Aspetti psicologici e relazionali dell`assistenza ai malati terminali e

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Aspetti psicologici e relazionali dell`assistenza ai malati terminali e
Gilberto Furlani
Fiorenzo Orlandini
Aspetti psicologici e relazionali
dell'assistenza domiciliare ai malati terminali
e alla loro famiglia.
Edizioni Bottazzi
Suzzara
Fa più rumore un albero che cade
o un'intera foresta che cresce?
Una (lunga) introduzione.
Nella nostra esistenza di medici, psicologi o infermieri, un intervallo di mezz'ora, quanto serve per
visitare un paziente terminale, non costituisce un evento particolarmente rilevante. Si tratta di un
episodio che quasi certamente cadrà nell'oblio.
Non è così per il paziente e la sua famiglia.
Per loro, questi attimi, di cui noi siamo distratti protagonisti, costituiscono momenti indelebili della
memoria e di conseguenza, sfumature inavvertite del nostro comportamento acquistano in queste
circostanze una grande rilevanza. Occorre quindi considerare che questo tipo di assistenza è di
straordinario rilievo dal punto di vista umano e professionale. Non è concesso sbagliare, tergiversare
o manifestare opinioni divergenti sul da farsi, senza che ciò abbia un riverbero enorme, non di rado
tale da innescare reazioni di ansia familiare non facilmente gestibili.
Se questo è vero per la famiglia, lo è a maggior ragione per il malato.
D'altra parte, per una persona che avverte la morte vicina, anche le cose che a noi sembrano senza
significato acquistano un senso profondo. In quest'ottica, il tempo che rimane richiede di essere
vissuto il più intensamente possibile. Un sorriso commuoverà sino alle lacrime, un volto corrucciato
incrementerà preoccupazioni e sofferenza. Molto di ciò che accadrà nello sviluppo dell'assistenza e
quindi nella vita di quel paziente e della sua famiglia, dipenderà dal nostro comportamento.
Anche da aspetti apparentemente secondari, perché in questo contesto non esistono aspetti secondari.
Noi sappiamo bene che tutto ciò eleva il tono della nostra responsabilità a livelli difficili da tollerare,
ma non sappiamo che farci. Semplicemente è così.
Si possono leggere molte cose sull'assistenza al malato terminale, alcune delle quali davvero
interessanti, ma spesso non si trovano riflessioni ovvie come queste. D'altra parte, oggi viviamo in
un mondo tanto distratto e banalizzante da trascurare le cose ovvie.
La maggior difficoltà che incontriamo con questi pazienti consiste proprio nel fatto che noi viviamo
una vita sostanzialmente differente dalla loro. Noi abitiamo un mondo accuratamente svuotato di
ogni riferimento alla morte, per la ragione che possiamo permettercelo.
Loro la avvertono come unica certezza. Sono due mondi senza comunicazione.
L'assistenza al malato terminale ci costringe ad instaurare questo genere di comunicazione,
esattamente ciò che nella vita comune si ha cura di evitare.
Ma non è sufficiente porsi il problema di comunicare, se non si ha qualcosa da dire e, soprattutto,
se ciò non giova. In molte discipline mediche ed infermieristiche viene dato risalto agli aspetti
propriamente tecnici ed organizzativi dell'assistenza.
Nella cura del paziente terminale questi aspetti sono relativamente semplici e comunque secondari,
perché questa è un'assistenza dove assumono il più grande rilievo aspetti umani, psicologici e
comportamentali.
Lo scopo di questo contributo è di affrontare in modo sistematico questi temi.
Ci auguriamo che queste nostre riflessioni possano costituire un primo nucleo a cui aggiungere tutto
il cospicuo patrimonio che nasce dall'esperienza dei numerosi casi che, come operatori sanitari,
quotidianamente assistiamo. Ci auguriamo che il nostro contribuito serva ad un ulteriore
miglioramento dell'assistenza.
Certo contribuirà a produrre dibattito, e questo è naturale, perché si tratta di argomenti per i quali non
esistono soluzioni indiscutibili.
Riteniamo che sia inutile dividerci su argomenti relativi al diverso tipo di formazione umana,
religiosa o professionale di ognuno di noi. Su queste basi non troveremo mai una vera condivisione.
Essa può essere cercata solo ponendo al centro delle nostre preoccupazioni la persona umana
sofferente che in questo momento ci sta osservando con occhi pieni di speranza, paura e timore.
La condivisione la possiamo trovare se ci confrontiamo su ciò che può consentirle di vivere nel
modo migliore il tempo, poco o tanto, che le sarà consentito.
In questo testo tuttavia è riportata la nostra testimonianza, la quale è intrisa di sentimenti e di
convinzioni che derivano dalla nostra formazione umana, religiosa e professionale.
Non potrebbe essere altrimenti.
E' bene forse ribadire che queste sfumature appartengono ad una sfera individuale e non vengono
proposte con l'intendimento di costituire una modalità di approccio.
Le testimonianze hanno il valore che hanno e nulla di più.
L'inizio dell'assistenza.
Esistono vedute differenti nel definire quando un paziente è da considerarsi terminale.
In genere noi medici di famiglia abbiamo l'impressione che, per i medici ospedalieri, un paziente
non sia mai terminale.
Ricordiamo un paziente che fu dimesso dall'Ospedale: campò meno di quindici giorni ponendo seri
problemi di controllo dei sintomi e, a fronte di una nostra richiesta di attivazione dell'assistenza
domiciliare, ci venne risposto che a giudizio del Reparto il paziente non era da considerarsi terminale.
Se questo è vero, è necessario riconoscere che per noi medici di famiglia, rischia di essere considerato
terminale anche chi non lo è.
Siamo convinti che questo costituisca un problema oggettivo su cui occorre sviluppare una maggiore
riflessione.
Ne consegue che, ogni volta che un paziente entra in terminalità durante un ricovero ospedaliero o
mentre è in corso un trattamento antiblastico, nascono momenti di tensione tra medici ospedalieri e
medico di famiglia. Tutto ciò è fonte di notevole disorientamento e di sofferenza.
Si tratta di momenti emotivamente molto intensi.
A volte il paziente, prostrato dalla malattia e dalle cure, chiede spontaneamente di cessare il
trattamento antiblastico. Altre volte invece, anche quando non appare più ragionevole proseguirlo,
egli si rifiuta di smettere, immalinconendosi e chiudendosi in un mutismo desolato.
Soprattutto per i pazienti consapevoli della propria condizione, il trattamento della malattia
costituisce il cordone ombelicale che li lega alla vita.
La risoluzione del problema sta nel chiarire ciò che intende fare il paziente e accettarlo.
Egli ha il sacrosanto diritto di scegliere ciò che ritiene opportuno, adducendo le motivazioni che
crede. Definire un paziente terminale è sempre discutibile, ma non riconoscergli il diritto di decidere
che fare è intollerabile.
Ciò non toglie che medici ospedalieri e medici di famiglia dovrebbero far di tutto per migliorare la
comunicazione tra di loro, per confrontarsi e ridurre la sofferenza.
Alla famiglia e al malato, medico di famiglia e infermiera dell'equipe di cura, spiegheranno cosa
significa l'assistenza domiciliare: una risposta a tutto ciò di cui hanno bisogno, quando è necessario,
a casa loro.
Metteremo al primo posto il paziente, i suoi bisogni e i suoi desideri.
Non potremo arrestare il decorso della malattia, ma porremo senza dubbio fine alle angustie e alle
sofferenze fisiche. Diremo che egli potrà mangiare quando vuole e quello che vuole, senza dover
sopportare il lezzo di un altro paziente che in quel momento, nel letto a fianco va di corpo.
Che potrà dormire tutta la notte senza dover assistere alla morte di un compagno di stanza e al
chiasso delle donne di servizio che alle cinque del mattino iniziano a fare le pulizie in camera.
Che quando vorrà uscire lo potrà fare, andando al Centro Commerciale con la figlia a far la spesa o
un'oretta al Centro Sociale, senza fleboclisi che lo crocifiggano a letto.
Che invece di morire dietro un paravento d'ospedale, morirà nel suo letto coi suoi figli attorno.
Tutto ciò costituirà una specie di impegno d'onore che reciprocamente ci prendiamo.
Ma noi operatori sanitari non potremo ottenere alcun risultato se ciascuno procede per suo conto.
Si tratta di scegliere.
Occorre sempre ricordare ai familiari che noi saremo a loro disposizione qualsiasi scelta facciano
e per ogni necessità.
Dovranno comprendere chiaramente che offriamo un'opportunità, che non intendiamo costringere
nessuno e soprattutto che non giudichiamo le persone in base a ciò che decidono.
La scelta della famiglia.
Nel nostro modello assistenziale il responsabile dell'assistenza è il medico di famiglia, il quale attiva
l'assistenza direttamente o in seguito ad una segnalazione che gli proviene da un Reparto Ospedaliero.
Solo secondariamente viene contattato il Servizio Infermieristico.
Occorre procedere con attenzione alla scelta della famiglia a cui proporre l'assistenza domiciliare.
Professionalmente è del tutto sconfortante dover abbandonare un caso del genere, una volta avviato.
Lo stesso dal punto di vista umano. Ciò dovrebbe spingerci ad operare un'attenta selezione.
In realtà, se dal punto di vista teorico questo problema è rilevante, nella pratica risulta esserlo molto
meno, perché le condizioni richieste alla famiglia non sono sempre facilmente identificabili e spesso
assumono più rilievo l'esperienza e l'abilità di medico e infermiera.
E' infatti chiaro che alla famiglia è richiesto di tollerare tanto meno ansia e meno situazioni stressanti
quanto più è professionalmente elevato il livello degli operatori sanitari con cui ha a che fare.
Diremmo quindi che gli unici elementi determinanti per impostare una cura domiciliare sono la
presenza di una famiglia (non sempre infatti questa esiste) e il desiderio realmente vivo del paziente
di rimanere a casa propria.
Queste condizioni sono spesso presenti.
Un altro elemento importante è dato dalla disponibilità degli operatori.
Avere a che fare con un paziente in assistenza domiciliare significa garantirgli una costante
reperibilità. Non farlo significa porre le basi per un sicuro fallimento.
Il paziente terminale vive una condizione caratterizzata da isolamento e solitudine, spesso interrotta
solamente dalla visita del medico e dell'infermiera.
Si tratta di consuetudini a cui egli si lega in modo formidabile, perché costituiscono elementi di
"certezza" in un quadro di riferimento per lui sconcertante a causa della mancanza di ogni sicurezza.
E' un basilare meccanismo di difesa.
Capita spesso che se la visita tarda di un paio d'ore, al nostro arrivo ci si senta dire: "Dottore, ero in
pensiero per lei, pensavo le fosse accaduto un incidente…"
La presenza di operatori differenti, in sostituzione dei consueti, pone al paziente motivi di
apprensione. Questo è quanto accade alla sostituzione delle infermiere, ma è un sentimento contenuto
dalla rassicurante presenza del proprio medico di famiglia.
La faccenda si fa un poco più seria quando è quest'ultimo a mancare.
L'esperienza di questi anni tende però a farci ridimensionare questo problema.
Quando il sostituto è un medico esperto, conosciuto dal paziente e dalla sua famiglia e soprattutto
quando quest'ultimo adotti obiettivi e metodi simili, sebbene con stile professionale diverso, non
accadono inconvenienti.
Salvo nel momento critico dell'agonia e della morte.
L'informazione del paziente.
Come regola generale è bene che il paziente sia edotto della propria condizione, questo è oltretutto
un presupposto giuridico fondamentale per rendere lecito ogni intervento sanitario sulla sua persona,
perché è chiaro che non può essere ritenuto valido alcun consenso che non si fondi su di una corretta
e completa informazione.
In realtà molti ammalati paiono sospesi in un limbo di consapevolezze parziali e di negazione
dell'evidenza, hanno tutti gli elementi per giudicare la gravità della loro condizione ma non ne
parlano mai chiaramente, né in tal modo si atteggiano.
Nella nostra tradizione medica la completa informazione del malato si è sempre accuratamente
evitata e questo è probabilmente un errore.
Abbiamo l'impressione che oggi, in alcuni settori medici, stia avvenendo il contrario.
Oggi vediamo medici che come regola informano i pazienti in modo completo, anche se questi non
hanno manifestato questo bisogno e non hanno chiesto nulla.
Noi riteniamo che anche questo costituisca un errore.
L'informazione non deve essere dettata da atteggiamenti culturali o da particolari convincimenti,
essa costituisce la prima e più grande attenzione nei confronti dell'uomo ammalato che si affida a noi
e va perseguita con profondo rispetto alle sue esigenze.
Se infatti, sia dal punto di vista giuridico che etico, esiste il dovere di informare, non esiste il dovere
di essere informato a tutti i costi, nel senso che il malato può liberamente scegliere di non essere
dettagliatamente messo al corrente di tutti gli aspetti della propria condizione.
Noi abbiamo l'impressione che questa considerazione non sia adeguatamente ponderata.
Crediamo che il paziente abbia il diritto di non conoscere tutto, ma che abbia la facoltà di esserlo per
quegli aspetti che egli ritiene essenziali e che gli consentono di dare un senso alla propria sofferenza.
Magari di coltivare una qualche speranza nel futuro.
Impedirgli questo essenziale meccanismo di difesa, oltre a configurare un comportamento poco
ragionevole, costituisce un atto di crudeltà.
Siamo assolutamente d'accordo con Franco Toscani: in questi momenti, medico, infermiera e
volontaria dovrebbero adottare tre regole fondamentali: ascoltare, non simulare e rispondere sempre
onestamente.
A domanda esplicita, risposta esplicita.
A domanda simbolica o metaforica, risposta dello stesso tono.
Di fronte al silenzio, si stia in silenzio, ma dando la mano al paziente, magari con la scusa di
sentirgli il polso.
Occorre esercitarsi nell'arte di ascoltare.
Se mai esiste una scuola in questo senso, essa è il capezzale di questi ammalati.
Per infermiera e volontario può forse essere diverso, ma questi malati nel corso della loro terminalità
offrono davvero poche occasioni al proprio medico per mettersi profondamente in contatto umano
con lui. Intendiamo un contatto esplicito.
E' un dovere umano profondo quello di non perdere queste occasioni: esse non vanno forzate né
scoraggiate, vanno colte quando maturano.
Esse costituiscono il compimento dell'alleanza umana tra due uomini che affrontano insieme il
dramma della malattia e lo spettro della morte.
Saper cogliere e vivere pienamente questi momenti rappresenta il presupposto essenziale del
raggiungimento di un buon grado di assistenza.
Sebbene giuridicamente irrilevante, l'informazione della famiglia assume un significato preponderante
e cruciale, perché anche per quest'ultima l'esperienza della sofferenza è profonda, spesso non meno
di quella del paziente.
E' inutile indugiare sugli aspetti negativi delle condizioni del malato, sulla prognosi e sul presumibile
momento della morte, argomenti su cui molto frequentemente ci vengono chiesti chiarimenti.
Occorre sforzarsi di spiegare ai familiari che il massimo rilievo deve essere dato al paziente, ai
bisogni che manifesta in questo momento e al modo più rapido, efficace ed opportuno per soddisfarli.
Ciò che potrà accadere in futuro lo si affronterà quando accadrà.
Medico, infermiera e volontario saranno a disposizione, è possibile contare su di loro in ogni
momento.
L'accanimento terapeutico.
Un caposaldo dell'assistenza ai malati terminali è il rifiuto dell'accanimento terapeutico, il che
costituisce un proposito senz'altro molto nobile, ma difficile da praticare, perché non esistono regole
assolute. Nulla in medicina palliativa ha regole assolute, per la ragione che non è la malattia ad essere
protagonista, ma il malato.
Noi siamo a servizio di quella persona ammalata, dei suoi bisogni, dei suoi desideri, dei suoi valori
e ogni malato manifesta bisogni, desideri e valori diversi.
Eppure non ci si stanca di ripetere che in questo genere di assistenza, sebbene si disponga di poche
certezze, nondimeno occorrono idee chiare.
Siamo generalmente portati a ritenere che sia l'Ospedale il luogo dove si consuma l'accanimento
terapeutico. Ciò è probabilmente vero, ma anche noi medici di famiglia rischiamo seriamente di
praticare questo genere di cure.
Che senso può avere trattare con antibiotici molto potenti un'infezione che complica gli ultimi giorni
di vita di un paziente con un cancro avanzato, in condizioni di vita penose, con un difficoltoso
controllo dei sintomi e che da giorni non è più in grado di alimentarsi?
Molti dei trattamenti cronici assunti dal malato possono essere sospesi in fase di terminalità, non si
vede infatti che vantaggio si possa ricavare dal trattare l'ipertensione arteriosa in un paziente che ha
una prognosi di un mese.
E' bene considerare con attenzione l'opportunità di procedure traumatizzanti quali le toracentesi o
paracentesi. Un buon trattamento palliativo può ridurre drasticamente il ricorso a questi interventi,
i quali sono giustificati solamente quando la cura sintomatica non è in grado di mantenere privo di
sintomi il paziente a riposo.
Nonostante ciò, quando occorre procedere a questo tipo di interventi, si rende necessario praticarli
in modo tempestivo ed efficace a domicilio.
E' sempre preferibile non ricorrere all'Ospedale.
Pochi medici sono a conoscenza del fatto che un paziente con occlusione intestinale possa essere
trattato a casa propria, libero da sintomi, per settimane, senza utilizzare sonde di alcun genere.
Un altro aspetto comunemente dibattuto riguarda l'idratazione.
In medicina palliativa è opinione diffusa che un paziente terminale incapace di deglutire e di idratarsi
per via orale non debba essere reidratato parenteralmente.
In Ospedale questa procedura è a volte spinta sino a interventi particolarmente cruenti come
l'incanulazione della succlavia o l'applicazione del sondino naso-gastrico o della sonda gastrostomica.
Tutto ciò persino in pazienti che non potranno più riprendere a bere.
Probabilmente si tratta di atteggiamenti eccessivi e di pratiche assolutamente condannabili e spiace
constatare che una sua limitazione si osservi solamente per motivi economici e non per una
maturazione del problema.
Può invece senz'altro essere utile mantenere il paziente terminale in stato di moderata disidratazione,
questo è noto, perché avverte meno il dolore e ha meno vomito o diarrea.
Ma l'idratazione costituisce sempre una cura ordinaria.
Il fatto che non esista una risposta in termini assoluti, che la situazione vada giudicata nel singolo
paziente, che in sostanza la risposta sia difficile, non significa che non la si debba dare.
Ma questa risposta deve essere ragionevole.
Ciò che a nostro parere è essenziale è che la scelta sia condivisa da medico e infermiera, il che
presuppone che se ne parli e la si possa maturare insieme.
Nulla è più tranquillizzante, per paziente e familiari, del vedere gli operatori sanitari procedere
nell'assistenza senza indugi, perplessità e riserve.
Fino a che punto interpellare la famiglia?
Se il paziente non è in grado di intervenire attivamente (in linguaggio tecnico non è in grado di
esprimere un valido consenso) noi siamo del parere di non sottoporre problemi di questo genere alla
famiglia.
Non c'è alcun vantaggio nel far partecipare i congiunti a questa decisione e non esiste la necessità
giuridica di farlo.
Questo tuttavia non significa rifiutarsi di dar conto delle proprie scelte ogni volta che ne veniamo
richiesti. Se non si è troppo frettolosi, si possono cogliere perplessità anche solo dallo sguardo di
qualcuno della famiglia. A questo punto è bene soffermarsi con lui e parlarne con serenità.
Può invece accadere che intervengano, naturalmente del tutto a sproposito, altre figure sanitarie,
magari amici della figlia o parenti della nuora.
Anche in queste situazioni, con pacatezza ancora maggiore, le proprie decisioni vanno motivate.
E' bene che i chiarimenti vengano dati da entrambi, medico e infermiera, non importa che questo
avvenga congiuntamente.
La prima regola da osservare.
L'angoscia per la morte imminente è una sensazione devastante.
Non ci sono farmaci o tecniche psicoterapiche che tengano, quest'angoscia appartiene a tutti e
ognuno dovrà trovare dentro di sé una soluzione.
Essa ingigantisce ogni disturbo e rende intollerabili tutti i sintomi, tanto da consentirci davvero di
parlare per questi malati di "dolore totale".
Di conseguenza si rende sempre necessaria una cura immediata e "feroce" dei sintomi.
Di tutti i sintomi.
Non si deve mai ritardare l'instaurazione di un trattamento con la scusa di effettuare accertamenti
volti a determinarne l'origine.
Quando il paziente è libero dai sintomi si rasserena e comincia a progettare per la cena o si spinge a
parlare di ciò che intende fare la mattina del giorno dopo.
La speranza (davvero ultima a morire) riacquista vigore e offre un significato anche all'esistenza più
precaria.
Il nostro scopo è dare vigore alla speranza, ma ad una speranza realistica: "Vedrà, tra mezz'ora starà
meglio e il vomito sarà cessato."
L'ansia e l'apprensione del paziente e della famiglia fanno sì che un sintomo moderato crei
rapidamente un'ansia generalizzata che ben presto rende la situazione di difficile gestione.
Uno dei capisaldi del trattamento dei pazienti terminali è il riconoscimento rapido dell'insorgenza di
complicanze (o anche solo di sintomi) e un loro repentino trattamento.
Oltretutto, lo stato di defedamento di questi pazienti ci consente di trattarli molto meglio all'inizio
delle complicanze piuttosto che a sintomi ormai conclamati.
Ciò vale particolarmente per il dolore che, contrariamente a quanto si ritiene, non è il disturbo più
frequente del paziente terminale e neppure il più difficile da trattare. Esso va combattuto ad ogni
costo, indipendentemente dai metodi e dal dosaggio di farmaci impiegati.
Il farmaco chiave è sempre la morfina.
E' impressionante constatare quanto poco essa venga usata e quanto a dosaggi inadeguati.
Si deve avere cura di spiegare ai pazienti e alle famiglie che l'assunto popolare, secondo cui si tratti
di un farmaco degli ultimi giorni di vita, è falso.
Ma è difficile convincerli quando questo falso convincimento è altrettanto radicato tra i medici.
In ogni modo, la sua straordinaria efficacia antidolorifica e sedativa ben presto risulta l'argomento
determinante per dissolvere i dubbi sul suo uso.
Solo imparando ad usarla correttamente (cosa peraltro di una semplicità disarmante) si può
comprendere come mai l'utilizzo di questo farmaco sia considerato uno dei più accurati parametri
di valutazione della civiltà medica di una nazione.
Non si capisce perché l'utilizzo di farmaci antalgici in pompa non venga preso in considerazione
anche per gravi episodi dolorosi non legati ad uno stato di terminalità.
Se si utilizzasse questo criterio, la pompa di infusione non entrerebbe nell'immaginario collettivo
come un presidio proprio del malato terminale. Una specie di estrema unzione.
Essa costituisce in realtà un eccellente metodica di somministrazione di farmaci in modo continuo e
non impegnativo per il paziente, in grado di consentirgli piena libertà di movimento.
Noi abbiamo applicato spesso una pompa da infusione sottocute a molte persone anziane che
lamentavano ad esempio una sciatalgia iperalgica da crollo vertebrale osteoporotico.
Dopo un mese, il tempo necessario per sedare il dolore più acuto, viene tolta.
Questa esperienza ci consente di rendere familiare questo strumento e dimostrare che applicarla non
significa affatto previsione di morte.
E serve a convincere il medico che è possibile utilizzare buoni dosaggi di morfina per settimane
senza che si instauri alcuna sindrome da dipendenza.
Le complicanze a cui può andare incontro un malato terminale sono poche e quasi sempre le stesse.
Riesce quindi di particolare utilità osservare con attenzione gli organi interessati.
Non ci si deve stancare mai di insistere sulla necessità di un'ispezione quotidiana della bocca.
Una buona igiene del cavo orale e la prevenzione o la cura delle sue complicanze infettive o
micotiche, risultano essenziali per una buona qualità di vita del malato e per il suo rapporto col cibo.
Non solo gli si permette una migliore alimentazione ma gli si risparmieranno xerostomia, cattivi
sapori, ageusia e perdita del senso gustativo.
Medico e infermiera.
Come abbiamo sostenuto precedentemente, in questo genere di assistenza non sono i problemi
tecnici od organizzativi i più complessi da affrontare, bensì quelli che nascono dal rapporto umano
e professionale tra medico, infermiera, paziente e famiglia.
E' assolutamente necessario che i primi due abbiano una comune visione degli scopi, delle procedure
e dei mezzi da impiegare.
L'essenza di questo rapporto non è di tipo gerarchico. Oltretutto non è affatto detto che sia sempre il
medico a cogliere nel modo migliore le esigenze del paziente e della famiglia o a trovare il modo più
opportuno di soddisfarle, perché le scelte in campo hanno una valenza squisitamente umana e il
contatto tra paziente ed infermiera è più intimo e ravvicinato.
Tutto ciò non significa che il medico non debba fare ciò che gli compete e altrettanto l'infermiera,
significa che non è possibile non approfondire i casi insieme, confrontarsi e prendere decisioni comuni.
La scelta di dedicarsi a quest'attività assistenziale deve fondarsi su buone motivazioni personali e
deve risolversi nell'offrire e nel ricevere gratificazione umana e professionale.
Si corre sicuramente il rischio di farci travolgere dalla marea montante del male e della morte, ma
questo non deve succedere.
Il singolo operatore non deve essere lasciato solo nella valutazione delle varie situazioni di vita che
affronta e nelle riflessioni conseguenti, questo nell'interesse del paziente, della sua famiglia e nel
proprio.
E' da evitare che i familiari fungano da mezzo di comunicazione tra le varie figure professionali.
A questo scopo l'utilizzo corretto della cartella sanitaria e il contatto telefonico non possono essere
sufficienti, occorrono incontri periodici e momenti di approfondimento.
In questo quadro assume grande rilievo il fatto di visitare il paziente contemporaneamente, sia ad
intervalli regolari che nei momenti critici.
Ciò è generalmente difficile da ottenere, perché le nuove modalità organizzative sanitarie
impongono ritmi di lavoro molto elevati e non consentono molto spazio.
Ma è bene chiarire che questo costituisce un pesante limite al miglioramento qualitativo di questo
tipo di assistenza.
Il volontario.
Ognuna delle figure che ruotano attorno al malato è animata da qualcosa che caratterizza lo spirito
del volontariato. E' quindi più corretto parlare di "figura laica", cioè operatore non sanitario.
Si tratta di una persona che decide di dedicare tempo ad intessere una relazione umana col malato e
la sua famiglia per essere loro utile.
Il volontario può aiutare la famiglia nei suoi quotidiani problemi organizzativi, quali il rifornimento
delle medicine, il disbrigo di pratiche amministrative, ma spesso il legame che si forma lo porta a
svolgere un ruolo molto rilevante negli equilibri affettivi che entrano in gioco.
Il primo approccio è sempre piuttosto difficile, perché il volontario non ha un suo ruolo ben definito,
è comunque privo di connotazioni tecniche e soprattutto è estraneo alla nostra tradizione
assistenziale.
Molte famiglie rispondono con un certo disagio, avere un malato grave in casa è vissuto
generalmente con una certa riservatezza.
E' evidente quindi che medico ed infermiera introdurranno la figura del volontario solo quando è
chiaramente opportuna la sua presenza e quando sono in grado di far valere il peso affettivo del loro
legame al malato e alla sua famiglia.
Il volontario deve sempre entrare in famiglia assieme al medico e all'infermiera e deve mostrare una
buona consuetudine di rapporti con loro.
Deve inoltre risultare evidente che egli lavora in equipe coi sanitari.
Una volta accettato, il volontario acquista un legame generalmente molto forte col malato e qualcuno
dei familiari.
Occorre considerare che non esistono barriere che si frappongano a questo genere di legame, quali
possono derivare dall'esercizio di una professione sanitaria o dal rivestire comunque un "ruolo".
La disponibilità così chiaramente gratuita, al di fuori da ogni consuetudine ed aspettativa
costituiscono le ragioni per cui il malato apre il suo animo al volontario e così qualcuno dei familiari.
Spesso il volontario è messo al corrente di faccende importanti, relative a pregresse tensioni familiari,
a conflitti nascosti, a rapporti difficili, condizioni queste che possono essere rilevanti per il buon
esito dell'assistenza. Così il paziente può confidare al volontario i propri desideri o le proprie paure,
consentendogli di giungere ad una più profonda chiave di lettura del suo comportamento.
Il volontario deve confrontarsi con medico ed infermiera, ma non deve offrire informazioni che non
siano pertinenti all'assistenza, perché il suo ruolo non è quello dell'informatore e perché la confidenza
umana tra lui e la famiglia richiede una riservatezza che va assolutamente rispettata.
Abbiamo già detto che è molto comune, ma non strettamente necessario, che si sviluppi un certo
grado di amicizia tra lui, il malato e la famiglia.
Ebbene, questo può risultare cruciale nella fase che segue la morte del paziente, quando il volontario
può assistere i parenti in una corretta elaborazione del lutto.
La decisione di sedare il paziente.
I problemi relativi alla liceità di abolire, quando se ne abbiano i motivi, lo stato di coscienza del
paziente terminale possono ritenersi ormai risolti. Decidere di abolire la coscienza non significa
essere responsabili di anticipare la morte, anche se in effetti, in conseguenza della nostra scelta,
questa eventualità potrebbe verificarsi.
La decisione viene presa quando non vi sia modo di controllare sintomi angosciosi, quali una penosa
dispnea o un dolore non altrimenti trattabile ed è giustificata dall'interesse del paziente.
La teorica possibilità che quest'ultimo possa morire in conseguenza del trattamento sedativo non lo
può condannare ad una sofferenza certa e inaccettabile.
Il fatto che sia lecita però non significa che non sia una pratica da considerare eccezionale.
Le raccomandazioni pastorali della Chiesa Cattolica per gli operatori sanitari dicono espressamente
che "non bisogna, senza gravi ragioni, privare della coscienza il paziente morente".
Noi ci sentiamo di condividere questa posizione.
Soprattutto, questa procedura non va usata con lo scopo, più o meno confessato, di ridurre il disagio
e la tensione (diciamo pure anche la sofferenza) dei pazienti, dei familiari e degli operatori nella fase
terminale della vita.
Le pratiche volte ad evitare al morente una fine cosciente, senza che vi sia un grave motivo, sono
infatti veramente deplorevoli.
Oltretutto esse sanciscono l'inadeguatezza degli operatori sanitari a far fronte alle esigenze di un
paziente e di una famiglia in preda a una forte sofferenza.
E' quindi necessario che il paziente venga profondamente sedato solo quando ciò è assolutamente
indispensabile ed esclusivamente nel suo interesse.
Questa scelta va profondamente condivisa e attentamente preparata sul piano dell'informazione e
della gestione emotiva, poi va condotta con efficacia e determinazione.
Essa richiede la ragionevole valutazione di una breve aspettativa di vita, come vedremo in seguito.
Sedare profondamente un paziente al suo domicilio comporta frequentemente problemi di ordine
tecnico.
Nonostante tutti i pazienti possano essere utilmente sedati con gli stessi farmaci (MORFINA,
MIDAZOLAM e ALOPERIDOLO), i dosaggi e gli intervalli di somministrazione richiedono un
attento adeguamento alla risposta personale, che in genere è fortemente variabile.
Medico, infermiera e familiari (che motivati e preparati possono essere utili alleati in quest'opera)
debbono sorvegliare che lo stato di sedazione sia efficace ma non eccessivo.
In genere, quando si prende questa decisione si deve porre immediato rimedio a sintomi penosi,
quindi non ha senso utilizzare dosaggi lievi ed è necessario impiegare una prima dose sicuramente in
grado di ottenere l'effetto.
D'altro canto, l'utilizzo della via sottocutanea, generalmente non espone a reazioni eccessive o
repentine. Occorre inoltre considerare che spesso il malato, a fronte di stimoli particolarmente forti,
può risvegliarsi e ritornare a presentare sintomi angosciosi. Se questo accade è possibile riportarlo
rapidamente ad uno stato di sedazione con un'infusione di 1 mg MIDAZOLAM endovena in 100 cc
di soluzione fisiologica, salvo poi riaggiustare la dose da utilizzare sottocute ad intervalli regolari.
La decisione di sedare il paziente comporta uno spostamento repentino del baricentro dell'assistenza
dal malato alla famiglia, occorre quindi prestare particolare attenzione ai primi segni di cedimento
psicologico e di agitazione tra le figure presenti.
Se infatti il paziente è sedato e non avverte i ronchi insopportabili della propria dispnea, i familiari
che lo assistono dovranno invece trascorrere ore, spesso intere nottate, in compagnia di questo
penosissimo spettacolo.
La sedazione profonda, se immediatamente appaga l'ansia della famiglia e offre un transitorio calo
di tensione emotiva, generalmente pone difficili problemi di gestione a lungo termine.
Essa deve quindi essere una scelta delle ultime ore di vita di una persona.
Poiché l'assistenza ai malati terminali è fondamentalmente diversa dalle altre, occorre precisare
un concetto particolarmente rilevante. Più ci si avvicina alla fine del paziente, meno contenuti tecnici
sono richiesti agli operatori e più abilità di tipo umano, psicologico e comportamentale.
Negli ultimi giorni di vita di un paziente l'elemento assistenziale determinante è l'assidua presenza
del medico e dell'infermiera, con grande attenzione per chi in quel momento è soggetto alla massima
sofferenza: la famiglia.
Non bisogna razionare le visite, non sono mai troppe.
Molti operatori, quando si parla loro di queste cose, obiettano che occorre essere preparati ad
esercitare queste abilità umane, psicologiche e comportamentali.
Questo è senz'altro vero, ma non esiste scuola per apprenderle, come non ne esistono per acquisire
le abilità che servono a fare di una donna una buona mamma.
E' curioso osservare come un buon medico e un buon infermiere sono generalmente valutati tali in
conseguenza di queste specifiche qualità, piuttosto delle loro strette abilità tecniche.
Esse costituiscono fattori essenziali della nostra professionalità, di conseguenza vanno approfondite
e affinate.
Nessuno può essere definito un professionista della morte e se mai qualcuno si considerasse tale,
occorre guardarsi da una figura del genere! Noi abbiamo sempre provato un certo grado di
preoccupazione per gli operatori sanitari che si dedicano esclusivamente al trattamento dei morenti,
nelle cosiddette Unità di Cure Palliative. Non capiamo come facciano a resistere.
Da questo punto di vista il nostro modello organizzativo è senz'altro più appagante, noi ci occupiamo
di tutta l'assistenza medica alla famiglia, anche di quella terminale.
Così ci troviamo ad affrontare i problemi di un ragazzino col morbillo, di un adolescente che ce l'ha
con tutti, di una signora in gravidanza e di una persona anziana che sta morendo di cancro.
Ma occorre cogliere la specificità di quest'ultima esperienza, apprenderne le regole e rispettarne le
esigenze.
Il momento della morte.
Quasi tutte le famiglie ritengono che il momento della morte abbia una valenza tecnica e richieda la
presenza del medico. Inoltre crediamo che entri in gioco anche un particolare atteggiamento
psicologico più o meno conscio.
E' rassicurante frapporre tra noi vivi e la morte, che in questo momento sta violando la nostra casa,
una figura professionale cui delegare ogni adempimento e a cui attribuire il compito di connotare
fisicamente questa separazione.
Fatto sta che pochi altri momenti della vita determinano in noi un disorientamento così grande come
quando la morte entra in casa nostra.
Nessuno sa cosa dire né che fare.
Occorre avere la caritatevole pazienza di essere presenti, anche se per le stesse ragioni, ognuno di
noi cercherebbe di evitare situazioni simili.
Nonostante per questi malati fosse prevista, la morte giunge spesso repentina.
Capita quindi che il medico arrivi subito dopo il decesso, quando nei familiari sono evidenti
annichilimento, disorientamento e spesso c'è confusione. Si tratta di una condizione in cui ognuno di
loro vive un'intensa esperienza emotiva che appare slegata da quella degli altri e la comunicazione è
difficile.
In questa situazione il comportamento del medico risulta cruciale.
Alcuni di noi usano farsi il segno della croce, movimenti rituali che vengono spesso imitati dai
presenti.
In ogni modo occorre proporre un momento di raccoglimento e offrire una buona parola, con serenità
e pacatezza.
Questa specie di minima ritualità ha un senso profondo, costituisce la materializzazione della nostra
pietà, la presa d'atto del nostro rispettoso distacco dal congiunto.
Occorre ricordare che la civiltà umana nasce col culto dei morti e non esiste culto senza rito.
Esso esprime un bisogno profondo ed irrinunciabile. Tutto ciò allenta la tensione, rende di nuovo
ciascuno consapevole della realtà.
Questo momento vissuto collettivamente rende di nuovo possibile il dialogo di emozioni, la
condivisione di sentimenti tra i familiari e contribuisce a non fissare quel momento come uno dei
peggiori ricordi.
Quando sono presenti bambini, il medico dovrebbe avere cura di dedicarsi a loro.
Essi vivono questi momenti in modo intenso, spesso emarginati dagli adulti che hanno altro di cui
occuparsi.
Non essendo stati informati, vivono l'esperienza in modo drammatico e appaiono del tutto indifesi
dall'impatto con le scene più brutte cui assistono. E magari è notte.
Parlare loro serenamente, tenendoli per mano, gli consente di riflettere sul fatto che ci sono adulti
che non soccombono alla morte, che la vivono senza risultarne schiacciati.
Subito dopo si aiutino i familiari a togliere al paziente pompa, cateteri o altri strumenti e a comporne
minimamente le spoglie.
Quasi sempre è necessario fornire alla famiglia tutte le indicazioni pratiche.
Questo tempo è parte integrante dell'assistenza, anche se il paziente è deceduto.
Se questi momenti sono stati vissuti dal medico con sicurezza e con serenità, la famiglia pare
risvegliarsi e riprendere contatto con la realtà della vita che continua con le sue stringenti necessità.
Solo alla fine di tutto questo processo, quando la famiglia ha saputo riorganizzarsi, è possibile uscire
di scena.
Nel farlo si avverte quanto anche questo momento sia un'ulteriore esperienza di distacco.
Per mesi queste persone hanno vissuto con noi emozioni forti, per lungo tempo la vita di ognuno ha
ruotato attorno alla persona che non c'è più.
Ognuno dei familiari sapeva di poter contare sui nostri consigli, sulla nostra assistenza e disponibilità,
traendone rassicurazione.
La nostra presenza era quotidiana, essa scandiva il tempo come il momento più importante della
giornata.
Anche in questo senso la morte del paziente determina un crudo taglio col passato, con consuetudini
così emotivamente tranquillizzanti.
Nel commiato si debbono assicurare i membri della famiglia che potranno ricorrere a noi in ogni
momento.
Siamo convinti che una buona assistenza non debba concludersi con eccessivi sensi di riconoscenza
o, peggio, con un senso si dipendenza psicologica nei nostri confronti.
Tutta l'assistenza deve essere condotta con un profondo rispetto per le persone, per tutte le persone.
Esse debbono essere lasciate libere di elaborare i propri meccanismi di difesa, di rafforzare le
giustificazioni che ritengono più opportune, di coltivare le motivazioni che credono.
Gli operatori dovrebbero far fronte alle varie situazioni col necessario pudore verso questi sentimenti
e con riservatezza.
E' necessario riconoscere che questo costituisce un aspetto importante della nostra professionalità
e non rappresenta in nessuna misura una presa di distanza umana dal dolore che ci circonda.
Dopo la morte.
Chiunque è disposto a riconoscere che la morte è un fatto naturale, che è parte della vita e che
occorra considerarla tale. In realtà tutta la nostra vita è avulsa da questo sentimento e quando si parla
della morte lo si fa in modo più o meno inconsciamente scaramantico.
Noi viviamo come se la morte non esistesse o comunque non ci riguardasse.
Di conseguenza quando essa ci tocca da vicino scatena una complessa moltitudine di emozioni,
alcune del tutto imprevedibili.
Generalmente si ritiene che ognuno passi attraverso una successione di stati d'animo che vanno dal
rifiuto, alla rabbia, dal senso di colpa alla paura, sino all'accettazione.
Ma non sempre è così, a volte una vera accettazione non si sviluppa mai.
Ognuno di noi ha assistito molte persone nella malattia e le ha accompagnate nel morire.
Per ciascuno si è trattato di un itinerario differente, ma nella nostra esperienza è raro trovare persone
che sono morte disperate.
Di solito si sviluppa nel malato un senso di progressivo abbandono, che procede di pari passo con lo
sfinimento fisico e lo spegnersi delle forze.
Questo però non avviene per la famiglia che spesso, subito dopo la morte, desidererebbe continuare
ad avere vicino il proprio caro, anche nelle tristissime condizioni in cui si trovava.
E' un sentimento che va compreso.
Se, come dicevamo, l'ultima fase della malattia e il momento della morte sono stati vissuti con la
famiglia, non possiamo pensare che sia giusto un distacco totale.
Occorre che medico e infermiera mantengano un rapporto con la famiglia, sebbene con diversa
intensità rispetto al volontario, che ha un ruolo particolarissimo nella fase dell'elaborazione del lutto.
Passare a trovare i familiari, soffermarsi a ricordare alcuni momenti vissuti insieme è un gesto
importante, come lo è informarsi sui loro progetti per il futuro e parlarne.
Noi siamo a servizio delle persone e non delle situazioni, dei regolamenti o delle istituzioni.
Oltre la morte.
A conclusione di questo nostro contributo di esperienza vogliamo ricordare le parole che una giovane
signora ci ha confidato dopo la morte del padre che insieme abbiamo lungamente assistito:
"La sofferenza di mio padre è stato il momento più brutto della mia esistenza.
Col vostro aiuto ho la consolazione di aver fatto per lui tutto ciò che è stato possibile.
So che questo gli è giovato perché me lo ha detto e soprattutto perché non è mai stato tanto affettuoso
con me come durante i mesi della sua malattia.
In vita mia non ho mai parlato così tanto con mio padre.
Questa esperienza di dolore mi ha fatto riscoprire sentimenti perduti, mi ha consentito di ritrovare
la mia famiglia, mi ha fatto rivivere affetti e sentimenti comuni coi miei genitori e i miei fratelli.
Invece di soccombere al dolore, questa è stata un'esperienza che ci ha fatto crescere e diventare
migliori."
Noi riteniamo che esattamente in questo vada riposto il significato delle nostre fatiche:
non consentire che sia la morte a dire l'ultima parola sulla vita.