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RASSEGNA STAMPA lunedì 23 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA L’ARCI SUI MEDIA LOCALI ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA BENI COMUNI/AMBIENTE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Adn Kronos del 21/03/15 Settimana d’azione contro il razzismo, un video del Comune Continuano le iniziative della Settimana d’azione contro il razzismo, promossa dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali-Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri), in collaborazione con ANCI e il Ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca Scientifica. Numerose le iniziative promosse dall'Amministrazione comunale che ha aderito alla settimana e alla Giornata Internazionale per l'eliminazione delle discriminazioni razziali che si celebra il 21 marzo. Tra le azioni mese in campo dal Comune di Cremona nell'ambito dell'iniziativa Spegniamo i pregiudizi, accendiamoci di arancione! un video postato su YouToube realizzato grazie alla adesione dei dipendenti del Comune e di amministratori. Inoltre il link, sul sito del Comune, al sito dell'UNAR, l'allestimento a SpazioComune con il materiale della campagna e la possibilità di aderire scattando una foto da inviare al Centro Interculturale Mondinsieme (via mail o sulla pagina Facebook) o ritirando un nastro arancione simbolo della campagna, la trasmissione del video nazionale UNAR sui monitor di SpazioComune, l'invito a tutte le scuole di cittadine ad organizzare iniziative ad hoc sui temi della campagna, la diffusione della Convenzione delle Nazioni Unite per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la diffusione del numero verde antidiscriminazioni razziali 800 90 10 10. Anche i mass media sono invitati ad aderire alla campagna ed il Comune è a disposizione per fornire materiale e informazioni. Nella giornata di mercoledì 18 marzo in Sala Eventi di SpazioComune (piazza Stradivari, 7), si è tenuta la presentazione del Rapporto nazionale Dalle discriminazioni ai diritti con l'intervento di Gianfranco Valenti (Fondazione G. Piccini), referente Rete regionale del Centro studi e ricerche IDOS e di Rosita Viola, assessore alla Trasparenza e Vivibilità Sociale del Comune di Cremona, con delega alle Politiche di Inclusione e Pari Opportunità. Sono state illustrate anche le attività per rendere operativo il Protocollo d’Intesa tra il Comune di Cremona e l’Associazione Articolo3– Osservatorio sulle Discriminazioni, e presentato l’accreditamento del Centro Interculturale Mondinsieme quale “antenna territoriale” della Rete Regionale di prevenzione e contrasto delle discriminazioni razziali. Oltre all’Amministrazione comunale, molti sono gli enti, le associazioni e le società sportive che hanno aderito (tra le quali U.S. Cremonese, Vanoli Basket e Pomì Volley Ball Casalmaggiore), garantendo supporto all'iniziativa, contribuendo a diffondere il messaggio della campagna Accendi la mente, spegni i pregiudizi: Provincia di Cremona, Forum Provinciale del Terzo Settore, CISVOL CSV di Cremona, Caritas Diocesana di Cremona, ACLI Cremona, Anffas Cremona Onlus, Donne Senza Frontiere, Associazione Immigrati Cittadini Onlus, Associazione dei Senegalesi di Cremona e Provincia, Gruppo Articolo 32, ARCI, CGIL, UIL, U.S. Cremonese, Vanoli Basket Cremona, Pomì VBC Casalmaggiore, Cremona Triathlon Cross Country. Le società sportive che hanno aderito alla campagna scenderanno in campo nel week end con un nastro arancione e lo slogan Accendi la mente, spegni i pregiudizi. Continuano le iniziative della Settimana d’azione contro il razzismo, promossa dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni RazzialiDipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri), in collaborazione con ANCI e il Ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca Scientifica. Numerose le iniziative promosse dall'Amministrazione comunale che ha aderito alla settimana e alla Giornata Internazionale per l'eliminazione delle discriminazioni razziali 2 che si celebra il 21 marzo. Tra le azioni mese in campo dal Comune di Cremona nell'ambito dell'iniziativa Spegniamo i pregiudizi, accendiamoci di arancione! un video postato su YouToube realizzato grazie alla adesione dei dipendenti del Comune e di amministratori. Inoltre il link, sul sito del Comune, al sito dell'UNAR, l'allestimento a SpazioComune con il materiale della campagna e la possibilità di aderire scattando una foto da inviare al Centro Interculturale Mondinsieme (via mail o sulla pagina Facebook) o ritirando un nastro arancione simbolo della campagna, la trasmissione del video nazionale UNAR sui monitor di SpazioComune, l'invito a tutte le scuole di cittadine ad organizzare iniziative ad hoc sui temi della campagna, la diffusione della Convenzione delle Nazioni Unite per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la diffusione del numero verde antidiscriminazioni razziali 800 90 10 10. Anche i mass media sono invitati ad aderire alla campagna ed il Comune è a disposizione per fornire materiale e informazioni. Nella giornata di mercoledì 18 marzo in Sala Eventi di SpazioComune (piazza Stradivari, 7), si è tenuta la presentazione del Rapporto nazionale Dalle discriminazioni ai diritti con l'intervento di Gianfranco Valenti (Fondazione G. Piccini), referente Rete regionale del Centro studi e ricerche IDOS e di Rosita Viola, assessore alla Trasparenza e Vivibilità Sociale del Comune di Cremona, con delega alle Politiche di Inclusione e Pari Opportunità. Sono state illustrate anche le attività per rendere operativo il Protocollo d’Intesa tra il Comune di Cremona e l’Associazione Articolo3– Osservatorio sulle Discriminazioni, e presentato l’accreditamento del Centro Interculturale Mondinsieme quale “antenna territoriale” della Rete Regionale di prevenzione e contrasto delle discriminazioni razziali. Oltre all’Amministrazione comunale, molti sono gli enti, le associazioni e le società sportive che hanno aderito (tra le quali U.S. Cremonese, Vanoli Basket e Pomì Volley Ball Casalmaggiore), garantendo supporto all'iniziativa, contribuendo a diffondere il messaggio della campagna Accendi la mente, spegni i pregiudizi: Provincia di Cremona, Forum Provinciale del Terzo Settore, CISVOL CSV di Cremona, Caritas Diocesana di Cremona, ACLI Cremona, Anffas Cremona Onlus, Donne Senza Frontiere, Associazione Immigrati Cittadini Onlus, Associazione dei Senegalesi di Cremona e Provincia, Gruppo Articolo 32, ARCI, CGIL, UIL, U.S. Cremonese, Vanoli Basket Cremona, Pomì VBC Casalmaggiore, Cremona Triathlon Cross Country. Le società sportive che hanno aderito alla campagna scenderanno in campo nel week end con un nastro arancione e lo slogan Accendi la mente, spegni i pregiudizi. Da Agi del 21/03/15 Sicilia: da Sel a minoranza Pd per rifare sinistra, atteso Civati (AGI) - Palermo, 21 mar. - Il nome scelto dagli organizzatori e' "SottoSopra", ma qualcuno l'ha definita "antileopolda": e' la due giorni della sinistra siciliana che si e' aperta oggi a Palermo e che coinvolge partiti, come Sel e Prc ma anche la minoranza del Pd, assieme a movimenti, associazioni, intellettuali, esperienze sociali, culturali e religiose, con lo scopo di aprire "una nuova stagione di democrazia per la Sicilia che chiuda i conti con il passato e restituisca credibilita' alla politica", nelle parole di Erasmo Palazzotto, deputato di Sel. Oggi la discussione si concentra una serie di dibattiti tematici che vanno da "Beni Comuni e la proprieta' collettiva" a "Citta' e Innovazione", da "Conservazione e valorizzazione dei Beni Culturali" a "Lo sviluppo sostenibile nell'era della globalizzazione", a "Mafia e Antimafia" e "Marenostrum". Domattina le conclusioni politiche della discussione. Tra gli interventi piu' attesi, quello di Pippo Civati. "Il Pd in Sicilia -afferma ancora Palazzotto- e' diventato il punto di riferimento di tutto il vecchio sistema di potere Cuffariano e 3 Lombardiano. Per questo domenica apriremo il cantiere di un nuovo soggetto politico che si candidi a rappresentare l'alternativa al Governo di Crocetta ed al partito democratico del sottosegretario Faraone". A questo "cantiere", tra gli altri sono stati invitati a contribuire, oltre a Pippo Civati, il presidente dell'Anci in Sicilia e sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il sindaco di Messina Renato Accorinti, il sindaco Caltanissetta Giovanni Ruvolo, i parlamentari europei Curzio Maltese, Eleonora Florenza e Elly Schlein, i presidenti regionali dell'Arci e di Legambiente, Salvo Lipari e Mimmo Fontana, il segretario regionale della Cgil, Michele Pagliaro, il coordinatore regionale di Sel, Massimo Fundaro', il dirigente di L'Altra Europa con Tsipras, Ermanno Giacalone. Anche Mimmo Cosentino, segretario regionale del Prc che paertecipa all'evento assieme a Sonia Spallitta, componente della segreteria, pone l'accento sulla volonta di dare vita a "un soggetto unitario della sinistra, autonomo dal centrosinistra e di alternativa al Pd di Renzi e al sistema di potere che lo contraddistingue". Dal Pd invia un "buon lavoro al gruppo di SottoSopra" la deputata siciliana Gea Schiro', "non tanto perche' ne condivida le istanze per lo piu' massimaliste ma perche' SottoSopra e' nata dal disagio di alcuni, molti, iscritti del Pd. Essenzialmente dal non avere condiviso l'ingresso di alcune identita', controverse e antistoriche, nel Pd siciliano". Schiro' punta il dito contro "la stranezza delle torbide primarie di Agrigento", in vista delle amministrative di maggio. Per la deputata, "il Pd, e di piu' in questo momento di accelerazione riformista del governo, non puo' e non deve permettersi alleanze spurie", e "la Sicilia non puo' piu' permettersi alchimie trasformiste che sia le casse sia l'astensionismo hanno dimostrato essere, ripeto, antistoriche. Quindi -conclude Schiro'- ben venga un'area critica e di dissenso che oltre che liquidare Sel, serviranno a dimostrare ai nostri dirigenti locali che una scelta sbagliata ad Agrigento puo' avere ripercussioni nel giudizio nazionale". Da Askanews del 21/03/15 Al via a Palermo "#Sottosopra", due giorni di dibattiti con Sel Previsti oltri tavoli tematici e decine d'interventi Palermo, 21 mar. (askanews) - Al via questa mattina a Palermo "#SottoSopra-La Sicilia di Domani", la due giorni di confronti, discussioni e dibattiti promossa da Sel e dai "dissidenti" del Pd nei locali di Corte Sammuzzo. I lavori, che vedranno oltre 40 tavoli tematici, cominceranno oggi, alle 9.30, con le relazioni di Luca Nivarra (costituente dei Beni comuni), Barbara Lino (ricercatrice dell'Università di Palermo), Marilena Volpes (sovrintendente dei Beni culturali di Palermo), Paolo Castorina (docente all'Università di Catania), Ninni Bruschetta (attore e direttore del Teatro stabile di Messina), il magistrato Peppino Di Lello, il vescovo di Mazara Domenico Mogavero, il presidente dell'Assostampa siciliana Giancarlo Macaluso, Enzo Favoino (Scuola Parco agrario di Monza), Aldo Lombardo (direttore della Scuola di musica Kandinskij) e Rosanna Sampugnaro (docente dell'Università di Catania). Previsti gli interventi parlamentari europei e nazionali, e di sindaci, consiglieri comunali e componenti delle giunte siciliane. Fra gli altri, saranno presenti il presidente dell'Anci Sicilia e sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il sindaco di Messina Renato Accorinti, il sindaco Caltanissetta Giovanni Ruvolo, i parlamentari europei Curzio Maltese, Eleonora Florenza e Elly Schlein, i deputati nazionali Erasmo Palazzotto (Sel) e Pippo Civati (Pd). 4 Quindi saranno presenti i presidenti regionali dell'Arci e di Legambiente, Salvo Lipari e Mimmo Fontana, e il segretario regionale della Cgil Michele Pagliaro. Il programma della manifestazione è disponibile sul sito www.sottosoprasicilia.it. 5 L’ARCI SUI MEDIA LOCALI Da La Sicilia del 22/03/15, pag. 35 21 marzo: la memoria che si fa impegno 21 marzo. Una giornata che serva da slancio per la memoria che si fa impegno, il quale a sua volta diventa risultato. Soprattutto in questi ultimi tempi abbiamo assistito a scandali che riguardavano personalità apparentemente autorevoli nel campo della lotta contro la criminalità organizzata: i cosiddetti professionisti dell’antimafia, insomma. Coloro che nascondono le mazzette sotto la bandiera dell’impegno e dell’indignazione. Che questa giornata serva a continuare e a intraprendere cammini puliti e indifferenti a obiettivi puramente personali, slegati da qualsiasi logica di potere politico ed economico, coerenti e volti al bene della società in cui si vive. Il 21 marzo segna l’inizio della primavera, è un bel messaggio di speranza. Perché la bella stagione non muore lo stesso giorno in cui nasce. Claudio Cammarata Presidente dell’associazione “Attivarcinsieme” Circolo Arci di San Cataldo Da LeccoNews del 22/03/15 PIZZERIA DELLA LEGALITÀ/ 0 C’È UN CANDIDATO: ARCI LECCO, L’ALTRA VIA ED EX PAOLO PINI LECCO – E’ arrivata allo scadere l’unica candidatura per la gestione dell’ex pizzeria Wall Street, sequestrata negli anni Novanta al clan ‘ndranghetista di Franco Coco Trovato e giunta ora alla riconversione a scopo sociale. La proposta che sarà ora al vaglio degli uffici comunali proviene dalla “cordata” composta da Arci Lecco, associazione “L’altra via” di Calolziocorte e la cooperativa sociale “La fabbrica di Olinda”, realtà che da parecchi anni gestisce a Milano, in quartiere Affori, la struttura dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Alle due associazioni lecchesi spetterebbe la direzione dell’aspetto culturale che è previsto ruoti intorno all’edificio di via Belfiore mentre l’ambito ristorante pizzeria verrà affidato all’esperienza della Onlus milanese. Da La Nazione del 22/03/15 Landini, bufera alle Vie Nuove: "Nessun diniego, scelta di libertà" Il presidente del circolo, Brundi: «Ho agito in autonomia» / IL CIRCOLO ARCI SBATTE LA PORTA IN FACCIA A LANDINI Firenze, 22 marzo 2015 - «Quella della Fiom è stata una lettera pesante per non dire oltraggiosa che giustifica i motivi del mio diniego». Gian Carlo Brundi, presidente del circolo Arci Vie Nuove tira dritto. Dopo la porta sbattuta in faccia alla conferenza stampa dell’evento di presentazione della «Coalizione Sociale» di Maurizio Landini, in programma domani sera al Puccini, risponde all’attacco del segretario fiorentino Fiom Daniele Calosi. 6 Il no alla Cosa Rossa di Landini, ha scatenato tre giorni fa l’attacco via Facebook di Calosi al presidente del circolo Arci: «Riteniamo le motivazioni insufficienti e offensive – ha scritto – non soltanto verso la nostra organizzazione e la sua storia per il progresso del movimento dei lavoratori italiani ma anche e soprattutto per la storia delle case del popolo e dell’Arci». Poi il carico da novanta: «Il pensiero va ad Armando Pratesi, operaio del Pignone, tra i protagonisti della stagione feconda di Vie Nuove. La sala ce l’avrebbe concessa». Troppo per Brundi che replica: «Tirare in mezzo a questa storia un compagno e amico che non c’è più ha il sapore del basso sciacallaggio». Il battibecco ha spaccato i soci dell’Arci fiorentino. In ballo non ci sono bruscolini. Nel centro Italia, l’Arci della provincia di Firenze è una potenza: quasi 60mila soci e 280 circoli. Quello delle vie Nuove è uno dei capofila. Un esercito sul quale la «Coalizione» di Landini vorrebbe poter contare e che, in queste ore, sta riflettendo se aprire o meno all’esperimento del leader Fiom. Getta acqua sul fuoco Jacopo Forconi, presidente provinciale Arci. «Le tematiche sollevate da Landini sono da tenere in alta considerazione ed è giusto che si apra un dibattito – sottolinea – una nostra risorsa è la pluralità. Per un Circolo che ha detto no a Landini ce ne erano altri due disposti ad ospitarlo. È errato però identificare la posizione delle Vie Nuove come una scelta dettata dal Pd». In cartellone alla presentazione del Puccini intanto è previsto il parterre de roi dell’associazionismo di sinistra. A partire da Francesca Chiavacci, presidente Nazionale Arci, Sandra Bonsanti, numero uno di Libertà e Giustizia e Andrea Bigalli coordinatore di Libera Toscana. «Ho agito in autonomia – dice Brundi – per evitare strumentalizzazioni politiche. La disponibilità del circolo non è stata richiesta dal sindacato ma da una sua componente per finalità non chiare. Il consiglio del circolo ha espresso fiducia alla mia decisione. Le nostre porte restano sempre aperte per l’espletamento della missione sociale del sindacato. Inviteremo la Fiom e Landini a un confronto pubblico per chiarire le sue proposte politiche in contraddittorio». di Claudio Capanni Da La Nuova Ferrara del 22/03/15 Ferrara ricorda le vittime della mafia In città e anche a Bologna, amministratori e volontari presenti alla manifestazione nazionale di Libera di Don Ciotti In Comune a Ferrara, consiglieri e sindaco leggono i 900 nomi delle vittime della violenza mafiosa FERRARA. Anche un pezzo di Ferrara ha testimoniato il proprio impegno contro la mafia, a Bologna, alle manifestazioni per la «Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti di tutte le mafie», promossa dall’associazione Libera presieduta da don Ciotti che da giorni colora il centro città di Bologna. Una giornata che ha visto sommarsi a Ferrara diverse iniziative, una di queste l'installazione multimediale (un video registrato), nella Residenza Municipale e in Piazza Municipale (tutto il giorno), in cui i consiglieri comunali di Ferrara hanno letto gli oltre 900 nomi delle vittime della violenza mafiosa. Sempre in città il Teatro Off ha proposto la lettura dal titolo "Rifiutate i compromessi", ispirata alle testimonianze delle vittime delle mafie. Le due iniziative organizzate da Comune di Ferrara, insieme al Coordinamento di Ferrara di Libera, Arci Ferrara, Comune di Voghiera, Pro Loco Voghiera, Presidio Studentesco di Libera "Giuseppe Francese", Movimento Nonviolento, Laboratorio MaCrO del 7 Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara, Slowfood Ferrara e Teatro Off, in collaborazione con Regione Emilia Romagna e Avviso Pubblico - Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie. E tanti rappresentanti di questi movimenti e di enti pubblici erano presenti a Bologna alla manifestazione nazionale e al corteo: tra questi gli amministratori pubblici, l'assessora Chiara Sapigni (Comune di Ferrara), il sindaco di Cento Piero Lodi e la vice sindaca di Voghiera Isabella Masina insieme a tanti altri colleghi del territorio ferrarese. Ma c’erano anche volontari e studenti, quelli della Pro Loco di Voghiera e di Libera Ferrara che hanno ristrutturato un furgoncino da donare e che nella due giorni bolognese, lo hanno parcheggiato in piazza XX settembre a Bologna, di fianco alla Taverna Cento Passi di Libera. Gli stessi volontari hanno presentato il loro progetto "Libera e Voghiera per restituire Vita alla Terra" che assieme a Libera Emilia Romagna consegneranno i furgoncino, la prossima estate, alla cooperativa Rita Atria la prossima estate. http://lanuovaferrara.gelocal.it/ferrara/cronaca/2015/03/21/news/ferrara-ricorda-le-vittimedella-mafia-1.11089863 Da ViterboNews del 21/03/15 In tanti in piazza contro l'omofobia La ''Primavera dei diritti'' lancia il tema del rispetto delle diversità VITERBO - Anche la città dei papi ha avuto il suo ''gay pride''. Dalle 15 di oggi e fino a stasera alle 20 a piazza dei caduti è stato aperto uno spazio tematico dedicato a tutte le forme d’amore. Un’iniziativa, ribattezzata ''Primavera dei Diritti'', contro l’omofobia. Il tutto organizzato dallo sportello di Arci Cultura Lesbica in collaborazione con il coordinamento Roma Pride e Arci Viterbo. L’iniziativa è stata lanciata per lanciare un appello alla costruzione di una città accogliente verso tutte le diversità sessuali, di genere, ma anche di provenienza culturale e condizione sociale. In piazza letture, musica, balli, canti, capriole, sguardi, sospiri e qualunque cosa possa creare aggregazione, solidarietà e curiosità. http://www.viterbonews24.it/news/in-tanti-in-piazza-contro-lomofobia_50245.htm 8 ESTERI del 23/03/15, pag. 5 Nuove minacce in Tunisia “Sgozzate altri turisti” Il presidente Essebsi ammette: “Al museo falle nella sicurezza” Francesco Iannuzzi «Colpite ancora, con qualunque mezzo i turisti» è questa la sintesi dell’ultima minaccia che circola in Rete attribuita alla stessa organizzazione o a un complice del commando che ha colpito al museo del Bardo in Tunisia uccidendo 23 persone. Nel documento, che sarà presentato questa sera a «Terra» su Rete4, si suggerisce ai «fratelli» musulmani di investire con le auto, di affogare in mare o di sgozzare in spiaggia i turisti, meglio se «americani, britannici, francesi e israeliani». Gli obiettivi dei terroristi sono due: dimostrare agli jihadisti simpatizzanti, incerti o apprendisti, ai cosiddetti lupi solitari, quanto sia facile compiere un attacco o procurarsi le armi «a buon mercato» e far crollare l’industria del turismo in Tunisia, unico paese del Nord Africa che si è aperto veramente alla democrazia dopo la rivoluzione araba. Infatti i terroristi, o il terrorista, presentano come un trofeo il crollo della Borsa di Tunisi dopo la strage. Sicurezza carente La Tunisia fa i conti con i problemi della sicurezza che sono emersi dopo l’agguato. Il presidente Beji Caid Essebsi, in un’intervista a «Paris Match», ha ammesso che ci sono state delle mancanze, «la polizia e l’intelligence non erano abbastanza - ha dichiarato per garantire la sicurezza del museo» anche se «hanno risposto molto efficacemente e con il loro intervento hanno evitato decine di altri morti». Essebsi ha poi aggiunto che il terzo aggressore è ancora «in fuga», ma ha garantito che «non andrà lontano». Infine il presidente tunisino ha ricordato che il terrorismo non è un problema della solo Tunisia, ma «riguarda tutti i Paesi e fra questi dobbiamo comprendere anche Italia e Francia». La risposta al terrore Intanto il governo ha deciso di erigere una stele al Museo del Bardo con i nomi di tutte le vittime dell’attentato e per il 29 marzo si sta organizzando una grande manifestazione a Tunisi dove parteciperanno molti dei leader mondiali. In più il Parlamento si appresta a votare una nuova legge contro il terrorismo mentre i servizi segreti hanno intensificato le ricerche dei reduci di ritorno da Siria e Iraq. E sul piano strategico la Tunisia sta per diventare «un alleato maggiore (non membro) della Nato». Un «alleato maggiore non membro» è una designazione accordata dagli Usa ad alleati che intrattengono relazioni strategiche con le forze armate americane pur non facendo direttamente parte della Nato. Già 15 paesi godono di questo status, tra cui Egitto, Marocco, Giordania, Kuwait, Bahrein e Israele. Inoltre il presidente Essebsi con il suo staff voleranno negli Stati Uniti nel mese di maggio invitato dal presidente Barack Obama. 9 Del 23/03/2015, pag. 16 Tunisia, nuove minacce: «Colpite ancora i turisti» Caccia al terzo terrorista Domenica la marcia di solidarietà, invitati leader mondiali DAL NOSTRO INVIATO TUNISI Un terrorista ancora in fuga e nuove minacce ai turisti. La polizia tunisina segue le tracce di Maher Ben Muldi Gaidi, uno dei tre giovani che mercoledì scorso hanno attaccato il museo del Bardo, uccidendo 21 persone, tra cui 4 italiani. In parallelo gli inquirenti stanno analizzando i messaggi e le rivendicazioni che rimbalzano tra i social network. Uno di questi documenti sarà presentato questa sera nel programma «Terra» su Retequattro. Il testo potrebbe essere stato scritto, fanno sapere da Mediaset, «da un complice del commando o forse da uno dei terroristi coinvolti nell’azione». In ogni caso contiene parole minacciose, violente, un’esortazione ai «lupi solitari»: «Colpite ancora i turisti. In particolare gli inglesi, i francesi, gli americani e israeliani. Sgozzateli sulle spiagge, affogateli nel mare, investiteli con le automobili». La Tunisia, però, reagisce. Ieri il capo dello Stato, Béji Caid Essebsi, si è presentato al Bardo per farsi intervistare da un pool di televisioni. Innanzitutto ha annunciato che domenica prossima, 29 marzo, parteciperà a una marcia che terminerà proprio davanti al museo, dove sarà scoperta una stele con tutti i nomi delle vittime. Saranno invitati i leader del mondo, con la speranza di riprodurre almeno in parte la grande manifestazione di Parigi guidata da François Hollande l’11 gennaio, dopo la strage nella redazione di «Charlie Hebdo». L’idea era stata lanciata già giovedì scorso da un gruppo di parlamentari tunisini. Dopo qualche giorno di discussioni ora è stata accolta dal presidente come riferisce il ministro del Turismo, Salma Elloumi, in una dichiarazione all’agenzia di stampa tunisina Tap. La marcia «alla parigina» è il segno più visibile di quanto la Tunisia tema di essere abbandonata dall’Europa e dall’Occidente. Essebsi ha annunciato che nel mese di maggio vedrà il presidente americano Barack Obama alla Casa Bianca. In parallelo il Paese maghrebino dovrebbe ottenere dalla Nato lo status di «alleato maggiore», già attribuito a 15 Paesi, tra i quali Egitto e Marocco. L’obiettivo immediato delle autorità tunisine è evitare la fuga dei turisti. Domenica mattina, subito dopo aver assistito alla messa in memoria delle vittime nella cattedrale cattolica di Tunisi, proprio il ministro del turismo Salma Elloumi sembrava come colta di sorpresa dall’annuncio di Costa Crociere e Msc Crociere di cancellare Tunisi dalle rotte delle navi vacanza. «Ho incontrato il presidente Pierfrancesco Vago di Msc Crociere e non mi ha detto nulla di simile. Sarebbe una cosa grave se accadesse davvero: significherebbe che hanno vinto i terroristi». Lo Stato tunisino sta facendo il possibile per convincere il mondo di essere in grado di sconfiggere l’offensiva jihadista. Essebsi ha riconosciuto che ci «sono state lacune» nella protezione del museo, ma aggiungendo che l’intervento delle forze speciali ha evitato una strage ancora più terribile e che il «terrorista in fuga non andrà lontano». Gli investigatori fanno filtrare le notizie di arresti in diverse aree del Paese: due giovani fermati vicino a Biserta (nel Nord); un altro a Sfax nel centro del Paese. Ma sarà un’operazione lunga e difficile. Come si capisce dai numeri forniti dallo stesso capo dello Stato, Essebsi: «Quattromila tunisini si sono arruolati nella jihad in Siria, Libia e altrove. Circa 400 sono tornati qui e rappresentano una sfida. Senza parlare degli altri 5 o 6 mila a cui abbiamo impedito di partire». Giuseppe Sarcina 10 del 23/03/15, pag. 10 Kabul, linciata in piazza “Ha bruciato il Corano” Era innocente, aggredita e uccisa dalla folla di fronte alla moschea Sfida alla tradizione del corteo funebre: la bara portata dalle donne Monica Perosino L’hanno uccisa cento uomini a sassate, l’hanno onorata tredici donne sfidando inviolabili «costumi» afghani. Ieri a Kabul la bara di Farkhunda, lapidata da una folla impazzita che l’accusava di blasfemia, è stata portata verso la tomba di famiglia da spalle femminili, una provocazione al rigido cerimoniale funebre che prevede che siano solo gli uomini a farlo. Aveva 27 anni, Farkhunda, ed era innocente. Giovedì scorso era stata aggredita di fronte alla moschea Shah-Du-Shamshaira di Kabul: la accusavano di aver bruciato una copia del Corano. Calci, pietre, pugni. La polizia guardava. Ma ucciderla non era sufficiente: gli aguzzini di Farkhunda avevano trascinato il suo cadavere per alcune centinaia di metri, fino alle rive di un fiume, per poi darlo alle fiamme. Il video del linciaggio, macabro trofeo dei «veri fedeli», mostra poliziotti immobili, inerti di fronte a un centinaio di persone che circondano la piccola e esile Farkhunda, la colpiscono con pietre e bastoni. «Innocente» E ieri, al funerale, le parole del capo della polizia investigativa si sono abbattute come un macigno sulla coscienza del popolo afghano, già messa alla prova dalle parole di chi aveva definito il linciaggio «un atto giustificato», come il religioso islamico Ayaz Niazi. Mentre centinaia di persone «proteggevano» il corteo funebre delle donne afghane, il generale Mohammad Zahir ha confermato quelli che molti già sapevano: «Farkhunda era completamente innocente: non c’è uno straccio di prova a sostegno delle accuse di aver oltraggiato il Corano». Tredici uomini, ha annunciato il generale, tra cui due che vendevano amuleti di fronte alla mosche, sono stati arrestati e altrettanti poliziotti sono stati sospesi in attesa degli sviluppi dell’indagine. «I colpevoli saranno puniti», ha promesso Zahir. Sull’assalto, che ha commosso tutto il Paese, il presidente Ashraf Ghani ha disposto, prima di partire per gli Gli Stati Uniti, la costituzione di una commissione di indagine di alto livello formata da giuristi, studiosi dell’Islam, esponenti di movimenti femministi e giornalisti. «Il comitato - si legge in un comunicato ufficiale - avrà la responsabilità di indagare sull’incidente in modo appropriato e tenendo presenti le leggi afghane, presentando quindi il suo rapporto al palazzo presidenziale». Ma l’insistenza del ministro dell’Interno, Norulhaq Ulomi, e quello degli Affari religiosi, Mohammad Yousuf Niazi, nel ribadire che «non esiste alcuna prova che la donna avesse davvero bruciato copie del Corano», non fa che gettare benzina sul fuoco tra i gruppi di attivisti civili e femministi: «Anche l’avesse fatto non avrebbe dovuto essere massacrata a bastonate». La futura maestra Il padre di Farkhunda era stato costretto a dire, nei primi momenti dopo il linciaggio, che la figlia «era malata, soffriva di disturbi mentali», nel tentativo di proteggere il resto della famiglia da eventuali rappresaglie. Farkhunda era tutt’altro che matta: era riuscita, anche attraverso gli aiuti della comunità internazionale che da anni investe miliardi in Aghanistan 11 nei programmi di istruzione per le donne, a entrare in una scuola di perfezionamento per insegnanti di religione. del 23/03/15, pag. 12 Francia, Sarkozy blocca l’ultradestra Le Pen perde il primato, il Ps scende Amministrative: per le proiezioni l’Ump tra il 29 e il 31%. Fn al 26%, i socialisti al 21% Ballottaggi il 29 ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI . La grande marea si è vista sulle coste atlantiche, ma non è arrivata nelle urne. L’onda lunga “bleu marine” si è fermata. Dopo una serie ininterrotta di successi elettorali dal 2012 a oggi, il Front National non riesce a conquistare il primo posto nelle elezioni dipartimentali, così come sperava Marine Le Pen. L’exploit delle elezioni europee, quando il Fn aveva superato tutte le altre forze politiche francesi, non si è ripetuto. A sorpresa, l’estrema destra ottiene tra il 24 e il 26%, a seconda delle proiezioni. Per una volta i sondaggisti hanno sbagliato: tutti prevedevano un picco fino al 30%. Il Fn è al terzo posto dietro all’Ump e al Ps: i due tradizionali partiti possono contare su un risultato più ampio, grazie ai voti degli alleati, così come prevede il sistema francese maggioritario a doppio turno. L’Ump, insieme ai centristi dell’Udi, registra tra il 29 e il 31% delle preferenze e fino al 37% sommando anche i voti di altri partiti con cui si è presentato localmente. Il partito socialista oscilla tra il 19 e il 21%, ma sale fino al 35% con le altre formazioni, anche se in molti scrutini la gauche si è presentata divisa. Proprio il frazionamento della sinistra ha provocato l’eliminazione dei candidati Ps al primo turno. Una brusca frenata per Marine Le Pen che da quando ha preso la testa del partito ha incassato solo vittorie e record. Nonostante la sconfitta simbolica, quel primato svanito, il Fn ha guadagnato quasi dieci punti rispetto alle dipartimentali di quattro anni fa e arriva comunque in testa in molti dipartimenti, l’equivalente delle nostre province, come nel Pasde-Calais (35,6%) e nel Vaucluse (40%), con la possibilità di vincere al ballottaggio. Un “radicamento” sul territorio che Le Pen rivendica: «Il voto massiccio per il Front National, che si radica elezione dopo elezione, mostra che i francesi vogliono ritrovare la libertà », ha esultato la presidente del Fn, invitando il premier Manuel Valls a «presentare subito le dimissioni». Valls ha invece cercato di minimizzare la débâcle chiamando gli elet- tori di sinistra a «sbarrare la strada» all’estrema destra, votando anche per l’Ump nei ballottaggio laddove la gauche è stata eliminata. L’altro protagonista della serata è Nicolas Sarkozy. L’ex presidente tornato in politica dopo la sconfitta del 2012 e oltre due anni di “pausa”, incassa l’etichetta di “primo partito di Francia” che è sfuggita a Le Pen, posizionandosi di fatto come rivale forte davanti al Fn. L’Ump ha la quasi certezza di uscire grande vincitore dei ballottaggi che si terranno domenica prossima, grazie alla debolezza del partito socialista e alla battuta d’arresto dell’estrema destra. Sarkozy, 60 anni, si è ripreso la presidenza dell’Ump a novembre, dopo un lungo calvario giudiziario. A luglio è stato il primo ex presidente nella storia della République ad essere posto in custodia cautelare, e successivamente messo in stato d’accusa per corruzione, traffico di influenze e violazione del segreto istruttorio. Il leader dell’Ump ha diversi procedimenti ancora in corso ma ora comanda nel partito e dopo il 12 risultato di ieri può sperare in una nuova popolarità in vista della sfida decisiva delle presidenziali del 2017. Sarkozy ha fatto una campagna serrata, riprendendo argomenti del Fn come il bando del velo nelle università o del maiale nel menù delle scuole, ma ha anche avuto l’abilità di pacificare (almeno in apparenza) la sua famiglia politica. Le lotte intestine che hanno accompagnato il partito neogollista negli ultimi due anni sono state per ora messe da parte. E Sarkozy ha siglato un’alleanza con i centristi dell’Udi, allargando la base elettorale. Proprio quello che non è riuscito a fare il Ps, che paga le divisioni della maggioranza, tra Verdi cacciati dal governo l’estate scorsa e frondisti socialisti che hanno votato contro le riforme economiche. Il breve sussulto che aveva avuto François Hollande nei sondaggi dopo gli attentati parigini di gennaio sembra già svanito. Anche se la gauche è andata meno peggio che altre volte, il primo test elettorale dopo gli attacchi di Charlie Hebdo ha confermato la tendenza negativa delle ultime tornate elettorali. del 23/03/15, pag. 12 Il ritorno di Nicolas che scippa la vittoria al Front National cavalcando le stesse paure BERNARDO VALLI IL PRIMATO del Front National è durato poco. La sua corsa, in testa ai partiti francesi, ha subito una frenata alle elezioni dipartimentali, equivalenti alle nostre provinciali. Al di là del suo valore come consultazione amministrativa, il voto di ieri era un test nazionale. Precede le regionali in programma quest’anno, dopo le quali ci sarà una pausa sino alle presidenziali del 2017. Per Marine Le Pen è una delusione e potrebbe essere un cattivo presagio per i partiti europei che si sono accodati al Front National. È un segnale di ritirata (sia pure lenta) per l’estremismo populista che anche grazie alla crisi economica si stava estendo nei nostri vecchi paesi occidentali. Secondo le proiezioni, il Front National arriva secondo dopo il centro destra, in cui sono compresi i voti dell’Ump di Nicolas Sarkozy e delle liste indipendenti, numeroporco se nelle elezioni amministrative. Per l’ex presidente della Repubblica significa un eccezionale ritorno sulla ribalta. È di nuovo in prima fila. Ha in sostanza sottratto a Marine Le Pen il primato che sembrava acquisito alla figlia di Jean-Marie, il fondatore del Front National. Sarkozy ha ricalcato, quasi punto per punto, il programma dell’estrema destra: ha sostenuto l’arresto dell’immigrazione; la revisione, vale a dire la chiusura, dello spazio Schengen; persino una riforma dei pasti nei refettori scolastici, dove a tutti, musulmani compresi, dovrebbe essere servita carne di quando figura nel menù. In quanto al velo, finora proibito fino al liceo, dovrebbe essere messo all’indice anche all’università. Su un unico importante punto Nicolas Sarkozy non ha seguito le orme di Marin Le Pen. È rimasto europeista e fedele alla moneta unica, aborrita invece dal Front National. Cosi Sarkozy ha soffiato il primo posto di partito di Francia al leader dell’estrema destra che pensava di essersene ormai appropriata, dopo le elezioni europee. Domenica prossima, ai ballottaggi, gli elettori di Sarkozy non dovranno ubbidire alla “disciplina repubblicana” che secondo la tradizione impegna a votare contro l’estrema destra. L’ex presidente della Repubblica anche in questo ha cercato di recuperare gli elettori di estrema destra, poiché rompendo la disciplina repubblicana mette sullo stesso piano destra democratica ed estrema destra. Di fronte a un duello tra candidati della due 13 destre, i socialisti dovrebbero invece scegliere quello democratico, e quindi sbarrare la strada al Front National. La sinistra non ha troppo usufruito dello spirito di gennaio, del clima di solidarietà democratica creatosi dopo l’attentato a Charlie Hebdo . Ha tenuto le sue posizioni. La decisione con cui il presidente socialista aveva affrontato la crisi e la sua capacità di riunire attorno a sé, l’11 gennaio in place de la République, gran parte della Francia, e numerosi presidenti e primi ministri stranieri, in particolare europei, avevano fatto lievitare i suoi appiattiti consensi virtuali. La dignità dimostrata in quell’occasione aveva avuto sensibili riflessi sui sondaggi. Il quoziente ottenuto dal partito socialista, insieme ai più stretti alleati, radicali e liste indipendenti, è dignitoso, se si considerano quelli disastrosi registrati negli scorsi anni. Quando sul presidente, ritenuto non particolarmente carismatico, si scaricava anche lo scontento provocato dalla crisi economica, soprattutto dalla deprimente disoccupazione. Se al quoziente si aggiungono i voti ottenuti dal Front de Gauche, cioè dalla sinistra della sinistra, e dagli ecologisti, in rapporti agitati con il partito socialista, la sinistra nel suo insieme ha ottenuto il 35 per cento. La campagna elettorale socialista è stata dedicata in gran parte, con energia, a contrastare una nuova crescita del Front National. Il primo ministro Manuel Valls ha parlato di una Francia che rischiava «di fracassarsi» contro l’estrema destra. Il rischio è stato evitato anche grazie ai leggeri miglioramenti dei dati economici. Ma Nicolas Sarkozy ha avuto i maggiori vantaggi appropriandosi dei temi del Front National. Il successo ottenuto con quella tattica lo riportano nel gioco politico, e migliorano la sua situazione nello stesso Ump. All’interno del quale si è scavata una profonda divisione tra lui e i più tenaci avversari di un’intesa con il Front National, tra i quali l’ex primo ministro e sindaco di Bordeaux, Alain Juppé. Sarkozy non ha concluso un’intesa ma ha scippato gli argomenti di Marine Le Pen e rinunciando al principio della disciplina repubblicana domenica prossima i suoi elettori saranno liberi di dare il loro appoggio all’estrema destra. del 23/03/15, pag. 15 Podemos non sfonda nel voto in Andalusia Vincono i socialisti tracollo dei popolari Psoe al 37%, trionfa la governatrice Susana Díaz bocciata l’austerity del premier Rajoy Sotto le aspettative il partito di Iglesias: 15% ALESSANDRO OPPES MADRID . Una boccata d’ossigeno per i socialisti, un tracollo senza precedenti per i popolari. Ma, soprattutto, un risultato in parte al di sotto delle attese per Podemos, che non prefigura in modo chiaro l’imminente fine del bipartitismo in Spagna. Elezioni regionali con un significato speciale, quelle che si sono svolte ieri in Andalusia, perché dovevano servire per decifrare finalmente con dati reali l’orientamento dell’opinione pubblica in un anno decisivo (amministrative a maggio, politiche in autunno). La vittoria del Psoe (37 per cento dei voti e 47 seggi, gli stessi di tre anni fa) è un successo personale della presidente uscente della giunta, Susana Díaz, figura emergente del partito anche a livello nazionale, tanto che viene indicata spesso come possibile alternativa per la candidatura alla premiership rispetto al poco convincente segretario generale Pedro Sánchez. I socialisti tornano ad essere, e con netto margine, la prima forza politica 14 andalusa: nel 2012, per la prima volta, erano stati scavalcati in termini di voti e di seggi dal Pp, che però non fu in grado di formare un governo per mancanza di alleati. Per la destra, un’occasione forse irripetibile per ottenere il controllo di una delle regioni chiave della Spagna: questa volta i popolari vengono penalizzati duramente: crollano dal 40,5 al 25,5 per cento dei consensi, passando da 50 a 33 seggi. E più che una sconfitta di un candidato poco conosciuto e di basso profilo (Juan Manuel Moreno Bonilla, un ex sottosegretario paracadutato a Siviglia da Madrid), è un pesantissimo avviso per il governo centrale di Mariano Rajoy. Una bocciatura senza appello per la rigida politica di austerità che ha segnato l’ultima legislatura della destra con conseguenze sociali subite in modo duro in tutto il paese ma in maniera particolare in Andalusia, dove il tasso di disoccupazione è del 34 per cento. Il terzo posto di Podemos è la conferma dell’ascesa di una forza politica nata appena un anno fa. Ma, con il 15 per cento dei suffragi e 15 seggi, la formazione anti-casta guidata da Pablo Iglesias delude parzialmente le attese, pur avanzando non poco rispetto all’8% delle Europee. Dipenderà probabilmente dalla peculiarità dell’Andalusia, con un Psoe che governa in maniera ininterrotta da 33 anni ed è qui molto più solido rispetto al resto del paese. Sta di fatto che Podemos, almeno nel sud del paese, sembra ancora lontano dal poter competere alla pari con le tradizionali forze maggioritarie. Quello che appare evidente è un netto travaso di voti verso il nuovo partito dalla formazione ideologicamente più vicina, Izquierda Unida, che crolla da 12 a 5 seggi. Ottimo invece, con 9 seggi, l’esordio di Ciudadanos fuori dal suo naturale bacino elettorale della Catalogna. Il partito di Albert Rivera potrebbe risultare determinante per permettere ai socialisti di raggiungere la maggioranza. del 23/03/15, pag. 21 Obama ha fermato investimenti che minavano sicurezza e superiorità tecnologica ma teme che i Paesi di oltreoceano non abbiano la stessa determinazione L’allarme degli Stati Uniti “Pechino fa shopping e l’Europa non ha strategie” DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK . La notizia della scalata cinese alla Pirelli arriva pochi giorni dopo un’altra, che ha messo in allarme gli Stati Uniti: l’adesione di quattro paesi europei alla nuova Banca Asiatica d’Investimenti in Infrastrutture, voluta da Pechino per “sfidare” l’egemonia Usa sulla Banca mondiale e il Fondo monetario. Da Washington si moltiplicano le accuse agli europei: «ingenui, incoerenti », sono le espressioni più cortesi usate dalla Casa Bianca. L’Amministrazione Obama non è contraria per principio agli investimenti cinesi in Occidente. Anzi, li considera benefici per “riciclare” in parte l’attivo commerciale che la Cina accumula con le sue esportazioni. Il riciclaggio del surplus di bilancia dei pagamenti tradizionalmente avveniva acquistando Buoni del Tesoro americani, creando una simbiosi fin troppo soffocante tra il massimo debitore sovrano (Usa) e il massimo creditore sovrano (la Repubblica Popolare). E’ meglio – sottolineano i consiglieri economici di Obama come Michael Froman – se la Cina diversifica i suoi investimenti, aumentando il portafoglio azionario. Ma l’Occidente – proseguono – deve avere una visione strategica dei propri 15 interessi. Quando la sicurezza nazionale o la salvaguardia della propria superiorità tecnologica lo richiedono, deve saper dire di no ai capitali cinesi. L’ingresso della Cina in infrastrutture nevralgiche come il porto di Atene; o l’elenco di partecipazioni nei “campioni nazionali” dell’economia italiana (da Ansaldo a Reti, più le partecipazioni di minoranza in Eni, Enel, Telecom, Saipem), visti da Washington sono altrettanti punti interrogativi. A casa sua, il governo degli Stati Uniti ha deciso da tempo quali sono i settori strategici, quali le regole di politica industriale che giustificano le barriere. Un episodio chiave avvenne nel 2005, quando Washington sbarrò la strada all’acquisizione di una compagnia petrolifera californiana, Unocal, da parte dell’ente di Stato China National Offshore Oil Corp. L’energia è uno di “quei” settori. Altra pietra miliare, anno 2012, è l’inchiesta del Congresso su due colossi delle telecom cinesi, Huawei e Zte, accusati di spionaggio industriale, anche a fini militari. Da allora la penetrazione di Huawei e Zte attraverso investimenti in aziende Usa è bloccata. L’ultima parola spetta al Committee on Foreign Investment in the United States (Cfius), un’agenzia governativa che è la cabina di regìa, dove si elabora e si gestisce la strategia sugli investimenti esteri. Per Washington non va sottovalutato il fatto che tuttora il 90% degli investimenti esteri diretti compiuti dalla Cina fanno capo ad aziendi de di Stato, che quindi rispondono a un disegno politico. Non per questo l’America è refrattaria ad ogni sorta d’investimenti. Anche quando passano in mani cinesi dei “trofei”, dei simboli, dei pezzi di storia. Come l’hotel Waldorf Astoria di recente acquistato per quasi due miliardi dalla compagnia assicurativa Anbang, diretta dal nipote di Deng Xiaoping. Un risvolto “politico- strategico” esiste anche lì: il Waldorf è da un secolo la residenza newyorchese dei presidenti americani, nonché di tanti leader stranieri quando vengono all’assemblea annua Onu; ora l’intelligence Usa medita di ricorrere ad altri alberghi per evitare intercettazioni e simili sorprese… Due importanti think tank americani, l’American Enterprise Institute e la Heritage Foundation, hanno una mappatura degli investimenti esteri cinesi, che rivela un cambiamento profondo in soli quattro anni. Mentre il totale cresceva del 30% e oggi sfiora i 90 miliardi, la composizione ha subito una metamorfosi. Ancora nel 2010 la strategia mirava all’accaparramento di energia, miniere, e materie prime agricole: questi tre settori assorbivano 70% del totale. Oggi è cresciuto il peso dell’immobiliare, e si è decuplicato l’investimento in tecnologie da 0,9% a 9,7%. Per l’Amministrazione Obama un obiettivo comune dell’Occidente dovrebbe essere quello consolidare il ruolo della Cina come “responsible stakeholder” (azionista e partner responsabile); anche per contrastare le spinte nazionaliste e protezioniste che risorgono sotto Xi Jinping, e rendono il mercato interno cinese più chiuso alle nostre imprese (l’accusa è nel Libro Rosso della Camera di Commercio europea a Pechino). Il massimo allarme è scattato per l’operazione della Banca asiatica Aiib. Concorrente locale della Banca mondiale, l’Aiib finanzierà opere pubbliche, grandi infrastrutture. «Con quale trasparenza finanziaria? Con che garanzie per la sostenibilità ambientale, i diritti dei lavoratori? » si è chiesto Obama criticando David Cameron, Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi per essere entrati in quella banca. «Da decenni lavoriamo per migliorare la qualità dei progetti finanziati dalla Banca mondiale – aggiunge la Casa Bianca – e nulla garantisce che quei progressi siano imitati dalla nuova istituzione progettata a Pechino». L’inquietudine di Obama ha anche una motivazione più profonda. E’ la prima volta che la Cina fa un passo concreto verso la costruzione di un sistema alternativo alla Pax Economica Americana, quella fondata a Bretton Woods nel 1944 con Fmi, Banca mondiale e Gatt (poi Wto). La Casa Bianca si chiede se gli europei abbiano capito in quale disegno sono entrati. 16 INTERNI del 23/03/15, pag. 6 Pisapia gela il centrosinistra “Non mi ricandido più ma non è un tradimento” L’annuncio del sindaco: il mio è un gesto di coerenza avevo sempre detto che avrei fatto un solo mandato ZITA DAZZI MILANO . «Non sarò candidato a sindaco nel 2016. Come avevo già annunciato nel 2010, durante le primarie. La mia decisione non deriva da stanchezza, ma da coerenza, dalla convinzione che la politica non può essere una professione, ma un “mettersi al servizio” della città. Non sono mai stato attaccato a un posto o a un ruolo, nessuno è indispensabile». Sono da pochi minuti passate le 17 quando Giuliano Pisapia, in maglione beige e camicia blu, annuncia ufficialmente quello che da mesi molti prevedevano, la sua rinuncia a correre per un secondo mandato da sindaco di Milano. Pisapia convoca i giornalisti a Palazzo Marino e mette fine a quelle che definisce «illazioni, richieste, scenari più o meno fantasiosi». Spiega che lui l’ha sempre detto di non avere «bacchetta magica» per risolvere tutti i problemi di una città come Milano «in un momento di tagli alle risorse per gli enti locali ». Ma aggiunge deciso che non si chiama fuori perché ha paura di perdere: «Tutt’altro. Anche gli ultimi sondaggi mi davano vincente rispetto ai nomi dei possibili candidati di destra che venivano fatti fino a poco tempo fa». E con un sorriso sottolinea: «Ho promesso che avrei messo impegno totale per la città che amo e di cui mi sono ancora di più innamorato in questi anni. Ho fatto di tutto per renderla più aperta attrattiva, inclusiva e innovativa, più internazionale ». Il sindaco della «primavera arancione» parla per mezz’ora di fila, senza interrompersi, cercando di essere tranquillizzante verso chi immagina l’apertura di un periodo di scontro nella sinistra milanese alla ricerca di un candidato forte, che al momento nessuno sa indovinare. «Alle elezioni mancano ancora un anno e due mesi. Faccio quest’annuncio oggi per dare il tempo necessario perché ci si ricompatti in un lavoro comune. Fra gli impegni che avevo preso, c’era la promessa di far maturare una classe dirigente progressista capace di governare e di dare delle risposte alla città. È importante dare responsabilità ai più giovani, ma credo che parlare adesso di candidature sia la cosa più sbagliata in assoluto: adesso bisogna parlare di progetti». Alla vigilia di Expo, Milano è tutta un cantiere e una scommessa sul futuro. Pisapia tiene a sottolineare che il suo «non è un tradimento» e che è merito suo se «Milano è cambiata tanto e in meglio in questi anni». Racconta che quando va «a New York e a Shanghai tutti parlano di Milano come di una delle città centrali nel mondo». E lui non intende certo uscire di scena con tanto anticipo. «Voglio continuare a essere il sindaco di tutti i milanesi fino all’ultimo giorno, con lo stesso amore, la stessa intransigenza, la stessa fermezza. La mia priorità rimane il tema delle case popolari. Continuerò ad esserci, fino all’ultimo giorno, spendendo tutte le mie energie come prima e più di prima, se possibile, per la città e per Expo». A chi gli chiede che cosa l’abbia portato a sciogliere i dubbi proprio adesso, nel rush finale per Expo, in un quadro politico confuso, creando un problema in casa al Pd, il sindaco risponde calmo: «Oggi mi pare ci siano tutte le condizioni oggettive e soggettive perché la coalizione con cui ho governato la città fino ad oggi possa andare avanti. Voglio credere in questa possibilità, dandoci il tempo per superare le attuali fibrillazioni». Smentisce che sia 17 allo studio la possibilità di un’alleanza politica simile a quella che sostiene il governo Renzi. «Milano è un caso a parte, un caso unico — ripete convinto — Non c’è il rischio che qui si imponga la scelta fatta a livello governativo dagli ultimi presidenti del consiglio. Non mi piace la parola rottamare, ma sono orgoglioso di avere aperto una strada anche a livello nazionale». Pisapia nega le pressioni del Pd perché prendesse una decisione in fretta: «A livello nazionale non ho mai parlato con nessuno. E col Pd non é vero che non c’è sintonia». Che però manchi qualsiasi ipotesi per un candidato alternativo, questo non lo può negare. Una scelta che secondo il sindaco non passa necessariamente dalle primarie: «Mi sembrano uno strumento un po’ screditato. Non sono un totem. Quando le abbiamo fatte nel 2010, sono state vere consultazioni, che hanno aggregato ». Del 23/03/2015, pag. 8 I dubbi del leader pd sui candidati L’idea di un uomo della società civile Per Palazzo Marino non convincono le ipotesi di Majorino, Fiano e Scalfarotto Milano Il dossier Milano è sul tavolo di Palazzo Chigi. Troppo importante la città, considerata storicamente un laboratorio politico che anticipa gli scenari nazionali, per non occuparsi subito della nuova situazione che si è creata con la scelta di Giuliano Pisapia di non candidarsi nel 2016. Le carte sono in mano al Pd che, alle Europee del 2014 sotto la guida di Matteo Renzi, in città ottenne uno strabiliante 45%. Tra i dem, mano a mano che si delineavano le intenzioni di Pisapia, è iniziata la corsa. Il premier sa che il tempo c’è, al voto manca oltre un anno, ma sa anche che una strategia, per una città così cruciale, va messa a punto subito, partendo da una riflessione seria sulle candidature. E così a Palazzo Chigi, prima ancora che su un nome, si lavora su un profilo. Matteo Renzi ha in mente una «figura della società civile», qualcuno che sia espressione riconosciuta di quel mondo. E i primi nomi in campo non convincono: non Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare a Milano, che rappresenterebbe la continuità con l’esperienza della giunta Pisapia. Majorino è un esponente del Pd, probabilmente gradito anche a Sel, ma piuttosto distante dal premier. Ma non convincono Palazzo Chigi anche i nomi renziani che «scalpitano» per un via libera: Emanuele Fiano, deputato milanese e relatore del ddl Boschi alla Camera, e Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme. In entrambi i casi si tratta di politici di esperienza e noti in città ma che, secondo l’entourage del premier, non avrebbero quelle caratteristiche — il rapporto con la società civile — che il Pd deve cercare per vincere la sfida con un centrodestra che aspira alla riconquista del Comune. Da Palazzo Chigi, ovviamente, nessuna indicazione sul percorso che porterà alla definizione del candidato, se ci saranno, come pare probabile, le primarie. L’annuncio di Pisapia ha comunque messo in moto uno scenario, quello milanese, che sembrava consolidato nella figura di Pisapia. Ora i giochi sono riaperti e alla corsa aspirerebbe anche Umberto Ambrosoli che, da candidato civico, corse per la Regione Lombardia nel 2013 venendo sconfitto dal leghista Roberto Maroni. 18 Del 23/03/2015, pag. 9 Salvini lancia la sfida per Milano: io in campo, facciamo le primarie Sulle Regionali telefonata con Berlusconi: intesa possibile non solo sul Veneto MILANO «Sono a disposizione. Ma se sarò il candidato sindaco, non tocca a me dirlo: saranno i milanesi». Pisapia ha appena annunciato la gran rinuncia. Salvini non lascia passare che una manciata di minuti. Per dire che lui è pronto alle primarie di centrodestra. Dell’argomento, però, non ha discusso con Berlusconi, che pure ha sentito per telefono: al momento della chiamata, Pisapia non aveva ancora parlato. Il «Capitano» leghista non fa nulla per nascondere il godimento: «È una gran giornata. La sinistra ammette il suo fallimento e Milano può tornare a sperare dopo anni di buio». E lui, appunto, potrebbe essere il concorrente del centrodestra alla poltrona più importante: «A Milano serve qualcuno che ami la città e la conosca bene. Sono stato per 20 anni tra i suoi amministratori e sul mio affetto credo non ci siano dubbi». Eppure, Salvini negli ultimi mesi è apparso lanciatissimo per diventare l’anti Renzi. Il leader di un centrodestra profondamente modificato rispetto a quello a trazione berlusconiana. Ma i tempi sembrano per lui decisivi: «A livello nazionale c’è Sua Maestà Renzi. Se avrà la bontà di consentire agli italiani una scelta, a me piacerebbe essere in campo come alternativa. Però, le Politiche saranno quando Renzi decide. Le Comunali sono tra un anno». Ma per Salvini ieri è la giornata in cui «Pisapia ha ammesso i suoi 4 anni di niente. Si è reso conto di essere inadatto e di avere una squadra pessima». Le primarie, secondo Salvini, sono la strada per il centrodestra: «Mi è arrivata una marea di sms di gente che respira di sollievo: vigili, commercianti, tranvieri. Mi dicono: mi raccomando, ti aspettiamo. Io rispondo che non sono superman, ma se servo, ci sono. Altrimenti, sosterremo chi merita». Il primo pensiero va all’Expo: «Non è il massimo arrivarci con un sindaco che dice “me ne vado”. Meglio sarebbe stato annunciarlo prima e votare in primavera». Il secondo pensiero è per il «peso» della città: «Già con Pisapia Milano a Roma è contata zero. Chissà ora, con il suo annuncio di lasciare. Non oso immaginare i tagli» . Da canto suo, Salvini butta giù a caldo un embrione di programma: «Un po’ di pulizia e un po’ di ordine. Sulle strade, sui mezzi pubblici, ai semafori e nei quartieri delle case popolari. E poi ridurre le tasse a livelli mostruosi, soprattutto sulle attività: le saracinesche di negozi e imprese continuano a calare». Ieri, però, è stato anche il giorno di una telefonata con Berlusconi. In vista delle Regionali e, forse, di accordi di più lungo orizzonte. Nel minuetto dei rapporti con FI, Salvini è stato assai possibilista. Prima, ospite di Maria Latella in tv, e anche in seguito: «L’accordo possibile non riguarda solo il Veneto. Anzi, le sfide più belle sono quelle in casa di Renzi, nelle Regioni rosse che lui considera Cosa sua». Ed è dunque possibile che i candidati già annunciati dalla Lega in Liguria e Toscana cambino per spirito d’alleanza? «Checché ne dica qualcuno, la Lega non ha mai imposto diktat: siccome gli altri non muovevano un dito, siamo andati avanti da soli. Detto questo, noi siamo a disposizione. Se qualcuno ha idee geniali, le proponga». In FI, il clima era invece diverso. In mattinata, Il Mattinale di Brunetta tornava ad evocare il «simul stabunt, simul cadent». Per dire che un mancato accordo sulle altre Regioni metterebbe a rischio anche la giunta Maroni in Lombardia. Inoltre, Berlusconi (che stamattina tornerà in visita a Cesano Boscone) ieri ha tratto indicazioni dagli exit poll francesi che davano Marine Le Pen sotto le attese. Per convincersi che FI non può «andare al seguito» di una destra come quella 19 che sta costruendo Salvini. I due ne parleranno, faccia a faccia, verso la fine della settimana . Marco Cremonesi del 23/03/15, pag. 8 Disgelo Salvini-Berlusconi: accordo più vicino in Veneto Lunga telefonata tra i due Salta l’incontro ad Arcore, rinviato a metà settimana Fi: “Matteo non faccia il Califfo, se rompe in Veneto, resterà solo in Lombardia” CARMELO LOPAPA ROMA . Per il faccia a faccia ci vorrà ancora tempo. Ma intanto, dopo settimane di temperature artiche, la telefonata intercorsa ieri pomeriggio tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi segna un primo disgelo nei rapporti tra la Lega arrembante e Forza Italia in trincea. Le voci di un possibile incontro a Villa San Martino proprio nella quiete domenicale di ieri, circolate in un primo momento, sono state poi smentite. Sembrava il momento giusto, alla presenza di Giovanni Toti, Deborah Bergamini, Maria Rosaria Rossi, lo stato maggiore quasi al completo al camino di Arcore. Il capo del Carroccio invece non è arrivato, ha promesso al leader forzista che lo raggiungerà a breve, già a metà di questa settimana, non appena rientrerà dalla sessione di lavori a Bruxelles. Sarà quella la prima tappa di un percorso, forse ancora lungo, che però dovrà portare alla chiusura definitiva dell’accordo per sostenere Luca Zaia in Veneto. Ma poi a un accordo più complessivo (e non per forza a traino leghista) in Liguria e Toscana, infine a una desistenza della lista Salvini nella Campania decisiva per Forza Italia. Che si vada in quella direzione lo ha ammesso in parte lo stesso Salvini parlando a ora di pranzo a Maria Latella su Skytg24: «Io immagino che Berlusconi sceglierà la linea Salvini, i suoi elettori non vogliono morire per mano dello stato, non ci siamo ancora visti ma ci vedremo a brevissimo perché in ballo non c’è solo il Veneto ma la Liguria, la Toscana, l’Umbria, le Marche, perciò mi piacerebbe un accordo a livello generale», con Forza Italia. È un capo del Carroccio che sembra già aver moderato i toni rispetto alle cariche dei giorni scorsi. Anche perché dal quartier generale berlusconiano in questi stessi giorni era trapelata la voglia del leader di far saltare il banco e correre da solo in tutte le regioni, anche a costo di far perdere Zaia (e Salvini) in Veneto. «Avete visto come è tornato a crescere l’Ump in Francia? I populisti della Le Pen non hanno sfondato, la via è quella della destra moderata. È uno schema che si può ripetere in Italia, dobbiamo essere sicuri delle nostre idee e la spunteremo», diceva ieri sera fiducioso l’ex Cavaliere ai vari Toti, Bergamini, Rossi, Gelmini presenti in Villa. E poco importa che Ump voglia dire l’ex amico Nicolas Sarkozy, protagonista del vecchio siparietto della risata in conferenza stampa con la Merkel e per questo ormai tra i leader più detestati. La strategia che ad ogni modo Berlusconi intende seguire, a questo punto, è quella dettata ieri dal “Mattinale” di Brunetta e del gruppo alla Camera: «Se Salvini farà in modo di andare da solo in Veneto, si dovrebbe chiedere: che succede a quel punto in Lombardia? Squadra che funziona non si cambia, dovunque. Simul stabunt, simul cadent ». E dunque, «Salvini non pretenda di fare il Califfo del centrodestra, tagliando con la spada della sua Sharia pezzi di qua e pezzi di là del centrodestra per imporre la propria egemonia ». 20 del 23/03/15, pag. 8 Orfini a D’Alema: “È finita l’era della meglio classe dirigente Adesso usciamo dall’acquario” Il presidente del partito: la mutazione genetica del Pd parla al popolo più di noi. I bersaniani: nessuno vuole la scissione ANTONIO FRASCHILLA ROMA . «Renzi è riuscito dove noi abbiamo fallito. È finita l’era della “meglio classe dirigente”. Viva la mutazione genetica». Matteo Orfini, presidente del Partito democratico, critica duramente l’ex leader Massimo D’Alema e il suo affondo contro il presidente del Consiglio «arrogante» e che «va colpito». Dando cosi manforte alla maggioranza guidata da Matteo Renzi, che torna a lanciare bordare ai ribelli interni: «Compiamo le nostre scelte pensando ai nostri connazionali, non alle correnti o agli spifferi », dice. Lo scontro interno è fortissimo, da una parte i renziani che guadagnano campo anche in chi fino a ieri è stato al fianco di D’Alema e Bersani, come Orfini, e dall’altra una sinistra Pd che teme una svolta a destra ma si divide a sua volta di fronte alle sferzate dalemiane. Renzi ribatte agli attacchi di D’Alema riguardo a un «partito che non è certo grande come lo sono stati i Ds»: «Un anno e mezzo fa, prima gli iscritti e poi milioni di elettori con le primarie ci hanno affidato la guida del Pd — dice — ci hanno chiesto di rimettere in moto l’Italia, realizzando finalmente le riforme. Gli italiani con il voto alle europee hanno sostenuto questo percorso con una percentuale che non si vedeva in Italia dal ‘58». E il vicesegretario Lorenzo Guerini precisa: «Segnalo a chi spara cifre a caso che gli iscritti sono oltre 390 mila». Ma sono le parole di Orfini a segnare una profonda frattura anche all’interno dell’area della sinistra: «Se ci sono dei difetti nell’azione di governo stanno proprio nella fatica a smaltire fino in fondo le scorie della subalternità politica e culturale degli ultimi venti anni — scrive su “Left swing” — difficile che possano riuscire a correggere quegli errori i protagonisti di quella stagione, che peraltro continuano a considerarla l’era della “meglio classe dirigente” ». Orfini, che con i suoi Giovani turchi ha sostenuto Cuperlo e perso il congresso, spiega così la vittoria di Renzi: «A volte in politica è utile guardare alla realtà — continua — noi abbiamo perso il congresso perché quel mondo delle fasce più deboli non abbiamo saputo rappresentarlo». Poi lancia una stoccata all’ex segretario Bersani: «Il Pd più “di sinistra” arrivò terzo tra giovani, operai, disoccupati. Un disastro. Al 40 per cento delle europee siamo arrivati proprio recuperando parte di quei voti. Se questa è la mutazione genetica, evviva la mutazione genetica». Orfini boccia anche i governi del centrosinistra prodiano: «Con buona pace di Bersani esiste un prima e un dopo. Certo, questo non significa che Prodi e Berlusconi siano la stessa cosa. Ma il centrosinistra al governo è stato un fallimento». Dalla minoranza c’è chi prova a gettare acqua sul fuoco, come Alfredo D’Attore che definisce «fuori luogo» gli attacchi dei renziani: «D’Alema non ha ipotizzato alcuna scissione». Ma è inutile nascondere l’irritazione che l’intervento ha provocato anche dentro la stessa minoranza: «Non è con le battute che si fanno le scelte politiche», dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina. 21 Intanto in casa Pd scoppiano due casi in Sicilia in vista delle prossime amministrative. Ad Enna l’ex senatore Vladimiro Crisafulli, non candidato alle politiche per «motivi di opportunità», è pronto a scendere in campo nella corsa a sindaco: «Me lo chiedono i compagni del partito — dice — io ancora non ho deciso, ma non vedo perché non potrei farlo. Sono il segretario provinciale del Pd e non ho alcuna vicenda giudiziaria in corso». Ma da Palazzo Chigi l’input di Renzi è stato un netto no e Guerini sta provando a risolvere la vicenda evitando questa candidatura: «Ma come, De Luca sì e io no?», ribatte Crisafulli. Ad Agrigento invece le strampalate primarie del centrosinistra vedono in testa il candidato della lista civica messa in piedi dal vicesegretario regionale di Forza Italia, Riccardo Gallo Afflitto. 22 LEGALITA’DEMOCRATICA del 23/03/15, pag. 4 I sondaggi con Burchi perché assumesse la guida della società committente a Roma e l’imposizione dell’onnipresente Perotti I pm di Firenze inviano gli atti nella capitale Il sistema Incalza anche negli appalti della metropolitana più cara d’Europa CARLO BONINI FABIO TONACCI ROMA . Le intercettazioni telefoniche sugli appalti per la Metropolitana C di Roma rimaste impigliate negli ascolti del Ros dei carabinieri sul Sistema Incalza-Perotti prendono la strada di Roma, dove la Procura di Firenze ne ha trasmesso copia “per conoscenza” e dove è aperta un’indagine che promette di spalancare altri abissi di malversazione. Del resto, il filo che annoda il Grande Mandarino delle Infrastrutture alla più costosa opera pubblica della storia repubblicana (per 25 chilometri di linea, dai 2,7 miliardi di euro di costo in sede di aggiudicazione, si è oggi a 3,7), passava non solo attraverso il lavoro istruttorio della Struttura tecnica di missione del Ministero, ma, come sempre, attraverso Stefano Perotti e la sua Spm, che si era aggiudicata la direzione dei lavori del terzo tronco della linea, da San Giovanni ai Fori Imperiali (incarico che è stato revocato il giorno dell’arresto). UN LOTTO A TUTTI COSTI È ancora una volta Giulio Burchi, ex presidente di Italferr e indagato nell’inchiesta fiorentina, a portare involontariamente l’indagine nei cantieri della Metro C. «Grazie a Incalza — si sfoga al telefono parlando del ruolo da asso pigliatutto di Perotti — gli hanno dato un lotto che non volevano dargli a tutti i costi quando c’era Bortoli... di Roma Metropolitane». Ed è ancora Burchi che, al telefono, prima con l’assessore alla mobilità del Comune di Roma ed ex sottosegretario alle Infrastrutture del governo Monti, Guido Improta, e quindi con l’ex tesoriere del Pd Sposetti, evoca il nome di Incalza sullo sfondo della Metro C. Accade infatti che, nel gennaio 2014, Improta chieda a Burchi la sua disponibilità per assumere la guida di “Roma Metropolitane”, la società controllata dal Comune committente dell’appalto. Un carrozzone che impiega quasi 200 persone e spende di soli stipendi 13 milioni l’anno. «Ovviamente — dice l’assessore a Burchi — è una situazione prestigiosa perché è la più grande opera pubblica che si sta realizzando. Quindi, ci vuole qualcuno che abbia competenze giuridiche, tecniche, sensibilità politica e abbia fatto già tanti soldi...». Ma, a sentire Burchi in una telefonata successiva al suo incontro con l’assessore Improta durante il quale si è discusso del suo possibile incarico, c’è anche dell’altro. «L’assessore mi ha detto: “Lei conosce Ercole Incalza?”. E io gli dico: “Lo conosco da 30 anni perché eravamo nello stesso partito. Ma non mi gode. Incalza ha ancora un ottimo rapporto con Lunardi e io l’ho guastato”». Burchi e l’assessore capitolino non si incontreranno più. E, in quel gennaio 2014, presidente di “Roma Metropolitane” sarà nominato Paolo Omodeo Salé. Ma perché, dunque, quella domanda su Incalza? E perché bussare alla porta di Burchi? LA VERITÀ DELL’ASSESSORE 23 Raggiunto telefonicamente, l’assessore Improta la ricostruisce così. «Ho incontrato Burchi due volte. La prima, si presentò da me per illustrarmi un progetto della società del fratello. Mi disse che era stato presidente di Italferr e prima ancora della Metropolitana milanese, durante Tangentopoli e che in quella circostanza aveva collaborato con la magistratura di Milano. Mi lasciò un curriculum e, quando con il sindaco Marino decidemmo che era venuto il momento di azzerare i vertici di “Roma Metropolitane”, da cui arrivavano “rumori” che non ci piacevano, pensai a lui. Proprio per quell’esperienza milanese di collaborazione con la magistratura. E così lo chiamai per sondarlo. Anche perché avevamo bisogno di qualcuno disposto ad andare a Roma Metropolitane non solo accettando il tetto di stipendi fissato in 65mila euro l’anno, ma anche impermeabile alle “sirene” che un’opera di quel genere, con quella quantità di denaro che muove, produce. Dopodiché, non se ne fece nulla. Burchi non arrivò neppure al lotto ristretto di candidati tra i quali venne scelto Salé». Forse perché non era in buoni rapporti con Incalza? «Il senso della domanda che feci a Burchi durante il nostro colloquio aveva esattamente il significato opposto. Cercavamo una figura indipendente. A maggior ragione da Incalza. Tanto è vero che quando decidemmo di procedere alla nomina del nuovo presidente di Roma Metropolitane mi limitai a comunicarlo a Incalza. E il nome della persona che avevamo scelto la apprese dai giornali. A cose fatte». LE VARIANTI MIGLIORATIVE Che Incalza non sia “neutro” nella storia della Metro C è del resto una di quelle circostanze che, ancora una volta, non solo sono scritte nella gestazione dell’opera (la gara venne affidata nel 2006, proprio con la “Legge Obiettivo” di cui lo stesso Incalza e l’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi sono “padri”), ma anche in quel che accade lungo la strada della sua realizzazione. Tanto per dirne una, la commissione di collaudo di Metro C è presieduta dall’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, legatissimo ad Incalza e padre di quel Giandomenico che insieme a Perotti ha le direzioni dei lavori della tratta ad Alta velocità Milano-Genova. Metro C nasce con il progetto di una “galleria unica”, ma, immediatamente dopo, cambia fisionomia, collezionando ben 45 varianti in corso d’opera. Lo strumento capace di gonfiare come una mongolfiera i costi. Ebbene, come documentano gli atti del primo troncone dell’indagine della Procura di Firenze sulla Tav (quella che ha visto recentemente rinviata a giudizio Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd dell’Umbria ed ex presidente di Italferr, dove era succeduta proprio a Burchi) si scopre che, proprio nei cantieri della Metro di Roma, è stata per la prima volta «sperimentata con successo» un tipo particolare di variante. La cosiddetta “variante migliorativa”. Apparentemente, necessaria a risparmiare denaro rispetto al progetto iniziale. In realtà, con la sola funzione di evitare che il committente pubblico chieda conto al general contractor di progetti esecutivi errati eppure già pagati. Del 23/03/2015, pag. 11 GRANDI OPERE I politici, gli imprenditori, i tecnici e il monsignore: 15 anni di appalti e favori FIRENZE Il fascicolo è già stato trasmesso «per conoscenza» alla Procura di Roma. Riguarda l’appalto per il prolungamento della Metro C, si concentra sull’affidamento della direzione dei lavori a Stefano Perotti, manager finito in carcere insieme al suo amico e 24 socio in affari Ercole Incalza, alto funzionario delle Infrastrutture. I magistrati di Firenze ritengono di dover condividere questa parte dell’indagine sulla gestione delle Grandi opere, con i colleghi capitolini che hanno da tempo avviato verifiche sulla regolarità delle procedure e sulla lievitazione dei costi che al 2011 erano fissati in tre miliardi e 400 milioni di euro e secondo alcune stime potrebbero arrivare alla cifra record di 6 miliardi. Il «lotto» conteso Agli atti c’è la trascrizione di una telefonata del febbraio 2014 tra l’ex presidente di Italferr Giulio Burchi e il manager Giovanni Gaspari che gli inquirenti ritengono «significativa» proprio per dimostrare gli accordi illeciti per spartirsi nomine e appalti. Nel colloquio Burchi si lamenta infatti del numero di incarichi affidati a Perotti e tra l’altro afferma: «Gli ha fatto avere un lotto che non volevano dargli a tutti i costi quando c’era ancora Bortoli di Roma Metropolitane». È il «sistema» che secondo i pubblici ministeri «ha consentito ad un gruppo di soggetti di istituire una sorta di filtro criminale all’ordinario accesso ai grandi appalti pubblici da parte delle imprese private». È quella che il giudice ha ritenuto una «organizzazione criminale di spessore eccezionale, che ha condizionato per almeno un ventennio la gestione dei flussi finanziari statali destinati alla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali». E da oggi cominciano gli interrogatori di tutti. La spartizione dei manager La lettura delle carte processuali conferma come uno dei personaggi chiave di questo «sistema» messo in piedi, secondo l’accusa, da Incalza e Perotti, sia Francesco Cavallo. Nelle conversazioni lo indicano come «uomo di Lupi». Molto legato ai vertici della cooperativa «La Cascina» — coinvolta in numerose inchieste, compresa Mafia Capitale — «ha un rapporto contrattuale per l’erogazione di servizi professionali in favore della società “Ingegneria Spm” riferibile a Perotti Stefano» e ciò vuol dire che «intrattiene nel suo interesse una serie di rapporti con soggetti istituzionali». Cavallo alterna incontri con monsignor Francesco Gioia per far avere un lavoro al nipote del prelato e chiedere in cambio voti per Maurizio Lupi, ai contatti con numerosi titolari di azienda, fa da tramite tra questi ultimi e i politici. È amico dell’imprenditore friulano Claudio De Eccher e di quello pugliese Roberto De Santis, il compagno di vela di Massimo D’Alema, non indagato ma perquisito una settimana fa proprio perché il suo nome compariva agli atti dell’inchiesta per un affare che avrebbe dovuto concludere proprio grazie a Cavallo. Le segnalazioni Il giudice ritiene che il «sistema» si regga su quel patto tra «i professionisti nominati direttori dei lavori e gli stessi funzionari dello Stato, parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni, proventi illeciti». Hanno gestito in quindici anni decine di appalti per un totale di 25 miliardi di euro, ma si sono occupati anche di orientare nomine che consentono di percepire compensi da centinaia di migliaia di euro. E allora si comprende perché Burchi abbia interesse a tenere ottimi rapporti con amici politici del calibro del socialista Riccardo Nencini sottosegretario alle Infrastrutture, con il quale «bisogna discutere ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone», e con il parlamentare ed ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che gli chiede aiuto per far avere incarichi a manager di sua fiducia. Molto attivo appare anche Stefano Saglia che ottiene una consulenza da Perotti e dopo avergli procurato «un appuntamento in Eni». Commenta Cavallo: «Si è messo di buzzo buono a lavorare, Stefano gli ha già dato una consulenza, ma è così che si lega questa gente, cioè mica gli puoi dire “quando chiuderò, può darsi”». Le carte «truccate» Ci sono i capitolati «su misura» e quelli modificati in corsa, ma i carabinieri del Ros hanno trovato anche una perizia contraffatta, svolta nell’arbitrato tra Perotti e la Fiat sui lavori 25 della Tav Firenze-Bologna che hanno portato nelle tasche del manager — nominato general contractor — ben 68 milioni di euro. Sull’assegnazione dei lavori ferroviari e autostradali il ruolo dei politici si fa dominante con Vito Bonsignore del centrodestra che entra nella Civitavecchia-Orte-Mestre e Antonio Bargone del centrosinistra interessato alla Tirrenica. Entrambi disponibili a trattare e per questo finiti tra gli indagati. Fiorenza Sarzanini del 23/03/15, pag. 23 L’eroe antimafia socio dell’imprenditore accusato di riciclare per Messina Denaro Nelle indagini sul presidente di Confindustria Sicilia, Montante gli affari con un presunto prestanome del superboss latitante ATTILIO BOLZONI FRANCESCO VIVIANO QUALI rapporti economici può avere un simbolo dell’antimafia con imprenditori sospettati di riciclare denaro della mafia? Quali affari può fare con personaggi accusati di collusione, addirittura con il superlatitante Matteo Messina Denaro? In un voluminoso rapporto della Dia affiora il nome di Antonio Calogero Montante detto Antonello, il delegato per la legalità di Confindustria scivolato in un’indagine per le sue pericolose amicizie e chiamato in causa da cinque pentiti mentre — nel frattempo — sbandierava il vessillo dell’antimafia. Nell’inchiesta che lo coinvolge a Caltanissetta — concorso esterno — entrano nuove carte che rendono ancora più contorta la vicenda di un potente siciliano che si è messo a capo di un movimento per la «liberazione» dell’isola dal crimine, sostenuto all’inizio della sua avventura da ampi settori della magistratura, sponsorizzato da un paio di uomini politici — Beppe Lumia in testa — che di volta in volta appoggiano indifferentemente un governatore (Raffaele Lombardo) legato ai boss o un governatore (Crocetta) schierato contro i boss. Una di queste carte riguarda l’azienda di cui Montante era socio fino al 2010 al 50 per cento con Paola Patti, la figlia del patron della Valtur Carmelo, uno che per gli investigatori della Dia sarebbe un prestanome di «Diabolik», il nuovo capo della mafia dopo Totò Riina. L’azienda in questione, una srl con sede a Milano, è stata «proposta» per il sequestro dalla Direzione investigativa antimafia con altre società per un valore totale di 5 miliardi di euro. È tutto agli atti, alla sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Trapani dove in questi mesi si sta celebrando il processo che deciderà il destino dei beni di «mister Valtur». È stata una vera sorpresa trovare tracce di Montante — che è anche presidente di Confindustria Sicilia, presidente delle Camere di Commercio dell’isola (fra pasticci e vergogne dopo l’arresto di Roberto Helg per estorsione), consigliere per Banca d’Italia e membro dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale al momento si è autosospeso ma non dimesso, seppur figura in un elenco di società sotto sequestro della Dia) in una delle inchieste più importanti degli ultimi anni sulle complicità di Cosa Nostra. È un documento in via di acquisizione da parte della procura di Caltanissetta, insieme a una lettera anonima girata dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Un «dossier» dalle misteriose origini. Questo «caso Montante» — mentre la squadra mobile di Caltanissetta sta riscontrando l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, sequestrando scritture nelle sedi di Confindustria 26 siciliane e negli studi notarili, interrogando testimoni vecchi e nuovi — si apre verso nuove piste. Una porta a quella società dentro il «tesoro» di Matteo Messina Denaro, l’altra al giallo dell’anonimo che segnala l’intenzione di qualcuno che voleva — fin dall’estate scorsa — incastrare Antonello Montante. L’azienda che è finita nel maxi sequestro trapanese ha sede legale a Milano in via Camperio Manfredo 9 e ha per oggetto «la commercializzazione di prodotti dolciari, nonché la locazione e la vendita di immobili, mandati di intermediazione finanziaria, l’acquisto di complessi turistici e alberghieri». Montante ha acquisito quasi il 50 per cento dell’Ap Consulting con Paola Patti il 24 gennaio 2001 (amministratore unico un calabrese della provincia di Cosenza) e, nel 2003, insieme hanno acquistato altre quote fino a controllare l’intera società. Le date sono importanti perché — già nel 1999 — era iniziata un’indagine su Carmelo Patti con il sospetto che dietro il suo patrimonio familiare si nascondesse Messina Denaro. L’inchiesta prima si è concentrata su una frode fiscale (con Patti assolto, sia per evasione che per associazione a delinquere semplice), poi ha virato verso il riciclaggio per concludersi nel 2012 con quei 5 miliardi che la Dia ha chiesto di sequestrare. Per qualche anno l’Ap Consulting è stata «ferma», nel 2007 i due soci — Montante e la Patti — hanno versato in conto capitale 35.199 euro, poi nel 2010 l’azienda è stata improvvisamente cancellata. Perché Antonello Montante — proprio nella stagione che guidava la «campagna » contro il racket — diventava socio di imprenditori già fortemente indiziati di contiguità con ambienti di mafia? È un passaggio non secondario dell’indagine di Caltanissetta aperta nel giugno del 2014, dopo che alcuni collaboratori di giustizia — prima tre e poi altri due — hanno cominciato a raccontare del passato e del presente di Montante. E qui arriviamo al giallo dell’anonimo. Appena qualche mese dopo, al bar Lumiere di San Cataldo — paese a sette chilometri da Caltanissetta — qualcuno ha sentito «alcune persone» che parlottavano fra loro «per mettere nei guai Montante». Ha registrato una conversazione, l’ha trascritta e inviata in forma anonima alla sede di Confindustria a Roma. Molto dettagliato il resoconto, secondo alcuni fin troppo. Un’intercettazione dal vivo, forse captata con sofisticati congegni. Oltre al nome di Montante, gli interlocutori riferivano anche «di un grande affare all’aeroporto di Catania». Quest’anonimo è stato consegnato al procuratore di Roma, che l’ha smistato ai suoi colleghi di Caltanissetta. Adesso s’indaga su quell’incontro al bar Lumiere — se c’è stato realmente o se è stato «costruito » — , s’indaga per capire chi ha fatto lo spione e per conto di chi, s’indaga anche su qualche personaggio che in Sicilia ha cattiva reputazione di «fabbricare» dossier. Insomma, qualcuno voleva davvero «mettere nei guai» Montante o c’è stata una manovra diversiva proprio quando il paladino della legalità veniva indagato per concorso esterno? Del 23/03/2015, pag. 11 Severino, primo stop in Cassazione: il Tar non ha competenza Parere della procura generale mette in discussione le decadenze revocate. Ora il verdetto alle Sezioni unite ROMA Il Tar non c’entra, spetta al giudice ordinario decidere sulla decadenza e quindi, per estensione, anche sulla sospensione degli amministratori locali. Lo afferma la procura 27 generale della Corte di Cassazione disegnando un grosso punto interrogativo sul destino da sindaco di Luigi de Magistris. E un altro su quello, eventuale, di presidente della Regione Campania, del candidato democratico Vincenzo De Luca. Se le sezioni unite della Cassazione, dovessero accogliere il parere del sostituto procuratore generale Luigi Salvato, infatti, de Magistris potrebbe perdere l’ombrello del Tar e del Consiglio di Stato: quello che ha fatto cadere la sospensiva prevista dalla legge Severino, dopo la condanna subìta in primo grado per abuso d’ufficio, restituendogli la poltrona di primo cittadino di Napoli. E forse a nulla servirebbe la questione di legittimità costituzionale, sollevata alla Consulta. Per De Luca, anche lui condannato per abuso d’ufficio, si aprirebbe lo stesso problema nel caso venisse eletto. A stabilirlo però dovranno essere, le sezioni unite, nell’udienza fissata per il 26 maggio, nella quale si discuterà il ricorso di Gianluigi Pellegrino, avvocato del Movimento difesa del cittadino, su chi abbia competenza a riguardo. Un ricorso giudicato ammissibile dal pg Salvato che non ha espresso dubbi: «In materia di contenzioso elettorale amministrativo, sono devolute al giudice ordinario le controversie concernenti l’ineleggibilità, la decadenza e l’incompatibilità». Un principio «costantemente enunciato dalle sezioni unite», ha specificato, chiarendo che la sospensiva «si differenzia dalla decadenza solo perché a tempo determinato e non a tempo indeterminato». «Se il ricorso verrà accolto, cosa che mi pare scontata, la politica non potrà più sperare nella Consulta: la Severino si applica a tutti o si cambia», esulta l’avvocato Pellegrino. Ma il fedelissimo di De Luca, Fulvio Bonavitacola, non è di questo avviso: «Il dubbio sulla giurisdizione era noto. Ma anche quando a pronunciarsi è stato il Tribunale, le conclusioni sono state le stesse del Tar. Infatti la Corte d’Appello di Bari, nel 2014, ha reintegrato un consigliere regionale sospeso, sollevando numerose eccezioni d’incostituzionalità su cui la Corte sarà chiamata a pronunciarsi con sollecitudine, come annunciato di recente dal suo Presidente. Tale percorso è già incardinato ed a tal proposito l’esito della pronuncia delle sezioni unite sulla giurisdizione è del tutto ininfluente» . Virginia Piccolillo 28 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 23/03/2015, pag. 15 CARO TARIFFE Acqua: +95,8% in dieci anni Aumenti record rispetto all’Ue Qualcuno l’aveva anche previsto, subito bollato come uccello del malaugurio. Quando però tre mesi fa l’ Ansa ha dato notizia che con il nuovo metodo stabilito per calcolare le tariffe le bollette dell’acqua sarebbero salite quest’anno ancora del 4,8%, si è capito che la profezia era tutt’altro che campata per aria. E una indagine ancora inedita sull’andamento dei prezzi nei servizi pubblici locali ora lo conferma. Secondo l’ufficio studi della Confartigianato, dal 2004 al 2014 le tariffe dell’acqua sono aumentate mediamente del 95,8%. Un aumento monstre, addirittura triplo rispetto alla crescita dei prezzi di quel servizio registrati nella media dei Paesi europei aderenti alla moneta unica (34,9%). Considerando un’inflazione cumulata del 21,1%, il rincaro reale è stato del 74,7%, a un ritmo medio del 7,5% annuo. Stando così le cose il referendum del 2011 con il quale 23 milioni di italiani, più del 96 per cento di quanti si recarono a votare, hanno deciso che i servizi idrici devono restare in mano pubblica, non è certo servito a calmierare il costo dell’acqua. Un «bene comune», come recitava la propaganda referendaria, sempre più costoso: senza che si riesca a porre fine a una situazione che ci vede fra i più spreconi del continente. Dicono i dati ufficiali che nel 2014 ogni famiglia ha speso in media per la bolletta idrica 355 euro, fino al top di Firenze che con 563 euro ha battuto tutte le altre città. E se il prezzo è risultato in media più alto del 6,6% rispetto all’anno precedente, anche le perdite sono aumentate del 3%. Fra buchi e furti si perde il 37% dell’acqua immessa nei tubi, con punte del 60% nel Lazio e in Calabria. Nessun altro servizio locale ha messo in evidenza dal 2004 a oggi dinamiche dei prezzi tanto sostenute, a dimostrazione del fatto che l’equazione fra gestione pubblica ed efficienza in Italia non è affatto scontata. Ma gli utenti non si possono lamentare soltanto dell’acqua. Prendiamo i trasporti. Negli ultimi cinque anni i costi medi sono lievitati del 16,2%, quasi il doppio dell’inflazione. Per non parlare dei rifiuti solidi urbani. In dieci anni la tassa è cresciuta in media del 61,9%: il triplo rispetto all’inflazione e più del doppio dell’area dell’euro. Ed è un confronto che dice tutto a proposito della strada che abbiamo imboccato. Nei cinque anni del federalismo made in Italy, spiega ancora la Confartigianato, le tariffe dei servizi pubblici non energetici (acqua, trasporti e rifiuti) sono aumentate del 25,9%, contro il 13,3% nel complesso dei Paesi a moneta unica. Di cui facciamo parte anche noi, contribuendo così ad alzare decisamente la media dei costi. Ma non quella della qualità. La pulizia delle città, per esempio. L’indagine dell’eurobarometro sui livelli di soddisfazione degli abitanti di 83 città dei 28 Paesi dell’Unione più Turchia, Islanda, Norvegia e Svizzera ha dato risultati sconcertanti. Quasi tutti i centri italiani presi in esame sono nelle parti basse della classifica: Bologna occupa la casella numero 46, Torino la 55, Roma è al posto 78, Napoli all’80 e Palermo addirittura all’82. Ci consola soltanto il dodicesimo posto di Verona: ma è una consolazione piuttosto magra. Esiti non migliori arrivano da un’altra indagine, quella che riguarda la soddisfazione dei cittadini per i trasporti pubblici. Fra i 28 29 Paesi dell’Unione siamo terzultimi, con il 53% di giudizi positivi, davanti soltanto a Cipro (49%) e Malta (31%). Fuor di dubbio che la causa di costi e inefficienza abbia a che vedere con un numero abnorme di società partecipate locali. Le amministrazioni locali hanno in portafoglio 35.311 partecipazioni in 7.721 imprese. Lo studio ricorda che 3.035 di queste società hanno meno di sei dipendenti. Le dimensioni medie sono molto ridotte: il 62% ha un fatturato inferiore a 10 milioni, rappresentando appena il 7% della produzione totale. I costi di amministrazione sono quindi elevatissimi, con 37 mila cariche sociali distribuite su 26.500 persone. L’ex commissario straordinario alla spending review li aveva calcolati in 450 milioni. Lo stesso Carlo Cottarelli aveva delineato un percorso che avrebbe dovuto portare il numero di queste partecipazioni da circa 8 mila a non più di mille. La legge di Stabilità del 2015 ha ora fissato il principio che entro il 31 marzo gli enti locali debbano fare un piano di razionalizzazione. Staremo a vedere. «Alle imprese pubbliche locali è necessaria e con urgenza una robusta iniezione di efficienza. Ne va della qualità dei servizi e della convenienza di prezzi e tariffe. Le regole di una sana gestione imprenditoriale non possono valere solo per i privati», dice il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti. Con un riferimento neppure troppo velato al problema della concorrenza. La sua associazione sottolinea che nei settori dei servizi pubblici, gli affidamenti con gara sono appena 269 su 13.134: il 2%, contro il 52,6% di assegnazioni dirette a società in house o imprese miste. Enorme il giro d’affari. Tredici miliardi è il costo dei servizi, a cui vanno aggiunti tre miliardi per trasferimenti correnti e in conto capitale oltre a un paio di miliardi per coprire le immancabili perdite. Totale: 18 miliard i. Sergio Rizzo 30 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 25/03/15, pag. 24 I nostri giovani studiano per una vita nelle scuole pubbliche, fin dalle elementari Poi trovano un posto in Germania, Regno Unito, Brasile. Uno spreco enorme nell’indifferenza Il laureato emigrante quel capitale umano costato 23 miliardi che l’Italia regala all’estero FEDERICO FUBINI ROMA . L’Italia ha costruito centinaia di chilometri di rete ferroviaria ad alta velocità e ne ha fatto dono alla Gran Bretagna. Ha investito in due enormi reti Internet a fibra ottica, perché siano installate in Germania e in Svizzera. Naturalmente non è vero. Se lo fosse, la tivù mostrerebbe zuffe a Montecitorio, sindacati in piazza e forse il governo dovrebbe dimettersi. Eppure, nell’indifferenza generale, sta succedendo qualcosa del genere. Ogni giorno un’emorragia verso l’estero di risorse (anche) finanziarie di simile entità si consuma sull’infrastruttura di base di ogni Paese: i suoi abitanti. Alla più cauta della stime, dal 2008 al 2014 è emigrato all’estero un gruppo di italiani la cui istruzione nel complesso è costata allo Stato 23 miliardi di euro. Sono 23 miliardi dei contribuenti regalati ad altre economie. È una cifra pari al doppio di quanto occorre per stendere la rete Internet ad alta velocità che in questo Paese continua a mancare. È una somma pari a un terzo del costo dell’intera rete ferroviaria ad alta velocità italiana, che al chilometro è la più cara al mondo. Ma quando si tratta di laureati, diplomati o anche solo di titolari di una licenza media che se ne vanno portando con sé le proprie competenze e l’investimento che è stato fatto su di loro dagli asili d’infanzia alle aule universitarie, nessuno protesta. Di rado se ne parla. Non è uno scandalo: sembra normale, anche se nella storia dell’Italia unita non era mai successo. Certo le migrazioni fra fine ‘800 e il secondo dopoguerra erano state più intense nei numeri, ma infinitamente di meno per il capitale versato nelle persone che poi se ne andavano. Molti di quei migranti erano analfabeti, non troppi avevano finito le elementari. Giorni fa invece Alberto Alemanno, 40 anni, laureato all’Università di Torino, docente di Diritto della Haute École Commerciale di Parigi e della New York University, è stato designato come Young Global Leader del World Economic Forum. Nel frattempo Alberto Quaranta (nome modificato su sua richiesta), 43 anni, laureato a Pescara, già architetto in una città pugliese, ha terminato il suo inserimento come impiegato nei magazzini dell’aeroporto di Monaco di Baviera. Il primo è riuscito ad arrivare al posto per il quale aveva studiato, il secondo no. Ma i due hanno lo stesso qualcosa in comune: entrambi sono stati oggetto di un investimento di (almeno) 163 mila euro da parte della collettività italiana per il loro percorso formativo, dall’età di tre anni fino alla laurea. Nel rapporto “Education at a Glance 2014”, l’Ocse di Parigi stima che, solo per la gestione dei luoghi d’insegnamento e gli stipendi degli insegnanti, chi si istruisce in Italia costi 6.000 dollari l’anno quando frequenta una scuola materna pubblica, 8.000 l’anno alle elementari, 9.000 alle medie e alle superiori e 10.000 all’università. Per i contribuenti il costo (di base) di produzione di un laureato in Italia è di centinaia di migliaia di euro. Ogni volta che una di queste persone lascia l’Italia, quell’investimento in sapere se ne va con lui o con lei. Negli ultimi anni le destinazioni preferite sono Gran Bretagna, Germania e Svizzera. Si tratta di 31 un colossale sussidio implicito versato dall’Italia ad altri Paesi ogni volta che un migrante fa le valigie. Ed è ormai un fenomeno macroeconomico. Nel solo 2013 il trasferimento silente di investimenti dall’Italia al Regno Unito attraverso l’istruzione dei migranti è stato, quantomeno, di 1,5 miliardi. Quello versato alla Germania è di 650 milioni e persino un Paese lontano come il Brasile è beneficiario per oltre cento milioni. Nell’ultimo secolo un export su questa scala di investimenti pubblici in “infrastrutture” si è visto solo quando un Paese sconfitto in guerra doveva pagare riparazioni. Questo invece è auto-inflitto. La novità negli ultimi anni è infatti duplice. La meno nota è che la quota di migranti laureati sta crescendo, e con essa il sussidio implicito dell’Italia ai Paesi dove essi vanno. Secondo l’Istat, i laureati erano il 19% degli italiani trasferitisi all’estero nel 2009, ma sono già saliti al 24% nel 2013. Il peso di coloro che se ne vanno avendo solo una licenza media è invece in calo. L’altra caratteristica di questi anni è che l’armata degli emigranti è sempre più vasta, ma non c’è accordo fra governi europei sul loro numero. I dati dell’Istat sono probabilmente sottostimati. In base all’anagrafe italiana, come riportato dall’istituto statistico, dal 2008 al 2013 c’è stato un deflusso netto di 150 mila persone: è il saldo fra gli italiani che escono e quelli che rientrano. Il ritmo delle uscite peraltro sta accelerando. Solo due anni fa, al netto dei rientri in patria, sono state 53 mila. Alla cifra pubblica dei 150 mila, la Repubblica aggiunge altre 63 mila uscite nette nel 2014 sulla base dei dati dei primi 9 mesi ed è una stima cauta, perché presuppone una frenata delle tendenze in atto negli ultimi anni. Al valore di 23 miliardi di investimenti in istruzione “esportati” si arriva così. Negli ultimi sei anni il 48% dei migranti aveva terminato le scuole medie, il 30% le superiori e il 22% l’università: i costi sono stimati su questa base. Il problema è che gli oneri reali sono più alti, perché i dati Istat non colgono tutta la realtà. Molti se ne vanno, ma non lo comunicano all’anagrafe. Gli italiani che nel 2013 hanno preso il “National Insurance Number” (codice fiscale) per lavorare in Gran Bretagna sono quattro volte più di quelli che ufficialmente hanno lasciato l’Italia, secondo l’Istat, per andare Oltremanica. Per il governo tedesco, gli italiani arrivati in Germania solo nella prima metà del 2014 sono più di quelli che, secondo l’Istat, lo hanno fatto in tutto il 2013. Alberto, l’architetto pugliese, non ha mai abbandonato la residenza nel Comune di origine e dunque per l’Italia è ancora qui. Intanto però ha preso domicilio vicino a Monaco per potersi appoggiare al centro per l’impiego locale, che gli ha trovato un posto. Così l’Italia manda via qualcosa che costa e vale più delle sue autostrade o ferrovie. Lo fa nell’indifferenza dei ministri che raccomandano un figlio, degli universitari che sbarrano la strada ai bravi per favorire i servili. Giorni fa “Pensare Politico”, un’associazione di Rimini, in un incontro con 150 studenti di quarta superiori ha chiesto quanti volessero migrare “dopo la laurea”. Un terzo della sala ha alzato la mano. È un investimento perduto di 8 milioni, è stato detto. Nessuno degli studenti ha fiatato: a loro sembrava perfettamente logico. 32