lui”.
Non l’avessi mai fatto: “Ah, addirittura dovremmo accettare che
tu sia fidanzata col vecchio matto. Siete ridicoli, tu e lui” »
« Mi piace e condivido la definizione dell’Editore, sono stato
sempre così: sono venuto al mondo come vecchio matto, l’unica
professione che ho saputo fare nella vita » proruppe il Giornalista, con il tono di chi è pienamente soddisfatto.
E da quella sera lei entrò in SPA (Servizio Permanente Affettivo) nella casa del vecchio matto: rifugiandosi in un letto da una
piazzemezzo, dove vissero abbracciati e, più spesso, attorcigliati.
***
La Richiesta di Matrimonio
Nel primo giorno della loro convivenza accadde il fatto deter305
minante. Già la sera prima le aveva accennato che dovevano trovare una sistemazione coerente a quello che volevano fosse il
loro rapporto, ma nemmeno lui, in quel momento, aveva le idee
chiare.
Qui le carte del taccuino, fitto di appunti, provocano un dubbio. La data,
cancellata e poi riscritta, non ci permette un rigore filologico tale da stabilire
se l’episodio avvenne prima o dopo che lui la facesse entrare stabilmente nella
sua casa. La descrizione comunque è accurata, ma per non perdere il filo del
racconto le togliamo una quantità di particolari con cui hanno documentato
i fatti.
Quel pomeriggio si erano fermati sul limite di un piazzale antistante una
concessionaria di automobili, tanto che la loro macchina sembrava mischiata
a quelle in mostra. Erano prossimi a un quadrivio a cui, sugli appunti,
attribuiscono un evidente significato metaforico e simbolico. Un quadrivio.
È sottolineato.
Qualche automobile in transito aveva già le luci accese. Lui si era
girato verso di lei, aveva piegato la gamba destra, appoggiando il
piede sulla leva del cambio.
« Mi vuoi sposare? » le disse con un tono pacato che non gli era
consueto, scandendo le parole (mancava che facesse lo spelling).
Passò un minuto buono.
Lei lo guardava e sembrava volesse squadrare i suoi pensieri, poi
gli disse:
« Ripetilo, anche se credo di aver sentito »
« Mi vuoi sposare? »
« Sì, lo desidero anch’io, ma perché vuoi sposarmi? Non te l’ho
chiesto e non lo pretendo … »
« Dobbiamo farlo »
« Se devi farlo come impegno…che tipo di impegno? »
« Primo: non voglio che facciano ipotesi sui nostri rapporti; tu
devi essere la mia donna alla luce del sole, per legge, e nessuno
deve poter chiacchierare. Deve essere proiettato sulla facciata di
casa nostra a caratteri ben visibili: CI SPOSIAMO. E, in secondo luogo, di pari importanza, è farlo per l’Editore, sperando che
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prima o poi lo capisca. Lo capirà, vedrai ».
Lei gli si era avvicinata, lo guardava con occhi lucidi, continuando a carezzargli la mano che le aveva appoggiato sul seno e che
ora lei stringeva.
« Sì - gli disse - Capisco e mi fa piacere. Si può dire che sono
felice? ».
“... eccetera”, come usano scrivere con pudore sui loro appunti, che in gran
parte ci siamo limitati a copiare pedissequamente, limitandoci a volgere il
racconto/diario dalla prima alla terza persona.
307
XXXXVII
Campanari e Vecchie Signore
La coppia aveva alzato a dismisura la posta del gioco, dai tempi
in cui si frequentavano dandosi del lei. Da quando i camerieri
dei caffè, specie le cameriere, li anticipavano dicendo “Un caffè ristretto e uno macchiato”, servendo a lui il primo e a lei il
secondo. Il sottinteso, fatto di gesti e di sguardi, che cresceva
lentamente intorno a loro, non dispiaceva a nessuno.
Il matrimonio avrebbe eliminato l’equivoco che, per sua natura,
vive sul dubbio. Sarebbe stato un gesto imperdonabile. Togliere
alle conversazioni i “sembra” e i “pare che”, i “m’hanno detto”
e “mi hanno assicurato”, “te lo do per certo... ” avrebbe privato
la gente dei gingilli di cui vive.
Ma lui aborriva tutto ciò che striscia.
« E non c’è cosa più strisciante delle chiacchiere – ripeteva - Non
mi fanno schifo i serpenti, l’originale va bene: chi gli fa il verso
no ».
Un giorno approfittarono di una festa dei campanari per salire
sul campanile più alto delle chiese locali. Non accadde niente
che si riesca a raccontare attraverso una trama o mettendo in
relazione anche semplici comportamenti, legati da un principio
di causa-effetto.
Uno dei campanari stampò i suoi occhi addosso a lui e a lei, senza lasciarli un momento, seguendoli tra tanta gente presente, per
tutto il tempo che rimasero lassù. Il Giornalista, che non sapeva
chi fosse, pensò a uno squilibrato e lo tenne d’occhio. Ridiscesi,
le domandò se per caso sapesse qualcosa di quello strano tipo.
Lei gli rispose che si trattava di una persona del giro della chiesa,
una persona normale, che apparteneva a un gruppo di fedeli
praticanti a cui faceva capo la sua famiglia.
Un altro episodio singolare accadde in un mezzogiorno in cui il
Giornalista e la figlia dell’Editore passavano nel corso del paese.
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Un’anziana signora, che li incrociava, si era avvicinata guardandoli, come fossero esposti nella gabbia di un giardino zoologico,
e si era messa a ridere divertita.
In questa atmosfera di campanari e di vecchie signore, lui e lei
cominciarono a uscire dalla loro casa, in quei primi tempi di convivenza, soltanto per realizzare il loro matrimonio. La burocrazia
li impegnò per diversi giorni.
Si recarono alla casa comunale della cittadina più popolosa della
vallata, ottennero informazioni e degli stampati, ma la conclusione fu che ogni iniziativa doveva partire dal comune di residenza. Avrebbero potuto scegliere il luogo in cui sposarsi, in
qualsiasi località del territorio nazionale dove ci fosse stato un
sindaco, ma le carte e i nullaosta erano di competenza del paese
in cui risiedevano, da dove avrebbe dovuto partire la delega per
la cerimonia.
Lei lo sorprese: mostrò una decisione ai limiti dell’indifferenza
a quelle facce paesane che, in fondo in fondo, avevano cercato
di evitare. Alle dieci del mattino si presentarono all’anagrafe del
loro Comune dicendo ai due impiegati che volevano sposarsi. Li
fecero accomodare in un’altra stanza, appositamente destinata
a quel servizio. Un signore molto gentile gli disse che la pratica
sarebbe stata veloce in quanto entrambi nati e residenti nel posto. L’impiegato chiese dove avessero intenzione di sposarsi e
loro, che avevano già scelto il borgo dove andavano a mangiare
la pizza dai cento gusti, glielo precisarono.
Prima della chiusura dell’ufficio l’annuncio fu pubblicato e la notizia comparve sul sito comunale. Le voci, in certi casi, riescono
a superare, se non la velocità della luce, almeno quella del neutrino. E loro ne constatarono gli effetti, più tardi anche gli esiti.
Pensarono ai dipendenti della ditta che, dopo il lavoro svolto per
la rivista Polis, conoscevano bene anche il Giornalista per nome
e cognome. Si trovarono a evocare immagini e macchiette di
quanto stava per accadere.
Lei individuò subito una certa ragazza, addetta al sito editoriale,
come probabile fonte della notizia. Il matrimonio tra la figlia
dell’Editore e il Giornalista avrebbe dato un bel lavoro ai di309
pendenti dell’azienda, in gara per affermare di aver notato un
rapporto particolare tra i due, che sarebbero stati oggetto di numerosi “te l’avevo detto”. Che poi avessero deciso di sposarsi,
forse lo avevano azzardato in pochi.
La sera stessa si fece vivo un amico di lui, che da molti anni abitava a Trieste:
« L’ho letto su internet. Il nome corrisponde - gli disse al telefono - Chi è la fortunata? La conosco? »
« No - gli aveva risposto - Manchi ormai da troppo tempo. Comunque, benché tu abbia ventanni meno di me, lei appartiene a
una generazione che è nata altri ventanni prima della tua »
E il “triestino” sorpreso:
« Non ho guardato i dati sulla pubblicazione. Ma quanti cavolo
di anni ha? »
« Trentadue »
« Ciao, auguri ».
Ce ne furono di queste chiamate, di gente del paese che viveva
fuori, seguendo la vita della propria culla, dove tornava di tanto
in tanto: l’anagrafe, come partita doppia degli arrivi e delle partenze, dei matrimoni, era la mecca di chi curiosava in rete.
Una signora emigrata da tempo, rimasta vedova molto giovane,
gli rinfacciò il mancato rispetto della sua dichiarata volontà di
non ripetere l’esperienza del matrimonio. Gli disse che evidentemente quel discorso l’aveva riservato a lei per evitare l’evoluzione del loro flirt, di fatto mai interrotto.
« A una ragazzetta così – concluse - un egoista come te gliele
taglierà alla svelta, le treccine »
Il Giornalista rispose che l’aveva conosciuta senza trecce.
Il telefono funzionava col vivavoce tra loro: volontà trasformata
in impegno, spontaneamente sorto senza che nessuno dei due
l’avesse proposto o preteso, fu di respirare insieme come siamesi.
Così accadde che una di quelle sere prematrimoniali arrivò un’altra chiamata che lui non avrebbe voluto farle ascoltare. Ancora
una donna, sempre sulla cinquantina, appartenente a quella fascia di età che, ventanni prima, era stata per lui la generazione
310
femminile di riferimento. Principiò mettendo in dubbio che la
notizia fosse vera, condendola con l’osservazione di ritenerla
impossibile. Poi aggiunse che, se fosse stata vera, lui avrebbe
superato la sua ben conosciuta natura di depravato.
« Io ho le spalle larghe e anche le gambe, con te - soggiunse trivialmente - Ma, quella disgraziatella, la bruci in pochi mesi. Mi
fa una gran pena. Me la fate tutti due… ».
A cena le disse quanto gli scocciasse di quelle intromissioni che
non sapeva come impedire. E lei, sorridendo, rispose che il veleno delle donne, evidentemente interessate, non la toccava. Aggiunse che anche per lei si stavano dando da fare:
« Eri uscito e m’ha telefonato la Cuginetta, sul telefono fisso »
« Perché non me l’hai detto? »
« Te lo sto dicendo – rispose - Tanto è inutile riferirti l’infinità
di nomi e aggettivi che ha associato al nostro matrimonio. Ma,
a proposito della gente, mi ha riferito che la mia amica, con cui
andavo al mare e che spesso mi ospitava, ha proposto ai suoi,
che erano anche miei amici, di scrivere il mio nome e il tuo su
ogni pietra della via maestra »
« Come idea mi sembra carina » le disse, proponendole di uscire
dopo cena a contare quante pietre lastricassero il corso.
311
XXXXVIII
Le Teste di Cuoio
La Psicologa stava approntando, con tutta l’urgenza che l’incombente matrimonio richiedeva, i suoi mezzi di attacco.
La prima mossa, fantarelazionale, venne eseguita da un Monsignore, il quale telefonò alla (ex) seconda moglie del Giornalista
chiedendole di intervenire o intercedere perché l’orco lasciasse
libera la sua preda ( il Giornalista, quando molto più tardi venne
a saperlo, si figurò quale King Kong in cima all’Empire State
Building, ma non ne aveva il fisico).
La signora non poté che rispondere al Monsignore di essere divorziata da sedici anni e che da allora non era esistito più alcun
rapporto con l’ex marito.
La seconda mossa fu più balorda, voluta con femminea cattiveria, non disgiunta da una buona dose di cinismo.
Assente l’Editore che era in città da giorni, venne costituita una
piccola unità di teste... di cuoio. In prima linea la Zia e il suo
robusto convivente, accompagnati da un particolare agente provocatore individuato nell’ex fidanzato della Segretaria, che, nonostante l’abbandono, continuava a farsi presente alla famiglia di
lei con auguri per compleanni e feste comandate: quando venne
convocato per essere il cardine dell’impresa, ci vide una possibilità da non perdere.
Mancava poco più di una settimana al giorno stabilito per le
nozze. I due “Promessisi” stavano rientrando a casa da una delle
loro scampagnate, un po’ prima dell’ora di cena.
Le teste di cuoio avevano organizzato nei dettagli il loro intervento, lasciando l’automobile in un parcheggio a cento metri
dalla casa dei futuri sposi. Dopo essersi accertati che la loro macchina non fosse sotto casa, come al solito, si appostarono nelle
vicinanze.
Al momento in cui fossero sopraggiunti, il terzetto avrebbe avu312
to il tempo di piombare lì, attuando quanto previsto. Mentre la
Zia e il suo giannizzero avrebbero bloccato lui con la scusa di
parlargli, l’ex avrebbe chiesto a lei un ultimo colloquio, per condurla chiacchierando fino al vicino parcheggio (come accadde).
L’idea era di riportarla a casa dalla madre.
Gli appunti non ci dicono se l’ex tentò di forzarla a entrare nella sua macchina, ma precisano che si trattò di un tentativo di rapimento sventato dalla
freddezza di lei, che evitò una pericolosa rissa accettando di seguire l’ex,
salvo poi salire in macchina col Giornalista che, dopo aver minacciato ai
due, che lo trattenevano, di chiamare i carabinieri, aveva raggiunto in pochi
minuti il parcheggio.
Non fu uno scherzo, tanto che la mattina dopo i Promessisi
corsero da un amico del Giornalista, un avvocato che abitava a
settanta chilometri dal paese, per raccontargli l’accaduto. Questi,
che non sapeva neanche del programmato matrimonio, li consigliò di stare in campana, evitando finché possibile di sporgere la
denuncia: cosa che loro d’altronde non avevano alcuna intenzione di fare. Infine, l’avvocato si disse lieto di accettare di essere il
testimone della sposa.
Seguirono giorni di allerta. L’unica persona che, conoscendo lo
svolgimento della loro storia fin dall’inizio, si offrì di aiutarli fu
la Geometra: valutarono l’opportunità di abitare, per la settimana che ancora mancava alla data stabilita, in una casetta che la
famiglia dell’amica possedeva in campagna, tra i monti, usandola
saltuariamente. Ma, fatti i dovuti calcoli, accantonarono l’idea.
Cominciarono a partire il mattino molto presto. Lei faceva trovare apparecchiato per la colazione, con tutto quel che serviva e
un po’ di più, un mazzetto di fiori al centro del tavolo, raccolti il
giorno prima sui prati che di Maggio ne traboccano.
La zona di destinazione fu sempre il cocuzzolo dove avevano già
fissato l’appuntamento con il Sindaco.
Lei disponeva del Bancomat e poterono seguire i ritmi di giornate fuori casa senza particolari restrizioni. Un pranzetto veloce,
una merenda e una pizza la sera. Rientravano dopo mezzanotte
313
e, saliti in casa, lui andava a parcheggiare la macchina lontano,
ogni notte in un posto diverso.
Non si poteva escludere una componente di paranoia nel loro
comportamento, motivata tuttavia da numerosi segnali. Misero
in conto perfino la distruzione dell’automobile, anche se videro
sempre nell’Editore un limite che la sua presenza avrebbe imposto alle sconclusionate macchinazioni dei familiari. Per evitare
il rischio di altre velenose iniziative, decisero di informarlo del
tentato rapimento e lo fece lei inviandogli un fax.
Parlarono dei due che stavano per diventare suoceri, loro malgrado, con una serenità che non avrebbero potuto permettersi
nemmeno o tanto più dopo il matrimonio.
Il ruolo del babbo e della mamma erano ben distinti, ma lei non
parlava mai della madre a proposito della conduzione familiare,
attribuendo ogni potere al babbo (quanto sbagliava!). Ora però,
dopo il tentato rapimento, durante l’assenza dell’Editore, certi
punti di vista dovevano essere modificati.
La Segretaria tese sempre a sminuire e addirittura ignorare eventuali responsabilità della madre, attribuendole a se stessa, proteggendola con quel meccanismo di transfert/ribaltamento del
ruolo materno di cui il Giornalista si stava accorgendo. Lei disse
che il comportamento della madre, e di conseguenza degli altri,
era colpa sua perché l’ultima sera, in casa della Zia, si era mostrata indecisa a piantare la famiglia. Difatti tardò a scendere benché
sapesse che lui l’aspettava.
« Loro credono di essere nel giusto » diceva la Segretaria.
Ma quel “loro” era riferito alla madre, a cui doveva fare scudo in
tutti i modi: la mamma, per lei, era come una figlia e ogni difetto
era un errore commesso nell’educarla. Non per caso, lei ripeteva
immancabilmente, quando lui accusava sua madre di comportamenti che le avevano nuociuto, “è colpa mia”.
A quell’epoca (nel loro stare insieme le epoche si misurano in
giorni e settimane) potevano discutere di qualsiasi problema
senza esserne toccati.
La tensione amorosa, data dal reciproco desiderio, sfocava tutto il resto e lui non colse l’occasione di una temperie magica
314
per approfondire i meccanismi familiari, che sarebbero risultati
determinanti nell’evoluzione dei loro rapporti. Questo in gran
parte è da riferire al suo essere così egocentrico da fregarsene dei
legami che riguardavano la sua donna, dando per scontato che
nessuno, tranne lui, avrebbe potuto allontanarla. Non capì che,
invece, proprio lui stava imboccando la strada per farlo.
***
I Promessisi Sposi si trovarono a preparare il giorno del loro
contratto nel mese tradizionalmente legato al matrimonio. « Auguriamoci che non porti male - si fece scappare - Maggio è ipotecato da chi progetta abiti bianchi con lo strascico, confetti e riso,
una tavolata lunga un chilometro e un viaggio intorno al mondo.
Noi siamo tutt’altro »
« Sei superstizioso? »
« Bah…visto come sono andate le cose nella nostra scalata conoscitiva, con i mezzi della scienza, credo più alla Cabala che alle
certezze della fisica e dei cosiddetti fatti »
« Eccolo, il giocatore - e gli si appoggiò con la spalla, che arrivava
a metà dell’avambraccio di lui, spingendolo e sorridendo - Ma
allora il biliardo, il tuo lavoro di classificazione di quelli che definisci “i fenomeni artistici” e… »
« Lascia stare. Anche a Chemin de Fer e a Zecchinetta ti dai delle
regole: sono giochi d’azzardo ma, come t’ho spiegato, il giocatore interviene con dei principi basati sulla propria esperienza,
rispettando una specie di normativa tramandata con tanti piccoli
modi di dire. Serve per scegliere un ritmo di gioco, concedere
una possibilità alla nostra ragione, illuderla. Allo Chemin, per
esempio, si dice che il Cinquista vince dopo. Ti ricordi? Quel
gioco in cui il punto massimo è nove: se le due carte che ti sono
toccate assommano a cinque, il calcolo delle probabilità impone
di fare Croce, ossia di stare senza chiedere carta. E fin qui la
matematica. Poi, appunto, la Cabala insegna che se il Cinquista
perde quel colpo, vincerà il prossimo. È un miscuglio di ragione
e di fede, di illusioni e di paura, c’est la vie, per dirla nel modo più
315
banale. C’è chi gioca a Berro andando a testa bassa e chi alterna
fede e ragione »
« E nel nostro matrimonio chi sei tu, il Cinquista o il Berro? »
« Prima dovresti chiedermi se bisogna giocare o stare a vedere:
il nostro matrimonio è sedersi al tavolo da gioco, è una scelta,
l’inizio della partita, ma chi si siede, credimi, ha già fatto molto »
« E invece gli altri? Tutti quelli che si sposano in questo mese? »
chiese ancora lei.
« Per i più il matrimonio è allontanarsi da un tavolo dove non si
sono seduti: sono rimasti intorno a curiosare per tutto il tempo
del fidanzamento. Questo tipo di matrimoni è soltanto una pantomima sociale. Nel nostro si cambia la “g” in “c”: dal giogo al
gioco. Una cosa molto seria, quella che facciamo io e te ».
Il suo procedere per enigmi l’affascinava e le faceva paura. “La
primavera e l’inverno segnano l’esistenza. In estate si vive e in
autunno ci si allena a morire”, diceva il Giornalista.
Lei sapeva quanto fosse importante capire, ma ora che cominciava a pensare insieme a lui si accorgeva che dietro il suo uomo
c’era molto di più di quanto, pur standogli vicino, era riuscita a
vedere. Comunque, si consolò del fatto che loro si preparavano
all’estate.
Il vanificato “ratto” concluse la prima settimana trascorsa dopo
l’annuncio del matrimonio e segnò, con la fine di Maggio, l’inizio
della seconda, che precedette la data ormai divenuta fatidica.
I Promessisi cercarono di non stare più né in casa, dove il telefono fisso era divenuto un incubo, né in paese. Si sentirono
braccati e l’agguato poteva aspettarli in ogni dove.
316
XXXXIX
I Promessisi Mantenuti
Qualche giorno prima della pubblicazione, lei aveva mandato a
suo padre una lettera, via fax, per comunicargli la propria scelta.
Una lettera essenziale, come lei sapeva fare, che equivaleva a un
invito. Poi era accaduto il brutto episodio del “ratto” e, anziché
scorgere uno spiraglio anche puntiforme di un disgelo, si trovarono intorno fantasmi in continua trasformazione.
Dal rincuorante presagio di un cenno, diretto o tramite un possibile mediatore dei suoi, si giunse a temere qualche boicottaggio
della cerimonia nuziale. Lei paventò perfino un ricorso in sede
giudiziaria. Il Giornalista, mentre l’accarezzava, le disse tra riso
e sorriso:
« L’ipotesi di plagio è scomparsa dal codice penale, ma la mammina potrebbe denunciarmi per sequestro di persona: difatti
aveva tentato il blitz per liberarti »
« Non ho voglia di scherzarci, semmai è il babbo che può prendere qualche iniziativa... »
« Ti rifiuti proprio di aprire gli occhi. Hai trentadue anni e, come
hai scritto all’Editore, sei una donna: questa scelta di vita, come
gli hai precisato, spetta solo a te. Lui sa quanto sia vero e non
alzerà un dito: è una persona intelligente, al di là dei comportamenti assunti, a cui però non è estranea sua moglie »
« Ce l’hai sempre con mia madre... »
« No, casomai con la mammina. Ma lasciamo stare questa discussione che non ci porta da nessuna parte. Se vuoi, per starcene più tranquilli, sposiamoci in un altro posto »
« Dove? Non sarà tardi per i documenti? »
« No, anzi: lo possiamo comunicare all’ultimo momento, semplicemente chiedendo di cambiare la destinazione sulla delega ».
Così, negli ultimi giorni, il cocuzzolo della pizza dai cento gusti
fu trasferito lontano e dalle gole interne dell’Appennino andaro317
no in un altro piccolo borgo, verso l’aria del mare.
Avevano stabilito che non avrebbero fatto intervenire nessuno,
reclutando i due obbligatori testimoni tra i dipendenti del Comune. Invece, all’ultimo momento, lui decise di scegliere le due
persone indispensabili, a cui se ne aggiunsero altre che ritenne
irrinunciabile invitare.
« La mia storia è stata già molto lunga - le disse - Ci sono persone che mi hanno seguito su tutti i saliscendi di questa vita. Oggi
sento che sono divenute parte delle mie ossa... »
« Non devi giustificare il loro inviti - gli rispose lei - A me va
bene come e quel che fai ».
Gli invitati possedevano una caratteristica comune: non sarebbero intervenuti per semplice curiosità, elemento che al contrario si valutò determinante nella cerchia delle amicizie di lei, col
risultato che furono ignorate.
Tranne i testimoni, confermati tre giorni prima, gli altri vennero
avvertiti il giorno avanti: quattro erano di città diverse e cinque
del loro paese. Ne mancarono tre all’appello e furono proprio i
compaesani. Uno soltanto ebbe a pronunciare fieramente “Non
condivido”, ma era vicino al padre di lei, e i Promessisi lo considerarono un fattore decisivo.
Di tale passo si andava delineando una cerimonia, se non coi
fiocchi, con i requisiti essenziali della tradizione.
Fu prenotato il pranzo in un ristorantino ben messo, l’unico del
posto che mostrasse un’accoglienza adatta. Il giorno precedente,
fatte le proprie verifiche sul Bancomat, lei gli fece presente che
avrebbero potuto acquistare un minimo per abbigliarsi decentemente.
Lei era sprovvista di tutto e lui, benché avesse gli armadi pieni,
non disponeva di una giacca adatta alla stagione, soprattutto perché il suo tipo di vita aveva consegnato certi capi alla naftalina
cambiandoli con una quantità di giubbetti e giubbotti.
Acquistarono, nel centro più grande della vallata, gli anelli, per
lei d’oro e per lui d’argento e, rispettivamente, un vestitino e una
giacca sfoderata. Lei la sera si lavò i capelli e li lavò a lui. Di seguito procedettero al defilé, in vista dell’indomani.
318
Il Giornalista, pescando in un groviglio di cravatte di cui un tempo si era interessato (ne aveva disegnate di vari tipi), ne estrasse
una, dalla fantasia molto vivace, da indossare su di una camicia
rossa a quadrettini a maniche corte.
« Domani sarà caldo - le disse – e dopo il fattaccio ci metteremo
a nostro agio; non mi abbottono una camicia da non so quanto,
ci volevi tu a farmi rassomigliare a un manichino; intanto però
lascio i capelli sciolti, quelli del Sessantotto » concluse togliendo
l’elastico che fermava la sua lunga coda.
« Ci sposiamo per contestare la gente? »
« No, contestiamo la gente per sposarci, è diverso. A te starebbero bene raccolti, i capelli, col tuo nasino che guarda le colline.
Secondo tradizione, la sposa deve indossare qualcosa di nuovo
e qualcosa di vecchio (ci sarei già io), qualcosa di giallo e, indispensabile, di blu»
« Blu ho appena comprato le ballerine... »
« Ti staranno benissimo ».
Lei si provò le scarpe considerando l’accoppiamento con l’unica
borsetta possibile a disposizione e non ci furono dubbi: avrebbe
messo le ballerine comprate una settimana prima in un mercatino. Erano blu e le stavano a pennello.
Si misero in piedi davanti allo specchio. Lui, stando alle sue spalle, se la strinse al petto affacciandosi incollato alla sua guancia
destra.
« Non c’è bisogno - gli fece lei - che tu dilati gli occhi per sembrare più matto di quel che sei, a me sembra che stiamo bene
insieme, io e te »
« Te l’ho già detto che t’ha mandato mia madre - divenne molto
serio (vide anche Muriel) - Sei stata pensata e costruita per me:
tu, silenziosa e felpata, io chiacchierone e... eccetera, eccetera ».
***
IL CONTRATTO
Partirono con le ombre sfumate del sole ancora basso. I controlli
319
dell’occorrente furono fatti più volte: erano coscienti di essere
un po’ frastornati. Giunsero a quella partenza col carico di due
o tre mesi vissuti dentro il torchio in cui la situazione li aveva
costretti, costituendo un banco prova della loro volontà di stare
insieme.
Sapevano che il cocuzzolo da cui si odorava l’aria del mare, dove
si sarebbero sposati, ospitava una festa internazionale di artisti di
strada che cadeva quel fine settimana.
« Tutto è in chiave con noi - le aveva detto - Altro che camminare sul filo sospeso, il nostro è un esercizio più difficile! ».
E così dicendo, per allontanare la tensione, giunsero al municipio. Mentre arrivavano e l’unica guardia comunale toglieva una
transenna per farli passare – il centro era interdetto al transito
veicolare per i quattro giorni del festival circense – gli giunse la
telefonata di un altro dei tre invitati assenti:
« Ci hai pensato bene? Ho da fare, non vengo, non condivido...
» giunsero le parole dal vivavoce dell’automobile.
« Hai sentito? Tu ci hai pensato bene? »
Lei, senza rispondergli, discese dalla macchina, appena parcheggiata, si mise un passo avanti, lo prese per mano tirandolo con
forza:
« Muoviti, che ci aspettano e si fa tardi » fece rivolta a lui, scoprendo col sorriso i suoi denti bianchissimi, di forma perfetta,
con gli incisivi canonicamente più larghi.
In Comune, i pochi presenti erano in attesa della loro cerimonia. Una signora li fece accomodare e cominciò a eseguire una
check-list che riportò il quasi marito al mondo dei suoi aeroplani:
l’ora mattutina sembrava quella in cui all’Istituto Medico Legale
si presentano i documenti per l’ammissione alla visita periodica
per il rinnovo del brevetto; la spunta dei documenti somigliava a
quella per i controlli a terra che precedono il decollo.
Nel taccuino si parla di un’escursione fatta nel tempo che intercorse tra il disbrigo delle formalità e l’ora della cerimonia. Di fatto salirono in macchina
sul poggio, sopra il convento, fino alla grande croce di ferro che di sera si illuminava. Scattarono fotografie sugli spunzoni di roccia che si protendono sul
320
borgo sottostante e lei avrebbe voluto farle tutte con l’autoscatto. Gli diceva:
« Che significato ha una fotografia da sola? Mi lasci prima di sposarmi? ».
Sulla pagina c’è soltanto scritto “Giovedì” e il 7 Giugno 2012, giorno
della cerimonia, era Giovedì, ma potrebbe essere stato quello della settimana
prima.
Erano appena discesi che arrivarono, in un breve volgere, i testimoni e gli altri quattro amici. Le due signore del gruppo – una
era moglie del Cambusiere del circo che si spostava per lui quando correva in automobile e l’altra la Geometra – si assentarono
tornando con un fascio di fiori per la quasi sposa.
Il testimone di lui, proveniente dal mondo dell’arte, donò un
piatto di Montelupo del Cinquecento, un gamelio con la particolare rappresentazione di una metafora nuziale; il testimone di
lei giunse con una collana a quattro fili di perle, imitate in modo
superbo, che piacque molto.
Alle undici e trenta arrivò il Sindaco, che aveva scelto di celebrare nell’aula consiliare. Sorpresi, entrarono in un’aula di tribunale,
con tanto di cattedra dietro la quale troneggiava uno svolazzo di
legno, un cartiglio su cui campeggiava: La Legge è uguale per tutti (e
il matrimonio? Pensò il Giornalista lasciando partire un risolino,
a cui rispose uno sguardo interrogativo della quasi moglie).
Il Sindaco, di professione avvocato, quando era stata soppressa
la sede distaccata del tribunale di un paese vicino, aveva preso
al volo l’occasione per sentirsi più a suo agio in Comune, acquistandone la boiserie completa. Così la cerimonia sembrò assumere un’ulteriore importanza: avvocato il celebrante, avvocato il
testimone della sposa, dentro l’aula di un tribunale.
Non c’era un fotografo incaricato di documentare lo svolgimento del rituale, ma un paio di macchinette dei presenti svolsero
il compito dignitosamente. Si sarebbero rivisti in piedi con lo
sguardo indecifrabile delle grandi occasioni, in attesa del “vuoi
tu prendere…”, gli sguardi nello scambiarsi gli anelli, le mani che
firmano il registro, fino al bacio finale.
Il Sindaco gli donò una bandiera italiana, che si apprese aver
deciso di inviare il Presidente della Repubblica a ogni sede co321
munale perché ogni nuova coppia ne possedesse un esemplare.
Chissà quante bandiere avranno previsto per settantaquattrenni
che si uniscono con trentaduenni, pensò il solito, tra orgoglioso
e divertito. E stavolta dovette spiegarle perché sorrideva: risero
insieme.
Il pranzo si svolse in un grottino scavato nei massi e rifinito
di pietre, di un kitsch gradevole e allegro, riservato a loro, con
quattro tavoli riuniti a formare quello che, nel gergo della ristorazione, si chiama “tavolo imperiale”.
Due primi, due secondi con contorno, vini. Una torta sormontata da due piccoli colombi di plastica, ognuno col proprio anellino, che sarebbero poi stati appoggiati sul vecchio grammofono
a carica in casa di lui, divenuta la loro (ci sono ancora).
Dopo la cerimonia si mischiarono ai circensi che stavano sciamando per le strade. Dalla piazza salirono il colle di fronte a
quello della croce di ferro, per ammirare il panorama dalla parte opposta. Poi, gli sposi ripercorsero le giornate senza fine dei
mesi trascorsi e il traguardo finalmente raggiunto.
Nel tardo pomeriggio si accomiatarono dagli amici e giunsero
alla notte ondeggiando abbracciati, più che danzando, sulle note
di un’orchestrina latinoamericana che fu la cornice perfetta della
loro grande giornata.
Erano tra le undici e mezzanotte quando ripresero la strada del
ritorno. Sentivano che si stavano dirigendo verso una loro base,
da cui avrebbero potuto orientarsi verso qualsiasi meta. Appoggiata alla spalla di lui che teneva il volante con la sinistra, aiutandolo col ginocchio secondo il raggio delle curve, mentre col
braccio destro la circondava, parlarono di tutto senza rispettare
alcun ordine.
In vista di casa fecero un bilancio economico della loro impresa:
anelli, quello di lei d’oro e l’altro d’argento duecento, i due prêtà-porter indossati per sposarsi centotrenta, il pranzo trecento,
altri ammennicoli e benzina portarono il totale a settecento euri.
Andarono aggiunti altri cinquanta per le due bottiglie di Veuve
Clicquot, acquistate al supermercato e stappate per il brindisi
a cui lui, entrato in quel cerchio borghese in cui era scivolata
322
la cerimonia, non aveva voluto rinunciare. Lei disse allegra che
ancora il suo Bancomat funzionava bene.
« Auguriamocelo - le disse passandole una mano tra i capelli perché io ancora vedo buio per trovare i soldi ».
Erano stanchissimi e li aggredì il rilassarsi dei loro corpi nella
sicurezza che ora avevano trovato nella loro casa. Si addormentarono, abbracciati, su una poltrona.
323
L
La loro casa
Nella prima colazione da sposati, le fece trovare sotto la tazza
del caffelatte questo biglietto:
Lo sai, amore,
l’inverno non ha più candore
la primavera non ha più odore
l’estate non ha più calore
l’autunno non ha più colore
se la tua bocca non gli dà sapore.
Lei si commosse, senza piangere, com’era capace di fare. Cominciò l’estate più bella e più scema che chiunque possa immaginare, in una dimensione che appartiene a chi non si domanda
il prezzo del completo abbandono al proprio istinto e ai desideri
che si possono avere, attimo per attimo, senza pensare ad alcun
tipo di futuro.
Non ci è stato possibile stabilire quanto durò una tale beatitudine. Nei loro
appunti, scaturiti dalla voglia di non perdere un sorso del nettare che distillavano di continuo mettendolo da parte, si intercalano richiami al problema
della famiglia di lei, di cui persistevano precetti e principi, sollecitazioni
verso un’organizzazione meno autarchica, anzi aperta agli idoli e ai totem
del gruppo.
Cenavano a lume di candela, da quando lei era arrivata in casa
e non c’era la corrente elettrica. Durò per alcuni giorni (finché il Bancomat non pagò luce e telefono); e agli sposi piacque
quell’illuminazione romantica. Così, che disponessero o meno
della corrente elettrica, questa divenne una consuetudine mai
interrotta. Altrettanto consueto era che lei, appena mangiato,
324
avvicinasse la sua sedia a quella di lui, per abbracciarsi con tenerezza. E a turno dicevano, guardandosi e accarezzandosi, anche
spostandosi per la casa e anche mentre erano in stanze diverse:
« Chi è il più…? », poi abbreviato in « Chi è? » (si domandavano
chi fosse il più innamorato), gareggiando per rispondere « Io »
e succedeva che si udisse « IO, IO » gridato, perché ognuno voleva precedere l’altro e sovrastarlo. I vicini, sentendo quegli urli,
cominciarono a dire che litigavano.
Avevano stabilito di festeggiare due ricorrenze mensili: il giorno
del loro matrimonio, tornando ogni sette del mese a cenare nel
ristorantino; il plenilunio, cenando in macchina nel luogo più
adatto per seguire il tragitto del satellite. La prima venne festeggiata in Luglio, a distanza di un mese, e riuscirono a trasformare
una diarrea estiva di lei in una scenetta di cui risero a crepapelle, cementando una confidenza e una complicità che aumentava ogni giorno; quanto alla seconda ricorrenza, non mancarono
una luna, aspettandola col cielo imbronciato e col freddo sotto
zero, con quello che certe volte non ebbero da mangiare, ma lei
riuscì spesso e con poco a inventarsi un panino goloso (lei usava
volentieri questo aggettivo).
Di ogni malignità che li andava circondando prendevano il lato
comico, che esiste in tutte le cose; si sorridevano, ridevano: niente poteva toccarli. Poi passavano a considerare il comportamento dei loro fan e dei sostenitori, questi ultimi, a dire il vero, molto
ridotti.
Una presenza costante, fin dall’annuncio del matrimonio, fu
quella di un figlio. La gente, comprese le persone che intrattennero rapporti con i Promessisi, soggiacque al senso comune,
attribuendo la decisione improvvisa di sposarsi al fatto che la
Segretaria fosse incinta. E questa gravidanza fu sempre accanto
alla coppia. La gente giunse a dare per certa la nascita di una
bambina, e qualcuno le fornì anche un nome. Una bambina che,
nel famoso e talora famigerato immaginario collettivo, avrebbero tenuto nascosta. Infine, percorrendo le strade inesplorabili di
questo immaginario, la gente, pur di averla vinta, sostenne che la
sposa aveva abortito.
325
Ma chi pretendeva un figlio dalla coppia, in fondo, era la parte
buona del paese: i più, per cui il Giornalista era stato sempre
quello che faceva qualcosa di straordinario un po’ per tutti. Per
questa parte, il Giornalista era fuori dalle regole, non aveva né
età né doveva rendere conto di niente a nessuno. Anzi, aveva
l’obbligo di essere eterno e quel suo matrimonio, che la gente
esigeva sancito da un figlio, sapeva di una voglia diffusa di eternità.
Inevitabile convitato di pietra era la famiglia della sposa, che
si trovava dalla parte degli abbienti, benestanti, imprenditori
e prenditori, categorie che il Giornalista di fatto disprezzava e
combatteva. E, ovviamente, a loro non andava bene che il rompicoglioni fosse eterno.
Da questa marmagliatica congerie si era tirato fuori l’Editore, e
l’aveva dimostrato affiancando le battaglie del Giornalista. Ragion per cui egli condivideva con la Segretaria il dispiacere di
non parlare con lui, con cui era molto incazzato: non potendo
fare diversamente, gli addossava la colpa di ciò che stava succedendo, ed era ricambiato dal giornalista. Ma più di tutto si rinfacciavano l’un l’altro di non essere andati in fondo al discorso,
nel loro ultimo colloquio. Così era iniziato quel giochino che gli
uomini prediligono da quando cominciano a camminare fino a
quando riescono a stare in piedi: toccami il naso, passa questo
rigo se hai il coraggio, chiedi scusa... é in questo stupido modo
che arrivano a scatenare le guerre. E il Giornalista e l’Editore
non erano da meno.
***
Gli sposi, che fossero tra i muri di casa o seduti in mezzo agli altri in un caffè, erano realmente soli, e tutto ciò che li circondava
era come se passasse sotto le loro finestre. Comunque captarono, di lì a poco, per non dire alla prima uscita da sposati, cosa
avessero cambiato quei cerchietti, uno d’oro e uno d’argento,
infilati sull’anulare della mano sinistra: tutti potevano dissentire
e criticare, esprimersi come avessero voluto, ma nessuno pote326
va più chiacchierare. Lui, i primi tempi, a costo di sembrare un
vecchio scemo maschilista, tenne la fede nel portachiavi, e a lei
non piaceva; ma più tardi, nonostante non avesse mai sopportato alcun tipo di ferraglia addosso, ci tenne a fasciarsi l’anulare.
Vennero i vigili urbani a verificare la nuova residenza della sposa
e per loro fu il sigillo della nuova vita.
Una mattina che gli sposi erano fermi davanti alla chiesa principale del paese parlando con la moglie di un amico di lui a cui
l’aveva presentata, sbucò da una stradina l’Editore. Appena li
vide alzò la testa e la girò dall’altra parte.
Lui si trovò a sorridere e lei, appena furono rimasti soli, gli chiese il perché di quella reazione, all’atteggiamento del babbo, che
non le faceva piacere affatto.
« Tralasciando di giudicare l’atteggiamento di tuo padre, che
al punto in cui siamo è irragionevole, mi è apparsa improvvisa una nuvoletta. Ho visto l’Editore presente nella sala del Comune dove ci siamo sposati. Chissà quanto si sarebbe divertito
a sfottermi constatando che l’aula era quella di un tribunale, il
celebrante un avvocato e un avvocato il tuo testimone. “Ti pareva”- sarebbe stato il commento - “che non ti avrebbero seguito
anche nel giorno del tuo matrimonio, gli avvocati, tanto che hai
pronunciato il sì in tribunale. È il tuo inevitabile destino. Dici
sempre che la tua esistenza è un’interminabile lite, e così l’hai
dimostrato”. Si sarebbe divertito un mondo ».
Se qualcuno avesse seguito lui e lei durante la giornata, non
avrebbe creduto al nostro discorso sull’incoscienza e l’abbandono al presente, poiché dedicavano molte ore al lavoro, fatto di
procedimenti giudiziari in corso e di libri iniziati che ora lei gli
metteva sotto il naso, costringendolo a considerarne la pubblicazione.
Non è stato semplice entrare nel loro meccanismo che definiremmo “metabolismo”; ancora più arduo è individuare il percorso secondo cui erano giunti
a stracciare il confine tra quelle attività che comunemente sono distinte coi
nomi di “lavoro” e “divertimento”.
327
Come gli aveva detto lei quella domenica pomeriggio che fece da
spartiacque tra un rapporto tecnico di collaborazione e qualcosa
di molto diverso, lavorare con lui le provocava piacere. Ecco: ora
erano giunti tutti e due a provarlo e ogni cosa si mettessero a fare
era baciata da questo miracolo.
Solo gli artisti hanno il dono di amare con tutto se stessi i loro
gesti. Quando un amore del genere viene condiviso da due individui, per giunta di sesso diverso, si verificano condizioni straordinarie di potenziali creatività: Narciso viene benedetto da Eros
e riscatta i propri eccessi.
***
I miracoli accadono. A due settimane dal matrimonio andarono
a Firenze per vedere i fuochi di San Giovanni. Due anni prima,
in quello stesso 24 Giugno, il Giornalista era a Firenze con Muriel, ma non si fermarono per la festa.
Ora lui era abbracciato alla moglie, gli occhi protesi dal Lungarno verso lo zampillio colorato di Piazzale Michelangiolo. E
Muriel stava con loro. Fu la presenza pura di un angelo custode
che li completava: qualcuno superiore alle incomprensioni e alle
cattiverie, una donna che offriva se stessa all’altra, in cui continuava a esistere.
***
In Luglio si recarono alle pendici della montagna, sulle greppate,
a scovare le fragole; ne trovarono a famigliole vincendo i rovi su
cui era sfiorita la rosa canina.
In macchina avevano dispensa e guardaroba, carta e dizionari,
un portatile Mac che purtroppo non reggeva più la carica. Una
sera aspettarono lassù il sorgere e poi l’alzarsi della luna al centro
del cielo. Lui scrisse anche, alla luce di cortesia dell’automobile,
finché la batteria potè resistere.
Al mattino ci fu da spingere per ripartire. Arrivarono in paese a
mezzogiorno, ristorati e con rinnovato appetito di tutto ciò che
328
due innamorati possono e vogliono caparbiamente vivere.
Luglio però fu la Bastiglia del Bancomat di lei: fecero in tempo
a festeggiare il primo mese di matrimonio che già erano in bolletta.
« Ci sono rimasti otto euri nel conto » disse la Segretaria, dopo
averne ritirati cinquanta, al Giornalista che l’aspettava in macchina. E fu la volta che lui conobbe l’ammontare della riserva
con cui avevano affrontato la loro convivenza, argomento che
non avevano mai toccato, al pari di quello sul compenso che lei
riceveva dall’Editore.
La guardò con una tenerezza che superò il livello, comunque
alto, del sentimento che provava sempre per lei quando apprese
che sul conto, al momento in cui era venuta via di casa, aveva
settemila euri.
Al Giornalista, fino a un anno prima, per la sua vita fatta di
viaggi, alberghi e tutto ciò che ne consegue, occorrevano oltre
diecimila euri al mese. Forse per questo commise un errore di
prospettiva (o forse neanche ci pensò) credendo che i risparmi
della Segretaria concedessero più tempo. Il Giornalista, quando
decisero di sposarsi pensò che, una volta preso fiato, avrebbe riallacciato i contatti con gli antiquari e i collezionisti, adattandosi
a usare le proprie conoscenze della materia artistica per risolvere
la situazione economica.
Era da Marzo che andavano avanti con il Bancomat della Segretaria, ma lui, avendo ridotto notevolmente il tenore di vita, era
tranquillo, tanto che di fronte al fine corsa del conto in banca
rimase di stucco. Lei non se ne accorse perché il Giornalista, di
fronte alla notizia, si mise a ridere, l’abbracciò accarezzandola
con la grande tenerezza che proprio tale notizia aveva ingigantito e disse:
« Sarà l’ora che io faccia il mio dovere e che la smetta di comportarmi da magnaccia. Rimbocchiamoci... modo di dire poco
adatto d’estate, dato che siamo in maniche corte... mettiamoci
al lavoro ».
Non era adatto a buttarsi in un commercio spicciolo e pensò,
approfittando anche della pratica che lei aveva con il computer,
329
di usare internet per inserirsi nel giro del mercato. Intanto, per
rimediare due soldi, iniziarono a setacciare la casa, soffitte comprese. Saltò fuori un piatto di Fabriano novecentesco di stile rinascimentale, tutto fracassato, che si risolse comunque a mettere
in vendita su E-Bay. E mentre, espletate burocrazie di varia natura per frequentare la rete, si attendeva un eventuale acquirente,
il Giornalista svendette controvoglia le annate complete di una
storica rivista per quattrocentocinquanta euri.
« E l’uomo vive - disse lui - ma la donna? »
« La donna meglio, perché mangia meno - gli rispose lei - Sai
quanto ci andiamo avanti? Compriamo pasta, uova, pane e patate... ».
Ma c’erano, in prima linea, le massacranti spese giudiziarie, poi
l’assicurazione della macchina, la luce (avevano soltanto i fornelli
elettrici), l’ADSL, i due telefoni fissi che lei disse più volte di
ridurre a uno, ma lui professava immancabilmente il suo disprezzo per il risparmio:
« Bisogna guadagnare di più… i poveri che cosa devono risparmiare, la miseria? ».
Nel taccuino, riguardo ai soldi, compaiono tanti piccoli appunti, con i nomi
delle tre persone che, nel tempo, fecero loro prestiti, spesso modesti, o diedero
contributi al livello di qualche euro per comprare il pane e le sigarette.
Gli incassi che riuscirono a fare con le vendite, tra Luglio e Dicembre,
furono i seguenti: le annate della rivista per 450 euri; il piatto di Fabriano
su E-Bay per 350 euri; un libro del Seicento, rara Farmacopea, per 2500
euri: Totale 3300 euri.
Ci sono altri conti e incassi, altri prestiti, talvolta riportati in modo anche
identico, come fosse un promemoria.
Poi ci sono tante note riguardo a ciò di cui lei aveva bisogno, a partire
dall’abbigliamento:
1 – le mancavano sia la biancheria intima che qualcosa da mettere in casa;
in più non aveva nulla da mettersi per uscire in inverno;
2 – lei sorrideva sempre e non si lamentava mai, ma lui pensava di continuo all’esigenza che la donna doveva sentire di abbigliarsi, come gli sarebbe
piaciuto, per il suo uomo; inoltre le occorreva un abbigliamento dignitoso per
330
affrontare quella vetrina in cui si sentivano perfino in casa, immaginate in
mezzo alla gente. E tutto dipendeva, principalmente, dal fatto che a quella
vetrina lei sentiva affacciata la sua famiglia.
Per quel che riguardava l’abbigliamento domestico, lei dovette continuare
a vestirsi alla meno peggio, mentre per quello da “libera uscita” provvide
la Lettrice. In estate le regalò gli scarponcini rossi che le stavano alla perfezione. Venuto il freddo, comportandosi come fanno le donne tra sorelle e
amiche, le donò e prestò diversi abiti, paia di scarpe e un bel piumino.
La Lettrice andava spesso a casa loro. A lui dava piccoli ma periodici prestiti, e portava con sé ora un vaso di salsicce sott’olio, ora un salame e altri
generi di sostentamento.
Questa situazione, indubbiamente difficile, avrebbe comunque fornito alla
loro vita una dimensione eroica che cementò ancora di più, nei primi tempi,
un’ unione contrastata e avversata. Così si sarebbero soprannominati Bonnie e Clyde.
331
LI
La Torre delle Comete
Agosto fu la notte di San Lorenzo. Raggiunsero un posto adatto a seguire le comete violando un cancello di recinzione per il
pascolo dei bovini. Salendo sull’erba dei prati dell’Alpe, condussero la loro abitazione a quattro ruote sul punto più elevato, fino
al limitare di un bosco di querce. Poi si fermarono a guardare il
tramonto mentre arrossava il lago che lui indicò laggiù, lontano,
nella vallata.
Il caldo opprimente e afoso, che avevano contrastato durante
l’intera giornata dietro le persiane di casa, si stava trasformando
sulla pelle in brividi leggeri. L’aria che alla sera si raffredda e rotola dalle cime più alte lungo le pendici restituiva energia nuova,
entusiasmo e appetiti.
Avevano superato i mille metri e udirono nella radura sottostante un grugnire distinto. Lui, porgendole il cannocchiale, la invitò
a guardare un branco di cinghiali in piena attività. Presero dalla
macchina i piumini invernali e i plaid, lui uno zaino con tutto
l’occorrente, compresa una grossa torcia elettrica.
« Stammi dietro, segui i miei passi » le raccomandò, addentrandosi tra le querce dove la luce ormai filtrava a stento. Camminarono circa un quarto d’ora per raggiungere una di quelle torri
di legno a traliccio dove, tra Ottobre e Novembre, i cacciatori
aspettano tordi, storni e colombi sulla rotta del ritorno ai climi
caldi.
« Vedi? - le disse - Ti avevo promesso che un giorno ti avrei
portato nella mia torre. Eccola: l’hanno fatta apposta per noi,
perché potessimo contare insieme le comete ».
Lui iniziò a salire la scaletta a pioli che in verticale giungeva fino
al palchetto da caccia, un balzolo su cui non saliva da molto
tempo.
« Aspetta - le disse - Devo controllare che i pioli tengano… non
332
so nemmeno chi mantenga questo palco e chissà da quant’è che
non controllano la scala »
Arrivò in cima con cautela, tenendosi bene ai supporti laterali,
discese e la invitò a seguirlo: « Non mettere i piedi al centro dei
pioli ».
Si trovarono sospesi sul bosco, in piedi sulla punta delle chiome
più alte e davanti, a perdita d’occhio, la vallata. Lui tolse le frasche che servono ai cacciatori per nascondere l’agguato: erano
secche e non fu un problema. Il parapetto di legno era alto a
sufficienza per ripararsi, una volta seduti, dall’aria in movimento
divenuta frizzante.
« Visto che i piumini servono? - le disse - E vedrai, anche le coperte. Quando si soffoca dal caldo sembra impossibile che ci sia
a portata d’occhio il freddo. Difatti – continuò - ciò che si vede
ci appare come una grande stanza e istintivamente la consideriamo immersa nella stessa aria stagionale, invece non occorre
andare dall’altra parte del mondo per cambiare clima, basta salire
in alto e aspettare la sera ».
Vuotarono con cura lo zaino e apparecchiarono nello spazio che
rimaneva tra loro due accoccolati sul pavimento. Avevano con sé
il thermos con qualcosa di caldo e il fornellino a gas. Non fecero
gli spaghetti a cui prima di partire avevano pensato, ma una cosa
inconsueta riuscirono a realizzarla: lui svuotò, stillandola, la carta di un pacchetto introdotto per ultimo, ben protetto nello zaino, che conteneva le uova. Erano salve. Completata l’operazione
“dispensa”, appesero lo zaino fuori del palco in cui non c’era più
posto. Lassù, sopra il bosco, ancora ci si vedeva fino all’orizzonte, tutto rosso sotto il cielo senza la più piccola macchia.
Lei era impegnata nell’aprire le sue vaschette con le salse, i salumi e le salsicce secche, sbucciate e affettate con cura. Aprì due
buste in cui aveva riposto fette di pane di varia misura: con quelle piccole preparò l’antipasto. Da uno dei due thermos lei versò
il vino bianco nei bicchieri.
« A noi e alle comete » gli fece
« A noi nelle comete » le rispose.
Bevvero, gustarono qualche crostino, si guardarono intorno e
333
negli occhi. Era il paradiso.
Si fece buio: azzurro ma buio, un buio di stelle attraversato dalla
fascia enorme della Via Lattea; decisero di entrare nel vivo della
loro cena. Accesero il fornellino e misero a friggere in padella le
fettine di guanciale su cui aprirono le uova.
« I gusci - disse lui - se li leccherà la volpe » e li gettò fuori
« Chissà – aggiunse - se qualcun altro che è in giro da queste
parti vedrà la nostra lampada: domani racconteranno che c’era
una luce sospesa, parleranno di un UFO ».
Completarono con un budino che lei aveva preparato e un vinsanto sorseggiato dallo stesso bicchiere (tassativamente di vetro:
niente carta, aveva preteso lui). La sfida a chi riusciva a vedere
più stelle cadenti si protrasse finché durò la notte in quel bivacco aereo pieno del massimo di vita che possa esistere in questo
fottuto mondo.
Le loro bocche finalmente erano riuscite a tacere, sazie di cibo
e di parole, e si sarebbero potuti sentire i loro respiri profondi
e i gemiti, i suoni con cui tornarono a essere puri animali che si
rispondevano come gli altri disseminati nel bosco.
Si svegliarono in un bagno di sudore. Il sole era alto.
Dire felici è dire niente.
«...una notte così meriterebbe di essere preparata tutta la vita pagando
all’alba con la vita stessa... », è scritto nel taccuino.
Ci volle un’ora per ritrovare la roba: era come se il palco avesse
fatto le capriole. A lui venne da pensare a quando il suo vecchio istruttore di volo, il suo mito, continuando a fare acrobazia
quando gli occhi non gli permettevano più di leggere bene i vari
strumenti, metteva gli occhiali. Regolarmente, al primo frullino,
questi occhiali andavano in giro per la cabina e l’allievo, sentendo l’istruttore imprecare, non poteva fare a meno di inviargli in
cuffia una risata.
« A che pensi?» gli chiese lei
« Che ora mi dispiace scendere da quassù. È come in aeroplano: decolli, sali, fai quota, poi inizi a rotolarti nell’aria, ti sposti,
334
osservi, ma a un certo momento la benzina sta per finire e devi
scendere. Non ti rassegnerai mai a dover scendere, anche se un
filo con la terra esiste »
« Dai, facciamo il caffè e poi ci toccherà proprio atterrare; quassù si crepa dal caldo ».
Si attardarono ancora nel bosco, dove la temperatura era ideale.
Le scorte non erano ancora finite e decisero di pranzare.
Erano spossati quanto lo è soltanto chi è veramente felice. Ma
non erano esausti: indugiarono sotto le querce e si fece sera.
335
LII
Le Biblioteche
Tornando dalla Torre delle Comete, una ruota era finita in una
buca della straducola e si era avvertito un tonfo.
Il pomeriggio del giorno dopo la buca presentò il conto.
Si erano recati, gli sposi, in un paese vicino e ne avevano approfittato per lavare i panni in una lavanderia a gettoni. Eseguita
l’operazione, misero il sacco dei panni ancora umidi nel portabagagli: l’asciugatura era costosa e lei li avrebbe stesi sui fili tirati
tra le mensole nella stanza dei libri.
Nel taccuino ci sono appunti ricorrenti che riguardano i termini con cui gli
sposi indicavano la biblioteca. Lui non usava mai questa parola, indicando
come “stanza dei libri” quella centrale, dove c’erano più volumi; lei invece
parlava di “biblioteche” in funzione delle sezioni che riguardavano i vari
argomenti. Di fatto la casa era una biblioteca e un archivio in cui era ricavata un’abitazione.
Fatti pochi metri, quando lui spinse la leva del cambio per inserire la seconda, andò in folle e ci rimase. Tornarono a piedi.
Un tempo avrebbe rimediato a un inconveniente del genere anche se fosse accaduto la notte di Natale: a parte una seconda
vettura, che aveva sempre posseduto, tanti erano i meccanici e
le officine che si sarebbero messi a disposizione per sostituire
il cavo che aveva ceduto. Ora, invece, l’unico meccanico a cui
ancora poteva rivolgersi era in ferie.
L’anima del giocatore recepiva quei segnali grigi che in più occasioni stavano comparendo, imponendogli di vedersi rotolare in
una condizione sociale molto diversa da quella a cui era abituato.
Si limitò a bofonchiare qualche viscerale imprecazione, ma lei
intercettandolo gli ricordò la loro buona sorte di essere insieme.
Così stettero serenamente a piedi fino a Settembre.
336
« Ho percorso in automobile circa quattro milioni di chilometri.
Oltre cento volte la circonferenza della Terra - le disse - Se vado
un po’ a piedi non mi fa male ».
Lui si trovò però a pensare che ciò accadeva proprio nel momento in cui, essendogli giunta quella creatura, sarebbe stato
giusto disporre dei mezzi che gli erano stati consueti per fare il
giro del pianeta almeno tre volte, insieme a lei.
In compenso, furono assorbiti dal riordino quotidiano della vita
del Giornalista. Erano impegnati dal primo mattino e seguitavano fino all’imbrunire. Al decrescere dell’afa uscivano per la loro
passeggiata e, al ritorno, spesso riprendevano a lavorare.
La sposa stava sistemando le biblioteche seguendo, in base ai
numerosi appunti e ai lavori iniziati, il loro ordine cronologico
nella vita del Giornalista, un criterio biografico che a lui non era
certo sfuggito: da un canto gli piaceva rinascere con lei e ricreare
di sana pianta la vita, ma rimettere in fila certi fatti diventava
come costruire una scala che lo portava a osservare quanto fosse
arrivato in alto.
Si rivide a dieci anni salire sul campanile della chiesa, eludendo il
voluminoso frate che aveva dimenticato socchiuso l’accesso alle
scale di legno, quelle che conducevano al terrazzino esterno. Da
lì il bambino aveva potuto finalmente scalare la piramide aggrappandosi ai pioli che spuntavano come grossi chiodi dai mattoni e
giungevano ai quaranta metri della punta.
Allora provò l’orgoglio della vetta, covato nei libri dei grandi alpinisti; ora invece, da grande, temeva la vertigine di chi, puntando deciso verso il cielo, costretto a fermarsi, misura il vuoto. A
sottolineare la dimensione del tempo, udì la voce della zia Giulia
che, cercando lo scavezzacollo, ne strillava il nome intravedendo
la sua camicia rossa piantata lassù.
Non fece trasparire mai di vedersi giunto così in cima nella vita,
temendo ogni invisibile incrinatura nella miracolosa felicità che
li pervadeva.
Il rodaggio progressivo di lei nel familiarizzare con ogni oggetto
della casa, scartoffie e libri per primi, unito al puntuale impegno
con cui lui rispondeva a ogni sua domanda, bastava a convin337
cerli di essere realmente nati per incontrarsi e vivere insieme. Al
nome di “filosofa” lui le aggiunse quello di “archeologa”.
« Non sapendo quale scegliere - le disse – io le amo tutte due… »
« Già, lo fai perché almeno due donne le hai sempre avute, non
è vero? » e diede luce alle due scaramazze nere che le balenavano
sulla faccia precedendo il sorriso.
Una mattina lo mise alle strette. Dovevano sistemare i giornali.
Si trattava dei numeri unici da lui ideati e scritti, con l’unica collaborazione di se stesso, stampati e diffusi negli ultimi dieci anni.
Aveva stampato sfruttando al massimo il formato della carta,
ma anche in tabloid: l’ultimo aveva centodieci pagine e, oltre
alle edicole, lo avevano distribuito certe librerie. Un numero era
uscito a fumetti, dedicato a una vicenda di politici corrotti, al
solito collusi con (im)prenditori privati, i cui nomi e cognomi
erano posti come didascalia a prove documentali incontestabili.
« Questo - disse lei prendendone uno dal pacco impilato - lo hai
intitolato Il Globo, ci siamo tutti »
« Sì - le rispose - È un numero dedicato al G8 di Genova, nel
2001, che poi si allargava al problema del villaggio globale. Lo
portammo la notte del giovedì al distributore, con la macchina
della mia amica Geometra »
« E questa vignetta senza parole in prima pagina? »
« Vedi, compare il mio debutto da vignettista: al volante della limousine c’è il grande capitano d’industria nazionale, l’Avvocato,
che fa lo chauffeur al Presidente a stelle e strisce, comodamente
seduto dietro. Sono fermi dinanzi a un distributore di benzina
antropomorfo che ha la testa dell’Italia coronata; in piedi, addetto alla pompa che tiene pronta in mano, c’è il grande Informatore italiano. Lo chauffeur, affacciandosi al finestrino gli dice
“faccia il pieno e tenga il resto”. E me ne feci di amici » disse
lui abbassando la voce come chi si trasferisce col pensiero da
un’altra parte.
« Dai, non rimandiamo - riprese lei - Non hai proprio voglia di
passarli allo scanner? Così li possiamo pubblicare nel sito o blog,
deciditi »
« Senti - le fece lui spettinandola con entrambe le mani - Non si
338
può fare con quel gingillo che abbiamo di là, occorre uno scanner di quelli grandi… e dove abbiamo i soldi? »
« Per prima cosa rinunciamo al bar - gli disse - E per una settimana si compra soltanto il pane. Poi, ho ancora il Bancomat ».
Fecero un controllo, c’erano diciotto euri.
« M’ero sbagliata, non erano otto »
« Cazzo, siamo ricchi... »
Lo condusse verso la dispensa:
« Guarda: ci sono tre pacchi di spaghetti, due buste di chiocciole,
due di sedanini, una di riso »
Lui fece una boccaccia e le disse che avevano sì risparmiato, ma
quel Basmati era veramente…
« Dai, non fare il sofistico, come dice la signora del pane quando
pretendi che ti metta la pagnotta nella busta grande e che te la
sigilli con lo scotch. È roba mangiabile, specie quando si ha fame
- e gli diede la solita spinta appoggiandosi alla sua spalla - Continuando l’elenco, ci sono tre scatolette di tonno, una di sardine
tutta per te che a me non vanno a genio, e ancora quattro salsicce
sott’olio nel vaso che ti ha regalato la tua Lettrice di fiducia: ci
campiamo… »
« Sì, ora dimmi un anno - fece lui stringendola forte a sé - È
infinita, incommensurabile la mia filosofarcheologa » le bisbigliò
sfiorandole l’orecchio con le labbra, sorprendendosi a sbirciare
se lei, reagendo al contatto, avesse chiuso gli occhi (guai quando
la tua donna smette di farlo).
« Dunque - riprese lei - procediamo a questa scannerizzazione e
inauguriamo il tuo giornale elettronico, di cui questi già fatti costituiscono l’archivio. A te scrivere o dettare commenti sui fatti
del giorno non costa alcuna fatica e in qualche modo suppliresti
alla rivista che purtroppo si è fermata al numero zero. Se non ci
fossimo messi insieme - aggiunse, rifacendosi a un discorso che
ogni tanto le giungeva alla bocca - Tu e il babbo sareste ancora
amici, avresti ancora la tua rivista e… »
« E zittati - la fermò - Se la mia nonna avesse le ruote sanno tutti
che sarebbe un carretto… dovevamo augurarci di farci schifo
l’un con l’altra? O avresti preferito capitare al buio a casa mia per
339
farti sbattere? Scusa. Piuttosto, se dobbiamo star qui a bulinare
il nulla, datti da fare per obbligarmi a concludere qualcuno di
questi cavolo di libri a cui dai tanta importanza »
« Da quale desideri cominciare? »
« Fa’ te - le rispose – Tanto, stanne sicura, sulle stoppie non nasce il grano… »
« Che significa? »
« Quel che ho detto: che dove si è mietuto non si può aspettare
un altro raccolto »
« Vuoi dire che sono lavori abbandonati per cui non provi più
nessun interesse? Di questo per esempio, La Donna delle Pievi, me
ne hai parlato una volta in modo così vivo che me ne sono innamorata. Mi facesti la storia della viabilità, indicandomi alcuni iter
romani e altri più antichi con degli incroci dove sorgevano le are
sacrificali. Mi spiegasti come le Pievi nel Medioevo siano andate
spesso a sovrapporsi a quegli altari soppressi. Poi continuasti
descrivendo l’ambiente di quelli da te definiti “grandi falegnami”
che hanno scolpito le Madonne da mettere nelle Pievi, dipingendone il mantello in blu, in rosso e… non ricordo la sequenza e
il significato simbolico su cui ti dilungasti nei particolari. Infine,
quel giorno che siamo stati alla mostra Mater Altissima, dedicata proprio a queste Madonne di legno dipinte, mi hai fatto un
sunto iconografico: le più antiche hanno il bambino di fronte a
loro, centrale, che mostrano al mondo, ecco mio figlio; poi, col
passare del tempo, il bimbo passa alla loro sinistra e più tardi a
destra, è così? »
« Ho chiacchierato molto, è vero, e tu ricordi molte cose. Quelle
donne di legno dipinto non hanno perduto il loro fascino, ma
come esse si sono sovrapposte alle divinità pagane cancellandole, le tante traversie giudiziarie che ben conosci si sono sovrapposte a loro nel mio cervello, e ora faticherei a ritrovare
l’entusiasmo che meritano. Ti faccio un esempio, dato che mi ci
casca l’occhio: quel libro lassù con la costola verde, Aviosuperfici,
è concluso e stava per essere distribuito, poi è rimasto lì »
« Sì - fece lei - Ci sono due lettere dentro, una è dell’editore e l’altra di un libraio: era già fissata la presentazione del libro a Roma
340
e a Milano, che successe? »
« La prima tiratura - le rispose - stava per essere consegnata alla
legatoria quando mi accorsi che sul risvolto della contro copertina compariva la parola “areoporto”. Feci un controllo in tutto il
volume e l’errore marchiano era costante. Non si trattava di un
semplice refuso, ma di una rozza distorsione della parola.
Sarebbe stato da correggere in ogni caso, ma figurarsi in un
libro sugli aeroplani e sul volo.
Ripresi in mano il testo e, mentre di fatto lo stavo rivedendo tutto, com’è inevitabile, sopraggiunse una nuova bega giudiziaria.
Aprii un altro fronte e Aviosuperfici rimase nel cassetto. E invece
quel lavoro era importante al di là dell’argomento che tratta: era
importate per far capire quanto sia ostico il mondo del Diritto e
delle leggi e come il Potere sfrutti questa farraginosa complessità
per mettere in atto, impunemente, ogni tipo di prepotenza ».
« Senti - gli disse la Segretaria - ho pensato più volte, leggendo i
tuoi manoscritti, all’uso che fai della lingua: prendo per esempio
“tutti due” che ho qui sottomano anziché “tutti e due” o “tutt’e
due”, perché? »
«Dunque, scartiamo il compromesso manzoniano con l’apostrofo prima della congiunzione, che proprio mi urta; l’altro, di derivazione francese (tous les deux), non mi sconfinfera. Vedrai che il
mio vocabolario cambia notevolmente se scrivo su un argomento tecnico o faccio un racconto: in un racconto posso scrivere
addirittura “tuttidue” se indico due persone che fanno qualcosa
come se fossero un individuo solo. Viva la faccia del linguaggio
parlato e delle possibilità di caricare la lingua del proprio sentire,
nei limiti della comprensibilità.
Un altro caso, benché diverso, è dato dall’uso del pronome “gli”
e “loro” nella costruzione dativa. Esempio: « Tizio e Caio incontrando Sempronio gli fecero una pernacchia e lui gli dette
dei bischeri ». Prova a dire, correttamente, “… dette loro dei
bischeri”: oltre a rallentare l’azione, quel “loro” trasforma la restituzione di uno schiaffo verbale in un gesto quasi educato. Potremmo andare avanti per quanto ho scritto e, di volta in volta,
dovremmo spiegarci sui diversi usi della lingua.
341
Torniamo al nostro argomento ».
***
AVIOSUPERFICI
« Quel libro che feci sulle leggi che riguardano il volo potrebbe
essere utile anche per chiarire quale sia il nocciolo delle mie liti
- le disse - liti che ti riguardano, poiché sono una palla al piede
delle mie giornate »
« Mi piacerebbe capire cosa significa La Lite Continua, che ho
visto come titolo di un altro libro iniziato. Accanto hai scritto
“appunti autobiografici” »
« Eh sì, La Lite Continua è la mia vita. Dovrei premettere una
super sintesi, che equivarrebbe a fare il punto sulla convivenza »
« Ti ascolto, provaci »
« Sarebbe noioso. Spendiamo giusto due parole sul concetto di
Diritto, come è inteso in uno stato democratico. Siccome ognuno aspira a essere libero, si è pensato di stabilire quale sia lo
spazio individuale, indicandone i confini. Questo diritto soggettivo deve trovare riscontro nel diritto obiettivo, che appartiene
all’intera comunità. Le leggi stabiliscono il corretto rapporto tra
le parti. Dunque, l’individuo rispetta le leggi e la società gli garantisce il rispetto del suo spazio privato. Ci siamo? »
« Fin qui sono nozioni scolastiche »
« Meglio così, possiamo procedere. Chi detiene il potere, anziché
proteggere la libertà che spetta al cittadino, con poche leggi semplici e chiare, ne ha promosso la proliferazione. Il parlamento,
che è divenuto un superordine degli avvocati, impasta e sforna
di continuo nuove leggi e il governo un’infinità di decreti. Si è
giunti a relegare l’individuo in un labirinto di norme in cui i suoi
diritti si perdono. Se ciò non bastasse, persistono un diritto comune e un diritto speciale. E siamo arrivati al nostro esempio,
cioè al Codice della Navigazione, che riguarda l’acqua e il cielo.
È un esempio utile poiché rappresenta un’iperbole del sistema
giuridico.
342
Coloro che si avvicinano all’acqua - mare, fiumi e laghi - e che
vogliono spostarsi per via aerea sono sottoposti al codice speciale a cui mi sono appena riferito. Tralasciamo l’acqua, anche se fa
parte dello stesso codice, dedichiamoci alla parte aerea. Fermami
quando non sono chiaro, che mi faccio da capo, se occorre…
dobbiamo capirci »
« Vai pure avanti »
« Il giorno che l’uomo è riuscito a volare, la Legge ha toccato
il limite delle sue previsioni. Staccandosi da terra e spostandosi
nell’aria, senza obbligo di percorsi obbligati come le strade e le
ferrovie, l’uomo ha raggiunto una libertà impensabile. Un mezzo aereo, il più semplice, può raggiungerti ovunque tu sia, fossi
in cima a un monte o in una gola sperduta. Quindi, il sistema di
leggi ha dovuto affrontare il problema di garantire la libertà sia
all’individuo che vola che a quanti vogliono starsene tranquilli a
terra. Considerando inoltre che il più modesto mezzo aereo è
idoneo al trasporto di una bomba, anche micidiale, la Legge ha
dovuto assicurare a ciascun cittadino che il volo venga esercitato
con ogni precauzione. Da qui un attento controllo della costruzione dei mezzi aerei, degli impianti a terra come gli aeroporti
e le aviosuperfici, una rigorosa visita dei piloti, fisica e mentale.
Mi segui? »
« Ti seguo, continua »
« E siamo al nostro esempio di furbizia e malafede con cui alcuni
trovano il modo di imboscare l’illegalità nel sistema delle leggi.
La nozione di Aeromobile è definita dal Codice della Navigazione, all’articolo 743, nel modo seguente:
Per aeromobile [che si muove nell’aria] si intende ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose.
Bene, un giorno si è alzato un signor Onorevole in Parlamento
per presentare una legge sui deltaplani, chiamati volgarmente
“aquiloni”. Questo signore ha premesso che non sono aeromobili. Qualcuno dei presenti ha eccepito che il deltaplano trasporta per aria almeno una persona, quindi è un aeromobile a tutti gli
effetti. Ma gli hanno risposto che si tratta di un piccolo mezzo,
del peso di mezzo quintale, che monta un motore da pochi ca343
valli: e con queste assurde motivazioni il deltaplano è passato per
un macchina che non vola.
Quali sono le conseguenze? Che i deltaplanisti non devono sottostare alle regole del codice previste per i piloti, per la costruzione dei mezzi volanti, per la costruzione e la gestione degli impianti a terra. Risultato: da quel primo Decreto, sorto all’insegna
della “liberalizzazione”, la flotta dei deltaplani e degli ultraleggeri
in genere, divenuti più pesanti e veloci, ha invaso lo spazio aereo,
ingombrandolo in modo illecito e improprio, privando inoltre
i cittadini di quelle garanzie che il sistema era tenuto a dare. A
tutto vantaggio di coloro che hanno favorito e/o messo in piedi
un’industria di proporzione e fatturato giganteschi »
« Ci sono sempre di mezzo i soldi... »
« E i disonesti, dato che il Parlamento può essere tutto fuorché
un’azienda... »
« E tu che hai fatto? »
« Ho esposto e denunciato i fatti in ogni sede competente; li ho
resi pubblici e il risultato eccolo qua: tramite i deltaplani e gli
ultraleggeri hanno inventato un’altra aviazione che vola in barba
alla Legge e alla faccia dei cittadini che stanno a terra. Qualcosa
di vagamente analogo succede anche sulle strade con le “macchinine”... L’illegalità, l’arroganza e lo sberleffo volano sulla testa del Popolo, che non è affatto sovrano »
Il Giornalista aveva lo sguardo perso in un buio che gli colorava
gli occhi. La Segretaria gli prese la mano, gli si accostò rimproverandolo con tanta dolcezza:
« Non puoi farti carico del mondo, paghi un prezzo troppo alto
a questa gente. Se gli altri facessero un centesimo di quel... »
« Gl’intellettuali, che pezzi di merda... engagé et désengagé... era la
querelle degli anni Sessanta. Ma chi dovrebbe muoversi per denunciare che in un Parlamento avvengono certe cose? Altro che
dibattere sulle due culture... E i letterati, che agognano il Nobel… e allora dai a scrivere secondo i canoni che ammaliano i
critici mummificati dal potere: l’artista deve liberarsi dalla cronaca e dall’autobiografia, privilegiando i valori universali... Va
da sé che in questo modo i fatti del presente non vengono mai
344
narrati per quel che sono. Se qualcuno lo fa, li evoca con un
linguaggio che solo i suoi compari possono capire. E il sistema
ha raggiunto lo scopo... È una società di raccomandati e di scadenti affabulatori, di politicanti e di costituzionalmente mafiosi...
I letterati, che pezzi... ».
***
Questa è una società in cui un povero cristo cerca un becchino e
può sentirsi rispondere che deve aspettare perché è in riunione;
cerchi un barbiere e non lo trovi più dato che sono diventati
tutti tricologhi; cerchi un professionista e scopri che è montato
talmente in cattedra che ora per scendere sta seguendo un corso
di paracadutismo: attesa lunga e parcella più salata.
Abbiamo messo insieme una società veramente del cazzo: l’unica preoccupazione è che non si dicano parolacce. Come si
dice?... dì grazie... dì buongiorno al signore...
Siete contenti che i furbi vi sorvolino ogni giorno?
345
LIII
Il Bivacco
Durante il lavoro certosino che la sposa portava avanti ogni giorno per sistemare archivi e biblioteche trovò un’edizione aldina
degli Epitheta di Cicerone, datata 1570. Il Giornalista segnalò il
libro a un bibliofilo di Ferrara, a cui lo vendette per trecento euri.
La piccola somma poteva essere tenuta stretta per resistere, in
attesa di risolvere il problema economico. Ma lui, fin dai tempi
dei primi baci, le aveva promesso che un giorno sarebbero saliti
insieme sull’Alpe, pernottando al bivacco, un capannino di legno
di un paio di metri per due, accanto alla cima del Monte dei Frati,
scendendo sul versante toscano.
Non ebbero dubbi. Comprarono uno zaino Mc Kinley penultima grandezza e due sacchi a pelo da unire con la cerniera centrale, garantiti per meno cinque, limite ipotermico meno quindici.
Lo sposo diede un’occhiata al meteo, perché a fine Settembre, su
in cima, la temperatura notturna poteva scendere sotto zero. E
lui, che teneva a farle amare la sua Alpe, preferiva presentargliela
con pochi disagi.
Era prevista una bella giornata per martedì 18, poi, a partire dal
pomeriggio di mercoledì, sarebbe tornato tempo cattivo. Calcolò che sarebbero riusciti a salire e discendere, il mattino seguente, con il sole.
Lui calzò gli Aku di tante scarpinate e si mise in spalla lo zaino
nuovo con tutto il necessario; lei gli scarponi rossi donati dalla
Lettrice e uno zainetto con la cena. La condusse per il sentiero
più agevole e, strada salendo, le presentò alcuni dei faggi più
gloriosi: invecchiati nel vento e sopravvissuti ai fulmini, amici
che talvolta gli erano serviti a ritrovare il cammino nelle sfuriate
invernali. Si fermarono più volte, si abbracciarono e si accarezzarono; e abbracciarono le piante, per scattare fotografie scherzose e bizzarre, si riempirono di baci. Giunsero alla Ripa col sole
346
dietro il bosco. Lui vide in alto una massa scura che si muoveva
nel cielo. L’Aquila, che scendeva sempre a salutarlo, era aristocratica e sensibile: vide ch’era con lei, e neanche si voltò.
Si affacciarono sullo strapiombo e il Giornalista si mise a parlare
delle leggende del salto degli sposi, della sposa e dello sposo, ne
esisteva un repertorio:
« Ce ne sono di due tipi - lui cominciò – quelle legate al tradimento e, altre, agli amori impossibili »
« Raccontami queste ultime » gli disse.
« No, ti racconto di un amore vissuto e documentato, che volle
essere eterno. Il fatto accadde nel 1871, a Castione, un paesino a
ridosso dei monti della Presolana. Erano venuti ad abitarvi due
forestieri, lei un’affermata pittrice e lui un musicista. Li si vedeva
sempre insieme, sorridenti e felici. Si chiamavano Anna e Massimiliano, ma per la gente erano soltanto Gli Sposi »
« Come noi? »
« Suppergiù. Dunque, un giorno, dopo un gran temporale, che
aveva lasciato un doppio arcobaleno... »
« Come il nostro? »
« Sì, come quello sotto cui abbiamo cominciato noi due. Ma ora
non mi interrompere. Quel giorno, gli sposi, vestiti degli abiti
nunziali, salirono sulla montagna fino al dirupo detto il Belvedere. La sposa si mise a dipingere il ritratto del suo sposo e lui a
comporre una musica per lei. La notte che stava sopraggiungendo era di luna piena. Quando sorse, il ritratto e la composizione
musicale erano terminati. Attesero che la luna si mostrasse intera, poi si presero per mano e camminarono verso il precipizio.
Arrivati all’ultimo passo, saltarono giù abbracciati, e così li ritrovarono il giorno dopo… »
« È triste e bellissima questa storia, mi fa pensare al Lucchetto
del Diavolo » gli disse.
« Ma il salto di Castione è accaduto davvero ».
Lasciarono il precipizio e giunsero al bivacco a buio. Lei preparò tutto sul tavolo pieghevole del capanno, e cenarono al lume
di candela, che per loro era divenuta una consuetudine anche a
casa. I Promessisi avevano mantenuto un’ altra promessa, vissu347
to un altro capitolo della loro storia, che scrivevano fisicamente
ogni giorno e consegnavano al loro taccuino. Poi fu aperto lo
zaino grande e montarono il sacco a pelo matrimoniale.
Il buio e il silenzio, che molti avevano dimenticato, li avvolsero
e le loro voci, i suoni, le vocali, acquistarono un tono solenne.
Ogni tanto sentivano il rombo di un aeroplano (sull’Alpe della
Luna passa l’aerovia Ambra 14) che lui non maledisse perché su
quelle macchine era cresciuto. Ma la ritenne un’intromissione,
che l’Aquila - pensò - non si era sognata di fare.
Si udirono dei suoni nel bosco, qualcosa che somigliava a un russare o ronfare. Gli chiese cosa fosse e lui le rispose che sembrava
un gufo, anche se non ne aveva mai visti lassù. E aggiunse che
c’erano tanti animali, il lupo per esempio...
« Il lupoo... » fece lei.
« Sì, ma non può entrare, ho messo il catorcio... l’unico che potrebbe fregarsene, del catorcio, è l’orso marsicano... »
« Dai, non scherzare, ho paura... »
« Tieni a portata di mano il miele, all’orso piace... » e si mise a
ridere. Lei, che era già rannicchiata nel sacco a pelo, accanto a lui,
lo strinse più forte e gli diede un morso all’orecchio.
Al mattino, prima di ripartire, il Giornalista scrisse una frase sul
registro degli ospiti del bivacco e le disse di firmare:
« Questo è il nostro secondo registro matrimoniale » concluse.
Il giorno dopo leggevano il giornale in un bar, uno di quelli che
frequentavano proprio per quello scopo, e li attirò il titolo:
Un branco di lupi sbrana quaranta pecore
La località dove era successo, la notte tra martedì e mercoledì,
era a qualche centinaio di metri dal bivacco. Si guardarono e si
sorrisero. Lei frugò nella borsa e disse che c’erano i soldi per
comprare il giornale, che portò a casa per incorniciare.
***
Al Giornalista, che non sopportava diminuitivi e vezzeggiativi,
era venuto di chiamarla Zizi, senza alcun riferimento a significati
esistenti, ad annuire o negare, senza accento sulla finale: Zizi,
348
che scivola, che è dolce, gli piaceva pronunciarlo, gli venne spontaneo. Più tardi, in inverno, quando lei gli preriscaldava il letto
con l’asciugacapelli, la chiamò Ziziphon, scaldandole in cambio
il nasino gelato con il suo orecchio: « Portanasi pronto » le diceva
e lei, infilandolo nell’orecchio di lui, sorrideva e lo abbracciava.
Sono miliardi i gesti e le parole che usano gl’innamorati per comunicare tra loro: se li “decontestualizzate”, questo linguaggio
fa schifo quasi quanto la parola “decontestualizzare”. L’amore
ha un suo spazio, incomprensibile e per questo meraviglioso, ma
non va contaminato.
« Ecco perché la gente dovrebbe farsi i cazzi suoi » disse il Giornalista a voce alta.
***
L’autunno fu il tempo del raccolto anche per loro. In ogni senso.
In campagna erano Bonnie e Clyde, come gli piacque chiamarsi,
sorridendosi e accarezzandosi, esercitando il mestiere privilegiato degli innamorati; tra le pareti di casa, invece, erano due formiche operose, intente a guadagnarsi sul campo una vita autonoma
e felice.
In campagna individuarono tutte le coltivazioni e la produzione
spontanea di frutti che i proprietari non raccoglievano più e che
inselvatichivano, come ad esempio un filare di uva americana,
reclinato su una greppata tra le querce; un sorbo stracarico isolato in mezzo ai campi dove rimanevano i ruderi di una colonica;
noci che coprivano il perimetro di terra, sottostante la chioma, di
frutti che sarebbero rimasti a infradiciare; grandi coltivazioni di
ortaggi, come la rapa, le cui cime sono ottime per mettere in padella con le salsicce o con altri tipi di carne. Fecero una mappa,
sorvegliarono le loro prede e, man mano che maturarono, ne fecero provvista. Un vero e proprio furto fu commesso a ridosso
di una casa padronale: la Segretaria fece da palo e il Giornalista
assaltò un melo cotogno i cui frutti, rari anche in commercio,
gli erano indispensabili per la marmellata di sole cotogne e con
l’uva.
349
In casa lei aveva preso possesso di ogni cosa: in cucina chiudeva
gli sportelli della piattaia e il rubinetto in posizione acqua fredda,
cose che per diverso tempo le erano rimaste indigeste; pentole
e tegami avevano trovato la disposizione più razionale e certi
piccoli dettagli mostravano l’intervento di chi li adoperava con
amorevole impegno: per esempio un tappo di sughero incastrato
di traverso all’occhiello del coperchio ermetico della pentola di
acciaio per la pasta, per evitare di scottarsi.
A ogni ambiente lei cercava di dare una caratteristica che glielo
facesse sentire suo, o meglio soltanto loro. Operazione molto
difficile in una casa antica, piena di ricordi, di abitudini all’immagine e alla funzione degli oggetti esistenti e della loro dislocazione, che formavano la trama e l’ordito di un tessuto domestico, da
definire (una volta tanto senza abusarne) contesto.
Lui era troppo assorto nei suoi mille problemi per considerare le
enormi difficoltà che la Segretaria stava affrontando: sbalzata da
un ambiente arioso e luminoso, con dovizia di mezzi e di servizi,
in una vecchia casa in cui, oltre alla momentanea penuria di beni
materiali, ad ogni passo incontrava le tracce di un lungo passato
del suo uomo, in cui doveva riuscire ad inserirsi.
È legittimo che una donna, unendosi a un uomo, senta come prima esigenza quella di costruire la casa, che diviene il luogo in cui
la coppia si riconosce. E per la donna è un lavoro gratificante,
una creatura in cui procreare e vivere, un risultato emblematico
da mostrare con orgoglio alle persone con cui ha condiviso la
vita precedente, in primo luogo i familiari. La Segretaria, benché
avesse capito subito che tutto questo non sarebbe potuto avvenire nella già esistente casa del Giornalista, non si diede affatto
per vinta.
Si adoperò perfino a raschiare il soffitto di un vecchio e angusto
bagno, distrutto dalla perdita d’acqua di un vecchio tubo, accingendosi a imbiancarlo; rimurò una fessura profonda sotto la finestra della camera da letto che aumentava, fosse anche soltanto
mentalmente, l’aria che giungeva dagli infissi lasciati da tempo
immemore senza alcuna manutenzione; spostò un quadro, di
tavolozza vivace, dall’angolo morto della stanza del computer,
350
dove era parcheggiato, sopra al cassettone ottocentesco della camera, ravvivando l’ambiente. Girava, nei momenti di tregua dal
lavoro, con il metro per misurare gli spazi disponibili per spostare un mobile o l’altro, razionalizzando l’arredo e il suo servizio.
Mentre lei dava forma alle biblioteche, distinguendole per settori
e argomenti, lui preparava un discorso originale da mettere su
internet. Una storia dell’arte, basata sul mercato, praticamente
una storia articolata dal gusto e dalla moda, da non confondere
con la storia sociale, con cui confinava. E a questo lavoro lei
collaborava attivamente per la ricerca iconografica e, soprattutto,
per l’impegno richiesto dall’inserimento in rete di un materiale
molto vasto, inerente alla produzione artistica di ogni epoca e
luogo del mondo. Lui sperava che da questa iniziativa potesse
venire un qualche provento, prima di accettare, come gli avevano
prospettato, di mettersi a scrivere biografie di personaggi, di cui
abbondava la provincia, che, divenuti ricchi vendendo madri e
fratelli, oggi, più di là che di qua, volevano lasciare un ritratto
edificante di se stessi (di questa proposta di fare il biografo di
neoarricchiti morituri - incarico che in realtà non pensò mai di
accettare– non disse niente a lei).
Intanto, la Segretaria e il Giornalista si stavano documentando
per contrastare una devastante speculazione edilizia che non
solo era progettata nei minimi particolari riguardo alle costruzioni e all’urbanizzazione, ma godeva già di un autorevole parere
positivo. Si trattava di un’area di oltre dieci ettari alle porte del
paese, in una zona, tra l’altro, di notevole interesse archeologico.
Tutto ciò che facevano dimostrava che la loro ipotesi di essere
nati l’uno per l’altra era reale e che la scelta della Segretaria di
accompagnare un uomo che aveva tanto da dire era giusta: giunsero subito a capirsi al volo, come vedremo, nel bene e nel male.
Una spinta non indifferente a realizzare e rendere pubblico quel
che facevano era il desiderio di mostrarlo all’Editore. La battaglia per contrastare il progetto speculativo alle porte del paese
era tra quelle di cui l’Editore e il Giornalista avevano parlato da
tempo, ripromettendosi di intervenire.
I due soggetti, che in cuor loro non potevano che stimarsi, segui351
vano da lontano le reciproche attività, augurandosi prima o poi
che la sorte offrisse una qualche soluzione.
Nonostante gli elencati impegni, la Segretaria stupiva il Giornalista (benché di donne capaci e pazienti ne avesse avute) passando dalla cucina alla stanza dove quotidianamente lavava a mano,
stirava, poi metteva a posto nei cassetti, nel nuovo modo che si
era inventata. Era sempre lì, accanto a lui, a fargli da balia in ogni
modo e in ogni cosa, in ogni momento.
Lui non avrebbe sopportato altro, dopo la morte della sua donna, che di veder girare in casa sua una taglia quaranta, silenziosa,
scattante, una figurina senza ombra di smagliature che ogni sera
gli metteva la crema sul viso, sulle mani e sulle braccia, lo massaggiava e gli dava tanti baci materni. Capace poi di trasformarsi
in un’amante sensibile e appassionata. Solo lei poteva essere arrivata dopo Muriel.
Era presente e pressante, non se n’era dimenticato, la paura della
Segretaria di rimanere incinta. Ma era disposto ad attendere di
risolvere problemi come quelli di sopravvivenza, che erano un
ostacolo indiscutibile, per rimuovere ciò che la bloccava.
Sul punto è lui a precisare nel taccuino che ci voleva un figlio. A lei era anche
indispensabile per liberarsi dal giogo materno, o meglio mamministico. Lei,
prima di fare l’amore (non di scopare) doveva chiedere il permesso a sua
madre, perché era ancora dentro al suo utero e non poteva farla esplodere
aumentando il proprio volume: sarebbero divenute una Matrioska.
352
LIV
La Trama
L’Editore era preso fra quattro, cinque fuochi, era circondato.
In testa la moglie e a seguire la cognata, la nipote in prigione
con la nonna che si preoccupava per la figlioletta senza madre,
la signora dello studio di commercialista che lui avrebbe voluto
chiudere, ma... c’era l’ombra del Palazzinaro divenuta più scura
dopo l’esplosione della baita.
Un tempo la città rappresentava per l’Editore una sorta di rifugio
dove rigenerare ciò che veniva consunto dallo sforzo di tenere in
piedi la costruzione familiare, scossa profondamente dai guasti
che la vicenda della Monaca aveva prodotto e dalle conseguenze
sull’altra figlia, poi divenuta la Segretaria.
« La sai l’ultima? » disse la Psicologa al marito appena rincasato.
« Qui sono tutte ultime » rispose l’Editore.
« Mia sorella mi ha detto che tua figlia, telefonando al fornaio
per prenotare il pane, si è presentata come la moglie del Giornalista... »
« Che doveva dire? Nostra figlia è la moglie del Giornalista... »
« Ah, benissimo, tu sei d’accordo allora... »
« Non dipende né da me né da te, possiamo essere o meno d’accordo, ma è la moglie del Giornalista... è un fatto che risulta dai
registri pubblici »
« Noi dobbiamo fare qualcosa, ne ho parlato con mia sorella e
con la Regina madre, ne avevamo parlato anche con tua nipote »
« Buona quella, voglio vedere... vedrai che non l’hanno messa in
galera perché stava antipatica al Commissario. Ha fatto qualcosa
di grosso, questa è una cosa seria, terribile e orribile »
« La cosa più seria è risolvere il problema di tua figlia in mano a
quel vecchio... »
« Da quando in qua tratti il Giornalista da vecchio? Lo hai sempre esaltato anche di fronte a tua figlia, ero giunto a esserne
353
quasi geloso per le attenzioni che gli riservavate ».
La Psicologa tacque, guardando il marito come ai tempi in cui,
perché le fosse permesso di giocare al suo ruolo di bambina
mai dismesso, faceva pesare, senza profferire una sola parola, il
credito di avergli covato due bambine che tutti gli invidiavano. E
per una quindicina di anni, ossia fino ai primi incontri maschili
della figlia maggiore, divenuta poi la Monaca, anche per l’Editore era stato un gioco lasciar crescere le figlie come fossero madri
della loro mammina e lui recitare la parte del padre di sua moglie.
I primi tempi lo aveva fatto di slancio, ubriacato di passione per
la consorte, che era passera straordinaria a letto e donna prestigiosa, da tenersi accanto, tra la gente.
Uscito dal cerchio magico, era stato accondiscendente per abitudine, più tardi perché non aveva più saputo come invertire
questa tendenza, di cui erano sul piatto i risultati.
« Se ne è discusso anche col suo fidanzato, di ... »
« Con il suo ex, vorrai dire... non vi è bastato di aver imbastito il
tentato rapimento... eri tu che non ne volevi sapere di quel tale
poco rappresentativo... e ora? Ha ragione il Giornalista: dare nostra figlia a un impiegato sarebbe come dare una Formula Uno
a un tassista... »
« Ah, ah, ho capito: a te va bene il Giornalista... »
« Non ho detto questo, ma non puoi nemmeno costringermi a
misconoscere i fatti ».
L’Editore sentiva la mancanza del Giornalista, delle loro discussioni, della specie di consulenze che gli chiedeva per ogni problema e, al momento, avrebbe avuto bisogno di parlare dell’arresto
della nipote e del groviglio di ipotesi che lui stava facendo, senza
venire a capo di niente: il Giornalista, diceva a se stesso, sarebbe
sicuramente riuscito a fare un ragionevole punto della situazione.
E anche la rivista gli mancava, quel progetto cullato per tanto
tempo e ora accantonato a causa del matrimonio della figlia. Ma
che poteva imputare al Giornalista? Di essersi approfittato di una
bambina? Di aver sfruttato la richiesta di parlarle dell’università,
perché riprendesse gli studi, per entrare in confidenza con lei? Sì,
lui aveva detto che il Giornalista era un delinquente, che aveva
354
tradito la loro amicizia per stare in linea con il comportamento
scelto dalla moglie e da coloro che le ruotavano intorno. Ma la
fredda ragione e la sua coscienza, libera da ogni accettata sudditanza al baldacchino dei limitrofi, non riusciva a formulare alcun
capo di imputazione.
« Sai, ho parlato col notaio: avrebbe un’idea per aiutare nostra
figlia » riprese la moglie.
« Che c’entra il notaio? »
« È amico di un dottore con cui dovresti parlare »
« Un dottore... per fare cosa? »
« Nostra figlia è infatuata di quello, va aiutata, va guarita... il notaio ha fatto cenno al problema e il dottore è disponibile a... »
« A far che? Non capisco e non voglio capire »
« Intanto dovresti chiudere l’ufficio della casa editrice qui in paese. Io e mia sorella ci siamo date da fare per tenerlo aperto, ma
non credo che questa sede abbia qualche utilità, escluso quella
di rappresentanza... ha soltanto un valore affettivo per te... è in
ditta, in città che sbrigate tutto... fa’ come credi, sei tu che decidi,
ma io così non vado più avanti... uno di questi giorni... ».
I genitori della Segretaria, essendo arrivato a casa loro il resoconto periodico dalla banca prima che la sposa si ricordasse di
comunicare il nuovo indirizzo, sapevano che avevano finito i soldi. E da questo concreto presupposto la Psicologa si mosse: ora
stava armeggiando per mettere in atto un piano preciso.
Lo stato di indigenza degli sposi fu subito fatto trapelare, soffiandolo nell’orecchio di una delle malelingue professionali del
paese, che si occupò personalmente di curarne la diffusione capillare. La prima seduta avvenne in casa della buona conoscente della Psicologa, quella che, dopo le nozze, era diventata sua
grande amica. E, come inizio da manuale, si gonfiò la somma:
i settemila euri consumati divennero diciassettemila. Poi fecero
arrivare i dati a un fotografo, di lingua altrettanto lunga e venefica, che eseguì, senza alcun compenso ma per puro attaccamento
al suo vero mestiere, un lavoro così ben fatto che la voce corse
in tutta la vallata. La cifra divenne naturalmente maggiore e via
via crebbe. Alfine, il Giornalista divenne lo sfruttatore che, dopo
355
aver plagiato una povera ragazza, l’aveva sposata per mangiarle
ogni sua sostanza. Da lì si estese il discorso ai capitali paterni, a
cui il Giornalista, tramite le nozze, avrebbe mirato.
Anche in questo caso il taccuino serve a far luce sui fatti. Se esisteva un
fattore su cui i due sposi scherzavano ad ogni occasione, tra loro e con le
persone che avvicinavano, erano i soldi, ripetendo continuamente che tutto
avrebbe potuto dire la gente, tranne che si fossero messi insieme per interesse.
Quanto all’eredità, il suocero aveva quasi quindici anni meno del genero,
che inoltre aveva rifiutato ben altre occasioni per sistemarsi. Ad abundantiam, per dirla all’avvocatesca, al momento di sposarsi il Giornalista aveva
chiarito al Sindaco celebrante che si chiedeva la separazione dei beni. Nella
stessa pagina del taccuino esiste un conteggio da cui si evince che a Novembre
2012 il Giornalista, oltre ai 3300 euri rimediati con le vendite, se ne era
fatti prestare altrettanti, con disuguale provenienza, dai suoi tre già citati
sostenitori. Poi ne avrebbe ottenuti in prestito altri settemila, ma le spese
giudiziarie polverizzavano all’istante queste misere somme: uscieri, avvocati
e polli non son mai satolli.
« Quando ci andiamo da questo dottore? Che poi, in definitiva, ci
puoi andare tu con il notaio. Intanto ci parli e poi decideremo »
« Non ho nessuna voglia »
« Non vorrai mandarmici da sola, per caso... se tu chiudessi l’ufficio trasferendolo in casa, potremmo trovare il modo di richiamare tua figlia a far la segretaria: visto come sono messi, avrà
bisogno di guadagnare »
« Ora sono stanco, ci penserò; domani è una giornataccia, mi
devo riposare... ».
La Psicologa il giorno dopo telefonò all’amico notaio per aggiornarlo sulle indecisioni e sui dubbi del marito, chiedendogli
di svolgere un’opera di convincimento perché si recassero dal
dottore.
È ovvio che lo psicoterapeuta, indicato quale risorsa dal notaio,
fosse una di quelle persone che ardiscono entrare nella testa degli altri per oleare certe rotelle che loro per primi non conoscono. Il terreno dove operano è sconfinato e la presunzione con
356
cui lo percorrono è inversamente proporzionale alla conoscenza
che, a tutt’oggi, si ha del cervello umano. Ma sappiamo bene che
questa società ha lasciato morire Cagliostro in una cella, in una
buca alla rocca di San Leo e chi lo condannò come ciarlatano
vende ancora santini e indulgenze.
Il notaio e il dottore erano legati da una proficua collaborazione,
con cui negli ultimi venti anni avevano ottenuto risultati molto
vantaggiosi (per loro naturalmente). Un capolavoro fu l’interdizione di un facoltoso nobiluomo, un latifondista che aveva lasciato erede universale di ogni suo avere la giovane convivente,
sposata poco prima di morire. I nipoti del nobiluomo furono
molto riconoscenti ai due professionisti per il lavoro svolto con
innegabile capacità, approfittando della benevolenza di un giudice che suggellò l’impresa con un discreto tornaconto.
Nella parte del taccuino degli sposi che, come vedremo più tardi, il Giornalista avrebbe portato avanti da solo, ci sono cinque pagine dedicate alla
ricostruzione della particolare attività di questa affiatata banda di professionisti. Ne viene narrata la storia individuale, una sintetica biografia a
tutti gli effetti, a cui segue una dettagliata descrizione delle loro maggiori
imprese, riportando i nomi dei soggetti che, di volta in volta, assunsero la
veste di assistiti del notaio e di pazienti per il dottore. Spesso compaiono
avvocati, tra i quali spicca il nome di un insigne professore di diritto penale.
Desta meraviglia il quadro che il Giornalista è riuscito a ricostruire nei minimi particolari, attraverso fatti e dati che soltanto il lavoro di un poliziotto
di carriera sarebbe in grado di raccogliere.
Viene spontaneo supporre che il Nostro sia ricorso alla collaborazione di
qualche investigatore, esperto e ammanigliato, per carpire questo materiale a
chi lo detiene per ragioni strettamente d’ufficio.
Si parla anche di procedimenti giudiziari tentati e intentati contro diverse
accoppiate di professionisti del genere, soffermandosi su uno in particolare,
che ebbe una lunga istruttoria e, con motivazione di insufficienza di prove,
venne archiviato.
357
LV
Il Sequestro del Cantiere
Il 20 Novembre 2012 uscì sui giornali, strombazzato senza
guardare a spese d’inchiostro, la notizia di una maxi operazione
della Guardia di Finanza, laudata ex omnibus: era stata eseguita
un’irruzione nel Cantiere, ponendolo sotto sequestro: erano stati arrestati il Palazzinaro, la Califfa e il Giardiniere, spiccato un
mandato internazionale per l’Architetta che era all’estero, uscita
dall’Italia due giorni prima con un piano di volo per Vienna, da
dove aveva proseguito per l’Ucraina, diretta a Kiev.
Gli sposi che, sprovvisti di televisore, frequentavano il mondo
via computer, quel giorno avevano stanziato i soldi per il caffè,
mirando all’approfondimento della notizia, già letta su internet:
il Giornalista non era soddisfatto finché non vedeva i fatti stampati sulla carta.
Leggendo le innumerevoli pagine dedicate all’affare del Cantiere
sui quattro quotidiani disponibili nel bar, trovarono citato I Tre
Poli a cui veniva attribuito il merito di aver attirato pubblicamente l’attenzione sul Palazzinaro e i suoi affari multiformi, ipotizzando un complesso meccanismo mafioso.
Gli suonò il telefono, numero sconosciuto, era l’Architetta:
« Sarai contento, ora, di averci messo nelle peste... »
« Io non ho mai inteso mettere nelle peste nessuno - rispose il
Giornalista, alzandosi dal tavolo e avviandosi all’uscita del bar
- Ho scritto quel che dovevo... stavo leggendo i giornali... ti cercano, mi dispiace per te »
« Se ti fosse dispiaciuto ti saresti comportato diversamente, sarebbe stato sufficiente che tu mi avessi voluto un filino di bene »
« Non confondiamo le cose, noi ci siamo conosciuti perché sono
un rompiballe e non puoi pretendere che... »
« Forse hai ragione, sono io che ho sbagliato... dovevo fare l’architetto e non immischiarmi... invece mi sono intestata delle so358
cietà... ma adesso è tardi... »
« A proposito, non te l’avrei nemmeno detto, ma parliamo di guai
e... un paio di mesi fa mi sono trovato, di mattina, una corona di
crisantemi sulla porta di casa con una candela rossa, un moccolo
spento e tagliato... per un attimo ho pensato a tuo padre... »
« Non è tipo da simili minacce: se ce l’avesse avuta con te, ti
avrebbe fatto ammazzare »
« Sì, ne sono convinto, è probabile che siano stati questi omuncoli e vari quaquaraquà locali, erbivendoli e cementicoli... »
« Mio padre ti stima come persona in buona fede che non ce l’ha
con lui e che combatte per le proprie idee: è uomo all’antica. Sai
quante lettere anonime hanno mandato, alle autorità, per denunciarlo? Quelle sono le cose che non sopporta... inoltre vedeva di
buon occhio il fatto che tu mi frequentassi. Un padre prima di
tutto è un uomo e, dopo aver sopportato diversi miei tentativi,
avrebbe voluto un uomo accanto a sua figlia... »
« Perché mi hai telefonato? »
« Volevo farti gli auguri, ho saputo del matrimonio da poco. Stavo per chiamarti, poi è successo questo casino... fa’ gli auguri a
tua moglie... e con l’Editore? »
« Non ci si parla, almeno per il momento »
« Riprenderete la collaborazione... dì a tua moglie che la invidio
sinceramente... con te si potrà anche avere molti guai, ma non
si deve scappare mai ed è questo che conta... in bocca al lupo ».
Tornato a sedersi, lei gli chiese chi fosse, avendo notato il suo
immediato allontanamento:
« È successo qualcosa che non va? »
« Era l’Architetta »
« L’Architetta architetta? questa qui dei giornali? » gli chiese a
bassissima voce, girandosi a guardare se qualcuno li sentisse.
« L’Architetta, la figlia del Palazzinaro... »
« Dov’è? »
« Bellina come domanda, pensi che glielo abbia potuto chiedere? »
« Già, che stupida, ma non temi che possano avere ascoltato la
conversazione? »
« Non ho niente da nascondere, l’ho conosciuta... »
359
« E anche molto bene... »
« Benissimo. Che fai, la gelosa? »
« Mia madre diceva che te la saresti sposata, così avresti potuto
spendere e spandere »
« Tua madre l’ha fatta fuori dal vaso, perché ho sposato te e
faccio la fame. L’Architetta ti saluta » e si mise a ridere divertito.
« Perché ridi? »
« Mi ha chiesto di dirti che ti invidia... » e il Giornalista rise più
forte, dandole un buffetto sul viso.
« Credo di aver capito il senso del suo discorso, e ha ragione ».
***
Il 14 Dicembre l’Editore scrisse alla figlia. L’indirizzo sulla busta
era concepito in modo provocatorio, facendo precedere il nome
di lei da “Signorina”.
« Quel bischero di tuo padre » disse il Giornalista appena ci mise
l’occhio.
Così, lessero il contenuto frettolosamente.
Era essenziale: ti voglio bene, non so più niente di te, ho bisogno
di parlarti.
« Comunque, e finalmente, si è mosso - commentò il Giornalista
- ci devi parlare, telefonagli... »
« No. Con lui mi blocco, non riesco a parlare; magari gli scrivo... »
« Non è più il tempo di lettere, devi incontrarlo; è l’ora che, per la
prima volta nella vostra vita, parliate seriamente, tu e tuo padre.
Ci devi parlare: non è mica un imbecille. Riuscirete a capirvi,
vedrai ».
Il Giornalista non vedeva l’ora di riprendere contatto con l’Editore, di cui ne aveva dette di tutti i colori con la Segretaria, poiché non sopportava di non poterci più parlare. Sperava molto in
questo colloquio della moglie, che vedeva come un primo passo
importante. Poi - il Giornalista ne era certo - gli avrebbe rinfacciato, e si sarebbero rinfacciati mille cose. “Come cazzo fate senza una lira?” gli avrebbe puntato sullo stomaco e il Giornalista
stava già pensando alla risposta, a costo di gridargli “son cazzi
360
nostri”. Ma i due uomini, alla fine, si sarebbero capiti, poiché si
stimavano e si rispettavano.
Seguirono lunghe discussioni che approdarono alla decisione di
far funzionare da mediatrice la Vice nonna, che non aveva mai
smesso di farsi sentire.
La signora sarebbe stata la persona migliore per assolvere un
compito del genere, in quanto aveva mantenuto i rapporti con
tutti. La Segretaria telefonò alla Vice, che era già informata dell’iniziativa dell’Editore e si disse disposta a interessarsi perché si
incontrassero.
Ma passarono i giorni, si giunse a Natale e gli sposi non ebbero
alcuna notizia in merito. Non presero in considerazione le ragioni di tale silenzio, che invece dovevano risultare evidenti.
Il Giornalista avrebbe capito come si svolsero i fatti molto tempo dopo, liberatosi dalla cappa di stress in cui la particolare situazione tenne costantemente gli sposi. Era evidente che il babbo
non doveva incontrare la figlia in un posto qualsiasi.
La mamma, che era un tutt’uno con la Vice nonna, fece in modo
che ciò non avvenisse: la Psicologa voleva che la figlia si presentasse a casa. In primo luogo le occorreva la certezza che il babbo
non si lasciasse andare a un colloquio col Giornalista, limitandosi a offrire alla Segretaria il lavoro in casa, dove poi la mammina
avrebbe avuto tutto lo spazio e il tempo per mettere in atto i
propri piani, gettando le basi per quel lavoro che la Psicologa
avrebbe svolto più tardi, approfittando di eventi negativi.
Bastava averci ragionato con serenità per capire che, essendo
così facile fissare un appuntamento tra padre e figlia, se ciò non
avvenne dovette intervenire per forza un fattore estraneo agli
interessati.
Chi fu l’unica persona che non apparve mai? La madre, che in
realtà decise.
Forse la Vice nonna disse al telefono, alla Segretaria, che i suoi
l’avrebbero aspettata a casa, ma lei non osò riferirlo al Giornalista, che imputava alla famiglia di lei un comportamento insensato.
361
Nel taccuino si parla tanto, a più riprese nel tempo, di questa lettera del
babbo, delle diverse interpretazioni che gli furono date e dell’atteggiamento
del Giornalista nei confronti dei familiari di lei.
Il Giornalista ripeteva che la madre e la sorella, la zia, dovevano chiederle
perdono per le molteplici iniziative prese, una per tutte il tentato rapimento.
Viene precisato che non si trattava di una banale presa di posizione, imposta da un senso di orgoglio, ma dettata da ragioni pratiche: se i familiari
continuavano a fare i duri, significava che non avevano capito nulla, quindi
sarebbe stato inutile un incontro.
362
LVI
Un’Officina Felice
Luglio era stato le fragole, Agosto le comete, Settembre la nascita di Bonnie e Clyde, Ottobre fu le marmellate. Novembre e
Dicembre furono la casa e il computer: videro lei trasformare
un magazzino di carte e di libri, di sogni e di progetti sparsi nei
cassetti, nella loro casa. E il Giornalista capì di amarla. Capì di
essersi sposato sul serio. Capì che una coppia può fare miracoli
vivendoli e vivendone quotidianamente con assoluta normalità:
stavano scopando la vita.
Mentre tiravano la cinghia ai buchi più stretti, portarono avanti la contestazione/denuncia della progettata speculazione nella
vasta area alle porte del paese. Un impegno molto gravoso, che
consisteva nello studio di una massa cartacea enorme con cui,
nei casi di evidente improponibilità di un progetto, i progettisti
sostituiscono al saggio tecnico un romanzo d’intrattenimento.
E, puntualmente, quando questo tipo di proposte riesce a procedere, i cementicoli e i palazzinari godono di interlocutori pubblici disonestignoranti.
Il Giornalista era nel suo campo con certi problemi, ma si trovava ad affrontarli al centro di ogni possibile difficoltà, nel proprio
paese, circondato dall’ambiente divenuto ogni giorno più ostile,
con un limite di tempo molto breve.
Con orari che ignoravano l’alternarsi del giorno e della notte,
Bonnie e Clyde riuscirono a studiare il romanzo dei tecnici, confrontandolo con le tavole del piano regolatore; ricorsero all’amica Geometra, ad un vecchio amico di lui, capace geologo, ad un
esperto di scienze forestali per la parte inerente ad una prevista
piantumazione.
Il Giornalista, inchiodato dalla miseria e con possibilità di movimento ridotte quasi a zero, trovò nel va e vieni amoroso il modo
di liberare la riserva di pazzia di cui ancora disponeva.
363
Nello spazio di un mese fu messo a punto un vero e proprio
saggio che, partendo da una storia del sito interessato, passava a
quella di come era maturato il progetto nello sfacelo urbanistico
del paese; per concludere con una specifica analisi tecnico-scientifica di ogni aspetto che imponeva di fermare, scartando anche
possibili modifiche, la realizzazione del nuovo insediamento.
Il 20 Dicembre, termine ultimo per presentare il lavoro come
osservazione/opposizione, gli sposi si recarono nell’apposito
ufficio depositando il loro opuscolo. Se ne ebbe notizia sui media locali e lui e lei pensarono con soddisfazione all’Editore: era
il primo destinatario dei loro sforzi, il premio che si aspettavano
nella loro sfera privata.
La vita del Giornalista si era svolta nell’impossibile di cui era
sempre campato. Eppure, soltanto molto tempo dopo avrebbe
potuto recuperare la dimensione dell’impossibile che lei e lui realizzarono in quel periodo.
Mentre attuavano quanto si è appena descritto e lei fece progredire senza interruzione il riordino dell’archivio giudiziario e delle
biblioteche, portarono avanti il saggio sulla storia dell’arte vista
dalla parte del mercato, che doveva essere messo in rete. E lui,
imperatore dell’inutile e signore dell’effimero (così amava definirsi), aveva imposto la scadenza alla fine dell’anno.
Si trattava della prima tranche del lavoro, che poi sarebbe proseguito: le prime cinquanta pagine, corredate di collegamenti
ipertestuali, con immagini da reperire su internet, ma soprattutto sui libri di cui la casa disponeva. E la Segretaria, a lavoro
pronto, avrebbe dovuto mettere il materiale in rete, ricorrendo
all’HTML che non aveva mai usato prima, studiandolo negli ultimi tempi, trascinata dalla follia del Giornalista, di cui lei ormai
si inebriava.
Andava considerato che lei, oltre a doversi impegnare per mettere insieme il pranzo e la cena, lavare i panni, stirare, tener pulita
la casa e farne progredire i connotati abitativi e operativi, e intanto lavorare su quel che si è detto, era costantemente intorno
a lui che chiedeva “ dov’è questo?” e “dov’è quello?”, abituato,
com’era sempre stato, a fare l’artista e il despota. E lei gli stava
364
intorno con tanto amore, occupata a migliorargli la vita ogni
momento, a inventargli ogni possibile comodità, trasformando
in positivo anche un elettrone.
Il 30 Dicembre il materiale era pronto per essere messo in rete,
ma sopravvenne, temuto con speranza di rinvio all’anno nuovo,
il distacco della linea telefonica per morosità, com’è intuibile.
Con gli ultimi centesimi di credito sul cellulare, il Giornalista
chiamò l’amica Geometra al paese vicino e la informò, chiedendole di usare il suo computer, aggiungendo che non sapeva se
la benzina sarebbe stata sufficiente per coprire i diciannove chilometri che li separavano. Quindi, la pregò di tenersi pronta per
andarli eventualmente a recuperare con una lattina di carburante,
intervento non nuovo per l’amica.
La Segretaria preparò una frittata per farcire sei fette di pane ed
empì una bottiglia d’acqua, mettendole nello zainetto; caricato
sulla chiavetta USB il materiale dal computer, si avventurarono,
verso le sette di sera del 30 Dicembre 2012, sulla statale con
la spia fissa della riserva e l’intermittente lampeggio sul display
“RIFORNIMENTO NECESSARIO”. E, per completare, un
suono intermittente. Un supplizio.
Sarebbero stati necessari tanti tipi di rifornimento, tranne di
quella furiosa smania di vivere che li avviluppava, proiettando ogni umana miseria dietro le loro spalle. Con una goccia di
benzina che lui vedeva arrivare metro per metro come l’ultima,
continuava a tenere il volante con una mano, mentre con l’altra
accarezzava la sua donna che gli stava rannicchiata accanto.
Ebbero fortuna e arrivarono a destinazione. La Geometra andò
a casa a preparare la cena ai suoi e gli sposi rimasero nel suo ufficio. Cenarono, uscendo nei vicoli a prendere una boccata d’aria.
Poi, rientrati, lei si mise al lavoro, mentre lui era occupatissimo
a fumare.
La Geometra disponeva di un computer da considerare un prototipo, una lumaca incredibile nelle risposte ai comandi… in più
si trattava di un PC Windows, dal cui sistema la Segretaria proveniva, ma che aveva abbandonato, impratichendosi a dovere sul
Mac del Giornalista.
365
Fu meravigliosa: a mezzanotte il materiale era in rete, con l’anticipo di un giorno sul termine del fine anno stabilito.
Nel taccuino, il Giornalista fa una lunga disquisizione sulle difficoltà tecniche superate per raggiungere quel risultato, descrivendo i problemi legati al
mancato rispetto dell’impaginazione da parte del programma del sito scelto
in rete, all’inserimento delle immagini e delle didascalie.
È risultata di grande interesse la lettura di queste note, ma soprattutto ci
ha attratto il senso di profonda stima con cui il Giornalista parla di lei
descrivendo, nei minimi particolari, gli ostacoli incontrati e la maniera in cui
lei li aveva risolti o aggirati. Traspare, si mostra con orgoglio, l’amore non
ordinario (superiore a quello straordinario) che li assisteva in ogni istante.
La Geometra, a cui nel tempo la Segretaria si affezionò molto,
avvertita dal suo stesso telefono (il cellulare aveva toccato il limite pecuniario) che avevano terminato il lavoro, tornò, portando
con sé un torcolo preparato per loro, dei biscotti fatti in casa,
una bottiglia da fine anno, delle patate e un po’ di pasta, alcune
salsicce. Aggiunse una somma, modesta perché neanche la Geometra aveva di che scialacquare: sarebbe servita per mettere un
goccio di benzina e comprare le sigarette per giungere all’anno
nuovo. Era domenica sera, già divenuta lunedì; avevano messo
cinque euri di carburante, ripercorrevano riabbracciati la strada
verso casa.
« La mia Ziziphon, la mia Ziziphon, dicevano che finiva il mondo quest’anno, invece comincia. Sei bellissima e per me saresti
meravigliosa anche con una gamba di legno... »
« Prrrr, prrr... » fece lei, atteggiando le labbra nel modo che, di
solito, usava quando lui le diceva che una cosa andava fatta in
un certo modo e lei riusciva invece a farla a modo suo, magari
meglio.
La luna era calante quella notte, ma loro erano già protesi al
plenilunio. Lui il 30 Ottobre, in uno dei rari viaggi, in transito
da Rimini, le aveva donato un calendario, dedicandoglielo così:
È la prima volta che compro un anno in anticipo: ti prometto che m’impegnerò perché sia migliore.
366
Il Giornalista non avrebbe dovuto sottovalutare il fatto che il
2013 nasceva mentre la luna calava, e la mammina cresceva. Il
resto, il futuro terribile, nessuno poteva prevederlo.
***
Una settimana prima di Natale - erano alle ultime battute del
lavoro per contestare il progetto del nuovo insediamento urbanistico - avevano girato per negozi e vivai in cerca di un albero,
di cui entrambi sentivano l’esigenza; messo vicino alla finestra,
come lui faceva ogni anno, avrebbe dimostrato agli altri che erano vivi. Sapevano di non avere i soldi per comprarlo, ma lui le
disse che non ne esisteva uno bello come si meritavano, quindi
bisognava costruirlo.
Le stanze ripostiglio conservavano, tra mille bagagli, tante cose
di una vita meno indigente, anzi opulenta e spendacciona, neanche troppo lontana.
Trovarono gli addobbi natalizi, palle colorate di varia foggia e
misura, fili irsuti d’oro e d’argento, due tre puntali, luminarie
munite di intermittenza e perfino candeline di cera, lisce e a tortiglione, rosse e verdi. Si trattava di costruire l’albero. E risultò
molto semplice: nacque spontaneo.
Diedero un’occhiata nella stanza dei libri, quella centrale con gli
scaffali giro giro, e stabilirono di piantare un grosso chiodo nel
trave, a tre metri d’altezza, e altrettanti dalla finestra che dava
sul giardino. Lui prese lo scalandrino più alto e piantò il chiodo.
Vi legò degli spaghi e dei fili di ferro man mano che lei glieli
passava. Discese e insieme si misero ad allargarli, scegliendo il
diametro del grande cono natalizio.
Presero due antichi capifuoco di pietra in disuso, appoggiati vicino al camino, e due manubri da pesistica (quelli che erano serviti
nell’ultimo inverno per bloccare il paravento) disponendoli ai
quattro punti cardinali. Poi vi fissarono, mettendoli in tensione,
i fili che scendevano dal chiodo conficcato nel trave. Disposero le luci colorate, avvolgendole a serpentina, sui quattro fili: lo
scheletro era pronto. Fecero discendere dal chiodo altri spaghi
367
intermedi per dare maggiore rotondità al fusto, aggiunsero i fili
irsuti d’oro e d’argento, agganciarono in ordine sparso le biglie
colorate et voilà: accesero le luci a buio fatto. Uscirono per vedere dal giardino che cosa erano riusciti a combinare. Erano soddisfatti, e anche felici.
Fu il primo anno, nella sua vita da adulto, che non fece doni a
nessuno. Fu rimediata una piccola cosa da regalare alla nipotina
della Segretaria. Ai figli di lui, che l’avevano accolta con sincero
spirito di amicizia, la Segretaria regalò vasetti di marmellata con
quei bavaglioli di carta paglia, dove aveva scritto la data.
Nel dopocena della Vigilia, giunse una telefonata che lo sorprese.
« Trouble? Posso?... C’est la mère de... »
« Oh, salve, come state? »
« Mio marito ha qualche malanno, ma di stagione; siamo in Bretagna... ho preferito chiamarti questa sera, so che il giorno di
Natale vuoi restare solo. E sarai solo anche domani? »
« Sì... » uscì di getto al Giornalista.
« Come stai? Non ci siamo più sentiti e ogni tanto, spesso, mi
verrebbe da chiamarti, ma poi... »
« Fallo quando vuoi, mi fa piacere... »
« Noi per fine anno andremo a Vardo a trovarla, ci farebbe molto piacere se venissi anche tu... »
Improvviso gli salì un groppo alla gola: Vardo, Muriel. Si rischiarò la voce, pronunciando con fatica quattro parole che non gli
piacevano:
« Non mi è possibile »
« Quando ci rivedremo? »
« Non lo so »
« C’è qualcosa che non va? Ti sento... non so come spiegare... »
« Sono un po’ stanco, lavoro molto... »
« È superfluo, ma te lo ripeto col cuore: se ti serve qualcosa, di
qualsiasi genere, siamo veramente lieti di... »
« Lo so, lo so e ti ringrazio. Va tutto bene, se mi servirà lo farò »
« I nostri numeri li hai, sai che siamo a tua disposizione, auguri »
« Anche a te, estendili a tuo marito e a tua sorella ».
368
Perché non le aveva detto che si era sposato? Gli era venuto di
pensarlo, quando lui e la Segretaria cavarono i fogli in Comune,
di telefonare alla mamma di Muriel che, dopo averla conosciuta,
stimava come donna e come madre.
Era stato lì lì per parlare di Muriel alla Segretaria, ma poi aveva
addirittura nascosto il Piaget e l’accendino ricevuti da lei: li aveva
messi nell’armadietto blindato sotto la base del quadrifoglio di
smalto dell’Alfa Romeo, uno dei pochi trofei a cui teneva, non
come simbolo di vittoria, ma perché legato a una giornata solare
della sua vita, un culmine che non aveva più raggiunto.
Parlava con Muriel, aveva parlato con lei della Segretaria, ma non
voleva parlare con nessuno di Muriel: s’era accorto al telefono
che non gli andava di farlo neanche con sua madre. Muriel era
divenuta una parte di se stesso e lui, così estroverso, era disponibile anche a scambiare chiacchiere sul tempo e sugli acciacchi,
purché non si sfiorassero certe casseforti dell’anima, di cui nessuno doveva conoscere, non dico la combinazione, ma l’esistenza.
Ora però anche la Segretaria aveva trovato un posto preciso dentro di lui. Pensavano insieme, vivevano attorcigliati in un letto a
una piazza e mezzo, e non era soltanto una metafora. Muriel e la
Segretaria dovevano fondersi, “lei ti vuole bene” gli aveva detto
lassù all’Alpe della Luna, “forse” aveva inserito però Muriel.
Stranamente, la Segretaria non gli domandò chi fosse al telefono.
Era in cucina, intenta a preparare qualcosa per il pranzo natalizio, ma aveva l’udito di un Apache e lo aveva visto allontanarsi
appena sentite le prime parole in francese.
Fu inspiegabile e il Giornalista lo prese come un segno: nessuno,
la sua donna per prima, poteva avvicinarsi a Muriel, e questo lo
convinse che stava arrivando il momento di parlargliene.
369
LVII
Natale 2012
Il Natale meritò un capitolo a parte. Fu il primo giorno (ricordiamoci sempre del fattore Prima Volta) in cui assaporarono la
serenità, realmente sconosciuta da quando si promisero quella
sera sulla radura tra vigne e olivi.
Nonostante il lavorio di spionaggio mai interrotto, efficiente anche quel giorno (una telefonata della Zia e una della Vice nonna,
“Che hai fatto da pranzo?”), gli sposi stettero di fronte alla fiamma del camino, pensando soltanto a se stessi.
Avevano cominciato al mattino a raccogliere i frutti del loro paradiso, rimanendo nel letto a una piazza e mezzo fino a tardi.
Diedero uno sguardo al tempo trascorso: otto mesi che stavano
insieme e sei da sposati; videro appesi i loro giorni lungo le pareti di una quadreria in cui si mossero con quel rispetto, con quella
voglia di guardare che hanno i veri conoscitori.
A mezzogiorno andarono a vedere l’albero, accanto al quale lei
aveva montato un presepino di ceramica grezza, con i protagonisti indispensabili della leggenda di Nazareth. Si strinsero,
si baciarono lungamente, estranei al tempo e alle sue oggettive
esigenze. Fecero un brindisi. Ammirarono nell’albero la loro inventiva e vi scorsero attuata la voglia di sopravvivere per vivere.
Pranzarono sul tavolinetto rettangolare, su cui un tempo la madre teneva il televisore: era preciso per due che, seduti, occupavano la luce del camino. A fine pranzo, allontanato il tavolinetto
e accostata la poltrona, tornarono sul fatto che avrebbero dovuto farne costruire una a una piazza e mezzo.
Il Giornalista stava fumando, i piedi allungati verso la fiamma.
Lei, seduta sulla spalliera, gli disse non fare come Pinocchio,
mentre lui sentiva scorrere dai capelli in giù, fino alle estremità, indefinibili brividi, una specie di formicolio interno, come
se qualcuno lo premesse con forza scendendo lungo il corpo
370
perché uscissero le tensioni che si erano accumulate nel tempo.
Dopo un momento di spossatezza, di sonnolenza che non era
post prandiale, il Giornalista si rese conto di quanto stress avesse
accumulato, lui che non se n’era reso conto realmente poiché di
stress era sempre vissuto. Ma non era quello della corsa e delle
manovre a bassa quota, dell’attesa del giocatore dopo il rilancio
al tavolo da poker. Non erano le tensioni indispensabili a raggiungere e mantenere uno stato di massima concentrazione.
Si trattava di una permanenza esagerata nel grigiore che spande
la nebbia dell’equivoco e della frustrazione. Una nebbia che forse aveva principiato a diffondersi da quella sera in cui la Psicologa, per poterlo studiare, lo aveva adescato a cena. E da allora
si era sentito spiato da questa Giunone, che aveva messo i cento
occhi di Argo a guardia della figlia. E la dea fu sempre presente,
in ogni posto dove andassero, letto compreso.
Fu un’ottima terapia veder scorrere la moviola del loro anno,
accompagnata dalla sensazione che svanissero le immagini persecutorie, come tossine di cui il corpo e la mente si liberavano.
E il Giornalista vide anche la Segretaria liberarsi pian piano, affrancata dall’utero materno a cui aveva pagato un tributo esoso.
Il Giornalista stava riconquistando la pelle che aveva prima dell’inizio della storia con la Segretaria e fu come se stesse insieme a
lei, carico dell’amore che era maturato tra loro, ma con l’energia
e l’entusiasmo di allora. Sentire di aver conciliato, in tutto, le
due donne che gli erano entrate dentro, Muriel e la Segretaria,
sarebbe stato l’unico modo per vivere nello stato di grazia che
sentiva avvicinarsi.
Le disse che era tempo di prendersi un intervallo, quei famosi
tre giorni lontano da tutto e da tutti, dedicati all’amore, di cui lui
sentiva prepotente il bisogno. Da quando stavano insieme non
avevano dormito una sola notte fuori di casa e non si erano mai
sentiti soli. Facevano l’amore come due amanti in cella, sorvegliati dallo spioncino. Ma quel giorno fu diverso.
Si riaprì il discorso su un figlio, senza che lo sbraitare della Psicologa al momento in cui lei uscì di casa (“... questi intellettuali
che si credono immortali e vogliono un figlio a ottantanni... ”),
371
benché presente, guastasse il clima in cui erano entrati.
La Segretaria, a cui l’argomento non era mai piaciuto, sostenendo che non era giusto avere un bambino in un mondo fatto così
male, quel giorno assunse tutt’altro atteggiamento. Però disse
che un pezzo di pane avrebbero dovuto garantirglielo.
« Sul punto non ti posso dare torto, un pezzo di pane va garantito alla mamma perché lo possa allattare. Certo che nella nostra
attuale situazione... »
« Cambierà, ne sono certa »
« Non ci giurerei, sembra che gli Dei (la dea, pensava lui) abbiano deciso di prenderci per fame, e se avessero deciso loro è un
gran casino... credi al vudù? Secondo te, le streghe esistono? »
« Senti, siamo in buona salute e intanto io posso lavorare e guadagnare qualcosa... »
« E io prendere la pensione, eh? Che ne dici? »
« Non l’ho detto e non lo penso. Tu hai tante cose da fare e devi
portarle in fondo... »
« E che faresti? Vuoi vedere che ti mando a fare le pulizie... o... »
« Che ci sarebbe di male? Non andrei mica a battere... »
« Visto dall’Editore sarebbe la stessa cosa: io che, dopo aver
asciugato il tuo conto corrente, ti mando a... ».
Risero entrambi, figurandosi l’Editore a cui sarebbero corsi subito a trasmettere la notizia che, per la Psicologa, pensò lui senza
dirlo, sarebbe invece stata una buona novella; l’orco avrebbe rivelato pubblicamente i suoi connotati: non poteva neanche permettersi una moglie.
« Senti, ci ho pensato qualche giorno fa: se dovessimo continuare a scendere questa china fino a rischiare la sopravvivenza, tu fai
fagotto e mi lasci... » disse il Giornalista.
« Ma che cavolo dici, hai bevuto troppo? »
« Come quella sera con la birra al doppio malto quando vivevamo da pochi giorni insieme e, appena giunti a casa, vomitai
anche gli occhi? Non ti feci schifo? »
« A te parrà strano, ma mi fece piacere di accudirti, ripulire, prepararti il tè, farti sentire che non eri più solo... ».
Parlavano tranquillamente, mettendo ogni tanto un pezzo di le372
gna sul fuoco; lei preparò il caffè del pomeriggio. Quel giorno
avrebbero potuto discutere di qualsiasi problema senza che nessuno dei due ponesse dei limiti oltre i quali l’altro sarebbe divenuto suscettibile.
« Riprendiamo il discorso. Se dovessi vedere che si rischia la sopravvivenza, tu fai fagotto, tua madre non aspetta altro... sai che
festa... »
« Ti ripeto, hai bevuto? - e stavolta la Segretaria lo disse con
tono meno leggero - Io non torno dai miei per nessuna ragione...
e poi sono tua moglie, lo ricordi che ci siamo sposati oppure
mi guardi come quella che, al mattino, considerasti un’intrusa
svegliandoti e vedendotela accanto? Ti ricordi? Oppure mi vuoi
ridire che il matrimonio è solo un pezzo di carta... »
« Non l’ho mai pensato con te... Ma non mi fai finire... »
« No, smettila, io sarò dove sarai tu. Male o bene che vada, a
meno che tu non mi cacci via »
« Ora non mi interrompere: se arriviamo alla miseria nera - e
non ne siamo lontanissimi - tu mi pianti e io scrivo un romanzo
in cui innesto il diario che abbiamo tenuto. Vedrai, sarà un successo. Incasserò un po’ di soldi e torneremo insieme. Intanto
il nostro amore diventerà leggenda e le leggende sono eterne:
l’unico modo per realizzare il sogno di tutti gli amanti senza farlo
finire in tragedia »
« Puoi scriverlo ugualmente - disse lei, dandogli un bacino nell’orecchio - Non ti sarà facile liberarti di me »
« Non hai capito. Un romanzo ha bisogno di pathos e non è
il mio genere, mi sono guastato la scrittura con le migliaia di
denunce con cui, anziché guadagnare, ci si riduce come vedi
qui - e il Giornalista, sorridendo, le mostrò i polsi della camicia
consumati - Ho bisogno di una scossa profonda e la tua fuga la
provocherebbe »
« Su, non fare l’indigente, hai un armadio pieno di camicie… ».
Lei, piuttosto, aveva soltanto quattro panni estivi, mentre la
biancheria zero, tanto che, rovistando negli armadi, aveva trovato vecchie cose di lui, antiche dei suoi quindici anni, ancora
buone da usare. E le usava, compresi slip e pigiami: talvolta, ve373
dendola girare per la casa, gli sembrava la Gelsomina di Fellini e
la stringeva con una struggente tenerezza. Chi è il più? IO... IO...
Chi è? IO... IO... rincorrendosi per le stanze, giocosi e giulivi
come bambini.
« Sai qual è la leggenda dell’Alpe della Luna? - le disse - Ti ho
già parlato di quelle che nascono sul precipizio e ora te ne dico
un’altra che riguarda l’Alpe tutta intera. Naturalmente ci sono lui
e lei: erano di qui, forse di Borgo Pace, alcuni dicono di Mercatello sul Metauro. Io credo del nostro paese, dove nacque Cipriano Piccolpasso, a cui i lacci d’amore costarono la prigione e l’esilio: un Capricorno anche Cipriano, come me. I due erano molto
innamorati, quasi quanto noi - le disse il Giornalista passandole
con la bocca tra i capelli - Volevano celebrare il loro amore più in
alto possibile, e la montagna più alta era l’Alpe. Seppero che lassù era pieno di tesori che si vedevano con la luna piena. Siccome
lui aveva sempre sognato di visitare l’India, decisero di prenderli,
andare in India e, al ritorno, costruire un castello sulla cima più
alta dell’Alpe. Appena venne il plenilunio si incamminarono. Ma
non sapevano che l’Alpe è della Luna, e scomparvero » .
374
IL SALTO DELLA SPOSA
Ho cercato di salire sempre più in alto
poi un giorno ho capito che Dio mi sedeva accanto
ogni volta che mi staccavo da terra.
Ora, da qualche parte del cielo, ritroverò mia Madre.
(Gianni della Vittoria)
LVIII
Empedocle
Gli sposi erano riusciti a brindare all’anno nuovo accanto al loro
camino, cenando secondo la tradizione: crostoni di cavolo nero,
lenticchie e cotechino, uva bianca e nera delle vigne di Bonnie
e Clyde.
A mezzanotte le bollicine (rimediate in qualche modo) siglarono la festa. Una cenetta, che poteva essere normale anche per i
meno abbienti, per loro era divenuta un miracolo.
E di miracoli ne furono fatti altri. Il 3 Gennaio, il Giornalista si
svegliò sul letto apparecchiato con vassoi circondati di piatti che
contenevano crostini variopinti. Accanto, un bricco di caffè e
un campionario delle loro marmellate che lei aveva spalmato sul
pane. E un bigliettino in ogni piatto per augurare a lui, in mille
modi, buon compleanno.
« Ma dove hai scovato questo? Ero sicuro di averlo, da qualche
parte, ma... »
« Leggendo quanto hai scritto sul segnalibro, ho pensato di servirti questo vecchio volume per colazione... »
« Brava, filosofa. Empedocle aveva capito molte cose. Poi, anche
nella filosofia, abbiamo fatto come i gamberi.
Con l’acqua si capisce l’acqua, col fuoco si capisce il fuoco, con
l’amore si capisce l’amore... ci siamo capiti? Grazie, antico signore di Agrigento, ma io non ho bisogno di certi promemoria » e
fecero le voltoline, come le fanno gli asinelli e le somarelle sui
prati di primavera.
Stando sui prati, nessuno dei due aveva acceso il fuoco e quando all’ora albionica del tè avvertirono il bisogno del pranzo, era
troppo freddo per mettersi a tavola. Lei fece una frittata e i panini giunsero sulla piazzemezzo, sul vassoio di legno color noce.
Era sopravvissuta una mezza bottiglia di vino bianco e alla vita
non potevano chiedere di più.
377
LIX
L’Attentato e la Punizione
Nella prima decade, Gennaio rovesciò l’acqua a più non posso.
Il tetto era logoro, così gli sposi passarono due giornate, compresa la notte, a mettere ogni specie di contenitori nelle soffitte.
Si mossero accovacciati, strisciarono per raggiungere gli angoli
estremi dei travi di spina per raccogliere i goccioloni incessanti
e fermarne il viaggio verso i piani sottostanti. Lui avanzava alla
lucina fioca di una pila mezza scarica, tra ragnatele e bivacchi di
colombi torraioli che andavano e venivano dalla finestra rotta di
un abbaino, e lei lo seguiva passandogli un tegame, un secchio,
una scatola di cartone rivestita di un sacco nero dell’immondizia;
quando occorreva rinforzava la luce accendendo una candela.
Intanto continuavano a rovistare in una soffitta buia, dove ancora l’acqua non penetrava, mettendo in salvo i beni archeologici
di famiglia. Lei aveva trasferito il contenuto di una valigia legata
con degli spaghi, completando un baule con le fotografie formato mignon di una volta. Poi si era messa a classificarle e a leggere
scritte di inchiostri marroni sbiaditi. E la sera, prima di dormire,
ripassava la genealogia del Giornalista perché, come gli diceva,
questo era il modo di sentirsi in casa sua.
Un problema irrisolto furono i due grandi ritratti fotografici,
incorniciati in pastiglia dorata: una bella nonna, gioviale e sorridente, che la Segretaria rassomigliava alla signora Fletcher della
famosa serie televisiva; l’altro ritratto era di una giovane con gli
occhi e il sorriso di ghiaccio per la quale lei era riuscita a trovare
un accoppiamento, notando il passepartout identico a quello in
cui troneggiava il ritratto baffuto di uomo, già identificato col
trisavolo.
Partivano prima di pranzo per lavorare sul computer della Geometra e certe volte tornavano la sera, anche dopo mezzanotte;
controllavano il livello dei parapioggia in soffitta e in altri am378
bienti in cui, nonostante il lavorio continuo, l’acqua (che al pari
del vento non ha le spalle) penetrava tranquillamente; svuotavano i recipienti e li rimettevano al loro posto.
Lei ammassava sacchi enormi di roba da buttare, e in qualche
dopo cena libero li portavano ai secchioni, approfittando per
recarsi a prendere cassette vuote che un supermercato lasciava
sotto una tettoia: la sposa ne aveva trovato un tipo, di una ditta
di fruttaroli sudamericani, che le serviva egregiamente per sistemare libri e documenti in attesa di classificazione e destinazione
definitiva.
Fu il 12 Gennaio che, nell’ufficio della Geometra, durante il
rallentamento per il pranzo, lei si mise a girellare sulle news e
esclamò:
« È caduto l’aeroplano dell’Architetta, in Nigeria... »
« L’Architetta? » disse lui, alzandosi dalla poltroncina, dove stava
spaparacchiato a fumare, avvicinandosi al monitor.
Il velivolo, un Foker proveniente da Kiev, era esploso sulla testata pista dell’aeroporto di Abuja, capitale della Nigeria. Si trovava
a poche decine di metri dal contatto col suolo quando, secondo
una prima ricostruzione, era stato abbattuto da un razzo. A bordo i piloti e una donna, l’architetto italiano ricercato dall’Interpol, figlia del noto costruttore in stato di arresto.
Secondo i primi commenti, l’attentato si doveva attribuire, con
ogni probabilità, ai terroristi di Boko Haram, gruppo vicino a
quelli di Al-Qaeda che, al pari dei loro fratelli fondamentalisti,
combattono la cultura e i simboli dell’Occidente.
Il Giornalista le chiese di controllare, poteva esserci un errore;
insistette perché lei facesse un giro su internet raccogliendo ogni
possibile notizia. Poi uscirono, lui e la sua sigaretta, a spargere
fumo e pensieri nei vicoli, fissando gli occhi sulla punta dei piedi per evitare le fughe dell’acciottolato; si concentrava in quella
specie di gioco infantile, a cui ricorreva quando gli sembravano
venir meno i suoi punti di riferimento. Era giunto sulla piazzetta
del convento. Un trillo del solito telefono:
« Sono viva. Hai già saputo la notizia? »
« Sei tu? »
379
« Sì, non ero salita sull’aereo... era un volo per distrarre sia le
guardie che i ladri... ma non mi aspettavo un fatto del genere...
mi dispiace per i piloti e l’hostess... erano con me da molto tempo... »
« L’ha visto dieci minuti fa mia moglie, sul computer... dicono
che siano stati i mussulmani di Boko... »
« Non sono mussulmani ... noi sappiamo chi è stato e non farà
in tempo nemmeno a pentirsene »
« Sei al sicuro? »
« Mentre il Foker decollava da Kiev io ero già in volo con un
Falcon e ora sono molto lontana. Ti farò sapere come trovarmi,
nel caso che tu avessi bisogno... non si sa mai » e concluse la telefonata, senza neanche dargli il tempo di pronunciare una vocale.
Passarono appena tre giorni da questo breve scambio, quando
l’Ucraino, che viveva ad Abuja sotto falso nome, fu sorpreso nella lussuosa residenza di una potente signora nigeriana. In piena
notte entrò in azione un vero e proprio commando che, neutralizzate le persone di guardia, lo prelevò.
Il corpo dell’Ucraino, le mani legate dietro la schiena, la bocca
piena di terra e un palo in culo, fu trovato a Roma, povero pacco
addossato alla colonna traiana, al centro della zona dei palazzi
del potere. Il busto del cadavere era vestito della sua eleganza
eccessiva, camicia, cravatta e una giacca doppio petto che gli segnava la vita (ora verrebbe da dire la morte) mentre dalla giacca
in giù era nudo.
Con il Palazzinaro, arresti o non arresti, non si poteva scherzare:
lo dovevano sapere tutti.
380
LX
La Cuginetta
Il Gennaio 2013, oltre che impegnato a piovere, si mise a tirare
le somme della nostra storia, cominciando a fornire a noi ignari
lettori la chiave di quel marchingegno sorprendente che, talvolta,
è la realtà.
In un taschino interno, un pertugio ricavato nella fodera della
giacca dell’Ucraino, la polizia aveva rinvenuto un telefono minuscolo con due schede.
In quella telefonica avevano rintracciato alcune chiamate, che
provenivano dalla Cuginetta: una, del 14 Settembre 2011, diceva: « pacco consegnato »; un’altra del 10 Giugno 2012: « si sono
sposati ».
Il Commissario si recò personalmente in paese, facendo convocare la Cuginetta nel commissariato locale per interrogarla. La
ragazza ammise, in primo luogo di intrattenere una relazione
con l’Ucraino, che aveva conosciuto tramite la sorella; poi, messa alle strette, confessò di essersi trasferita dalla città in paese,
dietro pressioni dell’Ucraino che le aveva chiesto di sorvegliare i
movimenti del Giornalista.
Alla domanda sul “pacco consegnato” rispose che era giunto in
paese un amico dell’Ucraino, che ogni tanto capitava, e le aveva
portato una confezione di fiori da lasciare all’ingresso dell’abitazione del Giornalista. Lei lo aveva fatto.
Il Commissario le chiese, naturalmente, chi fosse l’amico dell’Ucraino e che tipo di mazzo avesse consegnato. La ragazza disse
che si chiamava Ivan (« Tutti all’Est si chiamano Ivan» fece il
Commissario) e che lei non aveva neanche guardato il mazzo:
era incartato, e si preoccupava per la consegna, da eseguire furtivamente.
« Ma non era curiosa di sapere perché doveva fare questa strana
cosa e, ancora prima, perché dovesse spiare il Giornalista? »
381
« Me lo chiese il mio ragazzo... » squittì la Cuginetta.
« Il suo ragazzo? Intanto, era tutto fuorché un ragazzo... poi è
il... non so come chiamarlo... diciamo l’uomo di sua sorella - le
disse il Commissario con tono decisamente aggressivo - Ma sua
sorella sapeva di questa tresca? »
« È stata lei a presentarmelo una sera che andammo al suo circolo e credo sapesse del mio lavoro di sorveglianza, anche se non
ne abbiamo mai parlato... »
« Ma sapeva del rapporto che aveva instaurato con l’Ucraino? »
insistette il Commissario.
« No, lui volle che dicessi a mia sorella di non averlo più visto,
dopo quella sera al pub, ma credo che mia sorella non ci abbia
mai creduto ».
Fu sempre confuso il discorso sull’Ucraino tra le due sorelle,
come se ognuna delle due volesse nascondere all’altra quale fosse realmente il suo rapporto con quell’uomo. D’altronde, era stata la Cugina a portare la sorella al circolo/pub e metterla nelle
braccia del suo fidanzato, volendo accondiscendere al desiderio che lui aveva manifestato. Ma la Cugina era stata disponibile
pensando a un colpo e via, escludendo l’instaurarsi di una relazione. Nel clima di equivoco che seguì, ognuna delle due finse di
non sapere e l’argomento non venne mai affrontato. Altrettanto
accadde per le altre questioni riconducibili a lui, come la sorveglianza che la Cuginetta doveva svolgere in paese.
« L’Ucraino veniva in paese? » riprese il Commissario.
« Quasi mai, mandava il suo amico quando proprio era necessario... »
« Necessario per che cosa? Me lo dica »
« Ogni tanto mi portava delle lettere che dovevo imbucare qui
in paese »
« Di che lettere si trattava? »
« Io le dovevo solo imbucare, erano dirette al Giornalista. Qualche volta erano indirizzate ad altri, anche di città molto lontane »
« E dove vi vedevate, con l’Ucraino? ».
« Quando sapevo che sarebbe stato in città, mi organizzavo per
andare a far visita a mia nonna e ci vedevamo in una casetta che
382
lui aveva in periferia... una casa particolare... ».
La Cuginetta, messa sotto pressione, le raccontò tutte, senza freni né limiti. Descrisse la casa particolare, in cui c’era una camera
con letto a baldacchino e uno specchio come soffitto, il bagno
enorme con idromassaggio e tutta l’attrezzatura che avrebbe fatto invidia a un pornoshop. L’Ucraino, che era un mandrillo di
prima categoria, sodomizzava la Cuginetta per ore brutalizzandola con le parole e con le sue mani pesanti. Ultimamente era
giunto a usare un divaricatore, legandola ad un tavolo registrabile, dove la piegava a squadra. Il giorno dopo certe pratiche, la
Cuginetta, dicendo di avere le mestruazioni, rimaneva a letto per
rimettersi.
En passant si seppe che anche l’amico dell’Ucraino se la chiavava, approfittando delle sue commissioni in paese.
D’importante, il poliziotto scoprì un’impensabile liaison tra l’Ucraino e l’Erbivendolo: le poche volte che si era recato in paese
lo aveva fatto per incontrarsi con lui.
Il Commissario, dopo aver parlato in disparte con il suo collega
locale, le disse:
« Sei sicura che fosse l’Erbivendolo? » dando ora del tu a quella
povera creatura che, dopo i suoi racconti, lo muoveva più a compassione che a disprezzo.
« L’ho visto una volta anche in città… era arrivato alla casa in
periferia, dove a pianterreno c’è una specie di sala riunioni. Ero
al primo piano, dietro la persiana, e li ho sentiti discutere mentre
si salutavano. Lui disse all’Erbivendolo “ Tienilo bene a mente:
prima ti abbiamo fatto aprire la succursale a Brasilia, ora ti finanzierò questa là da noi, ma riga dritto, c’è qualcosa che di recente
non mi torna. Non ti montare la testa, sei un semplice dipendente a cui facciamo fare una bella figura e una vita da riccone, ma
non fare il furbo, camperesti un minuto... ” »
« E l’altro che rispose? »
« Gli diede la mano e lo assicurò che doveva fidarsi, perché sapeva bene qual era il suo posto »
« Dicci la verità: tu avevi rapporti anche con l’Erbivendolo. Dicci
quali... »
383
« Sì, consegnai il mazzo di fiori per il Giornalista a una persona
che lavora per l’Erbivendolo »
« Perché non glielo consegnò quell’uomo che venne a portartelo? »
« L’Ucraino non voleva che ci fosse un contatto diretto tra il suo
uomo e l’Erbivendolo, il quale doveva invece sapere che io ero la
sua donna e potevo... non ci ho mai capito bene... ».
Il Commissario, consultatosi con il collega, non ritenne di far
scattare lo stato di fermo, rimanendo inteso che la Cuginetta
sarebbe stata tenuta d’occhio. Valutarono anche la richiesta di
controllo del suo telefono. Ma i due poliziotti si convinsero che
certi provvedimenti sarebbero stati utili prima, se solo avessero
immaginato che la ragazza avesse quei rapporti con l’Ucraino.
Con la scomparsa dell’oggetto della sua devozione alla mandrillità, la storia della Cuginetta era conclusa. Per fortuna il suo
mandrillo non le aveva chiesto azioni più impegnative, che facilmente avrebbe eseguito.
Prima di tornarsene in sede, il Commissario volle sentire il Giornalista a cui chiese delle lettere e del mazzo di fiori.
« Sa, Commissario: sono abituato a ricevere ogni tipo di minacce,
una volta mi hanno boicottato perfino l’aeroplano, tanto tempo
fa. Fortuna che il motorista se ne accorse... »
« Sì, d’accordo, ma vorrei sapere di queste minacce recenti: le
lettere, i fiori... »
« Le lettere, ovviamente quelle anonime, le strappo; quanto ai
fiori, ne trovai un mazzo davvero singolare nell’ingresso di casa,
questo sì »
« Fotografò quel mazzo? »
« Documentare le minacce sarebbe dargli importanza, e costituirebbe un altro lavoro, improbo e inutile »
« A noi servirebbe »
« A me no, almeno fino a quando la minaccia non superi certi
livelli... ma poi le dirò: le minacce, in certi casi e con certa gente,
vanno usate come prova del nove di quanto si è colto e si coglie
nel segno »
« Dell’Erbivendolo che sa? »
384
« Lo vorrei sapere da voi. Io l’ho denunciato più volte: delinque
abitualmente, è la sua maniera di intendere i rapporti sociali, ma
è impunito. Riguarda voi più che me, signor Commissario »
« Prendo atto adesso di questa situazione… sono fuori sede e
mi sto occupando di un’ipotesi di omicidio. Ma lei perché lo ha
denunciato? »
« La truffa ai danni dell’Erario, la combutta con i pubblici poteri,
la benevolenza dei magistrati, reati comuni in questa italietta. Ne
devo dire di più? Le ho scritte e pubblicate, queste cose... »
« Sì, un po’ la conosco... »
« Resto a disposizione per quel poco che posso fare, e mi auguro
che possiate voi togliermi la curiosità di chi comanda veramente in casa dell’Erbivendolo... io non ho i vostri mezzi e sono
costretto, molto spesso, a mettere la pelle al sole per sporgere
denunce ».
Il Giornalista, a cui il Commissario aveva rivelato, nel correre
informale della conversazione, le disavventure della Cuginetta,
fu indeciso se parlarne alla Segretaria. Ma, rientrando a casa e
trovandola con le antenne ritte, non poté evitarlo. Era già difficile la situazione in cui vivevano per gravarla anche di un solo
grammo che non fosse di verità.
La Segretaria rimase molto male nell’apprendere la storia della Cuginetta, della sua attività “spionistica” inserita nei rapporti
con l’Ucraino. D’altronde però aveva raccontato al Giornalista
della propria esperienza al circolo/pub e non meravigliò che l’Ucraino fosse riuscito a mettere la Cuginetta, per giunta incline a
farsi soggiogare sessualmente, ai propri ordini.
Gli sposi parlarono del perché l’Ucraino fosse giunto a sorvegliare, in modo così stretto, il Giornalista. Pensarono che glielo
avesse ordinato il Palazzinaro: la Segretaria, quel giorno che era
andata al Cantiere col babbo, l’aveva incontrato. Poi aveva appreso al telefono, dalla Cugina, che esisteva un qualche rapporto
tra i due.
385
LXI
La Confessione
Rientrato in sede, il Commissario mise al corrente il magistrato
delle indagini svolte e chiese di procedere all’interrogatorio formale della donna, trattenuta in carcere con l’ipotesi di concorso
o favoreggiamento in omicidio.
La Cugina era privata da tempo del proprio lasciapassare per
i sogni, sostituito da dosi di metadone essenziali, per non dire
scarse. Viveva in uno stato eretistico, il cui andamento era sottoposto agli alti e bassi di una ciclotimia inevitabile.
Le furono mostrate le fotografie del suo uomo ripreso in Piazza
Colonna, ingrandite sullo schermo. Un’immagine raccapricciante per chiunque, figurarsi per chi, almeno in passato, aveva avuto
un legame sentimentale e passionale con l’ammasso cencioso
che la luce del flash metteva in risalto. Dopo un breve intervallo,
in cui bevve dell’acqua e un caffè, le fu fatta ascoltare la registrazione dell’interrogatorio della sorella.
Dal suo comportamento si capì che non sapeva che si fosse trasferita in paese per volontà del suo uomo; non era a conoscenza
del tipo di rapporto che intrattenevano, e tanto meno si era immaginata che la ragazza svolgesse l’attività di sorveglianza che
stava apprendendo in diretta.
« La puttanella - gridò - la puttanissima, che va sempre al catechismo e fa i pompini nei confessionali... la puttanaccia che
il babbo guardava come se stesse crescendo la Vergine Maria...
mentre sarei stata io l’immorale e la perversa... ma l’ho sistemato, l’abbiamo sistemato... mi considerava niente, anzi mi odiava
e anche mia madre alla fine dei conti non ha mai mosso un dito
per difendermi... ora non mi rompete più i coglioni... questo non
va e questo è troppo basso e questo è troppo alto e questo non
è un buon partito... ».
La lasciarono sfogare. Era sulla strada di una piena confessione,
386
e andò avanti:
« Dopo, lui ha esagerato, che bisogno c’era di minare la capanna?
Aveva paura di... faceva il doppio gioco e mio padre l’aveva scoperto, però l’aveva scoperto a metà, l’intelligentone; non lo sapeva che si scopava la Califfa, grande troia prima che economista...
lui ha rotto il culo a tutte, tranne a me con cui ha fatto l’amore
normalmente... perché io ho voluto mostrarmi sempre cinica,
ma avevo bisogno di amore... di... di essere capita e stimata da
qualcuno... di essere amata ».
La donna aveva gli occhi sbarrati, le si affievolì la voce, sembrò
sul punto di soffocare. Bevve, chiese una sigaretta e la ottenne.
Quando la videro più calma, con gli occhi che riacquistavano la
loro dimensione, le domandarono il perché della sorveglianza e
delle minacce nei confronti del Giornalista.
« Lo temeva e forse lo invidiava. Il mio uomo ci provò anche con
l’Architetta: una sera riuscì a portarla al suo circolo, ci ballò e la
condusse fino al muro, ma lei si staccò e gli diede uno schiaffo. È
l’unica donna che gli ha resistito. Quando seppe che l’Architetta
frequentava il Giornalista - l’Ucraino aveva un sistema di spionaggio perfetto - temette per i segreti del Cantiere... temeva la
penna del Giornalista... e poi voleva seguire i loro rapporti... non
si era rassegnato al rifiuto della donna... quella puttanella della
mia sorellina rimase anche incinta di don Guillermo e rimediò
mia Zia, che in queste cose è brava... quella puttanissima che
sarebbe stata per lui come la Vergine Maria... il babbo... ».
D’un tratto la donna si mise a urlare parole incomprensibili, emise suoni animaleschi, si alzò di scatto e corse verso la porta. La
fermarono, cercò di liberarsi, strillò più forte, rovesciò gli occhi
e svenne. Fu condotta in infermeria.
387
LXII
L’Annuncio del Processo
I media riportarono la notizia che la Cugina aveva confessato.
Erano stati lei e l’Ucraino a uccidere i genitori su alla Baita. Scrissero che le autorità erano anche entrate in possesso di un considerevole materiale, che dimostrava quali fossero i rapporti tra il
Commercialista e il Palazzinaro.
Venne fissata la data del processo, mentre i familiari piombarono
nel più profondo sconcerto. Il Giornalista pensò all’Editore che,
se la notizia del materiale giunto in mano alla polizia era vera,
doveva aver consegnato i due volumi, il vecchio e il nuovo testamento, e relativi DVD.
La Segretaria era distrutta:
« Non può essere che... non può avere ammazzato i suoi... i genitori... »
« Se l’avevano arrestata qualche prova dovevano averla » e poi,
vedendo lo stato di prostrazione in cui si trovava, aggiunse: «
Certo, non è la prima volta che incolpano un innocente, l’hanno
fatto anche in malafede... ma non mi sembra questo... >
« Sarà stato lui e lei non l’ha denunciato, ma lei non può essere
stata. Lei che l’abbia voluto, pensato... la conosco bene: non è
cattiva... »
« Non esagerare, se è vero che ha confessato... La realtà ci sorprende e molto spesso ci supera; tocca prenderne atto e trovarle
un posto dentro di noi, costruendolo con tanta pazienza, di volta in volta ».
Il Giornalista controllò i soldi: c’erano per un caffè e le sigarette
da dieci.
« Andiamo al bar, facciamo due passi… anzi, se hai i soldi per le
uova allunghiamo il tragitto e andiamo al podere ».
La Mantenuta (nel senso che prima era Promessa e ora sposata)
nascondeva, quando riusciva, qualche spicciolo per fargli la sor388
presa. Aprì la borsa e accennò un sorriso:
« Ho tre euri e quaranta... »
« Siamo ricchi » e, mostrando il sesterzio di bronzo che teneva
come portafortuna, esclamò ridendo: « I soldi non finirono neanche ai Romani, sono sempre avanzati a tutti... usciamo ».
Per strada incontrarono Ricciolo, il tornitore, che disse al Giornalista:
« Slanda è stato qualche giorno in ospedale »
« Che ha? »
« Ha detto che vuol morire sano: è andato a farsi tutte le analisi ».
389
LXIII
Il Rubinetto dell’Entusiasmo
La sera stessa, il Giornalista telefonò a Slanda.
« Domani vengo a trovarti - gli disse - Voglio presentarti mia
moglie ».
La Segretaria sapeva tutto del quasi centenne. Gli sposi, dal loro
letto a una piazzemezzo vedevano, sopra l’armadio della camera, oltre ai due caschi (quello con la lumaca e l’altro a penne di
pavone di Montecarlo) il volante ricordo della Mercedes 300 SL,
ex Sofia Loren. Gliel’aveva venduta Slanda, che mezzo secolo
prima era stato anche mercante di automobili. E il Giornalista
aveva fatto salire la moglie sulla Mercedes, usando il volante dello splendido coupé come macchina del tempo.
Nel pomeriggio del giorno dopo andarono a trovarlo.
« Slanda, sei sempre più in forma» cominciò il Giornalista, appena aprì la porta.
« Sono andato in ospedale perché me lo certificassero. Voglio
morire sano. Dicono che ci sia un ufficio accettazione anche di
là e che debbano motivare ogni arrivo con la causa del decesso.
Voglio vedere che faccia faranno di fronte a uno sano »
« Ti rispediranno qui. Comunque, l’esperimento fallo non prima
di dieci anni »
« Accadrà la prossima estate. Hai sempre detto che bisogna avere la valigia sempre pronta. Ora, io l’ho controllata »
« Vuoi ammazzarti? »
« Ma che dici, Giornalista... Noi siamo campati ogni giorno di
entusiasmi. “Entusiastes”, credo che significasse “matto”, per i
Greci. E i matti sono immortali. Basterà che mi alzi, una mattina, senza neanche un filo di pazzia: la morte non è che l’altra
faccia, la vera faccia della normalità »
« Questa è mia moglie »
« Vedi, se avessi accanto una donna così, forse mi tratterrei… »
390
La Segretaria arrossì e gli porse la mano, dicendogli:
« Piacere » non per educazione o balle del genere. Quel vecchio
rispettava in pieno, non solo la descrizione fatta dal marito, ma
giustificava la stima che contenevano le parole con cui gliene
aveva parlato.
« Ti trovo molto meglio dell’ultima volta che venisti da me disse al Giornalista - Si prende un bicchierino e si va su: sono
sicuro che le hai raccontato del nostro abbaino » e rivolto a lei:
« Nei momenti importanti della nostra vita abbiamo discusso
affacciandoci sui tetti ».
Mentre seguivano Slanda che saliva le scale con l’agilità di un
senza età, il Giornalista gli disse:
« Mi ci è voluto una vita per capire quella frase che ripetevi ogni
tanto e che lego al primo scambio di parole con te. In tre parole
dicevi tutto »
« Che frase? » rispose, continuando a salire senza voltarsi.
« Quella sui soldi. Sostenevi che non ci vuole niente a farli: basta
volergli bene »
Slanda si mise a ridere:
« È vero: se i soldi dipendessero dall’abilità e dall’ingegno, la
maggior parte dei ricchi farebbe la fame » e continuò a ridere,
mentre apriva la finestra.
« Allora, ti sei sposato, ne parlano tutti. Li mantieni da mezzo
secolo, i tuoi compaesani. Senza le tue imprese e le tue sorprese
di che avrebbero parlato? »
« Anche tu fornisci materia per chiacchierare »
« Io per loro sono soltanto un tipo bizzarro, e ora mi guardano
per la sfida all’età che salgo »
Slanda, sollecitato dal Giornalista, mostrò alla sposa una delle
sue meridiane, spiegandone il funzionamento, poi le disse:
« Lui per me è come un figlio che... »
« Un fratello minore » lo interruppe il Giornalista.
« Mettila come vuoi – riprese - Ci siamo conosciuti che aveva meno di ventanni e io quaranta suonati. Facevamo le stesse
cose, ma io potevo già raccontargliene tante vissute... ci siamo
conosciuti in quelle notti di bighellonaggio, di mangiate, bevute
391
e risate. Non c’era nessuno fuori dopo cena, a quei tempi. Solo
quei quattro gatti che eravamo noi, che non si rassegnavano mai
al letto per dormire: tempo sciupato, si diceva... »
« Noi ne abbiamo sciupato poco » fece il Giornalista.
Slanda prese, nelle sue, le mani della sposa:
« Fino a che punto ti sei resa conto di che tipo di persona hai
sposato? »
« Mi ha messo al microscopio per qualche anno prima di farmi
la dichiarazione - disse lo sposo ridendo e spettinandola - Non
guardare il suo aspetto fragile e remissivo, è una donna... un po’
scema... ma è una vera donna... sennò perché l’avrei sposata?
Stavolta, Slanda, mi sono sposato sul serio, non ci credi? » e il
Giornalista, dall’aria scherzosa, passò a un atteggiamento pensoso.
« Anch’io l’ho fatto due volte, ma... » e si rivolse di nuovo a lei:
« È un uomo, e se tu sei veramente una donna stagli vicino.
Sopportalo quando avrà momenti di bassa, ma ti ripagherà: è
un matto genuino, con tante di quelle risorse che è difficile immaginare» e poi aggiunse: « Si dice che abbiate grosse difficoltà
economiche… »
« Fa parte delle chiacchiere Slanda - intervenne pronto il Giornalista - Non è assolutamente vero. In questo momento non
navigo a gonfie vele, ma ai giocatori succede. Stai tranquillo, non
ho problemi ».
Slanda, nonostante fosse certo del contrario, capì che il Giornalista non gli lasciava spazio per dargli una mano: entrambi si erano trovati nel bisogno, ma nessuno dei due era ricorso all’altro
per i soldi. Slanda aggirò l’ostacolo con una battuta:
« Comunque, i concittadini, a parte i cinquantanni di arretrati
sul biglietto da guardoni, ti dovrebbero versare almeno un compenso per aver aperto i loro occhi sulle porcherie del Comune,
mettendo alla sbarra due o tre amministrazioni ... Non è vero? »
« Lascia stare... semmai i soldi li danno a Sky per passare le serate
urlando »
« In ogni caso, tra qualche mese vi lascerò una piccola somma.
In cambio voglio che mi portiate i fiori, due volte all’anno: le pri392
me ginestre a Maggio e l’agrifoglio per Natale. E dovete venire
insieme, siete una bella coppia… guardate che vi vedrò ».
Lei aveva gli occhi lucidi, mentre lo salutava con un abbraccio.
I due uomini si appoggiarono le mani sulle spalle, fissandosi da
vicino con un sorriso disteso. Slanda gli fece una carezza sulla
barba: « Tenetevi da conto » concluse.
393
LXIV
La Ribollita
A Gennaio, gli sposi, grazie a un contributo della Lettrice, avevano pagato la bolletta del telefono, così era possibile lavorare su
internet senza muoversi di casa. Ma per sopravvivere erano costretti a invenzioni quotidiane: con un po’ di fantasia e di risorse
alla Bonnie e Clyde andavano avanti. A suo tempo, lui aveva
raccolto foglie di tabacco nei campi e, fatte seccare, arrotolava
sigarette con le cartine. Nella Ribollita, piatto che in quel periodo cucinavano spesso, al posto del cavolo nero sperimentarono
le cime di rapa, che erano facilmente reperibili.
In una giornata tipo, lei accendeva il fuoco al mattino, mentre
lui preparava la pentola con i fagioli, l’aglio e la salvia, che poi
passava sul treppiede nel camino, dove patate e cipolle venivano
lasciate, abitualmente, a cuocere sotto la cenere con brace coperta per tutta la notte.
Quando i fagioli, cotti con molta acqua, erano pronti, si metteva
al fuoco un tegame col soffritto e lì venivano messe a cuocere
le cime di rapa, rigovernando con l’acqua dei fagioli. Intanto
si tagliavano fettine di un pane raffermo di qualche giorno. Al
momento in cui le cime di rapa erano cotte e vi si erano messi
insieme tutti i fagioli, si prendeva un tegame pulito e sul fondo si
faceva un primo strato di pane, versandovi la zuppa. E così via,
strato su strato. Poi questo tegame veniva messo da parte, per
mangiare la Ribollita a cena e il giorno dopo, previa ri-ribollitura.
Poi, messa sul piatto, si versava una croce di olio d’oliva (se c’era).
Un paio di giorni dopo la visita a Slanda, stavano preparando per
pranzo una gratella con qualche fetta di rigatino da mettere sul
fuoco, da accompagnare con le patate già cotte sotto la cenere.
Suonò il telefono, era l’Onorevole:
« Hai visto il nuovo progetto per la E 78? »
394
« Ne so qualcosa, ma niente di preciso; già dieci anni fa la chiamai, anziché “dei due mari”, “dei due oceani”: dell’ignoranza e
della demagogia, oltre che dei ladroni... mica ti offendi? »
« Ti dimentichi che io sono dalla tua parte, tra quelli che non la
vogliono e... »
« Non ti troveresti bene dalla mia parte, te lo garantisco... dalla
mia parte non vedo nessuno » disse il Giornalista.
« Vogliono farla diventare un’autostrada a sei corsie, a pagamento... »
« Naturalmente. C’è qualcosa che non va a finire a pagamento? »
« Bisogna fermarli... »
« E fallo, sarebbe ora. Sei in Parlamento e lo chiedi a un isolato
come me? »
« Tu l’hai già fermata due volte... »
« Ma non esagerare... »
« Quella volta che facesti intervenire, all’ultimo momento, il direttore generale dei Beni Culturali e saltò la conferenza dei servizi... »
« Vedi, intervenne un alto papavero e non... »
« Ma la lunga relazione che ricevette e i solleciti diretti a Napoli
furono tutta opera tua »
« Povero Mastruzzi, ha fatto il proprio dovere e poi, credo, è
andato in pensione »
« Passerà lì da te questa strada, taglierà la valle del Metauro. Hai
fatto il diavolo a quattro contro la galleria che sbuca a Mercatello
e ora ti arrendi? »
« Io dentro la Guinza ci metterei chi l’ha voluta, loro e la loro
talpa... »
« Ora calmiamoci, pensiamo a quello che c’è da fare »
Il deputato era uno che aveva preso il treno degli ecologisti. Si
era prima mischiato ai Verdi e, dopo certe loro batoste, stava
planando, silenzioso, su qualsiasi gruppo che alla camera potesse
ospitarlo vantaggiosamente. Era uno dei tanti sugheri impegnati
a trovare la migliore linea di galleggiamento.
« Senti, onorevole, ho da fare e mi sta bruciando il rigatino. Farò
la mia battaglia, se ne avrò la possibilità, come sempre: non mi
395
lego a nessun gruppo, tanto meno a quelli istituzionali. Casomai
sollecito le istituzioni e ho già scritto e pubblicato anche troppo
sulla Strada dei Due Mari ».
Appena lui terminò la conversazione, la sua sposa gli andò accanto:
« Dai, non ti ci guastare il fegato… è pronto - e gli mise le braccia al collo - Non hai fame? »
« Sì, sì, ma guarda... non gliene frega niente... possono anche
seppellire l’Italia e loro pensano alle “grandi opere”, come le
chiamano i politicanti, le vedono soltanto in funzione di finanziare il carrozzone dei partiti... non hanno il coraggio di rubare
direttamente... devono progettare in grande per rubare in grande... peggio dei preti quando, pur di fare i lavori, distrussero le
cattedrali romaniche imbaroccandole. Scusami. So che non dico
nientissimo di nuovo, ma ogni volta che li sento, li vedo, li ascolto, è... è... » poi cercò di ricomporsi; sorrise, la strinse a sé e disse:
« Se si accontentassero del rigatino, ma dagli pure una bottiglia
di champagne, non avrebbero bisogno di inventarsi la Strada dei
Due Mari... vogliono il potere loro... se scopassero di più staremmo tutti meglio »
Lei scostò il tavolinetto su cui avevano pranzato, accostò al fuoco la poltrona e gli si mise accanto.
« Bisogna farne fare una a una piazza e mezzo - le fece - se devi
stare così » e si mise a ridere.
« Sì, con tutti i soldi che abbiamo, ci manca la poltrona... preparo
il caffè... » e risero tutti due, mentre lui la tratteneva per i capelli,
facendola sedere sulle ginocchia.
« Vado a prendere la crema... hai la pelle screpolata... »
« No, fallo stasera, a letto. Mi piace quando me la spalmi, mi
accarezzi, e pian piano ti avvicini, dandomi i tuoi baci... è moltissimo bellissimo... ».
Quella notte accadde l’animalesco e l’angelico. Lui fu risucchiato
dentro di lei da una forza a cui era impossibile sottrarsi. Stettero
avvinghiati, in un fremito leggero e ininterrotto, mentre i muscoli pulsanti della vagina gli mungevano il pene.
396
LXV
La Scomparsa dell’Editore
Non avevano neanche spento la luce. Lui era già in piedi, lei dormiva. Suonarono al portone, erano le otto e un quarto.
Il Giornalista si affacciò. Vide sulla strada la Zia che si mise a
strillare:
« L’Editore è morto, ora sarete contenti » ripetendolo più volte.
Lui rimase inchiodato alla finestra, fermo, in pigiama, come un
manichino appoggiato sulla soglia di pietra. Aveva sentito, ma
non capiva:
« Come, morto? »
« Scomparso »
« Come, scomparso? »
Lei stava sotto e ripeteva:
« Ora sarete contenti... »
Il Giornalista non riusciva a spostarsi dalla finestra, poi prese
fiato e le disse:
« Vieni su » e poco dopo la donna era in casa.
« Che cosa è successo? »
« Sono dieci giorni che non se ne sa niente, né qui né in ditta, poi
hanno trovato la sua macchina abbandonata in un parcheggio, a
mille chilometri da qui ».
Lui rivide nella Zia (e non avrebbe mai voluto rivederlo) quel
gruppetto che aveva tentato di rapirgli la sua donna a pochi giorni dal matrimonio. E ora gli stava davanti con un’aria beffarda,
sfidandolo a risolvere questo terribile problema.
In un attimo la casa fu piena di quella notizia, che ormai girava
per le stanze, ma la moglie non lo sapeva e lui doveva dirglielo.
Entrò in camera, la bocca secca e la testa pesante. Si mise a sedere sul letto e le accarezzò i lunghi capelli neri. Sussurrò il suo
nome, poi la chiamò e le disse:
« C’è tua Zia di là »
397
« Mia Zia? - gridò scattando a sedere sul letto - Che cosa è accaduto? ».
Si guardarono senza profferire un suono. Sua Zia le aveva telefonato in continuazione nei primi mesi dopo il matrimonio
per incontrarla, con la scusa di andare a prendere un caffè, ma
il Giornalista non si fidava dopo quanto era successo. Alla fine
anche la Segretaria aveva capito che bisognava aspettare un possibile chiarimento con la famiglia e si era negata per qualsiasi
incontro con la donna.
« Dice che tuo padre è scomparso, non ne sanno niente da dieci
giorni ».
Lei rimase muta, mettendo la testa tra le mani, con i gomiti sulle
ginocchia. Stettero ancora lì fermi, nella penombra della lampada che stava sul comodino. Poi le portò qualcosa per vestirsi e
andarono nell’altra stanza. La Zia, appena comparve, le piantò
gli occhi addosso:
« Spero che ora tornerai in famiglia per qualche giorno: senza di
lui, naturalmente, altrimenti è inutile » poi ricominciò con la solita litania: « Ora sarete contenti, sono passati otto mesi e nemmeno per un caffè sei voluta uscire. Voglio vedere se adesso vieni
con me dalla mamma… o vuoi far morire anche lei? ».
Il Giornalista era troppo concentrato sulla notizia per contrastare le infami parole della Zia, che non mostrava segni di dolore
ma la voglia di vendetta, che nell’accaduto trovava uno strumento efficace. Tra l’altro, gli venne in mente, l’Editore non aveva
mai simpatizzato per la donna, ora così impegnata a fare tutto
quel baccano. Ma l’aveva sopportata, mettendola nel conto dei
tanti rospi che ingoiava in casa.
La Zia non diede tregua:
« Vieni o non vieni? Vuoi vedere se scoppia anche mia sorella? ».
Lei guardò il marito, si parlarono un momento, andò a vestirsi e
le due uscirono. Era venerdì.
Il Giornalista sentì che, insieme all’Editore, se ne andava anche
la Segretaria. Ne ebbe conferma entrando nella stanza del computer: lei, prima di uscire, aveva lasciato la fede sopra la mensola.
Era bastato che pensasse alla soglia di casa per mettere in discus398
sione il loro matrimonio.
Fu una giornata buia e tesa, colma di sconfitte. Lui era di nuovo
solo. Venne a trovarlo la sua Lettrice di fiducia:
« Non perdere questa donna, lascia spazio al suo dolore e non le
anteporre il tuo ».
A sera, la sposa tornò e gli disse:
« Abbracciami forte » comunicandogli che sarebbe rimasta a
dormire da sua madre.
399
LXVI
L’Azzeccacervelli
La sposa restò otto giorni a dormire da sua madre, capitando a
casa saltuariamente. Lui si guardò dal dirle della fede, come se
non l’avesse vista.
Il sabato sera della settimana dopo, lei arrivò all’ora di cena, abbracciandolo con molta dolcezza:
« Ora preparo la cena. Sono stata dal dottore e mi ha detto di
tornare a dormire qui da te... »
« “ Qui da te”? A casa nostra, vorrai dire... Ci vuole che lo ordini
il dottore perché la moglie dorma con suo marito? Ma che cazzo
dici? Di che dottore parli? »
« Mia madre, prima che tornassi qui a casa, ha voluto sincerarsi
che stessi bene, mi vede così smagrita... » e gli mostrò la ricetta
di un farmaco.
« È un antidepressivo - fece lui - Chi te l’ha dato e dove? E con
chi ci sei andata? »
« Con la mamma e il notaio »
« Il notaio? E che c’entra? »
« Lui, da questo dottore, c’era andato l’estate scorsa col babbo… »
« Ne dubito. Non credi che dovendo andare da un medico, specie
quando si tratta di uno psico, “logo” o “chiatra” o “terapeuta”,
sarebbe bene che ne parlassero, tra loro, il marito e la moglie? »
« Ma guarda che mi ha detto le stesse cose che mi dici tu, è dalla
nostra parte... »
« Dalla nostra parte ci siamo solo io e te: questi ficcanaso, definiamoli così per essere molto generosi, che vogliono ancora da
noi? ».
Il Giornalista cercò di calmarsi e di riflettere sulla situazione. Lei
era sconvolta dalla scomparsa del babbo e si sentiva in colpa nei
suoi confronti; le congiunte non si erano certamente sforzate
per alleggerirle il peso. In otto giorni avevano avuto tutto il tem400
po per starle addosso.
In ogni situazione, il Giornalista vedeva un qualche parallelo con
altre tratte dal suo mondo, fatto di aerei e di automobili poiché,
trattandosi di situazioni operative, gli rappresentavano meglio la
realtà. Così pensò all’acrobazia aerea che, in origine, nacque per
chi si affrontava in combattimento.
I piloti che si scontrano in aria lottano per mettersi in coda all’avversario. L’esecuzione di figure acrobatiche serve a raggiungere
questo scopo. Chi ci riesce può inquadrare l’altro nel collimatore
e aprire il fuoco su quello che diventa un bersaglio facile.
Il Giornalista vedeva la Segretaria inseguita dalle congiunte, capeggiate da sua madre che si preparava a collimarla, mentre lei,
non rendendosene conto, neanche tentava di cambiare direzione. Considerò anche l’intervento medicalnotarile, senza riuscire
ancora a trarne conclusioni di sorta.
Dal taccuino apprendiamo che lui, prima di acquistare l’antidepressivo,
della cui composizione aveva preso visione su internet, la portò da un amico,
un medico in pensione di cui si fidava. Soltanto dopo che l’amico gli disse di
averlo prescritto anche lui, già in passato, senza alcun problema, la sposa
cominciò ad assumere il farmaco.
Seguono quattro pagine dedicate al cervello e alla psiche. Vi si narra che il
Giornalista visse alla fine degli anni Ottanta con una neurologa, giovane
assistente di una studiosa di fama mondiale del coma. Durante i tre anni
della loro convivenza montarono prima un cervello, come ausilio al Giornalista che stava studiando i meccanismi della visione e la rappresentazione del
colore, poi seguirono studi di psicologia e psicanalisi.
Si legge che il Giornalista scoprì a Milano che tutta l’equipe a cui apparteneva la sua donna andava settimanalmente in analisi e la convinse a
interrompere tale pratica: inutile, anzi deleteria.
401
LXVII
La Monaca
Nei giorni che seguirono la scomparsa dell’Editore giunse in paese la Monaca, che era molto attaccata a suo padre. Benché la
segretaria non avesse sicuramente un filo rosso con la sorella, in
questo caso l’aveva avvertita.
Il Giornalista era solo in casa quando suonò. La fece accomodare, e le disse:
« È su da tua madre »
« Da sua madre... »
« L’Editore mi aveva parlato di te e del fatto che non la vuoi più
vedere, ma dato quel che è successo potresti... »
« Per me non esiste, ora poi… dopo quanto è accaduto… »
« Vuoi un caffè? »
« Dimmi dov’è l’occorrente e lo faccio io. Raccontami: mia sorella è stata essenziale per telefono e poi ho saputo soltanto di
recente che vi siete sposati. M’è rimasto un amico, qui in paese,
che ogni tanto mi informa ».
Il Giornalista le narrò la storia per sommi capi, scendendo nei
particolari riguardo agli ultimi avvenimenti. Lei sapeva della
confessione della Cugina e del processo che ci sarebbe stato.
« Sono notizie terrificanti, ma purtroppo tutto ciò che deriva dalla falsità non mi sorprende in quella che fu casa mia e nell’altra
di mio zio: le cognate erano della stessa pasta, mentre noi, in più,
avevamo la nonna dalla cui costola è venuta la figlia »
« Ossia tua madre... »
« Non la chiamare così, lei non... ».
Poi la Monaca, vedendo il Giornalista così dubbioso sui suoi
comportamenti, si lasciò andare e brevemente gli raccontò le
proprie vicissitudini. Avevano tutte lo stesso andazzo delle altre
della famiglia. Facevano eccezione quella della Cuginetta che, fin
dagli esordi, l’aveva buttata sul sesso nudo e crudo, finendo però,
402
per strade tortuose, a trovare anche lei notevoli complicazioni.
La Monaca si era fidanzata con un coetaneo a diciotto anni, un
compagno di scuola che prese la maturità scientifica col massimo dei voti e si iscrisse a Fisica. Andarono insieme all’università
e lei prese Matematica.
Il ragazzo che, oltre a eccellere nello studio faceva parte della
rappresentanza sportiva universitaria per le gare di salto in lungo
con risultati di notevole livello, si era fidanzato in casa e tutto
filava al meglio. Ma la madre cominciò a dire al marito che la famiglia dell’aspirante genero difettava per posizione sociale e per
carenze individuali degli appartenenti, di cui esponeva elenchi
dettagliati.
Da questa sua posizione critica, la donna passò a comportarsi
in modo scorbutico con il ragazzo, che pian piano si allontanò e
smise di frequentare la famiglia. Poi, la madre arrivò a interferire
ogni volta che la figlia, tornando a casa nei fine settimana, usciva
con lui, ottenendo il conforto del marito, anzi demandandogli
le prese di posizione più dure. E alfine, il fidanzamento tra quei
due giovani, che formavano una coppia invidiabile e invidiata, si
ruppe.
Dopo un anno, la Monaca, che frequentava con profitto il terzo
anno della sua facoltà, cominciò a uscire con un maresciallo dei
carabinieri trentenne. In breve tempo i rapporti si strinsero e
programmarono di metter su famiglia. Mentre questo avveniva
in città, a casa la madre instaurò un clima insopportabile, lamentandosi ogni giorno della scelta della figlia che, naturalmente,
aveva ridotto al minimo i propri rientri in paese.
Un giorno, l’Editore, logorato dalla goccia cinese che era la moglie, si recò dalla figlia confessando la preoccupazione per la salute della madre e anche per la sua, che non poteva più mettere
piede in casa senza essere aggredito dalle lamentele della moglie,
ossessionata dal ventilato matrimonio.
Il babbo concluse però scusandosi con lei per quello che era in
definitiva uno sfogo; le consigliò poi di fare le scelte che avesse
ritenuto giuste per la sua vita. Aggiunse che il colloquio avrebbe
dovuto restare fra loro due: guai se la madre avesse saputo del
403
suo punto di vista.
La Monaca era alla fine del terzo mese di gravidanza e, appena
arrivato il babbo, stava per comunicarglielo, dicendogli che il fidanzato aveva deciso di recarsi a casa loro per annunciare che si
sarebbero sposati.
Ma dopo aver appreso che cosa ne pensasse la madre e quale situazione esistesse in casa, la Monaca non fiatò sull’argomento e,
dopo qualche giorno, fece una scelta che avrebbe distrutto tutto:
per primo il bambino, poiché abortì. Il maresciallo, innamorato
di lei ed entusiasta del suo essere incinta, venuto a conoscenza della sconsiderata iniziativa, si disperò e si infuriò: avrebbe
perfino denunciarla, a termini di legge. Una sera ricorse alla sua
pistola di ordinanza e la fece finita.
« Con la sua pistola personale, che portava quando era fuori servizio e che teneva in un cassetto dell’appartamento dove abitavamo, feci la medesima cosa… ma io sono stata meno fortunata
ed eccomi ancora in questo mondo - e così dicendo, si scostò
i capelli che le coprivano la tempia destra - Vedi quel segno,
grande come una monetina? Mi sparai in bocca e la pallottola
uscì da qui, senza toccare il cervello né altri organi vitali » disse
con lo sguardo lontano e poi, tornando sulla terra, riprese: « Lei
venne a trovarmi in ospedale con mia sorella e, come se nulla
fosse successo, mi disse che sarei tornata a casa appena dimessa,
per ricominciare. Ebbe la faccia e... non trovo il termine adatto...
ebbe la faccia di dirmi “Troverai un ragazzo che ti meriti, sei così
giovane ancora, potrai divertirti ed essere felice” »
« Poi che hai fatto? »
« Non sono tornata più a casa, e quella donna l’ho cancellata...
la ferita della mia tragedia è aperta, oggi come il primo giorno ».
Il Giornalista era esterrefatto: la Segretaria non gli aveva mai
narrato la storia di cui veniva a conoscenza, liquidandola come
“casini di mia sorella”. Forse era troppo tragica la vicenda per
ammettere che fosse realmente accaduta. Inoltre, la frattura secca con la madre, la sua cancellazione, non rientravano in alcun
modo nelle possibili conseguenze di una qualsiasi lite: sua madre, per la Segretaria, doveva sopravvivere a tutto.
404
« Sta attento, Giornalista. Lei ora vorrà riprendersi la propria
bambola »
« Ma tua sorella non è una bambola »
« Tutte le figlie, per quella lì, sono bambole. Io sono giunta ad
ammazzare mio figlio, non col mio cervello, ma con quello da
bambola che lei mi aveva costruito. Poi, dopo la tragedia ho visto il fondo del burrone e non ho più voluto saperne niente…
ma… ma era tardi »
« Un momento di grigio... »
« No, quella strega ci ha cresciuto dentro una gatta che distrugge,
e quando te ne accorgi il peggio è già accaduto »
« Ma tuo padre... »
« Mio padre, come mio zio… poveretti, che scelte avevano? O
sopportare o sbaraccare. Il contratto era chiaro, ho impiegato
degli anni per capirlo: le figlie sono mie, le tiro su, le seguo per la
scuola, le mando ben vestite. Quando c’è bisogno le richiami tu
al dovere (che è quello di assecondare i desideri della madre), ma
le figlie sono mie. Altrimenti si sbaracca »
« La vedi proprio così? Il padre succube della moglie? »
« È così. Succubi? Coscienti di come stavano le cose. Mio padre
e mio zio non erano affatto stupidi né deboli, anzi. Ma non avevano scelte su questo punto. Perciò si sono tirati dietro il timore
delle figlie nei loro confronti; nel caso di mia Cugina l’odio che
l’ha portata fino all’omicidio »
« Mi auguro che tua sorella riesca a discernere tra la madre e la
mammina »
« Purtroppo lei è soltanto una mammina in cui mia sorella si
ostina a cercare una madre. Ma, tra tutte noi, ha il vantaggio di
aver fatto una scelta a viso aperto e ha trovato un uomo »
« Sì, un uomo che non si può neanche permettere una moglie:
siamo alla fame »
« Dovete resistere. L’interesse maggiore ce l’ha mia sorella: ha
fatto molto e può liberarsi dalla maledizione delle gatte morte,
che sono le bambole preferite delle mammine. Tu la devi aiutare »
« Penso che non potrò farlo e non dovrò: è una partita che deve
vincere da sola. Le starò accanto, ma dovrò assistere, e non in405
tervenire, anche se per me sarà molto difficile. Ma credo di volerle bene sul serio e ce la metterò tutta »
« Attento: lei è innamorata di te, ma non ti vuol bene. Ci è stato consentito di innamorarci perché è impossibile vietarlo, ma
la mammina è stata capace di nasconderci cosa significa volere
bene, abituandoci al surrogato dell’accondiscendenza. La gatta
morta è servizievole, garbata e accondiscendente, ma sviluppa
in se un amor proprio che impedisce di voler bene a chichessia,
identificandolo con un eccesso di amore. Possiede un egoismo
mostruoso.
IL Giornalista la osservò mentre era assorta a guardare una formica sul pavimento che trascinava un chicco di riso, cercando di
superare le spaccature dei mattoni. E ogni istante era sul punto di rinunciare. Sembrava che la guardasse per sostenerla e la
incitasse fissandola coi suoi occhi di un verde scuro, cangiante
con la luce. Era bella, la Monaca, con le caviglie sottili che invitavano a salire verso fianchi che solo la femmina può possedere;
la vita marcata, seni alti e appuntiti dove arrivava una ciocca di
seta scura grossa e morbida (che muovendosi le era passata sul
petto) che lui istintivamente accarezzò. Lei gli prese la mano. La
guardò:
« Forse se ci fossimo incontrati noi due… »
« Forse… ».
Lui accese una sigaretta e si mise a camminare per la stanza, pensando alla tragedia di quella donna i cui occhi gli sembrava non
cambiassero più espressione: reagiva con le parole, ma dietro
non c’era ombra del sentimento corrispondente.
« Credo che tu esageri su tua madre. » - le disse - « Non è tutto
bianco o tutto nero, come dice tua sorella »
« Senti, la figura della suocera rovinafamiglie non è un’invenzione: è una mammina stagionata»
« Non essere così pessimista…»
« Soltanto le mamme servono a questo mondo, son loro che
fanno la storia e purtroppo ce ne sono poche »
« Questo si sa, ma vale per tutto il meglio degli uomini e delle
donne. Che ne faresti degli altri? »
406
Lo sferragliare della chiave annunciò la Segretaria.
« Ti fermi a cena? » le disse.
« Devo andare, lei mi aspetta »
« Perché non l’hai portata qui? »
« Non sapevo come presentarla: i rapporti sociali vivono di etichette e di qualifiche ».
Era diventata lesbica? Si domandò il Giornalista. Ma volle pensare che, avendo deciso di chiudere con gli uomini, lei cercasse
soltanto un profilattico per la solitudine.
407
LXVIII
Ziziphon
Il sabato sera, quando la sposa era tornata a casa con il certificato medico, gli aveva anche detto che avrebbero dovuto leggere
insieme alcune lettere che erano nel cassettone della camera.
« Forse ho abusato della tua fiducia, ho trovato queste lettere, ma
non dovevo leggerle »
« È casa tua, anzi era casa mia che hai fatto diventare casa nostra.
Non ti ho posto e non ti pongo alcun limite. Puoi leggere da sola
ciò che trovi o leggerlo insieme, puoi domandarmi spiegazioni
o farne a meno »
« Questa è di una tua ex di qualche anno fa, è di nove pagine
scritte a mano... poi ce n’è una scritta da te ad alcune donne con
le quali vivevi... il dottore mi ha detto che dobbiamo leggerle
insieme ».
Il Giornalista non aveva niente da nascondere alla Segretaria. Al
contrario, il marito teneva a che la moglie sapesse tutto di lui, per
progredire in quella straordinaria comunione di pensiero e nella
confidenza totale del loro vivere da una piazzemezzo.
All’avvicinarsi dell’inverno, lui aveva proposto di preparare un
altro letto. Le aveva detto che, in caso di malanni stagionali, sarebbe stato opportuno disporre ognuno del suo, per il tempo
che fosse servito.
Lei colse nella proposta un modo per cominciare ad allontanarla
e lo manifestò con decisione al marito. Fortuna che, a dispetto
del freddo e degli spifferi della vecchia casa, dell’assenza di ogni
ausilio moderno, l’inverno non li colpì con un solo starnuto. E
lui, ancora più di lei, passò i momenti più belli nei suoi sessanta
centimetri di letto, che il più delle volte risultarono eccessivi. Fu
così che Zizi divenne Ziziphon.
408
LXIX
Extrasistoli
Da tempo, il Mantenuto (ex Promessosi) le aveva requisito anche il telefono: il suo LG touch screen aveva dato forfait e, non
potendo neanche pensare a un nuovo acquisto, la Mantenuta (ex
Promessasi) aveva proposto di trasferire la scheda sul proprio
Nokia “milletastini”, come lo chiamava lui, dicendo che ci sarebbero volute delle dita a spillo.
Dei telefoni parlarono molto. A parte la rinuncia a uno dei due
fissi, che lei giustamente suggeriva per ridurre gli oneri, mentre
lui insisteva che i poveri non possono risparmiare, disporre di un
solo cellulare rinfocolò certe primitive, iniziali ipotesi di plagio:
la Vice nonna un giorno le disse che non doveva assolutamente
farsi filtrare dal Giornalista.
Dei telefoni parlarono soprattutto perché, usati dalla Psicologa
& C., divennero i chiodi del letto del fachiro per chi del fachiro
non aveva né le aspirazioni né le tendenze.
Sul presto, in uno dei loro bellissimi mattini, piombò sulla piazzemezzo la musichina del Nokia che, inavvertitamente, era rimasto sul comodino.
Rispose lo sposo centralinista e, visto dal numero che era la Psicologa, appoggiò, senza dire una parola, il cellulare all’orecchio
di lei. Si udì chiaro e forte:
« Sono all’ospedale, ho qualcosa al cuore. Ora mi devono fare un
elettrocardiogramma… »
La Segretaria balzò dal letto:
« La mamma ha bisogno di me, devo scappare »
« Ti accompagno » e si tirò su anche lui.
Andarono in macchina e la lasciò all’ingresso dell’ospedale. La
Segretaria tornò a casa a mezzogiorno e il Giornalista capì quale
fosse la vera urgenza del ricovero d’urgenza. La madre si era
recata a piedi all’ospedale da dove, dopo che i medici l’avevano
409
trovata sana come un pesce in piena forma, era tornata a piedi
con la figlia.
Qualche giorno più tardi identico ricovero con identica telefonata alla figlia. Ma stavolta il Mantenuto introdusse una variante:
« Se appena ti chiama scappi a razzo, invece di aiutarla le nuoci.
L’extrasistole è spesso la risposta di un cuore sano a certe condizioni anomale, dovute a tanti fattori… una delle più frequenti
è lo stress »
« Se la mamma mi chiama devo andare. Ma proprio tu, che veneri la figura della mamma, vuoi trattenermi? »
« Della mamma e non della mammina... »
« Non è mai tutto bianco o tutto nero »
« Basta cucinare, insieme a un paniere di porcini, un frammento
di amanita per trasformare tutto il buono in velenoso… ».
La mattina dopo, anziché darle il bacio dell’alba, il Giornalista
si trovò a fissare le travi del soffitto, vedendovi una galleria di
ritratti: la Psicologa, la Zia, la Vice nonna, e su un angolino il notaio e il dottore. E, senza accorgersene, tirò un moccolo, seguito
dall’esclamazione:
« Accidenti a quando sono nato ».
La Segretaria era già nel dormiveglia e, svegliata bene col moccolo, commentò a bassissima voce:
« Anche il babbo mandava quell’accidente... »
« Lo credo… anche lui ha provato la sensazione di avere un
gatto attaccato ai coglioni: una femmina non può capire cosa
facciano quegli artigli sottili del felino domestico... »
Di seguito lui infilò una serie di litanie, rivolte a un Padreterno
che sosteneva niente affatto buono e misericordioso. Lei lo interruppe:
« Perché lo bestemmi, se non ci credi? »
« Sai la barzelletta di quel nazista condannato a morte in Israele,
che espresse come ultimo desiderio di convertirsi all’ebraismo?
A chi gliene chiese la ragione, rispose che lo faceva perché crepasse un altro ebreo. Io potrei farmi prete per avvicinarmi di più
al padrone perché senta meglio ».
Scese dal letto e si mise un giaccone sopra al pigiama per difen410
dersi dal freddo: i vetri della finestra erano appannati e si vedeva
il vapore uscire dalle narici. Riprese:
« Mi dispiace… io ti voglio bene veramente, non è giusto che,
proprio ora che vorrei fare il giro del mondo insieme a te, si
debba essere inchiodati qui a elemosinare un pezzo di pane...
dico un sacco di fesserie e non è giusto che tu continui a sopportarle... quell’accidente rivolto a se stessi non è un moccolo o
un’imprecazione di routine. Ti può scappare un “accidenti a me”
se ti assesti una martellata su un dito, ma è soltanto un modo
per darti del cretino. La maledizione del giorno in cui sei nato,
invece, proviene dal fondo di un cratere. Non è un fenomeno di
superficie ».
Si rimise sul letto, seduto. La figurina sottile e silenziosa, di cui la
vita del Giornalista non poteva ormai fare a meno, gli si accoccolò accanto. Si misero addosso i loro corpi insieme alle coperte.
I capelli, così lunghi, si confusero. Gli occhi neri, profondi e
bellissimi della Segretaria erano gonfi e lucidi. Ma lui l’abbracciò
forte e le carezze riuscirono a ricondurli nel loro mondo a una
piazzemezzo.
411
LXX
Percorso Inverso
A completare le disgrazie del Giornalista era sopraggiunta una
punta di ernia inguinale. Spesso lui scendeva di corsa l’ultimo
tratto del sentiero scosceso che lo riportava alla base dell’Alpe
della Luna. Nel completare uno dei salti, con cui procedeva in
questo tipo di andatura, aveva avvertito una fitta dolorosa. E
non lo aveva raccontato a nessuno, per non sentirsi dire, di rimando, che a una certa età bisogna stare attenti...
Lei, una volta che gli si era messa sopra trovando il braccio di lui
in mezzo per alleggerire la pressione, gli disse che era una scusa
per tenerla lontana. Ci avevano riso, ma il problema esisteva e
cominciava a infastidire il Giornalista, che comunque cercò di
minimizzare, scherzando sul suo budello capriccioso.
Quella mattina si era alzato alle cinque, sfilandosi dal loro abbraccio con movimenti felpati, entrando nel gelo delle stanze. Si
era bardato con l’antico eskimo sessantottino e aveva acceso il
fornello da campeggio, appoggiandoci la Moka, preparata da lei
prima di coricarsi.
Si era seduto al computer, in quella stanza alternativa alla camera
dove pranzavano e cenavano, riscaldandola, quando avevano la
luce elettrica, con una stufetta al quarzo trovata in offerta, a dodici euri, in un supermercato.
Alle ore canoniche la sposa, dopo aver preparato da mangiare in
cucina, giungeva nella stanza del computer e, fatto spazio tra le
carte del grande tavolo a capretta, apparecchiava.
Era da molto che lui non faceva il punto della situazione e pensò di dare a questo la precedenza su quanto stava scrivendo:
ufficialmente roba giudiziaria e le schede di storia dell’arte che
andavano mettendo in rete; in pratica, dedicava sempre più tempo agli appunti per il romanzo di cui aveva parlato a Natale.
Ma lo teneva nascosto, dato che la stesura di quel libro avrebbe
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sottinteso, nel migliore dei casi, una provvisoria separazione degli sposi. E non intendeva caricare il basto che la Segretaria già
portava con fatica.
D’altronde era arduo scorgere un buco di sereno nella nuvolaglia
scura in cui continuava a navigare, con previsioni pessime.
Si mise a sfogliare il pacco di agende e rubriche appoggiate sulla
mensola sopra il computer e dovette constatare che, ovunque
dirigesse la prua, non riusciva a vedere un approdo.
In giro per il mondo, aveva litigato con molti di quelli da cui
avrebbe potuto ottenere dei soldi, compresi alcuni importanti
furbastri dell’ambiente antiquariale, le cui patacche aveva scoperto più volte.
Pur sapendo che svelare il falso non aveva nessun fine commerciale per lo studioso, fior di mercanti, a cui aveva impedito di
esercitare l’attività nel modo a loro consueto, gli avevano fatto
terra bruciata. E siccome nel mondo dell’arte, più che in altri,
per uno che studia e pensa di testa propria ce ne sono cento
che ascoltano passivamente, non era stato difficile sputtanare il
Giornalista.
Mentre fuori avveniva questo, sul posto, dopo la dipartita dell’Ucraino, restava il suo tirapiedi, che prima aveva eseguito per conto del padrone e ora agiva per se stesso.
L’Erbivendolo, il cui portafoglio gli meritava un rispetto diffuso,
si era dedicato a tempo pieno per rendere la vita impossibile al
Giornalista, servendosi di varie collaborazioni. Il suo impegno,
motivato dall’averlo sempre in coda, vedendo collimata ogni sua
arrembante iniziativa, era diventato un vero e proprio lavoro.
Non poteva sopportare, lui incallito analfabeta giunto a frequentare salotti televisivi, che il Giornalista continuasse, anche
in stato di reale indigenza, a tenergli testa. Le puntuali azioni
giudiziarie e la pubblicità che dava alle violazioni di legge del
personaggio, avevano portato l’impunito al limite dell’isteria.
Il Giornalista, per raggranellare qualche soldo, si era ridotto
a proporre piccoli acquisti a qualche danaroso del paese che
riteneva estraneo alla cricca. Ma tutti i prenditori o comunque
persone abbienti, perfino i farmacisti, si erano allineati sulle di413
rettive cementicole /erbivendicole, isolandolo.
Si stava completando la manovra di accerchiamento a cui ora,
indirettamente, prendeva parte la truppa capeggiata dalla Psicologa, coadiuvata dal notaio e dal guru terapeuta.
La Segretaria, collimata da questo stormo agguerrito, si disponeva a percorrere, rapidamente e in senso contrario, il tragitto che,
con pazienza e determinazione, aveva battuto per scegliere il suo
uomo distruggendo la gatta.
Così, il Giornalista e lo sposo si avviavano, del tutto coscienti,
verso la tempesta perfetta.
414
LXXI
Gli Insetti
Lo sposo si trovava a fare l’ennesimo punto della situazione, col
fiato sempre più corto. Si intensificavano le telefonate materne e
ziesche, intercalate da quelle della Vice nonna, mentre l’alea del
duo notaio-gurupeuta pendeva da ogni soffitto come da lingue
srotolate similmoschicide, nelle cui pieghe vedeva annidati questi
finti insetti, vivi come mai, pronti a volare intorno alla sposa, per
ripeterle all’orecchio istruzioni di un piano che era già scattato.
In casa gl’insetti e fuori gli avvoltoi. Per fortuna che il Giornalista, il pilota e l’aviatore, già di suo rotti a ogni intemperie, si
fondevano nel Giocatore, rendendo indigesto questo ibrido a
ogni specie di animale. Ma quest’uomo, esercitato a battersi in
ogni situazione e con ogni mezzo, non aveva mai pensato che il
posto dove era nato, standone sempre fuori e trovando in giro
per il mondo i mezzi per vivere, lo avrebbe atteso al varco. Deciso a non allontanarsi, per risolvere con la famiglia di lei (di fatto
col babbo) l’equivoco sorto col matrimonio, si era rapidamente
e inesorabilmente isolato e non aveva più alcuna fonte di denaro
per campare. Lì, nel paese ognuno aveva il suo lavoro, pensione,
sussidio. E i meno fortunati tiravano avanti i buchi della cinghia,
ma godendo dell’assoluta indifferenza degli altri, che li lasciavano soffrire per crepare in pace. A loro questo non era concesso.
Lo sposo e la sposa dovevano fare la fame in vetrina, in una specie di gogna sotto cui la gente poteva recarsi a blaterare i propri
commenti.
Il Giornalista, studioso conosciuto, personaggio in vista in ambienti diversi, esperto ascoltato e acquirente riverito nelle vendite all’asta di mezzo mondo, si era talmente autorecluso da rendersi inattivo e incapace di guadagnarsi un tozzo di pane. Il suo
mestiere e le sue conoscenze non servivano nel posto ristretto
in cui prima passava in transito da persona indipendente e be415
nestante. E i pochi con cui, se non per cultura ma per fiducia in
buoni investimenti, avrebbe potuto combinare qualcosa li aveva
denunciati per i loro affari nocivi per tutti. Era successo così
anche fuori, ma in un giro molto grande aveva trovato qualcuno
con cui non era stato costretto alla lite.
A questo non poco si andava sommando il senso di colpa nei
confronti della Segretaria: lei l’aveva scelto per distruggere la
gatta morta ch’era stata cresciuta, dentro di lei, dalla mammina
e lui la tradiva portandola verso la fame. La madre, nell’ultimo
feroce colloquio, aveva gridato alla figlia:
« Con lui vedrai tutti i musei del mondo, imparerai tante cose,
ti metterà incinta e ti darà un calcio, come ha sempre fatto con
tutte ».
A quel tempo neanche la madre, volente o nolente estimatrice
del Giornalista, si sarebbe sognata di assistere al declino sociale
di quell’uomo. E ora invece c’era giunto.
Di notte, la sposa si destava all’improvviso bisbigliando, gridando, singhiozzando: « Il babbo non c’è più » e lui, che era ossessionato dalle migliaia di domande che avrebbe voluto porre
all’Editore, la stringeva e l’accarezzava, salvo svegliarsi al mattino imprecando nuovamente, bestemmiando... « Scusami - le
diceva - Non ce l’ho con te, ma col padreterno dei cementicoli e
degli erbivendoli che alla fine ci prendono per fame. Avremmo
bisogno di allontanarci, per una boccata di ossigeno... e invece
quel padreterno ci tiene inchiodati qui, in modo che ci massacrino a loro piacimento. Ora io sono tuo padre e tuo marito »
continuava, lottando per riguadagnare un briciolo di sereno, nel
tentativo di ridarlo a lei, ma intorno si faceva sempre più grigio.
Era lontana la stagione del loro isolamento, in cui si preparavano
in silenzio a costruire qualcosa che potesse fornire al Giornalista
e all’Editore un’occasione per sfogarsi, maltrattarsi e riappacificarsi; una scusa a lei e al resto del parentado per trovare un
compromesso che permettesse di convivere in un ambiente così
ristretto.
Prima di quel maledetto giorno di Febbraio era capitato che
si incontrassero in un negozio, lui, lei e la madre, voltando da
416
un’altra parte la faccia l’una e l’altra; poi Giornalista/Segretaria
e Psicologa/Editore al mercato s’erano fatti le lontananze: parti
difficili da recitare di fronte a una platea piccola e affollata, con
facce note che ti fissano.
Poi, la vetrina s’era fatta ancora più trasparente perché la gente
buttava addosso alla Segretaria l’ingiusta accusa di aver causato
la scomparsa del babbo. E nessuno, tranne il Giornalista e il
gurupeuta, bollava l’accusa come assurda. Va detto che il guru
non lo aveva fatto per convinzione, ma solo per guadagnarsi la
fiducia della Segretaria che, fino al momento in cui lo conobbe,
si fidava soltanto del suo uomo.
Una volta che il guru ebbe credito, la partita si svolse con le regole guriche.
Gli sposi cominciarono leggendo la lettera di nove pagine della ex convivente: il Giornalista non censurò neanche uno degli
amplessi (la Segretaria abbassava la voce per poi interrompersi)
che la ex ricostruiva, con veristica pignoleria di teatrante: ottimo uso della lingua, in certi passaggi arrapava. Per lui, nessun
fatto, parola o accadimento poteva scalfire il patto nunziale di
Bonnie e Clyde. Neanche, e tanto meno, lo poteva il rinfaccio,
la richiesta – messo dalla ex tra il pompino in ascensore e la
scopata nella cripta longobarda esaltati con tinte forti – di una
somma prestata per l’acquisto di un’opera d’arte. Il Giornalista
non diede alcun rilievo a quello che era invece uno dei primi test
del programma gurupeutico.
Nel solito taccuino ci sono dettagliate spiegazioni sul debito vantato dalla
ex. Il Giornalista aveva conosciuto la donna perché aveva bisogno di affidare a qualcuno un compito di editing per un libro già terminato.
Anche lei era fidanzata quando la conobbe. Ma l’essere fidanzata non evitò
che inondasse il Giornalista di cartoline da mezzo mondo: “Faremo tanti
libri insieme, se vorrai” gli scrisse su una cartolina da Madrid... “Sarei felice se potessi esserti utile”, era scritto su un’altra con la reggia di Granada...
“Ho visto la natività di Piero e ho pensato a te”, da Londra... eccetera.
Dopo questi preamboli, un pomeriggio si presentò a casa del Giornalista e
si fece incamerare.
417
Poi la donna aveva stretto i rapporti, seguendo passo passo il Giornalista
e mettendo a disposizione dei suoi lavori un’indiscutibile cultura artistica,
offerta con amore e dedizione: era un’arma potente, poiché lui viveva per i
suoi studi, le sue battaglie e il lavoro che sottintendevano. Affiancarlo era
l’unico modo per accalappiarlo, facendogli da balia e da segretaria.
Il passo successivo fu quello di convincere il Giornalista a trasferire una sua
dismessa dimora in campagna in un’altra di proprietà della ex, in cui avrebbe dovuto terminare il libro. Vi trasferì arredi, attrezzature e biblioteca.
Il passo finale fu il seguente: scenate di gelosia retroattiva, poiché nel libro,
già completo, comparivano donne che erano state con lui in un periodo precedente, e che avevano svolto un lavoro basilare per cui le si doveva almeno
citare e ringraziare; minacciava di sospendere l’attuale partecipazione se
non fosse stato messo il suo nome in copertina quale coautrice (!). Dopodiché,
iniziò una pressione quotidiana per rimanere incinta ma, nonostante una
visita ginecologica che soprintese a un’intensa attività sessuale, gli spermatozoi non attecchirono. Conclusione: il Giornalista interruppe il lavoro da
cottimista [ parole esatte sul manoscritto ] e la relazione; lasciò tutta
la sua roba e la biblioteca alla donna, con cui non sentiva di essere affatto
in debito. Semmai... ritenne di essere stato adescato e truffato, poiché i patti
erano stati chiari: in primo luogo avrebbero dovuto portare in stampa quel
libro che era già pronto in prima stesura, rappresentando una sorta di collaudo del loro rapporto. Invece, il Giornalista venne considerato un padre di
passaggio o come figura da assumere per quei tipi di convivenza da qualificare come S.a.s. (Società in accomandita semplice).
Dalle lettere alla sua faccia. Stavano insieme davanti al computer come al solito e si accorse che lei non guardava lo schermo,
intenta com’era a esplorargli il viso: gli contava le rughe, le macchioline di melanina e le screpolature, le stesse su cui spalmava
le sue creme e deponeva i suoi baci. Un paio di volte gli disse
perfino che aveva un vocione. E se c’era una cosa per cui, quando telefonava, il Giornalista veniva scambiato per un giovanotto,
era la voce.
Lui sentì che la situazione precipitava. Udì, come fosse stato presente, i discorsi che erano maturati nel gineceo materno, già in
quegli otto giorni dopo la scomparsa dell’Editore.
418
« A settantacinque anni è risaputo che anche l’uomo più sano
entra nella fase in cui insorgono le malattie - aveva esordito quel
mezzo cervello della Zia - Così rischi di trovartelo cadavere nel
letto ogni notte. Se gli andrà bene e non crepa, dovrai fargli da
badante » insisteva il Mamba nero. D’altronde la Zia era la stessa
che, la sera in cui la Segretaria cominciò la sua vita a una piazzemezzo, gliene aveva dette di tutte per poi presentarsi più tardi,
ai già Promessisi, nel manipolo di teste di... cuoio, che tentò il
rapimento.
Da allora, il Giornalista, sentendosi al centro delle previsioni di
tanti menagrami, fu costretto a vivere con le palle in mano.
La Psicologa si rese conto, strappandosi i capelli di medusa, che
la figlia era una donna e ce la mise tutta per farla regredire fin
dove fosse stato possibile. L’arma migliore era costituita dal farle
credere che il riportarla indietro fosse stato il più grande desiderio del babbo: il Giornalista lo capì dal sentir ripetere alla moglie,
con ossessiva cadenza « Il babbo ha vinto ».
E a nulla valsero le sue parole, ormai gurupeutizzate, con cui
cercò di spiegarle quanto fosse diversa la realtà.
« Tuo padre sperava soltanto di scoprire che fossero riusciti a
mettere al mondo almeno una donna, tra lui e suo fratello, e a
Dicembre, se lo avessi incontrato, avrebbe voluto questa conferma » ma la Segretaria, rimamminizzata e gurizzata, non ascoltava.
Lei ricadde nell’equivoco in cui era cresciuta: era il babbo il bigotto delle messe serali, il babbo che pretendeva un buon partito per lei, il babbo che comandava e disponeva tutto per tutti
in casa: la mamma/figlia aveva subito le stesse imposizioni che
avevano contribuito alla decisione della Segretaria di uscire dalla
sua casa. Una volta, una delle tante volte in cui, in quel terribile
Febbraio il Giornalista s’incazzava, lei pronunciò con tono molto basso alcune parole spezzettate, come faceva quando erano
importanti: « ... ma allora... se devo esser passata dal babbo... al
marito... coi soliti berci... ».
Tecnicamente studiato dal guru e pilotato dalla Psicologa, avvenne lo strappo con cui la banda gurupeutica ottenne la fiducia
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definitiva della sposa. Indebolita fisicamente e straziata spiritualmente, a un certo punto fu anche spinta a temere che avrebbe
potuto trovarsi abbandonata dal marito e respinta dalla madre.
E non fu più in grado di capire che il Giornalista l’amava di un
amore che non poteva essere messo in discussione da alcun accadimento. Forse, per la prima volta (*), lui non stava con una
segretaria, perché alla Segretaria voleva bene. Il giorno che aveva
fuso l’anima di Muriel nel corpo della sua sposa era riapparso il
doppio arcobaleno, che insieme avevano guardato, ma soltanto
lui aveva capito cosa significasse.
Muriel, su all’Alpe, gli aveva detto che la Segretaria “forse” gli
voleva bene, mentre la Monaca lo escludeva. Lui ancora non si
era fatto una convinzione, ma era ovvio che a volersi bene bisognava essere in due.
Una mattina, mentre ancora la Mantenuta dormiva, il Mantenuto, acceso il computer, si sorprese di veder comparire nella cronologia di Google la voce “Donne che amano troppo”. Perché
lei era andata a viaggiare in questa categoria di supposte donne?
La Segretaria non era da Paura di Volare della Jong e neanche
bisognosa dei consigli della Norwood, come lui non doveva cercare la propria identità nei Tropici di Henry Miller. Tutto questo
dipendeva dalla mammina e dal guruterapeuta?
C’era la mammina dietro questo “nuovo corso”. La Regina aveva
affrontato il problema, vedendolo molto serio questa volta: nessuna della famiglia aveva mai contratto il matrimonio (dove per
famiglia la donna intendeva sia quella del Commercialista che
l’altra dell’Editore, ossia la propria): la Cugina aveva sfruttato la
nottata con il carceriere per lasciare il fidanzato; la Monaca aveva
provocato il suicidio del quasi marito e tentato di togliersi la vita,
ma la maternità e il matrimonio erano stati sventati; la Segretaria
aveva smesso di fumare e, con la volontà, era riuscita a rinunciare a un grande amore.
Ora, però, la mammina si trovava di fronte al fatto che la figlia, non soltanto si era sposata, ma aveva agito superando ogni
barriera. Aveva definitivamente perduto il suo potere sulla gatta morta costruita e sorvegliata negli anni? Il solo pensiero la
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sconvolse, ma non si arrese. La sua bambina non poteva averla
abbandonata scegliendo quell’uomo con cui costruire una vita
autonoma: doveva essere soltanto una parentesi, doveva recuperarla a ogni costo. E la gattaiola perché rientrasse in casa fu studiata a tavolino con il notaio e l’amico guru. Lo stato di indigenza degli sposi, sconfinato in un reale problema di sostentamento,
fornì al terzetto una solida piattaforma su cui lavorare: l’animale
affamato non ha più difese.
Dal canto suo, anche lo sposo stava facendo quattro calcoli.
La Segretaria non aveva affatto spento se stessa nelle esigenze del Giornalista né pensava con la sua testa: era stata sempre
obiettiva e critica in ogni situazione. Erano giunti a capirsi al
volo, non attraverso la rinuncia di lei ai propri punti di vista, ma
sapendo ognuno dei due quel che riteneva di fare l’altro o l’altra
nelle diverse circostanze. Semmai era lui che sempre più spesso era riuscito a smussare certi spigoli del suo caratteraccio per
ascoltarla e riflettere. La stimava molto e questa stima era cresciuta e cresceva constatando l’autonomia critica della Segretaria, che ragionando portava a conclusioni sensate e positive. Che
cavolo c’entravano dunque quelle femmine che avevano paura
di amare troppo?
Era nel giusto la Monaca? L’eccesso di amor proprio, coltivato nella paura di un eccesso di amore esterno a se stessi, poteva averla ri-condotta alla sterilità emotiva delle gatte morte? Il
Giornalista lo rifiutava, ma dovette pensarci.
421
LXXII
Il Solito Golgota
Entrò la primavera anche il 21 Marzo 2013, sul calendario di
tutti, tranne in quello del Giornalista.
Nella situazione a dir poco di merda in cui si era venuto a trovare, gli giunse l’imprevisto voltafaccia di un altro legale.
A suo tempo era riuscito a riunire, in una sola causa e in una sola
denuncia, le vicende della banda del paese portando così i suoi
componenti di fronte al Giudice civile e al Magistrato penale. La
difesa era stata assunta da un’Avvocata, che sulla carta forniva
le garanzie di poter assistere il Giornalista nel modo migliore:
giovane, ma non giovanissima, ricca di famiglia, politicamente
impegnata con un partito che dell’Onestà faceva bandiera. Fu
così convincente che il Giornalista, a cui l’Avvocata l’aveva chiesto, le consentì di assisterlo anche in sede penale.
La causa andava a meraviglia e aveva sortito un primo esito positivo; altrettanto accadeva per la denuncia per cui, finalmente,
dopo anni di muro di gomma, chi di dovere si era mosso, svolgendo accurate indagini, di cui si ebbe notizia in tutta la piccola
comunità.
L’anima del giocatore, che era nel Giornalista, sentiva di essere
giunto ai colpi conclusivi, al termine di quell’ultimo pastone che
conta. E, una volta tanto, aveva allentato la tensione che impone
a chi ha vissuto sui tavoli verdi di tenere sempre un occhio puntato sul possibile baro. Errore gravissimo. L’Avvocata, sul punto
di sferrare il colpo alla ghenga del paese, fu richiamata all’ordine:
lei, se oggi poteva agghindarsi Miu Miu e farsi comprimere le
grosse tette da chi se la trombava a pecorina, lo doveva a maschietti calzati Hogan e Tod’s. Lei non apparteneva alla classe dei
matti, ma dei ricchi perbene timorati di Dio.
I corridoi si sostituirono alle aule del Tribunale e i panni del
Giornalista vennero giocati a dadi, sul solito Golgota.
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Due anni prima, a tradimento caldo, il Giornalista e la Segretaria
si erano impegnati a documentare il fattaccio. Erano riusciti a
costituire un fascicolo con cui la colpa grave del difensore era
provata capillarmente, ponendola nella cornice di un patrocinio
infedele. Poi, il Giornalista aveva redatto sia la denuncia che la
citazione dell’Avvocata per risarcimento dei danni. La denuncia
se l’erano tenuta, di scorta, nel cassetto e la citazione - erano
sposati da poco - l’avevano affidata a un Avvocato famoso per
non guardare in faccia che alla Legge, lontano da logge e lobby
di ogni genere. Ma anche questo fu chiamato a Villa Emma e gli
venne ricordato che se avesse voluto continuare ad afferrar tette
o essere afferrato, secondo i suoi gusti, doveva dimostrare di essere perbene e timorato di Dio. Così, il grande legale rientrò nel
proprio branco e i dadi furono lanciati di nuovo.
Mala novela pe le pecore quando el pastore è dacordo co lupo, è scritto
sul cartiglio d’un piatto umbro, esposto al Victoria and Albert
Museum a Londra. Vecchia storia, lunari vecchi, lunari nuovi,
lunari eterni.
423
LXXIII
Il Re di Nemi
Nella situazione in cui erano, gli sposi - forse fu l’effetto del
solstizio di primavera - ebbero una tregua. Tornarono alle biblioteche di casa e alla piazzemezzo.
« Ho trovato uno scatolone pieno di cassette e tanti rotoli di carta millimetrata che riguardano il biliardo - gli disse la sposa - Per
te non è un passatempo »
« A ognuno il suo mestiere, quello del tempo è di scorrere come
l’acqua del fiume e lo sa bene la mia filosofa - le disse abbracciandola - Il nostro è di impiegarlo. Le cassette riguardano le
partite più famose e sulla carta millimetrata ho studiato nuovi
tiri... il biliardo è una macchina cartesiana »
« Ci sono anche delle palle con tanti segni fatti col pennarello... »
« Quelli indicano le posizioni per colpirle con i vari tipi di effetto... stavo scrivendoci un libro... »
« Hai scritto su tutto ... »
« Gli scribacchini sono fatti così... ho anche scritto, come fanno
tutti gli scribacchini, un libro sui libri che avrei voluto e voglio
scrivere e a ognuno ho accostato un scheda con un sintetico
accenno al contenuto e allo svolgimento »
Intanto erano giunti nel corridoio, davanti alla vetrina/trumeau
dove lei aveva raccolto parte del materiale sull’aviazione.
« Sono stata sul punto di chiedertelo più volte - gli disse - Quello
scatolone lassù con scritto “ IMPRESA BIPLANA” che cos’è?
È sigillato, ma sopra ha un foglietto stampato con questa frase,
tradotta in tutte le lingue, Avete scritto sulle sigarette che il fumo uccide.
Ora scrivetelo sui cannoni e accanto c’è una sacca di nylon piena di
questi fogli in carta leggerissima.
« Roba vecchia... un’impresa mancata... era il 1995 e dovevamo
volare, con il Pitts biplano di Aldo, su Dubrovnik il giorno di
Natale... e lanciare quei manifestini... »
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« Il Pitts è quello del poster che è di là ed è riprodotto sul tuo
brevetto acrobatico? » lo interruppe.
« Sì... c’era la guerra nel ’95... la solita dei petrolieri contro i più
disgraziati, la guerra per distruggere per poter ricostruire e rubare: il sogno dei grossi cementicoli »
« E che volevate fare? »
« Niente, volare sulla nostra Ragusa per dire ai generali che
eravamo lì disarmati a consigliar di scrivere sui cannoni che il
loro fumo uccide... quando era tutto pronto, dopo una grande
preparazione, la guerra finì... a noi personalmente andò male:
ci avrebbero probabilmente abbattuti, ma... hai mai visto quel
film, Il Temerario? Anche io e Aldo credevamo che questo tipo di
mondo non facesse più per noi... » e il Giornalista si fece molto
scuro, pensoso, e si mise a sfogliare il primo libro che gli capitò
sotto mano.
« Ma dove hai scovato questo libriccino rosso di Hoepli, L’aeroplano? Mi riporta ai miei nove, dieci anni, quando iniziai a fare l’aeromodellista. Poi vicino, perfida che sei, mi ci metti il manuale
del Siai S.F. 260. Ci sono due secoli di vita tra questi due libri... »
« I secoli per te sono tempi brevissimi... »
« Pigliami, pigliami in giro, cattiva che non sei altro... mi fai sentire troppi anni... »
« Li hai, questi anni, e non li devi nascondere... a proposito, perché ti tingi i capelli? »
« “E giunse il tempo dei denti finti e dei capelli tinti”, dice Gozzano. Ma i suoi rimpianti e l’orrida vecchiezza di cui parla non so
che siano... altri mondi e calendari diversi»
« Ma allora perché te li tingi? »
« L’hai visto quel libro di Frazer, Il Ramo D’oro? Dai, prendilo... »
La sposa tornò dopo poco con i due volumi di Boringhieri, trovando lo sposo sdraiato sulla piazzemezzo. Gli si mise accanto:
« Allora? » gli fece.
« Apri e leggi sul bosco sacro e sul Re di Nemi »
« Sì, ma io vorrei vederti la folta criniera - e rise di gusto - tutta
bianca »
« Per esaudirti dovrei tingermeli lo stesso, perché gran parte dei
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miei capelli sono ancora neri, a dispetto dell’anagrafe... comunque, il Re di Nemi poteva restare sul trono finché avesse dimostrato d’essere il più forte. Ogni nuovo aspirante lo spiava
per cogliere i segni del declino, pronto a saltargli addosso, e lui
doveva nascondere quei segni con cura... »
« Ma tu non sei il Re di Nemi... »
« Se mi fossi sentito appena anziano, non sarei neanche salito
sul terrazzino verde, tra vigne e olivi, quella sera con te. Faccio
acrobazia, gioco a biliardo e posso sedere al tavolo di Chemin
de Fer; combatto battaglie che non hanno età. Dice Slanda: “chi
vince, se fanno una corsa, tra la più vecchia delle Ferrari e una
Cinquecento nuova di zecca?” »
« Ma tu puoi combattere anche con i capelli bianchi »
« La barba la lascio bianca perché chi la osserva mi sta davanti,
ma a quelli dietro non voglio permettere di prendermi le misure
contando i miei capelli bianchi »
Lei si mise a sedere sul letto, comprimendosi un orecchio.
« Che hai? - le chiese - Ti fa male? »
« Sì, devo aver preso un po’ di fresco, ieri… quando siamo usciti
tirava vento... »
« Aspetta, ora ti guarisco » e dopo pochi minuti tornò con uno
di quei piccoli recipienti di coccio che usavano per il pinzimonio.
Le porse un batuffolo di cotone:
« Mettilo nell’orecchio, dopo averlo intinto qui »
« Cos’è? »
« Un rimedio antico: semplice olio caldo »
« Grazie, ma un’altra volta me lo preparo da sola... »
« Come sarebbe a dire? Tu sei una cosa preziosa per me, io curo
il mio orecchio... è il minimo che posso fare per chi conta le mie
apnee notturne, mi è sempre accanto e mi accudisce come un
principe... »
« Come il mio re, per essere principe sei troppo in là con gli
anni... »
« Brutta sfacciata. Mi hai dato del vecchio se non ho capito male,
o sbaglio?... »
« Ho detto solo che i principi sono più giovani, ma neanche io
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ho più l’età per essere principessa... »
« Eppure tua madre fa la principessa sul pisello e a te vorrebbe
dare la parte della signorina Tumistufi... ».
La sposa scese dal letto tenendosi il batuffolo nell’orecchio e
bofonchiò qualcosa che, per fortuna, lui non sentì.
Lo sposo saltò dal letto e ce la riportò.
« Non ti devi offendere. Come potrei offendere la mia massaia, cuoca, muratore, sarta, parrucchiera, bibliotecaria, segretaria,
balia... tutto? … Lo sai che mi hai curato la barba meglio di
qualsiasi barbiere? »
« È il bisogno, caro mio... »
« No, è l’autarchia dell’amore che hai portato in questa casa, l’amore con cui hai costruito casa nostra... poi il grattino quando
sono nervoso e non riesco a prendere sonno, il massaggio alle
mani quando mi prende il crampo dello scrittore, il massaggio ai
piedi con la pressione dovuta nei punti stabiliti... »
« Chissà quante altre te le avranno fatte queste cose... io non
conoscevo né la riflessologia né lo Shiatsu... sono libri che ho
trovato nella casa dell’orco... »
Allora lui si mise in piedi sul letto, s’inarcò alzando le braccia
e curvandole come le staggie di un ombrello aperto, emise un
suono rauco sguaiato:
« Sono l’orco e ti mangiooo ».
E si rotolarono, abbracciandosi e baciandosi.
427
LXXIV
Ragnatele Cinesi
Nell’ora d’aria, gli sposi si concessero un caffè, ma lo fecero soltanto con lo scopo di leggere i giornali. Su internet avevano già
navigato e letto notizia del giorno.
La grande ragnatela del Palazzinaro stava venendo allo scoperto
e i giornali distinguevano tra la sua cupola, di aristocratico malaffare - scrivevano quasi tutti, partendo da un comunicato Ansa
- e la ragnatela sottostante, commerciale, di bassa e conosciuta
lega, che l’Ucraino avrebbe ricavato alle spalle del capo, il quale
difatti lo aveva fatto mettere, cencioso e seminudo cadavere, in
Piazza Colonna. Nessuno, ovviamente, poteva nominarlo come
mandante, ma che l’Ucraino fosse stato giustiziato dal grande
capo era ormai sottinteso, specie dopo queste ultime rivelazioni.
Leggendo i quotidiani, al Giornalista sembrava che gli articolisti
avessero nelle mani quei DVD su cui aveva lavorato e discusso
con l’Editore. Le novità erano molteplici, in barba al segreto
istruttorio, la cui violazione sembrava diventata lo sport preferito dei pubblicisti.
Riguardo alla ragnatela primaria, si trattava di oleodotti e gasdotti, in uso e da costruire, ma a questi – ed ecco la vera novità – si
aggiungeva e si associava una rete di fibre ottiche, adatte a captare segnali multimediali nella terra di nessuno, anche a profondità
notevoli, nei mari di tutto il mondo.
Furono evocati particolari software, come l’americano Prysm e
l’inglese Tempora, con cui, quando i segnali transitavano in acque
internazionali, sarebbero stati analizzati semanticamente e tradotti in chiaro. Si trattava di un’operazione “Grande Orecchio”
per spiare il mondo intero. A parte i grandi segreti, politici e militari, che sono stati sempre spiati, i giornali mettevano in risalto
la violazione dei protocolli di sicurezza di aziende, banche e milioni di privati. Qualcuno suggeriva che la complessa macchina,
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afferente al Cantiere fosse, anziché in mano alla solita America a
stelle e strisce, alle potenze dell’Est e, in particolare, alla Russia.
Per sostenere questa tesi un giornalista tedesco aveva ricostruito
una biografia essenziale del Palazzinaro.
Partigiano quindicenne nel Quarantaquattro, aveva avuto contatti con un ufficiale russo, fatto prigioniero dai tedeschi, evaso
da un campo di concentramento e rifugiato in Valtellina. Il russo, nel Maggio del Quarantacinque, prima lo aveva condotto a
Berlino e poi in Polonia dove il Palazzinaro era rimasto un anno.
Da lì era andato a Mosca. Rientrato in Italia nel Quarantanove,
appena ventenne, dopo poco si era sposato con un donna ucraina, ventottenne, che era giunta in Italia con lui. Gli era nato un
figlio, e intanto lui aveva iniziato a fare l’impresario edile, sviluppando la propria attività rapidamente. La moglie, che conservava
il doppio passaporto e aveva mantenuto la propria nazionalità,
faceva la spola con casa sua, situata in un sobborgo di Kiev, giustificando quei viaggi oltre cortina col fatto che la madre stava
male.
Nel Sessantasette, l’ucraina diede una figlia al Palazzinaro, che
sarebbe divenuta l’Architetta. La donna scomparve tre anni
dopo in uno strano incidente, all’imbocco dell’autostrada che da
San Pietroburgo porta a Mosca.
Il Palazzinaro non partecipò neanche al funerale, mentre il figlio
allora diciannovenne (che più tardi sarebbe morto in Africa) non
ebbe il visto e soltanto molti anni dopo si sarebbe recato a Kiev
per deporre un fiore sulla tomba della madre, che però non riuscì a trovare. I nonni erano morti e rimanevano dei parenti che
in pratica non seppero dargli alcun aiuto. L’unico, che allora era
piccolo ma che riemerse da quella gente, sarebbe stato l’Ucraino.
Il giornalista tedesco, autore del lungo servizio, poneva tutta una
serie di circostanze, legate al Palazzinaro e alla moglie, alla base
della matrice sovietica del Cantiere.
I giornalisti italiani dilatarono l’ipotesi, arrivando a parlare del
piano Mitrokhin, che l’Unione Sovietica aveva messo a punto, ai
tempi in cui nacque la Guerra Fredda, per sostenere una possibile rivoluzione comunista in Italia. Di contro rifecero la storia
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di Gladio, che sarebbe stato il piano anti Mitrokhin; insieme,
nel calderone del mistero, inserirono i numerosi, supposti o reali piani che, tra gli anni Sessanta e Settanta, la destra avrebbe
promosso per fare un Colpo di Stato. Parlarono della Rosa dei
Venti e di Valerio Giunio Borghese, fino alla più recente famosa circolare del Colonnello dei Carabinieri, che allertava l’Arma,
eccetera, eccetera.
Terminata la storia dei misteri italiani, tanto cara a certi giornalisti, la lente era stata messa sul livello, o meglio sui livelli sottostanti al Palazzinaro, dove si era ricavato un grosso giro l’Ucraino: armi, droga, prostituzione, usura, affarismo in genere,
usando ogni tecnica di ricatto, di estorsione e di corruzione.
Sembrava evidente che, mentre il Palazzinaro era da considerare
come pedina non secondaria di una partita di potere ai massimi
livelli, giocata sopra la testa dei vari popoli, l’Ucraino doveva
scendere a compromessi con tutte le mafie esistenti sui diversi
territori, con lobby di natura e potenziale diversi. E a tale scopo
aveva finanziato l’ascesa economica di tanti piazzisti, molti già
associati ai cementicoli e agli usurai, che restavano le attività più
diffuse ovunque.
L’Ucraino, vivendo a sandwich tra i due livelli, aveva sfruttato
conoscenze e possibilità creditizie enormi; si era costruito una
multinazionale del crimine, alla cui gestione, lui, direttamente
appariva estraneo. Passava per incassare, tenendo in piedi un
esercito di professionisti del ben conosciuto tipo mafioso, che in
definitiva erano killer da usare per ogni iniziativa intimidatoria,
distruttiva di cose e persone, indifferentemente. Era un estortore nato.
« Parlano de I Tre Poli in questo articolo - gli fece la Segretaria Dicono che sei stato tu ad attirare l’attenzione sul Cantiere e che
da lì è partito tutto... »
« Balle... Sì, il libro qualcosa avrà fatto, ma sono i DVD che
hanno trovato a... » e si fermò… non voleva parlare dell’Editore.
« Sai, ora ci sarebbe da scrivere Le Ragnatele Cinesi su questi sistemi di corruzione l’uno dentro l’altro... ».
In serata gli giunse la telefonata della madre di Muriel:
430
« Ho letto il tuo libro da un po’, con difficoltà perché il mio italiano è pessimo, ma credevo di averne capito l’importanza. Ora
me lo confermano i giornali: Le Monde cita I Tre Poli dicendo
che ha dato fuoco alla miccia di questo scandalo internazionale.
Complimenti... »
« Grazie, ma io per la faccenda dello spionaggio e delle intercettazioni non ho fatto niente, semmai... »
« Muriel sarebbe stata fiera ... »
« Portale una rosa anche per me, purtroppo sono molto indaffarato qui e non posso muovermi »
« Non dimenticarti che noi ci siamo e per qualsiasi bisogno...
non avere riguardo »
« Stai tranquilla... ».
La Segretaria avvertì che quella conversazione in francese, che
le arrivò a tratti da un’altra stanza, aveva qualcosa di particolare,
ma non gli chiese niente, come era accaduto un’altra volta.
Era impossibile per il Giornalista, stanti le loro condizioni, non
essere sfiorato dal pensiero di ricorrere ai genitori di Muriel, anche informandoli del suo matrimonio. Avrebbe avuto bisogno,
oltre che di un aiuto economico, di parlare di tutto. Ma rimase
come una proiezione inconscia che non valutò mai a livello razionale.
431
LXXV
Pasqua 2013
Domenica 31 Marzo era Pasqua. Il sabato, il Giornalista e la Segretaria erano andati al podere a prendere un galletto mugellese
che la signora aveva spennato, preparandolo per loro. Mentre
camminavano furono occupati a fare previsioni sul costo del
pollo. In cassa avevano quattordici euri e novanta, vecchie ventisettemila lire, disse lui: non poteva costare di più.
Spesero otto euri. Si presero per mano e si sorrisero, facendo i
conti: potevano permettersi un caffè e sarebbero rimasti i soldi
per le sigarette. Bastò questo per rallegrare la loro mattinata.
La gente aveva avuto il tempo per mettere la coppia tra le immagini quotidiane e ormai potevano sedersi al bar, a leggere e conversare, senza quella sensazione di voltare lo sguardo e incontrarne dieci. Una pausa nella tensione, che il lavoro demolitorio
della Segretaria aveva instaurato, ci fu anche in casa. Il Giornalista sapeva di essere sotto esame, ma niente ancora era deciso e
andavano avanti con alti e bassi, senza che lui alzasse un dito per
difendersi. Il guaio era che lui peggiorava il clima instabile in cui
vivevano, urlando e bestemmiando per un nonnulla.
Passarono il pomeriggio al computer. Misero a posto tutto il
lavoro svolto su internet, poi lei passò a rassettare la casa, sistemando infine le ultime due cassette dei fruttivendoli sudamericani, ordinandovi plichi di documenti suddivisi con opportune
schede. Dopo cena, la sposa tornò al computer per seguitare il
lavoro di schedatura del vasto e variegato archivio fotografico.
Il giorno di Pasqua cominciò presto, accendendo il fuoco e preparando un marchingegno per adattare il girarrosto elettrico. Era
del ristorante e serviva un tempo alla madre di lui per far girare quattro grossi spiedi nel grande camino; ma lo sposo voleva
completare le diverse tecniche di cottura che gli sposi avevano
usato e in qualche modo sistemò l’attrezzo. Gli stettero intorno
432
per quattro ore, curando il galletto che girava lentissimo sopra
la ghiotta e il tegame delle patate, bagnandolo d’olio con un rametto di rosmarino.
Lei aveva assodato un uovo d’oca, ricevuto in dono insieme ai
dolci dalla Geometra. Lo tagliò a fette sottili che dispose sul vassoio di porcellana Ginori, ereditato dallo zio prete. Venne fuori
un pranzo apprezzato dal palato e di alto valore estetico. Gli
dedicarono un servizio fotografico in cui, nonostante l’andazzo
preso dai loro rapporti, l’autoscatto ebbe ancora gran parte.
In serata arrivarono le nuvole. Lo sposo se ne stava in poltrona,
non spaparacchiato ma di traverso, facendo dondolare le gambe
che ciondolavano dal bracciolo. Pensava a chi, dei tre sostenitori,
avrebbe chiesto il prossimo prestito, l’indomani.
Fece per prendere una sigaretta, ma il pacchetto era vuoto. Lo
ciancicò con la mano, lo gettò a casaccio e, alzandosi di scatto,
tirò due moccoli. Lei rimase in cucina e lui si diresse verso la
stanza del computer per cercare cartine e tabacco.
Era passato del tempo e lo sentì inveire a voce spiegata.
« Ti sentono dalla strada » gli disse sopraggiungendo nella stanza
del computer.
« E chi se ne frega... per quel che valgono questi grandissimi
bastardi... »
« Calmati, vedrai che troverai il modo... »
« Brava... finalmente cominci a parlare... “troverai”, hai detto, e
non più “troveremo”... stai passando dalla loro parte? Dimmelo
sul muso »
« Che c’entra? Io... »
« C’entra, c’entra eccome... decidiamolo insieme, il modo di risolvere il nostro problema. L’unica per te è andartene in città e
concludere gli studi a cui ha sempre tenuto l’Editore. Qui fai la
fame e non risolvi niente »
« Allora perché ci saremmo messi insieme? »
« Anche per questo: t’ho detto più volte che saremmo andati
all’università per riprendere contatto, poi ti avrei dato una mano
a preparare la tesi »
« Ora, senza il babbo, non ha più senso... »
433
« Non è affatto vero »
« A parte questo ... e le tue cose? »
« Non ti ricordi di Nuvolari? Ti ho raccontato del suo meccanico
che gli stava a fianco nelle Mille Miglia, perché allora correvano
così. Ad ogni curva Nuvolari diceva “Non ci si fa, non ce la
facciamo” e imprecava tenendo giù il piede sull’acceleratore. E
così per mille miglia e quattordici, quindici ore filate. Ma lui era
Nuvolari e quello era il suo meccanico. Io non sono Nuvolari e
perché dovresti stringere i denti e stringere le chiappe ogni giorno senza nemmeno vincere la Mille Miglia? »
« Ma tu hai già vinto diverse gare. L’ultima è quella col Palazzinaro, la vicenda è iniziata col tuo libro I Tre Poli, lo stanno
scrivendo tutti »
« Sai, negli anni Venti a Parigi c’erano circa trentamila artisti e la
maggior parte viveva di debiti, dicendo alle pazienti compagne e
ai creditori “Quando sarò famoso... ”. Su trentamila forse trenta
divennero famosi. I quadri si possono vendere, forse anche i
romanzi, ma i poeti e i rompicoglioni come me più sono conosciuti e più fanno la fame. E inoltre quei pittori erano giovincelli
e io... »
« Quindi, è uno sbaglio stare con te... »
« È una bega. Per una donna è una scelta estrema, lo può fare se
è veramente nauseata del pizzepompini settimanale e cerca rogna, quella vera... forse per un giocatore occorre una giocatrice,
ma prima ancora occorre che la donna abbia capito il significato
e il senso del gioco... e occorre una donna che sa amare troppo
e che vuole amare più di troppo... per giungere a voler bene...
occorre una Muriel »
« Chi è Muriel? »
« Te ne avrei voluto parlare, ma ora fermiamoci a Nuvolari e ai
pittori degli anni Venti... Muriel è un Modello »
« E io che dovrei fare? »
« Stare con me soltanto se non ne puoi fare a meno, ma sento
che sei sulla buona strada per... Ricordi quanto t’ho detto a Natale? Scriverò un romanzo, avrò i soldi per comprare almeno
il pane e potremo tornare insieme. E io dovrò tornare con te,
434
anche perché sono in debito: hai fatto la fame con molto stile, ti
ho stimata e ammirata »
« Io sono innamorata di te... »
« Ma forse non mi vuoi bene... »
« Vuoi la vita delle persone »
« Io non voglio niente. Prima del’uragano demagogico dei diritti,
non soltanto quelli della donna, ma del revanscismo di ognuno,
esistevano persone che scommettevano sulle altre, senza complessi. Oggi, per un distorto concetto di uguaglianza, piuttosto
che condividere la realizzazione di un sogno, ognuno preferisce
vivere i propri fallimenti. E il risultato si vede, a partire dal nucleo familiare fino allo Stato. La mediocrità in cui le persone modeste vogliono trascinare il mondo ci sta riducendo a una società
di topi, di cui però non possediamo né il formidabile istinto né
tantomeno la capacità di aggregazione ».
Fine comizio, le disse, suggerendo di andare a letto. La prese per
mano e si diressero verso la piazzemezzo, dove lei però, al posto
del risicato cuscino, che chiamava “matrimoniale” (nonostante
l’insistenza del Giornalista, lei non ne aveva mai voluto mettere
un altro), aveva piazzato un enorme guanciale rosso: per via del
male all’orecchio, sosteneva, che migliorava stando sollevata.
435
LXXVI
La Gattabuia
Corse voce che avessero arrestato l’Erbivendolo, ma era il primo
di Aprile e bisognava fare la tara a ogni cosa, specie alle buone
notizie. Però, la sera stessa, l’annuncio comparve su internet e il
giorno dopo ebbe ampio spazio sui giornali.
L’arrestato era stato messo a confronto con la Cuginetta, che l’aveva riconosciuto come la persona vista in città, mentre parlava
con l’Ucraino sotto le finestre della casa dei piaceri.
A botta calda l’Erbivendolo negò tutto, compreso di aver conosciuto l’Ucraino. Poi, consigliato dai suoi due aguzzi avvocati, di
fronte a fatti innegabili che gli venivano puntualmente contestati, si avvalse della facoltà di non rispondere.
In paese il Cementicolo e il farmacista si tapparono in casa, dato
che le voci galoppanti davano per certo un filone di indagini,
non soltanto rivolto agli abusi edilizi, ma a un giro di usura, in
cui il terzetto era dentro fino al collo. L’Erbivendolo era un personaggio molto noto nelle Marche, dove possedeva due fabbriche, una delle quali, più che altro, gli serviva da deposito per la
raccolta dei prodotti, mentre l’altra era adibita alla la lavorazione
e la confezione. Aveva centinaia di dipendenti e la sua mercanzia
era conosciuta in Italia e all’estero.
Il padre, un volenteroso artigiano, era stato premiato dalle leggi mussoliniane per la sua fertile attività procreativa, ma il suo
lavoro e i premi gli consentivano di mandare appena avanti la
famiglia con aringhe, fagioli e cipolla. Il figlio quando si sposò
ebbe un vestito dignitoso grazie alla zia della moglie, che fu munifica con entrambi. Più avanti lui si diede a commerciare col
pesce, tanto che al mercato di Senigallia era divenuto un mezzo
boss. E sarebbe stato un grande pescivendolo, di cui aveva innegabilmente la stoffa, se l’incontro con l’Ucraino non l’avesse
orientato verso traguardi più ambiziosi.
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Dopo questo incontro, l’Erbivendolo potenziò l’attività nel settore delle erbe, che aveva già iniziato da qualche tempo, adatta
a motivare certe sue importazioni e frequentazioni di località
straniere. Sarebbero venuti a scoprire, ad esempio, che l’Erbivendolo possedeva una villa in Grecia, a Kastoria, non lontano
dal confine con l’Albania, dove si recava periodicamente per incontrarsi con il boss di Lazarat, il paesino di tremilacinquecento
abitanti, famoso poiché vivono (e muoiono: frequenti ricoveri
con vomito, diarrea e problemi cardiocircolatori) con la coltivazione della cannabis. La gran parte della droga veniva smerciata
in Italia e in Ispagna (finché il “... purché se magna” resterà di
moda conserveremo il culto dell’eufonia: accademici dei miei...)
e i capitali ripuliti con la costruzione di centri commerciali, supermercati, e di edificazioni abusive in generale. Il mercato del
cemento, una specie di indotto indispensabile a quello della droga, era gestito (con la benedizione dei diversi erbivendoli) dai
cementicoli, casta sottostante a quella dei palazzinari.
I nostri due (im)prenditori locali, Erbivendolo e Cementicolo,
erano particolarmente radicati nel territorio, siccome la loro
mentalità, benché arrivati a disporre di un considerevole patrimonio, rimaneva provinciale e, nel caso dell’Erbivendolo, strapaesana. Infatti si era costruito in loco un piccolo impero: fatto di media, finanziarie (e quant’altro, dicono i politicanti) sul
modello di un famoso Idolo nazionale, che ogni imprenditore
invidiava e seguiva pedissequamente.
L’Erbivendolo non perdeva occasione per fare il padrino. A tale
scopo violava o forzava le leggi quotidianamente pur di dimostrare il proprio potere, agendo su persone come gli amministratori, le guardie comunali, tecnici e professionisti di ogni settore
che, per vivere, non andavano di certo a scontrarsi con lui, ma
cercavano di tenerselo buono. Prescindendo dalla testimonianza della Cuginetta su quell’incontro così compromettente, il suo
abituale delinquere non fu l’ultima delle ragioni per cui, una
volta messo al gabbio, gli contarono anche i peli del culo e gli
montarono addosso tutti. Non solo i magistrati amici, le lobby
a cui era collaterale, i professionisti, ma addirittura i cronisti lo437
cali scaricarono il loro modesto veleno sul poveretto. Gli amministratori del Comune, invece, alcuni dei quali furono inquisiti,
si limitarono a scovare nei cassetti quelle pochissime carte che
dimostravano un diniego a richieste avanzate dall’Erbivendolo.
438
LXXVII
Ricciolo
Ricciolo telefonò al Giornalista e s’incontrarono al bar.
« Ti devo fare un’ambasciata. Sono stato a trovare Slanda e mi ha
chiesto di salutarti; “pagagli da bere anche per me”, ha aggiunto,
“Alla fine il Giornalista li ha mandati tutti in gattabuia, dai pescicani alle lasche” »
« Perché non è venuto lui? »
« Esce poco, dice che deve fare i conti, l’inventario della sua vita.
“Avrei tanto da parlare col Giornalista”, mi ha detto, “ho due
figli che non vedo quasi mai, ma il figlio che m’è venuto bene è
lui... ma tanto io e lui ci siamo capiti, salutamelo” e così ha liquidato anche me »
« Tu come te la passi, Ricciolo? »
« Si rimane soli, scompaiono tutti gli amici... »
« Ti riferisci all’Editore? »
« Non avevo il coraggio di nominarlo, per te non era soltanto un
amico... »
« Era prima di tutto un amico, e mi manca »
« Mi ricordo quella sera a cena in giardino quando hai strizzato
i coglioni a quel mezzo fascista di notaio, credevo gli dessi un
labbrone... e l’Editore è intervenuto pronto, me lo ricordo come
fosse adesso: il notaio disse che col tuo libro avresti avuto dei
guai giudiziari e l’Editore gli rispose che nel caso ci fossero stati
“ ... li affronteremo”; ti stimava e ammirava »
« Lo so... »
« Non è giusto che non vi siate riparlati. Ne diceva di palle e di
becco contro di te, che eri un delinquente, un traditore, un ladro
perché gli avevi rubato la figliola, quando c’era tua suocera... scusa, forse non vuoi che la chiami così... »
« Per la Legge è così ma prosegui, mi stillavo di parlarne con te...
sapessi quante ne ho dette io di lui in casa ... »
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« Ma quando eravamo soli diceva che eri matto come una capra,
che eri un incosciente, uno svitato e che sua figlia era una scema:
“ecco perché stanno insieme a fare la fame”, mi spiegava. Mai
un insulto, eri il meglio anche per lui... Non è giusto, Padreterno,
che non vi siate riparlati. Sareste tornati più amici di prima, voi
due »
« Non sai quanto mi fa piacere che tu lo pensi... è un rimorso che
non mi dà tregua... dovevo cercarlo io... »
« Giornalista, non ti guastare. Sono in più di quanto pensi a crederti nel giusto, anche in questa scelta di sposarti una donna
molto giovane... che fine diverso potevi avere dal voler stare con
chi ami? È questo che in fondo pensava anche l’Editore. Non si
può condannare chi agisce senza un secondo fine, specialmente
in questo cavolo di società ».
« Ma ci pensi che è tornato l’altro giorno il nostro vecchio amico
che abita a Parigi…»
« Si, l’ho incontrato »
«…è andato al cimitero a trovare i suoi morti… ci ha trovato
là un altro che sta sempre qui in paese (uno degli amici più…
antichi che ho o avevo) e che gli ha detto per prima cosa? Non
come stai, ma “Il Giornalista è alla fame, ha finito i soldi a quella
disgraziata che l’ha sposato tanto che è dovuta tornare da sua
madre”.
Non sanno che dire… »
« Mi dispiace per mia moglie… i più velenosi tentano perfino
di vedere nella sua scelta una fragilità mentale: credimi, è una
donna straordinaria… semmai scema quanto tutte quelle che si
confondono con me » disse il Giornalista ridendo.
« Non sanno che dire… e poi non gli è mai stato bene che tu
esistessi… sei scomodo… misurandosi col tuo metro sarebbero
già in quelle tombe da tempo… dire che sei in difficoltà li fa
sentire meno zero di quanto sono… »
« Va bene Ricciolo… risaliremo… saluta Slanda».
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LXXVIII
Il Guanciale Rosso
Quando spegnevano il computer e decidevano di coricarsi, la
sposa controllava che i fornelli non fossero rimasti accesi (qualche volta si rialzava dal letto), che il fuoco fosse coperto; che le
patate e le cipolle fossero ben sistemate sotto la cenere. Poi si
infilava nella piazzemezzo cominciando a chiamarlo, con il phon
pronto:
« Quando vieni? È troppo grande per me questo letto ». A un
certo punto lui vedeva abbassarsi la luce, mentre saliva il rombo
di quell’attrezzo che lei spingeva fino a due kilowatt.
« Guarda che fai scattare il salvavita, tocca andare a riattaccarlo
giù nell’entrata. Si abbassa la luce come nei film quando attivano
la sedia elettrica... »
« Ti ci metto io sulla sedia elettrica se non vieni qua subito... »
« La mia Ziziphon... devo stare un momento fermo, disteso,
deve sgonfiarsi il budello » diceva, appena giunto a letto, quando
aveva mangiato troppi fagioli o era stato troppo seduto. Succedeva ogni tanto che il budello si intignasse, e doveva faticare
perché la parete prolassata, che produceva un piccolo gonfiore
all’inguine, tornasse normale. E il problema consisteva nel farlo senza emissioni di aria e odori sgradevoli. Lei gli diceva che
non doveva scoppiare per essere educato, loro erano ormai un
tutt’uno e niente poteva disturbarli. Ma lui, anche nei periodi
in cui, per tante ragioni, dovettero tenersi lo stesso pigiama e
furono costretti a lavarsi al minimo, riuscì a imporre una ferrea
consegna al budello difettoso, che non si permise mai di essere
screanzato.
Tra la fine di Marzo e i primi di Aprile il rituale cambiò. Quando
lo sposo arrivava in camera lei era a sedere sul letto, appoggiata
all’enorme guanciale rosso, che lui non sapeva rintracciare di chi
fosse: l’unico che ne avrebbe avuto bisogno era lo zio Pietro,
441
volontario sul Carso che gli aveva regalato un principio di congelamento e l’asma. Ma era morto nel 1962.
Una sera la trovò con Gli aforismi di Sherlock Holmes che Conan
Doyle come tale non aveva messo in bocca alla sua creatura,
ma, con un po’ di fantasia, erano state raccolte le frasi aforistiche del famoso poliziotto e del suo sancho Watson, e riunite in
volumetto.
« Ma che leggi? »
« Un libro dei tuoi... »
« Credo di averlo leggiucchiato qua e là, però non mi ha sicuramente attratto »
« Strano, tu non fai lo stesso mestiere, trasposto nel campo
dell’arte? »
« Beh, sì... »
« Mi hai spiegato più volte che l’indagine che svolgi per arrivare all’attribuzione e ancor meglio per stabilire se un oggetto è
originale o falso è simile a quella del giudice, del medico e del
poliziotto... ho capito bene? »
« Sì, il medico studia dei segni, analizza dei sintomi...; il poliziotto rileva delle impronte, esegue delle analisi...; il giudice fa la sua
istruttoria...; il medico deve dire se il soggetto è sano o malato, il
poliziotto se ha commesso un fatto o meno, il giudice se è colpevole o innocente. Diagnosi e prognosi, semiologia e semeiotica,
sì, con le dovute distinzioni... però non sei lontana dal vero... ».
Il Giornalista, mentre lei seduta continuava a leggere, si girò sul
fianco riflettendo sul fatto che la sposa non si metteva più a
motocicletta con lui per dormire, come accadeva fino a qualche
tempo prima. Doveva chiederglielo e comunque, al mattino, la
trovava girata dall’altra parte.
La sposa era gurupeuticamente impegnata a svolgere la propria
indagine per proseguire nella demolizione dello sposo e a prenderne le distanze. Lui era molto preoccupato perché la vedeva
sempre più magra, assorta e pensierosa, anche se continuava a
mandare avanti ogni cosa senza lamentarsi di niente.
Le chiamate della madre si erano infittite e lei doveva uscire per
accompagnarla ora in un determinato ufficio o correre a casa
442
per sistemare una pratica che riguardava la casa editrice ed era
sempre urgente.
« Senti, tua madre è sveglia e capace - le disse una mattina - e
non c’è bisogno che tu le faccia da balia. Bisogna che si abitui a
sbrigarsele da sola, certe faccende. Inoltre sa che non è sola... »
« Io non posso rifiutarmi e poi mi fa piacere... »
« Non ne posso più di questa storia... dammi il tempo... per ora
non voglio vederla fin dove mi porta la vista... né tua madre né
altre della famiglia e degli amici e... » e lo disse urlando e sbraitando, infuriandosi.
La situazione stava precipitando. Lei andava avanti con il suo
antidepressivo, lui con le incazzature e le scenate crescenti. La
madre continuava a telefonare, tanto che lo sposo sentì crescere
a dismisura la presenza del guru in casa: era diventato il punto di
riferimento della sposa e di sua madre, che col terapeuta teneva
i contatti, direttamente e tramite l’amico notaio.
Gli avranno portato la copia delle lettere? Passò per la testa del
Giornalista. Avranno rintracciato la mia ex e ci saranno andati
a parlare?
Ma il sentirsi spiato era poca cosa a confronto della preoccupazione per la sua Ziziphon, intrappolata tra farmaci – guru – Madre – notaio e dall’altra parte lui, coi nervi a fior di pelle.
Non era giusto averla fatta trovare in queste condizioni, senza
averla portata lontano, fosse stato anche solo per qualche breve
intervallo per riaversi, acquistare un briciolo di forza e di serenità, difendersi e ritrovare se stessi. E invece lì, come due pupazzi
in un baraccone di tiro al bersaglio, mamminizzati, gurizzati e
notaizzati... lì inermi, a logorarsi insieme...
Una sera la sposa, seduta sul letto e appoggiata al guanciale rosso,
cercò una breccia anche nella cultura dello sposo. L’uomo ideale,
che un tempo le era apparso perfetto e invulnerabile, intanto aveva
un’ernia e una varice grossa sul polpaccio destro ch’era inutile ormai glorificare come ricordo del lancio col paracadute a Fontanarossa dove, in un incidente, aveva rischiato una flebite.
Ora però toccava al cervello. La sposa stava sfogliando un volumetto e cominciò a farle domande del tipo: « Che cosa è l’enfiteusi? »
443
Lui era stanco, appena disteso a normalizzare il suo budello, ma
le rispose e lei: « Quando venne formulata la teoria della relatività? » e lui, a bassa voce: « Quella ristretta o quella generale?
Lascia stare: la prima è del 1905 e la seconda... Albertino la pubblicò nel 1916 », ma lei non si fermò: « Cos’è l’abigeato? » e lui:
« ab agere, già i romani punivano con rigore il furto di bestiame... »;
« Allora dimmi chi è Binswanger » e lui: « Chi era, Ludwig
Binswanger: psichiatra svizzero, è morto negli anni Sessanta,
viaggiò tra scienza e filosofia, si ricorda per l’analisi esistenziale e
altre balle... » e lei andò avanti con tante altre domande, sempre
più aggressiva, finchè lui, che non aveva previsto, sulle soglie del
sonno, di dover tenere acceso il cervello, si tirò su accanto a lei:
« Mi sembra di tornare a Lascia e Raddoppia, di che gioco si tratta? » e vide che lei, dalla sua parte, aveva sul bordo del letto una
serie di libri, con tanti post-it che facevano capolino e intanto
teneva aperto Il dizionario delle parole difficili e inusuali.
« Prima o poi troverò una parola, un fatto o una persona che
non conosci » disse, come se non le stesse affatto bene che il
Giornalista avesse sempre una risposta.
La combriccola gurica l’aveva giurata al Giornalista. Non volevano rischiare un mezzo litigio tra i due, che magari avrebbe
potuto rafforzare la loro unione. E neanche un possibile allontanamento con un amore sotto la cenere. Quei serpi dovevano
provare a farlo incartapecorire dentro di lei, per poi trasformarla
in un killer che lo polverizzasse. E il Giornalista si vedeva squartare, senza anestesia, ogni giorno.
444
LXXIX
Il Tempo delle Fascine
Venerdì 5 Aprile ci fu una pioggia concentrata di miseria in casa
degli sposi: a mezzanotte scadevano i quindici giorni di comporto, oltre la scadenza contrattuale dell’assicurazione sull’automobile; il grande fornitore di servizi, Telecom, sospese la fornitura;
la cassa era ridotta a tre euri costituiti da tre cilindri di carta in
cui lei aveva raccolto pezzi da uno e due centesimi; il telefonino
chiedeva soldi; disponevano di tre fascine e due pezzi di legna,
due cipolle e quattro patate, un vaso di fagioli. L’olio e il burro
erano terminati, del formaggio rimaneva poco più di una crosta.
Lei disse che c’erano ancora un uovo e un pezzetto di guanciale:
e fu carbonara, pasto ricco davanti alla fiamma dell’ultima legna.
Prima di mezzanotte andarono a portare la macchina in un posto fuori mano per non incorrere (si dice) nei rigori della Legge.
Questo attacco di miseria li riavvicinò. E fu amore.
Per rimanere al verde, ma con macchina e internet, sarebbero
occorsi almeno mille euri, cifra astronomica per loro in quel momento.
Fino al giorno della scomparsa dell’Editore, gli sposi avevano
cercato, non sapendo che era giunto a casa dei genitori suoceri
l’estratto conto della banca, di nascondere le loro difficoltà economiche. E anche ai tre sostenitori non presentavano la loro indigenza fino in fondo. Non pensarono però che, oltre alla lucina
rossa che si accendeva fissa sul contatore elettrico al momento
della mancata erogazione, i condomini del palazzo vedevano,
registravano ogni altro segnale (esempio la macchina non più
parcheggiata di fronte a casa), confabulavano, diffondevano. Conoscere il loro stato di difficoltà li esponeva ad altre che i nemici
del Giornalista erano interessati a creargli.
Bisogna considerare che l’Ucraino aveva pensato a suo tempo di
eliminare il Giornalista, ma il personaggio risiedeva in paese e,
445
sebbene fosse in continuo viaggio, la sua morte avrebbe avuto
una cassa di risonanza colossale in un centro così piccolo. Era
nota la guerra che il piazzista dell’Ucraino faceva al Giornalista,
andandogli addosso in tutte le maniere, con azioni che ne minassero i rapporti con tutti, parenti e amici compresi. Queste azioni
erano giunte, appena il Giornalista ebbe difficoltà, a colpire il
suo modesto patrimonio materiale, riducendolo a zero. Il primo indiziato del crimine sarebbe stato il piazzista, l’Erbivendolo
che, debitamente torchiato, avrebbe potuto portare fino al suo
padrone. Quindi non se ne fece niente, limitando le pressioni
a modeste minacce, come le lettere e la corona funebre nell’ingresso dell’abitazione.
Il piazzista però, scomparso l’Ucraino, si era ringalluzzito, dedicandosi ancora di più alle azioni con cui intendeva distruggere il
Giornalista che, per lui, non doveva crepare ma essere umiliato
di fronte a tutti.
Una prima iniziativa fu quella di mettergli, nell’appartamento sopra quello dove abitava, una ragazzotta, tipologia Legge 180 o
giù di lì, che suonava la batteria a tutte le ore. Poi, visto che questo non bastava, il piazzista prese dei provvedimenti più drastici.
Il palazzo dove abitava il Giornalista aveva subito dei danni già
nel 1972, ai tempi del terremoto che mise in ginocchio Ancona
per un anno intero, interessando l’entroterra marchigiano. I danni erano stati riparati e qualche catena era stata inserita. Ulteriori
scosse, venute di recente, avevano prodotto qualche crepa, di
nessuna importanza strutturale. Ma furono sufficienti al piazzista per ottenere, dai suoi amici amministratori comunali, un’ordinanza di pericolo che imponeva lo sgombero dell’edificio e un
grosso lavoro di ricostruzione. L’iniziativa, oltre a sloggiare di
casa il Giornalista, puntava a fargli perdere l’appartamento poiché, non avendo i soldi per contribuire al pagamento del lavoro,
avrebbe dovuto venderlo.
Con l’arresto dell’Erbivendolo il corso del procedimento, a cui
il Giornalista si era opposto, rallentò, ma ormai l’ordinanza era
stata emessa e doveva essere rispettata.
Benché si trovassero in uno stato di reale indigenza e di eviden446
te accerchiamento materiale e psicologico, lo sposo non voleva
demordere dalle battaglie in corso (il 5 Aprile aveva depositato
la comparsa conclusionale di una causa e il successivo 26 era fissato il termine per il deposito della replica) e neanche intendeva
tralasciare il lavoro su internet, che molto più tardi gli avrebbe
risollevato la situazione economica.
La sua Lettrice di fiducia gli prestò la macchina e gli diede qualche soldo per le necessità immediate. Gli sposi si munirono di
candele per l’illuminazione e di un paio di pile per la torcia elettrica da aggiungere a quella di lei a ricarica solare, da usare in
emergenza per ottenere un esiguo chiarore.
Ripresero i viaggi al paese vicino per recarsi a lavorare sul computer della Geometra, che però potevano usare fuori degli orari
di ufficio. Si organizzarono così: colazione in casa, disbrigo delle
faccende domestiche, partenza verso le undici per le colline circostanti il paese della Geometra; lavoro cartaceo in macchina,
usando la luce fornita dall’unico distributore che non chiede soldi; se non pioveva, raccolta di fascine che lei aveva imparato a
legare come un boscaiolo provetto; pranzo verso mezzogiorno;
arrivo all’ufficio, dove la Geometra, se era già andata a casa, lasciava la chiave in un posto stabilito; alle quattro del pomeriggio,
al ritorno della Geometra, di nuovo in collina, approfittando delle giornate che si erano decisamente allungate; a buio, di nuovo
all’ufficio, dove gli sposi cenavano spesso con vivande portate
dalla Geometra, che in aggiunta cominciò a rifornirli di legna
adatta per il caminetto: ne caricavano due o tre sacchi che, a
mezzanotte o l’una, tornando a casa, sistemavano sotto il tavolo
accanto al camino.
Ma neanche la mammina demordeva e il suo telefono divenne
sempre più presente.
Nota diversa. Giunse un messaggio sul cellulare del Giornalista:
Se ha bisogno di rivedere il piatto derutese con San Francesco chiami questo
numero. Era un tramite dell’Architetta.
447
LXXX
La Piazzemezzo
Il 20 Aprile 2013 erano trecentottantacinque giorni che si davano del tu e altrettanti che avevano sognato e programmato
quella vita folle a una piazzemezzo. Ma invece di celebrarlo, quel
giorno fu la sintesi nera della loro storia.
Al mattino appresero fatti che superarono le previsioni di entrambi e ferirono lei profondamente. La sera portò nella loro
casa uno sfacelo.
Ne avevano superate tante, di ogni colore e tipo, filtrandole con
l’amore e una divina incoscienza, con la profonda convinzione
che il loro desiderio di stare insieme potesse superare e riscattare
ogni umana nefandezza.
Erano riusciti a riottenere la corrente elettrica, ma non il telefono. Il computer non era collegato alla rete e il Giornalista propose di uscire. Doveva soddisfare il suo vizio di affacciarsi su quanto succedeva nel mondo. Ripeteva spesso che bisognava almeno
conoscere a che punto fossero sulla striscia di Gaza, tentando di
prevedere la possibilità che durante la notte un Presidente o un
Generale pigiasse il bottone rosso. Non sarebbe servito a niente
sul piano pratico, se non a capire da che parte sarebbe arrivata la
fine. Almeno questo, diceva, avremo il diritto di saperlo.
La Segretaria era molto tesa. Erano le dieci passate e all’una doveva andare a casa della madre. Si preoccupava del pranzo per lui
che, avendogliene parlato, rispose con un’alzata di spalle. Al bar
dove sedevano, accanto al giornale, c’era uno di quei voluminosi
inserti che i maggiori quotidiani gareggiano a confezionare. Fu
lei a sfogliarlo e dopo un po’ che leggeva, quasi le cascò di mano.
L’inserto riportava, nei dettagli, come la Cugina e l’Ucraino avevano ucciso gli zii della Segretaria su alla Baita. Lui lo prese e si
mise a leggere, storcendo la bocca.
Non era ancora iniziato il processo contro la Cugina e già i gior448
nali sapevano con quale materiale probatorio il Pubblico Ministero avrebbe sostenuto in dibattimento il suo capo di imputazione. Disponeva di una confessione piena.
Il settimanale aveva dedicato un ampio servizio allo scandalo del
Cantiere, con le sue implicazioni internazionali e le sue derivazioni mafiogene, che dall’Ucraino discendevano all’Erbivendolo
e altri grossi piazzisti che stavano emergendo.
Ma un corsivo particolare, opportunamente riquadrato, riguardava l’omicidio dei due coniugi, dato che la confessione della
Cugina, corredata di ogni particolare, portava alla luce il parricidio e matricidio commesso da una donna. I moventi erano
molteplici, ma tra questi si faceva risaltare l’odio verso chi aveva
avversato e stroncato ogni scelta sentimentale della figlia, finita
da ultimo nelle braccia del carnefice dei suoi genitori. La storia,
come veniva presentata, era di quelle che portano a fare della
protagonista un personaggio adatto a firmare un libro o, quando
possibile, l’ospite conteso di una trasmissione televisiva. I fatti
emersi erano questi:
***
Il Delitto
La sera di mercoledì 7 Ottobre 2009 la Cugina era a cena in famiglia e si festeggiava il suo compleanno. Ricevette in dono dalla
sorella il foulard con la fotografia serigrafata di lei che la teneva
in braccio quando era molto piccola, e se lo mise. I familiari
seppero soltanto che partiva in viaggio vacanza con un amico.
La persona che venne a prenderla era l’Ucraino, con il quale si
recò a dormire in un appartamento che lui possedeva a una trentina di chilometri dalla città. I due sapevano che i genitori di
lei sarebbero andati alla baita il giorno dopo, giovedì: avrebbero
dormito lassù e il venerdì mattina si sarebbero mossi nel bosco
per una prima perlustrazione delle fungaie che conoscevano.
Bisogna sapere che l’Ucraino se la faceva con la Califfa, la quale
lo aveva aiutato a scoprire gl’ingranaggi della loro organizzazio449
ne. E, nel giro di pochi anni, la quasi sessantenne, ben curata dal
mandrillo, lo aveva introdotto convincendo il Palazzinaro ad affidargli incarichi sempre più delicati, che lui eseguiva bene e puntualmente, costruendo parallelamente una sua organizzazione.
Il Commercialista, sotto le cui mani passavano i dati di ogni movimento del Cantiere, aveva notato qualcosa di strano e un paio
di volte, di recente, si era rivolto alla Califfa con particolari domande. E la Califfa le aveva evase sapientemente. Poi, nel caldo
dell’alcova, aveva riferito tutto all’Ucraino, il quale si era molto
preoccupato.
Riguardo alla Califfa, che praticamente gli aveva permesso di
costruire il suo giro di affari, era tranquillizzato dalla sicumera
del mandrillo e dalla condivisione di colpa della fedifraga nei
confronti del Palazzinaro. Ma oltre a lei e alla Cugina, che stava
con lui senza porsi alcuna domanda, non poteva permettersi, in
alcun modo, che esistesse la più remota probabilità che qualcuno
intuisse il suo giuoco (non gioco): sarebbe bastato un niente per
mettere in azione il Palazzinaro. Decise di ricorrere alla ragazza.
L’Ucraino conosceva i grossi problemi della Cugina con la famiglia, da cui prima si era sentita usata, poi maltrattata e al presente sopportata. La fece riflettere sul fatto che il babbo non le
avrebbe lasciato un soldo, informandola di aver scoperto che
i genitori avevano da molto tempo un’assicurazione milionaria
sulla vita, mai disdetta.
La Cugina era innamorata dell’Ucraino, e lo lasciava trombare
in giro senza far scenate, anzi teneva a essere la donna di questo tombeur de femmes, a cui spesso forniva le occasioni. E lui
contraccambiava permettendole di assumere la droga, solo cocaina della migliore, controllandone la quantità. Spesso svolgeva
qualche lavoretto per lui, perlopiù con qualche viaggio, come
l’ultimo in Grecia, ricevendo regali e compensi in denaro.
Così, nel momento del bisogno, l’Ucraino calò l’asso: noi ci sposeremo, le disse, e nacque il patto scellerato. Come sempre, il delitto doveva essere perfetto, quindi possedere tre caratteristiche
essenziali: la morte doveva apparire, se non naturale, accidentale; le circostanze della morte non dovevano essere riconducibili
450
all’assassino; l’assassino non doveva essere incluso tra i soggetti
che potevano avere un movente.
La Cugina era cresciuta nella cultura micologica della famiglia e
più volte aveva parlato all’Ucraino dell’Angelo Sterminatore. E
a lui venne in mente di usare proprio la velenosissima Amanita per attuare il suo piano. Aveva pensato al fatto che liquidare
dei conoscitori di funghi con l’unica specie sicuramente mortale, quindi ben conosciuta, avrebbe sollevato molti dubbi, ma
ci vide il mezzo più sicuro perché non si potesse collegare a
lui. L’errore d’altronde è possibile anche per i migliori. Inoltre,
per ingarbugliare ancor più le indagini, non avrebbero lasciato
traccia dell’Amanita, come poi avrebbero fatto. Sarebbe rimasto
il classico caso accidentale strano, inspiegato, avulso da un contesto utile a fornire indizi per arrivare a un colpevole.
A Settembre, la Cugina e l’Ucraino erano andati a raccogliere
una famigliola del fungo che non perdona, in una zona che lei
conosceva bene. E quella sera di mercoledì 7 Ottobre 2009, l’Amanita era in attesa nel congelatore dell’appartamento in cui dormirono.
La sveglia suonò molto presto il mattino dopo. Dovevano raggiungere una località, a un centinaio di chilometri, dove lei sapeva che avrebbero trovato funghi buoni in vendita. Acquistarono
un plateau intero di porcini e vi aggiunsero una diecina di biette,
buone quanto i porcini e ideali per una frittura mista.
Tutto sembrava andare per il verso degli assassini, poiché sarebbe bastato, ad esempio, che non avessero trovato questa materia
prima e il piano avrebbe subito un rinvio. E certe operazioni
rischiano di non essere realizzate se si rimandano.
Tornarono all’appartamento a prelevare il pacchetto letale e nel
pomeriggio presero la direzione della baita. A un certo punto,
in piena campagna, l’uomo si fermò presso un casolare, che
sembrò conoscere bene. Estrasse la chiave e aprì la porta di un
capanno in cui c’era un Suzuki 4x4 di colore nero. Lo tirò fuori,
controllò il carburante, mise dentro la Citroën con cui erano
arrivati e richiuse.
Giunsero a trecento metri dalla baita che s’era fatto appena buio.
451
L’Ucraino sistemò la macchina fuori della straducola sconnessa
e, con il loro materiale, si avviarono a piedi: la famigliola di Amanita era ben riposta nella borsa della Cugina, che reggeva una
torcia elettrica, mentre lui teneva sulle mani il plateau di porcini
e biette.
Non erano ancora sulla porta della baita che il Commercialista
gridò:
« Chi c’è? »
« Sono io babbo, con un amico ».
Entrarono, l’ Ucraino posò il plateau sulla tavola e lei fece le
presentazioni. La madre notò subito il maschio particolare, bello
e affascinante. Il babbo, che non aveva ancora riferito certe incongruenze da lui rilevate nell’amministrazione a quel soggetto,
gli si rivolse con molta educazione e senso dell’ospitalità. Non
l’aveva mai incontrato, ma sapeva che lavorava esportando e importando con capacità e successo.
« Abbiamo trovato questi porcini straordinari; sì, lo so, tu dici
che non si comprano, bisogna guadagnarseli nel bosco, ma erano
troppo belli... » disse la figlia, togliendoli dal plateau e allargandoli sul tavolo. I genitori li guardarono apprezzandone la freschezza e la consistenza.
« Bisogna fare della brace - disse il Commercialista alla moglie queste cappelle vanno cotte sulla griglia »
« No, per una volta mi dovete contentare, poi ci sono anche le
russule... le biette... a lui piacciono fritti i funghi, ne facciamo una
parte... sono tanti... si possono mettere domani alla griglia... e voi
non dovete fare niente... cuciniamo noi stasera, voi dovete riposarvi e poi mangiare. Tu, mamma, devi soltanto apparecchiare »
La madre si dichiarò subito favorevole, il padre tentennò, poi
ebbe a passargli per la testa che la figlia alla fine poteva aver
trovato l’uomo giusto e chissà che non si sarebbe potuta raddrizzare.
« Va bene, fate come vi pare, non son male nemmeno fritti.
Come si dice, fritta è buona anche una ciabatta ».
Oltre la stanza d’ingresso, che serviva per ogni cosa ma soprattutto da sala da pranzo e da conversazione, c’era un piccolo an452
dito con un cucinotto con la cappa e i fornelli. Di fronte c’era il
bagno e, percorso un breve corridoio, due camere, ognuna con
un letto grande e uno a castello.
La Cugina e l’Ucraino andarono di là mentre i genitori, come
era gli stato richiesto, se ne stettero in poltrona. La Cugina, per
precauzione, in caso non ci fosse stata, aveva in borsa anche un
pacchetto di farina. Si misero a pulire i porcini e le biette, poi lui
andò dai due in poltrona per intrattenerli.
« Lasciatela esibire, vuol fare tutto da sola, ci tiene » disse l’Ucraino, e si mise a conversare con il Commercialista e la moglie.
Intanto la Cugina, tagliati a piccoli pezzi i porcini e le biette, si
era infilata un paio di guanti usa e getta per aprire il contenitore
che aveva nella borsa, da cui tirò fuori una quantità di Amanita
da uccidere un cavallo (ecco perché le borse capienti delle donne
sono pericolose).
I funghi malefici, che avevano avuto tutto il tempo per scongelarsi, furono tagliati come gli altri; poi tutti, uno ad uno, furono passati nella farina e fritti. La pulitura dell’Amanita, fatta con
cura su un piatto di carta, fu messa nel contenitore insieme ai
guanti. Tutto chiuso con cura e riposto in borsa.
« È pronto » disse lei entrando in sala, dove nel frattempo la
madre aveva apparecchiato e alzato la luce a gas per illuminare
meglio la tavola.
« Mettiamoci a sedere, vanno mangiati caldi ».
Mentre si accomodavano, suonò il satellitare dell’Ucraino (era
un dispositivo che poteva azionare a comando); lui ascoltò un
momento, disse dei monosillabi e poi:
« Scusatemi tanto, mi tocca andare di corsa all’automobile, è una
cosa urgentissima e devo consultare l’agenda grande che ho in
macchina... »
« Ti accompagno, conosco meglio la strada »
I genitori non sapevano che la macchina non era alla piazzola,
come fecero credere. Lui aggiunse:
« No, resta con loro, vado io... »
Fecero un po’ di melina e poi se ne andarono tutti due.
« Ci vorrà un’oretta, forse di più. Voi mangiateli caldi, altrimen453
ti i funghi fritti si buttano... mangeremo qualcos’altro più tardi.
Noi, i funghi li mangeremo domani ».
Tornarono dopo due ore. Il Commercialista e la moglie ne avevano mangiati per quattro. I due dissero che non potevano fermarsi, erano lì solo per avvertire. Forse sarebbero tornati il giorno
dopo. Si fermarono ancora, quel tanto che gli servì per trovare
il telefono della mamma (il babbo quando andava lassù non lo
voleva dietro) e togliere la batteria. Il cellulare normalmente non
prendeva il segnale, ma era meglio evitare sorprese.
Salutarono e uscirono, ma, dopo essersi allontanati, attesero finché non videro spengersi le luci. Poi L’Ucraino sgonfiò le gomme del Suzuki con cui il Commercialista arrivava fino alla baita.
I due assassini tornarono su il sabato sera verso le otto. La dose
era stata enorme.
Erano in coma, respiravano a mala pena, distesi sul letto dove li
trovarono il lunedì. La moglie era appoggiata al petto del marito.
L’Ucraino li spense, dandogli il viatico con un cuscino.
La Cugina andò al bagno con le forze di stomaco. Si tolse il foulard donatole dalla sorella, che nel clima di quei giorni passati al
casolare, per non essere visti in giro, non si era mai tolta: lo infilò, senza rendersene conto, nella tasca dell’accappatoio appeso
all’attaccapanni. Poi, dopo essersi lavata, si mise il giubbetto di
felpa e uscì di corsa dalla casa.
Stavolta erano giunti fino alla baita in macchina. Lui, prima di
andarsene, si comportò come dicono faccia la volpe, camminando all’indietro con una frasca in bocca per cancellare le proprie
tracce: l’Ucraino era munito di una sorta di stinco ortopedico
che terminava in un piede con scarponi numero quarantasei. Si
spostò dappertutto, con questo singolare timbro, stampando
orme ovunque.
Soltanto molto tempo dopo lei si accorse di non avere più il foulard e per esclusione lo collocò alla baita, senza ricordare dove
l’avesse lasciato di preciso. Il fatto spinse l’Ucraino a commettere
la stupidaggine di far saltare in aria la baita. Accade che la paranoia del perfezionista spinga il colpevole a reazioni sconsiderate,
454
appena si presenta il primo imprevisto. Senza quell’esplosione,
che aveva dato nuova grinta al Commissario, le indagini, ormai
praticamente concluse, avrebbero condotto l’omicidio nell’archivio dei casi irrisolti.
***
La Burrasca
Sabato 20 Aprile, ore 12,30. La sposa, dal momento in cui aveva letto l’articolo al bar, era rimasta a bocca cucita ma quel che
meravigliava era che anche lui, sempre loquace, si fosse zittito.
Pensavano tutti due al giorno in cui i giornali diedero le prime
notizie (che lei non prese per veritiere) e al fatto che aveva manifestato il desiderio di andare, se fosse stato possibile, a far visita
alla Cugina in prigione.
L’efferatezza, l’orrore, la crudeltà, il cinismo assoluto con cui
avevano messo in atto, senza alcun ripensamento, il loro fantasioso copione con l’arte di attori consumati, aveva toccato anche
il Giornalista, mentre aveva fatto precipitare la Segretaria in fondo a un pozzo.
Ma quando si avvicinò l’una, la sposa si scosse, era sulle spine: il
telecomando mamministico era infallibile.
« Devo andare dalla mamma - gli disse - Abbiamo un appuntamento per restituire dei documenti»
« Un appuntamento all’ora di pranzo? » sbottò lo sposo che aveva ripreso subito energia.
« No, preparo i documenti: questo signore viene alle due... poi
avremo da fare... »
« Questa storia mi ha rotto proprio i coglioni... la tua mammina
deve capire che hai un uomo... un marito e una casa a cui pensare... » fece scattare le parole, con una vampata d’ira, il Giornalista.
« Io devo andare... »
« Telefona quando hai fatto, ti vengo incontro in macchina.
Quanto stai ? »
455
« Non lo so, dopo dobbiamo andare in un posto, a parlare con
un avvocato... per un credito della casa editrice... »
« Dai dai, ti accompagno » e uscirono, salendo in macchina.
Trascorse l’intero pomeriggio e lei non chiamò. Lo sposo era
verde. Il suo cellulare era pieno del telefono della Psicologa, e
per lui, che d’altronde aveva requisito il Nokia “milletastini” della sposa, non esisteva altra possibilità di contatto. Ma non ci pensava neanche a chiamare la mammina, e attese sempre più verde,
sembrava l’incredibile Hulk.
Tornò alle otto, stravolta, con gli occhi rossi di chi ha pianto.
« Dove cazzo sei stata fino a quest’ora? Non mi dire balle, per il
tuo bene... » esordì minaccioso.
« Sono stata male, ho vomitato… non ceno e vado subito a letto »
« Dimmi da che... da che avvocato sei stata... il nome... li conosco
tutti »
« Ma quale avvocato? Sono stata col notaio e mia madre… »
« Ah, dall’Azzeccacervelli allora... non ti molla più... »
« M’ha dato da prendere questo, dice che sono ridotta male... »
e tirò fuori dalla borsa una scatola grossa, lui lesse Neo Vaxitiol :
era un integratore.
« Puttanate, puttanate... ma che vuole questo cazzo di notaio? È
agli ordini della mammina che lo fa girare come le pare... ma non
ce l’ha uno straccio di donna, ‘sto poveretto che va a mettersi
tra moglie e marito? Donne che amano troppo... e non vogliono bene però... servirebbero corsi per volersi tutti più bene e
questi si vanno a intrufolare nel cervello di una donna sposata
per sottrarla al marito... questo, vedi, è plagio... delinquenti e farabutti che altro non sono... avanzi di galera... ma non li punisce nessuno... gli psico... arroganti presuntuosi vigliacchi... non
sono mica migliori dell’Ucraino... ma se occorrerà ci penserò io
a impalarli... » e continuò da solo, girando per la casa mentre lei,
piangendo, si era rifugiata sotto le coperte.
Quella sera lui non andò nella piazzemezzo, stendendosi, molto
tardi, sulla poltrona in camera della mamma. Saranno state le
cinque, quando avvertì qualcosa: lei l’aveva raggiunto per mettergli addosso una coperta.
456
Forse, per la prima volta (*), non fecero colazione insieme. Si
ritrovarono nella stanza del computer e lui, spinto dal volerle
dimostrare quanto fosse nocivo ciò che stava accadendo, gli rinfacciò di non aver messo ancora su internet una nuova immagine per la vetrina del loro negozio. Lei, per la prima volta (*) si
ribellò:
« Fallo da te » gli disse e, all’accusa di aver perso tempo per confondersi con sua madre, rispose:
« Altro che con mia madre... Ho sbagliato, sì, ma a confondermi
con te... »
« Imbecille - le disse molto secco il Giornalista pronunciandolo
in modo diverso da come aveva fatto altre volte con tono bonario - Guarda che passo alla fase due... » e le si avvicinò, togliendo
le mani dalle tasche della vestaglia. Hyde era comparso in lui
con tutta l’imprevedibile violenza di quella simbolica trasformazione. Per fortuna la Segretaria aveva conservato la capacità di
subire in silenzio in certi momenti critici, e il mostro riacquistò
subito le sembianze del Giornalista.
Non l’avrebbe mai picchiata, ma aveva scoperto la parte oscura
e, per la prima volta (*), lei l’ aveva intravista, rimanendone atterrita.
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LXXXI
La Vita Leggera
Per due giorni il telefono della Psicologa tacque. Lo sposo aveva
passato quel tempo a preparare la replica alla conclusionale avversaria che scadeva il 26 Aprile. Mancavano cinque giorni.
La sposa era divisa tra il negozio su internet e la ricerca giurisprudenziale che serviva per la replica. Pranzavano ogni giorno
in campagna, poi lei raccoglieva la legna e legava piccole fascine.
Lui notò che aveva intensificato la raccolta di fiori freschi: raccolse tanti mazzi gialli, forse erano fiori di rapa, con cui rinnovava il vaso che stava sulla finestra. Sembrava un segnale. Al posto
del telefono usavano un loro codice, lei e la mammina?
Da sabato sera, quando era rientrata distrutta dalla gita con la
madre e il notaio, in visita all’Azzeccacervelli, il Giornalista sentiva che la sua sposa aveva bisogno di parlare: lei, così silenziosa,
aveva bisogno di aiuto; si trovava in un deserto in cui qualcuno
le suggeriva la strada, ma un altro doveva confermarle che era
quella giusta o almeno discuterne con lei perché potesse arrivare
a una convinzione da sola.
Lui, che aveva seguito passo passo questo viaggio ripugnante nei
dedali dell’egoismo mamministico e della presunzione gurica, infinite volte si era sentito morire per quella creatura che amava,
e a cui soprattutto voleva veramente bene. Eppure non si era
mosso. Le aveva detto una volta che se qualcuno l’avesse tirata
per un braccio, lui non l’avrebbe certamente tirata dall’altro. E
ora doveva resistere: si trattava di una partita che lei purtroppo
doveva giocare in perfetta solitudine, quella del riscatto della Cugina che stava in galera; della Cuginetta che pornoviveva, consolidando una corazza intorno al cuore; della Zia e della mammina
che stavano declinando senza aver mai tentato di essere donne.
Soltanto vincendo quella partita, la Segretaria avrebbe potuto
estirpare tutto il male che, crescendo in quel clima, le si era stra458
tificato dentro. Lei tutte queste croci se le era sempre portate sulle proprie spalle. La gatta morta, in cui l’aveva relegata la
mammina, non le avvertiva; invece, alla donna che si era sposata
erano piombate addosso come macigni. Ma adesso era costretta
a trovare una qualche soluzione per sopravvivere.
La banda gurupeutica era partita mettendole davanti le previsioni
del suo futuro con un vecchio, per poi riuscire a farla concentrare
su una domanda precisa, a cui l’avevano impegnata a rispondere:
cosa è scomparso della tua vita in un anno di matrimonio? Sarebbe stato bello dire semplicemente che era scomparsa la gatta
morta. Nel sole e nel cielo azzurro del loro matrimonio, benché
gravati delle innumerevoli tensioni che si conoscono, il putrido
animale si era liquefatto, come una bambola di cera.
Costretta a frazionare le risposte, elencando le singole voci, lei
però aveva dovuto ammettere che le mancavano la sicurezza materiale, la spensieratezza, le risate con gli amici, le chiacchiere
frivole con le familiari e le amiche, i bicchieri di vino in un locale
affollato di voci diverse e denso di profumi... le mancava qualcosa di meno impegnativo: la vita leggera, quel tanto di inutile che
è indispensabile.
Non era una mancanza da poco per chi campava sulle soglie
dell’indigenza, sgobbando tutto il santo giorno, accanto a un
uomo incazzato e, ultimamente, intravvisto come violento.
Il Giornalista, che le aveva dato della Signorina Tumistufi, non
era da meno né come signorino né come animale frivolo e vagabondo: un perditempo insuperabile, un vero professionista in
materia. Però dentro di lui agiva un giocatore, sempre pronto a
cogliere l’occasione per trasformare un’idea o una situazione, un
qualsiasi accadimento in una sfida a cui dedicarsi anima e corpo.
Ma si annoiava alla svelta se il gioco calava di tono e richiedeva
meno impegno. Sennò perché avrebbe lasciato a metà la maggior parte delle cose che aveva fatto? Libri e amori, nella stessa
identica maniera.
Con lei aveva cambiato tutto, a farsi dagli orari (da nottambulo
m’hai trasformato in un diurno, in un cesso, le diceva spettinandola), al tempo che dedicava ai suoi interessi di carta, alla
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casa, pensando e progettando con lei: si era reso conto di averla
sposata sul serio. E questo ingigantiva il suo – incredibile per
lui – senso di responsabilità (ora sono tuo padre e tuo marito, le
aveva detto) costringendolo a ogni sacrificio. E non era piccolo
quello di guardarla con infinita e struggente tenerezza mentre
arrancava disperatamente per recitare il suo ruolo di gatta morta
richiamata alle armi dalla mammina. Lui le aveva ripetuto mille
volte che, all’occorrenza (Ce la farò? Mica tornerà fuori la bestia... aveva sussurrato lei i primi tempi) sarebbe stato il suo esorcista. E ora perché, invece di inveire e bestemmiare, prendersela
con tutti e con tutto, rendersi insopportabile e a volte pericoloso,
non accettava la sfida gurupeutica? Non sarebbe stato difficile
e più volte stette per cedere alla tentazione: la piazzemezzo, a
dispetto di tutto, funzionava sempre e nella loro isola lui avrebbe potuto parlarle con tono dolce e sommesso, anatomizzando
gesti e parole, sesso e amore, timori e ombre che tornavano implacabilmente su di lei.
Il Giornalista d’altronde era stato molto paziente. Certe volte
era giunto a masturbarsi per attendere una schiarita nelle giornate in cui la paura di rimanere incinta la sopraffaceva. Talvolta
lui scoppiava a ridere. Una notte sognò che, a forza di rinunce,
gli era caduto il grillo nel water. Poi, svegliandosi, le aveva dato
il bacio dell’alba provando quel desiderio intenso che sempre
aveva standole vicino.
La Segretaria invece non riuscì mai a capire e a sentire che era
accanto a un uomo che non sopportava pillole (del giorno prima
o dopo o...), preservativi, Ogino-Knaus o altri sistemi assicurativi contro la vita. Quelle pratiche, al solo pensarlo, lo castravano.
Lui non era l’uomo del pizzapompino del fine settimana: che
razza di vecchio matto sarebbe stato altrimenti?
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LXXXII
La Festa della Liberazione
Giovedì 25 Aprile era la Festa della Liberazione. Gli sposi avevano due impegni: la luna piena e la replica da ultimare per la
causa, i cui termini scadevano il giorno dopo.
Al mattino andarono ad ascoltare le orchestrine nostalgiche dei
partigiani e il pomeriggio, di tempo buono, lo dedicarono al bosco, raccogliendo la legna sulle greppate del fiume.
Maledetto telefono! (l’esclamativo è come il moccolo, quando ci
va ci vuole, disse il cardinale).
La mammina attivò la musichetta anche nella quiete del bosco. Il
rumore dell’acqua impedì di udirla, ma lui, che aveva il “milletastini” in tasca, ne avvertì la vibrazione.
« Ti cerca » le disse, e poco dopo la sposa gli comunicò che doveva passare a casa dalla madre.
« Ci andrai domani, dobbiamo terminare la replica – sentenziò il
Giornalista – Ma che vuole questa donna? ».
Alle otto lei preparò una frittata con le patate e la divise in otto
fette di pane, due panini a testa. Empì la bottiglia alla cannella e
preparò il thermos del caffè. La cena era pronta. L’appuntamento
con la luna piena era per le nove, ma alle nove e un quarto ci sarebbe stata un’eclissi parziale, fatto che al Giornalista – non seppe o
non volle dirle perché – non piaceva per niente. Quella sera il loro
balcone era sul piazzale di una chiesina di campagna, sulla collina
prossima al lago. Si avviarono con la macchina che ormai avevano praticamente sequestrato alla Lettrice da due settimane. Giunti
sul piazzale accadde un fatto impensabile, che si verificava per la
prima volta (*): la sposa frugò nella borsa e si accorse che aveva
dimenticato i panini sul tavolo in cucina. Intoppo di non poco
conto, considerando che la benzina era agli sgoccioli. La distanza
da casa era di tre chilometri, ma rischiavano lo stesso di restare
a piedi. Lui, comunque, non ebbe dubbi e andarono a prenderli.
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Cenarono in silenzio. L’eclissi era provocata dalla penombra della Terra, quindi non si notava, ma lui la sentiva e, insieme alla
dimenticanza dei panini, lo rendeva nervoso e irascibile. Presero
giusto il caffè e non attesero, come al solito, che la luna si rimpicciolisse salendo al centro del cielo.
« Dobbiamo completare la replica » le disse; mise in moto e partì.
Non potevano accedere alla rete via telefono, ma il computer
funzionava e avevano tutto nelle sue memorie. Fecero quasi le
quattro perché c’era un punto decisivo della replica che, secondo
lui, non funzionava. Alle nove bisognava portarla all’avvocato,
che doveva metterci la firma e depositarla alla cancelleria del tribunale. Decisero di riposarsi un paio d’ore: regolarono la sveglia
per le sei e trenta. Lui s’infilò nel letto borbottando, sbraitando e
bestemmiando. Si girò sul fianco destro e alle sei era già sveglio.
La sposa lo raggiunse dopo poco portando il caffè e d’improvviso, strascicando un moccolo multiplo, lui disse:
« Ma ci voleva tanto, la questione da far capire al giudice è tutta
qui... cancella l’ultima pagina e scrivi... »
Terminata la dettatura, la Segretaria la rilesse ad alta voce, come
facevano sempre.
« Come ti sembra? Ti convince? » chiese lui.
« Sì, funziona. Toglierei quell’“imbecille” che il Giudice potrebbe pensare rivolto a lui... »
« Prova a toglierlo, ma temo che il discorso perda la forza che
ha... »
Lei rilesse tutto, da sola, e poi:
« Hai ragione. Ma siccome l’atto lo deve firmare l’avvocato, farei
due stampe dell’ultima pagina, una con la parola “imbecille” e
una senza »
« Giustissimo, ha ragione la mia Zizi... ».
Aveva scritto mille pagine in un anno, ma neanche una era uscita
da quella stanza senza l’approvazione della Segretaria. Di ogni
cosa parlavano a lungo, finché non si erano messi d’accordo e,
dopo che il Giornalista aveva scritto, rileggevano e ridiscutevano. Pensavano insieme e lui criticava con il cervello della Segretaria ogni cosa che pensava. Si erano sposati sul serio.
462
Dichiarato soddisfacente l’atto, decisero di poterlo caricare nella
chiavetta USB, come erano soliti fare da molti mesi: le cartucce della stampante erano scariche e i quarantacinque euri per
l’acquisto costituivano una somma che non erano riusciti mai a
stanziare.
Andarono alla cartoleria e stamparono cinque copie dell’atto.
Fecero bene i conti, non restavano spiccioli neanche per il caffè.
Uscirono e lei disse che doveva correre da sua madre. Lui la
trattenne, dicendole che prima si sarebbero recati dall’avvocato,
fascicolando le copie e poi l’avrebbe accompagnata.
La Segretaria farfugliò: « Non posso, poi loro se ne vanno... » ed
era visibilmente sui carboni. Poi, visto che lui insisteva deciso,
lo seguì.
Fecero tutto quel che era necessario nello studio del legale e
risalirono in macchina. Mentre lui si mosse per accompagnarla
dalla madre, lei, che si era completamente calmata, gli chiese di
passare da casa loro. Ora aveva deciso.
Salirono e lei, appena entrata, si diresse nel corridoio. Si mise
a sedere sulla cassapanca, si slacciò le Camper ex bianche tutte
sbertucciate e si infilò gli scarponcini gialli di cuoio.
« Perché ti cambi le scarpe? »
« Ci sto meglio ».
Lui capì che occorreva insistere: lei voleva parlare, aveva bisogno
di aiuto ma, con la gola che si seccava, non profferì parola. Salirono in macchina e lui avrebbe voluto andare da tutt’altra parte,
conducendola magari sul terrazzino verde della loro prima sera,
ma (si rischia il ridicolo) non aveva neanche la benzina per tornare sul posto dove si erano dichiarati il loro amore per la prima
volta (*).
Arrivò di fronte alla casa della madre e non le chiese, come sempre, quanto stesse, e nemmeno le disse ciao.
Arrivò l’ora di pranzo e non la vide. Le due, le tre... alle quattro e
trenta sentì suonare. Di sotto c’era una faccina imberbe di sacrestano che a vederla veniva da toccarsi le palle almeno due volte.
« Devo consegnare questa » e mostrò una busta grande.
Il Giornalista discese, aprì il portone e, in silenzio, prese la busta,
463
una millebolle formato A3 piegata in due e tenuta con un elastico. Salì nella stanza del computer, e l’aprì: c’erano la chiavetta con cui erano andati a stampare quel mattino, il portachiavi,
quello con la fiche del Grand Circle, con le chiavi di casa, che lui
le aveva regalato per il primo compleanno del loro stare insieme,
la fede d’oro del loro matrimonio. Su una pagina A4 queste essenziali parole:
Il sogno è finito / Mi sono svegliata / Addio.
Sul momento, appena aperta la busta, l’impulso del Giornalista
fu di correre a riprenderla. Però, oltre al fatto che era senza benzina e al verde più completo, era stato lui, seppure con sacrificio,
a spingerla ad andarsene.
Capì immediatamente che la mammina l’aveva portata con sé in
città, per il ponte feriale di Maggio, nell’appartamento dirimpetto a quello della bi-vedova Vice nonna Regina madre. Avevano
pensato, su parere gurupeutico, che innanzitutto dovevano metterla in camera di decompressione, calcolando (secondo loro) i
tempi di risalita dalla profondità in cui gli sposi si erano calati;
oppure di discesa dalle altezze a cui erano giunti. E la bi-vedova
era un ottimo ausilio, tant’è vero che la Segretaria ci restò per
una settimana.
Una mamma avrebbe detto a una figlia: « Noi abbiamo perfino
cercato di rapirti e tu hai fatto l’impossibile per stare con lui. Lo
marcavi stretto da anni e l’hai sposato. Non sei più una bambina
e il matrimonio non è un giuoco. Ti aiuterò se vuoi, ma dovete
risolverli insieme i vostri problemi. Diversamente vi distruggereste ».
Ma la mammina, e la sua cerchia, volevano solo questo. Gli sposi
dovevano sparire. Non dovevano essere mai esistiti.
464
LXXXIII
Il Letto a Tre Piazze
Nella prima sera da solo, la piazzemezzo divenne smisurata.
Passò la notte a cercare sulle travi, che stando supino gli erano
parallele, una possibile soluzione. Ci vide il cancello del castello
del conte e il Lucchetto del Diavolo (« Se ce ne fosse bisogno, e
può accadere, verrò al castello del conte per toccare il Lucchetto
del Diavolo » lei aveva detto il loro primo giorno, al ritorno dal
viaggio dalla Vice nonna), poi gli apparve il dirupo del Salto
della Sposa. Ma la Segretaria era con sua madre e la mammina
avrebbe sicuramente protetto la sua riconquistata bambola, impedendole di fare ogni possibile sciocchezza.
Il Giornalista vide stampata sui travi l’erta che lo aspettava: Ziziphon era divenuta la sua vita, specie dopo aver sentito che in lei
era entrata Muriel e che le due donne avevano suggellato insieme
un matrimonio inscindibile. Sarebbe stato durissimo il tempo
che lo aspettava, ma altra soluzione non aveva trovato: la sua
donna intanto doveva mangiare e sopravvivere. Lui avrebbe dovuto trovare un rimedio, anche a costo di rivolgersi ai genitori di
Muriel, ma il suo orgoglio spudorato aveva un potere tirannico.
Preferiva chiedere alle tre persone a cui era legato, con le quali
domani, superati i problemi (il suo era il tipico ottimismo dei
matti di carriera) avrebbe condiviso una vita migliore.
Gli sovvenne quanto le aveva detto a Natale, incitandola, se la situazione non si fosse risolta, ad abbandonarlo: lui avrebbe scritto un romanzo e poi sarebbero tornati insieme.
Ma una cosa era averlo detto, un’altra era collaudare il vuoto in
cui la sua assenza lo aveva cacciato in un microsecondo. Furono
feroci quei giorni che seguirono nel fare a brandelli il Giornalista, a cui scomparve il sole.
Intanto pensò di revolverizzare il notaio e il suo amico guru; poi
di sorprendere la Zia mentre ripagava, di bocca, il sagrestano che
465
aveva portato la busta, e impiccarli. Aprì il cassetto della scrivania: c’era anche il caricatore già munizionato e inserito nella
rivoltella, sempre lasciata senza la sicura. Accarezzò l’arma, ma
non l’idea.
Momenti terribili si sommarono per una settimana intera, in cui
praticamente il Giornalista non uscì di casa.
Un anno in un letto a una piazzemezzo vale dieci, vale una vita.
Solo un vecchio matto e una giovane scema potevano averlo
pensato e poi vissuto. Questo, come un chiodo, gli si conficcava
sempre più giù nella testa e il dolore diveniva pericoloso.
Gli ri-tolsero la corrente elettrica, così arrivò anche il buio fisico.
Intervenne la Geometra, arrivando a casa sua. Era preoccupata
perché da giorni non lo vedeva né sentiva. Neanche lei si trovava
sul velluto e non poteva pagargli la luce, ma gli comprò le candele, generi di prima necessità e le sigarette, due bombolette di gas
per il fornello da campeggio che il Cambusiere gli aveva regalato
tempo addietro. La sua Lettrice gli riprestò la macchina, di cui
aveva avuto bisogno per qualche giorno, e gli portò due penne
Pilot con le ricariche. Il giocatore sentì che era un segno.
Riprese i propri appunti e il taccuino degli sposi, un diario che
avevano tenuto sui fatti e sui pensieri. E cominciò a scrivere in
piena notte, al lume di candela, esaltato da quel senso eroico
della vita che, nella sua lunga avventura, gli aveva permesso di
superare ogni avversità.
Furono quattro giorni e notti a caffè e sigarette, un torcolo e un
barattolo di marmellata donati dalla Geometra. Scrisse empiendo cinque vecchi quaderni, con la copertina nera, rimasti vergini a merlare nel cassetto. E, scrivendo, il Giornalista cominciò
a uscire dal buio, dando contorni reali e definiti alle immagini
sfrangiate dei giorni seguiti al disastroso abbandono.
Ricostruì con gesti e parole gli stenti e le frustrazioni, il patire
in vetrina che la sua donna aveva subito. Tentò di misurare lo
smisurato sentimento che li aveva portati a sorridere e gioire di
tutte le cose fatte insieme, trasformando in oro tutta la cacca che
li aveva circondati e appestati: si martoriò analizzando, quasi con
freddezza, le cartacce uscite dal sabot, che lo avevano condan466
nato, non a perdere, ma a rinunciare alla partita quando doveva
cominciare veramente.
Non gli era stato neanche permesso di chiamare BANCO e il
matrimonio aveva subito un colpo molto duro, ma la coppia
aveva vinto lo stesso. Nessuno avrebbe resistito un solo giorno
tranne chi, come loro, avesse inventato una vita a una piazzemezzo.
Il giocatore aveva perso una partita importante, ma il matto e la
scema l’avevano vinta per sempre.
Povera Zizi, si trovò a scrivere, quante ne abbiamo passate; povera
Ziziphon, quante te ne ho fatte passare. E provava tenerezza fino alla
commozione. Così riprese i quaderni, ma seppe soltanto scrivere le pagine più belle, di un amore germogliato nel ghiaccio di
Febbraio, sbocciato a Marzo, organizzato nella primavera piena,
esploso in estate.
Fu costretto a fermarsi. Il solo accenno di una parabola discendente gli bloccava la penna. Anche se, scorrendo i venti giorni
trascorsi in automobile e i trecentosettantuno nella piazzemezzo, poche furono le nubi e non ci fu un solo giorno che non
finisse in un abbraccio.
Poi erano stati presi, letteralmente, per fame. E lui non aveva
trovato altra immediata soluzione che comportarsi al peggio, facilitando l’azione della mammina: ottenendo almeno che la sua
donna avesse pane e companatico, e una doccia calda.
Il Giornalista non poteva prevedere fino a che punto sarebbe
stato esoso il prezzo preteso dalla madre, di cui la Segretaria non
avrebbe potuto trattare l’importo.
Ora si preoccupava per lei, sequestrata nel circo gurupeutico che
l’avrebbe fatta esibire nella pista del pollaio paesano: accompagnata dalla mammina in ogni angolo - dove era stata con lui
ogni giorno per un anno - per mostrare il suo nuovo look di
donna col dito libero e sverato, richiamata nell’utero materno a
riallenarsi al gioco della gatta morta. Lei non era così nel modo
più assoluto, ma con la mammina era difficile farla franca. La
mammina, adesso, pretendeva tutto: il Giornalista non doveva
essere mai esistito, il matrimonio neanche. Sarebbero intervenuti
467
il monsignore e il vescovo e, se non fossero bastati, il cardinale
e il papa, a spingere la Sacra Rota per annullare, cancellare, far
dimenticare: la sua bambina doveva tornare più vergine di Maria.
Il cordone ombelicale, mai tagliato, doveva essere irrobustito e la
prima mossa era tornare a prima del matrimonio.
Venne seguita la cura del dottore:
« Torna alla tua vita di prima, a quella normale, subito; vai in
mezzo alla gente, cammina a ritroso » le disse.
Lei non poteva che obbedire: si era messa nelle loro mani e ormai doveva fidarsi.
Dietro aveva lasciato la fame, le incazzature del Giornalista, la
possibilità molto temuta che lui si fosse già stufato e che da un
momento all’altro avrebbe potuto comportarsi come aveva fatto
con le altre donne (fatto che la banda gurupeutica aveva ripetuto
incessantemente), trattate come stracci.
A queste ventilate ipotesi si aggiungeva il racconto, sempre presente, della donna a cui si era svegliato accanto guardandola
come fosse una sconosciuta, tanto che a colazione le aveva dato
il benservito. Va aggiunto che, quando gli prendevano i fumi, il
Giornalista diceva che il matrimonio era un semplice pezzo di
carta e altre fesserie del genere. Così la Segretaria aveva pensato,
molto giustamente, di precederlo.
E per la prima volta (*) gli capitò di essere piantato da una donna. In questo caso era stato sedotto e abbandonato, dopo un
lungo studio per attuare il piano. Ma era un piano d’amore sincero e di dedizione totale, che avrebbe onorato qualsiasi donna.
La gatta morta, di cui lei gli aveva parlato quando ancora si davano del lei, e della quale nei primi giorni in cui stavano insieme
manifestò la paura del possibile ritorno, non le apparteneva. Era
un tributo che aveva sempre pagato alla mammina e che ora
stava pagando di nuovo. Questa constatazione feriva profondamente il Giornalista, che vedeva vanificato il lungo tirocinio che
la Segretaria aveva affrontato per riscattare il tarlo che viveva
nella casa dove era cresciuta. Ora sua madre tornava a essere sua
figlia.
Ben ti sta, doveva dire il Giornalista guardandosi allo specchio,
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dovevi fare i conti prima di sposarla, se potevi permetterti una
moglie. E la tua Zizi, che ti aveva concesso una fiducia incondizionata, ha retto anche troppo, fino all’estremo. Dovevi aspettare, prima di farle tagliare i ponti col suo mondo, di avere quel
minimo che consentisse di resistere.
I Promessisi, invece, lo avrebbero fatto anche senza quei settemila euri della Segretaria: diversamente non sarebbero stati
un vecchio matto e una giovane scema, che avevano vissuto da
Bonnie e Clyde.
Il Giornalista non andava quasi più in giro in paese. Aveva capito
che la sposa doveva seguire la cura gurupeutica andando tra la
gente. Poi, per contentare il suo parentado, doveva mostrare a
tutti che si era “svegliata”. E lui, per cercare di semplificarle la
vita, evitava di incontrarla.
Una sera però, all’ora del passeggio estivo, le vide, lei e sua madre, senza che loro lo vedessero. Era seduto su di un muretto,
in penombra, sul bordo di uno slargo che portava alla via principale del paese. La Segretaria, in leggings scuri e gonnellina,
si lasciava trainare dal cagnolino a guinzaglio, mentre la madre,
appiccicata al suo fianco, controllava di sottecchi chi le guardava.
Il Giornalista era mortificato per la sua donna. Gli sembrò di vederla come la ragazzina thailandese che abitava di fronte a loro,
quando usciva con la madre per la passeggiata quotidiana.
Provò un senso di tenerezza per tutte due, misto a compacomprensione. In fondo, anche la Psicologa, la cui femminilità era
arrapante, agiva con questa sua natura e lui non poteva prendersela. Gli sarebbe occorso un po’ di tempo, come aveva detto
alla moglie, per accettare la sua presenza, ma la Psicologa non lo
aveva concesso a nessuno dei due. E ora stava pretendendo dalla
figlia quel prezzo così esoso.
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LXXXIV
Il Biglietto di Slanda
Era estate sul calendario e anche nell’aria. Il Giornalista era impegnato a non mettere in disordine la casa della Segretaria, in
cui, lei assente, si sentiva un intruso. Quell’ordine gli era divenuto estraneo. Cercava di tirare avanti, ricollocando subito al
suo posto ogni più piccolo oggetto, libro, documento, appena
lo aveva usato.
Si fece sentire Ricciolo, che aveva urgenza di vederlo. S’incontrarono di fronte al Comune.
« Sali in macchina - gli disse - Andiamo a prendere un caffè fuori
del paese, così stiamo più tranquilli »
« Che ti succede? Ti vedo mogio » cominciò il Giornalista.
« È morto Slanda »
« Slanda? »
« Mi ha cercato ieri sera. Abbiamo parlato a lungo e l’ho lasciato
che stava benissimo »
« E allora? Gli è preso un colpo? »
« No, salutandoci mi ha detto che non ci saremmo più rivisti e
mi ha dato questa busta per te » disse Ricciolo, cavandola dalla
tasca della giacca e porgendogliela.
« Ma poi che è successo? »
« Questa mattina il nipote l’ha trovato a occhi chiusi, girato sul
fianco, come se dormisse... »
« Ha preso qualcosa andando a letto? »
« No, non si è suicidato, se è questo che pensi. Il medico era
esterrefatto: non è riuscito a capire... nessuna crisi cardiaca o... è
come se la vita si fosse spenta... »
« Me l’aveva detto... ha chiuso il rubinetto dell’entusiasmo... ha
staccato... Prima l’Editore, poi Slanda, ci lasciano i pochi amici,
caro Ricciolo... »
« Slanda ha detto che sarebbe stato curioso di vedere come se la
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sarebbe cavata l’unico figlio che gli era venuto bene, ossia te, ma
era veramente stufo di incontrare la gente e assorbire notizie di
tutte le disgrazie della nostra società. A proposito: sapeva della
fuga di tua moglie, ne parlano tutti. E per questo non ti ha chiamato. “Deve stare solo in questo momento”, ha commentato,
“Ma digli che non abbandoni quella donna. “Il Giornalista ha
un pessimo carattere (ci somigliamo)” - ha aggiunto – “ed è sicuramente colpa sua se è scappata. Ma deve farla tornare, senza
la donna adatta i matti combinano poco”... E anche la donna, se
è donna - questo te lo dice Ricciolo, il tornitore - ci ripenserà:
poche incontrano un matto vero e non ne possono incontrare
più di uno nella vita... ci ripenserà, se è una donna... »
« Ci lasciano sempre i migliori e stavolta non è un luogo comune... quel Padreterno non è poi così giusto e neanche tanto
buono... »
« Ma Slanda aveva novantasei anni... »
« Sì, ma prima che se ne andasse questo Padreterno doveva costruire un sostituto, ma non lo vedo ».
Giunto a casa, il Giornalista aprì la busta. Conteneva un assegno
circolare di quindicimila euri e un foglio con scritto:
Avrei voluto dartene di più, che ti bastassero per una partita al Casinò, ma
non sono mai stato ricco. Compraci una penna buona: racconta te stesso e
la nostra amicizia.
471
LXXXV
Lo Zaino
Era giunto il momento di andarsene. Il Giornalista fece il giro
della casa, constatando che metà delle finestre del suo appartamento si affacciavano già sui ponteggi che avevano montato
per eseguire i lavori, resi obbligatori dall’ordinanza comunale.
Entro due, tre giorni l’accerchiamento si sarebbe concluso. E, in
base all’ordinanza di pericolo emessa dagli amministratori amici
dell’Erbivendolo prima che lo sbattessero in galera, il palazzo
doveva essere sgombrato. Tuttavia, dopo un’opposizione del
Giornalista, con richiesta di consulenza tecnica, si era stabilito che andavano montate delle catene ed eseguite certe opere
di consolidamento, escludendo però la necessità di sgombero
dell’edificio.
I lavori, che interessavano l’intero palazzo, sarebbero durati per
molti mesi, come si desumeva dalla tabella di cantiere.
Ogni giorno avrebbe dovuto subire il rumore della gru e delle
carriole intervallate, alla sera, dal tamburo e dai piatti della batterista soprastante. L’avevano sistemato per le feste.
Era proprio giunto il momento di andarsene e lui sentiva che il
biglietto di Slanda era per l’Alpe della Luna. Meno male che la
mia Zizi non c’è, pensò il Giornalista, a subire questa prepotenza, avremmo patito il buio anche durante l’estate. E poi, ultimamente, pranzavamo nella stanza dei libri (la biblioteca grande,
lei la chiamava) con affaccio sul Giardino: era ariosa e allegra
al sole di primavera. Meno male che non deve ingoiare anche
quest’ultima pillola.
Il Giornalista aveva pagato, oltre ai debitucci con la Lettrice e
con la Geometra (il Cambusiere era rimasto fuori, altrimenti si
sarebbe assottigliato troppo il dono di Slanda), le bollette della
luce e del telefono, così potè mettersi al computer. Consultò il
meteosat: un anticiclone era in viaggio verso l’Italia e sul centro
472
era previsto un tempo mediamente discreto.
Cominciò ad aprire le cartelle fotografiche, che documentavano
tutto il tempo della loro vita a unapiazzemezzo. In ordine cronologico, si cominciava con un servizio sul caos che dominava
in casa al momento in cui arrivò la Segretaria.
Il confronto con l’ordine che si poteva vedere, adesso, rendeva
il lavoro da lei svolto incredibile, pensò il Giornalista che rapidamente mise in fila la miriade di complicazioni e difficoltà in cui il
miracolo era avvenuto. Nessuno, annotò mentalmente, avrebbe
potuto rendersi conto di ciò che lei aveva fatto: non si trattava di
ripulire le stanze, dividere i libri dalle calze e dagli asciugamani
(miscela che il Giornalista era riuscito a fare a meraviglia) o i plichi di documenti dalle pentole, ma ogni cassa era stata ordinata
sfogliando e mettendo al proprio posto ogni pagina, ogni libro
era stato collocato nella propria sezione; cucina e guardaroba
erano stati resi efficienti e funzionali. Le fotografie documentavano il passaggio dalla tana di un disperato, che testardamente
si ostinava a sopravvivere, alla casa di un intellettuale borghese
agiato e tranquillo.
La mia Zizi, ripeteva lui girando per la casa con gli occhi lucidi
e il cuore gonfio. La mia Ziziphon, continuava a pensare, ha
realizzato ciò che Muriel sognava: di mettermi intorno una casa
con una donna che mi volesse bene; ma, mentre Muriel avrebbe
inevitabilmente sfruttato i suoi mezzi economici, Ziziphon ha
continuato a impegnarsi fino all’ultimo, senza posa, sui confini
con la fame. Ma allora non era soltanto innamorata, lei mi voleva
bene.
E io, grande testa di cazzo, non l’ho capito, concluse.
Poi scorse le cartelle di fotografie della vita di tutti i giorni: loro
che facevano la marmellata, che attaccavano le picce d’uva ai travi e stendevano ad asciugare le noci raccolte sulle terre di Bonnie
e Clyde, i cachi messi a maturare, le castagne in pentola a lessare
e sul fuoco ad arrostire; lei che sfilava il galletto dallo spiedo a
Pasqua, lei che serviva l’uovo d’oca sodo al suo sposo, loro che
brindavano, che si abbracciavano e sorridevano, che si amavano:
non esisteva un’immagine su cui questo non fosse scritto a ca473
ratteri indelebili.
Cliccò sulla cartella del matrimonio, ma era inutile aprirla: ogni
fotogramma era proiettato nelle aree visive del suo cervello.
Guardò invece a lungo la loro camera allestita all’interno del bivacco all’Alpe della Luna, il 18 Settembre dell’anno prima: lei
che riarrotolava i sacchi a pelo, che rifaceva lo zaino, loro che si
sorridevano e si abbracciavano accanto a ogni pianta della grande faggeta.
Infine aprì armadi e cassetti. Accarezzò lo specchietto rotondo
rimasto nel vano destro della scrivania dei nonni, dove gli sposi tenevano il computer; appoggiò la guancia al phon con cui
Ziziphon gli asciugava i capelli e scaldava il letto, provocando
l’abbassamento della luce. Aprì le ante del’armadio della camera
e scorse con la mano i suoi vestiti; si soffermò nel corridoio a
guardare le Camper ex bianche tutte sbertucciate di quella mattina in cui se n’era andata.
Era tempo di preparare lo zaino grande, che dalla notte al bivacco su alla Ripa non aveva più usato. Per primo ci mise il sacco a
pelo. Poi ebbe un ripensamento e ci mise anche l’altro: poteva
far freddo lassù anche in estate, magari molto freddo dopo un
temporale. Ma, in realtà, gli balenò l’immagine della Segretaria
che avrebbe potuto raggiungerlo. In fondo, l’aveva chiesto lui a
Natale, di essere abbandonato per avere la spinta a scrivere un
romanzo.
Infilò nello zaino il maglione rosso di lana e dieci stecche di
sigarette, due pacchi di accendini, il fornellino a gas e sei bombolette, tante candele, infilzate in ogni spazio possibile, due scatole di fiammiferi di legno, due thermos, dieci pacchetti di caffè
e la moka. Rimanevano due tasche. Ci mise cinque barattoli di
marmellata, due pacchi di biscotti, sei stecche di cioccolata e una
pagnotta di pane. Lo zaino era pieno, e ne staccò dal chiodo della
dispensa un altro più piccolo, da mettere come pettorale. Voleva
rimanere lassù almeno due mesi, senza entrare in contatto con
nessuno. Il problema era il rifornimento di pane e di acqua. Per
quest’ultima conosceva una sorgente vicina alla capanna, a un’ora di cammino tra andare e tornare. Per il pane la soluzione fu di
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cambiare alimentazione e caricò una buona quantità di gallette.
Accanto alle gallette mise i cinque quaderni già scritti e altri sedici nuovi, un pacco di ricariche per le due Pilot, due lapis. Il
posto per il vocabolario non fu trovato, e ci rinunciò, benché si
sentisse come uno che andasse a sciare senza le racchette. Per
ultimi mise nello zaino sei salamini alla cacciatora, due confezioni di scatolette di tonno e due barattoli di fagioli, una padellina,
quattro piatti e due tazze. Un guanciale gonfiabile completò il
carico, anzi lo stracarico.
Lo chiamò la Monaca:
« Alla fine ci sono riusciti a riportarla nell’ovile. Pensavo e speravo tanto che ce l’avesse fatta, mia sorella, a liberarsi... invece... »
« Non c’era altra soluzione, mi sono trovato chiuso e senza soldi.
Si faticava a comprare il pane e le uova. Almeno ora mangerà... »
« Lo sapevi che era incinta? »
« Non è vero, chiacchiere... »
« Sarà, ma è voce di popolo... fanno anche il nome dell’ospedale
dove l’avrebbe accompagnata… »
« Fandonie, cattiverie »
« Sarà così, ma... »
« Chi ti ha informato, anzi, disinformato? »
« L’unico amico che mi è rimasto in paese... te ne parlai, mi sembra »
« Digli che ti ho assicurato io che non è vero »
« Non serve, la verità la fa la gente ».
475
LXXXVI
L’ Aquila
Era deciso. Sarebbe andato sull’Alpe, alla Fonte dei Caproni: si
trovava, scendendo il crinale dal Monte dei Frati verso Viamaggio, vicino al bivio del sentiero che porta a Monteviale.
Sul posto, lontano però dal sentiero, il Giornalista aveva costruito, due anni prima, una capanna coperta di tavole e frasche,
con sotto un’ondulina di plastica, al riparo di un faggio enorme
a tronco doppio. Tra i due tronchi, separati di oltre un metro e
mezzo, aveva alloggiato la piccola struttura, che si allargava di un
po’ uscendo da entrambe le parti. Per arrivarci occorreva inerpicarsi per un centinaio di metri attraverso un boschetto fitto fitto
di faggi giovanissimi, che nascondeva il luogo anche agli amici
più intimi della Luna.
L’unico a sapere della sua decisione fu Ricciolo, che l’accompagnò oltre Montelabreve fin dove, dalla strada polverosa degli
smacchiatori, inizia il sentiero che sale a Monterano. Arrivarono
che albeggiava. La strada da percorrere era lunga, con due zaini
così carichi, e alla Fonte dei Caproni doveva controllare che esistesse ancora la capanna, benché l’avesse costruita solida e fosse
ben riparata dal vento. Ma la vita, come diceva Slanda, è solo
ottimismo.
« Ce la fai ad arrivare per stasera? »
« E me la daresti buona... in tre ore ci vado, normalmente. Con
questo carico ho calcolato il doppio del tempo... metti che ogni
tanto voglia riposarmi… arriverò all’una »
« Se hai bisogno di qualcosa fai un fischio... »
« Giusto un fischio: non ho portato il telefono, tanto non lo
posso ricaricare... »
« Non ti dico in bocca al lupo: lassù puoi incontrarlo »
« Diverremo amici ».
Partì barcollando, alla ricerca dell’equilibrio adatto e del passo
476
migliore per la camminata che l’aspettava.
Come accadeva spesso, specie nei frangenti di cui era fatta la
sua vita, gli sovvenne una metafora tratta dai mondi che aveva
sempre frequentato. Negli aerei da caccia degli anni Quaranta
esisteva un marchingegno chiamato “+ 100”: si trattava di un’iniezione di nitrometano direttamente nelle camere di scoppio
dei cilindri del motore a pistoni. Come far esplodere una bomba. Il pilota determinava questa immissione azionando una leva
posta al suo fianco, frenata con un filo metallico per evitare di
azionarla per errore. Così poteva ottenere un notevole e istantaneo aumento di potenza che si traduceva in incremento di
velocità: tale da consentirgli, in casi estremi, di allontanarsi da un
pericolo incombente. Azionare il “+ 100” significava chiedere
però alla macchina una prestazione limite, e (tutto si paga) dopo
aver ottenuto questo miracolo, l’aeroplano terminava la sua vita
operativa, occorrendo almeno una revisione generale.
Il Giornalista aveva sulla parte posteriore della calotta cranica un
rigonfiamento osseo che gli derivava parto della madre lungo e
travagliato (“m’hai fatto disperare anche per nascere” gli diceva
lei “ma ti ho costruito di ferro”). Era ben visibile sotto i capelli.
E lui teneva molto a questa particolare conformazione, dicendo
che era il suo “+ 100”.
Sotto il peso di quegli zaini, mentre pensava all’impresa che stava
per affrontare, stabilì che era arrivato il momento di azionare
quella leva, dando massima potenza alle energie, fisiche e mentali, che gli rimanevano.
Controlli finali eseguiti, cinture tirate al massimo, con posizione
del busto in avanti per resistere alla brusca accelerazione: sblocca e aziona la leva. L’aviatore aveva rivolto in su il muso del suo
aeroplano verso il buio dell’alta quota; il pilota di monoposto
stava entrando alla parabolica di Monza ritardando la frenata,
fumavano le gomme e la barriera gli si rifletteva negli occhi; il
Giocatore chiese BANCO BANCO BANCO e chiese banco al
mondo all’universo al padreterno agli oceani alla vigliaccheria
all’istinto di conservazione puntando l’intero patrimonio del terzetto: il mistero delle trinità è tutto qui. Si scopre quando un
477
animale si gioca quell’acqua di cui è fatto senza lasciarsene una
goccia, le sue quattro cartilagini e le ossa, quella massa grigia
ghiotta soltanto di zucchero e di ossigeno, quella pompa instancabile che pretende soltanto sangue per farlo girare dappertutto.
Si scopre quando gl’individui che compongono ogni uomo si
uniscono e si offrono l’un l’altro senza alcuna odiosa trattativa,
gareggiando per dare se stessi. Uno che era trino.
A mezzogiorno, il Giornalista giunse all’altezza delle case del
Monterano, ma lui continuò sul sentiero senza fermarsi. Era in
ritardo sulla tabella che aveva calcolato; il peso si faceva sentire
e aveva di fronte la scala di pietra che, coi suoi massi irregolari,
porta sotto il Monte Maggiore. Alle due vi giunse. Tolse gli zaini,
li appoggiò a terra e si mise a mangiare.
Stava per ricaricarseli, quando udì un grido, un verso che assomigliava al latrato di un cane o al guaito di una volpe, ma proveniva
dal cielo. Era l’Aquila che, con due volteggi, discese e si posò sul
ramo più basso di un faggio:
« Che fai Giornalista, vieni a vivere quassù? »
« Ci provo... »
« Ti è toccato venire quassù, ma prima li hai mandati tutti in
galera... complimenti »
« Mah, ho fatto quel che sentivo... »
« Facciamo un volo insieme? »
« Magari, ma io sono pesante e per volare ho bisogno dell’aeroplano »
« Vieni aviatore, sei così abituato alle ali artificiali che le tue non
sei più capace di vederle. Dai, vieni... ».
Si alzarono in aria insieme e in pochi minuti furono sulla verticale dell’orrido della Ripa, sul Salto della Sposa.
« Saliamo ancora, se qualcuno ci sentisse parlare chiamerebbe il
118... »
« Com’è che parli e conosci le cose umane... e conosci anche
me? »
« Sono stato umano... »
« Sei un reincarnato? »
« Ero un aviatore anch’io... non mi riconosci? Sono stato il tuo
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istruttore... INDIA – ALFA ECO HOTEL INDIA... mi riconosci? »
« Walter... sei tu veramente? Ricordi la sigla del G. 46? »
« Sono reincarnato, mica rincoglionito »
« E se vedono un uomo che vola? »
« Quassù siamo due aquile che volano in coppia, come abbiamo
fatto tante volte con l’aeroplano. Facciamo quota, non posso far
sentire le cose che tu vuoi sapere ».
Erano alti quando sorvolarono Badia Tedalda, continuarono a
salire e, virando a sinistra sopra Monte Botolino, raggiunsero il
Fumaiolo.
« Tutti i piloti di aeroplano diventano aquile? »
« Ti ricordi quando dicevo che una cosa è sollevarsi da terra,
come si è fatto poco fa e potremmo esserci posati su una pianta? Un’altra cosa è volare come stiamo facendo, seguimi… » e,
chiuse le ali, discese in picchiata ripida per poi risalire con una
spirale strettissima.
« Soltanto gli aviatori diventano aquile... » disse l’Aquila.
« E gli altri reincarnati?»
« C’è chi nasce uomo e chi animale, chi è alla prima e chi alla
seconda reincarnazione... ci sono anche i nati aquila ».
« Io e te per esempio? »
« Io sono nato aquila, poi diventato uomo e ci siamo conosciuti,
ora sono tornato aquila... Tu sei alla tua seconda vita... »
« Ecco, intanto ho capito perché eri un aviatore così bravo, se eri
già stato aquila... »
« So perché sei quassù... lei non ti ha lasciato... l’hai costretta... »
« Costrinsi anche Muriel a partire... come fai a sapere... »
« Le aquile hanno cento volte la vista dell’uomo... Le aquile non
sanno: vedono... »
« Mi sorprendi e mi spaventi »
« Le aquile sanno tutto del presente, ma non hanno memoria del
passato »
« Ma tu ricordi la tua vita precedente »
« Sono l’Eccezione »
« È un vantaggio? »
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« È una grossa seccatura. Tutti ti guardano e pretendono da te
l’impossibile »
« Questa non mi rimane nuova. Ma che importanza ha la reincarnazione? »
« È determinante, decisiva... ».
Parlando virarono a destra, seguirono il Senatello e raggiunsero
la sua confluenza col Marecchia. Veleggiarono, altissimi, sulla
verticale di Pennabilli.
« Qui vorresti abbassarti, lo so: eri felice quel giorno... » disse
l’Aquila.
« Sì, moltissimo... »
« Anche la Segretaria è alla sua seconda vita »
« E i suoi familiari? »
« La madre alla quarta, il padre e lo zio alla seconda »
« Che cosa erano? »
« La madre debuttò come cigno, poi divenne vipera, alla terza fu
donna e faceva la modista, ora quel che è lo sai... I due fratelli,
il Commercialista e l’Editore, debuttarono come orsi polari... »
« E il mio amico Aldo Valmori? »
« Nella prima vita è stato aquila... »
« Ma come funziona questa trasmigrazione? »
« Niente trasmigrazione... niente parole difficili... non sono anime che passano da un corpo all’altro con quell’operazione che i
filosofi chiamano di metempsicosi... non si tratta dell’anima che
migra... »
« E allora come funziona? »
« Se un giorno sarai aquila lo vedrai... posso dirti che ognuno
conserva, nella parte bassa del cervello, quella istintiva, l’essenza
dell’animale che è stato... »
« McLean chiama la parte bassa “rettiliano”, ma secondo quanto
mi dici, non è per tutti uguale come lui sostiene... non ci fornisce
gli istinti degli animali più antichi, ma ognuno ha l’istinto dell’animale che è stato... Non mi hai detto di me e di mia moglie... »
« Tu eri un lupo della steppa e lei una lupa del nostro Appennino... non potevate che incontrarvi... »
« Lupi? »
480
« Francesco e Chiara erano lupi per esempio... »
« Altra storia, loro nella povertà andarono in Formula Uno... »
« Seguimi » disse l’Aquila e, con una virata secca e un rovesciamento, si fiondò verso terra: era l’apertura che i piloti da caccia
eseguivano per passare dal volo in formazione a quello, solitario,
di combattimento. Atterrarono.
« Ti saluto, aviatore... forse un giorno ci rivedremo » fece l’Aquila, e volò via.
« Speriamo da aquile... » gli gridò dietro il Giornalista.
481
LXXXVII
La Fonte dei Caproni
Il Giornalista giunse alla capanna mentre il sole tramontava. Riuscì a malapena a togliersi gli zaini e srotolare il sacco a pelo che
ci cascò dentro.
Per tre giorni fu impegnato a mettere in sesto la capanna e non
gli era andata male, perché almeno il tetto era rimasto in buone
condizioni. Poi fece un conto dei viveri, imponendosi un razionamento con cui sarebbe potuto andare avanti decentemente
per i due mesi che aveva previsto.
Poteva scrivere in due posti diversi: a venti metri dalla capanna
servendosi della parte inclinata di un grande masso che sembrava un leggio, dove poteva poggiare il quaderno; oppure dentro
la capanna, usando come appoggio una tavola che teneva di traverso sulle gambe stando seduto su uno sgabello pieghevole che
era rimasto intatto dentro un sacco di plastica, nascosto con cura
due anni prima.
E il lupo, aspirante Aquila, si calò in pochi giorni nella sua nuova
e forse congeniale condizione di vita. Usò solo qualche ora del
giorno per poggiare il quaderno sul leggio di sasso; il resto lo
dedicava al bosco e allo studio dei faggi, che non finiva mai di
scoprire. Scriveva di notte, centellinando le candele e rischiando
l’incendio, come accadde una volta in cui, stanco, si era addormentato e lo svegliò il crepitio di una frasca secca che la candela,
giunta al termine, aveva attaccato.
Mai aveva posseduto quella lucidità che ora gli permetteva di
vedere il mondo attraverso una lastra di cristallo, tersa come un
cielo di Febbraio. Conquistò il distacco per giudicarsi, a cui seguì
la cinica volontà di punirsi. Tanto che nella scrittura mantenne
un occhio di riguardo per i suoi personaggi modello, ma ritrovò
se stesso nei difetti degli altri descritti come peggiori.
Ripensò all’Aquila e a quel bestiario di cui vedeva composta ogni
482
persona: l’animale non ha il senso del giusto e dell’ingiusto, del
male e del bene, reagisce con i meccanismi che la natura gli ha
fornito. Non c’è veleno, di tipo umano, neanche nella vipera: se
è costretta a colpire con la velocità e lo scatto repentino di cui è
fornita lo fa soltanto per sopravvivere. Queste le giudicò, come
sono, riflessioni ovvie, ma le sentì parte di se stesso: non gli era
mai accaduto ed è raro che accada a qualsiasi uomo. Colse fino
in fondo il valore della lotta contro le tentazioni, del ritiro nel
deserto degli eroi delle religioni con un solo Dio, del silenzio che
deve precedere la solitudine creativa, perfino della flagellazione
volontaria.
Parlò a voce alta con le sue donne: la madre Vittoria, Muriel e
Ziziphon. Loro, vedendolo in cima alla vita, gli si erano messe
a fianco e lo avevano sostenuto, trasformando l’indispensabile
sopportazione dei suoi difetti in pura energia.
Sua madre pretendeva che lui saldasse il conto con tutti, spendendo, dopo tanto scialacquare, il meglio di quanto gli aveva
dato e che ancora gli era rimasto. E le sue compagne si erano
intestardite a seguirlo perché lo avevano capito.
Giunse a valutare con misericordiosa comprensione, rivolta anche verso se stesso, perfino la natura del cervello basso del notaio e del gurupeuta, ipotizzando un loro essere precedente, non
da insetti come sono apparsi, ma forse, nell’ordine, da ratto e da
upupa. Di se stesso concluse che il lupo della steppa sarebbe stato sempre disadatto alla società umana, e comunque, trovandosi
nella parte del bipede eretto, non aveva fatto niente per migliorarsi, adagiandosi invece proprio sui suoi difetti, esibendoli come
naturale referenza dell’uomo geniale e dell’artista. Fottendosene
del resto del mondo.
483
LXXXVIII
Il Romanzo
Ora, mentre di notte il freddo cominciava a dare fastidio, gli zaini
erano leggeri. Prese la via del ritorno. All’altezza del Monterano
rivide le case e, in lontananza, una figura d’uomo. Lo spettacolo
non gli piacque. A Montelabreve ebbe contatto diretto con la
civiltà e gli piacque ancora meno. Ma ormai doveva concludere
il programma che si era imposto mesi avanti.
Due, tre mesi gli sembravano il tempo di un’intera esistenza, che
aveva ripercorso, o visto, come fanno le aquile.
Chiese ospitalità a dei villeggianti forestieri, quel minimo per
darsi un aspetto presentabile in un paese: doveva trovare qualcuno che accettasse di prendere in consegna il suo taccuino, come
chiamava i venti quaderni che aveva scritto. Qualcuno che avrebbe deciso se pubblicare la storia, mentre lui sarebbe tornato lassù
alla Fonte dei Caproni o chissà.
Pensò istintivamente alla sua Lettrice, aveva sentito continuamente il bisogno di lei mentre scriveva: le sue osservazioni, positive e soprattutto negative le sarebbero state di grande aiuto.
Ma la consegna era di agire, una volta tanto, fuori dalla propria
cerchia, lasciando alle persone più care qualcosa che in parte le
ripagasse della fiducia che avevano riposto in lui e dei disagi per
averlo seguito.
I forestieri di Montelabreve, dopo avergli permesso di aggeggiarsi un po’ la barba e farsi una doccia, giusto per allontanare il
tanfo che emanava, lo accompagnarono a Borgo Pace. Si sentiva
trattato come il primitivo, scoperto nella giungla, di quei film in
cui i cacciatori lo portano in città per mostrare al mondo il fenomeno. Pensò che il suo aspetto gli dava il vantaggio di essere
meno riconoscibile in un ambiente che lo metteva in tensione,
poiché era giunto a due passi da casa.
Non trovò nessuno adatto al suo scopo a Borgo Pace e proseguì
484
per Mercatello. Aveva pensato di salire a Figgiano, da Mara, ma
poi si recò nella libreria di Mercatello, chiedendo di una persona
disposta a battere un testo manoscritto.
I proprietari furono molto gentili e la signora, che aveva spiccati
interessi letterari, fu curiosa di capire cosa realmente volesse lo
strano individuo allo stato semiselvaggio e si offrì lei stessa come
dattilografa. Ma il Giornalista era molto geloso dei suoi scarabocchi, di cui parlò vagamente senza mostrare niente.
Avendo deciso di fermarsi per risolvere il problema, la signora
Giovanna lo condusse in un agriturismo in collina dove lei era
di casa. E alla fine lui si decise a farle vedere un quaderno che
Giovanna cominciò a battere.
Dopo qualche giorno, informata dell’esistenza di una quantità di
altri quaderni, si rese conto che per quel lavoro occorreva un impegno a tempo pieno. Siccome era già notevolmente occupata,
fece il nome di una ragazza che aveva discusso la tesi di laurea da
pochi giorni, e che quindi si trovava in un periodo di prevedibile
libertà. Cosa importante, la ragazza aveva l’amore della scrittura.
Così il Giornalista conobbe Cecilia. E a lei, che subito gl’ispirò la
certezza di aver trovato la persona adatta, squadernò il taccuino
al completo.
Non era ugualmente semplice chiedere quanto lui voleva: Cecilia
avrebbe dovuto leggere e stabilire se fosse valsa la pena di pubblicare il romanzo; le diede due giorni per decidere.
Ne passarono quattro, poi Cecilia gli telefonò:
« Ho visionato i quaderni, leggo bene la tua scrittura. Credo che
un romanzo ci sia nel tuo taccuino. Sono disponibile, a patto
che io possa inserire dei corsivi che si richiamano ai quaderni,
quando serve. Di fatto i corsivi servirebbero nella seconda parte,
a cui hai dato come titolo “l’Alpe della Luna” e forse anche nel
“Salto della Sposa” »
« Vediamoci » le disse.
Quando s’incontrarono, lui si accorse che Cecilia non aveva dormito e osservandola mentre scorreva i quaderni avanti e indietro
(aveva messo dei post-it numerati sulle copertine) si rese conto
dell’impresa compiuta dalla ragazza.
485
« Cecilia, sai bene che il mio lavoro comincerebbe adesso. Ti
consegno la prima stesura, ciò che è riuscito a fare un uomo alla
macchia »
« Ho qualche domanda. Perché i numeri romani, i titoli, l’indice,
son cose che non usa più nessuno o quasi… »
« Quei numeri son nati contando con le mani e sarà l’ora di tornare coi piedi sulla terra, al microcosmo di quei quattro matti di
umanisti… cominciamo a parlarne… possiamo comprendere le
stelle e i computer ma soltanto misurandoli con la nostre mani;
quanto ai i titoli e all’indice, servono, terminata la lettura, a far
mente locale (buffa espressione ma dà l’idea) sulle cose che hai
letto, rifletterci e discuterne. La prima lettura serve a questo, a
meno che non si scriva per passatempo. Il tempo passa da sé e
noi dovremmo impiegarlo. Un libro, se merita, va riletto »
« Sì, mi convince »
« Cecilia, devo ripetere: sai bene che il mio lavoro comincerebbe
adesso. Ti consegno la prima stesura, ciò che è riuscito a fare
un uomo alla macchia. Sarà pieno di refusi e di errori un testo
scritto e stampato di corsa. Il tempo che ti do per portare alla
pubblicazione questa roba non è poco… è inesistente »
« Quanto? »
« Deve essere in libreria per Natale: è una promessa che ho fatto
nel giorno di Natale di un anno fa. Ce la farai? »
« Ce la farò »
« Sono sfacciatamente fortunato: il vecchio matto ha trovato una
matta. Ora ne serve un altro, un complice, un editore... »
« Lo troverò ».
486
LXXXIX
Il Finis
Il libro fu pubblicato. Del Giornalista non si seppe più niente, e
nemmeno della Segretaria. La voce che correva lungo il Metauro
è che lei fosse salita alla Fonte dei Caproni, e che poi fossero
partiti insieme. Per l’India? Nessuno li ha più visti.
Un fatto è certo. Sono passati pochi anni e ogni notte di plenilunio si sente correre sul crinale più alto dell’Alpe della Luna, e
dallo strapiombo del Salto della Sposa provengono grida festose: “Chi è il più?... IO... IO... Chi è?... IO... IO”.
487
INDICE
L’ANGELO STERMINATORE
Il Ritrovamento........................................................................13
Un Quadro Cubista.................................................................18
La Cugina..................................................................................23
Il Cantiere.................................................................................27
Il Giornalista............................................................................34
Ricchezza Imprevista..............................................................40
La Segretaria.............................................................................42
L’Editore...................................................................................48
L’Ospite ...................................................................................53
Re Mago ...................................................................................58
La Visita Medica......................................................................65
Natale 2009 ..............................................................................70
L’Architetta ..............................................................................78
Guerre di Carta .......................................................................90
Il Vecchio e il Nuovo Testamento........................................95
Il Libro d’Ore.........................................................................101
Ipotesi......................................................................................106
Terzo Grado al Femminile...................................................111
La Pizza Umberto I...............................................................116
Codice Donna........................................................................123
La Geometra..........................................................................128
Il Campanile di Giotto..........................................................136
La Buca del Pero....................................................................143
Facce da Casco ......................................................................150
Un Piccolo Museo.................................................................156
Slanda......................................................................................163
Effemeridi a Venezia ............................................................172
Chemin de Fer........................................................................183
Uno Scrigno Leggendario....................................................194
Acrobazia................................................................................199
La Cosa in Sé..........................................................................205
Muriel......................................................................................212
Le Meridiane...........................................................................222
L’ALPE DELLA LUNA
Il Kilt.......................................................................................229
I Tre Poli...................................................................................234
Confidenze..............................................................................239
Screzi.......................................................................................246
L’Esplosione...........................................................................250
Un Modello............................................................................254
Il Foulard................................................................................260
Bilancio di Fine Anno...........................................................264
Polis...........................................................................................267
A Carte Scoperte...................................................................272
La Tana....................................................................................278
Armonia..................................................................................283
Il Colloquio Interrotto..........................................................291
Campanari e Vecchie Signore..............................................308
Le Teste di Cuoio..................................................................312
I Promessisi Mantenuti.........................................................317
La Loro Casa..........................................................................324
La Torre delle Comete..........................................................332
Le Biblioteche........................................................................336
Il Bivacco................................................................................346
La Trama.................................................................................353
Il Sequestro del Cantiere......................................................358
Un’Officina Felice..................................................................363
Natale 2012 ............................................................................370
IL SALTO DELLA SPOSA
Empedocle..............................................................................377
L’Attentato e la Punizione....................................................378
La Cuginetta...........................................................................381
La Confessione......................................................................386
L’Annuncio del Processo.....................................................388
Il Rubinetto dell’Entusiasmo...............................................390
La Ribollita.............................................................................394
La Scomparsa dell’Editore...................................................397
L’Azzeccacervelli...................................................................400
La Monaca..............................................................................402
Ziziphon..................................................................................408
Extrasistoli..............................................................................409
Percorso Inverso....................................................................412
Gli Insetti................................................................................415
Il Solito Golgota....................................................................422
Il Re di Nemi..........................................................................424
Ragnatele Cinesi.....................................................................428
Pasqua 2013............................................................................432
La Gattabuia...........................................................................436
Ricciolo...................................................................................438
Il Guanciale Rosso.................................................................441
Il Tempo delle Fascine..........................................................445
La Piazzemezzo.....................................................................448
La Vita Leggera......................................................................458
La Festa della Liberazione....................................................461
Il Letto a Tre Piazze..............................................................465
Il Biglietto di Slanda..............................................................470
Lo Zaino.................................................................................472
L’ Aquila..................................................................................476
La Fonte dei Caproni............................................................482
Il Romanzo.............................................................................483
Il Finis.....................................................................................487
Finito di stampare
nel mese di dicembre
presso Graphic Vit Snc
San Giustino (PG)
€ 18,50