Amore e sacrificio: epica e fiaba in Pinocchio

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Amore e sacrificio: epica e fiaba in Pinocchio
V edizione LibrAperto Carlo Collodi Pinocchio e altre storie “Sono stufo di far sempre il burattino!… Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo” Amore e sacrificio: epica e fiaba in Pinocchio Edoardo Rialti docente di Letteratura comparata, saggista, pubblicista, traduttore ed esperto di letteratura inglese Firenze, 7 novembre 2015 C’è un grosso dibattito teologico: se i critici letterari abbiano o no l’anima. E i teologi non si sono ancora pronunciati su questo tema. Sull’affermazione che è stata fatta stamattina dalla professoressa Blezza Picherle sul critico-­‐bambino ci tengo a dire una cosa: ascoltandola ho annuito con profonda convinzione, perché quel livello di cui avete discusso stamattina -­‐ e che io tentativamente spero di discutere stasera, ma che è il livello credo del vostro lavoro quotidiano, verso cui io ho sempre un’ammirazione sconfinata-­‐ costituisce veramente non la premessa ma, mi viene da dire, la base, il cuore, il tronco, le foglie e i fiori dell’esperienza della lettura e dell’esperienza della critica. Perché l’esperienza della critica letteraria, dello studio della letteratura, dell’essere dei lettori forti, consapevoli a otto anni o a ottanta, per quanto mi riguarda, come studioso, non si discosta mai da quel livello fondamentale. Io qualche giorno fa ho intervistato -­‐ ed è stata una delle più belle interviste che abbia fatto come giornalista-­‐ Azar Nafisi, la grande scrittrice iraniana esule, autrice di Leggere Lolita a Teheran, bellissimo libro sull’insegnare la letteratura sotto una dittatura. Adesso lei è scappata e ha scritto un altro bellissimo libro, che è la seconda parte, che si chiama La repubblica dell’immaginazione. Nell’intervista mi diceva: “Io sono arrivata nei paesi dell’Occidente da una dittatura, quindi pensavo che non avrei avuto più problemi sull’esperienza dell’insegnare la letteratura, e invece io mi sono resa conto che anche in Occidente c’è una dittatura, perché nel mio paese ci dicevano: ‘se tu leggi quel libro ti ammazzo’ e allora lo leggevamo tutti di nascosto -­‐Pinocchio docet-­‐ mentre in Occidente hanno tolto la voglia di leggere”, ci sono riusciti senza neanche farci scappare il morto. Quindi è una sorta di controllo lindo e pulito: hanno tolto il gusto della lettura. Un bella sfida, no? In realtà quel livello, (addirittura le risposte dei bambini che ho visto stamattina, per quanto mi riguarda, se le dessero certi miei studenti anche in università, vi assicuro che mi alzerei e li abbraccerei commosso) è una cosa che possiamo profondamente smarrire, addirittura in nome dell’analisi letteraria, che invece è il cuore dell’esperienza letteraria vera. Uno dei miei maestri, che tutti voi ben conoscete, a cui abbiamo dedicato un’edizione, che era appunto Lewis, autore de Il leone, la strega e l’armadio, docente ad Oxford e Cambridge (non è da tutti insegnare sia dai Montecchi che dai Capuleti!) diceva che un bambino che apre un grande poema epico ed esclama “Wow!” senza quasi neanche capire tutte le parole -­‐come vedevo stamattina a proposito di “paonazzo” -­‐ è più vicino a Omero del critico letterario che pretenda di analizzarlo a freddo. Quindi voi siete una fucina di critici letterari. Allora, io vorrei fare un percorso da letterato, cercando di collocare alcuni assi fondamentali con i quali io leggo e interpreto Pinocchio, cercando di ricollegarlo alla grande tradizione dell’epica e della fiaba. Vorrei iniziare però con qualcosa di ottocentesco che non è Collodi. È una poesia che tutti noi conosciamo: Davanti san Guido di Carducci. Vi ricordate che Carducci, professore universitario ormai affermato “e so legger di greco e di latino”, parla davanti ai cipresseti di Bolgheri e parlando coi cipressi si ricorda della sua Didattica e Innovazione Scolastica
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infanzia e parla con la nonna che è morta al cimitero e le dice: “O, nonna, o nonna! deh com’era bella / quand’ero bimbo! Ditemela ancor, /ditela a quest’uom savio la novella/ di lei che cerca il suo perduto amor!” Improvvisamente la voce della nonna nel ricordo gli ripete la fiaba: “-­‐ Sette paia di scarpe ho consumate / Di tutto ferro per te ritrovare: /Sette verghe di ferro ho logorate / Per appoggiarmi nel fatale andare: / Sette fiasche di lacrime ho colmate, / Sette lunghi anni, di lacrime amare: / Tu dormi a le mie grida disperate, / E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare./ -­‐ Deh come bella, o nonna, e come vera/ è la novella ancor! Proprio così. /E quello che cercai mattina e sera/ Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, / Sotto questi cipressi, ove non spero, Ove non penso di posarmi più”. Questa è una famosissima fiaba popolare, la riprende anche Calvino, non so però se sapete -­‐ per un misterioso gioco del destino, in realtà questa fiaba che Carducci cita, la fiaba di questa donna che compie una serie di prove, un po’ come Amore e Psiche -­‐ le scarpe di ferro, il bastone, e c’è l’innamorato che dorme e non si vuole svegliare, e mentre lei piange e gli dice questa cosa improvvisamente si sveglia, e si volta -­‐ questa fiaba, ed esattamente questo passaggio, John Ronald Reuel Tolkien quando ha scritto il saggio fondamentale che si chiama Sulle fiabe del 1939 (poi fu riedito nel ’45), (se potete leggetelo, che è un saggio straordinario su che cosa vuol dire leggere le fiabe) lo incastona nel centro del suo discorso sulle fiabe. Tolkien dice che questo momento, nel quale la donna innamorata piange dopo aver fatto un sacrificio grandissimo e sembra che tutto sia stato invano ma improvvisamente, non si sa come, per magia, l’innamorato si sveglia, Tolkien dice: questo è il cuore di ogni grande fiaba. Tolkien coniò il termine eucatastrofe, catastrofe buona, ribaltamento positivo: quando tutto sembra che stia andando verso la sconfitta, come in un collo di bottiglia, poc! ci troviamo in un improvviso ribaltamento. Dice Tolkien in una lettera: “l'improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia da farti venire le lacrime agli occhi […] è un'improvvisa visione della Verità, il tuo intero essere legato dalla catena di causa ed effetto, la catena della morte, – la morte, tema di cui avete già parlato tanto, ma su cui ritorneremo -­‐ prova un sollievo improvviso come se un anello di quella catena saltasse.” Questo è un tema che secondo me è molto presente in Pinocchio. Questo salto. Vorrei, nel mio intervento, provare a ripercorrere la fiaba facendo vedere come, di fatto, Collodi, esplicitamente o implicitamente, consapevolmente o meno, faccia fare a Pinocchio, e anche a noi come lettori, un tipo di viaggio che è il viaggio dell’esperienza fiabesca e dell’esperienza epica avventurosa della letteratura occidentale, con una serie di rimandi ben precisi, che sono esplicite citazioni letterarie o riprese semantiche, cioè echi di storie che in fondo sono sempre le stesse. Borges diceva che in fondo raccontiamo sempre cinque o sei storie, non è che ne raccontiamo tante altre: la città assediata, gli amanti divisi, il ritorno a casa dopo un lungo viaggio. Se ci pensate bene le storie son sempre quelle, da Romeo e Giulietta all’Iliade a Guerra e pace… no? Son sempre questi i grandi temi. Però prima di inoltrarmi in Pinocchio vorrei fare due premesse. Primo piccolo inciso, sempre citando un po’ i miei maestri, che io chiamerei così: In difesa della paura e della violenza nelle fiabe perché paradossalmente proprio la notte, il buio, il fosco, il drammatico fanno spiccare ciò che ci aiuta a vincerle. Sicuramente ricordate una citazione che vi ho già riferito nelle edizioni precedenti di LibrAperto, che è un altro momento di affondo meta-­‐letterario importante del buon vecchio Chesterton, quando dice che le fiabe non servono a ricordare ai bambini che esistono i draghi, perché i bambini che i draghi esistono già lo sanno, (e purtroppo mi sembra che il mondo contemporaneo di circostanze con i draghi ne offra parecchie). La cosa interessante è che le fiabe ti fanno vedere che i draghi possono essere sconfitti. Sentite che cosa dice sempre Lewis a proposito della paura (perché anche negli anni ‘50 ci si chiedeva se è giusto far leggere ai bambini delle storie dove c’è la morte, c’è la violenza… e pensate quanto è drammatico Pinocchio): “Chi afferma che i bambini non vanno spaventati intende due cose: si può dire che non dobbiamo proporre niente che possa dare al bambino quelle durevoli, difficoltose patologiche paure contro le quali l’ordinario è impotente: di fatto le fobie. La sua mente andrebbe tenuta libera se fosse possibile dal peso di cose che non possa sopportare” e questo, dice, è giustissimo: non vanno sconvolti -­‐ “oppure si può voler dire che dobbiamo cercare di tener lontana da loro la consapevolezza di essere nati in un mondo di morte, violenza, ferite, avventura, eroismo e codardia, di Didattica e Innovazione Scolastica
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bene e di male. Se parliamo della prima opzione sono d’accordo, mentre non lo sono sulla seconda. Quest’ultima darà davvero ai bambini una falsa impressione del mondo e li nutrirà con evasioni sbagliate. C’è qualcosa di ridicolo nell’educare così una generazione nata negli anni del KGB e della bomba atomica” -­‐ dice Lewis negli anni ’50; noi potremmo dire nata negli anni dell’11 settembre -­‐ “Dal momento che è molto probabile che incontreranno nemici crudeli, lasciamo almeno che abbiano sentito parlare di impavidi cavalieri e di eroico coraggio, altrimenti non renderemo il loro destino più luminoso, ma più oscuro; né molti di noi hanno trovato che violenza ed uccisione in una storia producano qualche ossessivo terrore nella mente dei bambini. Tanto quanto durerà mi opporrò insieme alla razza umana contro il riformatore moderno. Lasciamo i re malvagi e le teste mozzate, le battaglie e i labirinti, i giganti e i draghi che alla fine del libro i cattivi siano giustamente uccisi. Niente mi convincerà che queste cose provochino in un bambino normale alcun tipo di terrore o paura a ciò che possa o voglia provare, perché naturalmente egli vuole essere un poco spaventato”. È un’affermazione, mi sembra, non di poco conto e, altra cosa importante che ci introduce a Pinocchio, aggiunge: “ io ritengo che relegando il proprio bambino a storie immacolate di vita infantile, nelle quali niente di allarmante succeda mai, non si bandirebbero i terrori, e invece si riuscirebbe ad eliminare tutto ciò che li rende nobili e sopportabili, perché nelle fiabe, fianco a fianco con i personaggi terribili, troviamo gli indimenticabili confortatori e protettori, coloro che irradiano luce, e le figure terribili non sono semplicemente spaventose, ma sublimi -­‐anche i cattivi sono importanti in una fiaba-­‐. Sarebbe bello se un bambino a letto credendo o sentendo un rumore non si spaventasse affatto, ma se si spaventa penso che sia meglio che pensasse ai draghi e ai giganti che ai semplici ladri e credo anche che san Giorgio, o un qualsiasi altro lucente campione in armatura -­‐o la fata azzurra-­‐ sia un conforto migliore della polizia.” Questa era la prima premessa. L’altra è questa, che esprimo con una domanda: Abbasso il grillo parlante? È un interrogativo anche dei vostri lavori della mattinata, nel senso che secondo me è appunto una grossa sfida di cui ha già profondamente detto stamattina la professoressa Blezza -­‐ Picherle: il dibattito sul contenuto morale di una fiaba. Ancora una volta ci viene in aiuto, con la sintesi e l’intelligenza che gli erano proprie, il buon vecchio Chesterton, con un’espressione che, se potete trattenete, perché per me è stata importantissima: “Le cattive storie hanno una morale, le grandi storie sono una morale”: questa è la differenza! Un’altra grande scrittrice del ’900, Flannery O’Connor, autrice di testi violentissimi, diceva una cosa fondamentale che secondo me è molto importante da trattenere e cioè: “In un artista maturo, il senso morale coincide con il senso drammatico”. Cioè, la morale non è qualcosa che segue agli avvenimenti, la morale sono le cose che succedono. Non c’è neanche bisogno di tirare una riga: ‘e quindi abbiamo capito che …’. Da questo punto di vista, ed è una mia provocazione molto povera, io non so neanche se sia il caso di leggere quei paragrafini che talvolta sono all’inizio di ogni capitolo in Pinocchio, perché secondo me (ma è il mio parere da lettore) creano un doppio problema: il primo è che talvolta dicono già cosa succede nel capitolo; il secondo è che a volte dicono anche che cosa ne devi imparare. Sapere che in quel capitolo Pinocchio si trasforma o che la frittata gli vola dalla finestra … a volte sono ancora sufficientemente allusivi da essere delle introduzioni sufficienti, però secondo me più il testo è semplicemente il testo, meglio è. Comunque su questo magari torneremo. Primo punto. Io ogni volta cerco di aprirlo con la citazione da un altro testo letterario: Casa è da dove si parte che è una citazione di T.S. Eliot da I Quattro quartetti in cui lui dice: “Non cesseremo mai di esplorare. E alla fine della nostra esplorazione arriveremo là dove abbiamo cominciato. E conosceremo il posto per la prima volta. “ Secondo me solo la grande arte lo può fare -­‐ e infatti adesso se mi metto a spiegarla la riduco -­‐: è un’immagine straordinaria di tutte le narrazioni di viaggio. Si parte con un’idea del viaggio, si cambia Didattica e Innovazione Scolastica
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durante il viaggio e, paradossalmente, quello da cui siamo partiti lo capiamo soltanto alla fine. L’idea che Pinocchio ha di essere un bambino vero è molto diversa quando ce l’ha all’inizio e quando ce l’ha alla fine del viaggio e non è un caso che Pinocchio si apra e si chiuda nello stesso posto. Tra l’altro, è verissimo che l’ultimo capitolo è spurio però, se devo essere sincero, nella mia esperienza di lettore -­‐ nonostante l’elemento moralistico, che evidentemente è una tensione molto presente nel testo -­‐ secondo me, Pinocchio, può essere gustato come un grande romanzo morale, non moralistico, cioè qualcosa in cui la morale coincide con il senso drammatico e spero leggendolo di farvi vedere come. Pinocchio appartiene, assolutamente a pieno diritto, alla natura del viaggio epico fiabesco: un percorso di crescita, di elezione, in cui tu vieni chiamato ad un viaggio, ad un destino che non ti aspetteresti e che, paradossalmente, ti fa riscoprire in maniera diversa la tua natura originaria. In questo genere di viaggio, il fatto fondamentale del viaggio dell’eroe in tutta la narrativa epica fiabesca -­‐in questo senso l’Odissea per il capolavoro epico che è e Cenerentola partecipano della stessa dinamica-­‐ in questo viaggio, c’è un punto costante: il fatto che il viaggio e questo processo di crescita è tuo, ma non lo fai da solo. Ci sono quelli che Vladimir Propp nella Morfologia dei racconti di fiabe aveva chiamato con un’espressione sintetica straordinaria ‘i Donatori’ con la D maiuscola. Vi leggo: “Abbiamo di sopra accennato al fatto che nell’intreccio di un racconto di fate contiene una sventura, un problema, e la partenza da casa dell’eroe. C’è un problema-­‐ e ditemi se anche questo non inquadra Pinocchio -­‐ questa sventura deve essere superata e naturalmente vi si riesce tramite un mezzo magico che capita nelle mani del protagonista-­‐ in questo caso Pinocchio fa eccezione, perché non c’è una cosa che lo bambinifica. Poi vedremo invece che cos’è che lo fa diventar bambino-­‐ Scendendo nei particolari viene fuori la domanda: in che modo il mezzo magico capita nelle mani del protagonista? Di regola si introduce all’occorrenza un nuovo personaggio e con ciò l’azione entra in una nuova fase. Questo personaggio è il Donatore. Il Donatore costituisce una categoria determinata del canone fiabesco. La formula classica è la maga” -­‐ e non è un caso come è stato detto giustamente che la storia di Pinocchio ha una traiettoria fino all’impiccagione e assume un salto quantico dal momento in cui la bambina dai capelli turchini entra. Ma poi anche su questo vorrei tornare meglio. Come vi dicevo prima, la natura del viaggio e dell’acquisizione della propria identità è un tema fondamentale della letteratura occidentale tout court: non è scontato essere se stessi, essere chi siamo veramente. Pensate che questo è un tema che accomuna tutte le storie in cui l’uomo dell’occidente ha cercato di raccontare se stesso: l’Iliade è la storia di quanto ci metta un uomo a piangere con gli altri uomini, perché inizia con l’ira di Achille che lo disumanizza e finisce con Achille che piange con il padre della persona che lui ha ammazzato e che gli ha ammazzato Patroclo. Come un ebreo e un palestinese di oggi che piangano insieme! È incredibile che all’inizio della letteratura occidentale ci siano due nemici che piangono insieme: Omero aveva già intuito quanta strada ci voglia per diventare se stessi. E, nell’Odissea, quanto viaggio ci vuole perché un padre e un figlio si ritrovino! C’è un altro grande tema: a questo elemento della conquista dell’identità, della riconquista dei rapporti fondamentali, si aggiunge un terzo elemento: il fatto che la vita è un percorso di trasformazione. Per diventare se stessi bisogna fare una serie di passaggi, che non è detto siano tutti positivi perché ci possono essere delle regressioni, si può diventare meno di quello che si è. Questo tema della trasformazione Collodi lo riprende dai grandi testi della letteratura occidentale: uno è le Metamorfosi di Apuleio, dove compare la trasformazione in somaro. Il protagonista in questo romanzo della tarda latinità commette una serie di effrazioni tragiche ed empie per cui viene trasformato in asino e ci sarà un lunghissimo percorso di purificazione in cui entrerà la dea Iside, questa figura positiva femminile, che lo ritrasformerà. Ma pensate, in Ariosto, al tema della trasformazione in albero, la regressione ad uno stato che non è quello della propria natura. Trasformazioni positive o negative, un processo di cambiamento, che chiaramente si interseca con quello dell’impresa cavalleresca del conquistare qualcosa di importante. Qual è la posta in gioco in Pinocchio? Non è il vello d’oro, non è il santo Graal, non è la mano di Ginevra, non è neanche la conquista di Gerusalemme. È niente meno che se stessi. Noi siamo Gerusalemme, il vello d’oro, il santo Graal! È molto difficile vincere Didattica e Innovazione Scolastica
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se stessi e conquistare se stessi, tanto è vero che ci saranno tutta una serie di avversari in Pinocchio, ma non c’è un avversario. Quello che ci interessa nella storia è il suo percorso umano di trasformazione e di crescita. Da questo punto di vista un mio suggerimento come lettore, e credo che non ce ne siano tanti, penso sia divertente con i bambini fare una mappa dei posti, perché Pinocchio ha una geografia molto misteriosa ed è interessante tracciare quali sono i punti in cui egli fa un passo in avanti e quali i punti in cui fa un passo indietro. Perché Pinocchio non soltanto fa esperienza di non riuscire a diventare un bambino vero ma fa anche esperienze di regressione: passa in stadi che sono pesino peggiori a quello del burattino quando diventa il cane da guardia, quando diventa il somaro, ed è interessante capire cosa succede in questi vari passaggi. In questi elementi fondamentali che vi ho tratteggiato del mondo epico fiabesco, Pinocchio si inserisce con una peculiarità assolutamente imprevedibile. “C’era una volta un re … no! C’era una volta un pezzo di legno”. Guardate che il Collodi non sta soltanto sfidando l’immaginario tradizionale della fiaba del re, ma sta sfidando il fatto che già, nelle fiabe, spesso non si partiva dal re, ma dal figlio del contadino che poi sposava la principessa. Qui non siamo soltanto al grado zero, ma siamo al grado sotto zero, perché da un pezzo di legno non ti puoi aspettare nulla. Un contadino può diventare Jack l’ammazzagiganti, Jack del fagiolo gigante, o il cacciatore di draghi, invece da un pezzo di legno sembra non potersene cavare assolutamente nulla. Questo è interessante, perché da un certo punto di vista si inserisce in una prospettiva manzoniana. Siamo negli stessi anni del Manzoni e già il Manzoni aveva fatto una cosa del genere: aveva fatto un grande romanzo epico, in cui i protagonisti non sono i grandi della storia ma la ‘gente meccanica e di picciolo affare’, quelli dai quali non ti aspetteresti nulla e che invece riescono a portare un contributo decisivo nella storia del mondo e a cambiare loro stessi per primi: Renzo e Lucia. E Renzo e Pinocchio hanno molti elementi comuni. Se leggerete altre opere e con quelle dialogherete, pensate quanto c’è in Pinocchio che possa dialogare con altre opere, come con Lo Hobbit di Tolkien. Pensate alla frase fondamentale alla fine de Lo Hobbit che dice Thorin: "In te c'è più di quanto tu non sappia, figlio dell'Occidente cortese.” Non è una frase che potremo dire di Pinocchio? C’è in te più di quanto tu non sappia! Detto tutto questo, passo al secondo punto citando Chaim Potok: ”Gli inizi sono sempre difficili “ Da dove si parte? (Questo inizio imprevedibile del pezzo di legno). Dove tutti gli altri vedono un pezzo di legno (Mastro Ciliegia), un burattino (Mangiafuoco), un gonzo da fregare (il Gatto e la Volpe) un somaro (l’Omino di burro) c’è chi imprevedibilmente vede un figliolo -­‐ che è molto di più di un burattino parlante -­‐ e un bambino vero. È molto importane la sottolineatura di stamattina sul fatto che anche Geppetto inizia a vedere in Pinocchio qualcosa, anche se inizialmente lui non l’aveva visto. Certo, già Geppetto rispetto a maestro Ciliegia è un salto positivo perché vuole creare un burattino, ha un estro creativo, ma è assolutamente vero che questa creazione gli sfugge letteralmente di mano. E questo è molto interessante. L’altra cosa interessante è che Pinocchio, paradossalmente, per il fatto che si tratta di una narrativa interrotta, seriale, condotta con un rapporto interattivo molto forte con il pubblico, quindi di domanda, non è nato da un progetto narrativo intenzionale, ma è come un romanzo a posteriori. Però questo ha generato un elemento interessante: che ci sono tante cose che non si spiegano. Noi non sapremo mai perché questo pezzo di legno è magico, parte così. Tante cose non si aggiustano, non si spiegano. Penso a quel passaggio stranissimo, per me come lettore, in cui dice “Aprimi la porta sennò mi uccidono” e la bambina risponde “Sono morta anch’io”. Perché? Collodi in quel momento pensava che fosse un fantasma? Una bambina morta? Ci sono momenti di questo tipo. Invece ci sono momenti letterariamente Didattica e Innovazione Scolastica
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finissimi, come quando Pinocchio incontra la bambina di nuovo viva e le dice: “Allora non sei morta?”1 E la fata gli risponde: “Pare di no”. Cos’è questo? Non era morta? O, come Aslan ne Il leone la strega e l’armadio era morta ed è risuscitata? Quel ‘pare di no’ a me come lettore più lo leggo e più mi pare una finezza che mi colpisce molto e il fatto che Pinocchio in questo momento ha bisogno di sentirsi dire che non è morta, che ci sono dei sacrifici che i bambini non possono capire, per cui è come se rispondesse che non importa, non lo so. Quanto non spiegato! Per esempio il Gatto e la Volpe li ritroviamo come mendicanti, ma non ritroviamo l’Omino di burro. Che fine fa? Non sappiamo se viene assicurata la giustizia. Non è un romanzo in cui tutto torna. Perché Geppetto e la fata si interessano così tanto di questo bambino? Che fine fa l’Omino di burro? Quello che conta in Pinocchio è Pinocchio, il cammino di Pinocchio. Ciò che è interessante in un testo così aperto è che ha il sentore delle cose vere. Nella vita noi incontriamo tante cose che poi non tornano, torti che non vengono assicurati alla giustizia e questo mi sembra un aspetto molto interessante. Quello che conta è il cammino di Pinocchio e di Geppetto, che cambia con lui perché l’amore gli costa, al punto di farlo quasi ricredere. Vi ricordate? “Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!….” Altro punto: oltre agli elementi positivi, i Donatori cui si è detto prima, ovviamente incontriamo gli oppositori. Questo paragrafo l’ho intitolato: “E tu che fai amore mio, sali?” è la frase dell’Omino di burro. Gli avversari sono sempre più insidiosi all’interno della storia. Il Gatto e la Volpe sono un tipo di minaccia molto diversa da Lucignolo e Lucignolo è una minaccia molto diversa dall’Omino di burro. Tra l’altro Pinocchio, come tanti altri capolavori mitici, perché Pinocchio è un capolavoro mitico, cioè è un’idea in cui compare sempre qualcosa di nuovo, come nei classici; come stamattina è stato detto, si arricchisce delle interpretazioni come delle illustrazioni. Come il tema della paternità di Geppetto, che è il tema di una paternità che si costruisce non solo nel testo: per me l’interpretazione di Manfredi nello sceneggiato di Comencini, quando lui si aggira col vestito di cartone in questa Viareggio surreale, è un’aggiunta positiva al testo. Ci sono delle cose cui l’interpretazione, cioè la mediazione dei vari lettori -­‐per esempio in Benigni l’idea di fare di Lucignolo un Capaneo, “Anima grande!”, vi ricordate?-­‐aggiunge qualcosa. L’espressione nel libro è molto ironica, quando Lucignolo dice: “Povero maestro! […] Lo so pur troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono! — Anima grande! — disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.” Lì molto probabilmente è raccontata con ironia, come se Lucignolo si atteggiasse a monarca indulgente nel paese dei balocchi. Ma nel Pinocchio di Benigni questa espressione “Anima grande!” Benigni la dice sempre del personaggio di Lucignolo, perché questo è un grande tratto fondamentale della sua cinematografia: se vedete, tutti i film di Benigni hanno un personaggio, un uomo, che paradossalmente è moralmente più grande di Benigni: può essere l’ufficiale nazista appassionato di indovinelli, il poeta arabo de La tigre e la neve, o Lucignolo, che sono ribelli che non si fanno comandare da nessuno, che però non hanno lei, la fatina, -­‐ la moglie, Nicoletta Braschi -­‐ e proprio per questo sono soli e vengono sconfitti nonostante la loro grandezza. Che è una sottigliezza interessante, perché è come se fossero il “Magnanimo”, appunto, il Guido Cavalcanti di Dante. Vi ricordate quando Dante all’Inferno viaggia e incontra il padre di Guido che gli dice: "Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è teco? 1
cap. XXV:
-­‐ Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta? -­‐ Par di no, -­‐ rispose sorridendo la Fata. “ Didattica e Innovazione Scolastica
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Dante dà una risposta che dice una cosa fondamentale di sé, che è anche quella di Pinocchio: “Da me stesso non vegno2 Io non vado, non cammino per le mie forze, ma per una trama di rapporti: Virgilio, Beatrice, la Madonna ecc. Questa interpretazione di Benigni è interessante e questi contributi sono il segno della vitalità del testo. Appunto vi dicevo: pensate fino a quella rappresentazione agghiacciante del male che è l’Omino di burro: è tutto morbido: “…un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto, che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per esser condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di «Paese de’ balocchi». […] Appena che il carro si fu fermato, l’Omino si volse a Lucignolo, e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo: — Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese? Questo, secondo me, è un tratto di genio da un punto di vista narrativo: perché il vero male, come il vero bene, non è mai una coercizione della libertà, è una esaltazione della libertà! Non gli dice ‘vieni con me’, o ‘vieni perché troverai….’; è una domanda, che tira fuori ciò che in Lucignolo già c’è. È molto sottile come tipo di avversario. “Sicuro che ci voglio venire” E addirittura dice: -­‐ Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c'è più posto. Come vedi, è tutto pieno!... -­‐ Pazienza! -­‐ replicò Lucignolo, -­‐ se non c'è posto dentro, io mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro. -­‐ E tu, amor mio?... Che intendi fare? Vieni con noi, o rimani?...3 Addirittura gli prospetta un’altra possibilità, quella di restare, e gli “affanni” del male. È una immagine di tentazione molto sottile e molto intelligente. Come vi dicevo ‘da me stesso non vegno’; quest’espressione dantesca è veramente al cuore del viaggio di Pinocchio perché, se dovessimo usare l’espressione di Chesterton, non c’è bisogno di Pinocchio per sapere che al mondo ci sono il Gatto e la Volpe, non c’è bisogno di Pinocchio per sapere che c’è l’Omino di burro, non c’è bisogno di Pinocchio per sapere che puoi essere stato derubato e finire in galera nel paese degli Acchiappacitrulli, che il Paese dei balocchi ti garantisce un’apparente libertà infinità per poi ridurti ad uno stato di analfabetismo bestiale. Ne parlavamo l’altro giorno al telefono dell’esplosione complicatissima dell’era digitale: credo che molti di noi preferirebbero che i bambini stessero nel Paese dei balocchi che neanche accendano il computer per cinque secondi. Quindi ci sembra quasi una tentazione auspicabile, rispetto a tante questioni molto complesse. Che cosa mostra Pinocchio che invece è più importante? Non è tanto questo o le possibili riduzioni a cui Pinocchio va incontro, cioè l’abbassamento dello stato della sua dignità: il collare al collo, il rischio di essere impanato, di essere mangiato, o-­‐ degradazione ulteriore -­‐ di diventare un somaro, di finire come un animale. È importante quello che non cede, quello che mostra che c’è un amore che non cede, che ti permette di ripartire, che ti permette di dire che da te stesso non vieni, nel senso che il tuo viaggio non è un viaggio da solo. Più della paura, e della paura della morte, e dell’esperienza della morte, a cambiarci davvero è l’amore, ed è l’amore quello che ci giudica davvero. Pensate a quello che è un elemento morale -­‐ non moralistico, morale! -­‐ quando Pinocchio bel bello torna alla casina della fata. C’è quella bellissima avversativa, perché pensiamo -­‐ e questo è molto facile se uno ha un atteggiamento infantile -­‐ che le nostre azioni non abbiano delle conseguenze: 2
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Inferno, Canto X
Le avventure di Pinocchio, cap.XXXI Didattica e Innovazione Scolastica
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“Ma (il ma che sciupa ogni cosa, verrebbe da dire) la casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo, sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole: QUI GIACE LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO. Evidentemente questa è una dimensione umana, spirituale, altrimenti sarebbe una crudeltà mostruosa, una lapide messa soltanto per inchiodare il povero Pinocchio. Come rimanesse il burattino, quand'ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Tra l’altro questa è una finezza. È come se Collodi avesse detto: ‘Cosa avresti provato tu a sapere che la persona più buona che hai incontrato è morta per colpa tua.’ Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. È come il canto del gallo del Vangelo, per chi frequenta il Vangelo. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all'intorno ne ripetevano l'eco. E piangendo diceva: "O Fatina mia, perché sei morta?... perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre te eri tanto buona?.. Questo è un punto di responsabilità morale. Non so se qualcuno di voi ha letto Re Lear di Shakespeare. Quando re Lear pazzo ha mandato via la figlia buona e poi lui viene buttato fuori di casa dalle figlie cattive e lo raccoglie la figlia buona. Quando lui vede la figlia buona che l’ha raccolto le dice: “Guarda, se hai un veleno da darmi io lo berrò!” Questo è l’inizio della sorgente morale: io merito di essere punito, perché non mi sono comportato bene. Sarebbe meglio che bevessi qualcosa che mi faccia male. Avete presente quei bambini che fanno: “E adesso mi picchio!” perché hanno sbagliato? Perché invece di te non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre te eri tanto buona?... E il mio babbo, dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! più! più!... O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci... Tra l’altro questo verbo meraviglioso, meravigliosamente ben reso anche in uno dei momenti più belli del Pinocchio di Benigni, quel ‘rivivisci’ urlato: ‘risuscita!’ … ritorna viva come prima!... Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti? Questo tra l’altro è geniale! Come se le dicesse: “Tu mi vuoi così tanto bene che a vedermi in questo stato non puoi essere morta. Il tuo amore ti deve obbligare a tornare in vita. Non lo vedi in che condizioni sono?” Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch'io! Sì, voglio morire! Questo punto secondo me è un colpo di genio da un punto di vista artistico, perché è la stessa scena che succede alle pendici del Purgatorio nella Divina Commedia. Dante, all’Inferno ne vede di cotte e di crude; nel Purgatorio ne vede di cotte e di crude e ne vive di cotte e di crude, perché mentre all’Inferno può fare ancora, non so come dire, il primo della classe rispetto a quei disgraziati eterni, nel Purgatorio gli incidono le 7 P dei peccati ed in ogni balza lui vive il peccato in questione. Quindi è un processo di purificazione che lo coinvolge in prima persona. Arriva alle pendici del Paradiso Terrestre e dovrebbe essere a posto: ha fatto i compiti a casa. Arriva Beatrice, che è colei per la quale ha fatto il viaggio nelle due Cantiche nelle quali Didattica e Innovazione Scolastica
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Virgilio-­‐Geppetto/Grillo lo ha portato e quando Beatrice si toglie il velo -­‐ lui sognava di rivederla da quando era morta-­‐ avete presente? -­‐ gli fa una ramanzina che è la peggiore di tutte e tre le Cantiche. Una ramanzina così spietata che gli angeli stessi intervengono dicendo: “Va bene, ora basta: questo tizio si è fatto l’Inferno e il Purgatorio…” “State buoni e tranquilli; io non ho ancora finito”. Gli fa una parte tale che lui sviene da dolore e si risveglia che gli fanno bere l’acqua del Lete, dell’Eunoe. Quel passaggio è finissimo; è la stessa dinamica di qui, che chiunque di noi capisce e cioè che in realtà è ciò che ci ama che ci giudica. Noi siamo giudicati da quello che amiamo, da quello a cui teniamo, che quando lo feriamo ci mette in discussione veramente. Ci ferisce veramente aver ferito quelle cose. Per questo Dante in fondo non è giudicato dai dannati e paradossalmente non è giudicato neanche dai purganti; è giudicato dalla donna che ha amato. Noi siamo giudicati da ciò che amiamo. Per questo Pinocchio fa un’esperienza di mortificazione, di quasi morte, quando vede la tomba della fatina. Paradossalmente mi viene da dire che muore più qui che neanche quando lo impiccano perché quella è una morte biologica, questa è una morte morale. Capisce una cosa veramente: che nella vita le cose che amiamo possono essere ferite dalle nostre azioni e in quel caso noi vorremmo prendere il loro posto. Altra citazione per un altro paragrafo: “Piangevano fitti come uccelli“ Cito due passaggi: “Calmati a poco i morsi rabbiosi della fame (siamo nel paese delle Api Industriose) allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice; ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh!... di maraviglia e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore. "Che cos'è mai tutta questa maraviglia?" disse ridendo la buona donna. "Egli è..." rispose balbettando Pinocchio, "egli è... egli è... che voi somigliate... voi mi rammentate... sì, sì, sì, la stessa voce... gli stessi occhi... gli stessi capelli... sì, sì, sì... anche voi avete i capelli turchini... come lei!... O Fatina mia!... O Fatina mia!... ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate più piangere! Se sapeste!... Ho pianto tanto ho patito tanto..." E poi la stessa dinamica con l’altra persona importante della sua vita: E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve lo do a indovinare: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca. A quella vista Altro passaggio letterario geniale, perché in entrambi i casi Collodi ci fa fare il passaggio con Pinocchio. Non ci dice: -­‐ “era Geppetto, era la fatina…” ce li fa riconoscere con lui. Il povero Pinocchio ebbe un'allegrezza così grande e così inaspettata, che poco ci mancò che non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: "Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!" "Dunque gli occhi mi dicono il vero?" replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, "Dunque tu se' proprio il mi' caro Pinocchio?" Perché vi ho citato la frase ‘Piangevano fitti come uccelli’? Sapete che cos’è? È la frase di Ulisse e Telemaco che si ritrovano nel XVI dell’Odissea, quando Omero fa ritrovare Ulisse e Telemaco dice “piangevano fitti come uccelli a cui avessero strappato i piccoli” 4. Tra l’altro con un vertiginoso ribaltamento, perché in quel 4
Odissea, XVI, 215 -­‐ 220 A entrambi nacque dentro bisogno di pianto: piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli Didattica e Innovazione Scolastica
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momento loro stanno piangendo di gioia e Omero invece usa un’immagine di tristezza, come soltanto un maestro assoluto dell’arte come lui poteva fare. Ed è la stessa dinamica qua: questo dolore e gioia che non riescono a comunicarsi, e si intrecciano. Bene, questi momenti di commozione per questo amore che non viene meno -­‐ che è l’amore di Geppetto e l’amore della Fatina -­‐ hanno due dinamiche diverse: Geppetto può solo spogliarsi. È un percorso di povertà infinita e continua quello di Geppetto. Avete presente? Già non ha nulla, ma perde altro: la parrucca, i vestiti per comprare l’abbecedario a Pinocchio, la casa, i torsoli delle pere (che poi il burattino mangia anche le bucce), viene mangiato dal pescecane… La fatina può solo morire. C’è questo livello di ricchezza divina che però può soltanto avere questi momenti di sacrificio assoluti. Di fronte a questi due amori che si danno, dalla commozione per il fatto che -­‐ nonostante tutte le marachelle e le peripezie, nonostante tutti gli errori -­‐ ritornano, da questo amore che non cede, semplicemente nasce una nuova responsabilità che fa diventare Pinocchio al contempo Fatina e Geppetto, padre e madre, non solo di se stesso, ma dei suoi stessi genitori, che è lui adesso ad aiutare a camminare. Per questo per me, devo esser sincero, non l’elemento precettistico, ma il fatto che nell’ultimo capitolo tutto quello di cui Pinocchio era stato oggetto diventi azione consapevole sua, da un punto di vista narrativo è efficace, funziona. Non è un precetto, ma è qualcosa che capita, è vero che iniziamo quando siamo bambini venendo portati sulle spalle dai nostri genitori e poi siamo noi che li portiamo al parco quando sono anziani. Vi ricordate? E da quel giorno in poi cominciò per più di cinque mesi a levarsi di mattina all’alba per andare a girare il bindolo e comprare così quel bicchiere di latte che faceva così bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da se stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo. E poi guardate l’informazione della lumachina, personaggio odioso per quanto mi riguarda, perché è antipatica quando lui è nei casìni, invece poi: Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!.... — Allo spedale?… — Pur troppo. Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata, e non ha più da comprarsi un boccon di pane. — Davvero?… Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera Fatina!… Se avessi un milione, correrei a portarglielo.... Ma io non ho che quaranta soldi.... eccoli qui! Un gesto immediato. Andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Vi ricorda qualcuno? Va’, Lumaca, e spicciati! e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. […] Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò: — E il vestito nuovo? — Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!… Lo comprerò un’altra volta. S’impara a fare sacrifici e a non dirlo. Questa è una dinamica interessante, il fatto che tu impari che non solo si fanno sacrifici, ma non c’è neanche bisogno di dirlo. Che secondo me è come un po’ come il ‘Pare di no’ della Fata: pare che non sia morta, quest’eleganza che sorvola su quanto l’amore ti può costare. Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte suonata; e invece di far otto canestre di giunco ne fece sedici. ruban loro i villani, prima che penne abbian l’ali: così misero pianto sotto le ciglia versavano. Didattica e Innovazione Scolastica
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Però, proprio perché, in realtà, questa dinamica esplicita in questo capitolo aggiuntivo è profondamente presente nel testo, io volevo far vedere che -­‐ secondo me -­‐ questo tema della commozione per amore, che corrisponde ad un amore, è molto più importante del “voglio studiare, voglio lavorare”: è una risposta ad un amore. La risposta amorosa ad un amore è presente fin dall’inizio nel cuore di Pinocchio, molto prima di questi momenti eclatanti. Altro passaggio, con una citazione collodiana: “Voglio salvare il mio babbo” Il cuore di Pinocchio era già presente e protagonista quando Pinocchio si offre al posto di Arlecchino. Tolkien aveva coniato per gli hobbit un’espressione molto bella: “A me non interessa l’eroismo dei grandi guerrieri della tradizione fiabesca classica, ma mi interessa l’eroismo della dedizione e dell’amore”5, una definizione che potrebbe andare benissimo per Geppetto, per la Fatina e per Pinocchio. Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole: — Pietà, signor Mangiafoco!... — Qui non ci son signori! — replicò duramente il burattinaio. — Pietà, signor Cavaliere!... — Qui non ci sono cavalieri! — Pietà, signor Commendatore!... — Qui non ci sono commendatori! — Pietà, Eccellenza!... — A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto piú umano e piú trattabile, disse a Pinocchio: — Ebbene, che cosa vuoi da me? — Vi domando grazia per il povero Arlecchino!... — Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene. — In questo caso — gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane — in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me! — Qui siamo ancora prima del Gatto e la Volpe: è come una spia del fatto che in lui c’è la capacità di muoversi e commuoversi per amore. Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico Qui Pinocchio è un eroe come i grandi cavalieri, come Lancillotto fecero piangere tutti i burattini. È interessante che Pinocchio, che di solito è quello che piange per quello che gli altri fanno per lui, qui fa piangere gli altri per quello che lui è disposto a fare. Questo è un elemento importante. Vi ricordate quando, subito dopo aver pianto sulla tomba della fata morta, vedendo Geppetto tra i flutti che è un puntino sul mare… Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando: — Voglio salvare il mio babbo!― Questo è l'incantesimo, cioè rispetto alla questione di Propp che richiamavo prima: ‘qual è lo strumento magico? 5
"È l'eroismo dell'obbedienza e dell'amore, non quello dell'orgoglio e dell'ostinazione, a essere il più alto e commovente". Didattica e Innovazione Scolastica
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In Pinocchio è questo qui, quello che abbiamo tutti: il cuore, che ad un certo punto è disposto a compromettersi per qualcuno a cui tiene. È la stessa commozione che lo fa piangere per Lucignolo trasformato in asino. Per concludere, in realtà, torno indietro. Inizialmente avevo intitolato il mio intervento negli appunti che avevo mandato Il nome che nella mente sempre mi rampolla, che è una frase ancora una volta di Dante. Ricordate Dante alle pendici del Purgatorio, prima di incontrare Beatrice, non sapendo ancora che cosa lo aspetta? Si trova ad attraversare un muro di fiamme. Fino a quel momento Dante ha subito il Purgatorio, ma insomma la situazione è stata abbastanza mediata. Ora deve attraversare delle fiamme, che bruciano ma non consumano, e Dante si blocca. Non sa che pesci prendere. Virgilio gliene dice di tutte: -­‐Ma lo sai che Dio ha voluto questo viaggio… Ora, Dante, non è che è partito ora; segnali che questo è un viaggio divino ne ha avuti. Non è che capita a tutti di essere in Purgatorio! Non dovrebbe non fidarsi. Dante dice: E io pur fermo e contra coscienza … di fronte alla fatica di dover mettere i piedi nel fuoco … vi ricorda qualcuno? … bruciarsi i piedi… Dante non si muove. Tutti i motivi che può avere in testa non funzionano. Allora Virgilio, che è un vero pedagogo che cosa fa? Si mette lui nel fuoco e dice: figliolo fra Beatrice e te è questo muro e Dante mette subito un piede nel fuoco. Subito! Passo passo, mentre gli dice: gli occhi suoi già vedere parmi Virgilio gli fa attraversare il fuoco. Questa immagine secondo me è una delle più belle di che cosa è, non l'esperienza moralistica, ma l'esperienza morale, che è mettere i piedi nel fuoco per amore, per amore di qualcuno. Questo è il cuore anche del cammino che Pinocchio fa fare. Per questo, volevo chiudere citandovi una frase molto bella del filosofo Romano Guardini: diceva che Dante, in fondo, nella Divina Commedia, che è il viaggio di un uomo per diventare se stesso, aiutato dal suo scrittore preferito e dalla donna che amava, parla di sé come di uno che ha amato. Dante cita come vanto il fatto che nella vita ha tanto amato, non che è stato bravo. Per questo io mi sento di chiosare Romano Guardini per Pinocchio, dicendo che Pinocchio è una straordinaria sfida morale a dirci: ‘scegli bene che cosa vuoi amare’. ‘Le tue rose’ come direbbe il Piccolo Principe. Ma al tempo stesso è un grande sollievo, il sollievo di cui parlava Tolkien iniziale, per cui la catena di causa ed effetto, la catena della morte salta. Perché in Pinocchio facciamo l'esperienza che ci sono degli amori più potenti del mondo della causa e dell'effetto. Amori che non si spiegano e amori che vincono la catena di causa e effetto, che anche noi possiamo indurre, della violenza della morte. Per questo è una storia così bella, perché da una parte è una storia di responsabilità -­‐ cioè scegliamo bene chi amiamo, perché quando avremo bisogno chi amiamo sarà importante -­‐ ma è anche un grandissimo e profondissimo sollievo. E, secondo me, il sollievo è una delle esperienze morali più importanti che l'arte ci faccia fare. Grazie. ____________________________________________________ Blezza Picherle: Mi complimento per la sua interessante relazione. La sua interpretazione dell'amore è bellissima: quindi volevo lanciare un’idea didattica. Anche i percorsi con i bambini, ovviamente quelli un po’ più grandi, dovrebbero farli accedere a questo concetto di amore, veramente bello. Questa lettura, mi sembra una tematica che non si debba obbligare i bambini a trattare, ma fare in modo da farla emergere, perché la trovo veramente molto interessante. Non so cosa ne pensiate voi, ma si tratta di una lettura profonda che in genere è difficile e non arriva ai bambini. Allora, i bambini hanno bisogno non di domande, quelle rigide, come abbiamo visto stamattina, ma di essere un po’ aiutati ad entrare, portati a pensare all’amore in questo modo, dentro questa profondità, perché sicuramente è molto morale, da un certo punto di vista, non moralistico, come giustamente è stato detto. Complimenti per questa relazione, molto Didattica e Innovazione Scolastica
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vivace, molto bella e molto dotta, però vediamo di trarne vantaggio anche da un punto di vista didattico, oltre che come arricchimento professionale. Rialti: Non so se avete visto un film molto bello che si chiama The tree of life in cui c’è una scena sublime di un bambino, un ragazzino di dodici o tredici anni, che va a fare un’effrazione, e poi lì è anche l'inizio della scoperta della sessualità: va a rubare la sottoveste e ha questa esperienza, come il furto delle pere di Agostino, insomma. Torna a casa, ha fatto tardi, e la mamma lo guarda: probabilmente pensa che sia andato a spaccare una finestra o a tirare la coda alle lucertole… lo guarda, semplicemente, come per dirgli “Hai fatto tardi”, e c'è lui che sa che c’è un livello di compromissione maggiore e le dice: “Non mi guardare per favore.” Secondo me è un'immagine bellissima, perché il rimprovero non è niente, anzi da un certo punto di vista la preoccupazione della madre che lo sta guardando lo ferisce di più probabilmente che se dicesse “Vai a letto senza cena”, perché c'è questo elemento di commozione che ci mette molto più in difficoltà, che neanche della precettistica Blezza Picherle: Durante la lezione abbiamo avuto occasione di riflettere sull’amore stesso. Il concetto di amore autentico: abbiamo tanto bisogno di riprenderlo a scuola. E l’interpretazione che lei ha dato è molto importante perché dà la possibilità, senza forzature, di ripensarlo. Questo concetto di amore autentico è molto importante da calare nella pratica didattica, perché nel mondo di oggi manca l’amore vero, autentico. Domanda (Piera Donna): Abbiamo parlato spesso delle trasformazioni di Pinocchio durante l’opera. Ma come riesce a diventare bambino? È una cosa un po' aggiunta, come è stato detto stamattina dalla professoressa, aldilà dello stesso Collodi, oppure è qualcosa che possiamo prendere sul serio con i bambini, un percorso che fa Pinocchio: da burattino ad animale e poi bambino? Rialti: Secondo me anche questa sorta di grande sacrificio finale, questa sorta di ultima prova, quando lui ormai si è sistemato e gli viene come improvvisamente detto di cedere tutto, quando c'è la Fatina in ospedale e lui si deve prendere cura non soltanto di Geppetto ma anche di lei, viene premiato: la Fatina gli appare in sogno e gli dice: ‘Bravo, era come l’ultima prova a cui io ti avevo sottoposto’ e a questo punto il giorno dopo lui si sveglia e così è. Per cui, secondo me, la cosa più interessante è che appunto questo passaggio finale, che è molto chiaro ed esplicito, se uno vuole, però è da un punto di vista narrativo in continuità con i momenti più umani della storia di Pinocchio, cioè con i momenti di umanità eroica che sono quelli di una sua commozione per amore. È sempre umano anche quando dice le bugie e piange, ma i momenti di una umanità più eroica sono quelli. Ma pensate anche, da un certo punto di vista, quando lui fa il difensore a posteriori del morto per Melampo, quando copre il fatto che lui aveva una sorta di accordino sottobanco molto conveniente con i ladri… Pinocchio ha un’umanità che ad un certo punto è come se trionfasse e questo trionfo si può far emergere tranquillamente nella storia. Ci sono dei momenti in cui Pinocchio ha già una statura pienamente umana, pienamente! Pinocchio è capace di essere un soggetto amato e capace di amare, questo è il punto: non tanto di essere bravo, ma di essere amato e di amare, di compromettersi e di avere delle sue mosse. Questo come in tutte le storie in cui, ovviamente, ci deve essere il lieto fine. Il trionfo, il passo pienamente acquisito, non è il rospo che diventa uomo o il contadino che diventa principe, è il burattino che diventa bambino. Ce l’abbiamo fatta a far diventare stabile quello che avevamo acquisito come accenni nei momenti precedenti e questo secondo me è interessante. Come è interessante, lo ha sottolineato stamattina la professoressa, che Geppetto stesso cambia. C’è un passaggio in un romanzo molto duro che è La strada di Cormac Mc Carthy in cui c’è questo padre e questo figlio che fanno un viaggio in un’America post-­‐apocalittica e il padre è malato, ha una specie di tisi. Quando ha una crisi va a tossire di nascosto, tossisce sangue e poi torna. Qual è il momento in cui si capisce che il figlio è diventato grande (non grande anagraficamente, perché è sempre un bambino)? Quando gli dice: -­‐“Guarda che quando te vai nei boschi a tossire io ti sento.” Quando il bambino capisce che il padre non è invulnerabile, che ha dei problemi come lui. Anzi è in grado di capire che c’è un sacrificio in atto, e di apprezzarlo. Didattica e Innovazione Scolastica
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Secondo me c’è anche questa cosa: che Geppetto faccia dei sacrifici e che Pinocchio nel tempo è uno che guarda Geppetto in modo diverso, lo si capisce alla fine del libro. All’inizio lo tratta in modo quasi scontato, come un bancomat: ‘Dammi la pera’. Nel tempo la questione diventa molto più complessa, soprattutto nel momento in cui ti rendi conto che queste cose potrebbero non esserci. Per questo la morte della Fatina è un bel ceffone, perché prima la Fatina è come un rubinetto: è scontato che ci sia l’acqua, l’apri e l’acqua scende. Eh, no! Questo narrativamente è molto interessante. Fra l’altro, non è un caso, l’avevo accennato all’inizio, siamo nell’800 e l’altro grande romanzo della letteratura di quegli anni sono i Promessi Sposi, nei quali Lucia per Renzo è un punto di sorgente morale esattamente come è per Pinocchio la Fatina. Silvia Magherini: Avevi detto che ci avresti fatto anche qualche paragone fra Renzo e Pinocchio. Rialti: Esatto. Avete presente che tutte le volte che Renzo ha in mente di ammazzare Don Rodrigo cosa è che lo ferma? Non il pensiero della legge, mai! Ma è l’immagine -­‐ nemmeno il pensiero -­‐ di che cosa direbbe a Lucia tornando con le mani sporche di sangue per un delitto che egli ha paradossalmente commesso per lei, perché è un delitto d’onore. Non so come dire, lui sta difendendo l’onore della sua donna, però proprio l’immagine di Lucia è quello che lo mette in discussione. Questa è una dinamica molto interessante da far notare ai bambini, perché i bambini lo capiscono. Pensate che è la stessa cosa che succede ad Aslan ne Il Leone, la strega e l’armadio. Perché quello che ci cambia non è non comportarsi male, ma il fatto che c’è qualcuno capace di morire per noi o di fronte al quale le nostre azioni non sono semplicemente sbagliate, ma sono brutte. Noi non vogliamo che le vedano quelle persone, non vogliamo che vedano che noi abbiamo fatto certe cose, non perché andiamo in galera, ma perché non vogliamo che ci vedano in quella luce. Questo secondo me da un punto di vista narrativo è interessante. Renzo dal suo punto di vista si vedrebbe benissimo nei panni del giustiziere, ma davanti a Lucia no. Pensate i momenti molto belli soprattutto da un punto di vista cinematografico, quella è un’altra finezza di Benigni, quando Pinocchio-­‐asino vede la Fatina dai capelli turchini al baldacchino. Quello è il punto della massima degradazione. Noi non vogliamo che ci vedano nei nostri momenti peggiori coloro che ci amano, perché è questo che ci mette veramente in crisi. Fra l’altro anche lì ci sono dei passaggi misteriosi: come mai lui dice che la Fatina mi ha fatto mandare i pesci che mi mangiano quando lui muore. È la seconda morte. Ci sono due morti sue all’interno di Pinocchio: la prima morte e la seconda morte, ma nella seconda morte lui torna come soggetto morale capace di prendere un’iniziativa molto più forte della prima. Talmente tanto che da quel momento in poi l’iniziativa è tutta sua. Nella prima parte, fino all’impiccagione, ci sono le peripezie picaresche di Pinocchio, di lui che si vuole arrangiare da solo. Poi con l’irruzione della Fatina la questione si fa molto più altalenante. Dopo il Paese dei balocchi, che è come questo momento di non ritorno, di degradazione infernale, la questione si fa ancora più complessa e lui è profondamente cresciuto; infatti è lui che porta Geppetto, non viceversa. È lui che diventa il punto intorno al quale le persone si muovono: il tonno, il lavoro per mantenere il babbo, eccetera. Domanda (Barbara Gavioli): Io sono rimasta molto male quando sono arrivata alla fine di Lucignolo, perché è vero quello che dici della misericordia continua nei confronti di Pinocchio, perché mi rendo conto che questo è quello che lo fa crescere e mi son detta: perché lui sì e Lucignolo no? Questo mi ha ferito molto. Rialti: Io non saprei e credo che la cosa più salutare, sia salvaguardare le lacrime. Cioè se noi lettori e i bambini piangiamo con Pinocchio per Lucignolo, stiamo facendo un’esperienza di lettura vera. Noi vorremmo tutti che ci fosse un altro incantesimo… io non mi sento di dire che c’è questo, credo che vorremmo sbirciare e trovare un lieto fine anche per Lucignolo. In questo caso dobbiamo fare lo stesso tipo di esperienza che ha fatto Dante con Paolo e Francesca, quando per la pietà sviene. Dal suo punto di vista rimane una contraddizione non soluta, e purtroppo nella vita c’è anche questo. Saremmo due volte moralisti, se dicessimo: “Non è vero che nel libro finisce così”, perché vorremmo togliere una fatica di dolore e di contraddizione. Dall’altra parte saremmo moralisti se dicessimo: ‘Ben gli sta, schifoso” eccetera. A volte invece bisogna poter semplicemente restare nella pietà, che è molto difficile, perché noi vorremmo le soluzioni, credo, tutti quanti, però bisogna stare a volte di fronte alle cose che non si risolvono. Didattica e Innovazione Scolastica
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Silvia Magherini: Tra l’altro mi viene in mente, nello stesso brano, quando ci dicevi che ci sono dei momenti in cui Pinocchio si scopre Pinocchio capace di amare. Proprio lì quando vede Lucignolo, è uno di questi momenti in cui Pinocchio è capace di amare. Rialti: Esatto. Tra l’altro -­‐ questo è un mio parere assolutamente personale -­‐ può essere interessante lavorare con i bambini sul fatto che Pinocchio ha dei rapporti verticali, di dono dall’alto, mi vien da dire, che poi lo rendono capace della stessa cosa. Quello che ha di particolare Pinocchio rispetto ad altre storie è che Pinocchio ha moltissimi interventi di aiuto e ha queste grandi figure di dono, però non ha dei rapporti trasversali di compagni, non ha degli amici, non c’è la Compagnia dell’Anello, niente di simile a Il Leone, la strega e l’armadio, a Lo Hobbit ma neppure a Il piccolo Principe, che in un certo senso forse è il personaggio che più gli assomiglia, perché compie un viaggio che è assolutamente suo. Questa è una domanda che mi permetto di sollevare come lettore. Forse è una cosa su cui lavorare: vedere che forse Pinocchio alcune cose le avrebbe evitate se avesse incontrato degli amici o se fosse stato più amico anche di Lucignolo inizialmente. Il fatto che può esserci un’esperienza di viaggio insieme, che può essere importante. Tra l’altro, dal mio punto di vista che è all’università, che io vedo assolutamente manchevole negli studenti, perché i ragazzi non leggono, la cosa più interessante perché è in rapporto con la propria esperienza, è il gioco dei nessi: quando un lettore fa un raffronto fra due libri: che so: ‘quando Bilbo ha pietà di Gollum è come quando Pinocchio ha pietà di Lucignolo diventato asino’ alla fine, questa è la cultura. La capacità è nel fatto di vedere che cosa hanno in comune Pinocchio e Lo Hobbit: in astratto nulla, ma in concreto te stesso, tu che li leggi. Altro esempio in Astrid Lindgren, di cui abbiamo parlato l’anno scorso; anche lì il tema dell’amore in Mio Piccolo Mio quanto è importante, ne I fratelli Cuordileone quanto è importante! La capacità di saper discernere fra il bene e il male, che il cattivo non è colui che ti aspetteresti o viceversa… Tutto questo è importante, è una cosa importante che si faccia un confronto, che si dica: c’è qualcosa che vi ricorda qualche altro libro che avete letto, qualche altro personaggio? I buoni come sono qui? Come sono invece i cattivi in altri libri? Come sono gli avversari: l’Omino di burro rispetto alla Strega Bianca de Il Leone, la strega e l’armadio, che è molto simile, perché promette cose molto facili… La facilità, il mondo facile dove non ci sia la fatica e il sacrificio, prima ancora del fare per bene le cose. Questo è molto importante, perché salda l’esperienza della lettura, perché ti fa scoprire che i libri dialogano fra di loro. Ed è una cosa che, vi assicuro, è una fatica farlo fare ai venticinquenni! Domanda (Fiorenza): Mi ha molto colpito l’ultimo punto che ha detto, quando parlava del fare cultura, un lavoro del genere è possibile proprio perché mentre noi leggiamo, facciamo esperienza di questo livello di scoperta di cosa succede, di scoperta umana insieme ai bambini. Per esempio mentre io leggo Pinocchio o altre favole perché succeda qualcosa io devo essere coinvolta: insegnante è chi è coinvolto, ma non per cercare di fare. Adesso non mi piace nemmeno sminuire le favole, ma succede che tu insegnante mentre leggi sei sollecitato dai bambini a dire la tua esperienza di lettore e in questo senso vai avanti: quando mi chiedono: -­‐ E tu maestra, come l’hai vissuto? È un livello secondo me altissimo e questo taglio della discussione è il supporto più prezioso che possiamo fornire. Rialti: Grazie, posso dire che secondo me è l’unico livello che veramente conta per continuare a fare un’esperienza culturale degna di questo nome, perché è proprio questo che viene meno. L’erudizione è l’altra faccia della distanza, o della distrazione. Cioè se viene meno questo, uno non sta incontrando il libro. Tra l’altro c’è un grande scrittore di fiabe dell’800, George MacDonald che ha scritto delle fiabe molto belle come La chiave d’oro, che è stato un po’ un maestro dei grandi scrittori, -­‐ è morto tra l’altro a Bordighera, in Liguria-­‐, usava un’immagine: Le fiabe non nascono per dare un significato, ma per ridestare un significato perché il significato c’è già. Non c’è bisogno forse neanche di dirlo. Le grandi fiabe sono piuttosto come una sonata. Quando uno sente la Quinta di Beethoven con l’attacco: ta ta ta taaaa… bene, tutti noi sappiamo cosa vuol dire quell’attacco, ma nessuno sa dirlo. A uno fa venire in mente un cielo in tempesta. Ad un altro, forse, la suocera che suona il campanello a casa. Questo livello è bello, è più una dimensione che neanche un concetto o un precetto, che è una cosa molto bella. Didattica e Innovazione Scolastica
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Silvia Magherini: Ringrazio tantissimo Edoardo per essere stato con noi anche quest’anno e per l’aiuto che riesce a dare, a noi per primi, a gustare le letture che ha avuto la gentilezza e la disponibilità di dividere con noi. Quest’ultima sua conclusione, insieme a quello che è stato detto stamattina, mi colpisce tantissimo, perché è la portata del nostro lavoro. Capire che solo leggendolo, per il modo in cui leggi ai bambini Pinocchio e per il modo in cui riesci a farli parlare, fai cultura. Che sono quelle cose che da un certo punto di vista a scuola consideriamo poco, perché non ne rimane traccia nel quaderno, i genitori non le vedono, i registri non le valutano, ma i bambini cambiano e cambia anche il loro rapporto con noi. Quindi dato che noi viviamo perseguitati dai progetti, volevo richiamare l’attenzione su questo. Didattica e Innovazione Scolastica
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