la metà architettonica

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la metà architettonica
LA METÀ ARCHITETTONICA
Era pieno inverno. L’aria bianca, opaca, pesante. Soffi gelidi s’insinuavano
ovunque, nelle fessure di abiti, finestre e portoni. Cadeva la neve. Per le strade, a
palpebre basse, i fiocchi orizzontali offuscavano la vista. Le figure nere
procedevano stancamente per le vie, strette come fagotti.
Anita arrancava contro il vento, raggiunse il pesante portone e spalancò i
battenti: un mondo inaspettato, agitato e colorato la accolse. Caldo!!
Un lungo tappeto segnava il percorso, a destra e sinistra si aprivano botteghe, in
fondo un atrio porticato con negozi, sale da thè e gente che chiacchierava
spensierata, incurante della stranezza in cui si trovava. “Dove sono capitata!?”- si
chiese perplessa – “ho sbagliato portone!”. Tornò indietro seguendo il tappeto,
raggiunse l’ingresso, aprì, la travolse un’ondata gelida, guardò fuori: freddo, neve
e buio. “Non è possibile!”. Richiuse il portone, la testa in agitazione, paralizzata.
In quell’istante iniziò a sudare. Faceva caldo, strani disegni geometrici nella
pavimentazione ospitavano gruppi di alberi e cespugli fioriti. Muri scorrevoli
permettevano alla vegetazione di invadere la vita. Tutto era assurdo. Mentre si
scioglieva dal groviglio di lana in cui era avvolta, cercò di raggiungere quelle che,
ne era sicura, DOVEVANO essere le scale. Nessuno la guardava. Non la vedevano
forse? Dove avrebbero dovuto essere le scale, un affresco prospettico
campeggiava sulla parete: raffigurava una scalinata che saliva e si perdeva in un
punto di fuga irraggiungibile.
In quel momento fu presa dal panico. Da anni disabitato da tutti, tranne lei, il
vecchio stabile era triste, silente, oscuro e prossimo alla demolizione. Decine di
volte aveva aperto quel portone, girato a destra e imboccato le scale. Ora, in
quello stesso stabile, c’era un’aria frizzante, vitale, popolata di personaggi giunti
da chissà dove, luoghi e ambienti sconosciuti erano spuntati laddove c’erano
fredde pareti. La struttura era mobile e sembrava ruotare insieme al sole. Anche
la testa di Anita roteava in giro, cercando un perché: i luoghi parevano
RIBALTATI!
Stordita e offuscata, dal lato opposto, riuscì a imboccare le scale. Erano diverse:
lucide, ben levigate, piacevoli nonostante lo smarrimento. Ormai in fuga, la donna
raggiunse il suo rifugio e vi si rintanò. Pensieri sconnessi attraversavano la sua
mente: “quel porticato, quell’androne, quella gente, quel lampadario classico
poi!! Davvero un’assurdità!”. Tutto discordava con l’immagine sciatta e sbiadita
che quei luoghi avevano.
Dentro ogni cosa era al suo posto: una morbida luce filtrava dalle persiane
chiuse, il profumo del pavimento in legno inebriava la stanza; camminando nella
penombra, Anita navigava sicura tra le geometrie della casa, nel buio gli spazi le
parvero più ampi e apprezzò in maniera diversa dal solito persino l’odioso
spigolo tra la parete della cucina e quella del salotto. Quel luogo familiare la
tranquillizzò e, convinta di aver vissuto un assurdo momento di follia, ritornò
alla routine di sempre. La voglia di evadere dal brutto episodio la spinse alla
finestra e la curiosità di guardare il cortile per un ultimo controllo fu troppo
forte. “Ok, tutto a posto anche qui”. La sua immagine riflessa nel vetro ritraeva
una figura stanca, triste e magra e.... sembrava assumere tratti somatici diversi,
più mascolini, occhi più grandi e vivaci, capelli spettinati... quella figura si
muoveva, la guardava... lei era ferma... Quella figura NON era lei!! Sembrava un
uomo, ma una persona, uomo o donna che fosse, Anita non la vedeva più da anni
ormai in quel cortile, o affacciata alle finestre e, per quanto si sforzasse, il gioco di
riflessi continuava ad essere del tutto ingannevole ed irreale ai suoi occhi.
Ripiombò nello spavento. Una vita inafferrabile danzava davanti a lei, origine
riflessa da un luogo occulto e sconosciuto.
Guido era un trentenne dal capello arruffato, polo slabbrata e quel fare da
giovane artista dall’aria stravolta. La sua era una vita distratta; anima
tormentata, ma sguardo romanticamente attratto dal bello. Le giornate
scorrevano veloci tra colori e sguardi persi all’orizzonte fissando il mondo che gli
si apriva davanti. Guido era innamorato del vecchio stabile, l’aveva
accuratamente scelto come suo atelier, il posto in cui avrebbe lavorato ai suoi
“pezzi d’anima”, così osava definire i suoi quadri.
Nonostante conoscesse perfettamente ogni angolo del palazzo, ogni volta che vi
entrava non poteva fare a meno di restare affascinato dall’imponente lampadario
in stile classico dell’androne e ne percorreva i corridoi in religioso silenzio,
ascoltando quel suono che solo un solaio d’altri tempi sapeva regalare. Quella
carta da parati, poi... le sue mani la toccavano con la stessa voluttuosità con cui
un uomo accarezza il corpo di una donna.
Guido, riusciva a trovare se stesso in quel luogo, forse un po’ si somigliavano,
un’anima grande e generosa protetta da possenti mura in grado di aprirsi e
concedersi solo a pochi.
Ogni giorno Guido apriva le persiane, organizzava le tele e miscelava i colori. A
volte il guizzo, l’idea, arrivava solo osservando l’appartamento, soffermando
l’attenzione sulla perfezione dello spigolo tra la parete della cucina e quella del
salotto o passeggiando sul parquet a piedi nudi; altre volte erano i suoni della
strada, il vocìo della gente ad incuriosirlo.
Così come quella sera, quando incantato dalle luci della città, il suo sguardo fu
attratto da un lampo, un riflesso confuso, si percepiva chiaramente la sagoma di
una donna che pian piano si avvicinava a lui. Un corpo sinuoso, uno sguardo
talmente concentrato da non temere distrazioni… eppure, proprio in
quell’istante… lei incrociò lo sguardo di lui. Un’atavica e inspiegabile corrente di
calore fluì attraverso i loro occhi. Aprì la finestra: nessuna traccia di lei.
Anita, puntuale come sempre, varcò la soglia di casa. Altra giornata faticosa, altri
pensieri, troppo stress. Solita giornata anonima e uguale alle altre. Il rientro a
casa era sempre più triste: nessuno le avrebbe regalato quell’abbraccio in cui
racchiudere il vero senso della giornata.
Episodi strani si erano succeduti negli ultimi tempi. L’anima addormentata di
quell’edificio prossimo a morire sembrava risvegliarsi a tratti come se vivesse
una vita parallela: strane geometrie mobili s’impadronivano della sua
architettura austera, gli spazi familiari scomparivano e poi ricomparivano, la vita
di abitanti occulti sembrava a tratti aleggiare nel silenzio; altre volte persone in
carne ed ossa vi si erano materializzate come quell’assurda sera, ma tra i due
mondi, il suo ed il loro, non c’erano evidentemente punti di contatto. Più volte
aveva cercato di parlare, ma ai loro occhi pareva invisibile. Ad Anita, in quei
momenti, sembrava di vivere un ribaltamento inspiegabile dello spazio e del
tempo. Ma la sua mente rigida e strutturata si opponeva al considerare reale o
lontanamente verosimile tutto ciò e archiviava i fenomeni come allucinazioni
momentanee di qualcuno troppo stanco e stressato.
Il suono del cellulare la distolse dai pensieri, rispose alla telefonata serale della
mamma e, camminando nervosamente per la camera, il suo sguardo cadde su un
foglio tra il comodino e il letto: era un disegno, uno di quelli che la penna di una
mano sapiente traccia in pochi minuti bloccando sulla carta un paesaggio che
sarebbe cambiato al calar del sole. Non era suo, e non aveva una neppur vaga
idea di come fosse finito lì. Eppure Anita ebbe un tuffo al cuore: quel disegno le
rievocava qualcosa, a cui non riusciva a dare un nome, un luogo, un tempo.
Lo ripose con cura e, liquidata la madre, attese con ansia il momento in cui i suoi
occhi avrebbero incontrato quelli del misterioso ragazzo del riflesso. Stasera era
decisa a cercare nel suo sguardo quel consenso che li avrebbe fatti incontrare;
era arrivato il momento… Quello strano gioco di luci e ombre, forme e sguardi,
era un’altra delle ultime stranezze: la più piacevole!
Eccolo… bello come il sole, capello arruffato e sguardo perso tra le luci della
città… “Guardami… Guardami….”, ripeteva una voce nella sua testa. Sembrava
non cercarla quella sera, era pensieroso, sembrava cercasse protezione tra i
suoni e le luci di una città che volgeva ormai al termine del suo quotidiano
percorso. Rassegnata spense la luce, ma ecco un guizzo, quel flusso di calore, gli
occhi blu di Guido si girarono verso di lei e… si guardarono, intensamente come
mai prima, istanti che sembravano infiniti, non si erano mai parlati eppure in
quegli sguardi c’erano i riflessi di due anime che cercavano disperatamente di
incontrarsi, di stringersi.
Ma in un luogo occulto, in un tempo parallelo, per quanto Anita cercasse, punti
fisici di contatto con lui non ve n’erano, in un gioco di specchi solo l’anima di lui
la toccava profondamente, come se si fossero da sempre conosciuti, ma Anita
comprendeva che la realtà e la presenza di lui le sarebbero state negate per
sempre. Testimone muta del suo tormento, la casa assisteva immobile al suo
struggersi.
Le possenti mura dell’edificio, come in un caldo abbraccio, avvolgono vite,
episodi e riflessi di anime. Mille storie hanno sfiorato quelle pareti, mille passi
hanno percorso i lunghi corridoi e a pochi attimi dalla chiusura del sipario, il
suono di un campanello scandisce l’inizio dell’ultimo atto di una lunga opera.
Cala la notte sulla città e un tepore primaverile timidamente raggiunge la casa,
una voce familiare risuona nell’appartamento e, con tono sicuro, Anita esclama
“Ciao mamma!”. Le parole rimbalzano tra le pareti, raggiungendo la camera da
letto.
Il suono del campanello distoglie Guido dal suo quadro, ha udito una voce
familiare e accorre con gioia verso di lei.
È un attimo… le anime contrastanti e frammentate dell’edificio, come in un
vecchio ingranaggio, a fatica recuperano il meccanismo… Ecco… ogni pezzo è al
suo posto: spigoli e pareti si riallineano, i frammenti di due realtà, a lungo celate
l’una all’altra, si ricongiungono in un incastro perfetto. Ogni limite scompare,
Guido e Anita sono improvvisamente svelati l’uno all’altra, il loro incontro è
finalmente possibile, i riflessi divengono realtà.
Quelle pareti, spettatrici benigne, con sguardo materno si accingono emozionate
a vivere l’ultimo atto di un’intensa storia. Tutto è perfetto, gli attori sul palco,
l’intensità di una crescente melodia avvolge Guido e Anita stretti finalmente in un
abbraccio: due anime lontane che adesso si ritrovano e si posseggono veramente,
due cuori che all’unisono suonano la stessa dolce musica, quella composta anni
prima dalla più grande delle direttrici d’orchestra… la loro mamma.