Seminario (CNR-Pisa, 11/06/2015) Anika Nicolosi

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Seminario (CNR-Pisa, 11/06/2015) Anika Nicolosi
Seminario (CNR-Pisa, 11/06/2015)
Anika Nicolosi
(Università degli Studi di Parma)
Analisi testuale e linguistica di lirici arcaici e adespoti giambici ed elegiaci: ipotesi di ricerca
di applicazione della filologia computazionale al greco antico.
Abstract: Nell’ambito di una ipotesi di ricerca basata sull’applicazione della filologia
computazionale al greco antico, si propone la discussione dei possibili sviluppi di un’analisi
testuale e linguistica compiuta su una scelta di autori greci, partendo dalle rispettive edizioni
moderne di riferimento, con particolare attenzione ai lirici arcaici e agli Adespoti giambici ed
elegiaci. Prendendo le mosse dalle problematiche poste dall’indagine filologica condotta sui
testi, si analizzeranno per mezzo di esempi scelti, aspetti, problemi e metodologie concernenti la
definizione e la codificazione di peculiari valori semantici e di possibili integrazioni testuali.
Premessa
La presente relazione vuole essere una ipotesi di lavoro, ovvero si propone di indagare la
possibilità di applicare i principi della linguistica computazionale anche all’ambito filologico,
con particolare riferimento al greco antico. Scopo di questo seminario sarà quindi mostrare e
cercare di rendere comprensibili anche a studiosi che non hanno familiarità con l’antico i
processi che regolano e determinano l’indagine di tipo filologico sui testi. Per fare ciò farò
ricorso ad alcuni esempi, tratti dalle ricerche da me compiute in questi ultimi anni, che possano
mostrare le diverse tipologie di problematiche che il filologo si trova ad affrontare per definire e
codificare peculiari valori semantici al fine di determinare l’esegesi di un luogo studiato o per
giungere alla proposta di possibili supplementi testuali.
Per quanto riguarda lo studio dei testi antichi, in particolare per ciò che riguarda il greco, un
notevole passo avanti si è compiuto con l’utilizzo oramai su ampia scala delle banche dati
testuali: alcune di esse si potrebbero definire chiuse, cioè costituite da un numero definito di
testi selezionati dai quali attingere attraverso programmi di ricerca creati ad hoc (Musaios,
Workplace), oppure aperte vale a dire in fieri perché in continuo aggiornamento (Thesaurus
Linguae Graecae, TLG on-line). Certo questi strumenti hanno oggi velocizzato molto il lavoro
di indagine di norma compiuto dal filologo nello spoglio incrociato di Dizionari, Lessici,
Concordanze e Indici, e inoltre essi hanno reso accessibili ad un maggior numero di persone
(talora non necessariamente specialisti) un maggior numero di informazioni.
E tuttavia l’introduzione di questi sistemi non ha mancato sin da subito di suscitare qualche
critica, talora anche autorevole, mi limito a ricordare qui un breve quanto celebre contributo di
Enzo Degani, apparso in Eikasmós III (1992) 277s., dal titolo significativo: Il mostro di Irvine
(dal nome della località sede dell’Università della California dove è nato il progetto, direttore
Prof. Theodore Brunner). Dico significativo perché a mio giudizio evidenzia bene la diffidenza
provata dagli studiosi avvezzi allo studio tradizionale dei testi dinnanzi ad un cumulo notevole
di materiale, certo utile, ma che, se non debitamente indagato e interpretato, rischia di avere un
aspetto informe, una “Oceanica Cariddi” (ποντοχάρυβδις)1 per seguire la definizione di
Degani, con ricorso ad un arguto passo del suo autore prediletto, Ipponatte (fr. 126,1 Dg.), nel
quale peraltro il luogo omerico (aspetto non secondario anche ai nostri fini) viene reimpiegato
1
Hapax legomenon e composto πόντος + Χάρυβδις, il celebre mostro marino dell’Odissea, vortice che tutto
ingolla per eccellenza.
1
in chiave parodica in tutt’altro contesto (si tratta infatti del paragone riservato ad un personaggio
che beve e mangia senza misura).
Due i difetti rilevati dallo studioso: 1) l’assenza di apparti critici; 2) la mancanza di
completezza, cioè il non prevedere un’indagine completa, ma di raccogliere solo un numero, pur
ampio, ma comunque parziale, degli autori noti. La mancanza di apparati critici è un limite
oggettivo, anche quando sia esplicitata l’edizione di riferimento. Bastino per spiegare ciò due
esempi opposti: in un caso, potremmo non trovare alcun riscontro del termine da noi cercato in
un dato testo semplicemente perché esso figura come variante testuale (varia lectio) e come tale
è stato collocato solo nell’apparato; di contro, la nostra ricerca potrebbe avere esito positivo, ma
solo perché il vocabolo è stato scelto e collocato a testo dall’editore come emendamento di un
testo corrotto o come supplemento di un testo in realtà mancante; quindi, senza apparto critico
non siamo in grado di conoscere appieno quale sia il reale stato del passo esaminato. Unico
soccorso potrebbero essere i segni critici convenzionali non sempre però rigorosamente
rispettati dagli editori: lettere sottopuntate (lettura incerta), parentesi quadre (lacuna meccanica
+ eventuale supplemento), uncinate (lacuna congetturale + eventuale integrazione), graffe
(espunzione per congettura), semiquadre (sovrapposizione di due tradizioni). Questo non toglie
valore alla ricerca attuata per mezzo di uno strumento informatico, perché stabilisce comunque
rapporti tra testi, valorizza la tradizione degli stessi e permette di indagare le scelte dei diversi
editori, ma inevitabilmente la rende parziale e non esenta lo studioso dalla consultazione
dell’edizione di riferimento; meglio ancora poi se tale indagine viene effettuata anche su più di
una edizione, se si opera cioè un confronto (ovviamente laddove sia possibile farlo). Per quanto
riguarda la seconda obiezione avanzata da Degani, la mancanza di completezza, non è di per sé
un limite invalidante dato che in fondo esso è lo stesso presentato dalle raccolte cartacee,
sempre inevitabilmente parziali e datate, ed anzi un corpus ristretto ha il vantaggio di veder
esplicitamente dichiarati i propri confini e di poter essere progressivamente aggiornato.
Come si può quindi ben capire, non si è criticato tanto lo strumento in sé quanto piuttosto la
sua limitatezza, si può dire che si è compreso sin da subito l’importanza dell’inscindibile
rapporto uomo-macchina, vale a dire la necessità di integrare la ricerca strumentale con le
competenze umane, in altre parole potremmo dire noi oggi, la necessità di dotare lo strumento
delle competenze umane necessarie per avvicinarsi sempre più ad una corretta indagine testuale.
Alcuni esempi
Gli esempi che ho scelto di presentare riguardano, come ho detto, le ricerche da me compiute
negli ultimi anni, si tratta quindi di ipotesi tutte pubblicate in riviste di settore o in monografie.
Inevitabile quindi che essi si focalizzino su alcuni autori in particolare della lirica greca arcaica
che da sempre occupano i miei interessi: Archiloco e Ipponatte. Ma è chiaro che molte di queste
ipotesi potrebbero applicarsi anche ad altri autori, prosa compresa, magari con qualche
accorgimento dovuto al diverso materiale a disposizione (testimoni, ampiezza del testo, assenza
del metro, etc.).
Il primo caso (Slides 2-3)2 riguarda il valore semantico da attribuire ad un determinato
vocabolo in un determinato contesto: la stessa forma può assumere infatti significati differenti e
questo può determinare un’ambiguità nell’esegesi di un testo frammentario. Ho scelto un
frammento breve e molto noto di Archiloco (giambografo arcaico, VII sec. a.C., autore anche di
elegie) il fr. 2 nell’edizione di West3 (= fr. 2 Nicolosi):
ἐν δορὶ μέν μοι μᾶζα μεμαγμένη, ἐν δορὶ δ’ οἶνος
Ἰσμαρικός· πίνω δ’ ἐν δορὶ κεκλιμένος.
v. 1 μοι Synes., om. Athen. : τοι Suda υ 441 A. | μεμαχμένη dub. West, cf. Ar. Eq. 55 || v. 2 δ’ om. Synes.
2
3
Vd. Nicolosi 2005a, 35-40; Nicolosi 2013, 25, 41, 61-68.
West 19892 ad l. (= IEG I2).
2
«Nella lancia è per me la focaccia impastata, nella lancia il vino
d’Ismaro, nella lancia il bere stando reclinato a simposio».
Dietro un’apparente semplicità ed immediatezza, il distico rappresenta un idoneo esempio
dell’abilità compositiva del poeta di Paro, tanto è vero che l’esegesi del frammento, è stata
oggetto di numerosi studi: se, infatti, i primi due elementi dell’anafora ἐν δορί al v. 1 paiono
limpidi nel costrutto sintattico, ciò non accade per il terzo e ultimo. Una delle maggiori
difficoltà riguarda proprio la valenza da assegnare al termine δόρυ, in forma di dativo singolare
epico e poetico δορί (equivalente di δόρατι, δούρατι, δουρί): le due principali ipotesi
interpretative oscillano tra il significato tradizionale di ‘lancia’ (già epico, attestato, ad es., in
Hom. Il. II 382, V 40, etc. e Od. X 162, XI 532, etc.) – talora anche attribuendo al nesso il
valore metaforico ‘in armi’, ‘sotto le armi’ – e quello ugualmente attestato, pur se meno
frequente, di ‘legno della nave’ e quindi, per metonimia, ‘nave’ (più raro, ma anch’esso
attestato, in Hom. Il. XV 410, XVII 744 e Od. IX 384). Entrambe le ipotesi potrebbero in
astratto essere plausibili. Per cercare di prendere una posizione è necessario tenere nel debito
conto la funzionalità della citazione nei testimoni, la modalità creativa dell’autore, il rapporto
col modello omerico e la trasfigurazione del reale che attraverso tale rapporto si realizza,
nonché l’ipotizzabile occasione dell’esecuzione poetica. L’esegesi di nave fu sostenuta da
Bruno Gentili4, e muove da una peculiare lettura di uno dei due principali testimoni (l’altro è
Athen. I 30f), Sinesio (Epist. 130 Hercher [= Garzya; Garzya-Roques], del 405 d.C.); in
particolare un passo in cui leggiamo l’accusa rivolta a Ceriale per aver trovato rifugio
dall’assedio della città su di un’imbarcazione ancorata al largo e disporre ordini da quel luogo,
senza impegnarsi di persona nel conflitto (ll. 46ss.). Il contesto navale cui brevemente si
accenna in questa parte del testo porta lo studioso a proporre anche un legame tra il distico in
questione e il fr. 4 W.2 (= fr. 10 Nicolosi), in cui si fa esplicito riferimento ad una veglia
consumata sulla tolda di una nave. Il significato di ‘nave’ è stato quindi accolto da quanti, sulle
orme di Gentili, individuano nel nesso ἐν δορί la definizione del luogo sopra il quale (ἐν + dat.
= stato in luogo) il soggetto compie il rito simposiale della bevuta.
Tale spiegazione non appare però realmente avallata dal contesto dell’epistola di Sinesio. Si
possono infatti individuare nel medesimo testimone alcuni luoghi significativi per sostenere
invece l’interpretazione tradizionale di “lancia”, meno immediato dal punto di vista
grammaticale, ma forse ben più significativo per il nostro frammento. Nel racconto all’amico
Simplicio fatto dalle mura della città assediata da tribù nemiche (ll. 28s. τειχήρης γάρ εἰμι καὶ
πολιορκούμενος γράφω), Sinesio lamenta la difficile situazione presente, contrapposta alla
perduta serenità (l. 33 πάντα ἔρρει); la narrazione prosegue con una cupa immagine di guerra,
che fa da cornice alla descrizione della propria contingente condizione di uomo d’armi, costretto
a combattere col sonno mentre svolge il compito di scolta tra le torri della cinta muraria (ll. 36s.
ἐγὼ δὲ ὑπὸ μεσοπυργίῳ τεταγμένος ὑπνομαχῶ). La citazione del distico archilocheo (ll.
38s.) si inserisce proprio a questo punto della lettera ed è seguita da un’amara considerazione da
parte di Sinesio circa la sua personale vicenda, assimilata a quella del poeta di Paro (ll. 40s.):
οὐκ οἶδ’ εἰ μᾶλλον Ἀρχιλόχῳ (-ου Lobel) προσήκοντα ἦν ταῦτα εἰπεῖν. È evidente che il
richiamo ad Archiloco implica, per il cireneo, una stretta analogia di situazione, un paragone
diretto tra la propria attuale condizione e quella descritta nel fr. 2 W. 2 (= fr. 2 Nicolosi):
un’esperienza di guerra vissuta, in prima persona, sulla terraferma. D’altra parte il frangente
bellico di Sinesio, impossibilitato a scrivere versi perché totalmente assorbito da una guerra
difensiva entro le mura della città assediata (ll. 57-60), trova un significativo riscontro in
Archiloco, che lamenta la propria condizione di poeta-soldato, costretto a sostituire il simposio,
luogo della performance poetica, con la lancia, oggetto che emblematicamente rappresenta il
preponderante impegno militare. Tutto ciò può quindi far propendere per l’attribuzione a δόρυ
4
Gentili 1965, 129-134.
3
del significato di ‘lancia’, oggetto che, assieme al vino d’Ismaro e alla focaccia impastata, è
rievocato proprio in relazione alla vita militare. Questa interpretazione pare confortata anche da
uno scolio di Hybrias (Carm. conv. fr. 26 [PMG 909] P.): dove si fa esplicito riferimento alla
lancia, alla spada ed allo scudo come strumenti con cui guadagnare il proprio sostentamento,
sostituti metaforici degli attrezzi di lavoro dell’agricoltore.
Il passo successivo sarà poi sciogliere la contestata durezza del presunto nesso πίνω δ’ ἐν
δορὶ κεκλιμένος, operazione possibile se si separa il nesso ἐν δορὶ da κεκλιμένος: il verbo
κλίνομαι assume spesso valore ‘tecnico’ nel gergo simposiale, perciò è plausibile che il
participio valga già da solo ad indicare la posizione distesa che caratterizza il simposiasta (cf.,
ad es., Simon. fr. eleg. 22,14 W.2, Hdt. I 211,2, IX 16,1, Eur. Cycl. 360 e 543, Theocr. 7,66 e
132s.); il presente πίνω indicherà un’oggettiva considerazione, non priva di rimostranza, circa
la presente situazione di guerra che si è sostituita, almeno nelle parole del poeta, al simposio,
alla possibilità di bere stando ‘reclinato’. Insomma, Archiloco non rievoca un passato felice, e
neppure mostra, in sostanza, di accettare con serena rassegnazione una condizione di vita
cogente e immutabile; egli sembra piuttosto lamentare, con piglio apparentemente
recriminatorio, ma non senza arguta ironia, ciò che la situazione di guerra, reale o fittizia che
sia, gli ha sottratto. Il distico archilocheo mostra ineludibili richiami al contesto simposiale, ma
probabilmente il riferimento è volutamente polemico, secondo il costume più proprio del poeta
di Paro: il referente concettuale è, come spesso, il valore guerriero canonizzato da Omero, ma
qui, come altrove, esso conosce una nuova codificazione, che si attua attraverso uno studiato
capovolgimento dell’orizzonte eroico, secondo le modalità proprie del serio-comico. Archiloco
ha dunque posto «il simposio nelle armi»5; anzi, le armi si sostituiscono al simposio,
rappresentano l’unica prospettiva possibile per il poeta-soldato, che stravolge un connubio
consolidato nell’epos, quello del simposio come sfoggio di ricchezza e potere conquistati con la
lancia, per ironizzare su di sé, in ambito conviviale6.
In questo caso quindi solo la scelta dell’interprete, basata però come si è visto su di uno
spoglio ragionato di diversi elementi interni ed esterni al testo, può determinare il valore da
assegnare al termine stesso nel tentativo di restituire non solo una semplice traduzione, ma la
pointe arguta insita nel frammento.
Il secondo esempio (Slides 4-5)7 riguarda un’ambiguità semantica che può invece indurre in
errore, come accade per il termine ἀκρασία. Il medesimo vocabolo è attestato sia con alpha
lunga (ᾱ) sia con alpha breve (ᾰ). Nel primo caso, il termine deriva da ἄκρᾱτος, forma a sua
volta derivata da κεράννυμι («mescolare») preceduto da alpha privativa, modalità con cui il
greco nega quanto detto nella radice, quindi «non mescolato»: il termine ἀκρασία con alpha
lunga viene tradotto in Montanari 20133 ad l. con «cattiva mistura». Nel secondo caso, il
termine deriva da ἀκρᾰτής, a sua volta derivato da ἀ + κράτος, quindi «privo di forza,
debole», ma anche «privo di controllo, che non ha potere» e per traslato «intemperante,
dissoluto»: il termine ἀκρασία con alpha breve viene questa volta tradotto con «dissolutezza»,
di fatto il significato più comune del vocabolo, che è però attestato un’unica volta in poesia
(Marc. Arg. AP V 105,2 [GPh 7]); tale termine assume poi valore morale dei testi cristiani dove
si traduce con «intemperanza, incontinenza» (NT Cor. 1,7,5, al.); per il valore di «debolezza,
sfinimento», di fatto meno usuale (anche se attestato come termine tecnico in Ippocrate ad
indicare una situazione di ‘spossatezza’ fisica dovuta a malattia) il GI rimanda al più comune
ἀκράτεια (con alpha breve) per il quale è attestato anche il valore di “incontinenza,
intemperanza”. Ora il termine, con forma ionica ἀκρασίη (con eta finale in luogo di alpha e
con assibilazione, ἀκρᾰτία > ἀκρᾰσίη), ha la sua prima attestazione in un frammento della
lirica greca arcaica di dubbia paternità, attribuito o ad Archiloco o a Ipponatte (io propendo per
5
Pavese 1995, 335-340.
Da segnalare la sticomitia tra Diceopoli e Lamaco in Ar. Ach. 1118-1139, in particolare i vv. 1134-1139.
7
Nicolosi 2007, 32s. e 75s.
6
4
l’attribuzione a Ipponatte, VI sec. a.C.), il fr. °194 Dg. = *115 W.2 (testimone P.Argentor.
3a,1-16)8 dove al v. 12 leggiamo:
κείμενοϲ ἀκραϲίηι
«disteso per lo sfinimento»
La struttura metrica dell’epodo, costituita da trimetro giambico alternato ad hemiepes, toglie
ogni dubbio sulla natura breve di alpha, si tratta infatti di un hemiepes completo. Il vocabolo ha
quindi indubbiamente nel contesto il primo significato di ἀκρᾰσίη / ἀκράτεια («debolezza»),
dato che la ‘stanchezza’ è propria già di Odisseo naufrago in Hom. Od. V 457 (cf. anche Od. V
468). Eppure il luogo è collocato erroneamente nel primo interpretamentum proposto dal GI,
vale a dire sotto il lemma ἀκρασία con alpha lungo. Si tratta ovviamente di un refuso che
inficia però la comprensione e che testimonia l’ambiguità esegetica e i rischi che può
comportare la mancata verifica sul testo di ciascun termine lemmatizzato.
Il terzo esempio (Slides 6-7)9 riporta invece un caso di riuso in autori, contesti e tempi
differenti di una stessa espressione variata, talora con uso metaforico. In Hippon fr. °194 Dg. (=
*115 W.2)10 al v. 15 leggiamo:
λ[ὰ]ξ δ’ ἐφ’ ὁρκίοιϲ’ ἔβη
«e calpestò i giuramenti»
La colpa commessa dallo spergiuro, è espressa col ricorso ad una locuzione che assume da qui
in poi tenore proverbiale, ma che originariamente nell’Iliade indica il gesto concreto e
sprezzante del guerriero che toglie l’arma (o le armi) dal corpo del nemico ucciso (cf. ad es. V
620s., VI 65, etc.). Tale locuzione, a torto giudicata da alcuni interpreti banale, assume nel
frammento preso in esame un nuovo significato metaforico, che diverrà poi archetipico per
indicare l’atteggiamento arrogante di chi ha contravvenuto ad un giuramento o, in generale, ad
un rapporto regolato da giustizia (δίκη). Il raffronto più immediato, che ha implicato anche non
poche questioni circa l’attribuzione stessa del nostro testo, è con la violenta invettiva politica
pronunciata da Alceo nel fr. 129 V.: in particolare col v. 23 ἔ]μβαιϲ ἐπ’ ὀρκίοιϲι. Secondo
alcuni studiosi, il verso sarebbe un argomento probante circa la paternità archilochea
dell’epodo, essendo probabile che Alceo, qui come altrove, imiti Archiloco. Tuttavia il
frammento alcaico sembra presentare un percettibile scarto rispetto al riuso del modulo iliadico
attuato nel nostro epodo, riflettendo piuttosto altri luoghi omerici affini, come ad es. IV 157
κατὰ δ’ ὅρκια πιστὰ πάτησαν. Per contro, nel più ampio ed oscuro frammento di Ipponatte
che ci sia pervenuto, il fr. 107 Dg. (tramandato da P.Oxy. 2175 frr. 3-4 e citato da Ateneo,
limitatamente ai vv. 21s. in XV 690 a-b e ai vv. 47-49 in IX 369f-370e) al v. 13 leggiamo: ]ν ἐν
τῆι γαϲτρὶ λὰξ ἐνώρουϲα («gli balzai sul ventre col tallone»), la fisicità dell’immagine
omerica è conservata, ma subisce un inatteso mutamento d’uso, rappresentando una grottesca
lotta tra il poeta ed un avversario. Il valore metaforico dell’espressione, presente anche nel testo
ipponatteo da cui prende le mosse la nostra indagine, appare attestato, in versione proverbiale,
anche in due luoghi di Teognide (vv. 815 ποδὶ λὰξ ἐπιβαίνω e 847 λὰξ ἐπίβα δήμῳ), che
confermano pure la tmesi riscontrabile nell’epodo. In Eschilo la locuzione appare oramai
consolidata nella specifica accezione presente nel nostro testo, esprimendo in modo esplicito il
contravvenire ai principî imposti da Giustizia: Choe. 642-645 West ed Eum. 539-543 (cf. anche
Eum. 110, dove l’accusa di Clitemestra riguarda la mancata corresponsione degli dèi ai giusti
sacrifici compiuti dalla donna). In seguito, l’immagine conosce numerose attestazioni: si
possono ricordare Ap. Rh. II 220s. e Theocr. 26,23, sino a Gregorio di Nazianzo (autore che
molto risente dei testi arcaici, in particolare dei lirici) che nel De humana natura (Carmina I 14)
8
Editio princeps in Reitzenstein 1899, 857ss.
Vd. Nicolosi 2007, 84-87; Nicolosi 2006, 341-344.
10
Editio princeps in Reitzenstein 1899, 857ss.
9
5
ai vv. 101s. [PG XXXVII 763,7s. Migne] utilizza la medesima espressione per simboleggiare la
vittoria del Maligno sull’animo umano: οὗτος ὁ βρισαύχην με καὶ ὕπτιον ὦσεν ὀπίσσω / λὰξ
ἐπέβη. Sempre con significato metaforico, ma in contesto amoroso, l’espressione ricorre anche
in Meleag. AP XII 48,1 (HE 16) λὰξ ἐπίβαινε κατ’ αὐχένος e Paul. Sil. AP V 268,3s. μοι /
λὰξ ἐπιβάς στέρνοις πικρὸν ἔπηξε πόδα: l’entità che compie il sopruso in questi casi è Eros
(cf. Prop. I 1,4 et caput impositis pressit amor pedibus). Infine si può ricordare un tetrametro, di
dubbia attribuzione, citato da Plutarco (Cohib. ira 457c), dove, nel riportare esempi di ira mal
controllata, l’autore menziona un frammento anonimo (Adesp. ia. fr. 36 W.2 βαῖνε λὰξ ἐπὶ
τραχήλου, βαῖνε καὶ πέλα χθονί) che parrebbe essere un incoraggiamento rivolto ad un
contendente durante una lite. Si può quindi ricordare il frammento di Ipponatte (fr. 107 Dg.)
menzionato in precedenza e ipotizzare un possibile legame tra i testi, forse di argomento affine e
probabilmente dello stesso autore, anche se il metro è differente.
Infine tra le riprese, merita particolare attenzione anche Eronda, noto epigono ipponatteo,
dove nel mimiambo ottavo al v. 58 troviamo: λὰξ πατε[ (e.g. πατέ[ων Herzog vel πατέ[οντα
Knox). Il passo, pur lacunoso può essere considerato una vera e propria σφραγίς ipponattea,
grazie anche all’uso di λὰξ monosillabo dopo cesura, esattamente come nell’epodo di
Strasburgo da cui abbiamo preso le mosse. Oltre all’inconfutabile dato linguistico, si dovrà
tenere in debito conto il contesto in cui il nesso λὰξ πατεῖν viene utilizzato: l’epigono
ipponatteo, nel dar voce al proprio modello, si avvale della forte carica allusiva dell’espressione,
già fortemente connotata nel testo dell’epodo rispetto all’ipotesto omerico, riutilizzandola però
con ben altro significato, nell’àmbito di una dichiarazione di carattere programmatico pertinente
alla poetica dei suoi Mimiambi.
Nel quarto esempio (Slides 8-9)11, invece, l’analisi semantica e il confronto tra gli utilizzi di
un termine in più autori può giovare nel formulare una ipotesi di supplemento. Nel fr. 196a W. 2
di Archiloco, all’inizio del v. 30 si è soliti accogliere il supplemento ἥβ]ηϲ (Lebek) 12, ma si può
sostenere anche ἄτ]ηϲ di Snell (ibid.):
ἄτ]ηϲ δὲ μέτρ’ ἔφηνε μαινόλιϲ γυνή
«di cecità] mostrò il colmo, pazza donna»
In effetti, il nesso ἥβ]ηϲ μέτρα (vel -ον) ha molte attestazioni sin dall’epos (Hom. Il. XI 225 ≅
Hes. fr. 205, 2 M.-W., H. Cer. 166 [≅ Hes. Op. 132], Hes. Op. 438 [= Theogn. 1119], Theogn.
1326): esso ha però sempre valore positivo, indica la ‘pienezza della giovinezza’. Nel nostro
caso, invece, dovrebbe avere valore negativo ed indicare ‘i confini della giovinezza’; ma (come
notava Degani 1977a, 17), «il motivo dell’età non più giovane della donna si è già concluso»
nei versi precedenti, ora se ne spiega il motivo: la follia amorosa di Neobule, non a caso definita
μαινόλιϲ γυνή (v. 30).
Molto più seducente risulta, perciò, ἄτ]ηϲ (Snell), ignorato nell’apparato critico di West (IEG
I2, 77a). Il supplemento introduce infatti un termine che proprio il confronto con Omero
accredita come attendibile. Il passo in questione è Hom. Od. IV 259-264. Si tratta delle parole di
Elena, che, nel narrare a Telemaco, in presenza del marito Menelao, le astuzie di Odisseo nel
corso della guerra troiana, conclude il suo racconto con un’amara considerazione circa la
propria vicenda personale: vv. 261s. ἄτην δὲ μετέστενον ἣν Ἀφροδίτη / δῶχ(ε). In questi
versi, l’avvenente eroina – destinata ad essere assunta, in Sapph. fr. 16 V., come paradigma
dell’invincibile potenza di Afrodite – allontana da sé ogni colpa volontaria, dichiarandosi
semplice strumento sottoposto al volere della dea. Già in Hom. Il. III 414s., al rifiuto di Elena,
che teme il biasimo delle donne troiane qualora facesse ritorno al talamo dello sconfitto Paride
(vv. 411s.), Afrodite oppone la propria predilezione per la bella donna e ne fa strumento di
minaccia per costringerla a piegarsi nuovamente al suo volere. Nel passo dell’Odissea sopra
11
12
Vd. Nicolosi 2005b, 243-259; Nicolosi 2007, 216-218.
Proposto in Merkelbach-West 1974, 107.
6
citato appare chiara la natura di ciò che è ἄτη: un traviamento dell’intelletto, una sospensione
della volontà individuale determinata dall’intervento divino dato che il termine in Omero non
contempla ancora l’accezione specifica di ‘rovina’ quale assumerà poi nella tragedia. Anche la
Neobule del nostro luogo d’Archiloco, come denuncia l’irrisoria e sprezzante locuzione con cui
si conclude il v. 30 dell’epodo, è vittima di follia amorosa, di accecamento irrazionale. Il
supplemento ἄτ]ηϲ si raccomanda, pertanto, come particolarmente congruo. A supporto di esso,
si può citare un passo di Apollonio Rodio (III 793-798) là dove ἄτη si identifica
sostanzialmente con μαργοσύνη: vv. 796-798 ἥ τις δῶμα καὶ οὓς ᾔσχυνε τοκῆας /
μαργοσύνῃ εἴξασα … / ὤ μοι ἐμῆς ἄτης. Nel compiangere il proprio destino, Medea, prima di
cedere al funesto sentimento amoroso per Giasone, ripropone, in un toccante monologo, quegli
argomenti che nel passo odissiaco Elena adduceva a motivo della propria renitenza ad obbedire
al volere della dea: come l’eroina omerica cede al volere di Afrodite, così Medea è accecata da
Eros, poco prima definito μάργος (III 120).
In un peculiare luogo d’Omero, d’altronde, il termine ἄτη viene associato a follia amorosa e
specificamente a μαχλοσύνη. Si tratta di Hom. Il. XXIV 28-30, dove si narra che, al consenso
di tutti gli dèi, decisi ad aver pietà per il corpo di Ettore, si oppongono Era, Poseidone ed Atena,
ancora irati contro Ilio, Priamo e il suo popolo a causa della colpa commessa da Paride
(Ἀλεξάνδρου ἕνεκ’ ἄτης), il quale aveva offeso le dee, venute a giudizio alla sua capanna,
assegnando la palma della bellezza a quella che gli aveva promesso la ‘dolorosa lussuria’
(μαχλοσύνην ἀλεγεινήν). È, questo, l’unico accenno alla vicenda del giudizio di Paride
presente nei due poemi omerici: la colpa, cui così sbrigativamente accenna il passo iliadico,
implica il dono da parte della dea Afrodite, che ricompensa il giovane troiano concedendogli i
favori della sua prediletta, Elena. Se è vero che egli ottiene in sorte dalla dea la più bella tra le
donne, ciò che importa qui porre in risalto è la smodata passione amorosa che, accecando la
mente di Alessandro, lo induce a rapire la consorte di Menelao, comportando come conseguenza
una guerra decennale. Anche in questo caso, il termine ἄτη non indica semplice ‘rovina’, ma
‘follia amorosa’ infusa da Afrodite, come conferma il rapporto con μαχλοσύνη.
Alla luce dell’impiego di ἄτη nei luoghi omerici esaminati, soprattutto in Od. IV 261, non
sembra improbabile che l’utilizzo del termine da parte di Archiloco, al v. 30 del nostro epodo,
celi una voluta allusione alla vicenda di Elena. Nel prefigurare il rischio d’una disavventura
matrimoniale, Archiloco fa propria la più consolidata tradizione misogina greca, raffigurando la
fedifraga Neobule come una novella (e sfiorita) Elena, colei che, mossa da insane passioni, osò
abbandonare patria, sposo e i cari genitori. Non senza intenti ironici volti a suscitare il riso degli
astanti, il poeta esorcizza un’eventualità di per sé seria, qual è l’infedeltà di una moglie,
servendosi di un’eloquente allusione che, senza stravolgere il modello, lo riutilizza sfruttandone
le più radicali potenzialità espressive.
Il quinto esempio (Slide 10)13 propone invece un procedimento differente che interessa spesso
l’operato del filologo. Qui non si tratta di spiegare un termine dato, ma piuttosto di ipotizzare un
possibile supplemento testuale. Un testo, ad es. papiraceo, può presentare lacuna meccanica e
richiedere quindi una ipotesi per colmare il verso stesso o solo parte di esso. Ovviamente ciò
può essere fatto solo rispettando alcune regole che permettano di formulare ipotesi attendibili: il
dialetto usato dall’autore, il metro (se si tratta di poesia), il contenuto, l’usus scribendi (ossia lo
stile) dell’autore stesso. Di norma il filologo procede sulla base della propria esperienza e
sensibilità, ma forse le regole da seguire possono diventare dei parametri. Ho scelto un caso
particolarmente disperato, dove la lacuna è particolarmente ampia. Si tratta del v. 1 del fr. °195
Dg. = *116 W.2 (testimone P.Argentor. 3a,17-19)14 dove leggiamo:
κάτε[ . . . . ]οι κλε[ . . . . . . . . ]ονν . τίδι
13
14
Vd. Nicolosi 2007, 97-99, 102-104.
Editio princeps in Reitzenstein 1899, 857ss.
7
Come indica la presenza sul margine sinistro del supporto papiraceo di un segno di
paragraphos, fors’anche accompagnata da coronide, siamo ad inizio di un componimento del
quale conserviamo solo tre lacunosissimi versi. Per colmare la prima lacuna, si potrebbe
suggerire κατε[ῖλε vel κατε[ῖλον, come in Hippon. fr. 89,12 Dg. κ]ατεῖλ[, un mutilo
frammento ossirinchita in cui il nome di Bupalo compare ben tre volte (vv. 3, 4, 16; cf. anche
Herond. 1,53); oppure κάτε[ιπέ μ]οι, un invito al racconto, usuale nei concitati dialoghi delle
commedia aristofanea (cf. ad es. Eq. 1339, Nub. 170, 478, Pax 657, etc.), che costituirebbe un
incipit eroicomico simile a quello di Hippon. fr. 126,1-3 Dg. Μοῦσα μοι … / … / ἔννεφ(ε). Per
ciò che segue in lacuna, una successione di lettere che non dà alcun senso compiuto (]οι κλε[),
si potrebbe ipotizzare κάτε[ιπέ μ]οι κλέ[οϲ (vel κλέ[ποϲ) κτλ. (cf. Adesp. ia. fr. 56 W.2).
Nel caso successivo (Slide 11)15 ci occupiamo invece di un tipo di testo differente, non un
testo letterario in senso stretto, quanto piuttosto di un commento antico ad un componimento
poetico dal quale ricaviamo parti del componimento stesso, presenti sotto forma di lemma
seguiti da explicatio: un hypomnema, riportato da P.Oxy. XVIII 2176 (MP3 551; LDAB 1317)16,
datato al sec. II d.C., e costituito da 24 frustoli di varia dimensione, riferibili a più
componimenti ipponattei. Si tratta di cosa non comune per i giambografi arcaici, ed è
significativo che riguardi Ipponatte, autore caro all’erudizione antica, come testimonia la
corrispondenza con frammenti noti da altre fonti. L’aspetto da rilevare in questo caso è la
possibilità di supplire il testo o correggerlo grazie al ricorso ai lessici antichi, in questo caso
Esichio. In particolare, interessa qui analizzare il fr. 6 (= fr. E Dg.; D W.2), che costituisce un
ampio spezzone di commentario, di impronta erudita, contenente una sorta di parafrasi
esplicativa del testo. La facies del commentario appare assai lacunosa: nella parte iniziale si
parla di una ‘cavità’ (r. 3), quindi di ‘forni’ e ‘fornaci’ (rr. 4s.), nonché di farina impastata (rr.
6s.) e, probabilmente, di croste bruciacchiate (rr. 10ss.). Il contenuto del frammento è oscuro e
non è facile individuare con certezza lemmi appartenenti al poeta di Efeso: tra questi, tuttavia, è
senz’altro da annoverare φλο]γώματα (r. 10). Il supplemento, proposto da Tammaro17 e accolto
da West (IEG I2, 154), appare decisamente preferibile a περιτ]ώματα (Latte). Si tratta, come
spiega Degani18, dell’«ennesimo hapax ipponatteo […] indicava le parti bruciacchiate del pane
che restavano nel forno (rr. 10-12), più in generale la crosta bruciacchiata»: la glossa di Esichio
alla quale fa riferimento lo studioso è φ 635 H.-C. s.v. φλογώματα· τῶν ἄρτων τὰ
ἐπικεκαυμένα. La spiegazione del vocabolo fornita nell’hypomnema è la seguente (rr. 10-13):
«croste bruciacchiate (φλο]γώματα): le parti (scil. dei pani) abbrustolite ai bordi lasciate nel
fornetto ... bolle, che alcuni (chiamano) crosticine (ἀττάραγοι)».
Nel sopralineo del r. 12 si scorgono reliquie di una nota, in parte di dubbia decodificazione, la
cui funzione è verosimilmente quella di spiegare il termine ἀττάραγοι: Maas proponeva di
integrare τὰ κεκλα]ϲμένα τ(ῶν) ἄρτων, ma più confacente al contesto sarebbe τὰ
κεκαυ]ϲμένα τ(ῶν) ἄρτων, dato che, com’è noto, κέκαυσμαι è forma che concorre con
κέκαυμαι, cf. schol. Opp. Cyn. IV 108 (vd. anche Et. M. 493, 44s. e Hp. Int. 28). In questo
modo la nota del sopralineo risulta affine all’interpretamentum della glossa esichiana (φ 635
H.-C.) sopra citata.
L’ultimo esempio di questo tipo (Slides 12)19 non è mio ma l’ho tratto da una intuizione di uno
dei due principali editori di Ipponatte, West, l’altro è ovviamente Degani. Dopo aver ipotizzato
la ricostruzione del testo col ricorso ad altri testi, sulla base di parametri ben precisi legati
all’usus scribendi dell’autore, metro, dialetto, etc., il passo successivo è ipotizzare una
15
Vd. Nicolosi 2012, 49-50.
Editio princeps in Lobel 1941, 87-96 e 184-185.
17
ap. Degani 1980-1982, 50 n. 8.
18
Degani 2007, 137.
19
Vd. Nicolosi 2007, 108s., 126s.; Degani 2007, 16s., 85.
16
8
ricostruzione del testo ponendo in relazione testi di uno stesso autore. In Hippon. fr. °197 Dg. (=
*117 W.2)20 al v. 10 leggiamo:
ἐκεῖνοϲ ἤμϲέ[ν ϲε ‒  ‒  ]ηϲ
«quello spogliò (te) […]»
Si deve innanzitutto considerare che ἀμέρδω è verbo epico (cf. ad es. Il. XXII 58, Od. VIII
64, [Hes.] Sc. 331, H. Cer. 312, etc.), utilizzato in Il. XVI 53s. per descrivere l’ αἰνὸν ἄχος, il
sopruso compiuto da Agamennone, che angustia il cuore di Achille; l’autore dell’epodo
potrebbe dunque aver impiegato il vocabolo per mostrare, l’intenzione di creare un contrasto
comico tra la solenne dizione epica e la prosastica banalità dell’assunto. La lacuna è colmata da
West (IEG I2, 151) con ἤμερϲέ[ν ϲε τῆϲ ἀπαρτί]ηϲ: il supplemento, forse audace ma
plausibile, introdurrebbe un vocabolo presente anche in Hippon. fr. 15 Dg. ἀκήρατον δὲ τὴν
ἀπαρτίην ἔχει («immacolato possiede il mobilio»). Quest’ultimo frammento ipponatteo, citato
da Polluce (X 18s.) proprio per spiegare la peculiare voce ἀπαρτίη, che indica i ‘beni mobili’
(cf. anche Hesych. α 5816 L. s.v. ἀπαρτία), probabilmente propone, una situazione simile a
quella in cui si trova Stenelo in Ar. Vesp. 1313 (‘spogliato del vasellame’): si deve quindi
ipotizzare che i mobili ‘immacolati’ siano in realtà ‘vuoti’ e ad una ruberia in effetti si riferisce
anche il fr. °197 Dg.
Infine (Slides 13-14) qualche semplice considerazione sulla possibilità di individuare la
paternità di un testo partendo dal confronto con termini noti di un dato autore. Il fr. Adesp. eleg.
62 W.2 (= Archil. fr. 5 Nicolosi)21 è costituito da lacerti di un testo di argomento guerresco
dubitativamente attribuito dall’editor princeps (Lobel)22 ad Archiloco. Come garantisce l’ampio
margine superiore nel papiro (P.Oxy. XXX 2508; LDAB 315; MP3 135.1), si tratta della parte
iniziale di una colonna di scrittura, non coincidente con inizio di componimento, giacché la
porzione superstite comincia con un pentametro. Il testo non mostra specifici contatti con la
lingua del poeta di Paro, ma contiene locuzioni e termini di ascendenza epica, una modalità
espressiva che ben si adatta alla produzione archilochea.
Al v. 3, è probabile il nesso μ]ν γάρ, usuale nell’epos e attestato anche in Archil. fr. 196a,36
W.2; al v. 6, il discusso ] . τείνηιϲι potrebbe forse essere una forma di dat. in -ηιϲι, attestata in
Archil. frr. 89,21, 98,14 e 193,2 W.2 (cf. anche Opp. H. II 410 ϲτεινῆιϲι καταπτήξαϲ ἐν
ἀγυιαῖϲ), o più probabilmente una forma verbale, cf. Ap. Rh. IV 1581 ἔϲτ’ ἂν ἄνω τείνηιϲι
(«stretches Carystian» Gerber); al v. 11, ]δυϲμενέων è aggettivo di uso epico attestato con
valore sostantivato in Archil. frr. 6 e 7,1 W.2; al v. 13, ad integrazione della lacuna iniziale si
potrebbe ipotizzare e.g. τ]ῶνδ(ε), cf. Archil. fr. 91,25 W.2, vel τοι]ῶνδ(ε) (cf. anche Archil. fr.
51,6 W.2); al v. 16, ]ϲ̣ ἐχέτω δόμο[ è sicura una voce di δόμοϲ (cf. e.g. Archil. fr. 140,8s. W.2)
preceduto da un imperativo.
In particolare, vale la pena di soffermarsi sul v. 5 ] . αϲ ἀϲπίδαϲ ἀντ[ (cf. Archil. frr. 5,1 e
139,1 W.2). Dopo la lacuna iniziale, West (p. 14)23 individua un probabile segno d’accento
(«fort. ] »), mentre dopo ἀϲπίδαϲ il testo reca αμ[ con ντ[ soprascritto. West stampa a testo
ἀντ[ (così già Tarditi), ma ben si potrebbe mantenere ἀμ[, scil. ἀμ[ιβρόταϲ, sulla scorta del
nesso attestato in Hom. Il. II 389 (= XII 402 e XX 281) ἀσπίδος ἀμφιβρότης e XI 32
ἀμφιβρότην πολυδαίδαλον ἀσπίδα. L’annotazione nel sopralineo potrebbe essere frutto di un
fraintendimento, o forse un’indicazione con la quale il chiosatore avrà voluto esplicitare e nel
contempo sottolineare (cf. e.g. Aristot. Pol. 1283a 15-17, scholl. ad Hes. Th. 229,1s. e
soprattutto Ael. Tact. 36,7,2-6) la funzione di difesa dello scudo implicita nel ricercato
composto: l’interesse erudito per l’aggettivo (‘che circonda’ e quindi ‘che protegge’) è infatti
20
Editio princeps in Reitzenstein 1899, 857ss.
Vd. Nicolosi 2013, 27, 42, 87-92.
22
Editio princeps in Lobel 1964, 2-4.
23
West 19922 ad l. (= IEG II2).
21
9
evidenziato dagli scholl. ad Hom. Il. II 389, XI 32 e XII 402 ἀμφιβρότης· τινὲς βροτὸν
περιεχούσης.
Conclusioni
Una ricerca di tipo tradizionale sul testo antico pone quindi diversi aspetti e problematiche
linguistiche ed esegetiche delle quali si deve tener conto, due delle quali sono di particolare
rilievo: da un lato, l’importanza di definire il valore semantico di un termine in un dato contesto,
dall’altro, la possibilità di attuare supplementi testuali sulla base di ben precisi criteri. Il titolo
del mio intervento azzardava però anche un accostamento tra filologia e calcolo scientifico,
l’ipotesi cioè che questo tipo di indagine possa essere inserito in «un modello computazionale
sofisticato che sia in grado di gestire ed estendere aspetti non banali» – puramente quantitativi
aggiungerei – «dell’uso linguistico»24, superando così, almeno in parte, diffidenze e pregiudizi.
Riferimenti
Degani 1980-1982 = E. Degani, Hipponactea, «MCr» XV-XVII (1980-1982) 47-50.
Degani 1992 = E. Degani, Il mostro di Irvine, «Eikasmós» III (1992) 277s.
Degani 2007 = Ipponatte. Frammenti, introd., trad. e note di E. Degani, premessa di G. Burzacchini, aggiornamenti di
A. Nicolosi, Bologna (Pàtron Editore) 2007.
Gentili 1965 = B. Gentili, Interpretazione di Archiloco fr. 2 D. = 7 L.-B., «RFIC» XCIII (1965) 129-134.
Lenci-Montemagni-Pirrelli 2005 = A. Lenci-S. Montemagni-V. Pirrelli, Testo e computer. Elementi di linguistica
computazionale, Roma (Carocci Editore) 2005.
Lobel 1941 = E. Lobel, 2176. Commentary on Hipponax, in The Oxyrhynchus Papyri, XVIII, London 1941, 87-96,
184-185.
Lobel 1964 = E. Lobel, 2508. Elegiacs (? Archilochus), in The Oxyrhynchus Papyri, XXX, London 1964, 2-4.
Merkelbach-West 1974 = R. Merkelbach-M.L. West, Ein Archilochos-Papyrus, «ZPE» XIV (1974) 97-113.
Montanari 20133 = F. Montanari, Vocabolario della Lingua Greca (Greco Italiano - GI), Torino 20133.
Nicolosi 2005a = A. Nicolosi, La frustrazione del guerriero in armi, ovvero il simposio negato (Archil. fr. 2 W. 2),
«Prometheus» XXXI (2005) 35-40.
Nicolosi 2005b= A. Nicolosi, Riusi omerici nel primo ‘epodo di Colonia’ (Archil. fr. 196a W.2), «Maia» LVII (2005)
243-259.
Nicolosi 2006 = A. Nicolosi, Su un hapax di Gregorio di Nazianzo (De humana natura 101 βρισαύχην), «Paideia»
LXI (2006) 341-344.
Nicolosi 2007 = A. Nicolosi, Ipponatte, Epodi di Strasburgo. Archiloco, Epodi di Colonia. Con un’appendice su
P.Oxy. LXIX 4708, Bologna (Pàtron Editore) 2007.
Nicolosi 2012 = A. Nicolosi, P.Oxy. XVIII 2176 fr. 6,12 (= Hippon. fr. 131 E Dg.; 118 D W.2), «ZPE» CLXXX
(2012) 49-50.
Nicolosi 2013 = A. Nicolosi, Archiloco. Elegie, Bologna (Pàtron Editore) 2013.
Pavese 1995 = C.O. Pavese, Arch. 2 T. = 2 W. ἐν δορί, in AA.VV., «Studia classica Iohanni Tarditi oblata», a c. di L.
Belloni-G. Milanese-A. Porro, I, Milano 1995, 335-340.
Reitzenstein 1899 = R. Reitzenstein, Zwei Fragmente der Epoden des Archilochos, «SPAW» XLIV-XLV-XLVI
(1899) 857-864.
West 19892 = M.L. West, Iambi et elegi graeci ante Alexandrum cantati, I, Oxonii 19892 (= IEG I2).
West 19922 = M.L. West, Iambi et elegi graeci ante Alexandrum cantati, II, Oxonii 19922 (= IEG II2).
24
Lenci-Montemagni-Pirrelli 2005, 248.
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