Erzsebet Bathory, sangue e perfezione

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Erzsebet Bathory, sangue e perfezione
Disponibile anche:
Libro: 13,90 euro
e-book su CD in libreria: 8,99 euro
SIMONA GERVASONE
Erzsébet Bàthory
sangue e perfezione
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.ilgiralibro.com
Erzsébet Bàthory
2008 Zerounoundici Edizioni
Copyright © 2008
Zerounoundici Edizioni
Simona Gervasone
ISBN 978-88-6578-065-7
Il peggior sporco è quello morale:
istiga ad un bagno di sangue.
Stanislaw Lec
La bellezza non è nel viso. La bellezza è nella luce nel cuore.
Kahlil Gibran
Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più
di qualsiasi altra cosa. I loro istinti
sono meravigliosamente primitivi.
Le abbiamo emancipate, ma esse
rimangono schiave sempre in cerca
di un padrone. Amano essere dominate.
Oscar Wilde
La giovinezza non ha età.
Pablo Picasso
Dedico questo romanzo alla
mia famiglia
e alla mia prima figlia che
nascerà a novembre.
PREFAZIONE
Parlare di horror, tanto in letteratura
quanto al cinema, spesso e volentieri
evoca nell’immaginario collettivo figure
irreali che popolano più le antiche tradizioni o i nostri peggiori incubi che non
la vita reale.
Ma quando è la realtà a superare la fantasia, quando una leggenda affonda le
proprie radici in fatti storici documentati, ecco che il discorso prende tutta
un’altra piega e si intuisce che, alla base
di “certe storie”, esiste sempre un fondo
di verità.
Uno degli esempi più classici è quello
dei vampiri, esseri votati al Male che si
aggirano nella notte assetati di sangue e
che rimandano a certi miti dell’antichità
come quello delle lamie: una delle rappresentazioni più moderne di questo archetipo è quella del nobile, o della nobi-
le, che di giorno si comporta in maniera
affabile e gentile e che di notte si trasforma nel terrore dei suoi concittadini.
Questo modello prende la propria origine da personaggi realmente esistiti che
hanno saputo creare e ritagliare intorno
alla propria figura una sapiente miscela
di arcano mistero leggendario e macabra e sanguinaria realtà.
E’ il caso del conte Dracula, ispirato a
un aristocratico rumeno noto per la sua
fama di “impalatore dei nemici” che
portava il nome di Drakul.
E’ il caso della contessa ungherese Bàthory, soprannominata in epoca più recente e non a caso, “Contessa Dracula”.
E’ il caso, raccontato con sapiente maestria, del nuovo romanzo di Simona
Gervasone, eclettica scrittrice del fantastico in grado di passare da un genere
all’altro con un’agilità di stile e linguaggio senza pari, riuscendo sempre a
trasmetterci il cuore pulsante dei suoi
protagonisti, siano essi buoni o malvagi.
Anche stavolta, con la storia delle contessa Bàthory e della sua corte, Simona
è stata capace di regalarci un’opera fantastica che trae a piene mani linfa vitale
dalle leggende che a loro volta trovano
riscontro in fatti storici documentati e
realmente accaduti.
Preparatevi a sorseggiare un dosato cocktail a metà tra fantasia e realtà, pronti
a saltellare ora da una parte ora
dall’altra del sottile limite che separa i
due mondi.
Preparatevi ad affrontare la famigerata
“Contessa Dracula” in tutto il suo sanguinario splendore!
Davide Longoni
Webmaster www.lazonamorta.it
PARTE
PRIMA
I
1597
Era una giornata splendida. Le pesanti
tende di velluto vennero scostate per far
entrare la luce del giorno nell’ampia
stanza. Erzsébet scese dal letto senza
degnare di uno sguardo la giovane cameriera che aveva l’atteggiamento spaventato di chi sa di essere una succulenta preda nella tana di una terribile belva.
La cameriera sentiva come bruciare il
punto della sua schiena in cui era agganciato lo sguardo crudele della sua
padrona. Se lo sentiva addosso e anche
senza voltarsi, sapeva che la donna era
seduta, immobile sul bordo del letto. La
giovane, con le mani che tremavano vistosamente, il respiro corto e le lacrime
quasi sul punto di inondarle il viso, finì
di legare la tenda. Quand’ebbe finito, si
voltò di scatto col terrore dipinto in vol-
to e se la ritrovò davanti. In piedi, con la
cuffia da notte ancora calata sul capo.
Lo sguardo ben piantato nel suo,
l’espressione di chi sta fantasticando di
sgozzare chi ha davanti. La giovane abbassò il viso fino a fissare il pavimento,
una lacrima scese lenta nonostante lo
sforzo per trattenerla. La contessa alzò
solo una mano, indicandole la porta e la
giovane sembrò riprendere a respirare
solo in quel momento. Tremando come
se si trovasse nuda in mezzo a una bufera di neve, corse verso la porta col cuore
che batteva troppo veloce e il terrore di
udire l’ordine di fermarsi prima che fosse fuori da lì.
La contessa seguì la sua breve corsa fino a che la porta non si richiuse lasciandola sola. La sua attenzione venne
catturata dalla macchia scura sul pavimento. Nonostante le erbe che avevano
bruciato per tutta la notte spandendo il
loro gradevole profumo, l’odore del
sangue era ancora forte. Inspirò a pieni
polmoni come se quel nauseabondo odore fosse il più piacevole mai sentito.
Qualcuno bussò alla porta interrompendo questo suo rito mattutino.
“Entra.” Disse aprendo di nuovo gli occhi su quegli alloggi grandi e freddi.
Klàra entrò portando con sé un fumante
intruglio di erbe e lo posò sul ripiano
della toeletta. Erzsébet attese senza parlare che la giovane dai capelli lunghi e
biondi strettamente intrecciati, le portasse la sedia. Si sedette con le mani in
grembo e si voltò verso la finestra da
cui entravano obliqui i raggi caldi del
sole. Klàra recuperò la spazzola e il catino con l’intruglio fumante e prese a
spazzolare i lunghi capelli scuri che avevano assunto riflessi dorati grazie alle
lunghe ore passate a farsi pettinare sotto
i raggi solari con quella pozione schiarente. La pelle bianca più del latte veniva protetta da una sostanza cremosa a
base di grasso animale.
Non amava discorrere con le sue cameriere né tantomeno amava vederle aggirarsi per il castello, ma vi era costretta.
Quello che più di tutto amava, era scoprire una loro mancanza, un loro errore.
Amava punirle e amava non sapere se e
quando sarebbe finita la punizione. Aprì
gli occhi che durante quella gradevole
carezza ai capelli teneva chiusi e si vol-
tò verso la vetrata. Nella zona più in
ombra scorse il viso attento della fanciulla. Quanti anni poteva avere? Non lo
sapeva, ma sapeva quanti anni aveva
lei. Trentasette. Trentasette anni! Quella
giovane non doveva averne più di sedici. Aveva la pelle liscia e bianca. Troppo liscia e troppo bianca per appartenere a una cameriera. E i capelli troppo
biondi. Biondi come li avrebbe desiderati lei. Invece era costretta a stare lì seduta per ore ogni giorno per far sì che
divenissero più chiari e mai e poi mai
avrebbero assunto quello splendido colore che sotto i raggi del sole sembrava
oro fuso.
Digrignò i denti e s’irrigidì sotto le attente spazzolate. Klàra se ne avvide e
rallentò i movimenti già temendo una
possibile punizione.
“Da dove vieni?” domandò asciutta,
stupendo Klàra che quasi fece cadere
spazzola e catino.
La ragazza deglutì prima di riuscire a
trovare il coraggio di rispondere.
“Da Lèkà.” Rispose con un tremito,
domandandosi perché mai la contessa
fosse interessata a discorrere con lei
delle sue origini.
Erzsébet assentì muovendo appena il
capo. Lèkà. Quanti orrendi ricordi legati
a quel luogo che non poteva che farle
venire in mente Orsolya. Aveva sprecato così tanti anni al cospetto di quella
suocera glaciale e rigida da non ricordare neppure quanti. Tutta la sua gioventù,
sprecata tra quelle mura a imparare le
arti della padrona di casa, avendo sempre alle calcagna l’austera donna che
più di ogni altra cosa desiderava una
sposa degna di suo figlio. Erano lontani
i tempi in cui scorazzava serenamente
nella dimora dei propri genitori. Era stato a causa della morte di suo padre
quando aveva appena dieci anni che sua
madre, Anna Bàthory, decise di prometterla in sposa a Ferencz Nàdasdy, la cui
antica famiglia era ricca e importante.
Ricca per merito di suo suocero, Tomàs,
grande palatino che aveva contribuito
fortemente all’elezione dell’imperatore
Ferdinando. La ricchezza venne proprio
servendo gli Asburgo. E da povero e
ignorante divenne ricco e colto, stu-
diando addirittura all’università di Bologna.
Il riflesso di Klàra divenne più nitido
quando alcune nuvole passarono pigre
davanti alla palla infuocata del sole. Erzsébet colse una fuggevole occhiata della ragazza.
“Non trovi abbastanza interessante pettinare i miei capelli?” domandò acida.
“Sì mia signora.” Rispose quasi ansimando per lo spavento.
“Bugiarda!” sibilò tra i denti voltandosi
di scatto e arpionando i polsi candidi
della giovane in una stretta violenta.
“Dorkò!” gridò e non passarono che pochi secondi che comparve sulla porta la
figura sgraziata e goffa della donna.
“Sì, mia signora?”
“Chiama Ficzkò, subito!” ordinò strattonando la giovane che, con gli occhi
sbarrati, si guardava intorno con la speranza di poter ancora fuggire.
Dorkò uscì di corsa dalla stanza e i suoi
passi veloci risuonarono nel corridoio
del vecchio castello. Urla concitate e di
nuovo passi che correvano nel senso
opposto.
La porta fu riaperta e Dorkò fece segno
al deforme nano di entrare al cospetto
della contessa.
“Dove hai trovato questa giovane?”
domandò prendendola per i capelli.
“A Lèkà mia signora.”
“Non portarmi mai più serve trovate in
quel luogo! E’ ignorante, sporca e incapace!”
“A qualcosa può servire mia cara.” Intervenne Dorkò ghignando.
Qualcosa che poteva vagamente somigliare a un sorriso piegò gli angoli della
bocca ancora bella di Erzsébet. Sì, a
qualcosa poteva servire. Senza che la
giovane se n’avvedesse e con la velocità
di un rapace, Erzébeth sfilò l’attizzatoio
dal suo supporto e, prendendolo a due
mani, lo calò con violenza sul viso della
giovane che urlò di dolore portandosi le
mani al naso devastato.
Con il solo sguardo e senza bisogno alcuno di parole, ordinò a Dorkò e Ficzkò
di tenerla ferma. Gli occhi azzurri e
grandi della ragazza saettavano dall’uno
all’altro e con qualche parola biascicata
tra i denti rotti e il sangue che sgorgava
rosso e lucido, tentava di chiedere pietà.
Bella, troppo bella. Con quella pelle così liscia e bianca. Bianca come non lo
era mai stata quando lavorava ancora
nei campi di Lèkà. Era grazie a lei se
ora poteva permettersi di lavarsi e mantenere la pelle pallida di una nobildonna. Era grazie a lei se quei capelli biondi come l’oro mantenevano il loro
splendore. Si voltò verso lo specchio,
dove spiccavano le sottili rughe sulle
fronte alta. Lei stava invecchiando e
quello spreco di gioventù invece le sbatteva in faccia la sua perfezione!
Ma Dorkò le aveva insegnato molte cose in tutti quegli anni. Molte cose che
avevano limitato di molto i danni del
tempo. Nonostante i suoi trentasette anni, manteneva ancora un aspetto giovane e la sua bellezza era ancora rinomata.
Nessun uomo era mai rimasto impassibile davanti alla sua bellezza e sempre
sarebbe stato così, grazie agli insegnamenti di Dorkò e alla sua predisposizione naturale.
“Vi prego… mia Signora… vi prego…”
piagnucolava la giovane. Aveva sentito
di punizioni crudeli e terribili cui erano
state sottoposte alcune giovani camerie-
re e lei era sempre stata così attenta a
non fare nulla che potesse attirare su di
sé tali punizioni. Ma cos’aveva fatto?
Era stata attenta! Sempre! Ma nemmeno
immaginava cos’avevano in mente per
lei. Niente spilloni infilati nelle carni,
niente capelli strappati a forza, niente
tagli sul seno o morsi alle cosce. Quello
che l’aspettava era molto, molto peggio
di tutto ciò che le era stato raccontato
fino a quel momento.
II
Le urla percorrevano i corridoi, rimbalzando da una parete all’altra. Ogni serva
si fermò e quasi smise di respirare. Ogni
faccenda fu interrotta mentre quelle grida disumane arrivavano anche negli antri più nascosti a sollevare i peli delle
braccia e i capelli sulla nuca. La contessa era di cattivo umore. Erano giorni
che regnava la quiete e ognuna di loro si
aspettava che da un momento all’altro
sarebbe accaduto. Ognuna di loro desiderava solo starle più alla larga possibile. Nessuna aveva certo invidiato Klàra
quando era stata scelta quella mattina
per pettinare la contessa. Avevano sentito tutte chiaramente quando aveva
chiamato Dorkò e questo poteva significare solo una cosa: le cantine. Tutte, chi
più chi meno, avevano provato sulla
propria pelle la crudeltà della contessa,
ma nessuna era mai stata portate nelle
cantine, perché tutte coloro che vi erano
state condotte non erano più lì per poterlo raccontare. Insieme alle urla sembrava fosse arrivato un refolo gelido di
morte.
I passi nel corridoio fecero chinare la
testa alle giovani serve che, senza proferir verbo, continuarono i loro servizi.
Qualcuna di loro vide il nano sporco e
puzzolente trattenere forte i capelli della giovane che per questo camminava
con il busto chinato in avanti. Il viso si
voltò un poco quando il suo sguardo incrociò le vesti di un’altra serva indaffarata, ma nessuno ebbe il coraggio di
guardarla. Di incrociare quegli occhi
azzurri e spalancati. Per paura di suscitare l’ira della contessa e per timore di
non poter più prendere sonno con il ricordo di quegli occhi nella mente. Dorkò le serrava le braccia dietro la schiena
in modo che non potesse liberarsi dalla
stretta di Ficzkò. Erzsébet camminava
ritta e composta dietro di loro come se
nulla di strano stesse accadendo. Solo
ogni tanto si portava la mano pallida al
capo, su cui i capelli erano stati velocemente appuntati prima di uscire dalla
stanza da letto.
“Aiutatemi!” gridò la giovane che quasi
non aveva più voce.
Qualcuna pianse per lei; quelle che potevano perché più nascoste alla vista
della contessa. Qualcuna rabbrividì soltanto, sperando di non dover mai avere
a che fare ella stessa con la padrona di
casa.
Le scale ripide che conducevano nelle
cantine erano prive d’illuminazione e
Dorkò accese alcune fiaccole. Le pareti
umide e coperte di muschio erano grigie
e vischiose. L’aria stantia e pregna degli
odori forti della paura e del sangue
sembrava essere una presenze palpabile
e concreta. Lunghe catene pendevano
dal soffitto accanto alla lavanderia.
“Legatela.” Disse. L’illuminazione dei
ceri le feriva gli occhi che avrebbero
preferito di gran lunga il buio sicuro e
gradevole di poco prima, ma al contempo desiderava vedere. Vedere la paura
negli occhi di quella lurida contadina.
Voleva vedere il suo sangue e voleva
fare tutto con calma, gustandosi ogni
sua espressione, ogni sua occhiata e vederla mentre esalava l’ultimo respiro.
Le braccia di Klàra vennero incatenate
alte sulla testa da Dorkò mentre Ficzkò
si occupava delle caviglie senza disdegnare qualche sporca carezza sulla carne tiepida delle gambe e su, tra le cosce
serrate.
La contessa lo lasciò fare e forse questa
volta gli avrebbe anche permesso di rimanere un po’ da solo con il corpo esanime della ragazza. In fondo anche lui
era un uomo e il suo aspetto orrendo e
sporco di certo non gli dava modo di
sfogare i suoi istinti con donne consenzienti.
Appena finito di legarla, i due si allontanarono e lasciarono che la contessa
soppesasse i vari strumenti di tortura
appoggiati in modo ordinato sul tavolaccio contro la parete. Prese le pinze e
con un cenno ordinò a Ficzkò di strapparle gli abiti. Ficzkò non se lo fece ripetere due volte e ridendo con cattiveria
si avvicinò alla ragazza che ancora sperava di poter fare ritorno alla sua vita e
che per questo rimase in silenzio anche
quando sentì le mani piccole e callose
strizzare i seni scoperti e insinuarsi tra
le sue gambe.
“Basta!” ordinò Erzsébet infastidita dalle troppe iniziative del nano.
Ficzkò si allontanò e tornò al fianco di
Dorkò che a mezza voce pronunciava
uno dei suoi incantesimi.
Erzsébet si pose di fronte alla fanciulla
e attese che Dorkò finisse con la sua
malia prima di affondare la pinza nella
carne tenera dell’addome. Le urla divennero insopportabili, tanto insopportabili che Erzsébet posò la pinza e prese
un grosso ago.
“Vi pregoooooooooo…” piagnucolò la
ragazza, ma l’ago entrò nella carne
morbida del labbro inferiore mentre
Dorkò la teneva salda. Le labbra furono
cucite strettamente e il sangue scendeva
copioso sul mento e sui seni grandi e
pieni. Anche lei aveva seni pieni un
tempo. Prima di avere quattro figli.
Quei figli che non aveva mai desiderato,
ma che era stata costretta ad avere per
dare un erede ai Nàdasdy. Dorkò tagliò
lo spesso filo e lo annodò in modo che
la ragazza non potesse rovinare
quell’accurato lavoro di cucito. La con-
tessa si fermò davanti al tavolaccio e
osservò con attenzione i vari utensili
prima di scegliere un grosso coltello affilato e una coppa di ceramica. Diede la
coppa a Dorkò e senza attendere un secondo incise in profondità il seno della
giovane che ora non poteva far altro che
gridare sommessamente lacerando ancora di più le labbra martoriate. Gli occhi stralunati non avevano più lacrime
ed erano rossi e asciutti. Dorkò raccolse
il sangue che sgorgava dalla ferita e
quando ritenne che fosse abbastanza lo
portò sul tavolaccio e vi aggiunse pizzichi di erbe essiccate pronunciando parole incomprensibili. Quand’ebbe finito,
riportò la coppa dinnanzi a Erzsébet che
bevve il sangue tutto d’un fiato facendolo colare sulla gorgiera d’argento nel
quale spiccavano le perle bianche che
ora si chiazzavano di rosso. La fanciulla
chiuse gli occhi inorridita. Il suo sangue. Quel fluido scuro e denso che scorreva nelle sue vene e le dava la vita,
stava scendendo nella gola di quella
donna. Solo allora si rese conto che i
suoi piedi sfioravano della ceramica e
non la pietra grigia delle cantine. Un
catino, molto grosso, simile a una vasca
stava sotto di lei. Il suo sangue… il suo
sangue…
Il sangue era raccolto in quel catino incastonato nel pavimento di pietra e voluto fortemente dalla contessa. Il corpo
dissanguato di Klàra venne buttato da
parte come fosse solo spazzatura. La
morte non era arrivata in fretta e tante
erano le torture a cui era stata sottoposta
prima che una taglio netto della gola
ponesse fine al dolore, ai pensieri, alla
speranza.
Sì, perché la speranza era davvero
l’ultima a morire; l’ultima ad abbandonare il corpo, addirittura dopo l’anima
che già vagava alla ricerca di un luogo
sicuro dove poter vivere per l’eternità.
La speranza che tutto ancora poteva
cambiare. Un uomo forte avrebbe potuto entrare e salvarla, magari avvertito da
una delle altre serve. Magari il conte
Nàdasdy e forse avrebbe fatto rinchiudere la contessa e magari sposato lei. La
vecchia e orrida Dorkò avrebbe potuto
pentirsi, sentire il richiamo di Dio e
magari aiutarla a fuggire. Ficzkò avrebbe potuto scoprirsi innamorato di lei e
colpire le sue due aguzzine con la scure
che aveva lì di fianco. Oppure Erzsébet
avrebbe potuto semplicemente fermarsi.
Lasciare che vivesse. Ma tutto questo
non accadde e mentre la luce si affievoliva e i suoi occhi diventavano fissi, ancora la speranza le sussurrava parole di
conforto. Dorkò sparì verso le scale e
tornò con due serve robuste che
l’aiutarono a portare il grosso catino
verso le stanze della contessa. Non fecero domande e fecero attenzione a non
rovesciare nemmeno una goccia di quel
prezioso sangue. Sapevano di chi era e
sapevano che avrebbe potuto essere il
loro.
Ficzkò aspettava in disparte.
“Prenditela. È ancora calda.” Disse la
contessa senza voltarsi e dirigendosi
anch’ella verso la scala.
Ficzkò rise sguaiatamente e non attese
di sentire richiudere la pesante porta che
già abbassava i luridi pantaloni.
Erzsébet percorse i corridoi; salì la scala. Al suo passaggio tutte le serve
s’irrigidivano come se la mano fredda
di uno scheletro si fosse poggiata sulle
loro schiene. Tutte cercavano di darsi da
fare con i loro compiti senza fare rumore e senza fiatare. Terrorizzate dall’idea
di poter attirare in qualche modo la sua
attenzione. Riprendevano a respirare e il
cuore rallentava i battiti solo quando lei
scompariva dietro un angolo o si chiudeva alle spalle una porta.
Dorkò aveva già pensato a tutto.
Il profumo di gelsomino aleggiava
nell’aria, le candele rendevano più gradevole la fredda stanza. Le pesanti tende di velluto di Genova erano ben tirate
per impedire che la luce del sole rovinasse quel rito così importante. Dorkò
l’aiutò a liberarsi dell’abito e dei gioielli
e l’accompagnò, nuda e bianchissima
verso la vasca in cui era stato versato il
sangue della serva. Erzsébet s’immerse
nel liquido tiepido rabbrividendo. Certo
se avesse potuto scaldarlo un poco…
ma non si poteva. Si sarebbe rovinato.
Doveva essere fresco e pulito per poter
compiere il miracolo. Si lasciò lambire
dal liquido vischioso mentre Dorkò le
carezzava i capelli.
“Più sono giovani e meglio è.” Disse
con calma.
“Giovani…”
“Sì, giovani. Il sangue giovane nutrirà
la vostra pelle candida come la luna e la
renderà sempre più bella, sempre più
levigata. Ogni segno lasciato dal tempo,
dalle gravidanze verrà cancellato. La
vostra pelle assorbirà l’essenza della
loro giovinezza così come la terra assorbe l’acqua.”
Erzsébet si lasciò massaggiare la schiena e le spalle. L’olio profumato fu versato nella vasca e si formarono ghirlande fatte di minuscole gocce lucide. Non
ricordava quando era stata la prima volta che aveva provocato la morte. Era
passato ormai troppo tempo. Ricordava
solo di aver sentito una sorta di disagio
che però era passato velocemente, lasciando il posto a una sensazione di benessere che sfiorava la beatitudine. Immerse le mani nel sangue quasi freddo e
se lo portò al viso che prese a massaggiare con attenti movimenti circolari. Jò
Ilona si sarebbe occupata del cadavere.
Non aveva nulla di cui preoccuparsi se
non prendersi cura del proprio corpo,
nell’attesa che qualche uomo vi posasse
gli occhi per desiderarlo e qualche donna per invidiarlo.
III
I colpi sulla porta lo svegliarono di soprassalto. Cosa poteva essere accaduto
di così grave da svegliarlo nel cuore
della notte?
Janòs Ponikenus, pastore di Csejthe buttò da parte la pesante coperta e infilò le
vecchie scarpe dirigendosi verso la porta.
“Chi è? Sapete che ore sono?” domandò
innervosito da tanta insistenza.
“Sono io.” Sibilò Dorkò e subito Janòs
si affrettò ad aprire la porta con il cuore
che batteva all’impazzata. Era l’incubo
di ogni pastore essere svegliato nel cuore della notte da quell’orrida strega che
somigliava in modo impressionante a un
demonio. Non che lui ne avesse mai visto uno, ma era certo che se fosse accaduto avrebbe colto la somiglianza con
quella vecchia.
Quando se la trovò davanti, i brividi lo
percorsero in tutto il corpo. Ossuta,
brutta e con addosso un odore nauseabondo, stava lì di fronte a lui con le mani piantate sui fianchi e il ghigno beffardo di chi sa che può chiedere qualsiasi cosa.
“Cosa volete a quest’ora?” domandò
Ponikenus cercando di non guardarla
troppo a lungo per paura di non riuscire
più a prendere sonno per il resto della
sua vita.
“Un funerale.”
“Un funerale? Che non può attendere
fino all’alba?”
“No, non può attendere. La contessa ci
tiene molto.” Sottolineò le ultime parole
che suonarono come una minaccia.
“Datemi il tempo di mettermi qualcosa
addosso.” Rispose voltandosi e chiudendo la porta.
Dorkò infilò un piede tra i battenti e fissò a lungo i suoi occhi da rapace in
quelli del pastore prima di lasciare che
quest’ultimo chiudesse la porta.
“Vi aspetto qui fuori.” Concluse.
Jànos avrebbe voluto dirle che, suo
malgrado, conosceva la strada e non vi
era alcun bisogno che rimanesse lì ad
aspettarlo. Si sfilò la veste da notte e si
buttò addosso gli abiti che aveva lasciato appoggiati con ordine sulla sedia. La
stanza era fredda e umida e il pavimento
di legno scricchiolava a ogni suo movimento. Si sedette sul letto per infilarsi
le scarpe e invece si lasciò un attimo
andare prendendosi la testa tra le mani e
scotendola vigorosamente.
Che cosa succedeva in quel castello?
Perché tutti quei funerali alle ore più
impensate?
Che avessero ragione le tante voci che
aveva sentito sul conto della contessa?
Non lo sapeva. Non ne aveva idea. Sapeva solo che la donna che lo aspettava
fuori dalla porta gli faceva venire i brividi più del freddo di gennaio.
Che avesse ragione Andràs Berthoni,
suo predecessore?
Eppure gli era sembrata una donna così
a modo. Così distinta e persino regale.
La sua bellezza era imbarazzante, è vero, ma nulla si poteva dire del suo ineccepibile comportamento. E poi, Ferencz
era un uomo così buono, coraggioso e
di famiglia così distinta che non poteva
credere che avesse in moglie una donna
capace di torturare e uccidere come le
voci dicevano. Per giunta, tutto quel
gran chiacchiericcio proveniva da
Vienna.
Come la chiamavano?
Die Blutgräfin… contessa sanguinaria.
Forse avrebbe dovuto indagare un po’
più a fondo.
Forti colpi alla porta lo riportarono alla
realtà e all’incombenza che aveva da
svolgere. S’infilò le scarpe in tutta fretta
e uscì nell’aria gelida.
“Seguitemi.” Sibilò Dorkò.
Camminarono fino al castello, dove tre
figure scure e immobili attendevano vicino a una malfatta cassa.
Quando fu più vicino si accorse che una
delle figure era Jò Ilona e le altre due
erano donnoni grandi e grossi infagottati in pesanti mantelli. Senza dire una sola parola, le tre donne sollevarono la
cassa e Dorkò fece cenno al pastore di
seguirle. Camminarono ancora nella
notte stellata. I residui dell’ultima nevicata scricchiolavano sotto il loro passo.
Giunsero fino al cimitero che non era
distante dal luogo da cui erano partiti.
Perché farlo uscire in piena notte per
venire fin lì quando avrebbero potuto
portare la bara e chiamarlo dopo?
Una delle donne inciampò e la cassa
cadde rumorosamente a terra facendo
saltare i chiodi mal messi.
Ciò che vide lo lasciò di sasso. La ragazza all’interno della bara non doveva
avere più di diciassette anni. Il viso era
tumefatto, il naso rotto in più punti non
sembrava far parte di quel viso, ma
quello che più lo terrorizzò furono le
labbra. Cos’aveva sulle labbra?
Dorkò imprecò e subito le donne si misero all’opera per risistemare la cassa.
Erano cucite… le labbra erano cucite…
“Che cos’è accaduto a questa fanciulla?” domandò con un filo di voce. Non
avrebbe voluto domandarlo. Aveva paura di domandarlo e sapere, ma le parole
erano uscite dalla sua bocca senza che
se ne accorgesse.
“E’ caduta. Era una ragazza disattenta.”
Rispose Dorkò fissandolo.
Era caduta… caduta con le labbra cucite…
Cos’avevano fatto a quella creatura?
IV
L’alba arrivò di nuovo, il cielo era pesante di neve. Erzsébet si fece pettinare
come ogni mattina, dalle mani attente e
tremanti di una servetta in carne. Era
soddisfatta della cura di bellezza del
giorno prima e forse, se la serva avesse
commesso qualche errore, le avrebbe
concesso la grazia. Forse.
La serva non commise errori e pettinò i
lunghi capelli con delicatezza e attenzione. Prese la retina di perle, la posò
sulla sommità del capo e iniziò il lungo
lavoro d’intreccio. Quand’ebbe finito,
Erzsébet si rimirò allo specchio soddisfatta. Sollevò una mano per congedare
la serva e attese che il suo posto venisse
preso da una delle tante dame di compagnia, che si sarebbe occupata di massaggiarle il viso con le essenze velenose
e sbiancanti di stramonio e poi di truccarla.
Kata non la fece attendere. Entrò sempre guardando il pavimento e si affaccendò subito con gli arnesi da toeletta.
Dopo ore di massaggi, le truccò gli occhi scuri con olio di nocciola e ravvivò
le labbra con un unguento rosso brillante. Quando fu pronta congedò Kata che
uscì dalla stanza. Ogni ragazza al servizio della contessa temeva quel momento. Terminata la seduta mattutina di bellezza, si sarebbe aggirata per il castello,
osservando e valutando l’operato di ognuna e quasi sempre trovava qualcosa
che non era fatto nel modo giusto.
Qualcosa da punire. Qualcuno da torturare.
Ma quel giorno era forse diverso perché
passò nei corridoi senza degnare di uno
sguardo le sarte al lavoro o la sguattera
che lucidava il corrimano della scala.
Erzsébet camminò lentamente nei corridoi, posando lo sguardo su ogni specchio che incontrava. Sembrava soddisfatta della propria immagine riflessa o
forse lo era perché solo pochi attimi
prima, un messo le aveva portato una
proposta che mai avrebbe potuto rifiutare. Una delle più antiche famiglie ungheresi le aveva appena proposto che
Anna, la sua figlia maggiore, andasse in
sposa all’erede Miklòs Zrinyi. Dorkò si
sarebbe occupata dei preparativi per il
fidanzamento della figlia dodicenne.
Dal fondo del corridoio giunsero dei
passi pesanti e sicuri. Erzsébet si bloccò
lasciandosi scappare un gemito. Si voltò
per tornare indietro cercando di camminare veloce, ma senza dare a vedere che
aveva fretta di andarsene da lì.
“Contessa.” Salutò una voce profonda e
tutt’altro che amichevole.
Erzsébet si voltò e si trovò davanti
all’unica persona al mondo che riuscisse
a turbarla: Megyery il Rosso, tutore del
suo ultimogenito Pàl di poco più di un
anno.
“Megyery.” Salutò lei voltandosi per
continuare la sua ritirata.
“Mi pare che abbiate molta fretta questa
mattina. Ha forse a che fare con il fatto
che vi è stato un funerale questa notte?”
Erzsébet sgranò gli occhi e fece un passo indietro, ma immediatamente si ordinò di mantenere i nervi saldi.
“Non capisco che cosa intendiate, ma vi
consiglio di occuparvi del vostro compito e non degli affari che non vi riguardano.”
Megyery sorrise fissandola negli occhi
con insistenza. Aveva capito che cosa
stava accadendo in quel castello e prima
o poi avrebbe trovato il modo di far
giungere quelle notizie alle orecchie di
chi di dovere. Era solo questione di
tempo e anche lei lo sapeva. Glielo leggeva negli occhi. Avrebbe posto fine a
quei diabolici massacri. Era stata una
giovinetta di tredici anni a confidargli
ciò che accadeva nelle cantine del castello. Erano pochi mesi che si occupava dell’educazione dell’erede Nàdasdy
e come tutte le mattine, stava godendosi
una sostanziosa colazione a base di pane appena sfornato e vino caldo aromatizzato. La giovinetta aveva attraversato
le cucine piangendo e singhiozzando e
si era rintanata in un angolo della dispensa. Di corsa dietro di lei era giunta
Jò Ilona con il suo passo pesante e il fiato corto. Si era guardata intorno mentre
lui la osservava con un’espressione che
era un misto d’orrore e fastidio.
“Cos’avete da fissarmi?” aveva domandato brusca.
“Puzzi.” Aveva risposto lui con
un’espressione di disgusto e scostando i
rimasugli di colazione che non aveva
più voglia di finire. La donna lo incenerì senza rispondere e continuò a perlustrare la cucina in lungo e in largo.
Quando fu abbastanza vicina alla dispensa, Megyery il Rosso non poté non
fare nulla.
“Esci dalla cucina se non sei capace di
lavarti.” Aveva tuonato.
“Cosa? Voi ordinate a me di uscire dalla
cucina?”
“E’ esattamente ciò che ho appena fatto.”
Jò Ilona aveva supposto che la ragazza
non fosse in cucina dato l’atteggiamento
sicuro dell’uomo, ma una volta sulla
soglia si era voltata ancora.
“La contessa non sarà felice di sapere
del vostro atteggiamento.” E se n’era
andata battendo forte i piedi con la sua
grossa mole.
Megyery si era avvicinato alla porta e
aveva sbirciato per vedere se realmente
la donna si fosse allontanata prima di
dirigersi verso la dispensa e scostare la
pesante tenda.
La ragazza non doveva avere più di tredici anni. Era rannicchiata in un angolo,
tremante e piangente.
“Vi prego…” aveva sussurrato, tirando
su col naso.
“Vieni. Non avere timore. È andata via.
Cos’è accaduto per sconvolgerti a tal
punto?”
La ragazza aveva ripreso a piangere nonostante lo sforzo visibile di ritrovare il
contegno.
“Judith… l’hanno uccisa…”
“Cosa?” Megyery aveva sorriso incredulo “Sei certa di ciò che dici?”
Aveva sentito parlare delle pesanti punizioni inflitte dalla contessa alla servitù
che commetteva errori, ma non credeva
che si sarebbe mai spinta fino a tal punto. Forse la ragazza aveva visto mettere
in atto una di queste famose punizioni e
aveva tratto conclusioni affrettate. Per
questo motivo, si fece accompagnare
dalla ragazza nelle cantine e ciò che vide gli tolse ogni dubbio.
Una giovane dai capelli rossi e ondulati
era legata a pesanti catene che scende-
vano dal soffitto. Larghe pozze di sangue si allargavano sotto i suoi piedi
martoriati. I segni di centinaia di bruciature ne ricoprivano il corpo morbido.
Megyery si era avvicinato col cuore che
batteva all’impazzata e la bocca secca.
La ragazza aveva due spilloni piantati
negli occhi sbarrati e uno più spesso
trapassava la lingua rosea.
“Per l’amor di Dio… chi è stato a fare
questo?” sussurrò più a se stesso che
alla ragazza che lo aveva accompagnato
a vedere quello scempio.
“La contessa e Dorkò.” Piagnucolò la
giovinetta.
La colazione minacciò di abbandonare
il suo stomaco. Già alcune mosche passeggiavano frenetiche sulle ferite aperte.
Si premette una mano sulla bocca e tornò sui suoi passi prendendo per mano la
giovinetta tremante.
Un rumore di passi li gelò.
Megyery aveva fatto segno alla ragazza
di fare silenzio e tirandola da una parte
si erano nascosti in un antro buio.
Ciò che avevano visto dopo era stato
anche peggio. Ficzkò era giunto in compagnia di Jò Ilona e insieme avevano
liberato le braccia della fanciulla.
L’avevano stesa a terra e con un cenno
d’intesa, la vecchia donna aveva abbandonato le cantine lasciando che Ficzkò
approfittasse di quel corpo defunto. A
quel punto Megyery aveva vomitato.
Che cosa avrebbero fatto alla creatura
che aveva per mano una volta che
l’avessero trovata?
Non voleva saperlo, ma poteva fare
qualcosa.
“Vattene. Scappa subito e non fare parola di ciò che hai visto con nessuno.”
Le aveva detto, spingendola fuori.
La fanciulla si era guardata attorno infreddolita mentre la neve cadeva candida e leggera e poi era corsa via.
Quello stesso pomeriggio, la contessa
l’aveva fatto chiamare nei suoi appartamenti e già Megyery immaginava di
cosa gli volesse parlare.
“Chi credete d’essere?” era stata la prima domanda che la donna aveva posto.
“Perdonatemi, ma non capisco che cosa
intendete.” Aveva risposto beffardo.
“Non fate finta di non capire. Jò Ilona
mi ha messo al corrente del vostro at-
teggiamento e voglio che sappiate che
su certe cose non transigo.”
Megyery aveva sorriso e un’espressione
di puro stupore si era dipinta sul viso
della contessa.
“Che cos’avete da sorridere?”
“Ho avuto modo di vedere con questi
stessi occhi il fatto che su certe cose
non transigete. Forse, se anche vostro
marito ne venisse a conoscenza…”
Per la prima volta, la contessa era parsa
spaventata.
“Conosce le punizioni che uso impartire
alle serve inette.”
“Sì, ma forse non sa fino a che punto si
spingono e forse non sa che un lurido
nano approfitta dei loro corpi martoriati
quando già la vita li ha abbandonati.”
La contessa ebbe un sussultò e sgranò
gli occhi.
“Andatevene.” Aveva tuonato.
“Come desiderate.” Era stata la sua laconica risposta.
Da quel momento in avanti, la donna
aveva cercato di non incontrare mai il
tutore di suo figlio lungo i corridoi del
castello e non vedeva l’ora che si levas-
se dai piedi per andare a stare nel castello di Sàrvàr.
“Se vi è stato un funerale non credo che
sia vostro interesse parlarne.” Lo ridestò
dai suoi pensieri.
“E’ strano che troviate sempre domestiche di salute così cagionevole. Siete
sfortunata contessa.” Sibilò lasciando
intendere che non avrebbe mollato la
presa.
“Ora dovete scusarmi Megyery, ma devo occuparmi di cose ben più importanti
delle vostre fantasie.” Terminò ripercorrendo il corridoio con passo deciso.
Megyery rimase a fissarla a lungo mentre la figura scompariva nel buio del
lungo corridoio. Quale stregoneria la
manteneva così bella e perfetta? Si domandò.
V
La cerimonia di fidanzamento era stata
un gran successo e ora, Anna aveva
raggiunto la famiglia del suo futuro marito. Un grattacapo in meno al castello.
Erzsébet si sedette sul bordo del letto.
Era inquieta. Erano passati mesi
dall’ultima visita di suo marito e altrettanti mesi dall’ultimo viaggio a Vienna.
La noia minacciava di ucciderla proprio
come le succedeva quando, ancora ragazzina, era costretta nel castello di Lèkà con Orsolya. Aprì il baule e tirò fuori
tutti gli abiti in esso contenuti. Stupendi
velluti di Venezia, corsetti tempestati di
perle bianchissime.
“Kata!” gridò.
“Sì mia signora.”
“Devo cambiarmi d’abito.”
“Sì mia signora.”
Kata scomparve e tornò poco dopo accompagnata da due giovanissime sarte.
“Chi sono?” domandò guardandole di
traverso e con tono basso.
“Elanhia e Anna.”
“Quanti anni hanno?”
“Dodici e quattordici.”
“Devono riprendere questo abito.” Disse facendo segno a Kata di aiutarla a
indossarlo. Senza pudore, rimase nuda e
bianchissima al centro della stanza mentre Kata l’aiutava a infilare il pesante
abito di velluto rosso cupo.
Le giovani sarte mantennero lo sguardo
fisso a terra per timore di suscitare le
sue ire e fecero bene perché un solo
sguardo avrebbe provocato la sua reazione spropositata.
Quando l’abito fu indossato e ben stretto sul petto, la contessa ordinò loro di
eliminare i difetti.
Le due giovani si avvicinarono con il
necessario già pronto. Aghi appuntanti
sul corsetto, fili colorati che uscivano
dalle tasche. Si scambiarono uno sguardo impaurito quando ebbero finito di
controllare l’abito da ogni lato. Non vi
era alcun difetto visibile e non potevano
far finta di averne trovato uno a caso
sulla spalla perché la contessa poteva
non averne notato uno lì, ma in vita o
sul petto.
“Cos’avete da guardare? Cosa state aspettando? Io non ho tempo da perdere!” tuonò.
“Sono ancora inesperte contessa.”
S’intromise Kata non senza cattiveria.
“Io non ho bisogno di sarte inesperte in
questo castello!”
Le ragazzine fecero un passo indietro,
ognuna augurandosi che fosse l’altra a
subire la punizione.
La contessa si voltò verso di loro, osservò i loro visi impauriti e questo la
fece infuriare ancora di più. Odiava
quegli sguardi terrorizzati ed ebeti. Odiava quelle pelli bianche immeritate,
ma più di tutto, odiava le sarte incapaci.
Con un movimento repentino lasciò andare un manrovescio a entrambe.
La più piccola si lasciò sfuggire un grido mentre Anna represse il pianto con
stoicismo. Elanhia… aveva l’età di sua
figlia pensò, ma questo non fermò la
sua mano che prese il polso della ragazzina e la strattonò con violenza, tanto da
farle perdere l’equilibrio. La lasciò cadere come un sacco e sbattere il viso sul
pavimento freddo prima di portarsi le
mani alla testa e gridare con tutto il fiato che aveva in corpo e tutta la rabbia
del mondo.
“Portala via!” gridò, indicando la più
grande che non riusciva a credere
d’essere stata risparmiata. Non c’era
spazio per la pietà. Non avrebbe fatto
nulla per difendere l’altra sartina. Avrebbe solo trovato un posto sicuro e si
sarebbe messa a piangere per il sollievo.
Kata allontanò la ragazza e chiamò Jò
Ilona e Dorkò che entrarono nella stanza con le tende tirate.
“Cosa accade mia signora?” domandò
Dorkò.
“Abbiamo una sarta che non sa fare il
suo mestiere. Questo è inammissibile!”
Dorkò sogghignò e si avvicinò alla ragazzina che piangeva sommessamente
tenendosi le braccia strette al corpo. La
prese per i capelli e tirò con forza, quasi
sollevandola da terra.
“Incapace, sporca, piccola puttana.” Sibilò tra i denti marci.
“Battetela finché non si accorgerà del
difetto di quest’abito.”
Jò Ilona sorrise crudelmente e raggiunse
Dorkò che già schiaffeggiava la ragazzina. Ella, impaurita tentava di difendersi alzando le braccia paffute, ma gli
schiaffi, i graffi, gli strattoni arrivavano
da tutte le parti. Dorkò le piantò le unghie sporche e lunghe nella pelle rosea
della guancia e tirò con forza fino a
staccare brandelli di carne sanguinante.
“Basta!” gridò la contessa.
“Ora vedi il difetto?”
Elanhia, squassata dai singhiozzi, tenendosi le mani sul viso sanguinante si
avvicinò all’abito e con la forza della
disperazione osservò con occhio attento
fino a individuare un lievissimo difetto
nel corsetto, di fianco a una delle tante
perle.
Con la mano che tremava tanto da non
riuscire a indicare un punto ben preciso,
avvicinò l’indice all’impercettibile grinza.
La contessa sorrise soddisfatta.
“Toglilo.” Sibilò mentre Dorkò e Jò Ilona ghignavano soddisfatte.
Quando la sartina ebbe finito il suo lavoro, venne letteralmente scaraventata
fuori dalla stanza.
La contessa si rimirò soddisfatta nello
specchio, ma subito dopo si accorse che
anche quel passatempo era terminato.
La noia tornò ad agitare il suo animo.
La noia e il desiderio. Quanti mesi erano passati dall’ultima visita di suo marito? Non li contava più.
Dorkò parve comprendere al volo ciò di
cui la sua padrona aveva bisogno.
“Vi chiamo Lazlo?”
La contessa assentì senza voltarsi.
VI
Lazlo si stava occupando del cavallo
della contessa. Come tutte le mattine, lo
pettinava, gli dava la biada, lo spazzolava e immaginava di essere al posto del
cavallo quando la contessa partiva al
galoppo, diretta verso la foresta. Non
che non avesse mai avuto l’onore. Lo
aveva avuto eccome! D’altra parte, come poteva una donna così bella e sensuale rimanere tanto a lungo senza un uomo nel letto? Suo marito faceva ritorno
al castello molto di rado e gli impegni
mondani non erano poi molti in certi
periodi dell’anno. Sentì il passo pesante
e riconoscibile di Dorkò che attraversava il cortile. Odiava quella donna! Vecchia, sporca e odiosa strega!
“Lazlo!” lo chiamò.
“Sì?” Rispose lui senza voltarsi e continuando a spazzolare il cavallo nero.
“La contessa ti attende.” Comunicò
sogghignando e mettendo in mostra i
pochi denti neri che le rimanevano.
Lazlo sorrise tra sé e posò la spazzola.
Diede due pacche al cavallo e pensò che
i suoi desideri erano stati esauditi.
Senza farselo ripetere, oltrepassò la
donna e corse verso l’entrata del castello.
Molte serve erano all’opera in giro per
le stanze. Passò accanto a Elanhia e le
palpò il sedere sodo. La ragazzina si girò disgustata, ma senza lamentarsi o allontanarsi. Il viso ancora tumefatto e
pieno di segni rossi ancora freschi gli
fece capire che aveva combinato qualcosa di molto grave.
Sapeva delle punizioni, ma questo non
faceva che rendere ancora più affascinante quella donna austera e bianca come il latte.
Salì la scalinata saltando i gradini a due
a due e in men che non si dica si ritrovò
dinnanzi alla porta delle sue stanze.
Bussò con garbo e attese di essere invitato a entrare.
“Avanti.”
L’abito rosso cupo giaceva ai piedi del
letto e la figura bianca di Erzsébet spiccava persino sulle lenzuola di lino che
non potevano paragonarsi al biancore
della sua pelle. Non era donna da farsi
corteggiare o da fingere disinteresse per
il sesso. Un’altra al suo posto avrebbe
finto di averlo chiamato per qualche
mansione, si sarebbe fatta adulare e corteggiare prima di iniziare a cedere al
potere della carne, ma lei no. Lei non
amava perdere tempo in quelle assurde
ballate di passione. Lei amava andare al
sodo e Lazlo gliene era grato. Non conosceva l’amor cortese e non sapeva
che farsene di una donna frivola e civettuola. Senza proferir verbo, si strappò
gli abiti di dosso e si gettò sull’alto letto
a baldacchino con i suoi pesanti intarsi
di legno scuro.
“Siete meravigliosa.” Sospirò, già palesemente desideroso di farla sua.
“Massaggiami la schiena.” Gli ordinò
porgendogli una boccetta di unguento
profumato.
Lui sospirò reprimendo un sorriso e si
versò maldestramente l’olio profumato
sulle mani callose. Sapeva di stalla, di
lavaggi poco frequenti e di maschio,
mentre lei aveva addosso un forte profumo di gelsomino che nascondeva
l’odore forte della pelle lavata con sangue e delle creme a base di grasso animale.
Lazlo prese a massaggiarle la schiena
liscia. Con la mano callosa seguì la linea della spina dorsale fino a scendere
sui glutei morbidi. Come faceva a conservare una tale bellezza nonostante
l’età? Si domandò mentre massaggiava
e lentamente la sua mano scendeva e
s’insinuava tra le gambe.
Erzsébet gemette. Vogliosa come e forse più di lui. Desiderosa di sentire un
uomo dentro di lei. Desiderosa di godere e di vedere negli occhi dell’altro, la
passione più sfrenata. Sentì le dita ruvide accarezzarla nel più intimo e dischiuse le gambe per agevolare le carezze che le davano piacere. Lazlo le
baciò la schiena, il collo, i capelli e si
sdraiò sopra di lei. Lei amava il sesso
“fatto come gli animali”, per questo Lazlo non si preoccupò di farla voltare
nella classica posizione del missionario.
Già umida, si inarcò e lasciò che lui la
penetrasse con foga. Niente preliminari
con lei… non servivano.
Non fecero l’amore. Fecero sesso, puro
e semplice. Senza se né ma. Senza vie
di mezzo. Gridando e contorcendosi;
spingendo e ansimando. Come due bestie in cerca solo del culmine. E il culmine arrivò una volta e poi una seconda
e anche una terza per tutti e due.
Forse quel desiderio animale era di famiglia. Un po’ come la gotta oppure
l’epilessia che a quei tempi aveva un
nome molto meno scientifico: crisi del
cervello. Forse il fatto stesso che fosse
figlia di due cugini non aveva fatto che
renderla ancora peggiore. Non era
l’unica infatti a denotare un carattere
particolarmente crudele e cupo. Lo zio
Stefano, re di Polonia aveva sempre sofferto di queste crisi. Lo zio Istvàn era un
ladro, bugiardo e arrivista che per un
periodo fu palatino di Transilvania e
dalla quale fuggì portando con sé tutto il
denaro che riuscì a trovare.
Gàbor, suo cugino e re di Transilvania
era anch’egli di una crudeltà inaudita e
finì ucciso tra le montagne, ma non
prima di aver dato libero sfogo
all’incestuosa passione per la sorella
Anna. Un altro Gàbor, zio questa volta,
passò la vita a tentare di scacciare il
demonio che sentiva avere dentro di sé.
E poi c’era Klàra, zia prediletta di Erzsébet che dopo quattro mariti, svariati
amanti non si limitò a portare nel proprio letto degli uomini e iniziò la stessa
Erzsébet all’amore fra donne. Non erano dello stesso stampo i suoi genitori
che pur essendo cugini, si amarono rispettosamente per molti anni. Gyorgy
era solo l’ultimo di tre mariti per Anna
e apparteneva al ramo Ecsed, mentre
Anna al ramo Somlyò.
Erzsébet quindi non disdegnava avere
nel letto una delle damigelle, ma
c’erano dei momenti in cui non le bastava. Dei momenti in cui desiderava
quello che le poteva dare solo un uomo
e ne desiderava anche gli odori, il tono
di voce, la barba ispida, le mani callose.
Lazlo faceva al caso suo. Ignorante, ma
prestante. Forte e dotato. Più giovane di
lei di cinque anni, la guardava con adorazione ogni volta che s’incrociavano al
di fuori del castello. Nei suoi occhi leg-
geva passione e adorazione e questo lei
voleva. Voleva essere venerata come
una dea. Rimanere per sempre sulla pelle del mondo senza per questo subire i
ricatti del tempo.
Lazlo si alzò dal letto sfatto e passo i
polpastrelli callosi sulla schiena di Erzsébet che pareva dormire.
“Siete stupenda. Bellissima e le vostre
bocche sono entrambe voraci e lussuriose. Siete sprecata per un solo uomo.”
Sussurrò posandole un bacio umido sulla schiena.
VII
Gli aveva scritto tante lettere in cui non
mancava mai di tenerlo aggiornato su
tutto ciò che accadeva al castello. Non
proprio tutto forse, perché lui non avrebbe capito certi suoi passatempi.
Tutti erano in gran fermento per il suo
ritorno. Le serve non facevano che lustrare e riordinare, le cuoche cucinavano con perizia la cacciagione ed Erzsébet riposava, coperta da cataplasmi di
belladonna. Il viso massaggiato dalle
mani sapienti di Natò, la sua dama di
compagnia prediletta, ma non per questo risparmiata dalle punizioni. Desiderava vederlo?
Sì, ma allo stesso tempo, sapeva che la
sua presenza le avrebbe precluso per
tutta la sua permanenza al castello, una
parte importante della sua vita. Le mani
scivolavano sulla sua fronte alta mentre
le foglie di belladonna sbiancavano e
ammorbidivano la pelle del corpo. Erzsébet digrignò i denti, presa da un moto di rabbia inaspettato e devastante
come un fulmine senza nubi. Sangue…
di questo avrebbe avuto bisogno in quel
momento. Da spalmare sul proprio corpo. Sangue da cui assorbire l’essenza
vitale, ma non c’era tempo. Sarebbe arrivato da un momento all’altro.
Forse però avrebbe almeno potuto scaricare l’ira che sentiva crescerle dentro
come una malattia mortale che le avvelenava l’anima. Forse per quello un po’
di tempo lo aveva ancora.
“Fa venire Judith.” Ordinò portandosi le
mani al capo preso nella morsa di fitte
lancinanti che altro non erano che il
preavviso di una sfuriata.
Natò si ripulì le mani unte sul grembiule
ricamato e senza far passare un solo secondo, si diresse verso la porta e uscì.
Tornò pochi minuti dopo. Sul suo volto
era dipinta l’ansia che l’aveva presa
quando non aveva trovato Judith nella
stanza dei ricami, ma solo dopo aver
cercato in ogni altra stanza del primo
piano.
Ci aveva messo troppo tempo?
“Falla avvicinare.” Ordinò Erzsébet
senza voltarsi, fissando sempre con ostinazione il soffitto della stanza.
Natò spintonò la giovane che incespicando e guardandosi attorno nervosa, si
avvicinò alla contessa.
“Mia signora…” sussurrò terrorizzata.
Ancora recava i segni delle percosse
subite da Dorkò la settimana precedente.
Senza preavviso e con un movimento
repentino e collerico, la contessa si mise
in posizione seduta facendo scivolare i
cataplasmi dal petto che rimase nudo.
Le afferrò un braccio e strappò la manica. Judith fu tentata di ritrarre il braccio,
ma non ebbe il tempo di mettere in atto
quel pensiero che già i denti della contessa affondavano nella carne morbida
dell’avambraccio. Judith gridò, con gli
occhi che si riempivano di lacrime, ma
non tentò di divincolarsi, immaginando
per questo una punizione ben peggiore
di un morso e forse eterna.
La contessa scosse la testa come un lupo rabbioso e strappò la carne pallida
quasi fino all’osso. Lasciò il braccio
della serva e masticò avidamente la carne calda e sanguinolenta socchiudendo
gli occhi grandi e scuri.
Natò rimase immobile accanto alla porta rabbrividendo di terrore e disgusto,
mentre Judith si portava il braccio martoriato al petto e con profondi singhiozzi premeva la ferita.
“Vattene!” gridò allora la contessa infastidita ora dalla sua presenza, quasi come se fosse stata interrotta nel bel mezzo di una rilassante seduta di bellezza
per volere della serva stessa.
Judith corse via piangendo e premendosi il braccio che sanguinava copiosamente.
“Cosa fai lì impalata? Abbiamo ancora
molte cose da fare!” aggredì Natò.
Natò torno accanto alla contessa e con
le mani che tremavano, ricominciò il
suo massaggio.
Quando ritenne che la seduta fosse durata abbastanza, ordinò a Natò di prendere l’abito di velluto avorio e rosso. Il
suo corpo venne sciacquato con acqua
profumata e i capelli pettinati e unti con
unguenti al gelsomino. L’abito, di una
bellezza impeccabile, venne stretto sul
busto. Natò le infilò le scarpe un momento prima che un gran trambusto al
piano di sotto indicasse che il momento
era arrivato.
Ferencz era al castello.
Erzsébet era invasa da sentimenti in netto contrasto tra di loro. Non era amore
quello che sentiva per il marito. Non
aveva mai provato quel sentimento per
nessuno e non credeva esistesse davvero. Credeva piuttosto che fosse una bugia, inventata per far da cornice alle ballate e alle storie che aveva sentito raccontare e che venivano dai salotti italiani. Lo rispettava… questo sì. Sentiva
rispetto e fastidio al contempo. Rispetto
per quel guerriero coraggioso e bello.
Scuro di capelli e dal portamento fiero.
E fastidio. Fastidio per il suo intrufolarsi nella sua vita al castello, rovinandole
i piani.
“Mia signora…” la salutò lui rimanendo
ai piedi della scala.
“Mio signore.” Lo ricambiò lei con un
cenno del capo riccamente adornato.
“Gradite una coppa di vino?” domandò
lei da buona padrona di casa.
“Perché no!” rispose sorridendo e fissando quegli occhi misteriosi e profondi. Anche lui non poteva dire di provare
amore per quella donna rigida e distante, ma una sorta di passione malata. In
quegli occhi vedeva il fuoco
dell’inferno. Lingue che si toccavano,
labbra che si schiudevano. Urla di piacere e gemiti. La considerava un’ottima
padrona di casa. Severa, ma giusta. Sorrideva ai racconti delle punizioni inflitte
alla servitù e che mai si avvicinavano
davvero a ciò che accadeva veramente
al casello di Csejthe. L’aveva conosciuta quando lei aveva dodici anni ed era
poco più che una bambina. L’avevano
scelta come sua sposa anche se lui era
ben distante dal considerare l’idea del
matrimonio. Eppure sapeva di doverlo
fare. Era l’unico figlio maschio dei Nàdasdy ed era indispensabile che portasse
avanti il nome di famiglia. Troppo impegnato nelle battaglie contro i Turchi
già allora, tornava a casa di rado. Ogni
volta che tornava, scopriva una nuova
Erzsébet. Più grande, più matura, più
istruita e con una carica erotica che non
faceva che accrescere il suo desiderio di
matrimonio. Quando si sposarono, lei
aveva quindici anni ed era nel pieno
della sua giovane bellezza. Non aveva
potuto fare a meno di ammirarla nel suo
abito nuziale e immaginarla senza. Ma
tutto ciò che aveva immaginato, nemmeno si avvicinava a ciò che lei gli aveva fatto provare tra le coltri del letto a
baldacchino che avevano diviso la prima notte di nozze. Nulla al confronto
delle sue passate esperienze “amorose”.
Nemmeno la più consumata delle prostitute era andata così vicino a farlo impazzire di piacere.
Non poteva che essere grato ai suoi genitori per la scelta che avevano fatto.
Non tornava al castello molto spesso.
C’era sempre qualche battaglia da portare avanti. Qualche turco da uccidere.
L’Ungheria da proteggere. Ma quando
tornava, sapeva che avrebbe passato
giornate di festa. Cibo ben cucinato, vino a fiumi, risate, passeggiate a cavallo
e sesso. Tanto sesso sfrenato. Il desiderio che le leggeva ogni volta negli occhi, bastava a fargli credere che lo a-
masse e che non attendesse che lui per
dare sfogo alla sua sana libido. Certo
non immaginava la tresca con Lazlo o le
giovinette con cui si intratteneva quando non aveva voglia di Lazlo.
Erzsébet scese con grazia gli scalini.
Ferencz le porgeva la mano e lei la prese con garbo. Entrambi sentirono una
scarica di energia che percorreva i loro
corpi desiderosi l’uno dell’altro. Ma
non potevano ascoltare quel richiamo
come animali. Vi era tutto un rituale fatto di buona educazione da seguire scrupolosamente prima di lasciarsi andare ai
propri istinti, al riparo delle spesse pareti della camera da letto.
Scendendo insieme la scala si diressero
verso il lungo tavolo che avrebbe ospitato la cena con ogni ben di Dio. Con
uno scampanellio, Erzsébet chiamò la
serva addetta alla cucina e ordinò due
bicchieri di vino speziato.
Ferencz si stupiva sempre dell’innato
atteggiamento da padrona di casa della
moglie. Non mancava di riservare sempre un’occhiata profonda e severa alla
servitù che pareva avere di lei molta
soggezione e forse anche un po’ di pau-
ra. Tutto filava liscio al castello proprio
per questa ragione, pensava. Una donna
forte e capace, non avvezza ai piagnistei
soliti delle altre donne o a crisi di debolezza. Erzsébet non gli dava questi pensieri. Sapeva che, anche sola e distante
da lui, non faticava a tenere a bada servitù, figli e l’intero paese se fosse stato
necessario.
Già… i figli…
“I nostri figli?”
Erzsébet osservò silenziosa la donna
grassa e rosea che posava le due coppe
di vino aromatizzato con cannella,
chiodi di garofano e miele. Solo quando
ella se ne fu andata, sollevò i suoi occhi
cupi verso il marito che attendeva risposta. Anche gli occhi di lui erano profondi, ma in fondo buoni, umani. In essi si
scorgevano i normali sentimenti che
scuotono l’animo di ogni uomo, ma in
quelli di lei… un mondo ignoto e senza
fine si dibatteva dietro quelle iridi scure.
“Stanno bene.” Fu la sua risposta concisa.
“Anna?”
“Ho ricevuto una sua missiva ieri. Si
trova molto bene con la sua nuova fa-
miglia e pare non veda l’ora di convolare a nozze.”
“Ne sono lieto. Non c’è nulla di meglio
che trovare la persona giusta per dividere la propria vita in eterno.” Sussurrò
guardandola fissa. Erzsébet socchiuse
gli occhi, come se dita invisibili le stessero sfiorando il corpo sinuoso. Reclinò
il capo come a voler godere di quelle
carezze inesistenti.
“Vi desidero…” sussurrò ancora Ferencz sentendo l’eccitazione diventare
troppo impetuosa per poter ancora attendere.
Erzsébet fece un passo indietro e si addosso alla parete fredda. Un brivido la
percorse in tutto il corpo. Anche lei non
voleva più aspettare. Complice il bel
portamento di lui, i suoi occhi profondi
e vogliosi, la sua barba scura e che lo
faceva somigliare a un dio guerriero e
quella voce lenta e profonda che sembrava volersi insinuare in ogni parte del
suo corpo. Percepì il respiro di lui sul
collo dove la gorgiera d’argento terminava in sapienti ghirigori. Sentì le sue
mani grandi e callose che le si posavano
sui fianchi. Niente esisteva più attorno a
loro. Esistevano solo più i loro corpi. Il
loro desiderio.
Erzsébet si ritrasse di scatto.
“Cosa vi prende?” le domandò Ferencz
con disappunto.
“Non è il luogo adatto per questo genere
di cose. Voi mi tentate. Mi spingete a
fare cose che non si dovrebbero nemmeno pensare in pubblico.” Disse asciutta, nascondendo quella parte di sé
che invece non teneva in nessun conto il
buon costume.
“Avete ragione. Perdonatemi.” Rispose
Ferencz, violentando la propria eccitazione.
“Bevete il vostro vino finch’è tiepido.”
Consigliò lei abbozzando un sorriso che
sembrò più una smorfia. Forse
l’abitudine a non sorridere mai aveva in
qualche modo fatto sì che i muscoli del
viso non fossero più in grado di farlo.
Bevvero il vino e parlarono dei loro figli. Pàl cresceva, Kata diventava una
signorina come anche Orsolya. Non
venne mai menzionato il nome di Megyery il Rosso nonostante Erzsébet sognasse di vederlo infilzato dalla spada
di Ferencz.
“Desiderate fare una passeggiata?” domandò lei posando la coppa vuota.
“Sì, una passeggiata è forse quello che
ci vuole.” Disse non senza un pizzico
d’ironia.
Uno scampanellio prodotto dalla contessa fece accorrere Kata.
“Portami il mantello.” Disse asciutta.
Kata ritornò quasi di corsa, con il mantello di velluto e pelliccia e glielo posò
sulle spalle senza che lei muovesse un
solo dito per agevolarle il compito. Ferencz ammirava quel modo austero e la
desiderava ogni volta di più. Desiderava
domare quel corpo bianchissimo e quel
carattere forte e ribelle che tra le lenzuola diventava caldo e arrendevole oppure aggressivo e selvatico. Era come
farlo con donne diverse e contrapposte
allo stesso tempo. Era come cambiare
donna ogni volta. Forse per questo non
smetteva di desiderarla nemmeno quando giaceva con una prostituta nel cuore
dell’accampamento da guerra. Sempre
lei nei suoi pensieri. Sempre lei, muta e
bellissima, con il suo corpo nato per
fargli sfiorare il piacere più alto.
Riprese anche lui il proprio mantello e
le porse il braccio. Il cielo era terso e
non minacciava più di nevicare come
nei giorni passati. Sembrava un abbozzo
di primavera e le chiazze di neve, giacevano semisciolte ai bordi della strada.
Passeggiarono in silenzio, guardandosi
attorno. I rami spogli degli alberi si stagliavano netti sul cielo azzurro. Il rumore delle sterpaglie appena riapparse dai
cumuli invernali di neve scricchiolavano come se fossero percorsi da piccole
lepri. Le orme di un lupo percorrevano
la loro stessa strada. Ricordava l’ultima
volta che avevano percorso quel sentiero. Era successo poco prima di ottobre
dell’anno passato. Faceva già freddo
eppure una donna completamente nuda
stava al centro della radura. Aveva
guardato accigliato e poi si era voltato
verso Erzsébet che non appariva per
nulla stupita da quella visione.
“Chi è quella donna?” le aveva domandato incredulo.
“Una serva.” Aveva risposto lei seria.
“Che cosa fa una serva nuda in mezzo
al bosco?”
“Ha rovesciato e rotto un vaso di miele.
È una punizione.”
Ferencz aveva guardato il corpo della
donna che si lamentava senza però urlare.
“In cosa consiste la punizione?”
“Il suo corpo è cosparso di miele. Lo
stesso miele che è andato sprecato per
un suo errore. Ora come vedi almeno
serve a qualcosa. Serve a farle capire
che non deve più commettere errori. Le
formiche amano il miele, ma non credo
che lei ami altrettanto i morsi delle formiche.”
Così dicendo si era allontanata attendendo che lui la seguisse come sempre
faceva. Era rimasto ancora un momento
a contemplare quello spettacolo e poi
era scoppiato in una grassa risata seguendola.
“Siete piena d’inventiva moglie mia!
Sono certo che non rovescerà mai più il
vostro prezioso miele!”
Solitamente non ricordava mai i visi
delle donne al servizio di sua moglie,
ma il viso di quella ragazza gli era rimasto impresso. Nei giorni successivi
l’aveva cercata, ma senza alcun risulta-
to. Non sapeva certo che Dorkò aveva
terminato il lavoro iniziato da sua moglie e che Berthoni si era occupato di
tumularla in fretta e furia.
Seguirono quello stesso sentiero fino ad
arrivare alla medesima radura dove però
non c’era la ragazza di quella volta, ma
solo un palo dimenticato.
“Cosa mi dite di ciò che avete passato
negli ultimi mesi?” domandò lei.
“Niente di più di ciò che già vi ho scritto. Non desidero parlare della guerra ora
che sono a casa. Piuttosto, vorrei darvi
un consiglio. Ho dimenticato di scrivervelo l’ultima volta e so che stavate cercando un rimedio con due domestiche.”
“Vi riferite al modo di intervenire su
svenimenti ed epilessia?”
“Sì. Purtroppo l’isterismo non colpisce
solo le donne e ho dovuto farvi fronte in
più di un caso negli ultimi tempi.”
Fissò per un lungo istante l’orizzonte
come a voler ricordare ogni particolare
di quei momenti.
“L’ultimo periodo è stato duro e molti
uomini, soprattutto i più giovani, si sono lasciati andare a vere e proprie crisi
che non sapevo più come gestire. Il ri-
medio è arrivato per caso. Il ragazzo era
sdraiato per terra in preda alle convulsioni isteriche quando una candela è caduta e ha dato fuoco a un pezzo di carta. In un attimo le fiamme hanno lambito i piedi del giovane che si è come ripreso in modo istantaneo. Credo che il
fuoco cancelli le crisi di cervello.”
Erzsébet lo guardò sgranando gli occhi
come se non avesse mai pensato a
commettere una tale tortura ai danni di
una delle sue domestiche.
“Sembrate sconvolta.”
“No. Sono ammirata. Siete riuscito casualmente a trovare un rimedio a una
piaga che affligge più di una domestica.
Non mancherò di mettere in atto il vostro consiglio non appena si presenterà
l’occasione e non mancherò di scrivervi
l’effetto che ha avuto.”
“Sono felice di potervi essere in qualche
modo utile nella gestione del castello.”
Sorrise accarezzandole una guancia.
“Avete la pelle più bella che io abbia
mai veduto.” Sospirò di nuovo in preda
al desiderio. Se glielo avesse concesso,
l’avrebbe presa lì, tra la neve che si
scioglieva al sole ancora debole.
Passeggiarono tra gli alberi ancora addormentati dall’inverno giunto quasi al
suo naturale termine e lo sgocciolio della neve.
Quando rientrarono, infreddoliti e soddisfatti, si fecero portare altre due coppe
di vino fumante e lo sorseggiarono in
silenzio.
“Mi ritiro per prepararmi alla cena.”
Disse lei quand’ebbe finito la sua coppa.
“Certo.” Assentì lui osservandola mentre si allontanava verso la scalinata.
Per l’occasione erano stati invitati alcuni amici di famiglia che avrebbero goduto della loro compagnia e assaporato
la cacciagione splendidamente cucinata.
Ferencz non fece caso alla giovinetta
dallo
sguardo
terrorizzato
con
l’avambraccio fasciato strettamente e
non fece caso neppure agli occhi supplichevoli di altre domestiche. Parevano
chiedergli di non andarsene più perché
quando c’era lui, potevano respirare…
potevano non piangere… e alcune potevano continuare a vivere.
VIII
La tavola era imbandita. Ogni tipo di
carne fumava e profumava la sala da
pranzo. Tutti gli invitati avevano preso
posto e assaporavano rumorosamente i
grossi pezzi dorati. Non vi era nessuno
che si facesse problemi a masticare con
la bocca aperta o bere risucchiando. Se
Erzsébet e le altre signore avevano fatto
tutto il possibile per essere profumate
anche se non lavate, gli uomini recavano con sé l’odore forte e acre dei campi
di battaglia. Sudore vecchio, urina stantia, polvere e sangue coprivano le loro
pelli coriacee.
Tra risate grasse e rumorosi grugniti, la
cena volse al termine. Erzsébet sedeva
ritta e composta, completamente adornata da perle e ori. Ascoltava senza parlare. Guardava senza vedere. Osservava
ogni movimento delle sue domestiche e
se lo imprimeva nella memoria in modo
da non passare sopra a qualche loro
mancanza. Il fio sarebbe arrivato alla
partenza di Ferencz. Era felice di quel
banchetto, di quella deviazione dalla
solita routine, ma al contempo non vedeva l’ora di riappropriarsi del suo tempo. Di poter gestire come meglio credeva gli affari del castello. Di ritrovare il
silenzio di quei corridoi. Aveva anche
desiderio di tornare a Vienna. Si sentiva
bella come non mai e nuovi abiti erano
arrivati pochi giorni prima dall’Italia e
dalla Francia. Abiti curati nei minimi
dettagli che sottolineavano la sua figura
e che avrebbero dovuto essere ammirati
alle corti di Vienna.
Presa da questi pensieri contrastanti, vide la sera passare e gli invitati congedarsi per tornare alle loro dimore.
Finalmente soli.
“Siete stanca?”
“No.”
Senza aspettare oltre, Ferencz le si avvicinò e le porse la mano. Lei la prese
con garbo abbassando gli occhi come
fosse una vergine alla sua prima notte e
si alzò dalla pesante sedia di legno.
Salirono in silenzio la scala mentre nei
loro animi si agitava un mondo sommerso e fatto di solo buio e lingue di
fiamma.
La porta della stanza venne aperta e richiusa con uno scricchiolio. All’interno
bruciavano lampade a olio che spandevano i loro aromi dolciastri e illuminavano i pesanti arazzi dai colori tristi.
Qualche ciocco scoppiettava nel piccolo
camino.
“Vi ho desiderata ogni giorno e ogni
notte.” Sussurrò lui baciandole il petto,
dove la pelle scoperta fremeva.
“Niente e nessuno riesce a cancellare la
vostra immagine dalla mia mente.”
Continuò.
Lei fece un passo indietro verso il letto
rischiarato dalla tremolante luce delle
lampade a olio e dal fremere più vivo
delle lingue di fuoco nel caminetto.
Si sdraiò facendo vagare lo sguardo, in
attesa di sentire le mani di lui addosso.
Non poteva dirgli quello che agognava.
Non poteva dirgli che desiderava la violenza e il dolore, ma rimase ferma, immobile nel suo pallore attendendo che
fosse lui a comprendere ciò che più la
poteva eccitare in quel momento. Non
carezze di velluto e baci setosi. Non parole d’amore e rispetto di marito, ma
rudi mani ovunque. Immaginava la veste strappata di dosso con foga. Immaginava carezze pesanti, graffi e morsi.
Immaginava lui, che senza preamboli
s’insinuava tra le sue carni pulsanti.
Immaginava l’odore forte del suo sesso.
Ferencz parve comprendere appieno
quei desideri nascosti o forse seguì semplicemente i suoi di desideri. Lacerò
l’abito costoso e stupendo che cadde di
lato a brandelli. Con un movimento
fulmineo strappò via la gorgiera che
racchiudeva l’esile collo e centinaia di
perle perfette rotolarono sul pavimento.
Poggiò le labbra su quel collo tiepido.
Sotto le labbra, il pulsare ritmico delle
vene e i gemiti di piacere. Rimase con
le labbra incollate al collo mentre lei
s’inarcava come a volergli dire di non
abbandonare quella posizione di dominanza. Morsicò la pelle morbida che subito si chiazzò di rosso. Fece scivolare
un braccio dietro la testa di lei e con rudezza la prese strettamente per i capelli.
Erzsébet sentiva attraverso la stoffa dei
pantaloni, l’eccitazione maschia del marito che non vedeva da mesi, ma di cui
ricordava la passione irrefrenabile tanto
quanto la sua.
Un bacio profondo le riempì la bocca.
Sapore di cibi gustati da poco, odore di
tabacco e sudore sulla barba lunga. Saliva che si mischiava e odore di gelsomino delle lampade a olio. Con un ginocchio, le scostò bruscamente le gambe l’una dall’altra. Così, osservando il
suo corpo nudo con cupidigia, si sollevò
e si liberò degli abiti per poi tornare
immediatamente su quella pelle tanto
bianca da sembrare lucente. Ripiombò
sul suo collo e lei reagì mordendolo a
sua volta, ma con meno riserve di quelle
di lui. Un rivolo di sangue sgorgò dalla
pelle coriacea e le bagnò le labbra già
rosse di trucco.
“Lo desiderate più di me non è vero?”
domandò sorridendo e guardando un
momento quegli occhi immensi e quelle
labbra umide del suo sangue.
La baciò di nuovo, sentendo il sapore
ferroso di quel vitale liquido rosso.
Erzsébet non rispose. Non ce n’era bisogno, le parole non avrebbero fatto al-
tro che rovinare un momento perfetto.
Un momento in cui si sentiva come avrebbe voluto sentirsi sempre, in preda
alla più devastante lussuria. Sospesa nel
tempo, con la noia lontana anni luce e le
forze della natura al suo cospetto. Questo sempre avrebbe voluto. Voleva che
quel momento non finisse mai. Desiderava il sesso dentro al suo, i movimenti
forti e violenti, la furia di un uomo dentro di sé e il culmine del piacere, ma allo stesso modo lo temeva perché avrebbe portato all’inevitabile fine e lei sarebbe tornata a sentire la noia che le attanagliava l’anima. Le forze della natura che si rintanavano nel loro mondo
parallelo senza darle più conforto. Di
nuovo la luce del giorno che lei mal
sopportava e di nuovo le solite noiose
faccende di ogni giorno. Invece lei desiderava solo questo. Solo un eterno dibattersi del desiderio.
Anche lui sembrava non voler giungere
troppo in fretta alla fine e per questo
ancora non si era congiunto con la moglie che pure gli dimostrava tutta la sua
cupidigia.
“Siete così meravigliosa che non posso
credere di aver avuto tanta fortuna.” Sospirò.
“Voi siete un uomo meraviglioso.” Rispose senza nemmeno pensare a ciò che
diceva.
Le mani di lui si soffermarono sui seni
ancora turgidi nonostante le gravidanze.
Li baciò con foga, senza riguardi, senza
delicatezza, strofinando la barba spessa
sulla pelle delicata. Succhiò come un
infante affamato, ogni tanto mordendo,
ogni tanto baciando.
Lasciò che ancora quell’eccitazione sublime non trovasse sfogo in una penetrazione, ma poi dovette arrendersi alla
propria natura ed entrò dentro di lei. Lei
gemette forte quando sentì il piacere
misto al leggero dolore della penetrazione forzata, ma subito si mosse contro
di lui come se non ne avesse ancora abbastanza. Come se desiderasse tutto il
corpo di lui dentro se stessa. Come se
quella parte da sola non bastasse a saziarla. Lui spinse con tutte le forze dei
lombi, senza mai rallentare e senza per
questo arrivare a un troppo veloce epilogo.
Si fermò, la girò sulla pancia e la penetrò ancora, mentre lei s’inarcava e spingeva indietro come una qualsiasi bestia
in calore. Le mani di lui calarono violentemente sulle rotondità del sedere
facendola sussultare. Le unghie penetrarono nella pelle scavando leggeri solchi
violacei e lei non pensò minimamente al
suo biancore rovinato oppure alla sua
perfezione deturpata. Pensò solo al piacere che stava provando e che raggiunse
il suo apice.
Passarono ore di quella guerra chiamata
sesso e solo quando entrambi sentirono
la soddisfazione completa, si sdraiarono
stremati l’uno di fianco all’altra.
Non ci sarebbero state coccole e carezze. Lei non le amava e lui glien’era grato. Nessun uomo vero amava passare il
proprio tempo a coccolare una donna,
ma tollerava di doverlo fare per amore
della famiglia.
Sì, si riteneva davvero fortunato oltre
ogni limite.
“Siete tutto ciò che un uomo può desiderare.” Sospirò scostandole i capelli
sciolti dal volto accaldato e roseo.
Lei lo stupì baciandogli il palmo della
mano.
“Vorrei andare a Vienna.” Disse, già
dimentica di quella notte di passione.
Già sentiva che tutto stava ripiombando
nella solita mediocrità e non poteva
sopportarlo. Aveva bisogno di svago, di
cambiare aria.
“Siete incredibile! Avete una tale vitalità… ho appena usato il vostro corpo a
mio piacimento per ore e voi avete la
forza di pensare a un viaggio!”
“Verrete con me non è vero?” chiese
tradendo un senso di debolezza che non
era da lei.
Ferencz si accorse di quella debolezza e
aggrottò la fronte quasi come fosse
preoccupato.
“Vi sentite bene? C’è qualcosa che avete dimenticato di dirmi?” domandò.
“No. Desidero solo lasciare per un po’
questo castello e le incombenze
dell’inverno passato.”
“Non avete che da chiederlo. Partiremo
immediatamente. Anche io non disdegno un viaggio a Vienna ora che
l’inverno è ormai alle spalle.”
La notte consumò l’olio dei lumi e la
legna nel caminetto divenne sonnacchiosa brace mentre le tende tenevano
fuori i primi raggi di luce.
IX
Era tutto pronto. Le carrozze erano state
caricate con i bauli colmi d’abiti
all’ultima moda e le serve erano pronte
per partire. La contessa discese la scala
in compagnia di Ferencz discorrendo
degli ultimi accordi. Non sarebbe partito con lei, ma l’avrebbe raggiunta nei
giorni successivi e questo la metteva di
cattivo umore. Non voleva che rimanesse da solo al castello con Megyery il
Rosso pronto a pugnalarla alle spalle
rivelandogli i suoi passatempi. Detestava viaggiare da sola e non avere le attenzioni di un uomo. Questo la mandava
letteralmente in bestia. Costretta a passare lunghissimi mesi da sola, non tollerava che anche in quell’occasione ci
fosse qualcosa a tenerla chiusa nella sua
solitudine.
Una solitudine che non era fisica perché
attorno a lei c’erano sempre centinaia di
persone e ora che stava andando a
Vienna ce ne sarebbero state ancora di
più. La sua era una solitudine ben peggiore: quella congenita che alberga
l’anima e che ti strazia lo stomaco.
Quella che fa sì che tutto attorno a te sia
avvelenato da sentimenti di tristezza. La
sensazione di essere sempre sospesa in
un mondo liquido fatto di frivolezza che
mai sarebbe arrivato a percepire la vera
profondità dell’anima.
Eppure, ella stessa era sempre in cerca
di frivolezza.
La stessa bellezza che rincorreva da
sempre era frivolezza, ma non per lei.
Per lei quella perfezione bianchissima
era alla base della propria esistenza. Alla base del legame instabile con la propria anima e ancora, alla base del suo
legame con il mondo che la circondava.
Senza quell’eterea perfezione non era
nulla.
La natura era perfezione e lei non desiderava che assorbire tale perfezione da
tutto ciò che poteva. Infusi di erbe, im-
pacchi di foglie, animali essiccati, ma in
primis… il sangue dei suoi simili.
Non ricordava quando avesse cominciato a ritenerlo alla base stessa della sua
felicità.
Ricordava di aver sempre avuto scatti
rabbiosi contro la servitù e una naturale
predisposizione per il comando. Forse
tutto era accaduto accidentalmente la
prima volta.
Una visione indistinta le si presentò davanti agli occhi. Una ragazza di un anno
più grande di lei. Doveva avere circa 16
anni perché era accaduto l’anno dopo il
matrimonio, quando ancora era in vita
sua suocera e i balli a Vienna erano solo
sogni. L’aveva schiaffeggiata con qualche pretesto che ora le sfuggiva e colpendola, le aveva fatto sanguinare il naso. Era inorridita quando aveva visto la
propria mano sporca di quel sangue
contadino e il polsino dell’abito irrimediabilmente rovinato. Urlando e imprecando aveva preso a strofinare via quelle macchie rendendosi poi conto che il
sangue della contadina, aveva reso la
pelle più morbida e più bianca.
Non si era chiesta se quell’effetto fosse
una conseguenza del suo strofinare in
modo ossessivo.
“Siamo pronti mia signora.” Jò Ilona
interruppe i suoi pensieri.
Assentì con un lieve cenno del capo e
salì sulla carrozza salutando il conte che
per tutto il tempo era rimasto in silenziosa attesa. Aveva compreso che non
sarebbe stata una buona scelta aprir
bocca davanti allo sguardo ferreo di Erzsébet.
Le inviò un silenzioso bacio quando la
vide sporgersi dalla carrozza e voltarsi
verso di lui, ma nulla fece pensare che
se ne fosse accorta.
Il viaggio non era troppo lungo, ma
spesso Erzsébet cambiava posizione,
spazientita, come se avesse avuto una
corona di spilli sulla seduta.
La notte stava per calare di nuovo
quando giunsero finalmente nei pressi
della grande residenza viennese. Poco
distante, troneggiava il palazzo imperiale dove Massimiliano II si preparava ad
abdicare in favore del figlio Rodolfo II.
Era risaputo il loro interesse sfrenato
per la magia e per l’occulto e forse an-
che per questa ragione, Erzsébet amava
frequentarli. Vienna rappresentava tutto
il meglio e tutte le novità in fatto di magia e pozioni e la contessa non mancava
mai di visitare ogni piccola bottega per
trovare le erbe migliori, le pietre più
magiche, le pozioni più efficaci.
Jò Ilona scese dalla carrozza in coda e
sbraitando, diede le prime consegne alle
giovani serve.
“Desiderate che qualche fanciulla in
particolare vi sia riservata per questa
sera mia signora?” ghignò con cattiveria. Quando non era la contessa a urlare
per avere una fanciulla da torturare, era
lei stessa che le proponeva un diversivo.
Forse perché la conosceva ormai talmente bene da non aver bisogno di attendere l’ultimo momento. Vedeva bene
che da un momento all’altro sarebbe esplosa.
Perché allora aspettare che fosse troppo
tardi?
“Sì.” Il suo viso non tradiva alcuna emozione. Gli occhi guardavano distante.
Forse guardavano un mondo diverso da
quello che vedevano i comuni mortali.
Forse una realtà parallela fatta di cieli
grigi carichi di elettricità, alberi curvi
trasudanti di sostanze sconosciute.
La carrozza ripartì alla volta del palazzo
imperiale. Una serata movimentata e
allegra l’attendeva e per l’occasione aveva scelto uno degli abiti più belli, arrivato dalla Francia solo pochi giorni
prima.
Ecco lo splendido palazzo imperiale solo a pochi metri ormai. La carrozza si
fermò e Ficzkò le porse la mano per
aiutarla a scendere. L’aria era pungente
sul fare della sera e Erzsébet si riparava
come meglio poteva per non rischiare di
fare la sua entrata a palazzo con le gote
rosse di una qualsiasi contadina.
La voce baritonale di Massimiliano II
l’accolse non appena mise piede dentro
il palazzo.
Schiere di giovani serve accorsero a sollevarle la stola di pelliccia dalle spalle,
a riscaldarle le mani con un panno caldo.
“Cara, cara, cara contessa Bàthory!
Quale piacere riavervi qui a Vienna!”
con un inchino le sfiorò la mano gelida
con le labbra.
“Imperatore, è un onore essere ancora
una volta a Palazzo in vostra gradevole
compagnia.” S’inchinò lei.
“Desiderate del vino caldo? L’inverno
non ha ancora abbandonato queste terre
purtroppo. Pensate che solo pochi giorni
fa è stato qui un rinomato pittore italiano e mi ha narrato delle splendide giornate primaverili che già si godono nella
piccola Italia! Oh… beati loro!” rise
gioviale.
Aveva anche lei conosciuto alcuni artisti italiani e ne aveva ammirato la fantasia e le capacità, ma non avrebbe mai
potuto risiedere in Italia. Troppo ciarlieri. Troppo solari.
“Venite. Sedetevi accanto al camino.”
Erzsébet lo seguì senza controbattere.
“Immaginavo che il conte Ferencz Nàdasdy sarebbe giunto in vostra compagnia… mi auguro che vada tutto per il
meglio.”
“Sì, mi raggiungerà tra qualche giorno a
causa di una questione di famiglia che
non poteva in alcun modo essere rimandata.”
“Ah bene! E i vostri figli? Che mi dite
dei vostri figli?”
“Stanno bene. Sono grandi ormai e Anna è persino fidanzata con un giovane di
ottima famiglia.”
“Ma cosa mi dite! La piccola Anna già
in età da marito! Il tempo passa troppo
velocemente… troppo… ma voi siete
splendida come non mai! Dovete confessare qualcosa?”
Erzsébet ebbe un tuffo al cuore. Come
faceva a sapere?
“Vi sentite bene? Mi sembrate più pallida del solito.” Domandò Massimiliano
II con aria preoccupata.
“Sì, è solo il viaggio…”
“Ecco il vino.” Disse prendendo la coppa dalle mani di una giovinetta dalle
guance paffute e rosee.
“Bevete, vi sentirete subito meglio.”
Erzsébet prese la coppa e sorseggiò il
vino bollente.
“Siete davvero senza tempo mia cara.
Non sembrate avere un solo anno di più
rispetto a quando avete sposato il giovane Ferencz. La natura vi ha fatto un
dono mia cara.”
Erzsébet sentì il peso sullo stomaco disciogliersi fino a scomparire, e pensò a
tutto ciò che faceva per far sì che il
tempo davvero si fermasse.
Rimasero soli a discorrere delle erbe
migliori e dei nodi magici che percorrevano la terra. Delle salmordine dalle
gocce di sangue e di altre pietre dai poteri ultraterreni.
Gli invitati arrivarono presto e il salone
si trasformò in un allegro via vai di dame in abiti sgargianti e gentiluomini
dalle mani delicate. Erzsébet guardò
con invidia queste coppie volteggiare
allegramente per la sala fino a che non
arrivo l’ora di lasciare il ricevimento.
Quando arrivò alla sua residenza sentiva
dentro di sé che si stava preparando un
esplosione di rabbia senza precedenti.
Varcò la soglia con furia e salì le scale
sbuffando e digrignando i denti come
fosse una bestia feroce.
“Jò Ilona!” gridò e ogni fanciulla in
quella casa iniziò a pregare.
Jò Ilona accorse e si fermò sulla soglia
in attesa di ricevere ordini che già conosceva.
Erzsébet ansimava come una belva ferita, gli occhi pieni di lacrime mai versate
e rabbia repressa per troppo tempo. Con
una manata spazzò via ogni oggetto posato sulla toeletta, compreso il bauletto
di corno dove conservava i suoi più potenti oggetti magici.
Fu tentata di gettare a terra anche lo
specchio, ma con le mani atteggiate ad
artiglio e il viso sfigurato dalla malvagità, si fermò e lasciò ricadere le braccia
lungo i fianchi.
Si girò verso Jò Ilona. Nei suoi occhi
non vi era più nulla di umano. Il viso
era talmente bianco e gli occhi talmente
vasti e neri da dare l’impressione di poterci annegare dentro. E annegare dentro quegli occhi significava annegare tra
le fiamme dell’inferno. Si sentiva come
svuotata. Tutta quella gente che l’aveva
guardata e ammirata l’aveva anche come consumata. La sua bellezza senza
tempo era stata messa a dura prova dal
viaggio e poi era stata “rubata” dagli
occhi bramosi di donne e uomini e da
quelli dello stesso imperatore!
Mesi e mesi di cataplasmi, massaggi,
unguenti e un solo giorno per avvizzire!
Tutti l’avevano ammirata quella sera!
Tutti l’avevano desiderata!
Tutti avevano preso una parte di lei!
Divorata dagli occhi desiderosi e lussuriosi.
Jò Ilona non aspettò che fosse lei a ordinare una giovane; ne portò una, la
prima che le capitò a tiro.
Tanto piccola da sembrare ancora una
bambina, ma già sviluppata come una
donna. Erzsébet la fissò con disgusto.
La natura aveva concesso a quella creatura di non essere una nana, ma solo per
poco… molto poco.
Con passo pesante e deciso uscì dalla
stanza e scese le scale. La fanciulla cominciò a strillare e disperarsi perché sapeva che qualche possibilità di uscire
viva da quella camera c’era, ma dalla
lavanderia… no.
X
La giovane di bassa statura giaceva già
a terra, gli abiti sparsi tutt’attorno, il viso contorto per il dolore e le percosse.
La carne dei seni completamente bruciata dai tizzoni ardenti. Non le aveva
dato alcuna soddisfazione! Era morta
quasi subito. Il colpo inferto alla testa
con l’attizzatoio era stato fatale e la
contessa si era infuriata ancora di più.
Aveva gridato tanto da far pensare che
le sarebbero saltate via le corde vocali o
che le sarebbero esplose le vene del collo. Scapigliata e coperta di sangue, ora
stava ferma come una statua davanti alla nuova preda. La fissava come un leone fissa una gazzella prima di spiccare il
balzo letale. La giovane teneva gli occhi
bassi e mormorava qualcosa, forse una
preghiera. Sentiva freddo, ma avrebbe
fatto qualsiasi cosa per arrivare al punto
di non sentirlo più. Tremava per la paura e per la bassa temperatura. Ogni tanto
i denti sbattevano gli uni contro gli altri
e un violento scossone le percorreva il
corpo.
Quel corpo che Erzsébet stava fissando
da quasi mezz’ora, in preda a una sorta
di trance, come se stesse aspettando che
una voce che solo lei poteva udire finisse di recitare un antico rituale. Fece un
passo avanti. Le palpebre non si chiudevano mai su quegli occhi enormi, dove un intero mondo si stava battendo
per avere il sopravvento su quello che
invece la circondava.
Le arrivò tanto vicino da sentire l’odore
della sua pelle. L’annusò e cambiò direzione. La fanciulla sospirò profondamente e alzò gli occhi al cielo come a
voler ringraziare Dio di averla salvata
da quegli occhi che ora però si stavano
concentrando sugli attrezzi disposti ordinatamente sul tavolaccio.
Troppo in fretta… stava pensando Erzsébet. Tutto era andato troppo in fretta
con la prima.
Prese gli spilloni e li tenne sul palmo
aperto come a soppesarli. Erano così
leggeri e sottili! Sembravano così innocui! Doveva frenare il desiderio e lasciarsi guidare dalla calma. Immaginò
di essere nel ventre freddo e buio del
bosco, dove tutto segue i cicli lenti e
naturali della vita, dove la rugiada gocciola pigramente dalle foglie. Immaginò
che il sangue di quella serva fosse proprio come la rugiada del mattino. Indispensabile presenza discreta. Si girò respirando a fondo e quasi le sembrava di
sentire l’odore del sottobosco anziché
l’olezzo di sangue vecchio e morte.
Dorkò si fece avanti e aspettò un cenno
della contessa per sapere che cosa avrebbe dovuto fare. Erzsébet si fermò
davanti alla giovane e guardandola fisso
le carezzò una guancia; un gesto che la
fece quasi sembrare umana.
“Le mani.” Disse senza smettere di carezzare quel volto e perdersi in quegli
occhi così azzurri.
Dorkò slegò le mani e aiutata da Jò Ilona tenne stretta la ragazza.
“Cosa volete farmi?” chiese la ragazza
tra un singhiozzo e l’altro.
Erzsébet le sollevò la mano sinistra, la
lisciò constatandone la morbidezza e la
freschezza nonostante il lavoro poco
nobile che svolgeva e, senza fretta, infilò lo spillone tra l’unghia e la carne del
pollice, spingendo fino a che non rimase
fuori che la capocchia.
La giovane gridò di dolore e le piccole
gocce di sangue presero a scivolare con
lentezza fino a tuffarsi nel catino posto
sotto di lei. Erzsébet prese un altro spillo e sempre senza fretta lo infilò alla
stregua del primo, nell’indice. La giovane non doveva aspettarsi un nuovo
dolore tanto forte, perché si dibatté inaspettatamente tra le braccia di Jò Ilona
che per un attimo temette di farsela
sfuggire. Certo non avrebbe potuto andare distante, ma avrebbe potuto ferire
la contessa e questa era l’ultima cosa
che Jò Ilona voleva che accadesse. La
strattonò prendendola per i capelli e pestandole il piede col tacco della scarpa.
Erzsébet si stava rigirando il terzo spillo
tra le mani, ma le urla della ragazza la
stavano infastidendo più del dovuto. Si
portò le mani alla testa come se fosse in
preda ai suoi soliti mal di capo e lasciò
andare un ceffone alla cieca, colpendo
in pieno il viso spaventato e urlante. La
forza della sberla e la tenuta salda di
Dorkò ebbero il risultato di strappare
alla radice una grande ciocca di sottili
capelli biondi. Il sopraciglio riportava
una profonda ferita e la pelle scalzata
metteva a nudo la carne lucida di umori,
là dove il pesante anello d’oro aveva
colpito.
“Zitta.” Disse sibilando come un serpente “Sta zitta.”
La ragazza che continuava a piangere
disperatamente, chiuse la bocca tentando di porre un freno alle grida che le
nascevano nel profondo delle viscere. A
guardarla ora, non si sarebbe mai potuto
pensare che fosse la più bella tra le serve della contessa. I suoi occhi azzurri e
glaciali erano ora arrossati e semichiusi
per il dolore e le percosse. La pelle
bianca e liscia era arrossata, graffiata,
livida. I bei capelli dorati, erano spettinati e sporchi di sangue.
Erzsébet parve soddisfatta dal grado di
silenzio raggiunto e proseguì a piantare
gli spilli, dito dopo dito, mentre le urla
riprendevano.
Il sonno all’interno del monastero degli
agostiniani fu turbato per gran parte del-
la notte da urla che sembravano provenire direttamente dall’inferno. Nessuno
mancò di farsi più volte il segno della
croce e di pregare per l’anima addolorata della fanciulla. Qualcuno di loro sospettava di sapere da dove provenissero
quelle urla, ma nessuno mai avrebbe
potuto sostenerlo con certezza. Certo le
voci non tardavano a correre di bocca in
bocca.
Per la fanciulla fu la notte più lunga della sua vita e anche l’ultima. La contessa
sembrava aver raggiunto un grado più
elevato nelle torture che infliggeva alle
sue vittime. Sembrava avere meno fretta
e gustare di più ogni singolo momento.
Sembrava che la sua sete di sangue fosse in qualche modo maturata. Non mancò anche di mettere in atto il suggerimento datole dal marito quando la fanciulla, stremata svenne tra le braccia di
Jò Ilona.
“Presto, della carta oleata!” sbraitò a
Ficzkò, poi gli spiegò cosa avrebbe dovuto fare e si allontanò di due passi per
godersi lo spettacolo nella sua interezza.
Ficzkò aveva obbedito ghignando come
un demonio deforme e più cattivo e
crudele di qualunque altro, proprio perché così fisicamente poco dotato dalla
natura. Aveva dato fuoco alla carta e
l’aveva posizionata tra le gambe nude
della giovane. Subito il pelo pubico aveva preso fuoco sfrigolando; la pelle si
era arrossata e coperta velocemente di
bolle mentre la ragazza apriva di scatto
gli occhi e riprendeva a urlare più forte
di prima, tentando di chiudere le gambe
saldamente tenute da Dorkò e Jò Ilona.
La contessa sorrise tra sé immaginando
il momento in cui avrebbe comunicato a
Ferencz che il suo metodo contro le crisi di cervello funzionava alla perfezione
anche con le serve. Avrebbe tralasciato
il fatto di non aver usato i piedi della
malcapitata. In fondo non era affar suo.
Alla fine del rito, quando ormai solo un
flebile respiro lasciava supporre che la
fanciulla fosse ancora in vita, Dorkò le
tagliò i polsi e lasciò che il poco sangue
ancora rimastole in corpo scendesse nel
catino. Erzsébet rimase fino all’ultimo.
Le piaceva vedere gli ultimi fremiti di
vita, come l’ultimo battito d’ali di una
farfalla. Le piaceva vedere le membra
che si rilassavano fino a svuotarsi com-
pletamente dell’anima. Non rimaneva
che un involucro vuoto di sangue e di
anima e pronto per una veloce quanto
discreta sepoltura. Ficzkò, un po’ schifato dallo stato in cui versavano i genitali della giovane vittima, non volle approfittarne e andò a prendere una vecchia carriola con cui spostare il corpo.
Della sepoltura si sarebbe occupato più
tardi, insieme alle due vecchie donne
che da quel momento in avanti sarebbero state impegnate con la contessa e il
suo meritatissimo bagno di sangue. Non
capiva bene a cosa servisse né in realtà
voleva saperlo; sapeva solo che la sua
vita la doveva proprio ai conti di Nàdasdy che lo avevano salvato dalla strada e allevato a castello dandogli un
buon letto su cui dormire e del cibo caldo da mettere sullo stomaco; senza dimenticare la concessione che gli veniva
fatta quando veniva lasciato a dilettarsi
con i bellissimi corpi ancora tiepidi delle servette. Erano lontani i tempi in cui
rallegrava le serate a castello con acrobazie e buffonate, ma non ne aveva nostalgia. Ora viveva di più nell’ombra e
gli stava bene così.
XI
Erzsébet si spogliò del pretenzioso abito, aiutata da Dorkò e s’immerse nel
tiepido liquido rosso. Faceva freddo
nella stanza e per questo, Dorkò aveva
fatto in modo che il caminetto fosse carico di legna da ardere e che la grossa
vasca fosse disposta vicino ad esso, ma
non troppo per non rovinare il prezioso
trattamento di bellezza. La contessa si
rilassò appoggiando la testa e chiudendo
gli occhi. Con la memoria andò alle esperienze di poco prima. Si sentiva rilassata e appagata come dopo una giornata di duro, ma soddisfacente lavoro.
Dorkò uscì dalla stanza lasciandola sola, con il caminetto che scoppiettava e
le riscaldava le membra. Percepiva ogni
poro della sua pelle come fosse vivo e
indipendente, nutrirsi del sangue che
l’avvolgeva. Come tante piccole bocche
fameliche, assorbivano i nutrimenti e la
magica essenza. Si strofinò le braccia e
subito si accorse che la pelle era più tesa, più bianca, più viva. Nulla era efficace come quei bagni ringiovanenti.
Nessuna erba, nessun decotto potevano
tanto. Il suo segreto le avrebbe permesso di rimanere giovane e desiderabile
per sempre. Gli elementi preziosi del
sangue, si depositavano sul suo corpo,
ricostruendo come solidi mattoni, la
pelle stanca e spenta.
Rimase ore a massaggiarsi e toccarsi nel
suo più intimo. Avrebbe desiderato che
Ferencz fosse lì con lei in quel momento. Avrebbe desiderato che fosse sua la
mano che sentiva tra le gambe.
Prese lo specchio che Dorkò le aveva
messo accanto alla vasca e si rimirò per
un lungo momento. Con sguardo critico
e attento, osservò gli occhi che parevano avere profondità mai conosciute. Le
sottili rughe che aveva notato poco prima erano come svanite. Lo sguardo era
fresco e giovane e nulla invidiava a
quello che aveva a vent’anni. Anche la
fronte, alta e liscia sembrava lontana
dall’avere
problemi
di
rughe
d’espressione. La pelle era ben distesa e
piena, nutrita fin nel più profondo dalle
immense qualità del sangue ormai freddo. Ora non era altro che un liquido
senza doti; sfruttato fino all’ultimo elemento.
Chiamò Dorkò e si fece porgere un telo
in cui avvolgersi. Non si sarebbe risciacquata per evitare di interrompere
anche gli ultimi benefici che poteva darle. Nonostante la stanza fosse gelida, la
contessa sembrava non percepire il
freddo. Ritemprata, si preparò per la
notte e s’infilò sotto le spesse trapunte.
Non sognò nulla. Era rilassata e tranquilla. Nessun senso di colpa, che avrebbe certamente colpito qualunque
donna con un’anima, andò a turbarle il
sonno. Nessuna immagine di donna che
urlava con le carni straziate la svegliò in
piena notte. Dormì come un innocente
bambino che da tempo ha passato la fase della paura del buio. Nessun chiarore
di luna in quella stanza. Nessun baluginio di stelle.
Solo l’odore del sangue che comincia il
suo lento e inarrestabile decomporsi.
Solo il lieve russare di una donna appagata che dorme il sonno dei giusti.
XII
Ferencz arrivò, come promesso, pochi
giorni dopo. Fu accolto con tutti i festeggiamenti del caso e come sempre,
rimase abbagliato dalla bellezza e dalla
freschezza della sua sposa. A palazzo,
ballarono e risero persino mentre Ilona
Harczy li dilettava con la sua voce melodiosa e così simile al canto di un angelo.
“Quella donna ha la voce di un angelo.”
Sospirò Massimiliano II. “ se doveste
stancarvi di lei, vi prego di fare in modo
che io lo sappia. In questo palazzo manca una simile delizia per le orecchie ed
è di una bellezza così semplice e al contempo regale.”
D’improvviso Erzsébet s’indurì e posò
gli occhi su quella giovane dai capelli
scuri e lisci che pareva trovare la voce
nel più profondo del suo ventre. Una
sensualità e una forza che facevano vibrare i cuori, scaturiva da quella gola.
L’osservazione dell’imperatore gliela
fece vedere in modo diverso. Non era
più solo una voce senza corpo che dilettava ora il palazzo di Csejthe con le ballate slovacche, ora la chiesa con i salmi.
Era una donna con un corpo bello e
giovane, uno sguardo vivo e magico.
Un sentimento d’odio impalpabile le
crebbe dentro lo stomaco e s’irradiò in
tutto il suo corpo, facendolo vibrare di
elettrica ostilità.
Nessuna donna poteva ricevere complimenti tanto importanti in sua presenza. Nessuna che non fosse lei!
Seduta compostamente, non perse mai
di vista quella giovane donna che invadeva tutta la sala con la sua voce chiara
e argentina. Le mani strette in grembo
come due artigli.
“Siete stanca?” domandò Ferencz vedendola così taciturna e con lo sguardo
fisso.
“Sì, desidererei tornare se non vi dispiace.” Disse seccamente.
Si alzarono e si diressero verso Massimiliano II che sorrideva e sorseggiava il
vino rosso, senza perdersi un passaggio
vocale della giovane Ilona.
“Vi dispiace se trattengo la vostra giovane cantante? La farò riaccompagnare
tra non molto.”
Erzsébet ebbe un moto di rabbia che
riuscì a stento a trattenere, ma lui dovette scorgere l’odio che la invadeva perché subito si affrettò ad aggiungere “Se
per voi non è un problema.”
Vedendo Erzsébet torturarsi le mani e
fissare senza rispondere, fu Ferencz a
dire: “Ma certo. Riaccompagnatela
quando più vi fa comodo.”
“Siete certi di non volermela lasciare
per sempre? Vi ripagherei nel giusto
modo.”
“Non credo sia un prob…” fece per dire
Ferencz.
“No!” lo interruppe Erzsébet. Nessuno
le avrebbe tolto quella preziosa creatura!
“Come dite?” chiese l’imperatore stupito dall’irruenza della contessa.
“Ho in programma dei banchetti per
quando saremo di nuovo a Csejthe e tut-
ti aspettano di sentire Ilona cantare. Inoltre ha un impegno importante con la
chiesa. Non posso lasciarvela per quanto lo vorrei, ma non dubitate… se dovessi stancarmi di lei, sarete il primo a
saperlo.” Rispose risoluta e cercando di
mantenere un tono cortese nonostante la
rabbia che minacciava di farle tremare
la voce. In quel momento avrebbe desiderato che la coppa che teneva in mano
fosse piena del sangue stesso
dell’imperatore, e non di semplice vino
speziato.
Ferencz non le chiese che cose le fosse
preso. Era avvezzo a certi scatti d’ira
inspiegabili, soprattutto quando la contessa si sentiva più stanca e, data l’ora
tarda, imputò quella reazione proprio
alla stanchezza. Per questo non volle
abusare del suo corpo e lasciò che si
addormentasse accanto a lui, senza sapere che lei non dormiva ma aspettava.
Aspettava un suo cenno. Aspettava una
sua dimostrazione d’interesse e quando
non venne, quando lo sentì russare profondamente, la rabbia divenne incontenibile. Se avesse potuto, avrebbe ucciso
anche lui. Gli avrebbe tagliato la gola in
quello stesso istante!
Era certa che non avesse posato le sue
mani su di lei per un buon motivo e quel
motivo aveva un nome: Ilona.
Come l’imperatore, anche lui era rimasto folgorato da quella bella giovane
dalla voce d’angelo e non aveva trovato
altro modo di farla sua se non quello di
addormentarsi e sognarla. Con rabbia si
girò e si rigirò più volte mentre immaginava i sogni di suo marito. Sogni in
cui prendeva tra le braccia quella giovane, ne spogliava il corpo prosperoso e
con mani avide ne sondava ogni centimetro. Più i minuti passavano, più la
rabbia cresceva e più sentiva quella
rabbia e quella stanchezza rovinare gli
effetti di quei benefici bagni di sangue.
Per colpa di quella puttana, il giorno
successivo avrebbe avuto una pessima
cera! Contò i rintocchi delle campane
fino all’alba quando, più rabbiosa che
mai, si alzò prima del marito e, preparatasi in fretta e furia senza l’aiuto della
damigella, scese fino alle cucine e ordinò che le venisse preparata la colazione
in anticipo. L’anziana serva addetta alle
cucine, rabbrividì quando la vide ferma
sulla soglia. Fece colazione con il vino
caldo e una pagnotta dopo aver ordinato
che fosse preparata la portantina per andare nella parte vecchia di Vienna.
Quella dove poteva trovare le pietre
magiche più preziose e le erbe migliori.
Aveva necessità di uscire e allontanarsi
da quelle mura perché con il conte presente, non poteva dare libero sfogo alla
rabbia che le cresceva dentro minacciando di farla esplodere. Doveva occupare il tempo in qualche modo e fare
scorte di filtri ed erbe. Tutto il desiderio
che l’aveva pervasa prima che Ferencz
arrivasse a Vienna, era scemato del tutto
e aveva lasciato il posto a un fastidio
così profondo da roderle l’anima. In
quel momento non era più il desiderato
marito che aveva atteso per giorni interi
con impazienza, ma uno sconosciuto
invasore che limitava la sua libertà e di
conseguenza la sua possibilità di essere
in qualche modo felice. Un estraneo che
dormiva nel suo letto e sognava un’altra
donna, mentre il suo corpo fremeva di
desiderio inappagato. Una fanciulla che
poteva avere non più di quattordici anni
le posò di fronte il vassoio con un’altra
coppa di vino. Erzsébet le afferrò il polso con mano salda. La giovane sussultò
con un gemito, ma non si tirò indietro
per timore di suscitare una reazione della contessa che sapeva essere terribile.
Uno schiaffo le raggiunse il volto e fu
tanto forte da farle lacrimare gli occhi e
bruciare il naso. Non reagì e non protestò quando la contessa la spinse via con
ferocia, facendola cadere a terra con il
vassoio vuoto.
Ferencz apparve sugli ultimi gradini e
osservò senza parlare la giovinetta a terra che raccoglieva con nervosismo i
cocci del piatto in cui fino a poco prima
era adagiata una pagnotta calda. Sapeva
della durezza di Erzsébet verso la servitù e nonostante non fosse sua abitudine
comportarsi allo stesso modo, comprendeva la difficoltà di una donna che per
la maggior parte del tempo era sola.
Doveva in qualche modo far sì che tutto
procedesse sempre in modo impeccabile
e la durezza faceva parte dei suoi metodi.
Gli tornarono in mente le parole di Megyery il Rosso. Forse doveva parlarne
con Erzsébet.
“Buongiorno.” Le disse avvicinandosi.
“Vi siete alzata molto presto questa
mattina.”
“Sì, ho delle commissioni da sbrigare.”
Rispose dura.
“Volete che vi accompagni?”
“No. Sono cose che una donna deve poter fare da sola.”
Ferencz si sedette di fronte a lei, fissandola con sguardo interrogativo. Non capiva quella freddezza.
“Avete ancora un momento da dedicarmi?”
“Non molto per la verità, ma ditemi.”
“Ho avuto modo di discorrere con Megyery il Rosso…”
Erzsébet sollevò d’improvviso lo sguardo. Gli occhi sgranati e indagatori si posarono su di lui.
“Mi ha chiesto di scoprire che fine avesse fatto una giovane serva che pare
sia sparita nel nulla.”
“Nessuna serva sparisce nel nulla!” rispose acida.
“Pare che abbia avuto dei problemi
mentre era a servizio da noi e che lui le
abbia suggerito di tornare a casa.”
“Che genere di problemi?” domandò
insospettita. Quel maledetto poteva avergli raccontato tutto!
“Non ha voluto spiegarmelo, ma ho
chiesto in paese e pare che non sia mai
tornata a casa. Una delle domestiche mi
ha raccontato che cosa le è successo.”
Erzsébet sentì il sangue defluirle dal
corpo.
“Cosa vi ha detto?”
“Che ha sentito dire che la giovane è
stata aggredita proprio mentre stava tornando verso casa. Probabilmente da un
balordo.”
Erzsébet si distese annuendo.
“E’ probabile. Di questi tempi una donna è in pericolo se gira per strada da sola. Vi ha detto qualcos’altro che possa
essere utile a comprendere quali problemi possa aver avuto?”
“No. Non ha voluto parlarmene. Ha detto che erano questioni personali della
fanciulla.”
Erzsébet sorseggiò le ultime gocce di
vino e posò la coppa sul vassoio.
“Vorrei rimanere ancora qui a discorrere con voi, ma la portantina mi attende.”
Ferencz la guardò mentre si allontanava
con quella camminata sicura e sensuale
che ben conosceva. La desiderava sempre e se solo gli avesse fatto un cenno,
la notte appena trascorsa, sarebbe stata
piena di passione.
Sospirando, si rilassò sulla sedia e attese
che gli venisse portato il vino caldo.
La portantina passava negli stretti vicoli
dove botteghe e negozi sfilavano invitanti. Si fermò in molti e acquistò decine di filtri, zampe essiccate d’animali,
pietre dalle infinite qualità. Tutti la conoscevano e quando poggiava i piedi in
una di queste botteghe, nessuno osava
incrociare il suo sguardo demoniaco. Le
voci correvano lungo le vie come i rivoli di pioggia in primavera. Voci di delitti, torture, grida e sangue. Voci che non
trovavano mai fine e che si propagavano da Csejthe a Vienna. La soddisfazione di vendere, andava di pari passo con
il terrore che provocava la visione di
quella contessa dal portamento leggero
e gli occhi crudeli. Nessuno desiderava
scontentarla e ogni volta che lei domandava qualche erba particolare, si poteva
toccare l’ansia che pervadeva i venditori, terrorizzati dall’idea di non avere ciò
che lei chiedeva. Quasi mai però usciva
insoddisfatta da una di quelle botteghe e
quasi sempre vi trovava ciò che cercava.
Quando rientrò l’ora del pranzo era già
arrivata e la tavola imbandita aspettava
solo di essere coperta dai piatti con le
portate di carne.
I vari pacchetti furono portati nelle sue
stanze dalle giovani serve che l’avevano
accompagnata. Nessuna aveva dovuto
subire molestie quella mattina.
Ferencz rientrò poco dopo di lei da una
lunga cavalcata.
“Avete trovato quello che cercavate?”
“Sì.” Rispose facendosi aiutare a togliere il pesante mantello scuro.
Il caminetto spandeva il suo piacevole
calore. Il profumo delle carni arrosto
invase la sala quando i piatti di portata
furono appoggiati al centro del tavolo.
“Domattina dovrò ripartire.” Comunicò
Ferencz.
Erzsébet sollevò la testa e lo fissò per
un lungo momento, indispettita e furente per la notizia inaspettata.
“Dovevate rimanere fino alla fine del
mese.” Rispose serrando la mascella.
“Ci sono stati alcuni problemi. I Turchi
hanno nuovamente attaccato ed è necessaria la mia presenza.”
La contessa non rispose.
“Mi dispiace di deludere le vostre aspettative, ma comprenderete che non posso
abbandonare i miei uomini per banchettare a Vienna. Non è questo il mio posto
in questo momento.”
“Certo. Lo comprendo.” Rispose adirata
e al contempo sollevata. Adirata perché
un’intera notte era stata sprecata per
colpa di quella puttana dalla voce
d’angelo e perché non sapeva quanti
mesi sarebbero di nuovo trascorsi prima
che Ferencz decidesse di tornare a farle
visita. Per molto tempo avrebbe quindi
dovuto accontentarsi di Lazlo o di qualche saffico incontro consigliatole dalla
zia, ma la vera passione e il vero desiderio sarebbero partiti insieme a Ferencz
che più di tutti riusciva a farla sentire
donna e che concepiva il sesso come a
lei piaceva. Sollevata perché in qualche
modo, quella notizia, le dava modo di
riappropriarsi della sua vita. Tutta la
rabbia che sentiva in corpo, avrebbe potuto trovare uno sfogo altrimenti negato.
Si morse il labbro con tanta forza da
sentire il sapore acidulo del sangue che
si mescolava alla saliva. Se non avesse
dovuto
seguire
le
regole
dell’educazione e del buon costume, avrebbe certamente condotto Ferencz al
piano di sopra per poter sentire ancora
addosso il peso del suo corpo, ma non
poteva lasciarsi andare come una qualsiasi poco di buono. Doveva comportarsi come volevano il suo rango e la sua
posizione e quella mancanza di libertà
di azione le pesò come non mai. Non
desiderava la sua anima e il suo amore,
ma solo il suo corpo. Solo la carne.
Si torse le mani con foga per ricacciare
indietro quel desiderio che sembrava
farsi largo a bracciate dentro la sua
mente e più cercava di scacciarlo, più
tornava prepotentemente. Il desiderio
pulsava là dove la carne era più morbida
e debole.
“So che vi dispiace questo cambiamento
di programma. Dispiace molto anche a
me, credetemi. Desiderate fare qualcosa
di particolare questo pomeriggio? Vorrei portare con me il ricordo di voi, felice.”
Erzsébet sollevò gli angoli della bocca
in uno stentato quanto poco sentito sorriso. Avrebbe voluto gridargli che desiderava solo passare il resto della giornata chiusa nelle loro stanze con lui, ma
non poteva rendere così palese il suo
desiderio.
“Non saprei… voi avete qualche proposta?” domandò cercando di rendere il
tono più malizioso possibile.
Ferencz sembrò rifletterci un momento,
poi scosse la testa.
“Fuori fa ancora molto freddo di questa
stagione… desiderate recarvi a palazzo?”
L’ultima cosa che desiderava era andare
a palazzo. Non si sentiva abbastanza in
forma da poter fronteggiare le belle
donne di corte e non aveva desiderio di
dividere le attenzioni di Ferencz con
nessuno. Lo voleva solo per sé. Ma possibile che lui non sentisse l’esigenza di
fare l’amore con lei? Possibile che fosse
insensibile alla sua bellezza giovane e
inalterata dal tempo? Non capiva. Non
riusciva a capacitarsene. Pensando ai
duri e lunghi mesi di campo, come poteva non desiderare il suo corpo per
l’ultima volta?
Ferencz aspettava silenzioso che lei gli
comunicasse ciò che avrebbe desiderato
fare. Se fosse stato per lui, l’avrebbe
stretta tra le braccia e l’avrebbe tenuta
per sé tutto il pomeriggio. Si sarebbe
rotolato con lei tra le coperte e avrebbe
riversato in lei tutto se stesso, ma come
poteva chiederle di rinunciare a una
giornata a palazzo dopo che lui l’aveva
così delusa annunciandole una prematura partenza?
Per mesi non avrebbe fatto che vivere
nel ricordo di quelle notti di passione
estrema e avrebbe rivisto lei in ogni
prostituta che avesse dato sollievo al
guerriero lontano da casa.
Con delicatezza, fece una cosa che non
era sua abitudine fare: posò una mano
sulla sua che scoprì essere fredda e rigida. Rabbrividì a quel contatto e la strinse piano.
“Non voglio che rinunciate a una giornata a palazzo a causa mia. So di avervi
dato un dolore… e mi dispiace più di
quanto possiate immaginare.”
Erzsébet si fece violenza per non ritrarre la mano. Quel contatto le dava la
nausea. Quel suo modo di considerarla
donna debole e romantica quando ciò
che aveva in mente era ben altro. Come
poteva non capirlo? Come poteva un
uomo non avere il suo stesso desiderio,
decuplicato?
“Non scusatevi. È vostro dovere raggiungere i vostri uomini.” Rispose alzandosi e salendo le scale.
Ferencz la osservò sparire e udì la porta
della camera che si apriva e si richiudeva. Fu tentato di raggiungerla e di
strapparle di dosso quell’abito così costoso e ben rifinito, ma non volle disturbarla.
XIII
Il conte partì la mattina molto presto,
quando ancora le luci dell’alba non erano che un lontano presagio e il freddo
pungente e duro permeava la terra e
sembrava non volersene andare mai più.
Erzsébet udì la carrozza che veniva preparata e più tardi, il galoppo dei cavalli
che si allontanavano. In quel momento
decise che non si sarebbe fermata un
momento di più a Vienna. Voleva tornare al più presto a Csejthe.
Si mise addosso la lunga vestaglia di
velluto e scese le scale. Una busta posata sul tavolo. La prese e se la rigirò tra
le mani. L’aprì.
Alla mia gentilissima contessa,
parto che ancora il sole non è sorto e il
freddo è tagliente, ma vi porto nel cuore
e per questo non temo il buio e non agogno il caldo.
Voi siete la mia luce e il mio tepore.
Vi scriverò non appena raggiungerò il
campo.
Cercate di riposare e di dilettarvi a palazzo anche se so che la mia partenza vi
ha arrecato un dolore..
Vostro.
Conte Ferencz Nàdasdy
Erzsébet accartocciò con rabbia la pagina e la gettò tra le alte lingue di fuoco.
Riposo? Si domandò. Aveva forse il viso stanco? Dilettarsi a palazzo? Come
poteva ora che tutta la sua vitalità se
n’era andata a causa di quel triste disinteresse che le aveva dimostrato?
Come una furia vagò per tutta la casa,
bussando alle porte e gridando ai quattro venti.
“Svegliatevi! Voglio andarmene da qui
subito!”
In preda a una crisi isterica, percepiva
già il forte mal di capo che l’avrebbe
afflitta per il resto della giornata. Jò Ilona e Dorkò furono le prime ad accorrere
ancora scarmigliate e con il viso pesante
di sonno. In brevissimo tempo tutta la
servitù fu in piedi e nel giro di poche
ore, tutto fu pronto per l’imminente partenza.
I cavalli attaccati alla carrozza, i bauli
caricati, le serve imbacuccate in pesanti
scialli e mantelli.
La contessa rabbrividì stretta nel suo
mantello e salì sulla carrozza. Dopo di
lei salirono le damigelle preposte a tenerle compagnia durante il viaggio. Le
guardò una a una e poi con sgarbo, ne
prese una per il braccio e la gettò giù
dalla carrozza. La ragazza inciampò e
rotolò a terra graffiandosi le mani sulle
pietre aguzze.
“Portatemi Ilona Harczy!” gridò furente.
XIV
Jò Ilona non se lo fece ripetere. Con il
suo sorriso sdentato e maligno, si diresse verso la carrozza che ospitava alcune
serve e la giovane cantante. Lo sguardo
crudele e derisorio si posò su di lei che
si stringeva nel mantello invernale che
non riparava abbastanza da quel freddo
così pungente.
“Vieni giù.” Le disse sgarbata.
Ilona guardò una per una le altre ragazze che non osavano sollevare il viso e
incrociare i suoi occhi spaventati. Quasi
come volessero fondersi con la tappezzeria della carrozza e diventare trasparenti, si ammassavano l’una accanto
all’altra. Ilona non aveva mai avuto a
che fare con la contessa personalmente,
ma tutte le ragazze che lavoravano al
castello erano al corrente di alcune atro-
cità. Non sapevano tutto forse, ma le
punizioni inflitte dalla contessa erano
argomento di tutti i giorni. Ilona si domandò che cosa avesse portato la contessa a chiedere di lei. Non credeva di
meritare una punizione per qualche motivo. Aveva cantato e l’aveva fatto bene
come sempre. Con il cuore e con
l’anima e tutti le avevano fatto gran
complimenti per la sua voce. No, non
poteva volerla punire.
Forse desiderava invece sentirla cantare
durante il viaggio. Sarebbe stata una richiesta fuori dal comune per lei, ma poteva farlo senza problemi anche senza
accompagnamento musicale.
Ne sarebbe stata anzi felice, almeno il
viaggio sarebbe stato meno noioso e più
divertente.
“Cos’aspetti?” sbraitò Jò Ilona sporgendosi nell’abitacolo e prendendola per un
polso.
La giovane ebbe la tentazione di ribellarsi a quei modi non consoni, ma lo
sguardo intenso e penetrante di Kata la
fece desistere. Aveva il terrore negli occhi e pareva volesse dirle: taci, non fiatare per nessun motivo.
Così fece e facendosi spazio scese dalla
carrozza. Si diede ancora un’occhiata
attorno e poi, seguita da Jò Ilona che
non mancò di spintonarla un paio di
volte rischiando di farla cadere sulle
pozze di ghiaccio raggiunse la contessa.
La carrozza di Erzsébet era completamente rivestita di velluto verde scuro.
Anche le tendine ai vetri erano di quel
colore un po’ cupo.
“Eccola.” Disse Jò Ilona producendosi
in un inchino quasi ridicolo che metteva
in mostra tutta la sua poca grazia.
Erzsébet, che fissava qualcosa che evidentemente la interessava molto e solo
lei poteva vedere, sembrò ridestarsi e si
voltò verso la ragazza facendole un
cenno per invitarla a salire.
Ilona si sentì gli occhi della contessa
addosso come una presenza fisica e
concreta. Occhi che non avevano nulla
di buono e che la fissavano con insistenza come a volerla trapassare da un
momento all’altro. Prese posto di fronte
a lei cercando di far finta di nulla e di
risultare impegnata in un attento lavoro
di sistemazione dell’abito e della piccola borsa da viaggio da cui non si sepa-
rava mai. Voleva rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto
incontrare quegli occhi. Tanto aveva
desiderato incontrare quelli delle serve
di poco prima quanto non desiderava
incontrare quelli di quella donna. Jò Ilona scomparve facendole tirare un sospiro di sollievo. Se non saliva anche lei
sulla carrozza, significava che la contessa non aveva cattive intenzioni, ma
non appena ebbe concluso quel pensiero, la vecchia riapparve in compagnia di
Dorkò ed entrambe salirono sulla carrozza di fianco a lei.
Nessuno parlava.
Dorkò E Jò Ilona si scambiavano sorrisi
e cenni mentre la contessa continuava a
fissarla senza parlare. Quei due occhi
così grandi e scuri sembravano però
contenere tutte le parole del mondo.
Sembrava che tutto l’universo ci fosse
annegato dentro e non sapesse più come
uscirne.
Ilona si perse in quegli occhi e fu sicura
di vedere le anime dell’inferno che si
contorcevano rabbiosamente tra le
fiamme. Desiderò più di qualsiasi altra
cosa al mondo di potersi fare il segno
della croce, ma non osò arrivare a tanto,
sfidando quegli occhi.
Non era salita solo Jò Ilona sulla carrozza, ma anche Dorkò… questo non
poteva significare altro che guai. Sentiva più freddo rispetto a prima, nonostante la carrozza fosse più riparata e
maggiormente tappezzata di quella dove
stava la servitù. Era un freddo diverso
da quello che l’aveva schiaffeggiata
fuori perché veniva da tutto. Veniva da
dentro. Veniva dalla contessa. Era come
avere davanti a sé un cadavere ripescato
dalle acque dell’artico.
Desiderava solo che quel silenzio e
quello sguardo insistente terminassero,
ma non sapeva quanto l’avrebbe rimpianto.
Erzsébet accarezzò un cofanetto di legno che stava adagiato accanto a lei. Lo
accarezzò più volte come fosse il suo
prediletto animale da compagnia, quasi
con affetto, anche se “affetto” era per
lei una parola sconosciuta.
Fece scattare le chiusure mettendo in
mostra un contenuto quanto meno singolare per una contessa e forse più adatto a un medico. C’erano pinze, aghi,
coltellini simili a bisturi. Uncini e spesso filo. Ilona s’irrigidì senza accorgersene e si tirò indietro. Subito Dorkò le
afferrò un braccio e la strattonò intimandole di non muoversi.
“Cosa succede?” domandò spaventata e
confusa. Non poteva credere che qualcuno volesse farle del male. Che
cos’aveva fatto per meritarsi una punizione?
“Niente che ti riguardi.” Rispose secca
Jò Ilona.
“Voglio che me lo dica la contessa non
voi!” si ribellò la giovane stupendo le
tre donne che si scambiarono
un’occhiata sbigottita.
“Canti molto bene.” Rispose allora Erzsébet tutta intenta a scegliere con cura
l’attrezzo più giusto per l’occasione.
“Per questo volete punirmi?” domandò
Ilona incredula.
“No, certo che no. Ti punirò per la tua
irriverenza.”
“Quale irriverenza?” volle sapere.
“Quella che stai dimostrando in questo
momento. Ti stai rivolgendo con toni
d’arroganza e irriverenza a me… Erzsébet Bàthory contessa Nàdasdy.”
“Ma voi mi avete chiamata prima che io
mi rivolgessi con irriverenza! Voi avevate già in mente ciò che volevate farmi! Perché?” domandò con le lacrime
agli occhi. Le guance erano rosse per la
rabbia e la paura. Chiedeva pietà e allo
stesso tempo chiedeva giustizia. Due
cose che la contessa non conosceva.
Con gli occhi lucidi guardò ora Jò Ilona,
ora Dorkò che non si trattennero e le
risero in faccia. Una lacrima le solcò il
viso andando a fermarsi sul labbro superiore che tremava fortemente.
Erzsébet era già stanca di tutte quelle
domande e soprattutto era stanca di avere davanti una poco di buono boriosa
che si permetteva di parlarle a quel modo solo perché la natura le aveva fornito
una voce gradevole. Ebbe l’impulso di
trafiggerle la gola con un solo colpo e
lasciarla morire dissanguata tra il ghiaccio di Vienna, ma tutto sarebbe andato
perso se avesse agito d’impulso. No, lei
voleva che il suo rientro a Csejthe venisse dilettato da un buon bagno di bellezza di cui sentiva un’urgenza rabbiosa.
La carrozza partì sballottando le donne.
Non aveva origini nobili quella fanciulla, eppure era aggraziata e di rara bellezza. Il viso ovale aveva un incarnato
pallido e senza imperfezioni, incorniciato da folti e ondulati capelli scuri che
teneva raccolti sulla sommità del capo
in spesse ciocche lucenti. Gli occhi scuri e grandi avevano un ché di orientale
che riusciva ad ammagliare gli uomini.
Ma la voce era la cosa che più infastidiva Erzsébet. Quella voce che andava al
di là dell’umano e sfiorava quasi il divino.
Cos’avrebbe dato per riuscire a trattenersi fino al castello, dove avrebbe potuto utilizzare altri metodi e dove le
comodità non mancavano, ma non poteva. Doveva farlo subito.
Posò il piccolo coltello e prese un grosso ago. Lo porse a Dorkò insieme al filo
spesso. Non ebbe necessità di dire che
cosa desiderava che facesse perché la
vecchia già sapeva. Jò Ilona rinforzò la
presa afferrando entrambe le braccia
della giovane che strillò di dolore e sorpresa.
Dorkò infilò il filo nella cruna dell’ago
e, prima che la giovane potesse com-
prendere ciò che stava per fare, pinzò le
labbra della ragazza tra l’indice e il pollice con mano salda e infilò l’ago nella
carne tenera.
Ilona si ribellò con tanto impeto da cogliere le due donne impreparate. Jò Ilona fu scaraventata contro la paratia e
Dorkò scalciata maldestramente contro
l’altra.
“Puttana…” sibilò Jò Ilona riprendendo
la sua posizione.
Erzsébet osservava indispettita e stupita
da tanta aggressività. Prese una spessa
corda e la gettò in grembo a Dorkò che
aiutò l’altra donna a legare strettamente
le braccia di Ilona dietro la schiena. Il
sangue colava sul mento e l’ago pendeva dal labbro superiore trafitto dall’ago.
La bocca semiaperta in un grido lasciava intravedere il filo che congiungeva le
due labbra.
“Vi pregoooooo!” gridò per quanto poteva, dibattendosi con vigore.
Un altro pezzo di corda servì a legare le
caviglie che subito si chiazzarono di
rosso là dove la corda stringeva.
Jò Ilona l’afferrò per la vita con un
braccio e con l’altro afferrò i capelli in
modo che non potesse più muovere la
testa. Dorkò afferrò l’ago e tirò forte
verso l’alto in modo da stringere il primo passaggio fatto. Ilona cercò di divincolarsi, ma la presa di Jò Ilona non
mollava. Un altro punto venne dato e
già la bocca era per metà chiusa. Le
labbra pulsavano e formicolavano e il
sangue gocciolava sull’abito immacolato. Quando l’ultimo punto fu concluso,
Dorkò fece un nodo doppio e con i denti
marci strappò il resto del filo.
Ilona piangeva a dirotto e dietro il velo
di lacrime vedeva il volto spettrale della
contessa. Dentro di sé pregava e prometteva davanti a Dio che mai più avrebbe cantato e mai più avrebbe desiderato un uomo se solo l’avesse salvata.
Prometteva che avrebbe dedicato solo a
lui il resto della sua esistenza e che mai
e poi mai avrebbe tradito la sua fiducia.
Ma Dio non c’era in quella carrozza.
Forse anche lui troppo impaurito da
quella sua creatura che aveva ceduto e
venduto l’anima al male.
Erzsébet scelse con attenzione il secondo attrezzo e lo porse a Dorkò. Non aveva voglia di imbrattarsi di sangue du-
rante il viaggio. Preferiva che fosse la
sua fedele serva ad intrattenerla fino al
castello. Per ora le sarebbe bastato
guardare.
Dorkò accolse sul palmo della mano la
pinza di ferro. Con un cenno indicò le
mani della ragazza, ma Erzsébet abbassò lo sguardo sulle sue caviglie. Dorkò
comprese e si chinò a sfilare le scarpe.
Jò Ilona si spostò indietro e tirò la giovane verso di sé in modo che Dorkò potesse sollevarle le gambe e avere i piedi
in grembo. Erano gelati e quasi bluastri
per il freddo. Le unghie corte e pulite.
Sarebbe stato più arduo il suo lavoro
con unghie così corte, ma lei non si faceva intimorire dal lavoro. Le piaceva
fare ciò che faceva. Si divertiva. Se Erzsébet aveva un’anima votata al male
era perché i suoi stessi geni malati
gliel’imponevano. La cattiveria era nata
con lei come una malattia congenita che
le divorava l’anima ogni giorno di più.
Il mancato ricambio di sangue nella sua
famiglia aveva fatto sì che lei agognasse
sangue nuovo. Dorkò e Jò Ilona godevano delle atrocità compiute perché esseri abbietti e meschini. Brutte e scar-
samente intelligenti, non potevano che
non incontrare mai soddisfazioni e affetti. Vedere la sofferenza nelle belle
giovani che potevano avere tutto dalla
vita, era per loro una fonte di gioia senza precedenti.
Ilona tremava e mugolava. Il viso bagnato di lacrime e sangue si stava come
disfacendo.
Dorkò pinzò saldamente l’unghia
dell’alluce e senza tentennare tirò con
quanta più forza poté. Ilona provò un
dolore talmente forte da non riuscire a
non gridare. Il labbro superiore si
squarciò per metà e la giovane gridò
riempiendosi la bocca di sangue e lacrime. Una parte del labbro pendeva
sanguinante e nella foga di gridare, lo
fece scivolare in bocca e lo morsicò inavvertitamente. La sensazione della
sua stessa carne, ancora attaccata al suo
corpo e pregna di terminazioni nervose
che veniva morsicata là dove nemmeno
più la pelle poteva proteggerla, le fece
perdere i sensi. Il sapore metallico del
sangue e quello salato delle lacrime si
confuse accompagnandola oltre la soglia dell’incoscienza.
Dorkò pinzò un’altra unghia e tirò di
nuovo strappando l’unghia. La giovane
si rianimò e non ci fu bisogno di ricorrere al fuoco.
Una a una le unghie vennero strappate.
Sia dalle mani che dai piedi. Le labbra
furono ricucite per quanto era ancora
possibile, ma non bastò. Ilona non era
una serva e non aveva l’anima da serva.
Lei aveva un dono e se fino a un attimo
prima aveva provato orrore e disperazione per ciò che le stavano facendo,
ora sentiva solo rabbia furente e desiderio di vendetta. I suoi occhi non avevano più lacrime e l’espressione non era
più di forzata sottomissione. Era lo
sguardo di chi sa che non ha più nulla
da perdere… forse. Erzsébet si accorse
subito di quel cambiamento. Gli occhi
scuri e arrossati di Ilona la fissavano
sferzanti come se fossero due stelle.
Nessuna paura né riverenza. Ilona forse
pensò che non poteva accaderle niente
di peggio. Che la punizione fosse giunta
al suo culmine. Sfigurata per sempre,
coperta di sangue, cosa poteva accaderle di più?
Erzsébet prese un altro ago, più sottile
del primo e del filo, anch’esso più sottile di quello utilizzato per le labbra.
Questa volta Dorkò non comprese subito che cosa desiderava la contessa, ma
le bastò un cenno per farsi intendere.
Dorkò fece in modo che anche Jò Ilona
capisse ciò che si accingeva a fare. La
vecchia assentì e strinse bene capelli e
braccia.
La carrozza sobbalzava meno da quando avevano abbandonato una vecchia
strada che attraversava i campi per poi
immettersi su quella che li avrebbe portati direttamente al castello. Dorkò ringraziò per questo, ma sembrò lo stesso
titubante.
Erzsébet aggrottò le sopracciglia non
capendo perché aspettasse tanto prima
di compiere il suo dovere.
Per un attimo Dorkò sembrò spiazzata
dalla richiesta della contessa. Incredibilmente, c’era ancora qualcosa che la
stupiva.
Ilona mugolò qualcosa che poteva essere una preghiera di smettere e Dorkò
avvicinò minacciosamente l’ago al suo
viso. Con lentezza esasperante, l’ago
risalì dal naso allo zigomo e poi si fermò davanti all’occhio grande e rosso di
capillari rotti. Con mano decisa e ferma,
quasi che fosse un chirurgo, iniziò a cucire le palpebre.
Prima la palpebra inferiore e poi quella
superiore. Punti vicini e stretti, che ridussero l’occhio a una rivoltante cicatrice bitorzoluta e rossa di sangue che
poteva
vagamente
somigliare
all’intestino di un animale squartato.
Ilona continuava a tentare una qualche
ribellione che però veniva soffocata dalle braccia forti di Jò Ilona e dalla mano
ferma e decisa di Dorkò.
Diede il primo punto alle palpebre
dell’occhio destro quando la carrozza
s’inclinò fortemente a sinistra. L’ago
trafisse l’occhio e l’ulteriore sobbalzo
ne dilaniò la materia. Sangue e umori
colarono sulla guancia mentre Ilona
percepiva le ultime forze scemare.
Erzsébet
sembrò
indispettita
dall’accaduto, ma all’orizzonte si sta-
gliava il castello e il suo meritato bagno
caldo.
Con un nuovo brillio negli occhi, fece
cenno a Dorkò di fermarsi.
La carrozza percorse gli ultimi metri e
poi s’infilò nel cortile. Le serve scesero
cercando di non guardare mai in direzione della carrozza della contessa. Avevano ben sentito le urla strazianti di
Ilona e mai, per nessuna ragione, volevano che la contessa si accorgesse di
loro. Presero i bauli e tutte insieme, come se l’unione potesse fare una qualche
differenza, portarono tutto all’interno e
si occuparono di sistemare ogni cosa al
suo posto. Dorkò e Jò Ilona scesero tenendo Ilona una per lato.
Erzsébet scese a sua volta e senza dire
una parola si diresse verso i sotterranei,
dove Ilona arrivò senza più la forza né
la volontà di lottare. La legarono
com’erano solite fare. Il rasoio, guidato
da Dorkò incise la carne denudata e non
risparmiò la ragazza nemmeno dei malati giochi erotici che tanto piacevano
alla sua padrona. La candela accesa si
avvicino alle ben tornite cosce e mentre
Jò Ilona le teneva ben divaricate, la car-
ne e la fitta peluria iniziarono a sfrigolare mentre quella maschera di sangue
senza più bocca né occhi tentava di dar
fiato ad un grido mostruoso. La fiamma
si spense quando venne a contatto con
la calda umidità del sesso e scivolò con
forza nel suo corpo, liberando il fiotto
di sangue che ne accertava la verginità.
Erzsébet era in estasi. Le sue mani sfioravano i suoi stessi seni e un mugolio
sommesso di piacere uscì dalle sue labbra ancora rosse di trucco.
Sazia e soddisfatta restò a guardare
Dorkò che con una lunga forbice tagliava in profondità le vene dei polsi.
Il sangue uscì ancora copioso e si raccolse nella tinozza.
Un ultimo sussulto di Ilona che poi si
accasciò esanime.
Quella volta non attese che il sangue
fosse portato nelle sue stanze. Era troppo che aspettava quel momento e il
freddo che regnava in quella parte di
castello non la fermò.
In un attimo i suoi vestiti caddero a terra e i suoi piedi entrarono nella tinozza
dove fino a poco prima era sospeso il
corpo della giovane cantante. Si strofinò
con foga dappertutto.
XV
Era notte fonda quando i colpi alla porta
lo svegliarono nuovamente di soprassalto. Immaginava chi potesse essere e non
aveva voglia di averne la conferma. Si
rigirò mettendosi il consunto cuscino
sulla testa.
I colpi si fecero ancora più insistenti.
Sapevano che era in casa. Dove poteva
essere altrimenti? E non avrebbero mollato fino a che lui non avesse aperto
quella dannata porta.
Si avvolse nella coperta e ciabattando
innervosito si fermò dietro il legno martoriato dai colpi.
“Chi è?” domandò già sapendo la risposta.
“Abbiamo bisogno di voi.”
“Non ditemi che è morto qualcun altro…”
“Purtroppo sì. C’è stato un incidente e
la contessa desidera che il corpo venga
seppellito sta notte stessa.”
Incidente? C’era sempre qualche strano
incidente che implicava la figura della
contessa. Com’era possibile? Dovevano
essere proprio vere tutte quelle voci che
la vedevano responsabile di torture e
uccisioni.
Aveva rifiutato di crederci per molti anni e gli erano sempre bastate le giustificazioni addotte dalle due vecchie serve,
ma ora, dopo l’ennesima richiesta di sepoltura notturna, cominciava a credere
che le voci che giungevano anche da
Vienna non fossero calunnie. Lo stesso
Andràs Berthoni aveva lasciato scritte
nelle sue cronache di Csejthe di aver
dovuto spesso occuparsi di sepolture
notturne e che una volta aveva usato la
cripta sotto la chiesa per occultare i cadaveri di nove giovinette i cui corpi erano irriconoscibili.
Non poteva più far finta di nulla. Doveva in qualche modo fare chiarezza e
giurò a se stesso che questa volta avrebbe perlustrato da cima a fondo la cripta
per avere la certezza che ciò che Berthoni aveva scritto fosse la verità.
Si vestì in fretta e furia e uscì nell’aria
gelida. Dorkò e Jò Ilona erano come al
solito insieme e ghignavano scambiandosi occhiate segrete. L’una magra, ricurva e sdentata, l’altra grassa, maleodorante e col naso adunco. Le seguì fino
a che non scorse la solita bara di legno
chiaro e senza pretese.
“Qual è il nome del defunto?” domandò
già sapendo che non poteva che essere
una fanciulla.
“Ilona Harczy.”
Ponikenus sbarrò gli occhi esterrefatto.
“Cosa? Ilona Harczy? La fanciulla dalla
voce d’angelo?”
“Lei. Qualcosa non va?”
“Per quale ragione è morta?”
Dorkò gli riservò un’occhiata infastidita
e d’ammonimento.
“Cosa vi importa? Dovete solo fare il
vostro dovere e tacere o volete che ve lo
ordini direttamente la contessa?”
Ponikenus abbassò lo sguardo e sospirò.
Cosa poteva fare lui solo contro il potere della contessa? Non poteva certo an-
dare da lei e pretendere delle spiegazioni o forse sì?
“Portatemi da lei allora.” Disse risoluto
e con il cuore che batteva all’impazzata.
Dorkò scosse la testa e rise mentre Jò
Ilona dava colpetti con la punta della
scarpa alla cassa appoggiata a terra.
Senza una parola imboccò il sentiero
che portava al castello e Ponikenus la
seguì a distanza di sicurezza. Non voleva camminare vicino a quella donna che
non era una donna, ma di certo un essere creato dal demonio.
Quando attraversò la sala del castello,
stupì nel vedere decine e decine di gatti
neri che scorazzavano indisturbati. Si
fece il segno della croce e salì le scale.
Dorkò bussò alla porta della stanza della contessa e attese con pazienza.
“Entrate.” Una voce spazientita.
Quando la porta venne aperta, una zaffata nauseabonda lo investì. Odore di
carne marcia, di sangue rappreso che
tentava di venire camuffato da oli profumati che bruciavano qua e là. Erzsébet era in piedi accanto al suo adorato
specchio. Quello che lei stessa aveva
disegnato e fatto costruire.
“Che cosa accade a quest’ora della notte?” domandò aggrottando la fronte.
“Contessa… Ponikenus desidera avere
delucidazioni sulla morte improvvisa di
Ilona Harczy.”
Erzsébet posò il suo sguardo crudele
sull’uomo e attese che fosse lui a parlare.
“Sì contessa. Vorrei sapere che cosa è
accaduto alla povera Ilona.”
“Da quando vi interessate dei motivi per
cui una fanciulla smette di respirare?
Sono cose che accadono. La morte è
una presenza costante nelle nostre vite e
capita a volte che anche chi ha doni
come Ilona Harczy ne sia preda.”
“Non avete però risposto alla mia domanda. Com’è sopraggiunta la morte?”
Erzsébet parve spazientirsi e sbuffò annoiata.
“Era una ribelle. Ha avuto atteggiamenti
equivoci con il conte e ho dovuto punirla. Purtroppo non era nostra intenzione
privarla della vita, ma ha perso
l’equilibrio ed è caduta dalle scale. È
stato un incidente come vedete, ma gradirei che durante la cerimonia fosse det-
to che ha perso la vita a causa della sua
disobbedienza.”
Ponikenus scosse la testa incredulo.
“No. Non dirò una tal falsità al cospetto
di Dio. E sarà l’ultima volta che mi presterò a tali sepolture.”
Erzsébet lo fissò a lungo, combattuta tra
il desiderio di staccargli la testa dal collo o farlo scaraventare giù dalla finestra.
Strinse i pugni fino a sentire dolore.
“Non dite nulla allora, ma impicciatevi
degli affari vostri. Quel che riguarda il
castello non è affar vostro.”
Con un cenno della mano fece intendere
a Dorkò di uscire dalla stanza.
Ponikenus fece ritorno al luogo dove Jò
Ilona attendeva accanto alla bara. Con
le lacrime agli occhi portò a termine la
sepoltura, ma senza dire ciò che aveva
ordinato la contessa. Una creatura come
Ilona Harczy non nasce in tutte le epoche, pensò. Una tale voce, capace di
toccare le anime e arrivare fino al cielo
non meritava una fine tanto orribile.
Il desiderio di poter vedere quel corpo
non lo lasciò per tutto il tempo. La curiosità di sapere come l’avevano ridotta… ma non poteva certo aprire la bara
davanti alle due vecchie e non poteva
nemmeno disseppellirla dopo. Si strinse
nel mantello e, con gli occhi lucidi, rimase a dire ancora una preghiera mentre Dorkò e Jò Ilona si allontanavano
soddisfatte e i loro corpi sbiadivano nella nebbia del primo mattino.
Ponikenus tornò quasi correndo verso la
propria dimora. Si chiuse nella stanza e
corse accanto alle braci ancora vive del
piccolo focolare. Attese che i brividi
passassero e senza aspettare un attimo
di più, prese il lume e corse verso la
chiesa. Doveva porre fine a quelle domande che gli vorticavano in testa e non
lo lasciavano più in pace. Doveva sapere se Berthoni si era inventato tutto o se
invece era stato lui a non vedere la verità per così tanto tempo. Percorse la breve navata e scese nella cripta facendo
attenzione a non inciampare negli sconnessi scalini.
Davanti a sé si apriva la grande cripta
che ospitava le spoglie mortali di Christofer Orszàgh di Giath, proprietario di
Csejthe e del castello passato poi ai Nàdasdy oltre che judex curiae e consigliere dell’imperatore Mattia. Ponike-
nus si coprì la bocca e il naso con il
mantello; l’aria era pesante e intrisa degli odori forti della decomposizione.
La fiamma incerta del lume, rischiarò la
stanza, creando angoscianti ombre
tutt’attorno.
“Oh mio Dio… abbi pietà di noi…” sospirò poi vedendo accatastate intorno
all’imponente sarcofago, le tante bare di
legno.
Un rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare e quasi inciampare. L’ultima
cosa che desiderava era cadere e perdere i sensi in quel luogo sinistro, magari
dando fuoco al vecchio legno con il lume che stringeva in mano. Un grosso
ratto attraversò di corsa la cripta.
Tremando, tirò un sospiro che poteva
essere di sollievo. Fece ancora qualche
passo e appoggiò il lume sul sarcofago.
Doveva vedere. Doveva sapere. A mani
nude, prese il coperchio di una delle bare e il legno marcio scricchiolò. Tirò
forte e una parte del coperchio saltò via.
Con frenesia e sempre guardandosi attorno intimorito, staccò grossi pezzi di
legno fino a portare alla luce il corpo
decomposto e nero di una giovane i cui
capelli erano ancora folti attorno al viso
scuro. Un osso sporgeva da una grossa
ferita sullo zigomo. Era come se vi fossero passati sopra con le ruote di una
carrozza. Il viso era deformato a causa
delle ossa rotte; il naso piegato da una
parte. Era nuda e i seni incartapecoriti
recavano vari segni che sembravano
morsi profondi. Si fece di nuovo il segno della croce e nemmeno si accorse
che stava sussurrando preghiere. Tra le
gambe della giovane, un grosso bastone
sporgeva e sembrava anch’esso coperto
di sostanze un tempo vive, come il sangue. Ma la cosa che più lo impressionò
e che rischiò di fargli perdere la ragione, fu l’incisione sull’addome. Pareva
che l’avessero squartata; i lembi di pelle
e carne erano stati aperti. Da
quell’apertura si vedeva chiaramente il
resto del bastone che era risalito dal suo
più intimo e aveva distrutto tutto ciò che
aveva incontrato sul suo cammino, fino
quasi ad arrivare al cuore.
Si voltò in preda a forti conati. Si appoggiò al muro e vi poggiò la fronte
chiudendo gli occhi, in attesa che passasse il malessere.
Come potevano aver compiuto certe atrocità?
Quanti anni poteva avere quella giovane?
A giudicare dai seni appena accennati e
dal corpo minuto, non poteva averne più
di quattordici e forse anche meno. Come poteva una donna, fare una cosa del
genere a un’altra donna che, data l’età,
avrebbe potuto essere sua figlia?
Perché causare tanto dolore a una creatura indifesa?
Erano tutte domande a cui non sapeva
dare una risposta. Come preso da una
frenesia e da una rabbia incontrollabili,
si avventò sulle altre bare e una dopo
l’altra, ne scardinò i coperchi. Solo
quando anche l’ultima vittima venne
rischiarata dalla luce del lume, si accasciò a terra ansimando e piangendo. Di
cosa era stato complice fino a quel momento? Che cosa aveva fatto? Dio
l’avrebbe mai perdonato?
Erano tutte giovani e recavano tute i segni di mostruose torture che solo il diavolo poteva aver suggerito. Nessun essere umano poteva spingersi a tal punto!
Rimase nella cripta a lungo.
A piangere e porsi domande per cui non
vi era una risposta. Era sconvolto da
quelle visioni di morte, ma più di tutto
piangeva la scomparsa di Ilona per cui il
suo cuore di uomo aveva perso qualche
battito facendogli dimenticare di essere
un uomo di Dio.
Decise in quell’istante che sarebbe andato da Elias Lanyi, sovrintendente di
Bicse per denunciare ciò che aveva scoperto.
PARTE
SECONDA
I
Ferencz Nàdasdy era morto il 4 gennaio 1604 lasciandola sola. La sua primogenita si era sposata ed Erzsébet aveva
davanti a sé una vita di solitudine che
non riusciva ad accettare. Solitudine che
sembrava volesse prepararla alla vecchiaia che sopraggiungeva e a cui non
riusciva a rassegnarsi. Qualche ruga le
solcava il viso austero nonostante le
continue accortezze. Necessitava di
qualcosa di più e fu per questa ragione
che invitò al castello una donna che tutti
sapevano essere una potente strega in
contatto con tutti gli elementi della natura.
Erzsébet stava ritta in mezzo alla sua
stanza, nuda e bianchissima e osservava
con cipiglio il corpo riflesso dallo specchio. Stava per ore così. Immobile e silenziosa a scrutare ogni centimetro di
pelle e si domandava perché, dopo tanti
sacrifici, il suo corpo risentiva del tempo. Con i pugni stretti, la pelle d’oca per
il freddo e la mandibola serrata, aspettava che Dorkò le annunciasse l’arrivo
della strega che le avrebbe dato qualche
buon consiglio. Come a esaudire questo
suo desiderio, bussarono alla porta.
Ferma in mezzo alla stanza e senza alcun pudore, invitò all’entrata.
Dorkò si materializzò sulla porta in
compagnia di una donna alta e magra
come uno spettro. Nessuna delle due
sembrò imbarazzata dalla nudità della
contessa che nonostante l’età e le maternità poteva ancora vantare un bel
corpo.
“Ho portato la strega della foresta contessa. Il suo nome è Darvulia.” Disse
facendosi da parte per permettere alla
contessa di avere piena visione della
strega.
“E così voi sareste la potente strega di
cui tutti bisbigliano.”
“Sì contessa Bàthory Nàdasdy. Sono io.
E voi siete la contessa che corre dietro
alla gioventù.”
“Dorkò, lasciaci sole.” Ordinò brusca.
“Entrate.” Disse rivolgendosi a Darvulia
e avvolgendosi in una pesante vestaglia
di broccato.
“Che cos’avete fatto fino ad ora e come
mai non siete soddisfatta dei risultati?”
“Il sangue delle giovani non basta più.
Il mio corpo invecchia, le rughe solcano
il mio viso, lo sguardo non è più fresco
come un tempo. Sono io che vi chiedo
cosa fare per ottenere risultati.”
“Quante volte il sangue di queste giovani ha rinvigorito il vostro corpo?”
Erzsébet scosse la testa.
“Non saprei rispondere. Non c’è mai
stato un appuntamento prestabilito, ma
senz’altro non meno di due volte al mese.”
Darvulia sorrise e scosse la testa come
se avesse già compreso i motivi per cui
le attenzioni utilizzate dalla contessa
non avessero funzionato.
“Che età avevano le fanciulle e di quale
estrazione sociale erano?”
“Alcune dodici, altre anche venticinque
ed erano tutte contadine, serve dal sangue forte.”
“Avete sbagliato contessa.”
Erzsébet che non era abituata a sentirsi
dire che aveva commesso un errore divenne rossa in viso per la rabbia, ma
senza rispondere, la ricacciò indietro.
Aveva bisogno di Darvulia e non voleva
che se ne andasse senza averle rivelato i
segreti che custodiva gelosamente.
“Dite allora! Cosa è stato sbagliato!”
rispose impaziente.
“Le giovani… non devono avere più di
diciotto anni e non devono mai aver conosciuto l’amore o il loro sangue non
avrà ricchezza da donarvi. I benefici che
avete ottenuto bagnandovi con il sangue
delle giovinette di dodici anni è stato
come annullato dal sangue povero di
quelle troppo vecchie.”
Erzsébet sembrò soppesare a lungo
quelle parole.
“Volete dire che non potrò utilizzare le
mie serve?”
“No. Potete farlo, ma solo di quelle
molto giovani. Due volte al mese è abbastanza per una giovane donna, ma superati i trent’anni è necessario che i bagni siano ravvicinati se si desidera che
l’effetto sia duraturo.”
“Da quanto tempo è scomparso vostro
marito?” domandò all’improvviso, lasciando Erzsébet senza parole.
“Da otto mesi.” Rispose rattristata.
Nella sua mente, la figura di Ferencz
stanca e adagiata sul letto, le strinse il
cuore. Non conosceva la parola amore,
ma forse qualcosa aveva provato per
quell’uomo così forte e importante che
l’aveva presa con sé ancora bambina. Se
quando era ancora in vita, lei aveva
avuto giornate che si avvicinavano un
poco a essere giornate felici, ora non vi
era più nulla dentro di lei che lo facesse
sperare. Tutto era andato perduto e non
c’era nemmeno più il pensiero di riaverlo nel proprio letto a rassicurarla e farla
sentire desiderabile. Non necessitava di
un uomo qualsiasi lei. Aveva bisogno di
un uomo potente e bramoso del suo
corpo. Un uomo che tornava dalle battaglie assetato e affamato di lei. Se nel
passato, quando lui era ancora in vita,
aveva risparmiato molte delle fanciulle
torturate, dal momento della sua scomparsa nessuna aveva più visto la luce
dopo che lei ci aveva posato gli occhi.
Una rabbia incontenibile si era impos-
sessata di lei. Una durezza mai vista aveva sconvolto i suoi lineamenti che ora
risultavano più marcati. Se ogni tanto le
sue labbra si erano piegate in un vago
sorriso di soddisfazione quando anche
lui era distante, ora non ve ne era più
traccia.
“Avete bisogno di sfogare il vostro essere per rendere più bella la pelle. Se
non desiderate che sia un uomo a portarvi all’estasi, fatelo fare da una donna,
ma non trattenete la potenza del vostro
sesso perché rischierà di farvi marcire.
Erzsébet ascoltò con attenzione.
Vi era stata una sola donna che aveva
davvero fatto sfogare i suoi istinti come
fosse un uomo. Sua cugina. Aveva cercato ancora di provare quelle sensazioni
obbligando alcune sue damigelle a fare
ciò che desiderava, ma nulla era stato
come quella volta. Nemmeno sua zia
era riuscita a farle provare tanto piacere.
Pensò a Lazlo che continuava a occuparsi dei cavalli, ma che nulla aveva
dell’uomo che era stato suo marito. Aveva ragione Darvulia. Quella mancanza di sfoghi sessuali l’avrebbe avvelenata a lungo andare e non poteva permet-
tere che questo si ripercuotesse sul suo
corpo.
Pensò a quante volte negli ultimi tempi
si era lasciata andare a pratiche di autoerotismo mentre rimirava il suo corpo
riflesso nello specchio e a quanto il suo
desiderio, anziché diminuire, aumentava
rabbiosamente facendole desiderare solo di poter uccidere per placarlo almeno
un poco.
“Desidero che facciate tutto il possibile
per rallentare se non eliminare
l’avanzare dei segni che il tempo sta lasciando sul mio corpo e desidero che
facciate qualcosa per eliminare coloro
che tramano contro di me.”
Darvulia scoppiò in una risata terribile e
allo stesso tempo affascinante che lasciò
Erzsébet di stucco. A Darvulia non pareva vero di poter fare ciò che più amava, agli ordini di una nobildonna così
potente e che l’avrebbe protetta.
L’anziana scheletrica con la pelle tesa
sulle ossa del viso come fosse un cadavere appena uscito dalla tomba assentì
ridendo ancora.
“Vi state per caso prendendo gioco di
me?” domandò Erzsébet seria.
“No… certo che no contessa. Sarò lieta
di aiutarvi nei vostri intenti. Non dovrete più temere il tempo e nemmeno i vostri nemici. Vi preparerò una pergamena
incantata da portare sempre con voi e
che vi proteggerà. Farò in modo che il
dolce zucchero di una torta diventi veleno e tolga di mezzo i vostri contestatori. Domani vi farò avere dei dolci e
voi li farete portare come segno
d’amicizia a uno dei vostri nemici. Solo
uno… non dimenticate. L’incantesimo
deve essere fatto pensando ad una sola
vittima o perderà il suo potere. Questa
notte le erbe malvagie della foresta faranno il loro dovere e le forze della natura si apriranno a me come sempre
hanno fatto.”
Erzsébet assentì, convinta da quel discorso.
“Ora ditemi: quale nome volete che
venga
pronunciato
durante
l’incantesimo?”
“Janòs Ponikenus.”
“E sia!” disse girandosi verso la porta e
uscendo dalla stanza.
Erzsébet rimase così, sola nella sua
stanza strofinandosi le mani con rabbia.
Aveva sbagliato tutto! Aveva usato sangue vecchio che aveva limitato i poteri
del sangue giovane! Tutto per non affidarsi a una vera strega! Era arrabbiata
con se stessa, per non aver chiesto prima l’intervento di una vera strega che
conoscesse fin nell’intimo gli incantesimi della luna e della natura.
Chiamò
Dorkò
strillando
come
un’ossessa e le ordinò di preparare le
più giovani serve e di portarle nelle celle. Lei sarebbe scesa non appena fossero
state tutte riunite.
II
Aveva ragione Darvulia. Dopo il bagno
di sangue fatto la sera precedente, la sua
pelle sembrava davvero radiosa. Sette
erano state le vittime e Dorkò era stata
come sempre impeccabile ed erotica. I
dolci promessi dalla strega erano arrivati. Erzsébet era entusiasta e incaricò subito una giovane serva di portarli a Ponikenus e di consegnargli una sua lettera.
La giovane prese con sé il piccolo vassoio ancora tiepido, che spandeva un
profumo tanto invitante da tentarla più
volte mentre percorreva veloce la strada
deserta che portava alla chiesa. Non li
toccò perché era certa che la contessa li
avesse contati e non voleva in alcun
modo attirare su di sé la sua ira. L’aria
cominciava a essere meno fredda e ogni
tanto il sole riusciva a bucare le spesse
nubi e riscaldare la terra fredda. La giovane si fermò a rimirare l’erba, gli alberi e il fiumiciattolo. Respirò a pieni
polmoni desiderando solo di poter stare
all’aria aperta per sempre e di non dover
tornare mai più tra le mura di quel castello. Avrebbe preferito di gran lunga
lavorare la terra al freddo di gennaio
piuttosto che rammendare tovaglie al
caldo del castello di Csejthe. Aveva
spesso meditato di fuggire, ma in molte
le avevano detto che se fosse fuggita,
avrebbe dovuto davvero scomparire e in
fretta perché se i seguaci della contessa
l’avessero ritrovata, per lei non ci sarebbe stato più nulla da fare. E chissà
quanto tempo avrebbe voluto tenerla in
vita prima di lasciarla volare verso la
pace che in ultimo avrebbe implorato.
Già, perché chi provava l’ira della contessa non supplicava più che le fosse
risparmiata la vita, ma solo di porre fine
al dolore. Si domandava perché fosse
toccato proprio a lei di dover andare a
servizio da quel demonio. Aveva tanti
desideri quando era solo una bambina e
ancora viveva con la sua famiglia. De-
siderava una casa tutta sua, un marito,
tanti figli... non le importava di non avere legna per scaldarsi o solo pane raffermo da mangiare. Le interessava solo
il tiepido calore della sua famiglia stretta attorno, fatta di risa, di pianti, di confidenze e di litigi. Non era vita quella
che stava vivendo adesso. Costretta a
cucire in tombale silenzio per tutto il
giorno. Senza una famiglia e senza una
vera amicizia. Le altre giovani che lavoravano con lei non si potevano considerare delle amiche perché ognuna di loro
pensava solo alla propria salvezza.
Lei stessa era stata costretta da Dorkò a
cucire per due interi giorni senza interruzioni e completamente nuda nel cortile. Il corpo livido di freddo e le dita indurite avevano continuato a lavorare
freneticamente per finire la tovaglia
prima di svenire o di morire. Aveva avuto paura. Paura che quello fosse solo
l’inizio della punizione e che poi le sarebbe toccato visitare di persona le lavanderie, ma evidentemente, la contessa
era di buon umore quel giorno perché
dopo averla guardata a lungo con un
sorriso dipinto sulle labbra rosse, aveva
detto a Dorkò che la punizione era terminata.
Capitava spesso che qualcuna di loro
dovesse patire queste umiliazioni, ma la
peggiore punizione che avesse visto fu
quella inflitta a Varduska. Era inciampata maldestramente e aveva fatto cadere il vassoio con la colazione della contessa proprio ai suoi piedi, sporcandole
le scarpe e l’orlo dell’abito.
La contessa era rimasta immobile, con
la mandibola contratta e le mani ad artiglio. Varduska non aveva osato alzarsi
fino a che non era stata la stessa Erzsébet a ordinarglielo.
Quando fu in piedi di fronte a lei, Erzsébet la schiaffeggiò con forza prima
di chiamare Dorkò e ordinarle di denudarla e portarla in cortile dove le avrebbe raggiunte dopo aver indossato un abito più adatto e pesante.
Varduska venne privata dei vestiti e lasciata nuda in mezzo al cortile ancora
innevato. La ragazza tremava. Doveva
avere sedici anni e il suo corpo di donna
era bello e aggraziato. Gli addetti alle
stalle guardavano di sottecchi quel corpo desiderabile e anziché sognare di
immergersi tra quelle carni, pregavano
per lei. Erzsébet arrivò e tutti proseguirono senza voltarsi mentre lei li osservava uno a uno senza proferir verbo. Il
fiato le si condensava davanti al viso in
bianche nuvolette quando ordinò a quattro degli addetti alle stalle di approfittare di quel corpo nudo. Nessuno di loro
avrebbe voluto insozzare il corpo di
quella giovane che ben conoscevano e
che era una brava fanciulla, davanti agli
occhi bramosi e crudeli di quella donna
senza Dio, ma non poterono rifiutarsi.
Non esisteva l’amicizia in quel castello.
Ognuno pensava per sé o avrebbe dovuto pagare con la vita.
Varduska fu violentata da quattro uomini che ci misero parecchio prima di essere sessualmente pronti e che per questo fecero perdere la pazienza alla contessa che li accusò di non essere veri
uomini. Loro erano uomini, ma la loro
libido non era affatto stimolata da quella situazione.
Quando finalmente la contessa fu soddisfatta, Varduska pianse tutte le sue lacrime per l’umiliazione, il dolore, il
freddo, la purezza che aveva riservato
per il vero amore e perduta per sempre,
ma credé anche che la sua punizione
fosse giunta al termine.
Si sbagliava perché la contessa ancora
non riusciva a togliersi dalla testa il suo
bell’abito sporcato dal vino. Ordinò a
Dorkò di bagnarla con l’acqua del pozzo e di lasciarla in mezzo al cortile fino
al giorno seguente.
Varduska non arrivò al giorno seguente.
Morì durante la notte. Il suo sangue le si
gelò nelle vene e al mattino, uno degli
inservienti, mosso a compassione le si
avvicinò e la trovò cadavere.
Non aveva vie d’uscita. Non poteva
fuggire perché prima ancora di aver trovato un rifugio sicuro, l’avrebbero trovata. Non le restava che tacere e godere
di quei pochi momenti di libertà che ancora la facevano sognare a occhi aperti.
Bussò alla porta di Ponikenus e attese
guardandosi intorno. Un cane randagio
le passò di fianco scodinzolandole e lei
allungò una mano e gli carezzò la grossa testa pelosa prima che zampettasse
via; magro ma felice.
Ponikenus aprì la porta e rimase stupito
di vedere la giovane. Non gli pareva di
conoscerla.
“Padre… mi manda la contessa. Desidera che leggiate questa lettera e che accettiate il suo dono.” Disse abbassando
gli occhi.
Ponikenus prese il vassoio e sollevò il
canovaccio che ne ricopriva il contenuto.
“Paste…” sospirò, ma sembrava spaventato anziché contento.
Prese la lettera e la aprì.
Carissimo Janòs Ponikenus,
gradite questi dolciumi fatti a regola
d’arte come pegno d’amicizia e lasciate
che le passate incomprensioni vengano
abbandonate in favore di un futuro di
pace.
Ponikenus fu tentato di accartocciare la
lettera, ma ebbe timore che questo suo
gesto potesse essere riportato dalle labbra rosate della fanciulla che aveva di
fronte. La contessa aveva occhi e orecchie dappertutto e lo sapeva bene. Rientrò e posò il vassoio sul tavolo guardan-
dolo con sospetto come se potesse saltargli addosso come una bestia selvatica
non appena lui avesse voltato le spalle.
“Ringrazia la contessa da parte mia e
comunicale che è anche mio desiderio
vivere in pace.”
La ragazza scosse la testa incredula e
intimorita.
“Cosa ti prende?” chiese preoccupato.
“Vi prego… scrivetele… non obbligatemi a parlare con lei… vi prego…”
supplicò con le lacrime agli occhi. Subito la giovane si pentì di quell’istintiva
richiesta perché Ponikenus avrebbe potuto riferirlo alla contessa, ma proprio
perché spinta dall’istinto di sopravvivenza, quel dubbio non le sfiorò la mente prima di parlare.
“Che cosa temi? Che cosa ti ha fatto?”
Lei scosse la testa con vigore.
“Niente. Niente. È solo che…”
“A me puoi dirlo. Io so che razza di
demonio sia.”
“Vi prego, non obbligatemi a parlare.
Scrivetele e fatemi rientrare. Se ci metterò troppo tempo, lei…” le lacrime scivolarono copiose sulle guance arrossate
dall’aria fresca.
Ponikenus non volle insistere. Anche lui
ne aveva paura e non poteva giudicare
quella giovane per la scelta di tacere. Si
riavvicinò al tavolo e prese la stessa lettera della contessa ove appose alcune
frasi prima di restituirla alla ragazza che
aspettava sulla soglia, asciugandosi frettolosamente il viso con il bordo del
grembiule.
La vide fuggire via come avesse il diavolo alle calcagna in uno svolazzare di
gonna. Qualcuno doveva porre fine
all’orrore che regnava in quel castello.
Decise che sarebbe andato quel giorno
stesso da Elias Lanyi a Bicse. Non aveva avuto il coraggio di andare dopo la
morte di Ilona, ma era venuto il momento di prendere una decisione.
Si avvicinò al tavolo e scoprì il vassoio
con le paste. Il profumo era forte e si
spandeva in tutta la stanza. Non le avrebbe mangiate per nessuna ragione al
mondo. C’era una scrofa in una stalla
poco distante da lì. Una scrofa che presto sarebbe stata macellata.
Prese il mantello e corse verso la stalla
tenendo il vassoio distante dal corpo
come se avesse timore anche solo del
contatto di quel dono.
Entrò nella stalla e i maiali grugnirono
all’unisono spaventati dalla sua irruenza
forse. Si avvicino all’animale e fece
scivolare un pasticcino nel recinto invitandolo ad assaggiarlo. La giovane scrofa grufolò, sembrò non degnarlo di uno
sguardo e poi, vorace, lo mangiò.
Ponikenus rimase nella stalla per ore,
osservando l’animale che mangiava e
grugniva. Stava quasi per darsi dello
stupido, quando un forte grugnito precedette la morte dell’animale che stramazzò al suolo.
L’uomo guardò i restanti pasticcini che
teneva in grembo e poi l’animale morto.
“Sarebbe morta comunque… domani…
macellata…” si disse per allontanare il
vago senso di colpa.
Fuggì dalla stalla e rientrato in casa,
gettò i pasticcini nel fuoco del camino.
Forse fu solo una sua impressione, ma
le lingue di fuoco sembravano urlare del
grido degl’inferi e parevano prendere la
forma di orride maschere di dolore.
III
Le voci si facevano ogni giorno più insistenti ed Erzsébet cominciava a temere che Megyery avrebbe potuto parlare
e calunniarla. Fece fare un incantesimo
anche per lui e ogni giorno lo pronunciava per far sì di tenerlo a bada. Se solo fosse morto!
Darvulia le aveva ordinato un trattamento per quel giorno e le aveva insegnato molte cose durante le loro chiacchierate. Ciò che le aveva detto era stato
importante perché ora non uccideva più
per il solo piacere di potersi bagnare nel
sangue, ma proprio per togliere la vita.
Le aveva spiegato che la natura e Satana
stesso le avrebbero dato ciò che chiedeva se lei avesse sacrificato delle vite e
se questo l’avesse fatto per loro e non
per se stessa. Ponikenus non era morto e
questo la infastidiva, ma sapeva che non
aveva mangiato i pasticcini preparati da
Darvulia per questo non glie ne faceva
una colpa. Sospettava di lei e per questo
non si era lasciato ingannare. Quello
stesso giorno era stato intercettato da
una delle sue fidate serve mentre si recava di gran fretta a Bicse. Non era stato difficile farlo desistere dal suo intento.
Privo di midollo!
Dorkò comparve sulla soglia.
“Sono pronte.”
Senza rispondere, Erzsébet uscì dalla
stanza seguita da Dorkò.
Nei sotterranei di fredda pietra, si sentivano singhiozzi soffocati. Il fuoco era
acceso e la gabbia da poco acquistata
era sospesa a mezz’aria. Quanto amava
quei sotterranei dove l’odore umido della terra la faceva sentire protetta come
nel ventre materno. Lì nessuno poteva
raggiungerla e farle del male. Lì non
esisteva la contessa, la madre di famiglia, la vedova inconsolabile. Esisteva
solo Erzsébet, la donna sospesa nel tempo che si lavava nel sangue, che ne assaporava l’aroma metallico rigirandoselo in bocca come fosse un vino invec-
chiato. Il tempo era fermo. La rivoluzione tra cattolici e protestanti che imperversava in Ungheria non era nulla;
non esisteva.
Niente aveva valore tra quelle mura in
cui il muschio che rifuggiva la luce cresceva indisturbato. Non sentiva le preghiere delle giovinette. Non sentiva le
loro suppliche.
Respirava a fondo come le era stato
consigliato da Darvulia e si preparava a
fare da tramite tra quel mondo che ben
conosceva e quello degli elementi e di
Satana.
Nulla l’avrebbe fermata. Nemmeno le
voci che volevano che in qualche luogo
distante, forse in Inghilterra, si preparasse una possibile caccia alle streghe.
Lei non si sarebbe fermata perché a
Csejthe era la padrona indiscussa e nessuno mai avrebbe potuto schiacciarla.
Respirando a fondo, sentiva i battiti del
proprio cuore e come per magia, sentiva
lo sciabordio delle onde, il frinire delle
cicale, il rumoreggiare delle fronde degli alberi. Il vento freddo del nord le accarezzava il corpo e il calore del fuoco
le scaldava la pelle. C’era tutto quello di
cui aveva bisogno. Tutti gli elementi
erano con lei come non lo erano mai
stati e tutto grazie alle sagge parole di
Darvulia che le aveva insegnato tutto
ciò che sapeva.
Si avvicinò alla cella e indicò con mano
ferma una delle giovani che subito si
tirò indietro e prese a piangere più forte.
Quando Dorkò aprì la cella, furono le
sue stesse compagne a spingerla fuori
come se quel gesto meschino potesse in
qualche modo salvarle, ma Erzsébet
nemmeno lo notò. Lo considerò un gesto dovuto e non ci si soffermò per più
di un secondo.
La giovane aveva tredici anni. Era robusta e aveva capelli così neri da risaltare
come carbone sulla neve. Jò Ilona fece
calare la gabbia con un gran fracasso di
catene e Dorkò spinse dentro la ragazza
nuda e terrorizzata. A tredici anni ancora non aveva peli pubici e il seno era
appena accennato. Di certo ancora non
aveva conosciuto l’amore. Ficzkò si teneva in disparte e ogni tanto pungolava
una delle altre prigioniere con la punta
di una grossa lancia. Rideva sguaiata-
mente fino a che la contessa non lo redarguì con un’occhiata.
La gabbia venne risollevata da Jò Ilona
e con l’aiuto di Dorkò, data la mole
tutt’altro che sottile della giovane. La
catena fu bloccata a un ferro attaccato
alla parete e Ficzkò porse la lancia alla
contessa che già si era rimboccata le
maniche. La punta della lancia venne
avviluppata dalle fiamme fino a divenire rossa e lucente come una cometa. Erzsébet la infilò tra le sbarre e iniziò a
pungolare lievemente la giovane. Le urla si fecero subito acute e il dolore inimmaginabile la costrinse a scattare da
una parte all’altra della gabbia ferendosi
profondamente con gli spuntoni di ferro
di quell’arma di tortura che solo una
mente malata poteva aver concepito. La
giovane cercava di proteggere da quegli
aculei almeno il viso stravolto dal dolore e dal terrore. Il sangue scivolava lungo le sbarre della gabbia e gocciolava
lucente e vivo nella tinozza. Ficzkò ridacchiava e indicava la vittima alle giovani ancora nella cella. Si divertiva a
vedere il terrore dipinto sui loro volti e
a pregustare il momento in cui un’altra
avrebbe varcato la soglia della cella già
sapendo che cosa l’aspettava. Guardava
la contessa e la immaginava nuda sul
suo corpo. Chi non l’avrebbe fatto? Era
la donna più sensuale che avesse mai
visto nonostante fosse già in là con
l’età. Lo eccitava il suo potere assoluto
e il suo essere impavida di fronte a
qualsiasi cosa. Aveva odiato i momenti
in cui il conte Nàdasdy ritornava al castello e giaceva con lei per tutta la notte.
Spesso sentiva il cigolio del letto e
l’ansimare dei due. Quante volte si era
alzato da suo giaciglio ed era rimasto
silenzioso dietro quella porta ad ascoltare il godere. Sapeva di non avere alcuna
speranza, ma in cuor suo continuava a
sognare una notte con lei. La natura lo
aveva reso orrido e storpio senza nessuna possibilità di essere felice. Chissà
come sarebbe stato se fosse nato normale? Ricordava che da piccolo, quando
ancora la sua deformità non era così evidente e ancora credeva che sarebbe
cresciuto come gli altri, sognava di innamorarsi e di avere una famiglia.
Scacciò quei pensieri con un gesto della
mano come fossero insetti fastidiosi. Si
sarebbe perso tutto questo se fosse stato
normale e sarebbe stato un vero peccato, si disse. In fondo che cosa gli mancava? Una moglie piagnucolante? Dei
figli da sfamare? Il duro lavoro della
terra? No, stava bene così. A guardare
una dea della natura che usava tutto il
suo potere. A stuprare i cadaveri ancora
caldi e dal corpo martoriato. Sì, questo
gli piaceva e non gli mancava proprio
nulla.
La fanciulla nella gabbia sbatteva da
una parte all’altra come una colomba
impazzita e su tutto il corpo erano evidenti le perforazioni causate dalle punte
di ferro. Piangeva e si stringeva il corpo
con le braccia là dove la carne era più
delicata. Ancora la lancia arroventata
tocco la pelle, ma questa volta non si
fermo e affondò nel fianco morbido
strappando un altro grido. La fanciulla
si accasciò sul fondo, forse svenuta.
Erzsébet fece un cenno a Dorkò che
prese a far calare la gabbia.
Nella tinozza già si raccoglieva una
buona quantità di sangue. La gabbia si
appoggiò a terra e Jò Ilona l’aprì e prese
per un braccio la povera vittima tirando-
la fuori di peso. Rimase a terra immobile e svenuta fino a ché Dorkò utilizzò il
metodo testato da Ferencz e con una pira di carta oleata e infuocata, bruciò la
carne dei seni e delle cosce. Subito la
giovane rinvenne scattando all’indietro.
Si guardò attorno incredula d’essere ancora viva e fuori dalla gabbia. Come se
fosse possibile, scivolò all’indietro tentando una fuga che finì subito contro le
gambe ben piantate di Jò Ilona.
Erzsébet fece un passo indietro e reclinò
la testa come se stesse ammirando una
rara opera d’arte e volesse imprimere
tutti i particolari nella memoria per poterli raccontare ad amici e parenti. Percepiva la presenza di Satana proprio
come le aveva preannunciato Darvulia.
E pensare che per tanto tempo non aveva dato peso alle forze della natura e
aveva fatto tutto questo solo per il suo
piacere.
Dorkò attese un suo cenno e quando ci
fu, tirò su di peso la giovane e la incatenò con le braccia alte sulla testa. Era
bassa e legata così, i suoi piedi non arrivavano a toccare terra. Le braccia tese
le facevano male per il peso del corpo
da sostenere. Erzsébet si avvicinò al tavolo e prese un coltello sottile dalla lama corta e ricurva. Ritornò di fronte alla
giovane che supplicava e mormorava
parole senza senso. Forse il suo cervello
aveva già abbandonato la ragione per
tuffarsi in un fiume di pazzia che potesse preservarlo in quegli ultimi momenti.
La lama affondo nell’ascella accanto
all’attaccatura del piccolo seno e con un
gesto deciso, ne seguì tutto il contorno
fino a tornare la punto di partenza. Dorkò era già pronta con la carta oleata, ma
la giovane non svenne. Erzsébet posò il
coltello e lo cambiò con un paio di pinze piuttosto grandi che aveva fatto costruire apposta. Aprì quella sorta di dentatura di ferro che in quel momento
sembrava un animale preistorico affamato e racchiuse il seno già mezzo distaccato. Le ganasce entrarono nella ferita aperta e la contessa tirò verso di sé
con forza. La mammella si distaccò portando con sé lembi di carne, di muscolo
e il sangue uscì in un fiotto grande. La
fanciulla a questo punto svenne e Dorkò
la riportò di nuovo alla realtà. Non aveva più forza per gridare e gli occhi le si
chiudevano. La vita la stava abbandonando e già si notava la minore luminosità dello sguardo. La mammella fu posta su un piatto che Jò Ilona le porgeva
e poi messa a sfrigolare sulla griglia accanto al fuoco.
Erzsébet posò l’attrezzo e si ripulì le
mani con un canovaccio. Dorkò, da quel
gesto, capì che era venuto il momento
di porre fine a quell’agonia. Con le fidate forbici, incise i polsi e l’ultimo sangue si raccolse nella tinozza mentre la
giovane boccheggiava come un pesce
fuor d’acqua.
Ficzkò aprì la cella e ne fece uscire
un’altra giovane. Bella, con i capelli di
un rosso sgargiante, la pelle bianca come il latte e leggere efelidi. La spintonò
verso la contessa.
“Vi prego contessa, io prometto che farò ogni cosa voi mi domandiate…” disse singhiozzando.
“Io ti domando allora di farti sacrificare
per il mio bene.” Rispose allora dura.
“No… vi prego.” Pianse.
“Sei una bugiarda allora! Non mantieni
la parola che mi hai appena dato!” sbottò.
Dorkò la immobilizzò e la legò alle catene.
Se la prima ragazza aveva ricevuto un
trattamento pietoso perché non aveva
fatto nulla per contrariarla, la seconda
subì anche tutta la rabbia che con il suo
atteggiamento da bugiarda, le aveva suscitato.
Parti del suo corpo vennero strappate.
Le dita della mano destra, le unghie dei
piedi, il labbro superiore e la lingua che
venne uncinata, pinzata e tirata fuori fin
dal suo principio e scaraventata sulla
griglia dove ancora sfrigolava la mammella della prima vittima.
Svenne molte volte e altrettante Dorkò
si limitò a bruciarle il sesso per farla
rinvenire. Gli occhi furono trafitti da
lunghi spilloni e finalmente sopraggiunse la morte.
Solo dopo la terza, Erzsébet guardò rassegnata la cella e ordinò a Jò Ilona di
prepararne altre per il giorno successivo. Si sentiva in forze e non avrebbe
voluto fermarsi ancora, ma Darvulia era
stata chiara. Per dieci giorni era necessario un bagno di sangue e se non si
fosse fermata, le serve non sarebbero
bastate. Già si era premurata di mandare
in paese Jò Ilona a reclutarne delle altre,
ma non era stata una settimana fortunata
e avrebbe dovuto cercare ancora, magari in paesi distanti da Csejthe.
Immerse una coppa nella tinozza e la
riempì di sangue. Lo bevve tutto d’un
fiato facendoselo colare sul mento come
se fosse assetata.
Poco dopo l’ultima vittima, Jò Ilona
tornò nei sotterranei con altre cinque
giovani di età compresa tra gli undici e i
quattordici anni. Le scaraventò una ad
una nella cella tra i corpi martoriati delle compagne. Ficzkò si stava dilettando
con una di loro e non fece caso agli
sguardi terrorizzati e schifati delle nuove arrivate.
Tutto era terminato. Le urla erano finite
e il sangue nella tinozza era abbastanza.
Senza pudore, Erzsébet si sfilò l’abito
intriso di sangue e s’immerse chiudendo
gli occhi e godendo il meritato riposo.
Dorkò spostò l’ultimo corpo e lo depositò accanto al tavolo. Con un coltellaccio taglio fette di carne dalle cosce e le
buttò accanto al fuoco.
Quando reputò che fossero cotte, le sistemò su un vassoio e si avvicinò alla
cella.
Le giovani scivolarono indietro schiacciandosi contro la parete.
“Forza! Non avete fame?” rise mostrando i pochi denti neri.
Nessuna delle fanciulle si avvicinò alle
sbarre.
Jò Ilona raggiunse Dorkò e prese le
chiavi della cella; in mano stringeva un
forcone.
“Mangiate oppure farete i conti con
questo.” Disse indicando l’attrezzo.
La più coraggiosa tra loro, si fece avanti
e prese il vassoio. L’istinto di sopravvivenza le convinse a mangiare la carne
delle loro compagne e la speranza di
venire risparmiate fece sì che i conati di
vomito
non
impedissero
quell’abominevole pratica.
Erzsébet rimase a lungo nella tinozza
accanto al fuoco. Ogni tanto rabbrividiva per il freddo, ma voleva che quel
momento durasse il più a lungo possibile per poter sfruttare appieno tutto il potere che c’era in quel prezioso liquido.
IV
Era partita una settimana prima per recarsi al castello di Pistyàn. In quel luogo dove la natura regalava agli uomini
le sue più preziose cure, si recava almeno una volta l’anno per potersi immergere nelle acque fangose e dare sollievo
ai reumatismi e alla gotta. I suoi bagni
di sangue procedevano e ogni sera segnava i nomi e l’età delle sue vittime in
modo da poterne tenere il conto. Ormai
ammontavano a più di cinquecento.
Mentre si stava godendo la colazione,
una delle damigelle più anziane si avvicinò cauta e attese che ella le accordasse
il permesso di parlare.
Non amava essere disturbata durante i
pasti e la servitù lo sapeva bene, quindi,
se una di loro si azzardava a non rispettare quel momento, ci doveva essere
una buona motivazione.
“Cosa vuoi?”
“Perdonatemi contessa. È appena arrivato un servitore inviato da vostra figlia
Anna. Domanda ospitalità per poter
sfruttare anche lei i benefici dei bagni di
fango.”
Erzsébet rimase con il cucchiaio a
mezz’aria, contrariata e stupita.
“Quando?” domandò.
“Fra tre giorni dovrebbe arrivare se voi
le concederete il permesso.”
Ci pensò su a lungo prima di rispondere: “E sia.”
Questo le rovinava i piani! Come poteva osservare i consigli di Darvulia con
degli ospiti in casa? Con uno scatto
d’ira gettò via tutto dal tavolo mandando in frantumi il piatto con un boccone
di pane e la coppa rotolò sul pavimento
spandendo gli ultimi sorsi di vino alla
cannella.
Infuriata, scese nei sotterranei meno
spaziosi di quelli del castello di Csejthe
strillando il nome delle due vecchie.
Arrivarono entrambe trafelate per la
corsa.
“Viene mia figlia!” gridò rabbiosa.
Strinse i pugni. Le lacrime premevano
dietro gli occhi come fosse una bambina
in preda a un capriccio. Si portò le mani
alla testa sentendo arrivare le fitte lancinanti che ben conosceva.
“Portatemi una giovane!” gridò furiosa
e presa dall’isteria.
Dorkò corse subito su per le scale e ne
tornò un attimo dopo con una giovinetta
che di solito si occupava delle cucine.
La fanciulla fu scaraventata davanti a
lei e con un movimento ferino, le strappò via l’abito dalla spalla e affondò i
denti nella carne tenera.
La giovane non gridò perché sapeva
quanto questo infastidisse la contessa.
Pianse, ma strinse forte i denti e non
gridò. Non seppe mai se fu per questo
suo atteggiamento o no, ma la contessa
si limitò a staccare un gran pezzo della
sua carne e poi la lasciò tornare al suo
lavoro.
Non ancora calma, ma meno furente,
prese a percorrere avanti e indietro il
corridoio buio. Non sapeva come fare.
Per quanto si scervellasse, non le veniva
in mente un modo per poter conciliare
le sue cure di bellezza con l’arrivo di
ospiti inaspettati.
“Dov’è Darvulia?” chiese.
“Dovrebbe essere tornata da poco.”
“Chiamala!”
Jò Ilona, con la sua andatura ciondolante e senza grazia, sparì e pochi attimi
dopo tornò in compagnia della vecchia
strega che ancora stringeva tra le mani,
mazzi di erbe raccolte quella stessa mattina.
“Viene mia figlia.” Disse asciutta senza
aggiungere altro.
“Temete di non poter proseguire i trattamenti?”
“Certo! Come posso?” domandò furiosa
per quella constatazione tanto stupida.
“Sapete quanto si fermerà?”
“No, ma non credo più di quattro giorni
poiché dovranno presenziare a una festa
di fidanzamento e avranno bisogno di
almeno un giorno per compiere il viaggio di ritorno.”
“Bene… non disperate allora. Stipate
quante più fanciulle potete e tenetele al
sicuro. Farete in un sol giorno quel che
avreste dovuto fare in quattro.”
Erzsébet la fissò a lungo pensierosa.
“Siete certa che una cosa del genere non
rovini tutto ciò che ho fatto fino a ora?”
“Non abbiate di questi timori contessa.
Ve lo assicuro.” Rispose con un ghigno.
Non appena Darvulia fu tornata alle sue
pozioni, Erzsébet ordinò a Dorkò, Ficzkò e Jò Ilona di fare esattamente ciò
che aveva detto Darvulia e sottolineò
inoltre di non lasciare in giro per il castello le nuove e più pettegole serve.
Non voleva in alcun modo che si lasciassero andare a chiacchiere pericolose con la servitù di sua figlia.
Quando il castello fu pulito da cima a
fondo in onore degli ospiti, le celle furono quindi riempite di giovani ragazze
spaventate e incredule che sarebbero
state trattenute sotto la responsabilità di
Dorkò, fino al momento della partenza
di Anna.
La sera del terzo giorno, come accordato, arrivarono i due giovani sposi. Anna
sembrava raggiante nel suo abito elegante e ricercato di fattura certamente
francese e Miklòs, al suo fianco non faceva che guardarla con gli occhi luminosi. Erzsébet ne osservava con attenzione i tratti. Con ammirazione, ma anche insana invidia. Invidia per la sua
gioventù e per tutti gli anni che ancora
aveva davanti. Invidia perché al suo
fianco aveva un uomo innamorato che
raramente si allontanava da lei. Non aveva preso la delicatezza della sua pelle,
ma piuttosto quella più coriacea di Ferencz. Non sarebbe mai stata bella
quanto lei ed era certa che chiunque avrebbe preferito ancora la madre alla
figlia. Era poco avvezza a sentirsi seconda a qualcuno ed era un bene che
non sentisse di esserlo proprio dinnanzi
a sua figlia perché, forse, la sua mente
malata avrebbe potuto suggerirle di dimenticare il legame di parentela.
Radiosa, Anna varcò la soglia con le
braccia protese in un saluto affettuoso a
cui la contessa non era abituata.
“Madre!”
esclamò
sorridendo.
L’abbracciò e le posò un bacio leggero
sulla guancia.
Erzsébet rimase quasi immobile in balia
di quel saluto così intimo.
“Figlia mia. Come state?”
“Oh bene. Avevamo tanto desiderio di
vedervi e quale momento migliore se
non un soggiorno a Pistyàn! Miklòs non
vedeva l’ora di dedicarsi un po’ alla
caccia con i suoi cani e io ho davvero
bisogno delle preziose cure di queste
acque. Spero che il nostro arrivo non
comporti per voi un disturbo.” Disse
abbassando gli occhi nel pronunciare
l’ultima frase.
“Non dovete pensarlo Anna. Una figlia
non reca mai disturbo alla propria madre.” Rispose pensando invece a quanto
sarebbe stata sollevata al momento della
loro partenza.
“Dovete essere stanchi. Il viaggio è stato lungo.”
“Sì, lungo e poco comodo.” Intervenne
Miklòs prendendo per mano Anna e
sorridendole. I due davano l’idea di essere ancora due fidanzatini.
“La cena è già in tavola se vogliamo accomodarci.” Li interruppe Erzsébet infastidita da tanta palpabile felicità. Sentiva un distacco glaciale nei confronti di
qualsiasi sentimento umano che rischiasse di mettere a nudo la sua anima
e di farle intravedere la propria femminea debolezza. Il suo umore aveva attraversato varie fasi nelle ultime ore e
questo l’aveva stancata come un’intera
giornata passata a cacciare.
Stupore quando era stata avvertita
dell’arrivo degli ospiti; rabbia quando
aveva compreso che quei giorni avrebbero compromesso tutto il suo lavoro;
trepidazione quando Darvulia l’aveva
rassicurata; fastidio quando finalmente
erano arrivati.
Lei viveva nell’attesa perenne di qualcosa o qualcuno e non appena quel
qualcosa o quel qualcuno faceva capolino alle porte della sua vita, si rendeva
conto che non era affatto ciò che desiderava. L’attesa la rendeva viva e la certezza dei fatti le sfilava via la vita come
da un arazzo senza colori.
Le poche domestiche rimaste avevano
preparato impeccabilmente il tavolo e
avevano avuto l’accortezza di sparire
prima che la contessa ritornasse in sala
da pranzo. Tutte si domandavano che
fine avesse fatto il resto della servitù,
ma nessuna osava parlarne ad alta voce
e meno che mai con le domestiche di
Anna, che invece parevano allegre e rilassate mentre portavano a compimento
il loro lavoro.
Anna non aveva nulla di sua madre.
Non ne aveva la bellezza, ma nemmeno
l’alone diabolico e cupo. Era allegra e
gentile. Forse aveva sentito anche lei le
voci riguardo a sua madre, ma se così
era, non lo dava minimamente a vedere
e anzi, si comportava in modo amorevole e attento, nonostante la freddezza di
Erzsébet.
Mangiarono voracemente com’era consuetudine a quei tempi, complimentandosi per l’ottima cacciagione prima di
ritirarsi ognuno nella propria stanza: Erzsébet ad attendere che la notte passasse
e la partenza di Anna si avvicinasse;
Anna e Miklos a ritrovare la sospirata
intimità.
Erzsébet non riuscì a dormire bene
quella notte. Le gambe scattavano sotto
le coperte come fossero pervase da
un’elettricità maligna. Quattro giorni…
si disse. Quattro giorni di prigionia nel
suo stesso castello. Quattro giorni eterni
in cui avrebbe dovuto dipingersi la maschera della buona madre e sforzarsi di
sembrare almeno interessata ai loro discorsi, se non addirittura parteciparvi lei
stessa.
Non avevano scelto il momento giusto.
Non era colpa sua se erano piombati lì
proprio in quel momento! Non dovevano aspettarsi che facesse i salti di gioia
dato lo scarso preavviso!
Eppure doveva. Doveva fare la madre
per quei quattro giorni e lasciarsi alle
spalle tutti i suoi progetti. Pensò a Miklòs e a quanto sembrava innamorato di
Anna. Era certa che se solo avesse voluto, lo avrebbe attirato nel proprio letto
facendogliela dimenticare. Si accarezzò
il seno con le mani fredde pensando al
giovane che entrava di soppiatto nella
stanza e le confessava di voler fare
l’amore con lei per sempre.
Anna, nella sua vestaglia verde scuro, si
sedette sul bordo del letto, accanto a
Miklòs che già l’aspettava sotto le coperte. Le posò una mano sulla coscia
scoperta e accarezzò con tenerezza la
sua bella pelle.
“Mi sembrate preoccupata.” Disse scostandole i capelli dal viso.
Anna sospirò e alzò gli occhi al soffitto
per cercare di ricacciare indietro le lacrime. Non voleva piangere e fare la
bambina ancora una volta. Voleva anzi
parlare con Miklòs e ricevere come
sempre le sue rassicurazioni.
“Si tratta di vostra madre vero?”
“Sì.” Rispose lei con un nodo in gola.
“Avete voglia di parlarne mia cara?”
“Sì… è che non ci riesco senza farmi
prendere dal pianto.”
“Piangete allora. Sono vostro marito e
non dovete vergognarvi di piangere davanti a me.”
Anna scosse la testa, grata per quelle
parole e ringraziando Dio di avere al
suo fianco un uomo tanto comprensivo.
“Avete sentito anche voi che cosa si dice in giro… io non posso credere che
sia vero…”
Miklòs l’abbracciò e la cullò tra le sue
braccia.
“Anna, amore mio, non dovete dar retta
a tutto ciò che vien detto. Tante sciocchezze fanno il giro del mondo senza
aver fondatezza. Dovete fidarvi del vostro istinto e trovare voi la risposta.”
La cullò ancora stringendola forte.
“Secondo voi è possibile che vostra
madre si sia resa davvero responsabile
di ciò che dicono?”
Anna pianse tenendosi stretta al petto
del marito.
“E’ proprio questo il punto…”
“Cosa volete dire?” domandò aggrottando la fronte.
“Che io sento che in quella donna c’è
davvero qualcosa di diabolico. Lo vedo
nei suoi occhi che sono o no lo specchio
dell’anima?”
“Certo che lo sono amore mio. Ma cosa
di preciso vi fa credere che vostra madre sia il mostro che descrivono?”
“Non lo so con certezza. Non so descrivervi quello che sento, ma c’è qualcosa
di strano in lei. Qualcosa di strano in
questo castello e persino nelle domestiche.”
“Suvvia amor mio! Voi vi state facendo
prendere dalla fantasia adesso! Perché
non vi sdraiate accanto a me e non cercate di riposare. Domani sarà una lunga
giornata e sapete quanto siano spossanti
i bagni caldi.”
Anna assentì e scivolò di fianco al corpo tiepido e rassicurante. Solo pochi istanti di quel contatto bastarono a farle
dimenticare ogni dubbio e a farla scivolare in un sonno tranquillo
V
Il primo giorno era passato veloce come
se qualcuno avesse rubato le ore, tra bagni di fango, riposo pomeridiano e cena
a base di carni fresche. Anna e Miklòs
non avevano notato nulla di strano negli
atteggiamenti di Erzsébet nonostante lei
non nascondesse, in qualche occasione,
di desiderare la solitudine. Non partecipava con trasporto alle loro discussioni
e spesso sembrava avere la mente altrove, ma forse, pensarono, sentiva solamente la mancanza di Ferencz.
Il secondo giorno sembrò più lento e
con qualche momento di noia, ma fu il
terzo giorno quello che sconvolse di più
Miklòs e fece sì che comprendesse appieno le paure e i sospetti di sua moglie.
Aveva fatto buona caccia per due giorni
interi e decise di dedicarvi solo la mattina del terzo per poi passeggiare senza
meta nei dintorni del castello, sempre in
compagnia dei suoi due cani. Amava i
suoi cani e non faceva che decantarne
l’incredibile olfatto e l’innata obbedienza. Nelle stalle, un viavai di giovani
garzoni e decine di bellissimi cavalli.
Sostò per un po’ a guardare le bestie
dalla muscolatura possente e il manto
più lucido del velluto e solo quando
sentì uno dei cani abbaiare, uscì dalle
stalle.
“Cosa succede Dadel?” domandò alla
bestia che scavava con foga. Il cane non
si fermò nemmeno quando lui cercò di
allontanarlo dalla buca che aveva scavato.
“Cosa fai? Non puoi scavare buche in
tutto il cortile!” lo rimproverò, ma le
parole gli morirono in gola.
Sbatté più volte le palpebre prima che
l’immagine che aveva davanti agli occhi
diventasse del tutto reale e inconfutabile. Un piede umano e certamente femminile per quanto era delicato e piccolo,
sbucava dal terreno a una profondità di
trenta centimetri scarsi.
“Basta Dadel… basta…” sussurrò spostando il cane che scodinzolava, orgoglioso del ritrovamento.
Si guardò intorno. Alla finestra del piano superiore la figura di Dorkò lo osservava. Non appena i loro sguardi
s’incontrarono lei si scostò dalla finestra.
Miklòs deglutì a vuoto. Aveva la gola
secca e la testa che girava. Che razza di
storia era questa?
Si accovacciò e con le mani scavò attorno al piede come se avesse bisogno
di toccare lui stesso quel che stava vedendo per riuscire davvero a crederci.
Era vero. Freddo, duro e vero.
Si alzò e fece qualche passo indietro ripulendosi la mano dalla terra, ma sentendo la profonda esigenza di mondarla
con dell’acqua fresca. Richiamò i suoi
cani e rientrò al castello dove si chiuse
nella sua stanza in attesa del ritorno di
Anna.
Si sedette allo scrittoio, deciso a scrivere al palatino per metterlo al corrente di
quel che era successo, ma subito stracciò la pergamena. Non poteva fare una
cosa del genere senza averne prima par-
lato con Anna. Non poteva decretare la
fine di sua suocera senza pensare alle
conseguenze che questo avrebbe avuto
su sua moglie.
Passeggiò nervosamente per la stanza,
gettando occhiate nervose nel cortile. I
suoi cani dormivano accanto al camino
acceso. Non aveva voluto lasciarli fuori
né tanto meno lontani da lui. Voleva
averli sott’occhio perché chiunque avesse fatto una cosa del genere alla ragazza nel cortile, poteva fare molto
peggio ai suoi amati cani.
Due colpi secchi alla porta lo fecero
sussultare. Il suo cuore sembrava in procinto di saltare in aria.
“Sì?” chiese con il tono più sicuro che
riuscì a trovare.
“Sono Dorkò. Gradite che vi sia portato
qualcosa di caldo? Mi siete sembrato
sconvolto poco fa.” Disse e Miklòs era
pronto a scommettere che stesse sorridendo.
“No grazie. Sto bene così. Piuttosto…
sai dirmi quando rientrerà Anna?”
“Non saprei. Le compere con la contessa non si sa mai quando possano finire.”
Rispose con tono quasi minaccioso.
Miklòs si avvicinò alla porta in punta di
piedi e appoggiò l’orecchio al legno
freddo. Sentiva la presenza della vecchia. Non se n’andava! Cominciò allora
a temere per se stesso e più ancora per
sua moglie che non aveva avuto bisogno di prove per accorgersi che c’era
qualcosa che non andava.
Attese a lungo, senza quasi respirare e
finalmente sentì i passi della vecchia
allontanarsi e quasi nello stesso istante,
il rumore di una carrozza che entrava in
cortile.
“Anna…” bisbigliò correndo verso la
finestra dove il buco fatto da Dadel era
stato attentamente ricoperto da lui.
Vide Anna scendere dalla carrozza, sorridente e rilassata e Dorkò avvicinarsi
subito a Erzsébet e parlarle a lungo
nell’orecchio lanciando occhiate verso
la finestra da cui le stava osservando. Si
scostò, sperando di non essere stato visto.
I passi di Anna sulle scale gli diedero
forza.
La donna entrò raggiante.
“Ho acquistato alcune collane di pietre
preziose che m’invidieranno in ogni oc-
casione marito mio.” Disse richiudendo
la porta.
Si tolse il mantello e lo gettò sul letto,
prima di accorgersi della brutta cera del
marito e di avvicinarglisi preoccupata.
“Che cosa succede? Vi sentite male?”
solo allora notò i due cani accovacciati
accanto al fuoco.
“Cos’è successo? Parlate vi prego!” insistette presa dal panico.
“Dobbiamo andare via da qui e subito.
Non aspetteremo domani. Partiremo
oggi stesso non appena i bagagli saranno pronti.”
“Cosa dite? Spiegatevi vi supplico. Avete ricevuto cattive notizie dal castello?”
“No… non preoccupatevi, ma vi prego
di non fare domande ora. Vi spiegherò
strada facendo.”
“Mi state spaventando.”
“Non è mia intenzione, ma fate come vi
dico.”
Irremovibile, rimase a guardare Anna
che dava ordini alle domestiche perché
tutto fosse pronto il più in fretta possibile per la partenza non programmata.
Non domandò nulla a Miklòs. Sapeva
quanto fosse razionale e giusto ed era
certa che ci fosse un buon motivo se aveva preso quella decisione senza consultarla e se sembrava così sconvolto.
Erzsébet non sembrò affatto stupita per
la partenza improvvisa e questo fece
comprendere ad Anna che la decisione
presa da suo marito non poteva che avere a che fare con sua madre. I saluti furono freddi e frettolosi.
Quando la carrozza fu abbastanza distante dal castello da non distinguerne
più le guglie e le luci alle finestre, Miklòs raccontò ad Anna ciò che era successo.
Si tennero stretti e piansero entrambi.
Lei perché in cuor suo aveva sperato
che le voci fossero solo calunnie e che il
suo istinto si fosse sbagliato. Lui perché
non avrebbe mai più dimenticato quel
piede, Dorkò e lo sguardo di sua suocera al momento dei saluti.
Dentro quella donna non c’era niente.
Solo un immenso vuoto che niente e
nessuno avrebbe mai potuto colmare.
VI
Di nuovo sola, Erzsébet rimase a lungo
a guardare la carrozza allontanarsi negli
ultimi raggi del tramonto. Un senso di
vuoto e al contempo di libertà la pervasero mentre la carrozza svaniva come
un fantasma del passato.
Perché questo era sua figlia. Un fantasma del passato. Una creatura avuta per
obblighi matrimoniali e di casata, che
ora viveva una sua vita lontano da lei.
Non avrebbe sentito la mancanza di
nessuno dei suoi figli… mai. E nemmeno di suo genero. Dorkò l’aveva informata di ciò che era successo, ma non se
ne preoccupava per nulla. Poteva dare
mille spiegazioni che giustificassero la
presenza di quel corpo nel cortile e nessuno avrebbe mai potuto accusarla di
nulla.
Guardando la pianura e in lontananza il
Vàg, prese la decisione di partire anche
lei l’indomani stesso per tornare a Csejthe, ma prima desiderava fare una visita al duca di Brunswick nel castello di
Dolna Krupa.
Non si faceva che parlare di lui negli
ultimi tempi e di quante visite avesse
già ricevuto da tutto il mondo per il suo
nuovo, immenso orologio. Pareva fosse
ancora in costruzione e che vantasse un
incredibile carrillon e svariati personaggi semoventi. Ma prima di tutto doveva
occuparsi dei sacrifici. Con passo deciso si diresse verso le scale e poi nei sotterranei. Il castello sembrava deserto e
anche i sotterranei erano stranamente
silenziosi. Con il lume diede fuoco agli
stoppini delle lampade appese alle pareti e incuriosita da quella mancanza di
rumori si avvicinò alla cella. Rabbia e
stupore le si dipinsero sul volto quando,
dinnanzi le si presentò uno spettacolo
inaspettato e terribile. Quasi tutte le ragazze erano morte e le poche ancora in
vita sembravano agonizzanti. Gli occhi
acquosi dei cadaveri fissavano le pareti
e il soffitto della cella. L’odore di morte
pervadeva l’aria che risultava quasi irrespirabile. Strinse così forte il manico del
lume che quasi sentì il ferro piegarsi
sotto le sue dita. Com’era potuto accadere? Che cos’era successo?
Sollevando la veste per non inciampare,
corse su per le scale e come una furia
attraversò ogni stanza e ogni corridoio
alla ricerca di Dorkò.
Nonostante le sue grida e il suo correre
da una parte all’altra, nessuno le dava
risposta. Dovevano essere tutti affaccendati nelle stalle e nell’orto!
Senza mettersi addosso nulla, uscì dal
castello e a grandi falcate arrivò alle
stalle, dove si fermò con le mani sui
fianchi, il fiato che si condensava nel
fresco della sera e gli occhi che lanciavano bagliori fiammanti.
Dorkò la vide e corse subito verso di lei
domandandosi che cosa fosse accaduto
di tanto grave da spingerla a uscire per
cercarla; e non aveva dubbi che cercasse lei, dal momento che la fissava con
ostinazione.
“Contessa, avete bisogno di me?”
Erzsébet contrasse la mandibola, i denti
scricchiolarono sotto quella pressione
esagerata e con un movimento repentino, la sua mano artigliò i capelli della
vecchia e li strattonò bruscamente.
“Cosa è successo nella cella?” le gridò a
pochi millimetri dal viso, insensibile al
suo alito fetente.
“Cosa volete dire? Non è successo nulla
nella cella.”
“Ah no? Ah no?” gridò ancora, strattonandola nuovamente e spremendole
qualche lacrima.
“Non capisco…” si difese Dorkò.
“Sono morte! Sono tutte morte! Cos’hai
fatto?”
Dorkò si maledì per non aver dato cibo
né acqua alle domestiche rinchiuse e
anche per aver abusato del suo potere
picchiandole con il bastone di frassino,
e ancora per aver sperimentato nuovamente la superba sensazione di potere
che le dava innaffiarle di acqua gelida e
lasciarle tutta la notte legate nel cortile.
Non le importava nulla che fossero
morte… questo no, ma aver rovinato i
piani di Erzsébet era l’errore più grosso
che avesse mai fatto.
“Io non ho fatto niente… ho dovuto punirle perché gridavano troppo e rischia-
vano di farsi sentire da Anna! Ho dovuto!” si difese ancora.
“Dovevano rimanere vive! Capisci che
dovevano rimanere vive? Ora come farò? Le altre domestiche sono tutte troppo vecchie e non c’è tempo per reclutarne delle altre!” la voce di Erzsébet
era talmente tanto alta da aver suscitato
paura e fastidio anche nei cavalli.
“Ne troverò. Andrò subito e ne troverò!
Lo giuro sulla mia vita!”
“Fa sparire i cadaveri e fammi trovare
venti ragazze entro domani o per te sarà
la fine e questo sono io a giurartelo.”
Sibilò tra i denti.
Sconvolta e fuori dalla grazia di Dio,
rientrò al castello e, dopo aver ordinato
che venissero preparati i bauli per la
partenza dell’indomani, si fondò nella
sua stanza. Con una manata scaraventò
a terra tutto ciò che c’era sul basso comò di legno scuro. Doveva parlare con
Darvulia, ma di lei non vi era ancora
traccia.
Dorkò rimase a lungo pensierosa nelle
stalle. Come poteva trovare altre ragazze a quell’ora tarda della sera?
Jò Ilona la raggiunse. Aveva sentito le
urla di Erzsébet e aveva preferito attendere che tutto fosse passato prima di
farsi vedere. Incontrare la contessa
quando era così fuori di sé non era una
buona idea per nessuno. Insieme partirono a passo spedito verso il paese alla
ricerca di qualche giovane malcapitata
con alle spalle una famiglia bisognosa.
Bussarono a centinaia di porte fino a
notte fonda, suscitando anche l’ira e la
diffidenza dei contadini. Le loro figure
vecchie e sgradevoli si stagliavano sugli
usci scarsamente illuminati e con fare
subdolo, tentavano di convincere i genitori ad affidare le giovani ragazze alle
loro cure. Molti erano coloro che avevano già sentito le voci che circolavano
riguardo la contessa e non si fecero
convincere neppure dalle promesse di
denaro. Furono costrette ad allontanarsi
dal paese e battere in lungo e in largo i
centri più piccoli e distanti per riuscire a
trovare qualche famiglia disposta ad accettare la loro proposta. La notte fredda
era caduta ormai su ogni cosa e la strada
per ritornare al castello si era fatta ancora più lunga. Camminando di buona le-
na, con cinque fanciulle al seguito, arrivarono che già stava albeggiando. Le
giovani erano tutte di età compresa tra
gli undici e i quindici anni. Purtroppo
avevano dovuto declinare l’offerta di
almeno altre quattro perché avevano già
superato i quindici anni. Le famiglie
non erano state subito convinte dalle
loro spiegazioni, soprattutto per lo strano orario che avevano scelto per presentarsi. Il loro aspetto poi non faceva che
peggiorare le cose. Mettevano paura e
l’oscurità della notte le rendeva ancora
più sinistre. Nonostante tutto riuscirono
a trovarne almeno qualcuna dalle famiglie che davvero versavano in condizioni miserevoli.
Le ragazze che già dormivano al tepore
delle stufe nei loro giacigli di fortuna,
erano state svegliate bruscamente e fatte
vestire in fretta e furia quasi senza ricevere spiegazioni. Negli occhi dei loro
genitori c’era tristezza, ma anche sollievo.
Avevano camminato senza lamentarsi,
tenendo il passo adulto delle due vecchie. Con gli sguardi ancora addormen-
tati, impauriti non si sa se dalla notte
senza luci o dalle due figure, e spaesati.
L’orizzonte cominciava a rischiararsi e
in lontananza già si vedevano le prime
costruzione del paese. Nessuno aveva
parlato durante il viaggio a piedi. C’era
stata solo qualche occhiata interrogativa
tra le ragazze fino all’arrivo davanti alle
porte del castello.
Dorkò e Jò Ilona non persero tempo con
false e rassicuranti spiegazioni; le condussero subito nei sotterranei e le chiusero nella cella dove fino a poco prima
c’erano stati i cadaveri delle altre. Ficzkò si era occupato di farle sparire da lì,
ma non aveva voluto saperne di occuparsi della sepoltura. Aveva detto che
lui non c’entrava nulla con quel massacro e che toccava a lei occuparsene.
L’avrebbe fatto.
A suo tempo avrebbe fatto anche quello.
Ora, l’unica cosa importante era avvertire la contessa dell’arrivo delle nuove
ragazze.
Nonostante il freddo, aveva camminato
così tanto tra polvere e sporcizia e così
speditamente che aveva addosso un odore acre e pesante più del solito. Bussò
alla porta di Erzsébet e attese. Dopo pochi istanti la porta si aprì e l’espressione
corrucciata e rabbiosa apparve, rischiarata dal lume.
“Le abbiamo trovate contessa. Abbiamo
dovuto battere tutti i paesi circostanti,
ma qualcosa abbiamo trovato.”
“Quante?” domandò Erzsébet tagliando
corto. Ancora non riusciva a capacitarsi
dell’idiozia compiuta da Dorkò e non
era riuscita a trovare un modo per scaricare la rabbia che ancora percepiva nelle viscere.
“Cinque…” sussurrò Dorkò ben sapendo che quella risposta non sarebbe stata
quella desiderata.
“Cinque… cinque… cinque…” disse
salendo di tono ogni volta e prendendosi la testa tra le mani con forza, come a
volerla schiacciare. Non sarebbero bastate cinque ragazze per il sacrificio e
non ne avrebbe avuta nessuna per il viaggio!
Spinse via Dorkò e scese nei sotterranei
dove le occhiate spaurite delle giovani
l’accolsero. Kata stava dando loro da
bere.
“Cosa fai?” le chiese aspra.
“Hanno camminato tutta la notte… per
evitare che facciano la fine delle altre…” si giustificò. In realtà la più piccola tra loro aveva supplicato di avere
dell’acqua e il suo viso era talmente bello e talmente dolce che nemmeno lei era
riuscita a dirle di no.
Anche Erzsébet si soffermò a lungo su
quel viso. C’era qualcosa in quegli occhi verdi e grandi e in quelle gote paffute e rosse che non poteva spiegare. Era
come il viso di un angelo tentatore.
“Liberala.” Disse continuando a fissarla.
Non degnò le altre nemmeno di
un’occhiata. Tutto il suo interesse era
rivolto a quella creatura minuta dagli
occhi grandi e i capelli rossi.
Kata aprì la cella e la invitò a uscire.
Erzsébet la prese per mano come fosse
sua figlia e senza dire una parola la
condusse al piano di sopra. Solo un veloce sguardo e uno strano sorriso sul
suo volto.
Aveva trovato un modo per sfogare la
rabbia.
La fece entrare nella sua stanza dove la
domestica aveva ben rifornito il camino.
L’improvviso tepore fece rabbrividire la
ragazzina che si guardò attorno ammirata, credendo di essere stata scelta come
dama di compagnia per quel giorno. In
effetti Erzsébet aveva in mente qualcosa
di simile…
La invitò a sedere sul letto e lei accettò
con qualche riserva. Non le era mai capitato di sentire che una padrona lasciasse sedere una serva sul proprio
morbido letto pulito.
Un po’ rigida, ma quasi felice, cominciava a fantasticare sul suo futuro di
dama di compagnia di una nobildonna
tanto potente. Avrebbe aiutato la sua
famiglia che versava in pessime condizioni da quando suo padre si era ammalato e non aveva più potuto andare a lavorare. Avrebbe potuto mangiare tutti i
giorni e anche lavarsi tutti i giorni! Certo non avrebbe potuto tornare spesso a
far visita ai suoi genitori e ai suoi fratelli, ma era certa che avrebbe trovato delle amiche tra le altre domestiche e chissà… forse anche l’amore!
Erzsébet la contemplò a lungo valutando attentamente quello che desiderava
fare e quello che avrebbe dovuto fare.
Quegli occhi verdi, all’apparenza innocenti, nascondevano qualcosa di sensuale e proibito che accarezzava la sua libido più di ogni altra cosa. Da quanto
tempo si limitava a osservare, eccitandosi, ciò che faceva Dorkò alle vittime
sacrificali? Troppo. Troppo tempo.
Darvulia stessa le aveva sconsigliato di
trattenere quell’uragano che percepiva
dentro di sé e forse era venuto il momento di lasciare che tutta quella potenza trovasse sfogo. Era combattuta perché se avesse fatto ciò che aveva in
mente in quel momento, non avrebbe
più potuto utilizzare quella ragazza per
il sacrificio e non aveva abbastanza ragazze a causa della negligenza di Dorkò. Soppesò con attenzione le varie possibilità e infine si disse che una non avrebbe fatto la differenza. Aveva bisogno di sentire addosso il calore di un
altro essere umano. Aveva bisogno di
ascoltare il suo desiderio.
Incrociò lo sguardo interrogativo della
giovane e per un attimo le parve che
quegli occhi la invitassero esplicitamente a fare ciò che desiderava. Si avvicinò
a piccoli e lenti passi. Posò una mano
sul capo della ragazza che abbozzò un
lieve sorriso.
Con l’altra mano le sollevò il mento e
poi le accarezzò il collo sottile dove la
giugulare pulsava in modo evidente.
Quel sangue prezioso… sprecato per
compiacere la sua lussuria! Voltò il viso
e chiuse gli occhi come se non guardando, potesse evitare l’inevitabile. Dal
collo, la mano scivolò verso il petto dove ancora il seno non aveva fatto la sua
comparsa. Un essere ancora puro e inesperto che avrebbe scatenato le sue fantasie più nascoste.
“Sdraiati.” Le disse in un sussurro appena udibile.
La ragazza lo fece senza controbattere,
felice di poter compiacere la contessa.
Erzsébet si sdraiò al suo fianco, dapprima accarezzandole il collo e poi insinuando le mani piccole sotto l’abito
malconcio. Quando le dita incontrarono
i piccoli capezzoli, la giovane s’irrigidì
e sbarrò gli occhi, colta alla sprovvista
da quell’atto e dalla reazione inaspettata
del suo corpo. Non aveva mai provato
nulla del genere e non sapeva se fosse
un bene o un male. In un attimo la libe-
rò dai vestiti e ammirò quel corpo di
donna in miniatura, che ancora doveva
scoprire i piaceri del sesso e i dispiaceri
dell’essere femmina. Il ciclo mestruale,
l’obbligo a diventare madre, la continua
sottomissione all’uomo, sia esso padre,
fratello o marito. Il dover sempre far
finta di non avere desideri corporali se
non per compiacere il proprio sposo.
Lei non era stata così. Lei non aveva
mai voluto annientarsi e mai nessuno
l’avrebbe annientata.
La mano scivolò sul ventre pallido e
privo di peluria. La giovane socchiuse
le gambe senza protestare, sempre
guardando la contessa per avere conferme.
“Rilassati.” Le disse prima di liberarsi
lei stessa dall’abito grigio fumo con
preziosi ricami d’oro. Non tolse la gorgiera che amava tenere anche quando
non indossava nient’altro. Non amava
parlare o spiegare ciò che desiderava
durante un rapporto sessuale, ma era
consapevole dell’inesperienza della giovane, quindi, con una pazienza che non
era sua, le guidò la mano sul suo ventre
e la fece scivolare su e giù sul suo sesso
già umido.
La giovane sembrava imparare in fretta
e anche quando Erzsébet tolse la sua
mano, la ragazza continuò quel massaggio intimo ed eccitante.
Le passò un braccio sotto la testa e con
una leggera pressione la invitò ad avvicinare il viso al suo petto.
“Succhia.” Sussurrò mentre già sentiva
dentro di sé che il desiderio cresceva a
dismisura.
La ragazza avvicinò le labbra sottili al
capezzolo turgido ed eseguì l’ordine
come se fosse la cosa più naturale del
mondo. Lei stessa aveva ormai oltrepassato quella soglia che dall’innocenza,
porta verso le insidiose stanze del piacere. I due corpi si fusero uno nell’altro.
Le mani sondavano, penetravano, strizzavano mentre le lingue s’intrecciavano
e leccavano. il dolore si mescolò al piacere ed entrambe caddero in un vortice
di piaceri pungenti e illimitati. Erzsébet
sfogò tutta la lussuria che teneva in serbo da troppo tempo senza che questa si
trasformasse in rabbia e dominio come
sempre accadeva quando aveva a che
fare con un essere che considerava inferiore. Era diverso questa volta. Era come avere tra le lenzuola, sua cugina o
sua zia. Una sua pari. Con pari perversione e altrettanto potere sessuale.
L’aveva capito subito, appena aveva incrociato il suo sguardo. In quegli occhi
aveva visto qualcosa di più di una ragazzina inesperta e sciocca. Qualcosa
pulsava in fondo a quegli occhi verdi.
Non le aveva riservato morsi, schiaffi e
crudeltà solo per quegli occhi che le ricordavano così tanto i suoi. Non per il
colore, ma per la determinazione e per
la profondità che nascondevano.
Si fermarono, esauste, con i corpi sudati
e appiccicosi di umori. Accaldate e rosse in viso. Alcune macchioline di sangue si delineavano nette sul lenzuolo di
lino. La purezza aveva abbandonato
quel corpo; non avrebbe più potuto sacrificarla, ma questo poteva essere un
bene. Trovare un’amante che le facesse
provare simili emozioni non sarebbe
stato facile.
Meglio tenerla a servizio.
VII
Era tutto pronto per la partenza. Le domestiche correvano per tutto il castello,
spostando bauli, chiudendo porte e parlottando sommessamente tra loro, facendo attenzione a non farsi scoprire
dalle due vecchie e dalla contessa. Si
domandavano dove fossero finite le
domestiche più giovani che erano sparite prima dell’arrivo di Anna e Miklòs.
Non ci avrebbero fatto caso se fossero
state poche o se fosse successo a Csejthe (dove c’era un continuo viavai di
cameriere e dame di compagnia), ma
erano venti. Darvulia si era assentata
per tutto il giorno precedente e gran parte della notte, giustificando poi la sua
assenza con la ricerca di una particolare
erba per i suoi incantesimi. Le quattro
ragazzine rimaste nella cella avevano
trovato una fine piuttosto veloce considerando le abitudini di Erzsébet. Quella
sera era talmente appagata e talmente
spossata dall’intensità dell’incontro con
Vanka che non le erano rimaste energie
sufficienti né la consueta crudeltà. Persino Dorkò e Jò Ilona erano rimaste
scioccate dal poco interesse della contessa per le torture. Sembrava non vedesse l’ora che la morte sopraggiungesse invece di godersi ogni taglio e ogni
bastonata. Vanka era stata risparmiata e
anche questa era una novità. Nessuna
veniva risparmiata in genere. Le era stato addirittura concesso un bagno con
essenze profumate e un abito pulito.
Avrebbe fatto con lei il viaggio per recarsi a far visita al duca di Brunswick.
Erzsébet sedeva già ritta nella sua carrozza, con lo sguardo che sembrava
guardare oltre la tappezzeria di velluto e
pareva ascoltare voci lontane. Non faceva caso all’andirivieni delle domestiche, al battere inquieto degli zoccoli dei
cavalli e neppure allo sguardo indagatore di Darvulia che la osservava dal vano
del portone ancora aperto del castello.
Forse anche lei vedeva qualcosa di diverso quel giorno, su quel viso solitamente tirato e insoddisfatto. Qualcosa
che le dava i brividi e allo stesso tempo
la turbava profondamente. Vide la giovane che veniva fatta salire sulla stessa
carrozza della contessa e un dubbio le si
insinuò nella mente. Non ricordava di
aver mai visto quella ragazzina, ma non
le sfuggì il lieve sorriso che increspò le
labbra sottili di Erzsébet quando si accorse della sua presenza. Intravide qualcosa di luminoso in quegli occhi sempre
troppo scuri per sembrare umani.
Si sentiva minacciata.
Non avrebbe saputo spiegare perché,
ma avvertiva la presenza di un legame
che non avrebbe dovuto esserci e che
poneva a rischio il suo stato di consigliera e figura predominante.
“Chi è quella?” domandò a bassa voce a
una domestica grassa e rossa in viso
come un’ubriaca. La fitta rete di capillari rotti le ricopriva l’intero viso dal naso
adunco e le palpebre cadenti.
“Non lo so.” Rispose brusca. Non le era
mai andata a genio quella strega e, a differenza degli altri, non aveva paura di
lei e dei suoi incantesimi. Credeva fortemente che Dio l’avrebbe protetta
sempre, in ogni circostanza.
Darvulia la prese per un braccio e sibilando come un serpente, ripeté la domanda.
La donna, tentennò, ma poi si lasciò
convincere da quegli occhi così cattivi
che promettevano una feroce vendetta
se solo avesse osato darle la stessa risposta di poco prima.
“Una nuova dama di compagnia.
L’hanno portata ieri sera Dorkò e Jò.”
“Una dama di compagnia eh? È molto
giovane per essere una dama di compagnia.” Osservò.
La donna strattonò via la mano di Darvulia e si allontanò di corsa verso la carrozza dove le altre già aspettavano la
partenza.
Darvulia salì sulla terza carrozza che
ospitava Ficzkò e Jò Ilona. Pensierosa,
stava già valutando quale sarebbe stata
la cosa migliore da fare per togliere di
mezzo quella che sentiva essere una rivale pericolosa.
Il viaggio iniziò e proseguì senza urla
né intoppi. Erzsébet osservava i fitti bo-
schi che sfilavano sia a destra che a sinistra e ogni tanto si scopriva a ripensare al giorno precedente. Vanka sedeva
composta e silenziosa e anche lei sembrava rapita dallo spettacolo della natura circostante che l’attirava e
l’inquietava. Sembrava non essere naturalmente portata a fare nulla che la infastidisse o le facesse cambiare idea. Non
si sforzava di compiacerla o se lo faceva, era molto brava a dissimularlo.
VIII
Csejthe era immersa nel silenzio della
sera quando le carrozze si fermarono
davanti al portone del castello. Il viaggio fino al Dolna Krupa era stato lungo
e gravoso. Era stata ospite del duca di
Brunswick per tre giorni e aveva potuto
osservare da vicino la splendida macchina segna tempo ancora in costruzione, ma già quasi del tutto funzionante.
Vanka era stata con le altre domestiche,
tanto che non si erano quasi mai nemmeno incrociate. Darvulia le aveva preparato infusi a base del sangue essiccato
delle quattro ragazze sacrificate l’ultima
notte a Pistyàn così che il suo corpo non
patisse troppo i negativi effetti causati
dalla forzata interruzione dei bagni. Era
stranamente presente, apprensiva e obbediente, tanto che Erzsébet si domandò
più volte che cosa stesse nascondendo,
ma poi il suo interesse venne completamente rapito da quell’orologio mastodontico e dalle particolareggiate spiegazioni del duca e dell’abile meccanico
che stava apportando le ultime migliorie.
A guardare quegli ingranaggi, quei congegni che si attivavano da soli in un dato momento, le venne in mente uno
strumento di tortura di cui aveva sentito
parlare tempo addietro e subito domandò al meccanico se anche lui ne avesse
sentito parlare, dal momento che sembrava fosse proprio stato inventato in
Germania.
L’uomo sembrò non saperne nulla, ma
le assicurò che avrebbe cercato di informarsi sulla struttura del congegno al
quale era interessata e, insieme al suo
garzone, gliel’avrebbe costruita e inviata prima possibile. Un po’ delusa per
non essere riuscita a saperne di più, Erzsébet rimase qualche giorno ancora
cercando di tollerare i chiassosi ricevimenti e le donne volgari che frequentavano il castello di Dolna Krupa.
Ora non vedeva l’ora di riprendere in
qualche modo la propria routine. I gior-
ni di svago le erano serviti per smaltire
ancora quel po’ di rabbia che le avvelenava il sangue da quando Dorkò aveva
fatto morire gran parte della servitù.
“Perdonatemi contessa… gradirei parlarvi.” La fermò Darvulia, mentre già
posava una mano sulla maniglia della
porta della sua stanza.
Erzsébet, sorpresa da quella richiesta, le
rispose di seguirla e richiudere la porta.
Con passo leggiadro e sguardo indagatore, si sedette sulla sedia dall’alto
schienale e congiunse le mani in grembo, in attesa.
Darvulia rimase accanto alla porta, ancora indecisa su come affrontare il discorso.
“Avanti allora!” tuonò Erzsébet già spazientita.
“E’ necessario un sacrificio contessa.”
“E lo faremo questa notte Darvulia. Non
mi state dicendo nulla che io già non
sappia.”
Darvulia scosse la testa.
“No… contessa… ho parlato con gli
spiriti della foresta. La stessa Lillith è
venuta al mio cospetto per chiedere
questo sacrificio.”
“Cosa intendete?” domandò Erzsébet
disorientata.
“Mi hanno parlato di una giovane… una
giovane dai capelli rossi e gli occhi verdi…”
Erzsébet sgranò gli occhi e deglutì, tentando di rimanere impassibile a quelle
parole.
“Una giovane che non sia ancora donna,
ma che abbia già conosciuto la lussuria.
Io… mia signora… l’ho cercata ovunque questa giovane. A Pistyàn, in Germania, dovunque, ma nessuna aveva
queste peculiari caratteristiche. Io ho
fallito contessa! Ho fallito e vi ho delusa! Il sacrificio di quella sola giovane
poteva apportare grande giovamento a
voi e a tutti gli incantesimi da voi richiesti! Perdonatemi!” sussurrò infine
inginocchiandosi e ghignando sotto i
capelli lunghi e grigi.
Erzsébet si alzò dalla sedia e fece due
giri intorno a essa come se questo potesse annullare tutto ciò che aveva appena udito. Percepì qualcosa rompersi
dentro la propria mente. Anche
quell’unico svago, quell’unica anima
tanto simile a lei le veniva sottratta.
Difficilmente avrebbe trovato un’altra
amante tanto dotata e questo le dispiaceva molto.
“Non mi avete delusa Darvulia. La giovane di cui parlate è già in questo castello e gli spiriti della foresta ve
l’hanno descritta in modo impeccabile.”
Il sorriso di Darvulia si allargò ancora.
“Quando è previsto che sia sacrificata?”
domandò quasi a se stessa.
“Il prima possibile mia signora. Questa
sera stessa sarebbe ancora meglio.” Annunciò, risollevando il viso e usando la
sua espressione più contrita.
“Non fate quella faccia! Non mi fate
certo un torto con la vostra richiesta e
non pensate che io abbia qualche remora a fare ciò che mi avete appena prospettato.”
Sottolineò,
innervosita
dall’atteggiamento della strega.
“Avvertite Jò Ilona di portare Vanka
nella cella.” Ordinò voltandosi verso la
finestra, dove le imposte erano ancora
chiuse e solo un tenue raggio di luce filtrava solitario in quella penombra così
carica di malvagità. Pareva che persino
la luce avesse timore nel dover attraversare quelle imposte.
Darvulia non attese altro e si recò da Jò
per commissionarle la reclusione della
giovinetta.
Non parve del tutto convinta dalle parole di Darvulia, ma senza controbattere si
recò nella sala ricami, dove aveva visto
la ragazza per l’ultima volta.
Vanka era ancora al suo posto, con un
tovagliolo tra le mani e l’ago che procedeva speditamente lungo i bordi. A capo
chino, silenziosa e con sguardo attento,
sembrava lontana anni luce dalle altre
serve che occupavano la stanza; sempre
pronte a parlottare di sciocchezze, incapaci di portare a termine in modo irreprensibile un lavoro.
Vanka era diversa. Attenta e seria, con
quegli occhi così grandi e così profondi
da sembrare senza fine. Aveva notato
una strana affinità tra lei ed Erzsébet e
ne era rimasta scioccata perché, in tutti
quegli anni, non era mai accaduta una
cosa del genere.
Le fece cenno di seguirla e lei, compita
ed educata, le aveva sorriso posando
con perizia il suo lavoro non ancora
concluso e si era resa disponibile a fare
ciò che chiedeva.
La guidò fino ai sotterranei, quasi indecisa se portare avanti l’ordine oppure
fermarsi. Gli occhi curiosi e indagatori
scrutavano ogni anfratto come a volerlo
imprimere per sempre nella memoria.
Aveva lo stesso sguardo di Erzsébet ed
era questo a turbarla. La stessa profondità e la stessa follia lo animavano.
Jò deglutì più volte, come incantata e
senza il desiderio e la forza di muovere
un solo passo.
Se mai aveva davvero visto una strega,
quella era davanti a lei in quel preciso
istante. Quel solo pensiero bastò a farle
cambiare idea e scattando in avanti, aprì
la cella e la spinse dentro con forza.
Affannata e con il cuore che batteva
all’impazzata, chiuse la portina e si allontanò verso la parete opposta. Ora si
spiegava l’ascendente che aveva avuto
immediatamente su Erzsébet! Forse aveva davanti un essere ancora più scaltro e pericoloso. Più crudele e sanguinario!
Solo Darvulia se n’era resa conto e forse proprio grazie al fatto che lei stessa
era una strega potente.
Vanka si alzò da terra e si spolverò la
veste. C’era cattivo odore dentro quella
cella e chiazze scure su tutto il pavimento. Non capiva perché era stata rinchiusa e le lacrime di bambina affiorarono senza che lei potesse fare nulla per
impedirlo.
Aveva fatto qualche errore?
Non lo sapeva. Se lo aveva fatto non se
n’era resa conto ed era certa che la buona contessa avrebbe accettato le sue
scuse senza remore.
Dei passi scesero le scale.
Darvulia apparve e con un ghigno perfido si avvicinò alla cella.
“Credevi di avermi giocato?”
Vanka non rispose, ma scosse la testa,
confusa e incapace di comprendere le
parole della strega.
“Non sei abile quanto credi ed io sono
troppo forte perché tu possa ingannarmi
con qualche ridicolo stratagemma. Vedo
la tua anima e so che sei una strega, ma
non permetterò che tu divenga potente
anche solo un decimo di quanto lo sono
io! Prenderò la tua vita e il tuo potere e
li farò miei per sempre.”
Vanka si addossò alla parete. Le lacrime
le rigavano le guance e il colorito roseo
aveva abbandonato quel viso così straordinariamente bello. Avrebbe voluto
parlare, spiegarsi, chiedere “perché” o
anche solo gridare, ma nessun suono
riusciva a percorrere la gola e uscire
dalle sue labbra. Il terrore le attanagliava le viscere. Chi era quella donna? Cosa voleva da lei? Dov’era la contessa?
“Io non sono una strega… non sono una
strega…” riuscì a sussurrare tra un singhiozzo e l’altro.
Darvulia tuonò in una forte risata, gettando la testa all’indietro. I lunghi capelli grigi, che non portava mai raccolti,
ma sempre sciolti e selvaggi, le ricaddero sulla schiena ossuta spandendo un
intenso aroma amaro che le fece pizzicare le narici.
“Non m’inganni! Non puoi! E’ inutile
che ci provi.”
“Dov’è la contessa?” domandò Vanka
piangendo sempre più forte.
Darvulia ritornò seria e il viso si fece
duro e freddo come marmo. Osava mettere in dubbio il suo ascendente sulla
contessa? Osava mettere in dubbio i
suoi poteri?
Con un movimento fulmineo e inatteso,
si lanciò in avanti e allungò il braccio
quel tanto che bastava perché le sue
lunghe dita scheletriche afferrassero i
capelli della ragazza e con uno strattone
l’attirò verso di sé.
Vanka strillò più per la sorpresa che per
il dolore, senza riuscire a spiegarsi come avesse fatto Darvulia ad afferrarla in
quell’angolo lontano della cella.
Il viso era premuto forte sulle sbarre gelide e sporche mentre Darvulia teneva
strettamente i capelli e tirava verso di
sé, godendo nel sapere che le stava facendo del male.
Avvicinò le labbra sottili e grinzose
all’orecchio di Vanka. L’alito pesante le
investì il viso.
“La contessa sarà felice di darti lei stessa la morte.” Sussurrò, rivelando la dentatura consumata e sporca.
Con uno strattone, determinato forse
dallo spiccato spirito di sopravvivenza
che accomuna uomini e animali quando
si vedono ormai con le spalle al muro, si
liberò dalla presa di Darvulia, lasciando
spesse ciocche di capelli nelle sue mani
ancora
strette
e
regalandole
un’espressione di sgomento.
“Maledetta…” sibilò Darvulia, gettando
a terra le ciocche rosse e voltandosi verso le scale.
“Quando tornerò la tua vita sarà alla fine.” Concluse sparendo oltre la prima
rampa.
Vanka si appoggiò al muro e si lasciò
scivolare a terra; strinse forte le braccia
intorno alle ginocchia e chiuse forte gli
occhi. Aveva paura, ma c’era un altro
sentimento dentro di lei che ottenebrava
persino la paura: era rabbia. Rabbia feroce e senza limiti nei confronti di quella vecchia strega senza cuore che, proprio ora che aveva trovato un posto dove poter vivere discretamente, stava rovinando tutto. Voleva ucciderla! Quel
pensiero arrivò come un fulmine, come
se fino a quel momento non ci avesse
pensato veramente. Come se fino a quel
momento avesse considerato quelle minacce solo in maniera astratta. Voleva
ucciderla davvero! Si prese la testa tra
le mani e ricordò improvvisamente un
racconto di sua nonna.
Erano tutti stretti attorno al fuoco quando sua nonna era di buon umore e decideva di raccontare qualche storia. Non
voleva mai sedersi vicino alla sua nipotina dai capelli rossi; l’aveva sempre
guardata con una sorta di sospetto, come se non facesse realmente parte della
famiglia e fosse quasi una sconosciuta.
Quella sera aveva raccontato la storia
della strega rossa e Vanka aveva notato
che ogni volta che si riferiva a questa
strega, le lanciava occhiate allusive.
Anche sua nonna pensava fosse una
strega? Non aveva mai pensato a una
simile possibilità, ma ora che Darvulia
l’accusava, il sospetto divenne quasi
certezza.
La strega rossa non viveva in solitudine
nelle foreste come tutte le altre della sua
specie. Lei veniva portata in una famiglia dove c’era una neonata e sostituita
ad essa. La neonata veniva sacrificata
per proteggerla e lei veniva allevata dalla famiglia adottiva fino a quando non si
rivelavano i suoi poteri.
La strega rossa aveva sempre capelli
rosso fuoco e grandi occhi verdi. Ogni
famiglia che si ritrovava una bambina
con quelle caratteristiche sapeva con chi
aveva a che fare e per non portare miseria, malattia e morte ai propri cari, continuava a far finta di nulla e a trattarla
come una figlia. Ma se la giovane avesse fatto attenzione, avrebbe notato che
la madre adottiva si premurava di cucire
nell’orlo delle sue gonne, un sasso nero
e giallo per far sì che nessuno si avvedesse della sua vera natura e i suoi poteri rimanessero latenti.
Vanka sbarrò gli occhi colmi di lacrime
e con foga prese a tastare l’orlo della
sua veste. Le mani le tremavano tanto
da non riuscire a controllarle, ma quando sentì un rigonfiamento duro, là dove
non doveva esserci, quasi non riuscì più
a respirare.
Prese qualche profondo respiro e poi
scoppiò di nuovo a piangere mentre con
le dita lacerava la stoffa e il piccolo sasso nero e giallo cadeva a terra, rotolando fino alle sbarre.
Non era una strega!
Come potevano accusarla di esserlo?
E se lo fosse stata davvero? Magari quel
sasso funzionava veramente e fino a
quel momento non le aveva permesso di
essere se stessa fino in fondo…
Era possibile?
Forse sì, ma allora significava anche
che non sarebbe stata costretta a guardare mentre la uccidevano, perché una
strega può richiamare a sé svariati poteri e difendersi!
Non era poi così una brutta notizia in
fondo…
Tirò su col naso e si asciugò gli occhi,
mentre già sentiva il cuore rallentare e
la speranza farsi largo.
IX
Erzsébet non si dava pace. Erano ore
ormai che camminava avanti e indietro,
misurando a lunghi passi l’intera stanza.
Il sole stava sbiadendo all’orizzonte e lo
intuiva
dalla
debolezza
e
dall’inclinazione con cui la luce attraversava le fessure delle imposte. Qualche candela bruciava e illuminava un
poco l’ambiente immerso per il resto
nella penombra.
Che cosa le stava succedendo?
Perché esitava?
Chi era quella fanciulla per farla tentennare?
Aveva ragione Darvulia: prima
l’avessero uccisa, meglio sarebbe stato.
Certo doveva essere una strega molto
potente per riuscire ad abbindolarla in
quel modo senza destare alcun sospetto.
Forse persino più potente di Darvulia…
… più potente di Darvulia…
Era logico pensare che fosse più forte di
lei e che quindi i suoi incantesimo potessero essere mille volte più efficaci…
E se Darvulia avesse tanto insistito solo
per eliminare una possibile avversaria?
Erzsébet si sedette sulla rigida sedia; gli
occhi fissi al pavimento e mille pensieri
che si rincorrevano a briglie sciolte.
C’era una sola persona di cui si fidava e
che poteva toglierle ogni dubbio: Jò Ilona.
La fece chiamare e l’attese rimirando il
proprio viso riflesso nello specchio.
Qualche sottile segno ai bordi delle labbra e qualche ruga intorno agli occhi le
impedivano di vedere quel viso nel suo
insieme. Tutto il suo campo visivo era
completamente occupato da quei segni
che l’età le aveva donato e che con ostinazione tentava di cancellare. Una rabbia sorda e prepotente cominciò a prendere forma nel profondo del suo ventre,
per poi ramificarsi come un subdolo
rampicante velenoso e risalire fino al
cuore, alla gola, alla testa, che prese a
pulsare. Il ritmo del sangue, lento e inesorabile… ogni battito era tempo che
passava… vecchiaia che contaminava e
morte che si avvicinava. Ogni battito
succhiava un po’ di energia, un po’ di
vita…
La rabbia crebbe fino a farle desiderare
la morte di qualsiasi essere vivente presente nel raggio di cento chilometri.
Tutto! Erba, alberi, lepri, gatti, donne,
uomini… tutti!
Strinse i denti mentre lo stomaco bruciava come se vi avessero versato olio
bollente e la testa era attraversata da fitte forti e ramificate come fulmini. Le
unghie si piantarono nella pelle della
nuca e quasi non si accorse che stava
premendo così forte da provocare ferite
sanguinanti. Se avesse riflettuto su quelle sensazioni, avrebbe forse compreso
che era follia quella che s’impossessava
di lei.
Jò Ilona comparve sulla soglia.
“Mi avete fatta chiamare?”
Erzsébet non rispose, continuando a tenersi la testa tra le mani e Jò Ilona non
osò ripetere la domanda comprendendo
lo stato d’animo della contessa. Se solo
avesse notato prima il modo in cui si
stava premendo il capo, non avrebbe
fatto nemmeno quella prima domanda,
ma nella penombra non era riuscita a
decifrare con esattezza la postura di
quel corpo.
Passarono minuti interminabili, nei quali gli unici rumori erano: il respiro profondo e veloce della contessa, gli scricchiolii del legno e il verso di qualche
uccello crepuscolare. A Jò pareva quasi
di sentire il digrignare dei denti e persino il pulsare del suo cuore nero.
“Vanka… cosa pensi di Vanka?” domandò all’improvviso con un tono di
voce talmente basso e sofferto da essere
appena udibile.
Jò fu colta alla sprovvista da quella domanda e sapeva bene che avrebbe dovuto far molta attenzione a come avrebbe
risposto.
“La ragazza è nella cella…”
Erzsébet batté un pugno talmente forte
sul ripiano della toeletta, che quasi tutti
gli oggetti su di essa appoggiati vibrarono pericolosamente o caddero a terra
frantumandosi. Il rumore dei vetri che
s’infrangevano e dei metalli che rotolavano, la fecero rabbrividire per il dolore
insopportabile che le procurarono alla
testa. Odiava i rumori acuti e ripetuti!
Con il piede pestò, fermandola, una
rondella di metallo che aveva fatto da
tappo ad una delle tante creme.
“Non mi dire cose che già so!” ringhiò,
tentando di non alzare troppo la voce
per non peggiorare il mal di capo.
“Io… credo che Darvulia abbia ragione… è pericolosa. E’ una strega…”
“Non credi che proprio per questa sua
dote potrebbe essere più utile di Darvulia?”
“No.” Scosse la testa con vigore “ Darvulia non ha mai tentato di soggiogarvi… lei sì.”
Erzsébet sollevò lo sguardo sulla vecchia e la fissò come se non l’avesse mai
vista e la trovasse rivoltante. Jò fece un
passo indietro, convinta di aver detto
qualcosa di altamente nocivo per la sua
stessa vita. Mai la contessa aveva manifestato la volontà di farle del male o di
punirla come faceva con le serve, ma in
quel momento percepiva chiaramente
sentimenti di rabbia e odio che sembravano voler riempire quella stanza e farla
soffocare.
Come avide e mortali mani, si stendevano su tutto e le scivolavano intorno
alla gola per rubarle il respiro per sempre.
“Mi ha soggiogata…” sussurrò fra sé e
sé; la fronte corrucciata e le labbra tese.
Si alzò dalla sedia e lisciò bene l’abito
sui fianchi prima di procedere a passi
leggeri e misurati, verso la porta, oltrepassare Jò e dirigersi verso le scale.
Ogni passo e ogni movimento erano una
tortura. Come mille spilli sembravano
conficcarsi nelle profondità del suo cervello.
Jò Ilona la seguiva guardinga e non appena ne ebbe l’opportunità, fece segno a
Dorkò di seguirla anche lei.
I sotterranei erano ben illuminati dalle
lampade a olio e Darvulia sedeva in
fondo al corridoio dando la schiena alla
cella dov’era rinchiusa Vanka.
Erzsébet guardò prima una poi l’altra
avendo la sensazione che entrambe fossero morte in quelle strane pose. Magari
una lotta a suon di incantesimi…
Pochi attimi dopo, Vanka si mosse e aprì gli occhi arrossati dal pianto.
Erzsébet si avvicinò alle sbarre e vi appoggiò le mani, sfiorandole con la fronte e godendo della loro freddezza metallica.
“Contessa!” proruppe Vanka.
Jò Ilona e Dorkò si allontanarono, quasi
intimorite; Darvulia girò appena il volto
nella loro direzione.
“Stavi aspettandomi?” domandò gelida
con le labbra atteggiate al disgusto, tanto che Vanka fece qualche passo indietro.
“Se le parlate, tenterà di convincervi.”
Intervenne Darvulia.
“Non intromettetevi.” Sibilò Erzsébet.
Un lieve sorriso attraversò gli occhi di
Vanka. Sapeva che la contessa
l’avrebbe difesa!
“Sei una strega e hai tentato di assoggettarmi al tuo volere…”
“No, no, no!!! Non sono una strega!
Come potete crederlo anche voi?” la interruppe la ragazza con coraggio e frustrazione. La voce acuta sembrò attraversarle il cervello, come un coltello
affilato. Erzsébet premette le tempie
cercando di arginare la rabbia che sentiva crescere a dismisura.
“Stai zitta o ti faccio cucire la bocca!”
ringhiò.
“Non te lo sto chiedendo. Tu sei una
strega e questo è un dato di fatto. Hai
tentato di soggiogarmi coi tuoi poteri,
ma hai fallito, forse per la tua giovane
età… o forse perché non sei così forte.
Il solo fatto di averci provato è stato un
terribile errore…”
Vanka sgranò gli occhi. Quelle parole
suonavano come una condanna a morte
e lei non voleva morire! Non voleva!
Erzsébet si allontanò dalle sbarre e fece
cenno a Dorkò di prelevare la ragazza e
prepararla per il rito.
Dorkò e Jò armeggiarono con le chiavi
e aprirono la cella, facendo attenzione a
non lasciare sufficiente spazio da permettere alla ragazzina di fuggire. Vanka
fece un passo indietro e poi un altro e
un altro ancora, fino a trovarsi con le
spalle al muro e il fiato corto. Se avesse
potuto, si sarebbe fusa con quel muro di
pietra gelida, ma non poteva perché non
aveva proprio alcun potere. Con tutta se
stessa immaginava di richiamare un
qualsiasi genere di potere che la potesse
salvare, ma l’unica cosa che sentì furo-
no le mani fredde e forti delle due vecchie, che si chiudevano sulle sue braccia
e la strattonavano fuori da quel maledetto rifugio. Puntellò i piedi, ma non servì
a nulla se non a farsi strattonare ancora
di più fuori dalla cella. Darvulia era in
piedi accanto alle catene che pendevano
dal soffitto come braccia scheletriche.
Perché l’accusavano di essere una strega? Solo perché piaceva alla contessa?
Erano gelose di lei?
“Non voglio morire…” disse fra le lacrime. Non riusciva a capacitarsi di ciò
che le stava accadendo. Aveva solo tredici anni e tutta una vita davanti a sé.
Non aveva ancora conosciuto niente
della vita e aveva così voglia di vivere
che le pareva impossibile che davvero
sarebbe capitato quello che le avevano
detto.
Come potevano ucciderla così?
“Non importa quello che tu vuoi… non
lo capisci? Sei più stupida di quanto
credessi.” Rispose Darvulia fissandola
negli occhi.
Le due vecchie la legarono mani e piedi
e con prepotenza le strapparono di dosso gli abiti.
Vanka rabbrividì per il freddo. Solo per
un attimo si vergognò per la sua nudità
perché poi la sua mente fu troppo impegnata a pensare alla vita che volevano
portarle via e tutto il resto passò in secondo piano.
Dorkò e Jò si allontanarono di qualche
passo e rimasero a guardare. Darvulia
mescolava un unguento dall’afrore nauseabondo che fino a un attimo prima
aveva bollito in un pentolino di rame. Si
avvicinò alla giovane e rovesciò
l’unguento sulla schiena che subito sfrigolò, si fece rossa e comparvero piccole
bolle. Vanka gridò con tutto il fiato che
aveva in corpo. Gli occhi sgranati non
avevano più lacrime, ma solo
un’espressione terrorizzata e incredula.
“Vi prego…” gridò.
“Zitta!” tuonò Darvulia facendo poi un
cenno ad Erzsébet.
“Ora potete continuare voi contessa. I
suoi poteri sono stati neutralizzati e il
suo sangue purificato. “
Erzsébet si rigirò tra le mani un lungo
attrezzo con la punta uncinata, lo arroventò sulla fiamma di una candela tenuta da Dorkò e con una lentezza esaspe-
rante, che non fece che accrescere il dolore, infilò l’uncino nella carne morbida
dell’ascella. Vanka urlò così forte da far
drizzare i capelli alle sue aguzzine. Erzsébet le assestò uno schiaffo così forte
da farle uscire sangue dal naso e che la
zittì di colpo.
“N-o-n U-r-l-a-r-e.” disse scandendo
bene ogni lettera per sottolinearne il
senso imperativo.
“Se urli, ti cucio la bocca con l’ago più
grosso che io possegga e il filo più ruvido che si possa trovare. Se urli, ti farò
pentire d’averlo fatto e quando tenterai
di urlare ancora per un dolore molto più
forte di quello appena provato, le tue
labbra si squarceranno come il ventre di
un pesce sul tavolo di una cucina! Se
urli, non avrò pietà.”
Vanka singhiozzò e sollevò il viso, fino
ad incontrare gli occhi della contessa.
Occhi fiammeggianti, privi d’umanità e
scrupoli. Occhi profondi, infiniti, dietro
ai quali si scorgeva nitido, un mondo di
peccati, di sangue, di fiamme
dell’inferno. Lei non aveva quegli stessi
occhi. Lei non era una strega e niente
avrebbe potuto mai salvarla; non di cer-
to una stupida leggenda che aveva da
sempre condizionato la sua vita e
l’amore dei suoi genitori. Quegli occhi,
in cui ci si poteva perdere, ti catturavano per non lasciarti più andare. Prima
ancora della morte, l’anima cadeva in
quegli occhi e non ne trovava mai più
l’uscita. Era questo che le stava accadendo. Come ipnotizzata, li fissava.
Una serie di pensieri le affollava la
mente senza riuscire a trovare una via
d’uscita in quel labirinto che era il suo
corpo infreddolito.
“Se non urlo avrete pietà?” domandò
allora con un filo di voce. Conosceva
già la risposta alla sua domanda, ma voleva sentire con le sue stesse orecchie di
non avere alcuna speranza a cui aggrapparsi, perché la speranza, a volte, è un
male. La speranza ti fa superare il dolore, resistere alla disperazione, combattere la sofferenza e lei voleva esser certa
di non combattere per nulla.
Erzsébet fece un mezzo sorriso mostrando la dentatura bianca.
“No.” Rispose e si lasciò andare a una
risata liberatoria.
Anche Dorkò, Jò e Darvulia risero,
mentre Vanka chiudeva gli occhi cercando con tutte le sue forze di trattenere
le lacrime. A cosa sarebbe servito urlare? Nessuno l’avrebbe sentita e la contessa non si sarebbe fermata.
Mentre Erzsébet infilava un lungo uncino nella carne tenera della natica, Vanka immaginò di essere a casa. In quella
casa che aveva tanto disprezzato per la
povertà che vi regnava, con in mano un
tozzo di pane secco. Non aveva mai
amato il pane secco e nemmeno lavorare la terra. Sognava, come tutte le giovani, di incontrare il principe che
l’avrebbe portata con sé, a vivere a Palazzo, tra sfarzi e carni prelibate. Ma
mai come in quel momento, avrebbe
desiderato il freddo del suo pagliericcio
e un tozzo di pane secco, dopo una
giornata passata a lavorare la terra.
Un altro uncino venne applicato ai seni.
Uno ancora alle braccia, e via così fino
a che tutto il corpo fu ricoperto di uncini, la carne lacerata e sanguinante. Il
dolore atroce non la fece urlare solo
perché a ogni uncino, Vanka si mordeva
così forte le labbra da farle sanguinare.
Le urla rimasero dov’erano: nel profondo della sua mente e della sua anima.
Dorkò attaccò a ogni uncino, una catena
e ogni catena venne tirata con forza e
fermata ai ganci nel muro. Gli uncini
erano infilati profondamente e non diedero il minimo accenno a volersi sfilare.
Tesero invece le carni, procurandole dolori lancinanti in tutto il corpo. Fece fatica a non gridare, soprattutto quando
vennero tese le catene che trattenevano
gli uncini applicati tra le dita delle mani
e dei piedi. I suoi occhi verdi cercavano
di non guardare e anche nei pochi momenti in cui erano aperti, fissavano
qualcosa di indefinito al fondo del corridoio buio.
La vasca posta sotto di lei raccoglieva le
gocce di sangue che le scivolavano via
dal corpo come lacrime di vita.
Erzsébet era assorta in chissà quali macabri pensieri mentre venivano tese le
ultime catene. Darvulia le si avvicinò e
le sussurrò qualcosa all’orecchio; lei
assentì senza distogliere gli occhi bramosi da quelle preziosissime gocce di
sangue.
Ficzkò era giunto da pochi minuti e, silenzioso, si era seduto in disparte a
guardare la scena, sgranocchiano una
mela succosa. Immaginava che quella
mela fosse una parte del corpo di quella
ragazzina così straordinariamente bella
e sperando che non la deturpassero
troppo perché aveva in mente un sacco
di cose da fare con quel corpo minuto.
Peccato non poterla avere da viva, pensò, ma in fondo si sarebbe accontentato
come sempre aveva fatto nella sua vita.
Non poteva che accontentarsi.
Erzsébet prese uno spillone con una
mano e con l’altra sollevò il viso di
Vanka. Per un momento i loro occhi
s’incontrarono e a Erzsébet parve di
sprofondare dentro quel verde brillante
che ancora sapeva di speranza. La sua
anima vacillò quando, in quegli occhi,
non scorse paura, ma solo voglia di vivere. Non le servì altro per essere certa
della sua natura di strega. Non esisteva
per lei la possibilità di affezionarsi anche solo un poco a un essere sconosciuto. Mai si era affezionata a qualcuno.
Forse nemmeno ai suoi figli… forse
nemmeno a suo marito. L’unica cosa
che la faceva essere vicina a un altro
essere umano era ciò che quell’altra
creatura poteva donarle. Poteva essere
rispettabilità, ricchezza, sesso, ma
null’altro.
Quello sguardo impudente andava punito. Quello sguardo rischiava di farla impazzire e non poteva continuare a esistere. Con mano ferma e decisa, conficcò lo spillone nella pupilla fino a che
non ne rimase fuori solo la capocchia.
Vanka non riuscì a non gridare questa
volta e subito, un frustata di Dorkò la
richiamò all’ordine. Ma il dolore della
frusta sulle gambe non era nulla al confronto. Forse non se ne accorse neppure.
Tentò di chiudere le palpebre, ma la capocchia dello spillo lo impediva. Jò Ilona tenne aperto l’altro occhio e subito
Erzsébet vi conficcò un altro spillone.
Nel buio totale, con la vista persa per
sempre, Vanka gridò ancora e svenne.
“Svegliala.” Ordinò Erzsébet camminando avanti e indietro, furente per
quell’interruzione.
“Svegliala subito!” gridò.
Dorkò fu subito di fianco alla ragazza
con la carta oleata in una mano e la
fiaccola nell’altra. Diede fuoco alla carta e l’avvicino al sesso ancora nudo della giovane, il cui viso pendeva sul torace lucido e rosso.
La carne sfrigolò per qualche secondo,
prima che Vanka si risvegliasse e con
lei, si risvegliassero tutti i tremendi dolori che le pervadevano il corpo.
Quale terribile persona può interrompere quella fuga del cervello atta a non far
perdere in senno?
Il terrore di non vedere fu anche più
grande del vedere che cosa stavano per
farle. Cercò di muoversi, ma le catene
ben tese le ricordarono subito che non
era una buona idea.
Erzsébet rimase ferma davanti alla sua
vittima, soddisfatta di non dover più fare i conti con quello sguardo sfrontato.
Ora si sentiva libera di fare qualsiasi
cosa. L’incantesimo perpetrato da quegli occhi di strega era svanito insieme
alla vista.
Ciò che le piaceva in modo particolare
di Vanka, erano i capelli. Quei capelli di
un rosso così intenso e lucido da sembrare dipinti. Aveva bisogno di quei ca-
pelli, per la sua nuova macchina di morte.
“Tienila per i capelli.” Ordinò a Dorkò;
prese un coltello affilato e incise la pelle
subito sotto l’attaccatura dei capelli. A
Ficzkò andò di traverso l’ultimo boccone di mela quando comprese
l’intenzione della
contessa.
Per
l’ennesima volta avrebbe dovuto soprassedere e non concedersi qualche
minuto di svago con un corpo ancora
caldo. Quel corpo non sarebbe stato più
di nessun aiuto nemmeno a lui quando
la contessa avesse finito di divertircisi.
Il viso di Vanka era ormai una maschera
di sangue e dolore. Nulla più si riconosceva in lei… nemmeno sua madre
l’avrebbe mai riconosciuta. Lo scalpo
venne strappato dal cranio con rumori
umidi e venne poggiato ad una ragionevole distanza dal fuoco, in modo che la
cute si asciugasse senza prendere fuoco.
Il cuore di Vanka perse un colpo. Fu
come ricevere un pugno in pieno petto.
Percepì distintamente il cuore mancare
un battito e poi un altro. Il sangue caldo
le colava sul viso e sulla schiena. Il cra-
nio scoperto luccicava nella luce delle
fiaccole.
Non vi era più nulla di ciò che aveva
tanto attirato la contessa in quella giovane. Gli occhi non erano che due pozze sanguinolente e non c’era più nessuna capigliatura splendida a incorniciare
quel viso. Era solo un corpo fin troppo
gracile e acerbo, bianco e glabro.
Erzsébet si soffermò a guardare quel
cranio. Non si era mai spinta tanto in là
e se ne stava domandando la ragione.
Come mai non aveva mai pensato di
vedere quella cosa che permetteva il
pensiero, la conoscenza, i ricordi?
Non lo sapeva, ma ne aveva voglia in
quel preciso istante. Per una volta, i suoi
pensieri non furono tutti per il sesso e il
sangue, ma per la curiosità di sapere.
Raccolse una piccola sega e la gettò ai
piedi di Dorkò.
“Aprile la testa.” Disse seria.
Vanka sussultò. Se avesse potuto, avrebbe sgranato gli occhi e se fosse servito, avrebbe gridato tanto forte da far
tremare i muri, ma si limitò a singhiozzare sommessamente, ormai priva di
forze e soprattutto di speranza.
Come una bambina tanto capricciosa
quanto curiosa, Erzsébet rimase a guardare Dorkò che muoveva la lama lentamente per non oltrepassare l’osso e
uccidere la ragazza. La contessa non
glielo avrebbe mai perdonato.
Piano, piano la calotta venne rimossa e
il groviglio rosso e grigio del cervello
venne messo a nudo.
Erzsébet rimase stupita nel vedere
quell’organo così complesso e misterioso. Con dita tremanti lo sfiorò. Vanka
tremava così forte da far tintinnare tutte
le catene.
“Tienila sveglia.” Ordinò mentre infilava un dito tra il cranio e il cervello esposto. La carta infuocata fu di nuovo
appoggiata tra le gambe della giovane
che subito reagì cercando di divincolarsi.
“Perché… perché…” domandò in un
sussurro appena udibile.
Uno spillone venne conficcato nel cervello. Poi un altro e un altro ancora. Era
resistente quell’organo perché ancora
Vanka era vigile e viva.
“Non possiamo permettere che il sangue
attenda troppo contessa.” Intervenne
Darvulia, distogliendola dalle sue elucubrazioni.
Erzsébet si voltò verso di lei e le lanciò
un’occhiata carica di rimprovero. Come
osava interromperla, metterle fretta?
Non aveva voglia di smettere proprio
ora. Voleva scoprire quel corpo in tutte
le sue meraviglie. Ficzkò giaceva rassegnato con le spalle contro il muro. Jò
Ilona sembrava avere il viso sconvolto
dalle ultime pratiche della contessa.
“E sia.” Disse infine, quasi rassegnata.
Prese un ferro lungo e appuntito e lo arroventò sul fuoco. Quando la punta fu
rossa, si abbassò sotto il corpo di Vanka, aprì con le dita la vagina glabra e ve
lo infilò con forza e decisione, fino quasi a farlo scomparire del tutto.
Vanka non ebbe il tempo di capire che
un dolore terribile le salì nelle viscere
fin quasi al cuore ormai stanco e provato. Un altro battito venne meno e sperò
che non arrivasse nemmeno quello dopo, ma quel suo cuore era forte e giovane e non voleva saperne di fermarsi per
sempre. Il sangue colò copioso tra le
gambe; dalla vagina e dall’ano. Tutto
dentro quel corpo era ormai lacerato.
Un fiotto di sangue risalì dallo stomaco
e si riversò fuori dalla bocca socchiusa
in brevi e squassanti conati di vomito.
Insieme al sangue, si riversò anche parte
dell’ultimo pasto consumato.
Il cuore perse un altro colpo.
Erzsébet tenne in mano per un attimo un
altro attrezzo acuminato e con un po’ di
tristezza per il gioco quasi terminato, lo
infilò al centro del cervello.
Il corpo di Vanka fu scosso da un fremito prolungato. Un verso lungo e soffocato le uscì dalle labbra e gli orifizi rilasciarono il contenuto della vescica e
dell’intestino.
Prontamente, Jò Ilona sostituì la vasca
sotto il corpo di Vanka ed Erzsébet, con
un colpo preciso e netto tagliò la gola
da cui uscì tutto il sangue di cui aveva
bisogno.
Il sangue di una strega; forte come quello di cento giovani fanciulle.
Prezioso più di tutto l’oro del mondo.
X
Non stava più nelle pelle.
Come una bambina il giorno del compleanno, correva attorno alla cassa avvolta in pesante tessuto con la voglia di
portare alla luce il suo contenuto e allo
stesso tempo il timore di esserne in
qualche modo delusa.
Non era difficile deluderla e forse, almeno questo difetto, se lo riconosceva.
L’artigiano incontrato al castello di
Dolna Krupa era stato di parola e in poco più di un mese aveva davanti a sé il
macchinario che aveva tanto desiderato
e su cui aveva fantasticato per interi
giorni.
Con le grosse forbici incise la stoffa e le
corde e mise a nudo il legno grezzo della cassa al cui interno, si distingueva un
luccichio di metallo. Dorkò e Jò
l’aiutarono a far saltare i chiodi che te-
nevano chiusa la parte anteriore della
cassa e finalmente, davanti ai loro occhi
si materializzò qualcosa che non avevano mai veduto e che andava al di là di
ciò che si erano aspettate.
Una dama di ferro, rifinita fin nei minimi dettagli. Il viso ovale e pieno, gli
occhi dipinti di un caldo color nocciola,
la bocca socchiusa di un bel color rosso
intenso. La portarono nei sotterranei e la
posizionarono sul suo piedistallo, tra
due fiaccole appese al muro.
Mancava solo una cosa essenziale a
quel viso… dei capelli a fargli da cornice e a questo aveva pensato Erzsébet
parecchio tempo prima.
Svolse un pacchetto di carta che aveva
custodito gelosamente e ne estrasse una
cascata di capelli rossi e splendenti.
Adagiò lo scalpo sulla testa della donna
di ferro e la fece fermare a Dorkò con
l’inserimento di piccoli chiodi, per poi
allontanarsi e ammirare il suo operato.
Splendida!
Non poteva che essere così per qualsiasi
creatura, viva o morta che fosse, che
avesse il viso incorniciato da quei capelli meravigliosi.
Capelli appartenuti ad una giovane e
scaltra strega.
Non le rimaneva che provarla.
I suoi bagni di sangue erano continuati e
ogni volta provava maggiore soddisfazione e si accorgeva anche dei più impercettibili miglioramenti. Una macchia
in meno sulla pelle, un grinza in meno
vicino alla bocca o un colorito maggiormente candido. In consigli di Darvulia parevano non essere mai sbagliati.
Il sangue di Vanka era stato conservato
a lungo e in parte raccolto in ampolle,
mischiato con oli essenziali, era ancora
uno dei suoi segreti di bellezza più potenti. Le stesse dame che incontrava di
quando in quando non facevano che farle complimenti per la splendida forma.
Vanka aveva lasciato anche un vuoto
enorme però. Nonostante si fosse accorta del troppo ascendente che aveva su di
lei, rimpiangeva i momenti di estasi
passati nel grande letto della sua stanza.
Non si era più avvicinata a un uomo da
allora e nessuna delle altre serve era stata in grado di farle provare lo stesso intenso piacere. Questo la faceva spesso
infuriare e la serva di turno si ritrovava
a dover subire ogni genere d’insulto e di
punizione. Dorkò e Jò continuavano il
loro reclutamento di giovani fanciulle e
Kata si dedicava sempre più spesso a
frettolose sepolture.
Ponikenus non aveva più fatto domande
e non aveva tentato altre fughe verso
Bicse o altri luoghi per lei pericolosi,
ma lo teneva d’occhio.
Pochi mesi prima, re Rodolfo aveva abdicato in favore del fratello Mattia.
A Erzsébet non piaceva affatto re Mattia. Mentre con re Rodolfo poteva trovare dei punti d’incontro come la magia e
l’esoterismo, con re Mattia non aveva
nulla in comune.
Mattia non credeva affatto alla magia e
dava troppa importanza al popolo. Aveva persino esteso la libertà di religione
ai contadini!
Erzsébet scosse la testa a quel pensiero.
Come si poteva dare libertà a quegli esseri inferiori e senza capacità di discernimento?
Lo aveva incontrato una sola volta e aveva avuto la vaga impressione che la
guardasse con sospetto e cattiveria; per
questo aveva subito commissionato a
Darvulia una nuova pergamena che la
proteggesse dai nemici e da portare
sempre addosso.
Ne vedeva ormai troppi di nemici attorno a sé e questo la metteva in agitazione.
Lo stesso suo cugino Thurzò era stato a
farle visita non molti mesi prima e aveva fatto domande strane a cui lei aveva
risposto con la maggior naturalezza
possibile. Qualcuno aveva parlato e lei
era certa che non potesse essere altri che
Emerich Megyery… il rosso.
Quel maledetto era stato la sua spina nel
fianco per tanto di quel tempo che ormai non ne teneva più il conto. Il suo
più grande desiderio era vederlo morto,
ma non era fino ad allora riuscita a portare a compimento quel desiderio.
Ogni tanto si sentiva terribilmente sola
e poi, come se avesse perso la ragione,
rideva di se stessa per quelle assurde
malinconie e tornava con la memoria, ai
momenti in cui l’unica cosa che aveva
desiderato era proprio la solitudine.
Le sue elucubrazioni furono interrotte
dai passi concitati di Jò Ilona che trascinava una giovane, tirandola per i capel-
li. La ragazza era colpevole di aver
chiacchierato più volte durante lo svolgimento delle sue mansioni e per questo
era stata già punita in passato. Sembrava non voler imparare la lezione. O era
troppo stupida per farlo, oppure era
troppo sicura di sé da credere di poterla
fare sempre franca.
Restare nuda in mezzo al cortile, con
l’ago in una mano e la tovaglia
nell’altra non le aveva fatto alcun effetto; tanto meno aver subito centinaia di
punture di spillo sulla lingua. Erzsébet
si mise al centro della stanza con le mani appoggiate ai fianchi. Quando i loro
occhi s’incontrarono, la giovane non
abbassò lo sguardo e anzi, abbozzò un
sorriso di scherno. Era arrivata da poco
e forse ancora non era entrata abbastanza in confidenza con le altre serve per
sapere che non le sarebbe convenuto
sfidare la contessa. O forse le altre serve
non l’avevano presa in simpatia e non
avevano creduto opportuno avvertirla
del pericolo che stava correndo. Comunque fossero andata le cose, a Erzsébet non importava.
Le importava solo di aver trovato la
prima cavia per sua bellissima donna di
ferro.
Trascinata a forza da Jò Ilona e Dorkò,
la giovane venne posizionata tra le
braccia della donna di ferro. Lei guardò
quella strana scultura con sospetto e un
po’ di apprensione, ma non sembrò considerarla un pericolo.
Le cinghie furono strette attorno al petto, alla vita e all’altezza delle ginocchia.
Protestò quando Dorkò strinse troppo
l’ultima cinghia.
Era curiosa di vedere come funzionava.
Le istruzioni all’interno della cassa erano piuttosto chiare.
Erzsébet toccò una pietra della collana
della donna di ferro e poi un’altra, fino
a che non sentì uno leggero sferragliare
che indicava che il congegno era stato
messo in funzione. Gli occhi della donna di ferro si spalancarono come in un
moto di sorpresa, la bocca si aprì, lasciando intravedere denti bianchissimi,
le braccia si abbassarono e iniziarono a
chiudersi addosso alla giovane che sembrava cominciare ad avere paura.
Fece un balzò e strillò quando sentì le
braccia stringersi addosso, fino a farle
mancare il respiro. I capezzoli ferrei
puntavano sulla sua schiena come se
volessero bucarla, ma ancora non sapeva che quel dolore non sarebbe stato
nulla a confronto di ciò che le sarebbe
accaduto di lì a poco. Dai seni della
donna di ferro, scattarono fuori due pugnali ben affilati e abbastanza lunghi da
infilzare la giovane e fuoriuscire dal torace.
Tutto si svolse nel giro di pochi secondi. La giovane borbottò qualcosa mentre
il sangue le si riversava fuori dalla bocca semiaperta. Qualche attimo dopo, il
viso era abbandonato sulla spalla e non
vi era più un accenno di respiro.
Era morta.
Erzsébet si passò una mano sul viso,
guardò le due vecchie, guardò la giovane e scosse la testa come a voler negare
ciò che era appena successo.
Il sangue della giovane si stava intanto
raccogliendo in una piccola canalina
che portava direttamente a una vasca.
Non era soddisfatta.
Certo, funzionava in modo impeccabile,
ma dove stava il divertimento?
Tutto finiva in pochissimi secondi come
se ci si fosse trovati in un qualsiasi mattatoio e lei non voleva che succedesse
così. Non provava la stessa spossatezza
e lo stesso appagamento di quando era
lei stessa a massacrare le sue vittime e
poteva far durare le torture tutto il tempo che voleva.
Era bella la sua statua di ferro, ma forse
sarebbe stata per sempre solo un ornamento perché nulla era come dare lei
stessa la morte e in quanto tempo desiderava.
Forse l’avrebbe utilizzata ancora.
Magari quando avesse avuto fretta di
avere del sangue senza stancarsi tanto,
ma certamente non sarebbe capitato
spesso.
Dorkò lasciò che la contessa abbandonasse i sotterranei e slegò la ragazza.
Con l’aiuto di Jò, l’appese alle catene a
testa in giù e con un taglio netto aprì la
gola. Il sangue uscì ancora copioso e si
riversò nella vasca che poi sarebbe finita accanto al fuoco, in attesa della contessa.
PARTE
TERZA
I
Erano giorni che non vedeva Darvulia.
L’aveva fatta cercare in lungo e in largo, ma della vecchia strega non c’era
traccia. Non era mai accaduto che sparisse per così tanto tempo senza dare
notizie ed Erzsébet cominciava a essere
preoccupata. Non per lei in realtà, ma
per se stessa. Chi avrebbe preparato i
filtri, chi avrebbe richiamato gli elementi per dar più forza alle maledizioni
contro i suoi nemici che oltretutto si facevano sempre più numerosi?
Erzsébet fece chiamare Ficzkò e gli ordinò di andare a cercarla e di non tornare fino a quando non l’avesse trovata o
quanto meno avesse avuto sue notizie.
Ficzkò non aveva alcuna voglia di uscire a quell’ora tarda per andare nei boschi attorno a Csejthe a cercare
un’orrida strega, ma non poteva fare altrimenti.
La primavera era quasi giunta al termine e ormai si percepiva già il profumo
dell’estate. Si mise addosso un mantello
leggero e uscì. Per le strade non c’era
anima viva, nonostante la temperatura
fosse gradevole. Non vi era molto da
fare a Csejthe dopo il tramonto e anche
d’estate, le famiglie si raccoglievano
attorno al tavolo per portare a termine
gli ultimi lavori della giornata. I bambini dormivano da un pezzo nei loro lettini di fortuna.
Ficzkò imboccò un sentiero più stretto
che virava a destra e spariva oltre il muro di alberi neri; la lanterna illuminava a
malapena un breve tratto.
La sua vita era notevolmente peggiorata
negli ultimi tempi a causa della sempre
più pronunciata crudeltà della contessa.
Tutto era cambiato da quando quella
giovane di cui non ricordava il nome…
forse Vanda? Vanka?
Non lo ricordava proprio, ma era certo
che fosse un nome del genere. In ogni
caso, quella giovane aveva fatto cambiare in peggio la contessa. Se era vero
che era una strega, la contessa ne aveva
assorbito l’oscuro potere perché da allora non vi era stato un solo giorno di pace al castello. A quello di Csejthe come
a quello di Keresztur e meno che mai
durante i lunghi viaggi in carrozza, nei
quali sempre veniva abbandonato qualche corpo privo di vita ai margini della
strada come una qualsiasi immondezza.
Da allora era diventata una belva e non
aveva più conosciuto momenti di calma
apparente come nel tempo precedente la
venuta della giovane serva-strega.
Kata si era fermata più volte a parlare
con lui e gli aveva confidato che ormai
era diventato impossibile nascondere
ciò che accadeva e, sempre più spesso,
incontrava difficoltà a farsi aiutare da
Ponikenus.
Quello stesso anno però, il 1609,
György Thurzò, nipote di Erzsébet, fu
eletto palatino d’Ungheria e per questa
ragione molte voci erano state messe a
tacere; grazie anche al fatto che entrambi i generi della contessa avevano chiesto che non si procedesse alle indagini.
Essere potente e soprattutto nobile era
stata da sempre la sua salvezza.
Ficzkò si stupiva ogni volta che la incontrava nella sala da pranzo del castello oppure nei sotterranei. Era sempre
così bella, fresca e giovane che non dubitava affatto dei poteri incredibili sprigionati dal sangue in cui spesso
s’immergeva. Egli stesso si era domandato se non avrebbe fatto bene anche a
lui, fare un bagno di sangue!
Non c’era uomo che non la guardasse
con bramosia e non una sola donna che
non provasse invidia e al contempo
ammirazione per quella bellezza che
sembrava non essere intaccata dal tempo.
Arrossì ricordando alcuni episodi avvenuti molti anni prima.
La contessa sentiva un spiffero nella sua
stanza da letto e, furibonda come sempre, l’aveva chiamato e gli aveva ordinato di trovare la fessura dalla quale entrava l’aria e tapparla entro il giorno
successivo.
Si era dato un gran da fare per individuare la crepa che si era venuta a creare in
basso, nella parete che divideva la stanza da letto della contessa dalla stanza
degli ospiti. Aveva spostato un basso
mobiletto in stile francese con le alte
zampe ondulate e l’aveva trovata.
Quando si era inginocchiato e vi aveva
guardato attraverso, non aveva saputo
resistere.
Quella stanza non era mai stata utilizzata da quando lui era al castello e dubitava che sarebbe stata usata in futuro.
Da quell’angolazione, vedeva in modo
perfetto il letto a baldacchino con le sue
colonne di legno scuro e la contessa in
piedi, lì accanto, che si faceva aiutare a
chiudere il bustino. Era corso nelle stalle e aveva preso a lavorare un pezzo di
legno. Lo aveva reso sottile e dipinto di
bianco in modo che le domestiche non
se ne avvedessero.
Da quel giorno, aveva trovato un nuovo
passatempo.
La sera, invece di andare a bere alla locanda, si sistemava seduto a terra in
quella stanza, toglieva il riparo di legno
e aspettava. Succedeva sempre qualcosa
che valesse la pena di vedere nella stanza della contessa. Se nei sotterranei si
lasciava andare alla crudeltà e qualche
momento di lussuria, nella sua stanza da
letto, la lussuria la faceva da padrona.
Quando non era in compagnia di qualche dama o di qualche uomo come Lazlo, rimaneva per intere ore a guardarsi
nello specchio, nuda e bellissima. Si
passava le mani sul corpo come se quelle mani non fossero state le sue. Come
se fossero state le mani di un amante.
Sfioravano il collo, scendevano sui seni,
dove i capezzoli ritti spiccavano lievemente più scuri del resto carnagione.
Accarezzavano il ventre e poi, come
fossero state bramose e insaziabili,
scendevano tra le gambe chiuse. Allora
faceva qualche passo indietro e si lasciava andare sul letto come se un amante immaginario e violento l’avesse
spinta. Divaricava le gambe e lui vedeva tutto nei minimi dettagli. Le gambe
che si schiudevano, le dita che sondavano, entravano, massaggiavano e lei che
si arcuava e mugolava.
A quel punto, Ficzkò non poteva fare a
meno di rispondere alle proprie esigenze corporali e, come la contessa, si lasciava andare all’esplorazione del proprio piacere, immaginando che le mani
che sentiva sul pene eretto fossero quelle di Erzsébet e che il piacere che pro-
vava al culmine, si riversasse dentro di
lei.
Aveva visto molti uomini e molte donne
entrare in quella stanza e ciò a cui aveva
assistito, andava al di là della sua già
fervida immaginazione.
Ma era quando era sola che più provava
eccitazione perché quell’eccitazione
non era avvelenata dall’invidia, dalla
gelosia.
Quando faceva sesso con se stessa, pareva che il demonio fosse il suo amante
e forse lo era perché lei pareva davvero
vedere qualcuno.
Un amante invisibile che la spingeva sul
letto, che le apriva le gambe con violenza…
Ficzkò sentì il turgore tra le gambe aumentare e s’impose di non continuare a
pensare a quelle sere passate seduto in
quella stanza. Doveva occuparsi di Darvulia in quel momento e non poteva
tornare a mani vuote.
Sperava fosse morta… quella brutta
strega.
Non faceva che riservargli occhiate di
disprezzo e fastidio e si comportava
come se fosse chissà chi. Un comignolo
fumante si stagliava poco distante da
lui. Quella doveva essere l’abitazione di
Darvulia perché nessun altro si sarebbe
mai sognato di vivere nel bosco, lontano
da tutto. Certo doveva esserle parso
strano passare tanto tempo al castello
quando era stata abituata ad abitare nella più totale solitudine per tutta la sua
vita.
Il comignolo fumava, quindi voleva dire
che in casa c’era qualcuno.
Si avvicinò facendo attenzione a far
meno rumore possibile. Non si fidava di
quella vecchia e ne aveva paura. Quando fu abbastanza vicino, sgattaiolò verso il muro e si appiattì di fianco alla finestra sudicia. Un rumore di stoviglie e
poi dei passi che si avvicinavano.
Il cuore prese a battergli all’impazzata,
ma non ebbe il tempo di pensare al da
farsi e quindi neppure di agire.
La porta si aprì e una giovane donna
con i capelli più biondi che avesse mai
visto stava ritta sull’uscio e lo guardava
di sbieco.
“Cerchi qualcuno?” domandò, sicura di
sé.
“No… sì…”
“Sì o no? Non credo che tu sia arrivato
sin qui per fare una passeggiata.” Ribadì
lei, altezzosa.
“No, la mia padrona, la contessa Bàthory… mi manda a cercare Darvulia.”
Disse acquistando un po’ di sicurezza.
Nominare la contessa era un buon modo
per darsi importanza e far capire al proprio interlocutore che non era un vagabondo qualsiasi.
“La contessa…” sussurrò e sorrise.
“Sì, la contessa.” Ribadì lui, credendo
che quella della giovane fosse una domanda causata dall’incredulità.
“Ebbene, cosa desidera la contessa da
Darvulia?”
“Sapere dov’è e come mai sono giorni
che non si fa più vedere.”
“Se Darvulia non si fa più vedere è perché qualcosa di più forte di lei la sta
trattenendo.”
Ficzkò finse di comprendere, ma poi
scosse la testa.
“Cosa devo dire alla contessa?”
“Dille che Darvulia ha raggiunto la fine.
Dille che ora riposa tra le fiamme
dell’inferno, proprio come desiderava.”
“E’ morta?” chiese incredulo e quasi
sollevato.
“Tu cosa ne pensi?” domandò lei stizzita.
“E voi chi siete? Cosa fate a casa sua?”
“Questo non ti riguarda nano. Così ha
voluto Darvulia.” L’aggredì richiudendosi poi la porta alle spalle.
Ficzkò non poteva che essere soddisfatto. I suoi desideri si erano avverati e
non sarebbe più stato costretto a trovarsi
davanti quella vecchia e maleodorante
strega, ma quella giovane lo aveva lasciato perplesso.
Aveva occhi conosciuti. Occhi sapienti,
saggi… vecchi seppure vitali e belli.
Si fermò con il fiato corto in mezzo alla
fitta boscaglia.
Darvulia! Pensò.
Fu sul punto di tornare indietro e appurare i suoi dubbi, ma qualcosa gli ricordò che la fortuna non lo avrebbe aiutato
per due volte di seguito.
Nello sguardo della giovane aveva visto
lo stesso disprezzo e lo stesso fastidio
che aveva tante volte notato in quello
della vecchia strega.
Forse una parente stretta?
No… non lo credeva.
Una giovane strega che aveva ereditato
i suoi averi?
No… non credeva nemmeno questo.
Ciò che credeva non ebbe il coraggio di
dirlo ad alta voce e nemmeno di pensarlo troppo a lungo.
Corse a perdifiato fino alla radura e non
si fermò neppure quando fu sulla strada.
Fece fatica a non correre anche quando
fu ormai dentro il castello e la contessa,
in piedi accanto al focolare, lo attendeva
con sguardo duro.
“Ebbene?” chiese senza lasciargli neppure il tempo di riprender fiato.
“E’ morta.” Ansimò, tenendosi una mano sul petto come se fosse preda di un
infarto. Il sudore gli imperlava la fronte
e gocciolava, facendo bruciare gli occhi.
“E’ morta? Avete visto il corpo?”
“No… no…” rispose incerto.
“Come fate a dire che è morta allora?”
chiese Erzsébet con le guance infuocate
per la rabbia. Darvulia le serviva! Come
aveva potuto lasciarla sola proprio nel
momento del maggior bisogno? Quando
l’età iniziava a non voler sottostare alla
sua volontà?
“Nella casa c’era una giovane… una
parente… ha detto che Darvulia ora riposa all’inferno… che è morta…”
“Una giovane? Una parente? Non ho
mai saputo che avesse parenti! Ne siete
certo?”
“Sì contessa. Non potrei mai mentirvi.”
Si giustificò.
Erzsébet camminò avanti e indietro davanti al focolare con le braccia strette
attorno alla vita e lo sguardo fiammeggiante.
Nella sala buia, il fuoco rischiarava a
intermittenza e lunghe ombre si stagliavano su oggetti, pareti e pavimenti. Ficzkò rabbrividì pensando alle fiamme
dell’inferno dove anche lui sarebbe finito prima o poi.
“Ho sentito parlare di una strega molto
abile. So che vi si recava spesso anche
Darvulia per farsi preparare i veleni più
terribili. Abita a Miawa, un piccolo centro di montagna. Dite allo stalliere di
preparare la carrozza per domattina.”
Ordinò, prima di allontanarsi rabbiosamente in uno svolazzare di sottane.
Ficzkò obbedì e quella notte, si raggomitolò nel letto senza però riuscire a
prendere sonno.
Qualcosa gli diceva che la nuova strega
sarebbe stata peggio di Darvulia. Ma
non era solo questo a preoccuparlo. Se
mai la contessa avesse incrociato lo
sguardo della giovane dai capelli biondi, avrebbe compreso la sua menzogna e
mai l’avrebbe perdonato, o forse sarebbe stata più furente per la nuova giovinezza della strega? Giovinezza che a lei
non aveva fatto raggiungere, seppur con
tutti i cataplasmi di erbe e i bagni di
sangue.
Scivolò nel sonno quando già iniziava
ad albeggiare e sognò di essere un uomo
normale.
Alto, ma non troppo. Forte e muscoloso.
Un cavaliere che quando passava in paese non poteva che incontrare
l’ammirazione delle giovani e la reverenza dei più anziani. Un eroe come pochi, in sella al suo destriero. Buono e
leale. Un amante assai richiesto dalle
nobildonne e inarrivabile per le giovani
paesane.
Forse, se fosse stato davvero così, le
fiamme dell’inferno non gli avrebbero
fatto tanta paura.
II
La carrozza era pronta. Erzsébet scese
le scale. Dal viso tirato si sarebbe detto
che non aveva dormito molto nemmeno
lei. Si preannunciava una bella giornata
di sole anche quel giorno. Dorkò e Jò
avevano già preparato le serve che avrebbero dovuto tenere compagnia alla
contessa. Stavano ritte in mezzo al cortile con lo sguardo basso e preoccupato,
quando la contessa alzò una mano come
a scansarle.
“Non le voglio. Non oggi.” Disse salendo in carrozza.
Dorkò e Jò si scambiarono un’occhiata
interrogativa e spinsero via in malo modo le due giovani.
Non era mai accaduto che la contessa
rifiutasse la compagnia durante un viaggio.
Senza porsi altre domande, salirono
anch’esse.
La carrozza partì alla volta di Miawa.
Furono ore di viaggio su strade dissestate e ripide in cui la contessa non aprì
mai bocca né tantomeno le due vecchie.
Quando finalmente arrivarono nel paesino sperduto di Miawa, era già passato
mezzogiorno e non tutto faceva pensare
che la maggior parte delle case fosse
disabitata.
Il cocchiere fermò la carrozza più volte
e scese a chiedere informazioni ai pochi
contadini che incontravano sulla strada
e finalmente, l’ultimo di essi sembrò
dare indicazioni precise.
Ripresero il cammino e giunsero poco
fuori dal paese, dove vi era una casa
piccola e cadente.
Il cocchiere scese nuovamente e bussò
alla porta ripetutamente senza ottenere
risposta. Stava già tornando indietro
quando un’anziana donna dall’aspetto
trasandato, bassa, tozza e con i capelli
legati in una lunga treccia grigia che recava ancora qualche ricordo di biondo,
gli si parò davanti.
“Desiderate qualcosa?” domandò con
aria sospettosa.
“La contessa Bàthory cerca Erza Majorova.”
“E cosa desidera la contessa Bàthory da
Erza Majorova?” domandò lei.
“Lo comunicherà a lei personalmente.”
Rispose lui compito.
“Sono io Erza Majorova. Dite alla vostra signora che può entrare.” Annunciò,
aprendo la porta e sparendo all’interno.
Il cocchiere tornò di corsa verso la carrozza e comunicò che la Majorova
l’aspettava.
Quando Erzsébet entrò in quell’angusta
casa, si ritrovò a fissare il volto vecchio
e malconcio della Majorova in persona,
che con un ampio gesto della mano la
invitò ad accomodarsi ben sapendo che
mai e poi mai una nobildonna avrebbe
desiderato sfiorare una qualsiasi delle
suppellettili presenti.
“Cosa volete contessa?” chiese senza
tanti preamboli.
“Conoscevate Darvulia?” domandò la
contessa.
“Certo.”
“E’ morta.” Disse osservando attentamente la reazione della vecchia.
“Lo so.” Rispose senza mutare espressione.
“Necessito di una nuova strega che conosca bene le arti magiche.”
“E desiderate che sia io quella strega?”
chiese sorridendo come a prendersi di
lei.
“Sono venuta fin qua proprio per questo.”
“Che cosa volete voi da una vecchia
strega? Non avete già tutto ciò che desiderate?”
“Non vi riguarda ciò che desidero e ciò
che ho. Accettate di venire a Csejthe?”
“No, se non so per quale motivo avete
bisogno di me.” Ribadì testarda.
Erzsébet fu sul punto di uscire e andarsene, ma non poteva tornare indietro
senza di lei.
“Devo fermare il tempo. Fin’ora tutto
ciò che è stato fatto ha dato risultati in
parte soddisfacenti, ma il tempo corre
Majorova… ogni giorno di più, il tempo
corre.”
“Che cosa avete fatto per fermarlo contessa? Avete fatto bagni di sangue virginale?”
“Sì, ma più il tempo passa e più sembra
che il loro effetto s’indebolisca.”
“Che giovani avete usato?”
“Contadine, serve… forti e belle.”
La Majorova proruppe in una risata
sguaiata.
“Che cos’avete da ridere? Vi state forse
prendendo gioco di me?” domandò Erzsébet irritata.
“No… no… per carità…” rispose cercando di smettere.
“Stavo pensando a Darvulia. A quanto
fosse carogna.”
“Cosa intendete dire?”
“Intendo dire che se è stata lei a dirvi di
usare serve e contadine, forse non voleva davvero aiutarvi a rimanere giovane.”
Erzsébet rimase zitta e incredula. Nessuno mai si era preso gioco di lei.
“Darvulia si è presa gioco di me?” chiese tra i denti.
“Immagino di sì. Era sua abitudine
prendersi gioco di tutti quelli che incontrava sulla propria strada in fondo. Non
mi stupisce che l’abbia fatto anche con
voi.”
La contessa socchiuse gli occhi e soffocò un moto di rabbia che avrebbe anche
potuto portarla a uccidere quella vecchia zoticona su due piedi.
“Giovani nobili vi servono se volete
davvero ritrovare la giovinezza perduta.
Quello è il sangue che vi serve, non
quello povero e impuro di contadine e
serve.”
“Ne siete certa?” domandò Erzsébet diffidente.
“Certo! Cosa credete… che sia una
sprovveduta e vengano da ogni dove per
ascoltare dei vaneggiamenti?” domandò
risentita.
“Verrete a Csejthe?”
“Sì, ma a un patto: il vostro cocchiere
mi accompagnerà qui ogni settimana.”
“Avete la mia parola.”
In poco più di mezz’ora, Erza preparò
due sacchi di roba e salì sulla carrozza.
Un’occhiata gelida corse da Dorkò a Jò
e poi si posò sulla nuova arrivata che
sorrise beffarda, mettendo in mostra gli
unici due denti che le rimanevano. Un
brivido percorse la schiena delle due
vecchie peraltro avvezze ad aver a che
fare con crudeltà e perversione. Durante
il viaggio di ritorno, nessuno aprì bocca.
La tensione all’interno della carrozza
era tanto pesante che quasi si faticava a
respirare.
Giunsero a Csejthe al crepuscolo. Dorkò fu investita del compito di far vedere
gli alloggi di Erza alla stessa Erza, mentre Jò fu chiamata nelle stanze di Erzsébet.
Salì le scale come un condannato a morte, lentamente e con l’ansia che le attanagliava le viscere. Il divertimento di un
tempo era scemato e tutto cominciava a
diventare troppo pesante anche per lei e
ancora di più per la povera Kata, che
non sapeva più che fare con i corpi.
Darvulia non le era mai piaciuta. Prepotente e cattiva oltre ogni limite, aveva
portato solo guai. Rimpiangeva i tempi
in cui alle torture non sempre succedeva
la morte.
L’arrivo inaspettato di Majorova aveva
peggiorato la sua sensazione di declino
e pericolo.
Bussò piano alla porta della contessa e
attese con pazienza d’essere invitata a
entrare.
“Avanti.”
Jò entrò e chiuse la porta che da tempo
immemorabile cigolava orribilmente.
Avrebbe avuto bisogno di un po’
d’olio… doveva dirlo a Lazlo, pensò.
Erzsébet si fece trovare nuda davanti al
suo specchio e per parecchi minuti rimase in silenzio, come ipnotizzata dal
riflesso del suo corpo.
“Guardami.” Disse piano e Jò alzò il
volto su di lei.
“Cosa vedi?” domandò.
“Una bellissima donna, contessa.”
La contessa gettò la testa indietro e rise.
“Suvvia! Dimmi in realtà cosa vedi!
Darvulia non era la grande strega che
diceva di essere e i risultati sono scritti
su questo corpo come su di una pergamena. Ogni ruga, ogni cedimento, sono
la prova di ciò che dico. La prova che
Darvulia ha voluto tenere per sé il vero
segreto della giovinezza. Ficzkò ha
mentito…”
“Cosa volete dire contessa?”
“Che Darvulia non è morta… forse
nemmeno lui sa con certezza di aver
mentito, ma le parole di Majorova mi
hanno aperto gli occhi. Darvulia non è
morta, ma è tornata a esser giovane e
bella. Ha tenuto per sé un segreto importante. Un segreto che ora Majorova
mi ha rivelato e che userò.”
Passò qualche minuto di silenzio, nel
quale Erzsébet fissava ogni centimetro
del suo corpo quasi con odio. Quel corpo che aveva in ogni modo tentato di
preservare dal tempo e che continuava a
cedere.
“Mi servono delle nobildonne.” Disse
quasi ringhiando.
Jò sussultò visibilmente e fece un passo
indietro come se quelle parole minacciassero lei personalmente.
“Ti spaventa?” domandò Erzsébet avendo notato la reazione.
Jò scosse la testa deglutendo.
“Allora perché fai quella faccia?”
“Che cosa dovremmo dire per attirarle
al castello?” domandò non troppo convinta.
“Che una rispettabile contessa, ormai
matura e sola, desidera la compagnia di
giovani nobili a cui insegnare le buone
maniere, le lingue, l’arte del parlare.
Giovani nobildonne da inserire in buoni
ambienti. Che questa rispettabile contessa desidera non passare sola gli ultimi anni di vita e desidera lasciare in eredità il suo sapere.” Disse coprendosi
con una vestaglia.
“E quando la famiglia vorrà vederle?
Cos’accadrà quando non ci sarà nessuna
nobildonna da far tornare a casa dalla
famiglia?”
“Lascia che di questo mi preoccupi io.”
Ringhiò.
Jò abbassò la testa e assentì.
“Vai. Le voglio entro domani sera.” Ribadì rabbiosa.
Jò uscì dalla stanza e per prima cosa
cercò Ficzkò.
Lo trovò nelle stalle in compagnia di un
giovinetto con il viso coperto di lentiggini che strigliava un cavallo.
Come sua abitudine, prendeva in giro il
ragazzino con battute volgari e fastidiose. Il giovane sbiancò quando vide arrivare Jò che lo degnò appena di uno
sguardo e prese per un braccio Ficzkò
facendolo cadere dalla balla di fieno
sulla quale era seduto.
“Ehi!” protestò tirandosi in piedi.
“Vieni con me!” ordinò.
“Ma che succede?” domandò seguendola fuori dalla stalle.
“Che fine ha fatto Darvulia?” domandò
Jò senza preamboli.
“L’ho già detto alla contessa. È morta.”
Bofonchiò.
“Non è vero! Lo sai tu, lo so io e lo sa
anche la contessa!”
Ficzkò si guardò i piedi e poi sollevò il
viso al cielo sospirando.
“Ho visto una giovane… non so se fosse davvero lei, ma la sensazione che ho
avuto… il suo sguardo… era lo stesso.”
“Di Darvulia intendi?”
“Sì. Lo stesso sguardo, lo stesso sgarbato modo di fare… sono certo fosse
lei…”
Jò sospirò e si passò le mani sul viso
flaccido.
“Perché me lo chiedete?”
“Erza Majorova.” Rispose quasi come
fosse in uno stato di trance.
“E chi sarebbe?”
“Una strega… una strega vera.
Dev’essere stata lei a confidare a Darvulia il segreto dell’eterna giovinezza.”
“E’ ciò che desidera la contessa no?
Qual è il problema?”
Jò ebbe voglia di spintonare quello stupido e odioso nano, ma si trattenne.
“Vuole delle nobildonne Ficzkò! Questo è il problema! Quanto tempo passerà
prima che qualcuno lo venga a sapere?
Datti da fare comunque… le vuole entro
domani… sarà l’inizio della fine… vedrai.” Sentenziò allontanandosi.
Ficzkò si grattò la testa pensieroso. La
sera era ormai arrivata e la brezza fresca
che scendeva dalle montagne lo fece
rabbrividire come fosse l’alito dei morti
che aveva sulla coscienza
Forse i timori di Jò non erano poi così
infondati, ma c’era una cosa che non
poteva che solleticarlo: avere finalmente la possibilità di mettere le mani su
una nobildonna. Una vera, una pura,
bianca e perfetta, profumata e giovane.
Quel pensiero predominava su tutti gli
altri, oltre alla curiosità di vedere questa
Majorova. Chissà se era vecchia e bisbetica come Darvulia?
Rientrò al castello, rimpiangendo di non
aver potuto continuare a molestare quel
bel ragazzino assunto da poco. Per lui
non faceva una gran differenza il sesso
delle sue vittime. Un ragazzino andava
bene tanto quanto una ragazzina.
L’unica che avrebbe fatto davvero la
differenza era la contessa, che continuava a popolare i suoi sogni proibiti.
In cucina trovò Dorkò e Jò che parlavano a bassa voce e smisero non appena lo
videro.
“Cosa si dice?” domandò sorridendo.
“Nulla che ti riguardi nano.” Tagliò corto Dorkò che non aveva mai sopportato
la vista di quell’orrore della natura.
Ficzkò alzò le spalle come se non gliene
importasse e si servì di un grosso pezzo
di carne bollita e minestra, contento di
aver interrotto i discorsi delle due vecchie streghe.
Mise in bocca la prima cucchiaiata di
minestra risucchiando il contenuto con
un rumore rivoltante, quando entrò Majorova.
Non salutò; si limitò a guardare tutti con
aria di sfida e il solito sorriso beffardo
stampato in volto.
Si prese una ciotola e la riempì di minestra.
Dorkò fece un segno a Jò ed entrambe
abbandonarono la cucina per cercare un
luogo più consono e lontano da orecchie
indiscrete per i loro discorsi.
Majorova finì il suo piatto di minestra
con voracità e ne prese un altro.
“Quelle due non sembrano contente di
avermi qui.” Disse ridendo, come se la
cosa le facesse piacere.
Ficzkò grugnì assentendo, mentre addentava un grosso pezzo di gallina bollita.
“E tu? Tu che parte hai in tutto questo?”
domandò.
“Aiuto la contessa.” Rispose vago.
“Potrei aiutarti a essere meno sgradevole sai?”
Sgradevole? Pensò Ficzkò infastidito.
“Ho usato un termine che ti ha ferito per
caso?” domandò lei ridacchiando.
“Non dirmi che non sapevi di esserlo.”
Rincarò.
“E cosa potreste fare per rendermi…
meno… sgradevole?” chiese masticando a bocca aperta.
“Non hai mai sentito parlare di me?”
“No.”
“Strano… tutti conoscono i miei poteri.
Se farai tutto ciò che ti ordino, ti darò la
possibilità di diventare un uomo normale. Alto e prestante… bello e affascinante.”
Ficzkò posò il suo pezzo di carne e la
guardò negli occhi, forse per capire se
quelle promesse potevano davvero avere un fondamento di verità. Cadde in
quegli occhi azzurri slavati cerchiati di
scuro e cosparsi di capillari rossi. Con
la bocca ancora aperta, si sentì quasi risucchiare da quegli occhi orrendi e
senz’anima. Assentì mentre la bava gli
colava dagli angoli della bocca e scendeva in sottili filamenti sugli abiti.
“Bene. Allora domani cerca quante più
nobildonne puoi e portale al castello.
Sarai ricompensato e non ti pentirai di
avermi dato ascolto.”
Ficzkò si riebbe quando sentì il vino che
gli si versava addosso dal bicchiere che
teneva in mano.
Bello e affascinante… alto e prestante… solo quelle parole udiva nella sua
testa…
Quando lo fosse stato davvero, avrebbe
potuto mostrarsi alla contessa e farla
finalmente sua…
Finalmente…
III
Non era ancora sorto il sole che già
Dorkò e Jò erano in cucina a divorare
una sostanziosa colazione, pronte a perlustrare in ogni dove per trovare le giovani nobili che la contessa desiderava.
Finirono di bere il vino caldo e trovarono Ficzkò già fuori ad aspettare.
Gli dissero di recarsi da alcune famiglie,
mentre loro avrebbero provato in altre
zone.
Arrivate al primo castello, si fecero annunciare.
Attesero quasi un’ora prima che qualcuno si degnasse di raggiungerle. Un
uomo dai modi sbrigativi e dal volto tirato si parò loro davanti.
“Chi siete e cosa volete?” domandò
brusco e infastidito dalla vista di quei
due relitti.
“Ci manda la contessa Bàthory.”
L’uomo assentì pensieroso.
“La contessa sente la vecchiaia avvicinarsi e la solitudine comincia a pesarle
orribilmente. Desidera avere con sé delle giovani nobildonne da istruire e iniziare alla vita di corte. Come voi ben
sapete, la contessa è molto colta e non
desidera vedere sprecato il suo sapere.”
Cominciò Dorkò.
“Sappiamo che voi avete due giovani
figliole e abbiamo pensato di domandarvi se siete interessato a mandarle
dalla contessa.” Continuò Jò con tono
solenne.
L’uomo scosse la testa incredulo. Come
poteva, una contessa come la Bàthory,
mandare quei due ruderi, sporchi e puzzolenti a casa di un nobile con una tale
proposta?
“E manda voi a fare simili proposte?”
Le due si guardarono infastidite, ma si
trattennero dal controbattere. Dorkò armeggiò con la veste e ne estrasse una
lettera sigillata con lo stemma dei Bàthory che porse al nobiluomo.
Lui la prese con la punta delle dita come se fosse contaminata. Dorkò avreb-
be voluto scuoiarlo lì sul posto, ma gli
sorrise con garbo.
L’uomo la trovò ancora più ributtante e
con un gesto secco aprì la busta e ne estrasse una singola pergamena.
La contessa aveva passato la notte intera a scrivere quelle lettere. Cinquanta in
tutto.
Illustrissimo signore,
come vi avranno certamente
spiegato le mie due serve, la
mia età mi porta a sentire avvicinarsi la fine. Da molti anni
ormai vivo in questo castello
circondata dalla solitudine
forzata, causata dalla mia
precoce vedovanza.
Gestire tutto per me è diventato un lavoro troppo pesante e
le distrazioni non so più cosa
siano.
Come voi ben saprete, la mia
elevata istruzione mi ha permesso di arrivare dove sono
arrivata e di saper far fronte
alla vita di vedova, senza
troppo faticare.
Desidero poter riversare questa mia istruzione su giovani
nobildonne in modo che non
vada persa e dimenticata con
la mia dipartita.
Non chiedo nulla in cambio se
non la compagnia di queste
giovani creature che, una volta uscite dal castello di Csejthe, saranno pronte per entrare nella vita di corte che
spetta loro di diritto.
Sono certa che non farete fatica a comprendere queste mie
motivazioni e che per le vostre
figliole non desiderate altro
che il meglio.
Contessa
Erzsébet Bàthory Nàdasdy
L’uomo lesse con attenzione la lettera e
poi la ripiegò e la infilò nuovamente
nella busta.
Evidentemente la contessa, nonostante
la sua istruzione, non aveva buon gusto
nel scegliere la propria servitù, ma questo non poteva certo essere un buon motivo per non valutare con la dovuta attenzione quella proposta.
“Ho due figliole. Rachel e Benedette.
Rachel vive qui al castello, è la più giovane. Benedette vive in Francia con la
famiglia del suo promesso sposo. Rachel ha undici anni e penso che sia
pronta per ricevere un’istruzione così
importante come quella che potrebbe
impartirle la contessa.”
Dorkò e Jò sorrisero.
“Molto bene conte Farnell… passerà
una carrozza nel tardo pomeriggio per
prelevare la fanciulla e portarla al castello di Csejthe.”
Il conte assentì senza ricambiare il sorriso. Non sapeva bene perché, ma quella
decisione gli era parsa più difficoltosa
del previsto e ancora non era convinto
di aver fatto la cosa giusta.
Dorkò e Jò, soddisfatte, proseguirono e
si fermarono alle porte di un altro ca-
stello, dove furono accolte dalla contessa Henrietta Koslovsky.
“Cosa vi porta così lontano da Csejthe?” domandò non appena la informarono d’essere le serve della contessa
Bàthory, per cui tra l’altro non aveva
alcuna simpatia.
L’aveva incontrata qualche volta durante gli avvenimenti mondani a Vienna e
non vi aveva scambiato che poche parole di circostanza. Aveva sentito parecchie voci circolare al suo riguardo e non
se ne stupiva. Quella donna le aveva
sempre fatto venire i brividi.
La contessa Koslovsky occupò una sedia con la sua mole imponente.
Dorkò spiegò in breve e porse la lettera
di Erzsébet.
Henrietta la lesse con attenzione aggrottando di quando in quando le sopracciglia e poi la posò sulle gambe.
“Le mie tre figlie posseggono già
un’elevata istruzione e non vedo che
cosa potrebbe insegnar loro di più la
contessa Bàthory. Inoltre sono già promesse a uomini appartenenti a casate
importanti che provvederanno a farle
entrare nel mondo delle grandi corti di
Vienna.” Disse alzandosi, intenzionata a
congedare le due vecchie.
“Permettetemi di dire, contessa Koslovsky, che la contessa Bàthory ha una
cultura superiore rispetto a molti nobili
e che potrebbe certamente infondere
nelle vostre giovani figlie, una maggiore conoscenza.”
La contessa si fermò in modo brusco e
si voltò verso Dorkò con sguardo adirato.
“Come osate? Venire nella mia dimora
a insinuare che le mie figlie possano ricevere maggiore istruzione da una nobildonna, la cui reputazione non è delle
migliori…” s’interruppe serrando le
mascelle e fissando le due serve con astio.
“Non era nostra intenzione offendere
nessuno, contessa. Prendiamo atto della
vostra decisione.” Intervenne Jò Ilona,
cercando di porre rimedio.
“Uscite dal mio castello e dite alla vostra padrona che mai e poi mai le mie
figlie varcheranno la soglia del castello
di Csejthe.” Concluse rabbiosa.
Non avrebbe mandato le sue bambine
presso una donna di cui aveva sentito le
peggio cose.
Si diceva persino che torturasse la sua
servitù.
Certo, anche lei aveva dovuto punire in
modo severo alcune delle sue domestiche, ma mai si era spinta a cavarne una
sola goccia di sangue.
Dorkò e Jò Ilona abbandonarono il castello dei Koslovsky.
Più tardi, durante la cena, la contessa
Henrietta avrebbe informato il marito,
che avrebbe approvato la scelta giusta e
avveduta della moglie, di quella visita.
Ancor meglio di lei, conosceva le dicerie sulla contessa e ancor meglio di lei
ne conosceva la malata propensione al
sesso… perché l’aveva provata.
Con la memoria ritornò a Vienna, nel
1582. Un gran ballo, uno splendido
banchetto, l’orchestra che suonava. Si
era voltato e l’aveva vista. Splendida, in
un abito cremisi, la gorgiera di perle
bianche che si confondeva con il biancore della pelle. I capelli scuri con qualche riflesso di sole, raccolti sulla nuca e
impreziositi da una retina di perle. Era
in compagnia del marito Ferencz, ma
pareva estranea a tutto ciò che la circondava. Sembrava camminare metri
sopra gli altri. Si era voltata appena un
attimo e i loro occhi si erano incontrati.
Subito il suo corpo aveva reagito come
sotto il lavoro di mani sapienti.
Da quell’attimo non aveva fatto altro
che guardarla e desiderarla. Sua moglie
era rimasta al castello di Presburgo e
stava dando alla luce la loro secondogenita.
Non era riuscito a trovare un momento
in tutta la sera per avvicinarla con qualche genere di scusa, ma verso la fine
della serata, Ferencz si era assentato.
Era sola accanto a una finestra. Guardava fuori, ma pareva che guardasse
l’intero universo. Nevicava e già tetti e
strade erano coperti dalla coltre bianca.
“Vi annoiate?” le aveva chiesto schiarendosi la voce.
Lei non si era voltata e non si era stupita, come se stesse aspettando il suo arrivo. Come se sapesse che non appena
fosse rimasta da sola, qualche uomo si
sarebbe avvicinato.
“No. Aspetto mio marito.” Aveva risposto atona.
“Non dovrebbe lasciar sola una donna
così bella vostro marito. Se foste mia
moglie non vi abbandonerei un solo istante.”
A quel punto si era voltata. Sul suo viso
un mezzo sorriso che sapeva di amarezza e non di gioia. I suoi occhi grandi e
scuri lo avevano divorato e si era sentito
in balia di sensazioni animalesche mai
provate.
Avrebbe voluto strapparle di dosso quel
vestito splendido, far rotolare via le perle che le cingevano il collo e cingerlo
lui, con le proprie mani. Cominciò a sudare e si vide nell’atto di toccarla, farla
sua, con violenza… come una bestia.
Il sorriso della contessa si era allargato,
come se avesse percepito i suoi pensieri
e lui si era sentito imbarazzato come un
giovinetto. A quel punto lei si era guardata intorno, come a valutare quanto il
là potesse spingersi; poi aveva allungato
la sua mano bianchissima e sottile e
l’aveva appoggiata tra le sue gambe,
spingendo lievemente e sorridendo al
sentire l’erezione in atto.
“Cosa fate?” le aveva chiesto ansimando e chiudendo gli occhi.
“Quello che volete.” Gli aveva risposto
in un sussurro ammaliante.
Le aveva preso la mano con violenza e
l’aveva tirata lontano da occhi indiscreti.
“E vostro marito?” le aveva chiesto.
“Non tornerà tanto presto.” Aveva risposto lei.
Aveva sentito delle tresche con Lazlo
Bende e mai aveva creduto a una sola
parola, ma ora doveva ricredersi.
“Siete pensieroso.” Costatò Henrietta,
vedendolo silenzioso e con lo sguardo
perso nel vuoto.
“No… faccende politiche… niente che
io voglia addossare sulle vostre spalle.”
Rispose un po’ infastidito per
l’interruzione dei suoi ricordi.
Henrietta si allontanò dalla stanza da
pranzo, lasciandolo solo con la sua pipa
e lui tornò a quella sera di tanti anni
prima.
Mai aveva provato tanto piacere. Mai
con sua moglie; mai con le altre amanti.
L’aveva portata in una stanza per gli
ospiti, gettata sul letto; le aveva tolto di
dosso quel pretenzioso abito e l’aveva
presa. E lei lo voleva… eccome se lo
voleva. Era bagnata e aperta e si muoveva contro di lui come se non ne avesse mai abbastanza. Aveva tentato di
trattenersi il più a lungo possibile per
far in modo di protrarre quel piacere
mai provato e poi aveva raggiunto il
culmine, serrando le mani sulle sue esili
braccia e lasciandole evidenti ecchimosi.
Da allora non aveva mai più avuto contatti con lei.
Il suo istinto sessuale l’avrebbe voluto,
ma le sensazioni che aveva provato andavano al di là del sesso e lo avevano in
qualche modo spaventato.
C’era qualcosa di inumano in quella
donna. Qualcosa di demoniaco, lussurioso e pericoloso.
La sua carne era impura e i suoi occhi
erano posseduti dal demonio in persona.
Aveva pregato ogni giorno per allontanare dai suoi pensieri quei ricordi e la
colpa di aver dato seguito ai suoi istinti.
Mai avrebbe voluto che le sua figlie venissero istruite da quella donna senza
morale e senza principi.
In seguito aveva sentito le voci su torture inflitte alla servitù, rapporti saffici,
addirittura uccisioni.
Erano solo voci… certo, ma inquietanti
e certamente con un fondo di verità.
Lui lo sapeva perché aveva guardato in
quegli occhi e non aveva visto che perdizione.
Dorkò e Jò erano di nuovo in attesa, in
piedi accanto al portone d’entrata.
Il barone Van Vussel arrivò in compagnia della giovane moglie, matrigna dei
sei figli avuti da Van Vussel con la prima moglie, morta in seguito all’ultimo
parto. La seconda moglie poteva essere
sua figlia. Aveva due anni in meno della
prima figlia di Van Vussel. Capelli
biondi, viso pieno e gioviale, occhi nocciola grandi e luminosi.
Assentirono entrambi alla spiegazione
di Jò Ilona e lessero la lettera di Erzsébet.
“Due delle mie figlie sono già promesse
in spose e vivono presso le nuove famiglie, ma Gabrielle e Karin potrebbero
trarre giovamento dalla permanenza
presso la contessa Bàthory, che natu-
ralmente ringraziamo per aver pensato
alle nostre figlie. Non è vero Marie?”
domandò alla giovane moglie che assentì arrossendo.
Evidentemente non era ancora avvezza
a essere interpellata dal nuovo marito
per importanti decisioni.
“Ebbene siamo d’accordo. Saranno
pronte per quando passerà la carrozza.”
Disse Van Vussel, la cui casata versava
in pessime condizioni a causa di vari
investimenti sbagliati e a cui non pareva
vero di liberarsi di due bocche da sfamare.
Ficzkò e Kardosca si spinsero fino a
Novo-Miesto. La vecchia alcolizzata e
il brutto nano non ispiravano di certo
simpatia e fiducia, ma riuscirono lo
stesso a racimolare sette giovani nobili
nel giro della sola mattina.
Nel primo pomeriggio giunsero al palazzo del barone Brauffen che aveva
addirittura dodici figlie, tutte femmine e
un solo maschio. Molte di loro erano
già sposate, ma le quattro più giovani
non erano ancora neppure promesse in
spose.
Li accolse la baronessa Brauffen. Alta e
magra, con un prosperoso decolté. Rigida e dal viso duro, sedeva di fronte a
loro con le mani in grembo e gli occhi
chiarissimi e indagatori.
“Ditemi dunque. Cosa vi porta fin qui
da Csejthe?”
Ficzkò utilizzò tutte le parole più ricercate che conosceva e porse una lettera
alla baronessa che fece in fretta a prenderla per non dover avere alcun contatto
con quell’essere rivoltante.
Ficzkò fece un passo indietro e lasciò
che la baronessa leggesse con tutta calma. Quando finì, gettò a terra la lettera
con sdegno e serrando le mascelle, osservò i due servi.
“Le mie figlie non hanno bisogno
dell’istruzione che può dare la contessa
Bàthory. Hanno già i migliori insegnanti.” Concluse alzandosi. Per lei la discussione era già terminata.
“Permettetemi, baronessa Brauffen…
fareste un’opera buona per una nobildonna che sente avvicinarsi la fine nella
più totale solitudine.” Intervenne Kardoska con la sua voce cantilenante.
La baronessa si voltò di scatto come una
belva intenta a proteggere i suoi cuccioli.
“Vi ripeto che le mie figlie non verranno a Csejthe. Non ritengo di dovere nulla alla contessa Bàthory e non è per me
di alcun interesse la sua sorte. E ora lasciate la mia dimora e tornate da dove
siete venuti.” Concluse facendo un cenno a due servitori perché accompagnassero fuori gli ospiti indesiderati.
Ebbero più fortuna presso il barone Cziraky.
Ascoltò con attenzione socchiudendo
spesso gli occhi come se questo lo aiutasse a comprendere meglio le parole
che ascoltava. Era un uomo possente,
alto e robusto, con folti capelli rossi e
una barba altrettanto folta e rossa. Solo
qualche filo bianco indicava che non era
più così giovane.
“Povera contessa…” sussurrò.
“Le mie quattro figlie sono ancora molto giovani, ma forse non così giovani da
non essere in grado di cominciare ad
apprendere le buone maniere che, di
certo, la contessa è capace d’insegnare.
Ero buon amico di Ferencz e ho sempre
ammirato lo stoicismo di sua moglie.
Certo non dev’essere stato facile per lei
mandare avanti tutto da sola.”
Guardò fuori dalla finestra tenendo le
mani dietro la schiena.
“Quando passerete a prenderle?” domandò sospirando.
In fondo gli dispiaceva pensare di non
vedere più le sue belle figlie in giro per
il palazzo, ma per loro desiderava il
meglio e purtroppo i bei tempi erano
passati per la sua casata.
Lo si percepiva dalla decadenza del palazzo, dagli abiti raffazzonati e dal suo
sguardo rassegnato e deluso.
Quando venne la sera, le carrozze arrivarono al castello di Csejthe cariche di
giovani nobildonne.
Erzsébet osservò l’andirivieni dalla finestra della stanza degli ospiti e sorrise
tra sé.
Nuovo sangue…
IV
Non stava più nella pelle. Ascoltò il resoconto dettagliato di Kardoska e Ficzkò e poi quello di Dorkò e Jò Ilona con
gli occhi chiusi, le mani raccolte in
grembo e assentendo ogni tanto.
Qualche dettaglio la fece arrabbiare,
qualcun altro sorridere, ma ciò che davvero voleva, era solo che concludessero
e la lasciassero libera di recarsi nei sotterranei, dove due delle giovani erano
state rinchiuse nella cella.
Le altre erano state portate a Podoliè,
nelle celle del palazzo di sua proprietà.
“Se avete concluso, io gradirei vederle.”
Disse a un certo punto, un po’ infastidita dal logorroico parlare di Kardoska
che si zittì subito.
Tutti e quattro si allontanarono. Dorkò e
Jò raggiunsero i sotterranei dove già li
attendeva Majorova, seduta per terra
come una mendicante, con gli occhi liquidi e perennemente arrossati. Fissava
le due ragazze come fosse stata
un’anaconda in attesa che le tenere prede mettessero il musetto fuori dalla loro
tana.
Entrambe piangevano a dirotto.
A differenza delle serve, non si aspettavano di ricevere un tale trattamento e
non si capacitavano di essere state rinchiuse senza alcun motivo.
La più giovane ripeteva senza sosta la
parola “mamma”.
Erzsébet si appoggiò alla parete come
fosse stanca di stare in piedi e cercasse
un sostegno per riposare. Chiuse gli occhi e inspirò con profondità. Sembrava
che stesse odorando un raro profumo.
“Questa è una delle quattro figlie di
Cziraky.” La informò Dorkò indicando
la più grande. Non era una bella giovane, anzi…
Aveva forme grosse e sgraziate, un viso
dalla pelle butterata e due grandi occhi
cadenti che le davano un’aria poco sveglia. La bocca era larga e il naso schiacciato.
A Erzsébet fece venire in mente un
grosso maiale anche per come atteggiava le labbra.
“Non la voglio.” Disse quasi disgustata,
ma Majorova alzò una mano per intervenire.
“Tornerà utile nonostante la sua bruttezza. Non siete obbligata a toccarla,
guardarla o torturarla. Potete ucciderla
in modo semplice e pulito.”
Erzsébet soppesò le parole della strega e
poi assentì.
Olga Cziraky fu la prima a essere incatenata. Senza nemmeno guardarla, Erzsébet ordinò a Dorkò di tagliarle la gola e così fu.
Olga non conobbe il dolore delle torture
né il delirio della pazzia. Mentre moriva
si domandava “perché” e sognava di essere al posto della ragazza ancora rinchiusa nella cella… se avesse saputo
che cosa aspettava quella giovane, non
avrebbe mai fatto un sogno così sciocco.
Senza saperlo, lei stava facendo la fine
che tutte le altre le avrebbero invidiato.
“Questa è Gabrielle Van Vussel.” Comunicò Jò Ilona, prendendo per i capelli
la ragazzina.
Questa non doveva avere più di dodici
anni. Era carina pur non avendo nulla di
speciale. Capelli fini e lisci che avevano
perso ogni ricordo di acconciatura, occhi nocciola un po’ ravvicinati, una pelle rosea. Nonostante la giovane età, era
già sviluppata e il seno considerevole
era spremuto sotto il corsetto.
Gabrielle Van Vussel fu spogliata e presa a ceffoni da Dorkò. Aveva sempre
provato un odio feroce per tutte quelle
bambine vestite da bambole e con lo
sguardo innocente.
Strattonata con violenza, fu incatenata
al posto di Olga, il cui corpo era stato
gettato senza troppe cerimonie accanto
alla porta di un’altra cella.
Ciò che Erzsébet s’inventò per lei, superò ogni immaginazione malata delle
serve e della strega.
Non prese alcuno strumento che somigliasse a un ago o a un uncino.
Prese solo un semplice coltellaccio da
cucina.
Dorkò, Jò e Majorova parevano quasi
annoiarsi per quella scena che sembrava
il replay della fine fatta da Olga: un bel
taglio alla gola e tutto finito.
Ma Erzsébet aveva ben altro in mente.
Si posizionò dietro la ragazza, artigliò i
capelli e tese la pelle del collo. Con estrema precisione, incise la cute da una
spalla all’altra, provocando le urla di
dolore della giovane.
Con le dita aprì la ferita quel tanto che
bastava perché la punta del coltello
s’insinuasse tra la carne e la pelle e con
veloci movimenti verticali e circolari,
scollo la pelle della schiena.
Era impressionante vedere la lunga lama che si muoveva veloce sotto la pelle
che si tendeva con elasticità.
Incise la schiena lateralmente e poi tirò
con entrambe le mani.
La pelle si staccò e rimase a penzoloni
sulle natiche della giovane che non faceva che urlare a squarciagola e piangere tutte le lacrime di cui era capace.
Erzsébet rimirò il suo lavoro soddisfatta
e si accinse a praticare un’incisione
all’attaccatura delle braccia.
Con lo stesso meticoloso lavoro, scollò
la pelle e poi tirò.
La cute venne via come un guanto e si
fermò solo una volta arrivata alle dita.
Si allontanò di qualche passo e guardò
quella giovane che non gridava più. Ansimava e aveva lo sguardo fisso per terra come se stesse per morire. Erzsébet
fu presa dalla rabbia, a grandi passi si
avventò su di lei e con un abile movimento tagliò via il seno destro.
La giovane sussultò appena un poco
prima di svenire.
Erzsébet era furente.
“Sono deboli! Non sopportano niente!
Come posso continuare quando svengono in continuazione?” domandò inviperita, guardando Majorova.
Sempre seduta a terra e con le braccia
appoggiate mollemente alle ginocchia,
ricambiò lo sguardo adirato della contessa. Non provava alcun timore davanti
a quella donna alla continua ricerca di
una perfezione divina.
“Siete certa che il loro sangue possa
aiutarmi più di quello delle forti e resistenti membra delle contadine?”
“Lo vedrete voi stessa tra non più di
qualche mese. Mi ringrazierete quando
vi guarderete allo specchio e con stupore vedrete un corpo più giovane di dieci
anni.” Rispose con sicurezza e una punta d’astio.
“Svegliala!” Strillò Erzsébet divenendo
rossa in viso e mettendo in mostra le
vene pulsanti sulla fronte ampia.
Dorkò non perse un attimo e subito fu ai
piedi della ragazza con il suo pezzo di
carta infuocata.
Iniziò a sudare freddo quando vide che
la ragazza non si riprendeva e il primo
pezzo di carta si era ormai consumato
bruciandole la punta delle dita.
Erzsébet, che aspettava ferma e con gli
occhi fissi sulla giovane come a voler
percepire il più piccolo movimento,
corse verso di lei e la spintonò via facendola cadere a terra.
Diede due poderosi schiaffi al volto pallido di Gabrielle. Il viso si sollevò e si
riabbassò privo di una volontà muscolare o scheletrica.
“E’ morta?” domandò a se stessa in un
sussurro.
Da morta non le sarebbe servita a nulla.
Il sangue doveva fuoriuscire da un corpo in cui ancora si dibatteva la fiamma
della vita. Una volta morta, tutta la ricchezza, la magia, la potenza, si sarebbe
dispersa come il suo ultimo fiato.
“Non dovete esagerare contessa… forse
avete calcato troppo la mano con questa
giovane.” Consigliò Majorova ridacchiando.
Erzsébet scaraventò il coltello verso il
camino facendo scansare frettolosamente Dorkò che vi stava di fianco.
Non fu costretta a dire nulla, che le due
serve liberarono braccia e gambe della
giovane e la gettarono di lato, accanto al
corpo di Olga. La pelle le svolazzò attorno come un macabro grembiule.
Ora c’era da chiedersi se il sangue di
una sola ragazza sarebbe bastato per
quella sera. La contessa si voltò verso
Majorova aspettando di sapere che cosa
ne pensasse.
“Una sola può bastare per questa volta,
ma domani sarà indispensabile averne
almeno tre.” Concluse alzandosi a fatica.
Per quella sera, Erzsébet fece il suo bagno nel sangue di una sola ragazza. Lo
fece diluire con un po’ di acqua tiepida
e vi aggiunse dell’olio essenziale acquistato a Vienna. L’olezzo che scaturiva
dalla vasca era a dir poco infernale, ma
lei pareva non rendersene conto e anzi,
sembrava apprezzarlo più del profumo
di un fiore appena sbocciato.
Come sempre, prima di scivolare sotto
le lenzuola, si concesse del tempo davanti al suo specchio e bevve in un solo
sorso il sangue concentrato di Vanka,
mischiato a dell’alcol.
In quel momento avrebbe tanto desiderato avere un corpo su cui giacere, ma
non le venne in mente nessuno che potesse stuzzicare e appagare i suoi appetiti.
Con la mente ritornò ai tempi in cui si
era lasciata andare alle smanie di Lazlo
Bende, da non confondere con il Lazlo
stalliere che ancora oggi lavorava per
lei.
Era da poco arrivata al castello di Sarvar per apprendere gli usi e i costumi
della famiglia Nàdasdy. Orsolya non le
dava tregua. Le stava sempre addosso,
controllando tutto ciò che faceva, diceva, udiva. Se avesse potuto, avrebbe
controllato anche i suoi pensieri. Era
rigida, severa e bigotta.
Spesso si complimentava con lei per la
bellezza fuori dal comune che possedeva, ma le ricordava anche che una donna del suo rango non doveva in alcun
modo puntare tutto sull’esteriorità.
Doveva anzi darsi ancora più da fare per
dimostrare di possedere altre e più importanti doti.
Con pazienza e meticolosità, le aveva
insegnato le lingue e tutto ciò che c’era
da sapere sulla gestione delle proprietà.
Ferencz era lontano e stava terminando
i suoi studi.
Di rado andava a trovare i genitori a
causa dei molteplici impegni e ogni
qualvolta si degnava appena di salutarla
pigramente.
Seppe in seguito che rimaneva talmente
abbagliato dalla sua bellezza, da quel
fascino misterioso, che non riusciva a
proferir verbo dinnanzi a lei e sognava
solo il momento in cui l’avrebbe avuta
tutta per sé.
In ogni caso, in quel periodo della sua
vita si era sentita soffocata, sola e triste.
Non poteva fare nulla senza avere la futura suocera alle calcagna e questo la
innervosiva da morire. Non poteva
nemmeno sfogare quella rabbia perché
non riusciva ad avere un momento tutto
per lei.
Facevano eccezione i momenti in cui
Lazlo Bende veniva a far visita ai conti
Nàdasdy.
Lei aveva quattordici anni e se ne stava
silenziosa in disparte. Ascoltava i loro
discorsi senza mai permettersi di parteciparvi in alcun modo.
Non un segno, non una parola, né un
sorriso o un saluto.
Avrebbero potuto scambiarla per una
statua perché si faticava a comprendere
se fosse viva, tanto stava immobile.
Lazlo la guardava spesso cercando di
non farsi notare. Non la guardava con
curiosità o con affetto… la guardava
con il desiderio stampato in volto.
I genitori di Ferencz parevano non accorgersene o comunque non darci peso,
ma lei lo aveva notato e si sentiva avvampare quando sentiva la carrozza di
Bende arrivare e la sua voce profonda
salutare Orsolya che lo attendeva sulla
porta.
Non ricordava per quale situazione fortuita fossero riusciti a ritrovarsi da soli,
ma successe.
Lui le porgeva domande di circostanza
e lei annuiva o scuoteva leggermente la
testa in risposta. Aspettava un suo cenno, ma lui sembrava improvvisamente a
disagio. Tutta la sfrontatezza con cui
l’aveva osservata fino a quel momento,
era scomparsa. Sembrava quasi intimorito e questo la divertiva.
Si stava ormai annoiando, quando lui si
era alzato e le si era parato davanti con
sicurezza ritrovata. Le aveva preso la
mano e l’aveva baciata con veemenza.
Si era sentita avvampare e aveva percepito un calore travolgente nel basso
ventre. Un desiderio così forte che era
rimasto sopito fino allora. Non si era
ritratta e lui era rimasto quasi stupito.
Forse si era aspettato una sua reazione
pudica. Guardandosi intorno come per
accertarsi che non sarebbero stati colti
sul fatto, l’aveva fatta alzare e l’aveva
portata in una stanza di un’ala del ca-
stello poco frequentata anche dalla servitù.
“Vi voglio.” Le aveva sussurrato
all’orecchio, mentre le sollevava le vesti
e toglieva le stoffe che si frapponevano
tra loro. L’aveva sollevata con facilità
contro il muro. Erzsébet aveva chiuso
gli occhi quando aveva sentito il sesso
di lui appoggiarsi tra le sue gambe e
spingere per farsi strada dentro di lei.
Non era stato agevole. Forse se fossero
stati sdraiati su di un letto, sarebbe stato
più semplice, ma quel modo di desiderarla le piaceva. Quel modo smanioso e
che non ammetteva più attese o luoghi
ideali.
Tenendola sollevata con un braccio forte, aveva fatto scivolare l’altra mano
davanti a sé. Vi aveva sputato sopra e
l’aveva fatta passare sotto di lei. Insieme a quel organo duro, aveva sentito le
dita che si muovevano, aprivano, entravano e poi qualcosa di grosso, lacerante,
violento che entrava dentro di lei.
Non sapeva come se lo era aspettato,
ma di certo non così grosso e invadente.
Lo sentiva fin nelle viscere. Lui aveva
ansimato guardandola fissa in viso. La
sua verginità si era riversata sul pavimento, macchiando un poco l’abito e lui
aveva spinto con tale forza da costringerla quasi a gridare.
Da quel momento, erano state molte le
volte in cui erano riusciti a ritagliarsi un
momento di solitudine per dare sfogo a
quegli istinti insani e impuri.
Nessuno aveva mai sospettato nulla,
tranne Orsolya che non sembrava essere
più così contenta e ospitale quando
Bende si recava a Sarvar.
Ferencz non si era mai accorto di nulla.
La prima notte era talmente preso dal
piacere che non aveva prestato alcuna
attenzione alla facilità con cui era entrato dentro di lei; le macchie ematiche erano state semplici da produrre.
Erzsébet si rigirò nel letto, incapace di
prendere sonno.
Era preoccupata anche per la scarsità di
entrate che ormai minacciavano di far
collassare le sue ricchezze. Csejthe era
molto cambiata da qualche anno e molti
contadini erano ora liberi e non più assoggettati al suo volere e alle sue tassazioni.
Molti erano addirittura quelli che osavano lamentarsi di lei e delle sue presunte colpe.
Aveva già chiesto prestiti a parenti e
amici, ma infine era stata costretta a
vendere alcune delle sue proprietà per
far fronte alle spese di gestione delle
altre.
Era troppo nervosa per dormire. Niente
andava come avrebbe desiderato e qualcosa le diceva che i nemici erano ormai
troppi. Grazie al cielo poteva ancora
contare su persone amiche e influenti
come suo cugino Thurzò. Ora che era
diventato palatino dell’alta Ungheria,
poteva contare su di lui più di prima.
L’unica cosa che ancora lo minacciava
era il fatto che fosse protestante e per
questo non riusciva a guadagnarsi la
piena fiducia del re.
La preoccupava re Mattia, cattolico, con
le sue idee troppo liberali e così scarsamente dedito all’occulto. La preoccupava Emerich Megyery che ora stava nello
stesso castello di Sarvar con suo figlio
Pàl e chissà quali insegnamenti gli stava
impartendo.
La preoccupava anche Ponikenus che,
per quanto debole e vigliacco, avrebbe
potuto parlare con le persone sbagliate.
Non era riuscita a eliminarlo nonostante
avesse creduto che sarebbe stato semplice.
Si rigirò di nuovo e guardò quella grande stanza quasi con repulsione, come se
la considerasse quasi una prigione per la
sua anima. Quella stanza che aveva conosciuto tutto di lei e che aveva fatto da
sfondo a ore di lussuria, sembrava ora
così spoglia, triste e buia da somigliare
di più a una cripta.
V
Megyery si era alzato da poco e dopo
una colazione sbrigativa, si stava preparando per una delle lezioni mattutine di
Pàl Nàdasdy.
Era soddisfatto di quel giovane che,
grazie al cielo, era cresciuto distante da
quella sua madre priva di scrupoli e
posseduta dagli spiriti dell’inferno.
Si era fatto una promessa quando aveva
guardato negli occhi quella ragazzina di
cui non ricordava il nome e che aveva
aiutato a fuggire dal castello di Csejthe,
consigliandole di non rivelare mai nulla
a nessuno se ci teneva a rimanere in vita. Non era stata una minaccia la sua,
ma un avvertimento. Era preoccupato
che, come una sciocca, si confidasse
con qualcuno che poi avrebbe spifferato
tutto riportandola tra le grinfie spregevoli della contessa.
Doveva sparire, le aveva detto. Sparire
come se non fosse mai esistita.
Il vociferare sulle presunte azioni della
contessa si era fatto via, via sempre più
intenso e percepiva che non avrebbe
dovuto ancora attendere molto per tener
fede a quella promessa.
Tempo prima, un giovane contadino si
era presentato alle porte del castello di
Sarvar con l’aria sconvolta.
Voleva parlare con Pàl. Voleva chiedergli di intercedere a favore della sua
amata, ma Pàl non doveva sapere.
Pàl doveva rimanere estraneo agli atti di
sua madre e lui si era preso la responsabilità di ascoltare le parole di quel giovane che, tra le lacrime, gli aveva raccontato della sua amata Franziska.
Usava andare spesso al castello di Csejthe per portare frutta fresca e miele, ma
un giorno non era più tornata.
In paese tutti erano convinti che la contessa l’avesse divorata. Lui non aveva
dato troppo credito a quelle voci. Ne
parlavano come di una belva, ma lui
non voleva credere che fosse la verità.
Aveva aspettato giorni, settimane e poi
si era deciso e si era recato al castello.
Ad accoglierlo c’erano state due vecchie dall’aspetto malconcio e con lo
sguardo crudele.
Gli avevano detto di stare alla larga dal
castello e non gli avevano dato alcuna
spiegazione per la scomparsa di Franziska.
Aveva pensato così, di rivolgersi a Pàl.
Megyery sapeva esattamente che
cos’era successo a quella povera ragazza, ma non ebbe il coraggio di dirlo al
giovane. Gli disse però che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per far sì
che la contessa pagasse per tutte le sue
colpe.
Il giovane non era sembrato soddisfatto
della sua risposta, ma se n’era comunque andato e non aveva più fatto sapere
nulla di sé.
Qualche giorno dopo, Megyery si era
recato a Csejthe di nascosto e aveva insistito per parlare con Ponikenus.
In principio non lo aveva riconosciuto;
erano passati tanti anni e la vecchiaia lo
aveva reso diverso se non quasi irriconoscibile, ma quando aveva capito chi
fosse, aveva tentato in tutti i modi di
allontanarlo. La paura gli aveva fatto
sbiancare il volto, ma Megyery non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere.
“Sapete qualcosa e non volete parlare!”
lo aveva aggredito.
“Come potete chiudere gli occhi davanti
allo sterminio attuato da quella donna?
Come potete non sentirvi responsabile
di ciò che ha fatto e che voi avete taciuto?”
“Io non so niente!” aveva risposto lui,
allontanandosi in tutta fretta.
“Voi sapete eccome! Parlate o sarò costretto a trovare un modo per farvi pentire del vostro silenzio!” aveva insistito
Megyery, minaccioso.
Ponikenus si era seduto su di una rupe e
si era preso la testa tra le mani. Aveva
cominciato a singhiozzare come un infante e poi aveva sollevato il viso verso
di lui. Amarezza, paura, angoscia erano
dipinti in quegli occhi stanchi.
“Berthoni… Andràs Berthoni sapeva…
ha lasciato una lettera nella quale mi
avvertiva dei massacri che avvenivano
nel castello della Bàthory.”
Prese fiato e si guardò attorno.
“La lessi e la misi via senza prestare
troppa attenzione a quello che c’era
scritto. Pensavo fosse il delirio di un
pazzo. La contessa era così gentile con
me… e le sue spiegazioni, così credibili. Succedeva che dovessi dare le esequie a qualche giovinetta. Lei non era
mai presente, ma non mancava mai di
farmi avere una sua missiva nella quale
mi spiegava i motivi della dipartita.
Spesso erano banali incidenti, altre volte epidemie… non ebbi mai motivo di
dubitare.”
Si era fermato nuovamente. Il mento gli
tremava e gli occhi gli si erano riempiti
di lacrime.
“Fino a quando… una cassa si aprì per
sbaglio. Dentro c’erano i resti di una
fanciulla giovanissima… non più di
quindici anni. Era… devastata… irriconoscibile. Cominciai a sospettare, ma
non avevo prove per parlare… e poi chi
avrebbe creduto a me e non alla contessa?
Avevo paura e più ancora ne ebbi quando arrivò quella strega di Darvulia…
tentarono persino di avvelenarmi, sapete?”
Megyery aveva sospirato e scosso la testa senza intervenire. Voleva che Ponikenus parlasse a ruota libera per non
rischiare di fargli dimenticare qualcosa
o intimorirlo ancora di più.
“Ilona… voi forse non l’avete mai veduta… era così bella.” Aveva sospirato
asciugandosi le lacrime con la manica.
“Bella e brava. Cantava i salmi e allietava le feste al castello. Non so perché
se la prese anche con lei, ma una notte
mi chiesero di seppellirla. Fu allora che
decisi di riprendere la lettera di Berthoni e leggerla a fondo. Parlava della cripta dov’è custodito il corpo di Christofer
Orszàgh; diceva che in quella cripta,
riposavano le vittime della furia della
Bàthory.
Non mi è mai piaciuto disturbare i morti, ma quella notte decisi che dovevo
sapere tutto. Andai nella cripta e trovai
le bare di nove giovani. I loro corpi…
oh, se avesse visto quei corpi!” Aveva
sussurrato piangendo.
“Erano distrutti, smembrati, orribilmente mutilati…”
“Dobbiamo andare dal palatino e se non
basta, dal re in persona! Dobbiamo porre fine a questi massacri una volta per
tutte!” ringhiò Megyery.
“Per l’amor di Dio… non ci crederanno
mai! György Thurzò è parente della
contessa. Ci farà rinchiudere! Quanto al
re… bè… credo che già sappia qualcosa, ma forse non ha interesse a intervenire.”
“Vi sbagliate. Forse non ne ha le prove
e per questo non può intervenire, ma io
e voi queste prove le abbiamo e non potrà non ascoltarci e non dare un seguito
alla nostra denuncia. Tutta Csejthe, a
quanto ne so, vuole giustizia e non sarà
difficile avere testimonianze a nostro
favore.”
“Ci metteranno a tacere… vedrete…”
Aveva sospirato Ponikenus.
“Siate uomo una volta tanto e fate quel
che è giusto!” sibilò Megyery duro.
Ponikenus era sembrato assaporare
quelle parole. Il suo sguardo era puntato
su qualcosa in fondo alla strada.
“Avete ragione. Non posso più chiudere
gli occhi. Avrei dovuto tentare di andare
a Bicse tanti anni fa… ci provai sapete?
Ma mi trovarono e mi riportarono indietro… tentarono persino di uccidermi
con dei dolcetti avvelenati… gli diedi a
un maiale e lui morì…”
Si era alzato e aveva fatto qualche passo
verso la strada prima di voltarsi di nuovo verso Megyery.
“Venite. Vi farò leggere la lettera di
Berthoni e vedere la cripta di cui parla.
Avete ragione… non posso più tenere
gli occhi chiusi e quelle giovani meritano giustizia.
Emerich osservò l’orizzonte e il sole
infuocato che correva a nascondersi dietro le alture. Era solo questione i giorni
e poi anche Erzsébet avrebbe conosciuto il suo tramonto.
L’ultimo tramonto.
VI
Le giovani nobili erano già finite. Due
settimane e non aveva più una sola giovinetta da sacrificare.
Alcune erano state letteralmente macellate e le loro carni avevano allietato un
banchetto pochi giorni prima. tutti gli
ospiti avevano apprezzato la tenera carne di “cervo” senza porsi troppe domande sulla sua provenienza. La carne
di tre ragazze aveva nutrito una quindicina di persone. Il loro sangue aveva
ripulito la sua pelle e temprato il suo
stomaco. Altre erano state bruciate nel
camino, riempiendo i sotterranei di un
odore acre. Altre ancora erano state seppellite a Podoliè, lontano da quel verme
di Ponikenus.
Quel mattino era più rabbiosa del solito.
Sapere di non avere più scorte la faceva
infuriare. Ancor prima di concedersi la
colazione, aveva chiamato i suoi fedeli
servitori e aveva dato loro l’incarico di
trovare altre giovani per quella sera
stessa.
Dopo la brutta esperienza con la seconda giovane, aveva fatto in modo di non
farle morire troppo in fretta e, con alcune, si era davvero divertita.
Ogni volta che Dorkò dava loro il colpo
finale con un veloce taglio dei polsi,
percepiva l’essenza stessa della vita che
le riempiva le narici, gli occhi, la bocca… inalava i loro ultimi respiri, inebriata dall’odore del sangue e dal potere
che le dava il poter disporre a suo piacimento della loro vita.
Non le restava che aspettare.
Avrebbe passato la giornata a osservare
il lavoro delle domestiche e magari avrebbe avuto fortuna e ne avrebbe colta
qualcuna in flagrante.
Dorkò, Jò Ilona, Ficzkò e Kardoska si
ritrovarono fuori dalle mura che circondavano il castello. Nessuno osava fiatare, ma sui loro volti si poteva leggere
apprensione e preoccupazione.
“Diamoci da fare o non troveremo nessuna giovane per questa sera.” Disse
Ficzkò dopo qualche minuto di silenzio.
Si era divertito parecchio nelle ultime
due settimane. Aveva avuto la rossa di
quindici anni, la biondina di dieci,
l’altra biondina di dodici e parecchie
altre di cui non ricordava granché.
Tutte morte da pochi istanti, ancora tiepide e morbide e non troppo devastate
dalla ferocia della contessa. A lui piaceva che lei lo guardasse mentre se le fotteva. Gli piaceva che lei vedesse con
quale foga, con quale passione e con
quale violenza si muoveva dentro e fuori il loro corpo. E gli piaceva che lei vedesse quanto era dotato.
Non si preoccupava affatto della presenza fastidiosa di Dorkò, Jò e dell’altra
strega. Vedeva solo lei. La guardava e
pensava di essere sopra di lei. Di farla
godere.
“No… dobbiamo pensare anche a un
piano da mettere in atto se non troveremo abbastanza ragazze nobili. Lo avete
visto voi stessi… non è così semplice
trovare giovani nobili le cui famiglie
siano disposte a mandarle dalla contes-
sa. Un tempo sarebbe stato tutto più
semplice, ma ora, con le voci che si sentono in giro, molte famiglie non vogliono che le loro figlie vengano a Csejthe e
c’è da scommettere che la Brauffen abbia già messo sul chi va là molte delle
sue conoscenze.” Rispose Dorkò.
“Già… ma cosa faremo se non le troviamo?” chiese Kardoska che sembrava
già ubriaca alle prime luci dell’alba.
“Kata ha tenuto tutti gli abiti delle prime venticinque. Le ho detto di non bruciarli perché avrebbero potuto servirci.
Per la prima metà della giornata, cercheremo giovani nobili, ma se non riusciremo a trovarne abbastanza, ci daremo da fare e troveremo delle contadine.
Non sarà difficile farle passare per nobili quando le avremo ripulite e avranno
indosso quegli abiti.” Spiegò Dorkò.
Ficzkò ridacchiò voltandosi.
“Cos’hai da ridere stupido nano deforme?” l’aggredì Jò Ilona che fino ad allora era stata piuttosto silenziosa.
Ficzkò si girò verso di lei e le regalò
un’occhiata fulminante, carica di odio.
“Vi conviene trattarmi bene vecchia o
vado a spifferare tutto alla contessa.” La
minacciò.
“Piccolo schifoso, maledetto!” scattò in
avanti Jò, prendendolo per il bavero e
strattonandolo.
“Prima che tu abbia solo fatto in tempo
a entrare al castello, ti farò squartare da
Lazlo dicendogli che hai minacciato di
far del male alla contessa.” Minacciò
Dorkò, prendendo le difese di Jò.
Kardosca sorrideva come un’ebete senza prendere parte alla discussione.
“Non perdiamo altro tempo. Andiamo a
cercare le nobili. Quando si sarà fatto
mezzogiorno, cercheremo le contadine.”
Concluse Dorkò.
Si divisero come due settimane prima e
ricominciarono a bussare alle porte dei
castelli, porgendo la lettera della contessa.
Come aveva immaginato Dorkò,
l’impresa risultò difficile se non impossibile. Molte famiglie non vollero
nemmeno leggere la lettera che finì
prontamente tra le lingue di fuoco dei
camini. Altre non li fecero neppure en-
trare e anzi, li fecero allontanare dalle
guardie.
I pochi che li accolsero e che lessero la
lettera,
declinarono
gentilmente
l’offerta della contessa, senza dimenticare di pregarli di porgerle i loro cordiali saluti.
A mezzogiorno, dopo ore di cammino
sotto il sole caldo e decine di nobili famiglie visitate, Dorkò sospirò e si fermò
ai margini del bosco.
“Questa era l’ultima famiglia. Non ci
resta che cercare delle contadine. La
contessa ha esagerato. Troppe in sole
due settimane. Non ne troveremo altre
per molto tempo ancora e se le voci
continuano a essere così insistenti…
non ne troveremo più nessuna.”
“Anche con i contadini sarà difficile.”
Rispose Jò.
“Sì, ma abbiamo la fame dalla nostra.
Se anche avessero sentito qualche pettegolezzo, non si lascerebbero fermare.
Sono poveri e hanno fame. Hanno bisogno di lavorare e la contessa offre buone possibilità in quel senso. E poi ci sono molte famiglie nuove che vengono
da lontano. Magari non sono al corrente
di nulla.”
Dorkò e Jò cominciarono a battere le
zone in aperta campagna, dove qualche
piccolo centro abitato accoglieva poche
famiglie minacciate dalla più assoluta
povertà.
Ficzkò e Kardosca si erano separati per
avere maggiori possibilità di riuscita,
ma anche per loro, la mattinata risultò
infruttuosa. Ficzkò rischiò addirittura di
essere malmenato dalle guardie del barone Machaufen e fu costretto a fuggire
a gambe levate. Quando si ritrovarono
nel luogo in cui si erano dati appuntamento, furono costretti ad ammettere
che Dorkò aveva avuto ragione. Sarebbe stato meglio per loro trovare almeno
delle contadine da far passare per nobili,
perché se fossero ritornati a mani vuote,
la contessa non sarebbe stata clemente.
Vagarono di borgata in borgata, di paese in paese, di frazione in frazione, fino
a che non riuscirono a racimolare una
decina di giovani ragazze dell’età giusta
e dall’aspetto delicato. Ne avrebbero
trovate di più se si fossero accontentati
di giovanette piene, con i calli alle mani, ma non potevano rischiare di far capire alla contessa che quelle erano palesemente delle contadine.
Le famiglie avevano ascoltato le richieste e avevano accolto con entusiasmo la
proposta che la contessa faceva per
mezzo dei suoi servitori. Era una manna
dal cielo avere una figliola a servizio da
una nobile dama.
Era quasi l’ora del tramonto, quando i
quattro si incontrarono alle porte di
Csejthe con il loro bottino.
In tutto quindici ragazze, poco più che
bambine erano radunate dietro di loro.
Jò raccomandò ai tre di rimanere dove
si trovavano fino a quando non fosse
tornata con Kata.
In breve tempo la videro fare capolino
in compagnia della vecchia serva e far
loro cenno di raggiungerle velocemente.
Cercando di passare sotto le mura per
non farsi vedere, raggiunsero i sotterranei, dove Kata aveva disposto gli abiti
delle nobili vittime.
Le giovani ragazze presero tutto come
un gioco. Erano felici; glielo si leggeva
in faccia. Avevano trovato un buon lavoro e ora si apprestavano a fare un bel
bagno profumato e indossare abiti che
non avevano mai visto nemmeno nei
loro sogni più sontuosi.
Si fecero pettinare e acconciare i lunghi
capelli, fino a poco prima legati in semplici trecce. Oli essenziali furono massaggiati sulla pelle del viso per renderla
più luminosa e liscia e infine indossarono quei vestiti da fiaba.
Ridacchiando felici, si miravano l’un
l’altra, sottolineando quale enorme
cambiamento era stato apportato alle
loro figure. Si sentivano tutte delle principesse pronte per il loro ballo da sogno
e non vedevano l’ora di conoscere quella nobile contessa, così buona e caritatevole da aver dato loro una tale, inaspettata accoglienza.
Non tardò a esaudirsi quel loro stolto
desiderio. La contessa scese nei sotterranei un secondo dopo che Dorkò si era
liberata dei vecchi abiti maleodoranti
delle contadine e aveva vuotato l’acqua
usata per lavarle. Quando vide la contessa fermarsi alla base delle scale, de-
glutì e sbiancò, temendo che potesse
aver scoperto l’inganno.
Erzsébet era scesa perché insospettita
dai rumori che provenivano dai sotterranei e quando vide il nutrito gruppo di
fanciulle, un gran sorriso le illuminò il
volto.
Molte di loro lo scambiarono per una
dimostrazione di bontà, ma Dorkò conosceva quel atteggiarsi delle labbra,
che tutto era tranne quel che poteva
sembrare e lo riconobbe per ciò che era:
desiderio di ucciderle tutte senza aspettare un solo altro istante.
Erzsébet fece un cenno a Jò perché le
rinchiudesse tutte tranne una su cui aveva lo sguardo puntato. La giovane in
questione arrossì, sentendosi come sotto
esame. Forse aveva qualcosa che non
andava? Si domandò; poi notò la cella
aperta e le altre ragazze che vi venivano
spinte dentro a forza di spintoni.
Cosa stava accadendo?
Come mai quel cambiamento improvviso?
Dorkò continuava a sudare abbondantemente. Temeva che la contessa avrebbe chiesto di chi era figlia quella giova-
ne; a quale casata appartenesse. Non
temeva di non saper rispondere, ma di
essere smentita dalla ragazza. Forse Erzsébet non le avrebbe creduto, ma era
un rischio che non poteva correre.
“Vi consiglio di tapparle la bocca. Ha la
lingua troppo lunga.” Suggerì, sussurrandole all’orecchio.
Erzsébet assentì. Non amava le chiacchierone e, nel suo pensiero, una lingua
troppo lunga andava sempre punita prima ancora di fare danni irreparabili.
Jò legò la ragazza che iniziava ad avere
un’espressione spaventata e incredula.
“Che fate?” domandò ansimando e dibattendosi.
“Cosa vi avevo detto?” sottolineò Dorkò, allargando le braccia.
Erzsébet prese un grosso uncino e si mise davanti alla ragazza che aveva indossato il suo abito da sogno per appena
dieci minuti. Ora, nuda e infreddolita, si
guardava attorno con terrore.
“Tenetele la bocca aperta. Una lingua
lunga va punita.” Ordinò.
Dorkò e Jò fecero com’era stato ordinato e con gesti sapienti, Erzsébet uncinò
la lingua e la tirò fuori quel tanto che
bastava per mozzarla con un grosso coltello.
Fiotti abbondanti di sangue riempirono
la bocca della ragazza e imbrattarono le
maniche dell’abito di Erzsébet.
Incapace di parlare e persino di produrre suoni che somigliassero a delle grida,
la giovane si lasciò andare al pianto.
La lingua venne gettata tra le fiamme e
la giovane ne seguì la traiettoria col viso
distorto e rosso.
La contessa si allontanò di qualche passo come se volesse ammirare una rara
opera d’arte da un punto di vista migliore. Aggrottò le sopraciglia quando notò
alcune cicatrici sulla gamba destra. Cicatrici che non avrebbero dovuto esserci. Non sul corpo di una nobile.
Con cipiglio si voltò verso Dorkò. Una
muta domanda sul suo viso e il terrore
su quello della vecchia.
“Cosa sono quelle?” domandò indicando la gamba.
Dorkò fece finta d’essere stupita quando
vide le cicatrici.
“Non saprei… forse una caduta…”
“Mi stai mentendo?” domandò bruscamente, guardando i suoi servi, uno a
uno.
“No contessa! Come potete anche solo
pensarlo?” si difese Jò, atteggiando il
volto allo stupore più puro.
Forse era in una giornata buona o forse
aveva bisogno di credere che quella sera
avrebbe avuto il suo sangue in cui
sguazzare; sta di fatto che lasciò cadere
le accuse e si concentrò di nuovo sulla
giovane ormai esanime.
Sembrava non voler perdere troppo
tempo con quella prima vittima. Si limitò a qualche uncino piantato tra le dita
delle mani e dei piedi, l’asportazione
parziale degli organi genitali, per la gioia di Ficzkò (gli sarebbe andata meglio
con la seconda forse) e una serie di spilloni piantati a fondo nei capezzoli.
Dorkò la finì, come sempre, con un taglio netto dei polsi quando già la ragazza non sentiva più nulla.
“Fatene a pezzi il corpo. Ne gusteremo
le carni nel prossimo banchetto.” Ordinò la contessa, ripulendosi le mani dal
sangue.
Fu la volta della ragazza più giovane del
gruppo. Dieci anni appena. I capelli castani erano stati raccolti in due trecce
strette, arrotolate su se stesse e poi fermate sul capo da due nastri bianchi. Il
vestito le andava un po’ largo, ma Dorkò aveva usato un alto nastro stretto in
vita per far meglio cadere l’abito. Erzsébet la guardò e nei suoi occhi, per un
solo istante, ci fu qualcosa di umano. La
bambina la guardava con terrore, ma
non piangeva. Aspettava. Sembrava avvezza alle brutture e priva di aspettative
positive come non avrebbe dovuto essere una nobile viziata, cresciuta nella
bambagia.
La carnagione bianca e il viso emaciato
le ricordavano se stessa da bambina.
Aveva occhi profondi e scuri e labbra
carnose e rosee. Non abbassava lo
sguardo, ma non sembrava farlo per
amore di sfida. Sembrava solo pronta a
fare la fine che la contessa avrebbe deciso e questo un po’ la spiazzò.
Si abbassò sulle ginocchia e le sollevò il
viso con due dita. Lo sguardo era duro e
allo stesso tempo incuriosito.
“A quale casata appartiene questa giovane?” domandò infine Erzsébet, dando
vita alle preoccupazioni di Dorkò, che
sbiancò e fece un passo indietro senza
accorgersene.
“Dovete perdonarmi contessa… sono
stata io a reclutarla, ma nella fretta…
non ricordo di preciso dove l’abbia trovata.” Intervenne Jò Ilona con sicurezza, levando d’impaccio la compare.
La contessa sembrò poco soddisfatta
dalla risposta, ma non replicò. Si alzò e
fece cenno a Jò Ilona di svestirla e legarla. Gli occhi della bambina si riempirono di lacrime ancor prima che sentisse
le mani della serva trafficarle addosso.
“Io non ho fatto niente…” protestò debolmente la bambina.
“Lo so.” Rispose Erzsébet senza toglierle gli occhi di dosso.
Majorova arrivò in quel momento e si
mise a sedere a terra, nello stesso posto
che aveva occupato le volte precedenti.
La piccola, nuda, era appesa alle catene
e, con gli occhi chiusi, aspettava.
VII
Ponikenus e Megyery attendevano ormai da ore di essere ricevuti da György
Thurzò.
Dopo aver visto la cripta Megyery era
rimasto sconvolto nonostante già sapesse che cosa aspettarsi. Come poteva esistere una donna tanto crudele? Come
poteva averla fatta franca per tutti quegli anni?
Doveva scrivere la parola fine in modo
definitivo. Aveva aspettato già fin troppo tempo e mai si sarebbe perdonato di
non essere intervenuto prima. Pàl continuava a essere all’oscuro di tutto, ma
presto tutta quella storia sarebbe stata di
dominio pubblico e doveva pensar bene
a come prepararlo per affrontarla.
“Scusate se vi ho fatto aspettare. Una
riunione importante mi ha trattenuto più
a lungo di quanto credessi.”
Thurzò arrivò vicino a loro, salutandoli
con calore.
“Non vi preoccupate palatino, comprendiamo bene i vostri impegni.” Rispose Megyery stringendo la mano che
gli veniva offerta e ricambiando
l’abbraccio fraterno.
“Come sta il nostro giovane Pàl?”
“Oh bene, bene. E’ un bravo figliolo.
Studioso e assennato. Voglio presentarvi Jànos Ponikenus, sacerdote di Csejthe.”
Il sorriso sul viso di Thurzò scomparve
all’istante. Tutto ciò che aveva a che
fare con Csejthe non poteva che riguardare sua cugina e questo non era un bene.
Aveva già i suoi problemi a causa del
suo essere protestane e non gli servivano proprio altri guai, causati dalla cattiva nomea di sua cugina. Aveva sentito
molte cose riguardo a Erzsébet, ma non
aveva mai voluto approfondire di persona.
In principio aveva creduto che fossero
solo pettegolezzi messi in giro da qualche perditempo, ma poi le voci si erano
estese a macchia d’olio, arrivando per-
sino alle orecchie di re Mattia, che non
aveva perso tempo e aveva voluto parlarne con lui. In quell’occasione, Thurzò aveva tentato con ogni mezzo di deviare la discussione e sminuire
l’importanza e la fondatezza di quel vociferare, ma re Mattia non era uno stupido e non lo si poteva fregare con banali trucchi da teatrante. Aveva insistito
affinché lui parlasse con la contessa e
approfondisse l’argomento, ma non
l’aveva ancora fatto. Non ne aveva avuto il coraggio.
Non voleva che una simile macchia
sporcasse il nome dei Bàthory e ancora
di più dei Nàdasdy. Continuava, in cuor
suo, a sperare che non fossero altro che
le chiacchiere di qualche invidioso, ma
ora che si trovava faccia a faccia con
Megyery il rosso e con questo pastore di
Csejthe, tutti i suoi incubi tornarono a
tormentarlo, più forti di prima.
“Vi sentite bene?” domandò Megyery,
notando il pallore improvviso sul volto
di Thurzò e il suo prolungato silenzio.
“Sì… sì… cosa vi porta fino a Bicse?”
“Dobbiamo parlarvi di una faccenda che
si protrae da troppo tempo e che neces-
sità di un vostro intervento. Dobbiamo
parlarvi della contessa Bàthory.”
Ecco che gli incubi peggiori di Thurzò
si stavano avverando solo con la pronuncia di quel nome.
“Seguitemi. Andiamo in un luogo più
consono.” Rispose Thurzò in tono grave.
Percorsero il lungo corridoio ed entrarono in una stanza ampia, con una pesante scrivania intarsiata e comode poltrone coperte di un bel tessuto damascato, color verde cangiante.
“Accomodatevi vi prego.”
Megyery e Ponikenus presero posto sulle poltrone, mentre Thurzò si accomodò
dietro la scrivania.
“Ditemi.” Disse, tagliando corto.
Megyery raccontò tutto ciò che sapeva
sul conto della contessa e tutto ciò che
aveva saputo di recente da Ponikenus,
che si limitò ad annuire più volte, sempre con lo sguardo perso nel vuoto.
Thurzò ascoltò senza mai interrompere
e lesse con attenzione la lettera del predecessore di Ponikenus.
“Perché venite solo ora a parlarmene?”
domandò.
“Non ne avevamo le prove. Solo voci…
solo piccoli dettagli, ma ora, gli stessi
paesani di Csejthe urlano allo scandalo
e pretendono giustizia. È giunta voce
che molte nobili fanciulle siano scomparse oltre alle povere contadine. Il barone Cziraky e la baronessa Brauffen
sono venuti fino a Sarvar per farmi sapere che la contessa cercava giovani
nobildonne con la scusa di tenerle compagnia. Il barone ha mandato le sue figlie e di queste non ha avuto più alcuna
notizia. Era disperato palatino… non
potete immaginare la pena che
quell’uomo si porta ora nel cuore. La
baronessa Brauffen non ha mandato le
sue figlie perché già al corrente dei pettegolezzi che aleggiavano attorno alla
contessa.”
“Voi mi state dicendo che ha ucciso delle giovani nobili? Non è possibile! Non
può averlo fatto davvero! Siete certi che
non siano ancora vive… o che non siano morte per cause naturali…
un’epidemia magari… o un incidente?”
“No palatino… non sono morte per cause naturali e sono certo che non siano
più vive. Dovete intervenire subito.”
Rispose Megyery.
“Va bene, va bene… domani partirò per
Csejthe e parlerò con la contessa.” Disse alzandosi e guardando fuori dalla finestra. Le nuvole cominciavano ad addensarsi e minacciavano di far nevicare.
Non ci voleva anche questa! Pensò preoccupato.
“Sarebbe opportuno che partiste oggi
stesso. Un giorno di ritardo potrebbe
significare decine di vite innocenti perse.” Rincarò Megyery.
“Avete ragione Emerich. So che avete
ragione. Ebbene, partirò oggi stesso allora. Se è vero ciò che dite, la contessa
va fermata. re Mattia ne è al corrente?”
“Non ancora, ma lo sarà presto. Ci riceverà questo pomeriggio.”
“Pensate che sia il caso di metterlo a
parte di questa faccenda prima che io
abbia appurato di persona se sussiste o
meno un fondo di verità?”
“Sì, è meglio che lo sappia e dirò anche
quanto vi siete preso a cuore questa storia e che state intervenendo in prima
persona.”
“Vi ringrazio Emerich. Apprezzo molto
la vostra sincerità.”
Qualche breve saluto segnò la fine della
riunione e Megyery e Ponikenus si accomiatarono per continuare il loro viaggio verso Vienna.
Thurzò rimase così solo con i suoi pensieri. Se tutta quella vicenda fosse diventata di dominio pubblico sarebbe
stato un bel guaio. Si sedette allo scrittoio e scrisse ai figli della contessa una
lunga missiva, dove esplicava i fatti di
cui era venuto a conoscenza e richiedeva la loro presenza a Presburgo non appena fosse stato loro possibile.
VIII
Re Mattia era un uomo forte e tutto
d’un pezzo, senza grilli per la testa e
con un forte senso della giustizia. Anche lui aveva sentito delle voci sulle
strane abitudini della contessa, ma non
aveva mai avuto modo di approfondire
l’argomento. A dire il vero, non gli era
mai piaciuta quella donna, che trovava
sgradevole e oscura. Non aveva mai
compreso la simpatia di suo fratello
Rodolfo, per quella creatura del demonio.
Ma il fatto che a lui non piacesse non
gli dava il diritto di giudicarla per cose
che non conosceva.
Quel giorno avrebbe appresso una gran
quantità di cose riguardanti la contessa.
Forse più di quelle che avrebbe voluto.
Ad attenderlo c’erano ben quattro persone e tutte e quattro erano lì, casual-
mente, per lo stesso motivo: Erzsébet
Bàthory.
Il cardinale Forgàch, un rinomato consigliere, Emerich Megyery e un certo
sacerdote di cui non ricordava il nome,
lo attendevano in un salottino al piano
terreno.
Fece un profondo respiro e scese dai
suoi ospiti.
“Re Mattia! Vi porgiamo i nostri più
umili saluti.” Esordì il consigliere quando lo vide scendere le scale. Tutti si alzarono e s’inchinarono al suo cospetto.
“Vi prego. Lasciamo perdere le cerimonie. Abbiamo un argomento importante
da trattare e non voglio attendere oltre.”
Tagliò corto lui con la sua rinomata durezza.
Fece strada e mostrò loro una grande
stanza rettangolare con elaborate decorazione in stile italiano.
Fu il cardinale Forgàch a prendere per
primo la parola.
“E’ strano che ci siamo incontrati tutti
qui in questo giorno per affrontare il
medesimo problema. Non posso pensare
altro se non al volere di Dio.”
Re Mattia annuiva tenendo gli occhi
puntati sul cardinale.
“L’argomento è Erzsébet Bàthory, non
è vero?” domandò infine, già conoscendo la risposta.
Tutti annuirono silenziosi.
“Mi è giunta voce di alcune pratiche riconducibili alla stregoneria e perpetrate
ai danni di giovani vergini di estrazione
contadina e non. Non possiamo permettere che l’Ungheria venga scossa da simili atti demoniaci. In tutto il mondo si
stanno scoprendo focolai di stregoneria
e si stanno prendendo i debiti provvedimenti. L’Ungheria non può più chiudere gli occhi davanti a simili nefandezze.”
“Comprendo il vostro punto di vista
cardinale, ma non possiamo basarci su
delle voci. Abbiamo delle prove?” domandò serio.
“Se posso, vorrei comunicarvi che
Gyorgy Thurzò è partito questa mattina
per recarsi a Csejthe e valutare personalmente la realtà dei fatti.” Intervenne
Megyery.
“Bene. Questo è senz’altro un bene.
Nonostante il palatino abbia legami di
parentela con quella donna, confido nella sua lealtà verso l’Ungheria e nel suo
spirito d’osservazione.”
“Sarebbe meglio se il palatino fosse cattolico e non si ostinasse a rimanere protestante.” Puntualizzò il cardinale.
“Una giovane è sfuggita alla contessa
molti anni fa… aiutata da un uomo che
riconosco essere il qui presente Megyery.”
Megyery s’illuminò, pensando a quella
giovane e gioendo del fatto che fosse
realmente scampata alla malasorte.
“Durante una confessione, un sacerdote
in cui ripongo molta fiducia, è venuto a
conoscenza dei fatti che ora vi esporrò.”
Il cardinale raccontò con dovizia di particolari e lasciò poi il tempo a re Mattia
di digerirli.
Lo stesso fece Megyery con qualche intervento di supporto da parte di Ponikenus.
Il consigliere si limitò a dare la sua testimonianza che però non rivelava nulla
di più delle precedenti.
“Fra non molto dovrà tenersi una seduta
di parlamento. Faremo in modo di convocare tutti coloro che dovranno parte-
cipare e di farli convergere a Csejthe.
Voglio vedere con i miei occhi quella
donna!” tuonò re Mattia che se solo avesse potuto, avrebbe voluto strozzarla
con le proprie mani.
Ciò che aveva sentito raccontare dai
quattro uomini andava al di là di quello
che avrebbe potuto immaginare. Sentir
parlare di simili torture, uccisioni e atrocità lo aveva fatto infuriare e non avrebbe lasciato che tutto questo continuasse. Thurzò avrebbe fatto meglio a
portargli delle prove e a non tentare in
alcun modo di proteggere la cugina, o
avrebbe assaggiato lui stesso la sua
vendetta.
IX
La contessa era furibonda.
Aveva già scagliato a terra tutto quel
che poteva e ora camminava a grandi
passi nella sua stanza, sbraitando contro
tutto e contro tutti.
Dorkò e Jò furono allontanate dalla
stanza ed Erzsébet rimase sola con Erza
Majorova.
“Guardatemi vecchia! Guardatemi!”
gridò Erzsébet.
“Non ha fatto nulla il sangue di quelle
sgualdrine nobili! Perché?” gridò.
“Dovete avere pazienza contessa. Vedrete che non ci vorrà ancora molto per
vedere dei risultati.” Cercò di calmarla
Majorova.
“Vi giuro che vi ucciderò con queste
stesse mani se non vedrò davvero i miglioramenti di cui andate blaterando!”
“Se mi ucciderete, il mio spirito tornerà
a tormentarvi per il resto dei vostri
giorni.” Minacciò Majorova indispettita
dal tono della contessa. Lei era una
strega e il fatto che avesse accettato di
aiutarla, non le dava il diritto di comportarsi come fosse una sua serva.
Fece per uscire dalla stanza, ma un pesante oggetto di metallo le sfiorò
l’orecchio e andò a cozzare con un tonfo sordo contro la porta, facendola vibrare.
“Non vi azzardate mai più.” Minacciò
senza voltarsi.
Erzsébet non tollerava quel suo modo di
fare. Non era abituata ad avere a che
fare con una donna che non ammetteva
la sua superiorità. Nel giro di pochi secondi immaginò un’infinità di torture da
infliggerle, ma poi deglutì la rabbia come un boccone amaro e si diresse verso
la finestra.
Quando udì la porta aprirsi e richiudersi, corse verso di essa e chiamò Jò Ilona
a gran voce.
La vecchia arrivò di corsa, ansimando,
dalle scale.
“Ditemi contessa.”
“Portami una serva qualsiasi, purché sia
giovane.” Sibilò, lanciando fiamme saettanti con gli occhi scuri che si erano
ridotti a due fessure maligne.
Jò, sparì e tornò in pochi minuti con una
giovane tozza e dall’aspetto malaticcio.
Non era esattamente ciò che avrebbe
voluto. L’avrebbe preferita bella e aggraziata, ma si accontentò e senza dire
una parola, piantò i denti nella spalla
scoperta della giovane.
Lei gridò, ma subito si portò una mano
sulla bocca, ricordando che la contessa
non sopportava le urla. Sopportò stoicamente il morso e guardò la contessa
con occhi sgranati quando vide il suo
stesso sangue macchiarle il mento e un
brandello di carne che spariva tra le sue
labbra rosse.
Voltandosi vide il solco lasciato dal
morso.
Erzsébet fece un gesto per comunicare a
Jò che poteva portarla via.
Quella mattina, Erzsébet si cambiò
d’abito più di venti volte e ogni volta
trovava qualche impercettibile difetto
nel vestito o nella sua figura. Si fece
pettinare per ore davanti alla finestra, da
cui entrava un sole pallido e senza calore. Cambiò acconciatura più volte. Una
volta era troppo tirata, un’altra volta
troppo morbida, un’altra ancora asimmetrica.
In tutta la sua vita, quei cambi d’abito e
quei cambi di acconciatura erano stati
una regola, ma quel giorno sembrava
che nulla potesse soddisfarla.
Forse il fatto che si stessero avvicinando le festività natalizie le creava più ansie del dovuto quell’anno.
Ci sarebbero stati i soliti banchetti a cui
presenziare e non si sentiva abbastanza
in forma per far fronte agli sguardi della
gente. Non poteva sopportare l’idea che
qualcuno notasse una ruga che l’anno
prima non c’era o semplicemente, non
sopportava di non essere ammirata e desiderata come succedeva in gioventù.
Il suo desiderio più grande in quel momento era credere alle promesse di Majorova oppure non presenziare affatto ad
alcun banchetto.
Forse avrebbe potuto darsi malata… in
fondo non sarebbe stata che una piccola
bugia a fin di bene.
Si sarebbe scusata e avrebbe passato il
Natale in solitudine, magari passando il
tempo con qualche giovane nobile rimasta a tenerle compagnia nei sotterranei.
Qualcuno bussò alla porta distogliendola da quei pensieri. La fanciulla fermò il
pettine che da ore lisciava i capelli folti
e lucidi che quella stessa mattina erano
stati acconciati decine di volte.
“Entrate.”
La figura di Dorkò apparve sulla soglia.
Sembrava imbarazzata e timorosa di
comunicare qualcosa.
“Allora! Parla o vattene!” sbraitò la
contessa, infastidita dall’interruzione.
“C’è una visita per voi contessa.”
Erzsébet aggrottò le sopraciglia e il cuore prese a batterle più forte.
Chi poteva essere?
Non aspettava nessuno e aveva come
l’impressione che quell’inaspettata visita non portasse buone nuove.
“Chi?” domandò secca.
“Vostro cugino… György Thurzò.”
Erzsébet sentì piombarle addosso tutti i
timori che avevano popolato i suoi peggiori incubi. Cos’era venuto a fare il pa-
latino? Non si poteva certo trattare di
una visita di piacere.
“Di a mio cugino che scenderò appena
sarò pronta.”
Dorkò richiuse la porta e i suoi passi
pesanti percorsero il corridoio e poi le
scale.
“Acconciami e questa volta bada bene a
non metterci troppo tempo e a non sbagliare.”
La fanciulla armeggiò per quasi un’ora
con i capelli della contessa e finalmente
applicò l’ultima forcina.
Erzsébet si rimirò nello specchio voltandosi da ogni lato con sguardo critico.
Si lisciò l’abito scuro con pesanti ricami
dorati sul corsetto e sul davanti della
gonna ampia. Fece scivolare qualche
goccia di olio profumato al gelsomino e
inumidì la parte dietro le orecchie e alla
base del collo scoperto. Si fece aiutare
ad applicare la gorgiera di perle e fu
pronta.
Scendendo le scale, ebbe il solo desiderio di sfuggire a quell’incontro, ma, respirando a fondo, si fece forza e provò a
sorridere.
Thurzò era seduto su di una bella cassapanca in mogano, ricoperta da cuscini
rosso scuro. A ben guardare quel mobile, si sarebbe potuto scambiarlo per una
bara.
“Cugina! Che piacere vedervi!” la salutò, alzandosi e andandole incontro.
Stupita da quell’accoglienza e sospettosa più del solito, ricambiò l’abbraccio
con freddezza e si lasciò andare a un
breve sorriso di circostanza.
“Cosa vi porta fino a Csejthe, cugino?”
domandò lei senza girare intorno al
problema.
“Ho da domandarvi alcune cose.” Rispose lui con tono grave.
“Di quali cose state parlando?”
“Cugina… speravo fosse più facile, ma
non so come affrontare il discorso. Ciò
di cui vi devo parlare è molto grave, e
l’unica cosa che spero è che mi convinciate che ciò che ho saputo non sia altro
che un insieme di pettegolezzi dettati
dall’invidia e dalla cattiveria.”
“Arrivate al punto cugino.” L’incalzò
lei.
Thurzò prese la lettera portatagli da
Megyery e Ponikenus e la porse a Er-
zsébet che allungò la mano e con sguardo truce iniziò a leggerla.
Più andava avanti nella lettura e più il
suo viso si faceva scuro e preoccupato,
ma quando giunse alle ultime righe,
scoppiò in un’inaspettata risata.
Rise facendosi venire le lacrime agli
occhi e Thurzò rimase interdetto da
quella reazione. Non sapeva in che modo interpretarla. Sperava che quello di
Erzsébet fosse sincero divertimento per
aver letto delle eresie e non, come invece credeva, una sorta di delirio isterico
per essere stata scoperta.
“Voi credete a ciò che è riportato in
questa lettera?” domandò, improvvisamente seria.
“Siete voi che dovete convincermi che
non è vero.”
“Quindi devo difendermi dalle accuse di
un morto? Devo provare la mia innocenza? Credevo che fosse necessario
provare la colpevolezza e non
l’innocenza!” rispose acida.
“Avete ragione cugina, ma la faccenda è
seria e molte personalità importanti vogliono vederci chiaro. Troppe persone
parlano di voi nei termini descritti in
quella lettera.”
Erzsébet gettò a terra la pergamena con
rabbia e disgusto e si allontanò da Thurzò. Appoggiò le mani bianche sullo
sguscio della cornice sopra il caminetto
scoppiettante e rimase immobile a godere di quel calore infernale.
“Sono tutte fandonie. È questo che volete sentirmi dire? Oppure desiderate torturarmi per ottenere una confessione?”
“Cugina, cercate di capire e di essere
ragionevole. Non voglio che voi confessiate nulla che non avete fatto, ma ho
bisogno che mi diciate la verità.”
“La verità… chi siete voi per stabilire
quale sia la verità?”
Thurzò non rispose a quella domanda e
abbassò lo sguardo a terra. Se aveva avuto dei dubbi prima di vedere Erzsébet, ora quei dubbi non esistevano più e
aveva la certezza che ciò che aveva letto
in quella lettera e ciò che gli avevano
raccontato, era pura verità. Non voleva
però che nessun altro lo sapesse. Che
danno sarebbe stato per la sua immagine! Che danno avrebbe arrecato a tutti i
Bàthory valorosi e a tutti gli eroici Nàdasdy?
“Nulla di ciò che è scritto in quella lettera è vero. Quelle giovani le ho fatte
davvero seppellire io, ma sono morte in
seguito a una brutta epidemia scoppiata
nel castello e per cui io stessa ho rischiato il contagio.” Spiegò senza voltarsi.
“Ma per quale motivo avete voluto che
fossero seppellite in piena notte e perché furono messe nella cripta?”
“Cos’avrei dovuto fare? Farle seppellire
in pieno giorno, scatenando il terrore di
un contagio in tutto il castello o peggio… in tutto il paese? La scelta della
cripta è stata fatta da Berthoni… forse
per il timore che anche da morte potessero far dilagare la malattia a chi si recava al cimitero… dovreste domandarlo
a lui, ma dal momento che non potete…
dovrete accontentarvi delle mie spiegazioni.” Concluse voltandosi.
Thurzò soppesò quelle parole in silenzio, guardando un pesante arazzo che
raffigurava una battuta di caccia e che
trovava di pessimo gusto. In
quell’arazzo, le bestie uccise grondava-
no sangue e trasmettevano il terrore della morte.
“Perché Berthoni avrebbe scritto questa
lettera di accusa? Perché chi ne era in
possesso ha fatto in modo che arrivasse
nelle mie mani e, ancora, perché tutte
queste persone che parlano di macabri
riti, torture, uccisioni?”
“Invidia. Non so quale altra spiegazione
possa esserci. Torture? Uccisioni? Ma
andiamo cugino! Sono severa e questo è
risaputo. Punisco duramente gli errori
della mia servitù, ma mai e poi mai mi
spingerei a torturare o uccidere! Forse
le persone che parlano in questo modo,
lo fanno per colpirmi per qualche motivo che ignoro.” Ribatté.
Thurzò fece un passo verso di lei, ma
poi parve cambiare idea e si fermò.
“Cugina… porterò le vostre spiegazioni,
ma aspettatevi che torni perché non so
se basteranno a convincere re Mattia.”
Erzsébet sussultò al sentir pronunciare
quel nome.
“Re Mattia?” domandò brusca.
“Sì… sono certo che a quest’ora sarà
già al corrente di tutto e dovrò rispondere a molte sue domande. La famiglia
Bàthory vanta molte personalità di spicco fin dalla notte dei tempi, sia del ramo
Somlyò, sia del ramo Ecsed e voi appartenete a entrambi. Non dimentichiamo
poi il vostro indissolubile legame con
una famiglia altrettanto importante come i Nàdasdy. Sarà nostra premura non
portare avanti queste dicerie, ma sarà un
duro lavoro.”
“Sono pronta a far fronte a qualsiasi tipo di diceria, come la chiamate voi, ma
ricordate che re Mattia non mi ha mai
apprezzata. Non quanto suo fratello Rodolfo. Questo potrebbe portarlo a conclusioni affrettate.”
“Non temete per questo. Re Mattia non
si farà influenzare dalla simpatia o
dall’antipatia che prova per voi. Confido nel suo essere al di sopra di questi
sentimenti.”
“Ebbene… avete ancora qualcosa da
dirmi?” domandò Erzsébet infine.
“No. Porterò la vostra testimonianza a
Presburgo e farò in modo che tutto questo non abbia un seguito.” Disse riprendendo il suo mantello e uscendo senza
perder tempo in saluti.
Quando fu fuori dal castello, assaporò
l’aria pungente e pura dell’inverno.
Qualche fiocco di neve scendeva lento
dal cielo bianco. In pochi attimi, il pallido sole di quel giorno era stato coperto
dalle nubi minacciose e tanto chiare da
far male agli occhi.
Qualcosa in quel castello gli faceva venire i brividi. Scuro, triste, troppo silenzioso e abbandonato nel nulla. Nel tempo trascorso tra quelle mura, il suo corpo era stato percorso più volte da lunghi
brividi. Gli stessi che le streghe dicevano essere la carezza degli spiriti. Se così
era davvero, in quel castello c’erano
molti spiriti senza pace.
Non aveva creduto a una sola parola
della cugina. La sua bocca diceva una
cosa, ma i suoi occhi non riuscivano a
mentire; non riuscivano a nascondere la
sua vera anima nera.
Durante il viaggio di ritorno, cercò di
non pensare a Erzsébet e di riposare in
vista della visita che avrebbe dovuto fare la sera stessa a re Mattia, ma ogni
volta che chiudeva gli occhi, centinaia
d’immagini terrificanti si affacciavano
alla sua mente, ridestandolo con brutali-
tà. Le immagini dell’arazzo si mescolavano con quelle più reali di donne grondanti sangue, con gli occhi bianchi e
ciechi e le labbra dischiuse su lunghi
denti acuminati che si aggiravano per i
corridoi del castello di Csejthe, mentre
da un imprecisato antro, provenivano le
risate diaboliche di sua cugina.
Uno scossone lo avvertì che erano ormai arrivati. L’ansia gli attanagliò le
viscere quando vide l’entrata di palazzo
reale. Mai era stato così intimorito da
Vienna e dalla sua bellezza senza tempo.
Si fece annunciare e attese che re Mattia
lo invitasse a seguirlo in una delle svariate stanze adibite a studio, ma quando
lo vide arrivare, ebbe la forte tentazione
di fuggire a gambe levate.
Se avesse difeso a spada tratta Erzsébet,
avrebbe rischiato di essere preso per un
traditore della corona, ma non voleva
avere sulla coscienza la disperazione dei
figli della contessa, perché, n’era certo,
loro non sapevano nulla e non potevano
pagare con l’ignominia le colpe della
madre.
“Non credevo sareste stato di ritorno
così presto.” Esordì re Mattia squadrandolo con sospetto.
“Non era necessario che io mi fermassi
a lungo a Csejthe.”
“Che cosa dice a sua discolpa la contessa?”
“Pensa di non doversi difendere perché
non ha commesso nulla di ciò che le si
attribuisce.”
“E voi cosa ne pensate?” chiese subdolamente e Thurzò fu certo che quella
domanda lo volesse mettere a disagio.
“Cosa posso dirvi maestà… è una donna dura, forte e caparbia, ma non credo
che sia arrivata al punto di perpetrare
simili atrocità. Ha ammesso di essere
stata spesso dura con la servitù, di aver
inflitto punizioni severe, ma questo non
va al di là dei suoi poteri.”
“Mi state dicendo che non avete scorto
la verità in fondo ai suoi occhi?” domandò ancora e Thurzò si sentì avvampare. Come faceva a sapere dei suoi occhi? Come faceva a sapere che non era
riuscito a trovare verità nelle sue parole,
ma nei suoi occhi sì?
Fece un passo indietro, intimorito.
“Sembrate spaventato? Vi sentite bene
palatino?”
“Sì… io non credo di essere la persona
giusta per giudicare la contessa… il mio
legame di sangue non mi permette forse
di essere obiettivo.”
“Mi stupite palatino.” Rispose, abbozzando un sorriso crudele.
“Ci sarà la seduta di parlamento subito
dopo Natale, a Presburgo. Chiederemo
ospitalità alla contessa e sarò io stesso a
guardarla negli occhi e giudicarla, se è
questo ciò che volete. Io non mi farò
certo intimorire dalle sue nobili nascite,
né dal suo essere una Nàdasdy. Nessuno
può fare ciò che ha fatto quella donna e
passarla liscia… questo è certo.” Concluse con stizza, allontanandosi a grandi
falcate e lasciando Thurzò solo con i
suoi nuovi fantasmi.
PARTE
QUARTA
I
Arrivavano da ogni dove e non poteva
far nulla per mettere fine a quella continua consegna di missive in cui le più
importanti personalità ungheresi le
chiedevano ospitalità per le prossime
feste Natalizie.
Odiava le imposizioni e queste richieste
lo erano.
Non poteva rispondere in maniera negativa, ma era obbligata a fare buon viso a
cattivo gioco. Per giorni interi avrebbe
dovuto occuparsi di far preparare le
stanze per gli ospiti che da tempo immemorabile non venivano visitate da
nessuno, far procurare frutta e verdura,
far spolverare il servizio di porcellana,
far pulire tutto da cima a fondo. Si sarebbe stancata oltre ogni limite e forse
non avrebbe avuto il tempo e la forza
per occupasi di se stessa.
Il mal di capo non le dava tregua. Troppe preoccupazioni l’assillavano giorno e
notte. Il viso era tirato e stanco ancora
prima di cominciare quel tour de force.
Scagliò con violenza un vasetto di grasso che si preoccupava di stendere ogni
mattina sulla pelle del viso. Si prese la
testa tra le mani e digrignò i denti facendosi venire una fitta lancinante alla
mandibola.
Majorova entrò nella stanza senza bussare e questa sua mancanza di rispetto,
la fece sbottare.
“Maledizione! Maledizione!” tuonò con
le lacrime agli occhi.
Majorova lasciò che la contessa riprendesse possesso di se stessa e che la crisi
isterica si placasse un poco.
“Cosa volete?” domandò infine, rabbiosa.
“Potrebbe essere una buona cosa contessa.” Disse ghignando.
“Cosa state dicendo? Di quale buona
cosa andate farneticando?” gridò.
“Del fatto di avere tutti i vostri nemici
riuniti qui al castello. Quale migliore
occasione per servire loro un buon pasto
e un buon dolce?” domandò lasciando
che Erzsébet trovasse da sola un senso a
quelle parole.
Per la prima volta, sembrò stupita. Si
massaggiò la fronte alta e passeggiò
verso la finestra tenendo un braccio
stretto all’altezza della vita, come avesse mal di stomaco.
“Mi state dicendo che tutto questo potrebbe andare a mio favore? Che il destino ha voluto che io avessi tutti i miei
nemici riuniti e che io posso sfruttare
quest’opportunità?”
Majorova annuì ridacchiando.
“E come avete in mente di fare?” domandò incuriosita e improvvisamente
calma.
“Conoscete bene la mia abilità nel preparare veleni mortali e tra pochi giorni,
il demonio camminerà sulla terra e li
renderà ancora più forti. Il giorno del
solstizio precisamente è un giorno importante per il demonio. Il suo potere si
stende sulla terra, aiutato dalla notte più
lunga dell’anno e dà più forza magica
alle erbe malefiche e ai rituali. State
pronta perché la notte del 24 dicembre
sarà la più importante della vostra vita.”
Spiegò prima di uscire dalla stanza.
Erzsébet non poteva ancora credere che
tutta la rabbia provata fino a quel momento fosse scemata e che quello sgradito imprevisto stesse diventando la sua
più importante possibilità.
Megyery, re Mattia e tutti quelli che avevano osato andare contro di lei, stavano per andare all’inferno e lei li avrebbe aiutati a far sì che la loro dipartita fosse veloce quanto dolorosa.
Per non rischiare di esser sola in mezzo
a tanti nemici, invitò tutti i nobili che
possedevano castelli nelle vicinanze.
Ingaggiò una delle più rinomate orchestre per allietare il banchetto e fece persino chiamare un abile giocoliere.
Avrebbe stupito i suoi ospiti e li avrebbe confusi con la sua impeccabile organizzazione e ospitalità.
II
Quella notte, le stelle sembravano non
voler rischiarare il cielo e la luna pareva
essere stata cancellata. Il giorno del solstizio d’inverno che per tanti anni era
stato festeggiato proprio il giorno in cui
ora si festeggia il Natale, era considerato una porta energetica. Abbandonati i
suoi ospiti nelle sicure stanze del castello, Erzsébet e Majorova partirono per
dare luogo al rito più antico.
In ogni cultura, il 25 dicembre era giorno di grandi festeggiamenti insieme alla
notte che lo precede. Gli egiziani festeggiavano la nascita del dio Horus, gli
amerindi, la nascita di Quetzacoalt, in
Persia si cantava l’inno che raccontava
la nascita del mondo, i germani festeggiavano Yule in relazione al culto di
Odino.
Nell’antica Roma si festeggiavano i Saturnali, che cominciavano il 19 e terminavano il 25. Per tutti questi popoli, il
momento del solstizio era associato al
rinnovamento. Alla fine della tenebra
che ammanta la terra. All’avvento del
nuovo sole che torna a scaldarla.
Lo stesso Mithra (dio indo-iraniano) fu
adottato dai romani e se ne festeggiava
la nascita il 25 dicembre. Era associato
al sole e rappresentato nell’atto di uccidere un toro con due dadoscuri a fianco
e che rappresentavano proprio il cammino dell’astro, poiché avevano una
fiaccola rivolta verso l’alto (solstizio
d’estate) e una verso il basso (solstizio
d’inverno).
Solo in un secondo momento, il cristianesimo aveva fagocitato queste antiche
cerimonie, sostituendole con le proprie,
in modo da eliminare i troppo radicati
festeggiamenti pagani.
Come Samhain era divenuta la festa di
ognissanti, il giorno del solstizio (Dies
solis invictis per i romani e Yule per in
germani) divenne il giorno della nascita
di Gesù.
Furono astuti i cristiani perché cercarono di mantenere molti dei tradizionali
festeggiamenti, soprattutto perché vi era
un culto che molto li preoccupava. Il
culto del dio Mithra, troppo simile al
loro Dio. Troppe similitudini con
l’ultimo pasto di Gesù, l’ascesa in cielo
e molto altro.
Avrebbero potuto scegliere un qualsiasi
giorno dell’anno per collocare la nascita
di Gesù perché in realtà non si è mai
saputo con certezza il giorno in cui avvenne (se avvenne), ma il rischio di essere una religione in secondo piano era
troppo alto. Mescolarono abilmente alcuni dei più antichi simboli con la nuova religione e sostituirono le feste inglobando molti dei riti preesistenti.
Così Gesù ebbe la sua corona di raggi
solari richiamando il culto del Dies solis
invictis, il sangue e il corpo di cristo divennero il vino e il pane richiamando il
culto di Mithra, come anche il giorno
della sua nascita. L’ostia fu tonda richiamando l’idea dell’astro da sempre
venerato. La rappresentazione della
Madonna con il bambino in braccio fu
stranamente somigliante a Iside con in
braccio Horus.
Vennero mantenute le fiaccole, le candele, i falò, tipici della festa del solstizio
e che richiamavano alla mente la battaglia della luce contro le tenebre (la stessa combattuta da Dio contro Satana).
Ma nessuno meglio delle streghe, sapeva il reale significato di quella magica
notte in cui la tenebra ammanta tutto e
gli spiriti del male camminano sulla terra per portare un po’ del loro potere ai
riti malvagi.
Nascoste dalla notte più lunga, le anime
perdute comunicavano col male, eseguivano riti, amavano il malvagio, bruciavano erbe e invocavano il potere del
vecchio che ancora non aveva ceduto il
passo al nuovo.
In quella notte, Erzsébet camminò nel
bosco in compagnia di Majorova e
giunse nel suo cuore più nero per richiamare a sé tutto il potere oscuro di
cui aveva bisogno.
Il buio era totale a parte il baluginio della poca neve che era riuscita a penetrare
nella fitta boscaglia. Majorova accese
due fiaccole e le piantò a fatica nel ter-
reno reso duro dal gelo. Al centro di un
girotondo di alberi, giacevano accatastati sottili rami e grossi ciocchi, in attesa
di essere arsi.
Majorova diede fuoco ai ramoscelli che,
data l’umidità, stentavano a incendiarsi
e vi gettò sopra una bracciata di mandragora e di belladonna.
Attesero in silenzio fino a quando il focherello non divenne vivace e, solo allora, si tolsero i pesanti abiti lasciandoli
scivolare a terra.
Il corpo cadente e rivoltante di Majorova era rosso per i riflessi del fuoco, ma
Erzsébet vide distintamente disegnarsi il
volto del maligno sul suo ventre molle.
Rabbrividivano nel freddo e godevano
del poco calore che i loro corpi riuscivano a immagazzinare da quelle fiamme.
“Il potere del maligno mi riscalda e mi
da vita. Come le fiamme infinite
dell’inferno, la mia anima arderà per
sempre nel sacro amplesso donato dal
male.” Disse Majorova chiudendo gli
occhi e allargando le braccia.
Erzsébet ripeté il saluto al maligno.
“Queste tue serve sono al tuo cospetto,
nella notte più lunga e buia, per renderti
i loro servigi e i loro omaggi. Manifestati e avrai i nostri corpi. Manifestati e
noi ti doneremo tutto ciò che nascondiamo. Il nostro prezioso tesoro. Il nostro segreto e la nostra anima.” Ripeterono insieme.
“Lascia che il buio colmi i nostri corpi
col suo antico potere. Lascia che il nostro grembo si riempia del tuo essere e
dacci l’immenso dono di cui disponi per
porre fine alla persecuzione della tua
serva.”
Erzsébet sussultò e aprì gli occhi di
scatto. Aveva percepito con distinzione,
delle dita gelide sfiorarle la schiena e
scendere verso le natiche. Un brivido
d’eccitazione saettò in tutto il suo corpo. Richiuse gli occhi e ripeté la cantilena di Majorova, credendoci ancora di
più. Ci mise davvero l’anima in quella
nenia. Con gli occhi chiusi, il suo senso
dell’udito e del tatto si acuirono magicamente. I fruscii dei rami divennero
voci profonde e penetranti; la farinosa
neve, alzata da un inconsueto vento, le
sferzò le gambe e anziché provocarle
brividi di freddo, sembrò infuocare la
pelle. Il desiderio s’insinuò in lei più
forte che mai.
Majorova preparò uno dei suoi intrugli
e con fiducia estrema, Erzsébet lo trangugiò in un sol sorso. Era amaro e acido
al contempo. Tanto cattivo da provocarle diversi conati, che però trattenne con
forza.
“Apri gli occhi, oh serva del maligno e
unisciti a lui.” Ordinò Majorova.
Erzsébet aprì gli occhi. La testa girava e
il senso di nausea le attanagliava le viscere, ma ancora più forte era il calore
che sentiva crescere tra le cosce. Si sentiva umida e desiderosa. Le fiamme si
piegarono un poco, sospinte dal vento.
Il legno scoppiettava ferocemente sottolineando l’ardua battaglia del fuoco con
l’umidità contenuta nei ciocchi.
“Lo vedo…” disse stupita in un sussurro.
Non riusciva a chiudere le palpebre. Era
come ipnotizzata. Dalle fiamme stava
prendendo forma la figura di un uomo.
Alto, con le spalle quadrate e possenti, i
fianchi stretti, le gambe erano un fascio
di muscoli guizzanti.
Non si distinguevano i lineamenti del
viso che rimanevano in ombra anche
dinnanzi alle fiamme. Lunghi capelli
scuri sfioravano la schiena. Erzsébet fece un passo indietro. Era la prima volta
che vedeva con i suoi stessi occhi il maligno e non era come lo descrivevano.
Non era brutto, cornuto e con le zampe
di capra. Era bello e perfetto come nessuno. Da lui trasudavano sesso, potere,
forza e oscurità.
Le fu accanto e le sue mani si posarono
a coppa sui seni. Abbassò il viso e leccò
con voracità i capezzoli. La lingua era
ispida come fosse cosparsa di sottilissimi aculei. Il dolore si mescolò al piacere. I denti affondarono della carne ed
Erzsébet gridò senza ritrarsi e anzi, desiderando ancora di più.
Inebriata dall’intruglio appena bevuto e
dall’odore del sesso, si gettò a terra e
spalancò le gambe in un estremo invito.
Lui si chinò su di lei e senza aspettare
oltre, la penetrò con violenza.
Erzsébet ansimò sotto il peso di quel
corpo e il suo sesso, come una bocca
avida, risucchiò il sesso del maligno.
Era freddo e bruciante al contempo.
Grosso e lungo. Le provocava ondate di
piacere e di immenso dolore. Si sentiva
come lacerata da quelle misure e dalla
violenza con la quale le venivano spinte
dentro.
Udiva in lontananza la nenia di Majorova che osservava compiaciuta.
L’amplesso durò a lungo ed Erzsébet
raggiunse il piacere tante di quelle volte
da non riuscire a tenerne il conto e ogni
volta che il piacere scemava, lasciandola intorpidita, ne desiderava ancora e
ancora.
Dopo un tempo infinito che potevano
essere ore o giorni, la figura del maligno si inarcò sopra di lei e un suono
gutturale e prolungato accompagnò le
ritmiche pulsazione del suo pene.
La sua essenza si diffuse dentro di lei e
le gelò le viscere. Sentì quella sensazione in ogni parte del corpo. Nell’addome
come nelle braccia. Nel torace come
nella testa.
Riaprì gli occhi e vide dinnanzi a sé solo Majorova con un lungo bastone.
Il maligno era sparito così com’era apparso.
“Siete pronta ora. Nulla più si metterà
sul vostro cammino se voi non lo vorrete. Ho raccolto le piante di cui avremo
bisogno. Non resta che portarle al castello e compiere il rito.”
Erzsébet si alzò, con la testa che girava
ancora e le membra indolenzite dal
freddo e dall’estasi amorosa. Entrambe
si rivestirono e conclusero il rito prima
di incamminarsi per tornare al castello.
Facendo attenzione a non far troppo
rumore, le due scesero nei sotterranei. I
paioli di rame richiesti da Majorova
quella stessa mattina, attendevano appoggiati a terra, il fuoco scoppiettava
ancora. La madia era pronta e cumuli di
belladonna e mandragora aspettavano
d’essere usate.
Majorova versò l’acqua verdastra in cui
avevano bollito per ore le erbe magiche
e la versò in un grande bacile di rame.
Vi aggiunse l’acqua fredda del fiume,
portata da Dorkò quel pomeriggio stesso e gettò due manciate di belladonna
tra le fiamme e tre di mandragora.
Sulla madia erano pronte la farina, le
uova, il miele e tutti gli attrezzi necessari per confezionare una torta.
“Entrate nell’acqua. Dovete tenere lontani i pensieri e ripetere finché non vi
dirò di smettere, il vostro nome.”
Erzsébet annuì. Abbandonò gli abiti e si
avvicinò al bacile. Allontanò dalla sua
mente tutti i pensieri che fino a quel
momento avevano vorticato incessantemente. Ancora pregna dell’odore del
bosco e del maligno, s’infilò nell’acqua
a malapena tiepida e di colore verde
scuro. Si massaggiò la pelle e ripeté il
suo nome decine e decine di volte.
L’acqua sembrava pizzicarle la pelle.
Orinò, lasciando che parte di lei si mescolasse a quell’acqua, continuando a
ripetere il suo nome.
“Ora alzatevi e chiudete il cerchio.” Ordinò Majorova, indicando un simbolo
disegnato per terra e un pezzo di carbone.
Erzsébet, ancora nuda, si chinò e chiuse
il cerchio disegnandone l’ultimo segmento con il carbone.
“Potete andare contessa. La torta sarà
pronta per domattina.” La congedò Majorova mentre già prendeva l’acqua di
cui aveva bisogno per l’impasto.
“Quest’acqua contiene parte della vostra anima. Quella che rimarrà, dovrà
essere rigettata nel fiume con attenzione
per liberare la parte di anima che vi ha
rubato.”
Erzsébet annuì, riprese gli abiti senza
infilarli e salì le scale. Se qualcuno
l’avesse vista aggirarsi per i corridoi del
castello completamente nuda, avrebbe
certamente creduto che fosse folle, ma
nessuno la vide.
Il castello era immerso nel silenzio.
Raggiunse la sua stanza e vi si chiuse
dentro, ripensando a quanto era stata
bella la sua unione col maligno e già
rimpiangendo di non poterla ripetere se
non al solstizio dell’anno successivo.
III
Quella notte, Thurzò fece un sogno da
cui si svegliò madido di sudore e con il
fiato corto. La sua adorata moglie, preoccupata, gli fece portare un infuso
calmante e a nulla servirono le sue domande. Thurzò non volle rivelarle il sogno appena fatto. L’avrebbe sconvolta e
preoccupata e questo non lo voleva.
Fuori era ancora buio, ma già si avvicinava l’ora della partenza per Csejthe.
Forse era stato questo a provocare quel
sogno.
Aveva visto Erzsébet aggirarsi nuda nel
castello, in mano aveva un cuore pulsante, il suo, ed era nero e viscido. Un
grosso buco nel torace in cui ardevano
fiamme oscure. Lunghi denti acuminati
e gli occhi vuoti.
Incapace di riprendere sonno, si alzò.
Anche Megyery il rosso fece un sogno
simile e diede la colpa alla cena troppo
sostanziosa della sera precedente. Anche lui si apprestò a preparare il necessario per la partenza.
Re Mattia non fece sogni di alcun tipo o
per lo meno non ne ricordò nemmeno
uno quando venne svegliato dai rintocchi delle campane.
Ponikenus non chiuse quasi occhio e
per questo non fece alcun sogno. Non
avrebbe partecipato al pranzo natalizio
al castello di Csejthe, ma la sua mente
sarebbe stata lì per tutto il tempo. Avrebbe pregato affinché re Mattia ponesse fine alle atrocità commesse dalla
contessa.
Ma c’era qualcun altro che non riusciva
a prender sonno quella notte.
Una giovane serva, arrivata da poco a
Csejthe aveva udito dei rumori e un andirivieni di passi. Non era avvezza alla
vastità di quel castello e non conosceva
gli ordini della contessa. Non sapeva
infatti che nessuna serva doveva permettersi di uscire dalla propria stanza se
non esplicitamente invitata a farlo. Così
aveva preso una candela ed era uscita
stringendosi addosso lo scialle di lana.
Si era nascosta dietro un angolo e spento la candela quando aveva visto due
figure scendere nei sotterranei. Aveva
Aspettato e con passo leggero, era scesa
nei sotterranei. Aveva udito le parole di
Majorova, il senso del rito, il risultato
che si prefiggevano le due. Con la mano
sulla bocca per trattenere lo stupore e la
paura, era risalita di corsa con i piedi
nudi che appena sfioravano il pavimento gelido.
Si era chiusa alle spalle la porta della
stanza che divideva con le altre e si era
gettata sul letto.
Aveva tirato le coperte fin sulla testa e
non era riuscita più a prendere sonno.
Era finita nella casa di una strega!
Cosa poteva fare per avvertire il re che
correva un grave pericolo?
IV
Le porte del castello si aprivano e si richiudevano per lasciar entrare ora un
barone, ora un conte.
La tavola era imbandita. Le candele dorate spandevano la loro tenue e calda
luce.
Il
focolare
scoppiettava,
l’orchestra suonava allegre canzoni
mentre le domestiche si davano da fare
per portare ogni tipo di salsa, verdure
cotte, carni, pane ancora fumante e
brocche di vino.
Le donne erano agghindate e sfoggiavano gioielli elaborati che impreziosivano
i decolté, adornavano i capelli raccolti o
le dita affusolate.
Molte erano giovanissime e fresche come boccioli di rosa. Altre attempate e
non più belle.
Gli uomini le prendevano fra le braccia
e le facevano roteare al ritmo delle ballate più allegre, in attesa di vedere la
padrona di casa e di accogliere l’arrivo
del re.
La giovane domestica insonne portò
bracciate di legna per rinvigorire il fuoco. Non era suo compito occuparsi del
rifornimento di legna, ma si era offerta
volontaria e l’anziana domestica che
avrebbe dovuto farlo al posto suo e che
era afflitta da dolorosi reumatismi, non
aveva fatto che ringraziarla. Mentre usciva nuovamente nel freddo gelido di
dicembre, vide finalmente arrivare una
carrozza e facendo finta di scegliere i
ciocchi migliori, si attardo nella legnaia.
Quando la carrozza si fermò, vide il re
scendere in compagnia di Megyery e
del cardinale Forgàch. Corse a perdifiato sperando che nessuno la notasse e si
fermò bruscamente davanti a loro, rischiando di scivolare sul ghiaccio.
“Perdonatemi…” disse ansimando e
guardandosi intorno impaurita.
Megyery le si avvicinò e le posò una
mano sulla spalla.
“Non temere… siamo qui per porre fine
a tutto.” Disse.
La giovane scosse la testa e prese fiato.
Con una mano poggiata sul cuore come
a sottolineare la sua sincerità disse: “
Non mangiate la torta. Non mangiatela
vi prego.” Ansimò.
“Cosa dici?” intervenne re Mattia fissandola con insistenza.
“E’ avvelenata.” Continuò lei e corse di
nuovo verso la legnaia con il cuore che
le rimbombava nelle orecchie più per la
paura di essere stata vista che non per la
corsa. Non sapeva se le avrebbero creduto e sperava non la seguissero fin lì.
Mise il viso fuori e vide che i tre parlottavano tra loro e poi si dirigevano verso
l’entrata.
La giovane chiuse gli occhi e prese un
profondo respiro prima di caricarsi di
ciocchi e tornare dentro.
C’erano tutti. Tutti coloro che avrebbero presenziato alla seduta di parlamento
a Presburgo e anche molti nobili espressamente invitati dalla contessa.
La musica si fermò quando il re fece il
suo ingresso e tutti porsero i loro saluti
con profondi inchini e parole di augurio.
Fu allora che la contessa fece la sua
comparsa in cima alla scalinata.
“Buonasera mie cari. Spero di non avervi fatto attendere troppo.” Disse con
ostentata sicurezza.
Il silenzio cadde nella sala. Ognuno di
loro la guardava con ammirazione, stupore, timore e curiosità.
La pelle era lucida e bianca, la bocca
rossa più delle ciliegie mature. Gli occhi
già scuri e profondi per natura, erano
ancora più intensi grazie al sapiente
trucco.
I capelli erano cosparsi di perle e pietre
preziose e l’immancabile gorgiera le
stringeva l’esile collo. In un fruscio di
velluto, scese la scala e tutti gli invitati
le porsero il loro saluto e il loro ringraziamento per la bella festa.
Re Mattia rimase immobile e attese che
fosse lei a muovere verso di lui per salutarlo. Erzsébet non sopportava
d’essere inferiore a nessuno, nemmeno
al re, ma fu costretta ad avvicinarglisi e
inchinarsi al suo cospetto.
“Contessa Bàthory, siete più affascinante che mai e la vostra ospitalità insuperabile.” Disse lui senza sorridere.
“Sono felice che sia di vostro gradimento.” Rispose quasi sibilando.
Si voltò verso gli altri invitati e scorse
Megyery. Un moto di rabbia le rivoltò
lo stomaco, ma fingendo un’assoluta
indifferenza, invitò tutti a prendere posto a tavola.
Le salse accompagnarono la carne ben
rosolata di lepre, mischiata a quelle di
alcune serve uccise due giorni prima. I
complimenti per la tenerezza e il gusto
impeccabile la fecero sorridere.
Il vino scese a fiumi nei calici e sciolse
anche le lingue più legate. Le mani arraffavano la carne, spezzavano il pane,
alzavano i calici. Le bocche masticavano rumorosamente, inghiottivano, trangugiavano, ridevano e parlavano sputacchiando saliva, residui di cibo,
spruzzi di vino. Erzsébet toccò appena
un trancio di carne. Non aveva fame.
L’unica cosa che desiderava era che
quella giornata finisse in fretta; riappropriarsi del castello, ascoltare il silenzio
e dimenticare i nemici. Un sorriso le si
dipinse sul viso.
Il ricordo della notte precedente non faceva che balenarle nella mente e infon-
derle un senso di serenità e potere. Percepiva ancora le mani gelide sul suo
corpo, l’eccitazione, l’inebriante afrore
delle erbe bruciate.
“Vi state divertendo?” domandò Megyery a un certo punto. Non lo aveva
sentito arrivare quando dalla sua postazione si era spinto fin dietro la sua sedia.
“Come voi d’altronde.” Rispose irritata.
“Presto non avrete più quel sorriso, ve
lo avevo promesso tanto tempo fa e ora
siamo arrivati alla fine contessa.” Le
sussurrò all’orecchio.
“Non credo sappiate ciò che state dicendo Emerich. Il tempo mi darà ragione.”
Megyery fu sul punto di rivelarle che
sapevano che la torta che avrebbe fatto
il suo ingresso di lì a poco era avvelenata, ma si morse il labbro e lo tenne per
sé. Perché rovinare la sua attesa?
Sorridendo vittorioso, tornò a sedersi al
suo posto e alzò il calice in direzione
della contessa che ricambiò il brindisi.
I piatti di portata furono tolti dalla tavola. Il pane avanzato raccolto in una cesta e il vino cambiato. Due giovani ser-
ve fecero il loro ingresso con un vassoio
grande quanto la ruota di una carrozza.
Sul vassoio, una torta dall’aspetto magnifico faceva bella mostra di sé.
Altre quattro serve misero i piatti puliti
e aiutarono le due a posare la torta su di
un vicino tavolino.
Erzsébet aveva uno sguardo beato e un
lieve sorriso. Aveva ragione Megyery:
era arrivata la fine… ma non certo per
lei.
“Oh ma che splendore!” disse la baronessa di fronte a lei quando fu posata la
fetta nel piatto. Alcune gocce di miele
scendevano lente da sopra la morbida e
dorata crosta.
Tutti ebbero la loro fetta nel giro di pochi minuti. Anche lei ebbe la sua fetta di
torta che naturalmente non avrebbe toccato.
“E’ uno splendido dolce contessa. Ricordate alla vostra cuoca di dare la ricetta alla mia!” disse Megyery sogghignando.
Le forchette incisero il dorato dolce e le
bocche lo masticarono con golosità. Il
miele produceva dolci filamenti che si
posavano sulle barbe lunghe e sui menti
glabri. Non ne rimase una sola briciola… tranne nei piatti della contessa, di
Megyery, del cardinale Forgàch, in
quello del re e in quello di Thurzò,
prontamente avvertito da Megyery poco
prima che il pranzo avesse inizio.
Erzsébet osservò quei piatti ancora pieni
con il terrore e la rabbia dipinti sul viso.
I suoi nemici non mancarono di annuire
col capo per comunicarle che sapevano
e che quel dolce non avrebbe mai incontrato i loro palati.
Erzsébet prese a guardarsi intorno, alla
ricerca di un viso colpevole. Le domestiche andavano e venivano per portare
altro vino e altra acqua o per togliere di
mezzo i piatti vuoti. Solo una cercò con
lo sguardo i piatti pieni e poi sollevo il
viso verso di lei.
Doricza.
“Era superba questa torta!” disse la baronessa di fronte a lei.
Erzsébet annuì continuando a guardare
fisso gli occhi di Megyery. Se avesse
ascoltato il suo istinto, sarebbe corsa
verso di lui e gli avrebbe spinto in bocca tutta la fetta di torta. Se non fosse
morto per il veleno, sarebbe morto per
soffocamento. Ma non poteva. Non poteva fare più nulla se non difendersi con
le unghie e con i denti come aveva
sempre fatto da che era nata.
Il pranzo finì. L’orchestra suonò per tutto il giorno. Il giocoliere allietò il pomeriggio fino a che giunse la sera e l’ora
della cena.
La gran parte degli invitati si chiuse nelle stanze e non presenziò alla cena a
causa di forti dolori all’addome e crisi
di vomito e dissenteria. Fu data la colpa
a una qualche forma di influenza. Alcuni di loro morirono nelle settimane seguenti; altri riuscirono a scamparla con
imponenti cure.
I giorni di festa terminarono e gli ospiti
partirono.
Non si fece parola della faccenda che
sarebbe stata discussa in parlamento ed
Erzsébet rimase di nuovo sola nel suo
castello. Furiosa più che mai. Per giorni
interi non mise piede fuori dalla sua
stanza nemmeno per mangiare o bere.
Tra le mani stringeva la pergamena con
le maledizioni fatta da Darvulia. Ripeté
infinite volte le frasi che avevano per
soggetto i suoi nemici, ma neppure quel
rito riusciva a calmarla e a farla sperare
in un cambiamento positivo della sua
situazione.
Per la prima volta in tanti anni, pianse.
Le lacrime le ricoprirono il volto e scesero luccicanti sull’abito. Il trucco si
sciolse sugli occhi dandole l’aspetto di
una grottesca maschera, ma non poteva
far pena quello spettacolo della contessa
piangente.
Non piangeva per tristezza, per dolore o
perché d’improvviso si fosse resa conto
di tutto il male arrecato. Piangeva di
rabbia, di frustrazione come quei bambini capricciosi che non possono avere
ciò che vogliono, quando vogliono e si
lasciano andare a un accesso d’ira violenta.
“Jò!” gridò con la voce rotta.
“Sì contessa.” Arrivò lei di corsa.
“Porta quella nuova. Come si chiama…
Doricza, nei sotterranei.”
“Sì contessa.” Rispose sorridendo. Non
le era piaciuta fin dal principio quella
nuova serva. Troppo bella, troppo bionda. Con quegli occhi grandi e luminosi
del colore del cielo.
Erzsébet scese veloce le scale e ordinò
che venissero preparati in fretta e furia i
bauli. Doveva abbandonare il castello,
ma prima avrebbe punito come si doveva quella lurida cagna.
Avrebbe pagato caro quell’affronto!
V
La seduta era cominciata.
Un castellano era stato ascoltato per
molte ore riguardo ciò che si diceva accadesse nel castello di Csejthe. Fu depositata la lettera di Berthoni e ascoltati
Megyery e Ponikenus.
Il re ascoltava incredulo.
Thurzò aveva già provveduto a convocare e spiegare tutto ciò che si stava verificando ai generi di Erzsébet che non
riuscivano a capacitarsene.
Per amore delle loro mogli e del loro
buon nome, chiesero che tutto rimanesse segreto, ma Thurzò non credeva che
tale soluzione avrebbe accontentato re
Mattia né tantomeno la chiesa.
“Questo è ciò che succede da anni a
Csejthe maestà. Gli stessi abitanti chiedono giustizia e che si faccia luce su
questa vicenda. Molte sono le ragazze
scomparse e non solo contadine.” Terminò il castellano.
“Dovete recarvi subito a Csejthe.” Ordinò il re, guardando Thurzò.
“Vi chiedo qualche giorno maestà.” Rispose titubante. Una goccia di sudore
gli solcò la fronte.
“Non abbiamo già atteso troppo a lungo?” domandò duro Megyery.
“Non saranno che pochi giorni…” cercò
di spiegare il palatino, ma il re alzò una
mano e lo zittì.
“Non attenderemo oltre. Partirete oggi
stesso e metterete la contessa di fronte
alla verità. Pretendo che tutto questo
abbia fine. Io non osavo credere a certe
voci che pure si udivano già da tempo.
Non credevo che una donna potesse arrivare a tanto.”
Nella stanza scese il silenzio.
“Dio non può aver creato un tale mostro. È certamente opera del demonio.”
Disse il cardinale Forgàch.
“Sarà la chiesa a stabilirne la condanna.
Per lei e per i suoi accoliti.”
“No!” sbottò Thurzò facendo voltare
tutti verso di lui.
“No… perdonatemi, ma dobbiamo pensare alla sua famiglia. Non dimenticate
l’onorabilità della famiglia Bàthory;
non dimenticate l’eroicità della famiglia
Nàdasdy. E poi i suoi figli… che ne sarà
di loro se la cosa diventasse di dominio
pubblico? Cos’accadrebbe?”
“Voi state dicendo che quell’essere del
demonio non va punito per ciò che ha
fatto solo in funzione della sua nobile
origine? Voi mi state dicendo che la vita
di centinaia di innocenti non ha valore
di fronte alla sua nobiltà?” chiese rabbioso il cardinale.
“Chiedo solo che si rifletta sulla condanna da applicare. Il convento di Varanò potrebbe essere la sua dimora futura. La preghiera potrebbe salvare la sua
anima come il vostro cristianesimo insegna.”
Il cardinale rise amaramente.
“Questo è ciò che dobbiamo attenderci
da un palatino protestante.” Sentenziò.
Thurzò si morse la lingua per non replicare.
“Ora basta. Si farà ciò che io dico.
Thurzò si recherà a Csejthe e la contessa subirà la giusta condanna. La nobiltà
e l’onorabilità delle famiglie da cui proviene non la salverà dalla giusta punizione. Per quanto riguarda i suoi accoliti… il rogo li attende.” Concluse re
Mattia.
Thurzò abbassò la testa e annuì debolmente prima di abbandonare la stanza e
dirigersi verso Csejthe. Durante il viaggio fece fermare la carrozza più volte,
con l’intento di rimandare l’incontro
con la contessa o forse per darle il tempo di fuggire.
Il suo legame di parentela con lei avrebbe di fatto provocato un’onta indelebile su di lui e sui figli di Erzsébet.
Non poteva non tenerne conto.
Il sole era pallido e alto nel cielo. Le
giornate riprendevano ad allungarsi, regalando qualche momento di luce in
più.
Quando arrivò in prossimità del castello
fece di nuovo fermare la carrozza. Un
senso di ansia gli provocava una forte
nausea. Passeggiò sbuffando nuvole di
vapore acqueo, sfregandosi le mani
fredde, infine risalì sulla carrozza. Non
poteva più rimandare oltre.
VI
Doricza venne scagliata giù dalle scale.
Rotolò più volte, provocandosi dolorose
contusioni alle braccia e alla fronte. Si
fermò contro il pavimento di pietra. Sollevò a fatica il viso e vide davanti a sé
una cella in cui erano rinchiuse cinque
giovani ragazze nude. Tossì e un rivolo
di sangue le uscì dalla bocca. Con mano
tremante si asciugò le labbra e guardò
con terrore il sangue che vi si era depositato.
Qualcuno la prese per i capelli costringendola a mettersi in ginocchio e poi ad
alzarsi. La trascinarono all’indietro e
rischiò più volte d’inciampare nei vari
dislivelli della pietra. Due vecchie, che
riconobbe come Jò Ilona e Dorkò, le
sollevarono le braccia e la incatenarono
stringendo forte polsi e caviglie. Stava
succedendo tutto talmente in fretta da
non darle il tempo di domandarsi cosa
avessero intenzione di farle. Improvvisa
come un fulmine, le tornò alla mente
l’immagine di lei che sollevava il piatto,
si guardava attorno per controllare che
il re non avesse mangiato la torta e poi
si voltava, come al rallentatore, e i suoi
occhi incrociavano quelli della contessa.
Cos’aveva letto in quello sguardo?
Che sapeva. Questo aveva letto. Non
sapeva come potesse averne la certezza,
ma di sicuro sapeva e se non si faceva
scrupoli ad avvelenare il re… che
cos’avrebbe potuto fare a lei?
I passi in fondo al corridoio le fecero
venire i brividi. Erano lenti, cadenzati,
come se volesse tenerla sulle spine. Farla aspettare in modo che immaginasse
da sola le torture più orribili. Le ragazze
nella cella piangevano e si stringevano
l’un l’altra per combattere contro il
freddo e contro la paura. Doricza abbassò lo sguardo ai loro piedi e vide qualcosa che per poco non le fece perdere la
ragione.
Un brandello di carne ancora attaccato a
un braccio di donna e un altro poco più
in là che somigliava… no, era un polpaccio!
Solo in quel momento notò le labbra
delle ragazze. Erano coperte di rimasugli di sangue, così come le mani.
Avevano mangiato una persona!
Erano state costrette da chissà quanti
giorni di fame, a cibarsi di una di loro.
Una di loro che probabilmente aveva
patito torture orribili e che poi era stata
smembrata e gettata nella cella.
D’improvviso cominciò a girarle la testa
e davanti a sé, la figura scura della contessa si stava avvicinando con in mano
quel che poteva sembrare una lunga frusta.
“Come hai osato?” domandò Erzsébet.
“Non ho fatto niente… lo giuro… non
ho fatto niente.” Cercò di difendersi.
“Io so che non è vero come lo sai tu.
Niente può venirmi nascosto. I tuoi occhi sono incapaci di mentire e per questo ti verranno risparmiati. Voglio guardarli e vederci dolore e terrore, fino a
quando la morte non ne spegnerà la luce.”
“No, vi prego… no!” gridò lei.
“Zitta!” le intimò Jò colpendola con un
bastone sulla nuca.”
Un rivolo di sangue scese sulla schiena.
“Vuoi sapere che cosa ti accadrà dopo
quello che hai fatto?” domandò Erzsébet godendo nel vederla terrorizzata e
inerme.
“Tutto il tuo corpo proverà il dolore più
puro e intenso. Ogni parte di te sarà battuta e niente e nessuno potrà salvarti.”
Le fece il giro attorno, seguendo il profilo del corpo della giovane con il manico della frusta. Si fermò dietro di lei e
prese a frustarla con un odio e una forza
tali da strapparle grida acute e incessanti, fino a quando la contessa non comandò a Dorkò di tapparle la bocca con
qualsiasi mezzo.
Mentre sulla schiena le si aprivano profondi solchi, Dorkò chiuse le labbra di
Doricza con gli spilloni. Le frustate
continuarono per un tempo infinito e
poi d’improvviso si fermarono. Jò prese
un grosso barattolo e v’immerse la mano.
Solo quando il contenuto del pugno le
fu gettato addosso, seppe di cosa si trattava: sale.
Un bruciore lancinante, unito al dolore
la portò vicina allo svenimento.
Majorova non era presente quel giorno,
ma avrebbe di certo approvato quella
nuova pratica.
Ficzkò dal canto suo, rimaneva in attesa
di una possibile amante.
Doricza chiuse gli occhi, esausta, ma
una sberla potente la costrinse a tornare
vigile. Gli spilloni si conficcarono ancora più in profondità e uno le trapasso la
lingua.
“Ti piace il re?” domandò Erzsébet,
passando la frusta a Dorkò che riprese a
sferzare la schiena e le gambe.
“Lo so che non puoi parlare, ma… fai
dei cenni. Ti piace il re?” domandò ancora.
Doricza sapeva in cuor suo che anche se
avesse mentito, questo non le avrebbe
potuto salvare la vita.
Annuì.
“Ti eccita? Vorresti aver il suo corpo
sul tuo?”
Doricza non rispose subito. Non aveva
mai provato l’amore fisico. Non sapeva
esattamente che cosa volesse dire, ma di
certo il re era un uomo affascinante. Chi
mai gli avrebbe detto di no?
Annuì.
Erzsébet sbottò in una risata così forte
da far quasi tremare le mura.
“Una serva! Una misera serva senza futuro che s’invaghisce del re e crede di
potersi mettere contro di me per salvargli la vita! Credi forse che lui si ricorderà di te? Credi forse che ti abbia guardata come si guarda una donna? Sei una
vile, schifosa, sporca, ignorante serva!
Solo questo sei.”
Le parole della contessa le fecero più
male ancora delle frustate. Era una serva, sì, ma era anche una donna. Una
donna buona e curiosa che se solo avesse avuto le possibilità, avrebbe studiato
il latino e i grandi poeti. Invece era nata
povera. Aveva dovuto presto mettere da
parte tutti i suoi sogni e rimboccarsi le
maniche.
Era certa di avere tanto da dare e tanto
da imparare, ma forse la vita non gliene
avrebbe data la possibilità.
Era altrettanto certa che il re era sopravvissuto grazie a lei e se ne sarebbe
ricordato anche se fosse morta.
Aveva fatto ciò che andava fatto; ciò
che era giusto fare e, anche sapendo
quale prezzo stava pagando, l’avrebbe
fatto in ogni caso.
Le lacrime scesero a bagnarle il viso e
si maledisse per non essere riuscita a
trattenerle; per aver ceduto al dolore
dell’anima, quando era riuscita a combattere così coraggiosamente quello del
corpo.
“Cosa ti accade? Sei pentita?” domandò
Erzsébet fraintendendo quel pianto.
Doricza aprì gli occhi e senza farsi impressionare, affrontò lo sguardo della
contessa.
Scosse la testa in segno di diniego.
Il sorriso sbiadì sul volto di Erzsébet e
al suo posto comparve una sorta di ringhio.
Dorkò riprese a frustarla e Jò a spargere
manciate di sale sulle ferite aperte.
Presa dalla furia e senza più nessun autocontrollo, Erzsébet prese tutti gli arnesi depositati sul tavolo. Piantò gli uncini nei seni, con un paio di grosse tenaglie tranciò i capezzoli, piantò sottili
coltelli nei piedi, con le pinze strappò
via le unghie.
Nonostante tutto, Doricza non svenne e
non morì. Continuò a sopportare, mugolando, tossendo sangue che le si riversava dagli angoli della bocca cucita.
Finiti tutti gli strumenti, prese
l’attizzatoio, lo lasciò nel fuoco fino a
che la punta non divenne incandescente
e poi corse verso la sua vittima. Le
gambe di Doricza non fecero resistenza
ed Erzsébet infilò l’attizzatoio là dove
nessun uomo ancora aveva avuto il
permesso di entrare.
Doricza fu colta da uno spasmo. Gli occhi si girarono nascondendo l’iride.
Erzsébet spinse con tutte le forze nonostante le resistenze degli organi interni,
fino a che la punta stessa
dell’attizzatoio non fuoriuscì dalla
schiena.
Doricza vide solo buio. Dov’era la luce
di cui tutti parlavano?
E poi eccola! La vide. Una luce intensa
e calda e la figura del re che le veniva
incontro porgendole la mano e sorridendole.
Dorkò tagliò la gola della giovane e attese che anche l’ultima goccia di sangue
scendesse nella vasca.
Erzsébet era fradicia di sudore e sangue,
affannata e spettinata.
Si guardò le braccia come se non fossero le sue e un’espressione di disgusto le
si dipinse sul viso. Era tutta sporca. Doveva cambiarsi. Doveva rendersi presentabile. Non poteva certo rimanere in
quello stato!
Passò davanti alla cella e si soffermò a
guardare le ragazze che aspettavano il
loro turno. Tremavano, piangevano e
cercavano di non guardarla. Sorrise gustando e immaginando le prossime torture, ma prima doveva cambiarsi
quell’abito così rovinato e sporco.
Salì in fretta le scale, soddisfatta per ciò
che aveva appena fatto a quella serva
traditrice. Si gettò nella stanza e si
strappò l’abito di dosso. Con una pezza
umida, si ripulì il viso, il collo, le braccia e parte dei capelli che cercò di sistemare.
Prese un abito scuro di velluto e lo infilò in fretta e furia. Era pronta per tornare nei sotterranei quando qualcuno bussò alla porta.
Chi poteva disturbarla?
“Cosa volete?” domandò acida senza
invitare il disturbatore a entrare.
“C’è una visita per voi contessa.”
Una visita? E chi poteva essere ancora?
“Di chi si tratta?”
“Vostro cugino contessa. Ha urgenza di
parlarvi.”
Ma com’era possibile che fosse di nuovo a Csejthe? Perché non la lasciavano
in pace?
“Digli che sto scendendo. Fallo attendere nello studio accanto al salone.”
La domestica si allontanò dalla porta e
in fretta e furia, Erzsébet s’imbellettò il
viso, si ravviò un poco i capelli per dare
un’idea di compostezza. Controllò di
aver tolto tutte le macchie di sangue e si
preparò alla fuga.
Con addosso un mantello pesante che
copriva l’intera figura, scese piano le
scale e si fiondò nelle cucine. Da lì, uscì
dalla porta accanto alla legnaia e camminando radente il muro, arrivò fin nelle stalle, dove Lazlo era impegnato a
rastrellare il fieno.
“Prepara la carrozza, presto.” Sussurrò
facendolo spaventare.
“Contessa! Non mi aspettavo una vostra
visita. La carrozza è già pronta. Dorkò
l’ha ordinato questa mattina e sono già
stati caricati anche dieci bauli.”
“Presto allora.” Disse correndo verso la
carrozza indicata da Lazlo.
Dorkò aveva fatto un ottimo lavoro, ma
non poteva fermarsi ad avvertirla. Doveva salvare se stessa prima di ogni altra cosa.
Lazlo l’aiutò a montare sulla carrozza e
salì al posto di guida.
“Fai meno rumore possibile.” Ordinò
Erzsébet sporgendosi dalla porticina.
Lazlo non aveva idea di cosa stesse accadendo. Sapeva solo che ogni ordine
della contessa andava eseguito alla perfezione. Gli era mancata molto in quegli
ultimi tempi. Non l’aveva più accolto
nel suo letto, ma non poteva rimanere
insensibile al suo fascino. Nemmeno
ora che l’età cominciava a segnarle il
volto.
Non domandò dove doveva dirigersi
perché già lo sapeva. Vi era un altro
piccolo palazzo a Csejthe di proprietà
della contessa. Era lì che doveva andare.
VII
Thurzò camminava avanti e indietro da
più di mezz’ora e della contessa non si
era vista nemmeno l’ombra. Dei passi
concitati raggiunsero lo studio e si trovò
dinnanzi Ponikenus con il fiato corto e
il viso arrossato.
“Palatino… la contessa fugge.” Prese
fiato. “ l’hanno vista dirigersi verso il
palazzo più basso.”
Thurzò lo prese per le spalle e lo scosse
forte.
“Dite davvero?” domandò indignato.
Ponikenus annuì.
“Chiamate le guardie! Sono nascoste
fuori dalle mura, in mezzo alla boscaglia!” gridò, indispettito dal fatto che
non fossero state proprio le sue guardie
ad avvertirlo della fuga.
Ponikenus corse fuori e pochi attimi
dopo ritornò con un nutrito gruppo di
guardie.
“Dove sono i sotterranei?” domando
alla domestica che gli aveva aperto la
porta.
“Di là.” Rispose lei spaventata da
quell’invasione.
Thurzò corse verso la porta che dava
sulle scale e in silenzio scese, seguito da
Ponikenus e dalle guardie.
Quando arrivò nei sotterranei gli si
mozzò il fiato e il cuore perse un colpo.
Dorkò stava travasando il sangue da una
vasca a un’altra. Jò stava rimettendo in
ordine vari attrezzi insanguinati.
Ficzkò era seduto a gambe divaricate e
muoveva ritmicamente la testa di una
giovane morta all’altezza della sua vita.
Non volle vedere di più o appurare che
cosa realmente stesse facendo. Ordinò
alle guardie di arrestarli tutti.
Kata spostava il corpo senza vita di
un’altra giovane.
Ponikenus si avvicinò alla cella, dove le
giovani piangevano a dirotto per la gioia di vedere di nuovo una speranza.
L’uomo prese le chiavi, aprì la cella e
gettò loro il suo mantello e quello di
Thurzò per coprirsi. Non gli sfuggirono
i resti di un’altra giovane e il viso sporco di sangue delle sopravvissute.
Thurzò si avvicinò alla giovane che fino
a poco prima era stata il giocattolo di
Ficzkò; con un piede la voltò e fece fatica a trattenere il vomito.
Tutto il corpo era completamente coperto di piaghe, la bocca era strappata in
più punti come se fosse stata cucita e
poi scucita in modo barbaro, ma ciò che
più di tutto lo fece addolorare, fu riconoscere in quel viso lo stesso che aveva
salvato la vita del re, di Megyery, del
cardinale Forgàch e la sua.
Quella ragazza, n’era certo, aveva pagato caro quell’atto di generosità e altruismo.
Se fino a poco prima aveva creduto che
fosse meglio lasciare che la contessa
fuggisse lontano, ora non poteva più
chiudere gli occhi e lasciarla andare.
Non dopo quello che aveva visto.
“Presto! All’altro castello!” gridò furioso.
Erzsébet aveva pensato a tutto. Suo cugino Gàbor le avrebbe dato ospitalità in
Transilvania e non aveva più da temere
nulla. Una volta arrivata, avrebbe trovato un buon castello tutto suo dove poter
alloggiare e avrebbe trovato altre serve
e altre vittime. Thurzò non avrebbe fatto
in tempo a raggiungerla.
Fece caricare gli ultimi bauli che aveva
fatto portare lì precedentemente, subodorando il pericolo. Prese con sé tutti i
gioielli e li trasferì in un baule più piccolo che avrebbe tenuto accanto a sé
con la cassetta degli strumenti di tortura
e uscì.
Sollevò il viso quando sentì un gran frastuono e s’impietrì quando vide Thurzò
a capo di un piccolo esercito di guardie.
“Fermatevi contessa! Non rendete tutto
più difficile.”
“Cosa volete cugino? Sto per partire per
la Transilvania e non ho tempo da perdere.” Rispose infastidita, come se quel
contrattempo fosse davvero inaspettato
e senza senso.
“Arrestatela prima che la uccida con le
mie stesse mani!” ordinò Thurzò.
PARTE
QUINTA
I
Era il due gennaio quando iniziò il processo. Erzsébet era guardata a vista nel
suo castello di Csejthe e non venne
chiamata a presenziare.
Il giudice, Teodosio Sirmiensis prese
posto davanti agli incriminati, mentre
Gàspàr Kardosh, cancelliere e Gàspàr
Bajary, castellano di Bicse, diedero il
via agli interrogatori.
“Come mai non è presente la contessa?”
domandò il re, infastidito dalla scoperta.
“Lasciate che vengano interrogati i suoi
accoliti prima. Non mettiamo in piazza
la vita della contessa senza che sia necessario, vi prego.”
Il re sentì un moto di rabbia salirgli dallo stomaco e fu sul punto di sferrare un
pugno
in
pieno
volto
a
quell’indisciplinato che osava dargli dei
consigli, ma poi si ricordò di essere il re
e mantenne la calma.
“Non lascerò che la passi liscia palatino.
Ricordatelo.” Sentenziò duro.
“Chiamo a testimoniare Ujvàry Jànos
detto Ficzkò.” Disse in tono forte Gàspàr Bajary.
Ficzkò fu fatto alzare da una guardia e
portato al cospetto del giudice. Lo fece
inginocchiare con un colpo alla schiena
e Bajary gli si parò davanti.
“Il tuo nome è Ujvàry Jànos non è vero?”
“Sì.”
“Eri a servizio dalla contessa Erzsébet
Bàthory?”
“Sì.”
“Hai preso parte alle uccisioni?”
“Sì.”
“Quante giovani donne hai ucciso con
le tue sozze mani?”
“Più di trenta.”
“E’ stata trovata una pergamena nella
quale erano appuntati ordinatamente i
nomi delle vittime e a un conto approssimativo, risultano essere più di seicento. Chi ha ucciso le altre?”
“Alcune io, alcune Dorkò, altre Jò Ilona.”
“E la contessa quante ne ha uccise?”
“Non saprei.”
“Chi le torturava prima di assassinarle?”
“A volte la contessa stessa, altre Dorkò
e Jò Ilona.”
“Sei consapevole del fatto che per questo sarai condannato a morte?”
Ficzkò annuì. La sua morte sarebbe stata tragica come tutta la sua vita. Sarebbe
morto nel dolore e nelle brutture esattamente come era vissuto e forse non
era un male che fosse giunto alla fine di
quella vita miserevole.
Il giudice fissava quel nano deforme
con visibile disgusto. Gli avevano comunicato cos’era intento a fare mentre
le guardie giungevano nei sotterranei e
solo il pensiero gli provocava un fastidioso senso di nausea.
“Perché la contessa non è presente?”
volle sapere.
Tutti si voltarono verso Thurzò.
“Perdonate signori… la contessa appartiene a una grande famiglia che ha servito questo paese con onore e dedizione.
I suoi stessi figli mi hanno pregato di
non rendere pubblica la sua colpa. Con
quali occhi verrebbero guardati se si sapesse? Come potrebbero ancora camminare per le strade della nostra Ungheria a testa alta?
Vi prego di pensare a loro e non alla
contessa che è colpevole oltre ogni dubbio.” Rispose accalorandosi.
“ Il re pretende giustizia e questo è ben
più importante del desiderio dei figli
della contessa.” Ribadì il consigliere del
re.
Il giudice abbatté il martelletto per richiamare all’ordine e fece un cenno a
Kardosh di interrogare Dorottya Szentes.
La stessa venne fatta inginocchiare di
fianco a Ficzkò.
“Il tuo nome è Dorottya Szentes, detta
Dorkò?”
“Sì.”
Le domande si susseguirono a ritmo sostenuto e anche Jò Ilona e Kata furono
interrogate.
Di Erza Majorova non vi era traccia.
Le loro colpe erano palesi e rafforzate
dalle loro confessioni e dalle testimonianze di molti. Tra i testimoni, anche
una giovane donna dai grandi occhi
verdi e la capigliatura simile a onde di
miele.
Megyery non poté non riconoscerla sin
dal primo istante. Quella era la giovinetta che aveva aiutato a fuggire tanti anni
prima e che ora si era fatta donna e coraggiosamente si apprestava a testimoniare ciò che aveva visto e che per poco
non aveva vissuto sulla sua stessa persona.
Senza riuscire a trattenersi, gli si riempirono gli occhi di lacrime. Aveva visto
lo scempio nei sotterranei subito dopo
Thurzò, ma immaginare che anche quella creatura, che ora era lì davanti a lui,
viva, magari con una famiglia… una
persona che amava, parlava, sognava,
piangeva, rideva… quella persona avrebbe potuto fare quella stessa fine, gli
procurò un dolore soffocante al petto.
Tanto forte che per un attimo fu sicuro
che fosse il cuore e che sarebbe morto
in quell’istante.
Il giudice si consultò con Thurzò prima
di proclamare la condanna.
“In nome del potere che rappresento. In
nome dell’Ungheria, io condanno Ujvàry Jànos, Dorottya Szentes, Jò Ilona
al rogo. La condanna avverrà sulla piazza di Bicse, il giorno 7 gennaio. Kata
non è stata ritenuta responsabile di alcuna morte o tortura e quindi sarà portata nelle prigioni, dove sconterà una pena
di quattro mesi.”
“Un momento…” intervenne il consigliere del re.
“Quale sarà la pena per la contessa?”
“Lasciate che di questo ce ne occupiamo in un altro momento.” Rispose
Thurzò.
“Il re non sarà soddisfatto. Non sono
nemmeno state poste domande riguardo
alle responsabilità dirette della contessa.
Come mai non avete chiesto delle torture, dei bagni di sangue, del cannibalismo? Come mai non avete voluto sapere quante di quelle giovani hanno trovato la morte per mano sua? E quante figlie di nobili hanno trovato un’orribile
morte?” domandò agitandosi.
“Ho già spiegato i motivi di questa scelta. Il re non potrà aver nulla di cui lamentarsi. Per quella donna sarà più do-
loroso vivere in una cella senza poter
sfogare i suoi istinti piuttosto che trovare la morte e raggiungere il demonio
che pure adora.”
Il consigliere scosse la testa, ma non
ebbe modo di controbattere.
Le guardie fecero sollevare i quattro e li
spinsero fuori dall’aula. Li attendevano
le celle di Bicse.
Come anticipato dal consigliere, il re
non fu soddisfatto della sentenza. Non
ammetteva che Erzsébet potesse sopravvivere a ciò che aveva commesso,
ma non desiderava andare contro la decisione del palatino nonostante potesse.
Se fosse stato per lui, Erzsébet sarebbe
stata giustiziata sulla pubblica piazza
esattamente come quegli altri tre disgraziati, invece di stare nella sua comoda
stanza a Csejthe.
Ma forse aveva in fondo ragione anche
il palatino. Una condanna a vita, reclusa
in quella stanza senza niente e nessuno,
l’avrebbe logorata più della morte e
l’onore delle famiglie a cui apparteneva
poteva dirsi salvo.
La portantina si fermò quando arrivarono sulla piazza di Bicse. I pali erano irti
e le cataste di legna ne circondavano le
basi. Il carnefice era pronto e non attendeva altro che l’ordine di agire. Tutta la
popolazione era presente all’esecuzione
come se fosse un spettacolo di teatro.
Tutti erano smaniosi di vedere gli accusati, morire e allo stesso tempo erano
intimoriti da ciò che avrebbero visto.
La morte attrae e respinge sempre allo
stesso modo fin dalla notte dei tempi.
“Jò Ilona.” Chiamò il consigliere del re.
Jò fu spinta in malo modo su per le scale del patibolo e rischiò più volte
d’incespicare negli scalini di legno, fino
a che non venne tirata dallo stesso carnefice. Due uomini la legarono al primo
palo sotto il quale non vi era legna e il
carnefice si avvicinò con una grossa
pinza.
“Le tue mani hanno torturato, ucciso e
smembrato giovani donne e per questo,
prima che il tuo corpo sia dato alle
fiamme e che il demonio ti prenda con
sé per l’eternità, ordino che ti siano amputate le dita delle mani con cui hai
commesso i fatti.” Sentenziò il consigliere guardandola con odio e disgusto.
Il carnefice prese una delle mani, applicò la pinza alla radice dell’indice e
chiuse con forza.
Jò si lasciò andare a un grido terribile,
ma il carnefice non si fermò né tentennò. Strappò un dito dopo l’altro fino a
quando lei svenne e come fosse spazzatura, fu gettata tra le fiamme che ormai
lambivano vivacemente il palo a lei destinato. Non ci fu bisogno di legarla ad
esso. Già lei stessa, legata come un salame e priva di forze, non riuscì a fare
che pochi movimenti prima di bruciare
del tutto.
“Dorottya Szentes, per gli stessi motivi
citati poc'anzi, ti verrà somministrato lo
stesso trattamento.” Disse il consigliere.
Dorkò non resistette a lungo e dopo il
secondo dito, svenne anch’ella, domandandosi in quello stesso istante come
avevano potuto resistere a tante torture
le giovani di Csejthe, se lei che si considerava di dura scorza non resisteva a
così poco.
Il suo corpo sparì tra le fiamme e qualcuno del popolo fu certo di vedere in
quelle fiamme il ghigno del maligno
che veniva a prendersi l’anima dei suoi
servi.
“Ujvàry Jànos, considerata la tua giovane età e il fatto che tu sia stato a servizio dalla contessa per un tempo più breve delle già giustiziate Dorkò e Jò, prima che il tuo corpo sia dato alle fiamme, vogliamo concederti la morte per
decapitazione.”
Ficzkò camminò verso il carnefice e
persino gli sorrise come se la morte fosse l’ultima delle sue preoccupazioni.
S’inginocchiò e posò il mento sul ceppo. Non ebbe il tempo di osservare i
volti che lo scrutavano dalla folla, che il
palòs gli tranciò la testa.
Anche il suo corpo fu gettato tra le
fiamme.
Lo spettacolo era finito.
Rimaneva solo la primadonna, sola nel
suo castello.
II
Re Mattia sbuffava come una locomotiva. Non voleva sentire ragioni. Aveva
ceduto davanti alla richiesta di Thurzò e
davanti alle suppliche dei generi della
contessa, ma non aveva alcuna intenzione di accettare che a quella donna
venisse concesso di vivere libera nel
suo castello.
“Non lo accetto!”
“Io avevo fatto presente al palatino che
non sareste stato soddisfatto della condanna, ma lui non ha voluto sentire ragioni, maestà.” Si giustificò il consigliere.
“Chiamatelo subito!” ordinò furibondo.
Era ancora lui il re, fino a prova contraria e non avrebbe permesso che tutto ciò
che aveva fatto la contessa venisse insabbiato in quel modo.
Thurzò arrivò e subito si tolse il cappello e fece un breve inchino.
“Mi volevate parlare, maestà.”
“Lasciateci soli.” Ordinò ai consiglieri
presenti nella stanza.
Tutti uscirono e la porta a due battenti
fu richiusa.
“Che cos’avete in testa? Cos’avete intenzione di fare con la contessa? Non è
già stata una burla che non si sia neppure presa il disturbo di presentarsi davanti al giudice?”
Thurzò mise le mani avanti come a cercare di frenare quella valanga di domande che sottintendevano altrettante
accuse.
“Maestà, vi ho già spiegato i motivi che
mi hanno indotto ad agire in quel modo.
Abbiate pietà… non di lei, ma della sua
famiglia.”
“Non m’interessa un accidente della sua
famiglia!” sbottò col viso rosso e le vene del collo gonfie.
“Non mi venite a parlare della sua famiglia! Dove le mettiamo le famiglie
che ancora oggi piangono le loro figlie?
E dove mettiamo l’indignazione di tutto
il paese di Csejthe, delle nobili famiglie
a cui è stato fatto un grave torto. Dove
mettiamo l’indignazione della chiesa
che reclama essa stessa di poter giudicare la contessa. Per rispetto a pochi Bàthory e pochi Nàdasdy, andiamo contro
a tutti gli altri? Questo vi sembra giusto? Voi dovevate agire secondo coscienza, per il bene dell’Ungheria… e
invece vi siete fatto intenerire da qualche parola o forse comprare… non mi
riguarda. Ma se siete riuscito a risparmiarle la forca, non riuscirete a risparmiarle il carcere a vita!”
Si alzò e passeggiò fino alla finestra,
mentre Thurzò si guardava i piedi.
“Forse su una cosa avete ragione: potrebbe essere per lei una condanna peggiore della forca. Ma sarà trattenuta al
castello di Csejthe, nella sua stanza… e
la porta della stanza dovrà essere murata. Non riceverà visite… mai e per nessuna ragione. Le stesse finestre dovranno essere murate, eccetto una piccola
fessura che servirà per il ricambio
d’aria.” Si voltò di nuovo verso Thurzò.
Le mani dietro la schiena e lo sguardo
duro.
“Il cibo le sarà passato da un’altra fessura che sarà lasciata nella muratura.
Non avrà acqua per lavarsi, non avrà
luce per specchiarsi, non avrà abiti tranne quelli che ha indosso. Espleterà i
suoi bisogni in quella stessa stanza e lì
rimarranno. Voglio che imputridisca
giorno dopo giorno e che l’aria che respira puzzi di orina. Voglio che si penta
di tutto quello che ha fatto e che desideri la morte più di quanto abbia mai desiderato la vita.” Concluse re Mattia.
“Nemmeno i figli potranno vederla?”
“No! Che cosa non vi è chiaro palatino?
Hanno già ottenuto di vederle risparmiata la vita… nel resto non dovranno
mettere becco. Potranno al massimo
parlarle da dietro il muro, ma non più di
una volta al mese. Credo di non avere
più nulla da aggiungere. Fate come vi
ho detto.”
Thurzò non osò controbattere. Annuì,
s’inchinò e lasciò gli appartamenti reali.
In fondo era ciò che si meritava. Come
poteva biasimare la decisione del re?
Uscì e respirò a pieni polmoni l’aria gelida. Un tiepido sole spuntava tra le nubi che parevano essere sempre cariche
di neve da qualche giorno a quella parte. Salì sulla carrozza e comunicò di
portarlo a Csejthe.
“Aspettate! Aspettate!” gridò qualcuno.
Il cocchiere si fermò all’istante, nonostante quell’ordine non fosse venuto dal
palatino.
Thurzò si sporse fuori e vide sopraggiungere Megyery e Ponikenus.
Raggiunsero di corsa la carrozza.
“State andando a Csejthe?” domandò
Megyery con il fiato corto che si condensava in spesse nuvolette bianche.
“Sì.”
“Vi dispiace se vi accompagnamo. Credo sia nostro diritto poter vedere la contessa prima che venga murata.”
Thurzò ebbe un tuffo al cuore quando
apprese che erano al corrente della condanna.
“Come fate a saperlo?” domandò un po’
indispettito.
Megyery agitò la mano come a sottolineare che non aveva importanza, ma
Thurzò immaginò che ci fosse anche il
suo zampino nella decisione del re.
“Non ve lo posso impedire.” Rispose,
aprendo la portina e invitandoli a salire.
Il viaggio fu più lungo del solito. Incontrarono due mandrie di capre che fecero
fermare la carrozza per un tempo infinito. Iniziava già a sbiadire la luce del
giorno quando arrivarono nei pressi del
castello.
Tutti e tre si fermarono dinanzi alle mura e guardarono per un attimo le alte finestre dietro cui si nascondeva un essere diabolico e senza cuore.
L’ultima serva rimasta a servizio aprì
loro la porta e li fece entrare.
Erzsébet era seduta accanto al fuoco e si
guardava le mani come se fosse ipnotizzata.
Per un attimo ebbero pietà di lei e pensarono che le fossero improvvisamente
piombate addosso tutte le colpe, ma
quel momento passò in fretta.
Bastò che sollevasse il viso verso di loro.
L’espressione non tradiva alcuna emozione; gli occhi erano talmente profondi
e scuri e talmente crudeli da cancellare
ogni sentimento di pietà.
Rimase seduta, col busto eretto e le mani in grembo.
“Contessa Bàthory, i vostri servitori sono stati giustiziati ieri sulla pubblica
piazza… - disse Thurzò e subito dopo si
schiarì la voce e riprese – il giudice non
ha avuto pietà di loro nonostante fosse
chiaro che la mente di tutto siete stata
da sempre voi.”
Erzsébet lo fissava sfidandolo apertamente.
“Nonostante questo… per rispetto alla
vostra antica casata e a quella del vostro
defunto marito, il re vi ha concesso di
non essere giustiziata e umiliata di fronte alla plebe, ma siete stata condannata
al carcere a vita in una stanza del vostro
castello… la vostra stanza.” Attese per
osservare le sue reazioni.
Erzsébet non si scompose né parlò. Alzò appena un sopracciglio e voltò il viso
verso Megyery.
“Siete soddisfatto?” domandò sibilando.
Megyery rise sommessamente a quelle
parole e poi ridivenne serio.
“Mi divertite contessa. Sarei stato soddisfatto se le centinaia di vittime non
fossero state tali. Sarei soddisfatto se
avessi potuto intervenire molti anni fa,
salvando svariate giovani donne, ma
purtroppo, grazie alla vostra astuzia e
soprattutto alle vostre nobili origini, non
ho potuto fare altro che attendere che i
tempi fossero maturi. Sapete… non ero
soddisfatto della sentenza. Il fatto che vi
abbiano risparmiato l’umiliazione e la
vita, mi faceva davvero infuriare, ma
poi ho riflettuto… avete fatto tutto questo per la vostra bellezza, per mostrarvi
ai balli sempre in forma smagliante. Cosa ci sarà di peggio per voi che l’eterna
solitudine? Cosa ci sarà di peggio che
sapere che il vostro corpo sta appassendo nel buio di una tomba fatta apposta
per voi? Respirerete, mangerete, berrete, ma non vedrete mai più la luce del
sole. I vostri abiti marciranno con voi. Il
vostro stesso puzzo v’impedirà di respirare. Mai più nessuno vi vedrà e ancor
peggio… nessuno più perirà sotto le vostre mani. Questo sarà ancor peggio della morte, non credete?”
Negli occhi di Erzsébet, per un solo rapido istante, ci fu il terrore puro, ma poi
fece qualche passo verso di lui e sorrise.
“Voi mi state condannando per qualcosa
che non ho fatto. Forse qualche volta
sono stata troppo dura con le serve che
commettevano degli errori, ma questo
non è quello che facciamo tutti? Mi avrete sulla coscienza per sempre Megyery e quando morirò, sarete il primo
che verrà torturato dal mio spirito. Perché ricordate: il mio spirito è più forte
della roccia di montagna. Ebbene…
condannate una nobildonna come me
solo per essersi presa qualche libertà
con delle volgari contadine? E’ questo
che volete fare? Fatelo! Ma non avrete
mai pace e questo ve lo posso giurare
sul mio stesso nome.”
“Anche tentare di avvelenarci è stata
una piccola libertà che volevate prendervi? Massacrare la serva che ci ha avvertiti era anch’essa una piccola libertà?” sbottò Thurzò a un tratto.
“Mi meravigliate cugino. Avreste dovuto prendere le difese di una vostra parente, ma forse i vostri intrighi sono più
forti del legame di sangue.”
“Se avete salva la vita; se il popolo di
Csejthe non potrà assistere al vostro rogo, è proprio merito di vostro cugino
che si è fatto in quattro per voi. Non lo
comprendo e non lo comprende nem-
meno il re, ma così è. Forse è pentito
ora che vi ha davanti.”
Thurzò scosse la testa miseramente.
“Fuori ci sono i muratori pronti. Ho
mandato il cocchiere a reclutarli. Scegliete la stanza che più vi aggrada.”
Disse deluso e arrabbiato.
“Voi venite con noi. Porterete via i
gioielli e gli abiti della contessa. Il re è
stato chiaro. Non dovrà avere null’altro
oltre a ciò che indossa.” Ordinò, rivolgendosi all’anziana serva e lei annuì,
abbassando il capo.
Erzsébet, sempre con un vago sorriso
sul viso, salì le scale ed entrò nella sua
stanza. Subito dietro di lei, il palatino e
la serva che si affaccendò subito a portare via gran bauli di roba.
“Donate tutto ai poveri. I gioielli li
prenderò in consegna io.” Ordinò Thurzò.
Salì le scale anche Ponikenus, seguito
dai tre muratori ben piazzati e con secchi di sabbia e acqua.
Si avvicinò a Thurzò e deglutendo prese
la parola.
“Vorrei avere qualche momento di solitudine con la contessa. Forse desidera
confessarsi e chiedere perdono a Dio…”
sussurrò.
“E sia.” Rispose il palatino allontanandosi e chiedendo a tutti di uscire dalla
stanza.
Ponikenus chiuse la porta e fece qualche passo verso la contessa. Era terrorizzato da lei anche ora che non poteva
nuocergli in alcun modo. S’immagino il
volto del demonio che prendeva forma e
che si confondeva con i lineamenti ancora belli di lei. Se la immaginò mentre
correva verso il caminetto, prendeva
l’attizzatoio e lo colpiva ferocemente
alla testa.
Tutto questo non avvenne ovviamente,
ma l’immaginazione bastò a fargli accapponare la pelle.
Erzsébet si voltò verso di lui, in attesa.
“Contessa… forse desiderate il perdono
di Dio e io sono qui per questo. Perché
Dio, nella sua infinita bontà, vi ascolterà e vi perdonerà.”
Erzsébet scoppiò a ridere, tanto da farsi
venire le lacrime agli occhi.
“Non m’interessa il vostro Dio! Ho già
il mio e so che non mi abbandonerà tanto in vita come in morte. Anzi… in
morte, avrò l’onore di servirlo ancoro
più di quanto ho fatto in vita.” Rispose
con tono crudele.
Ponikenus fece un passo indietro. Se
mai aveva visto un essere posseduto, si
trattava certamente della donna che aveva davanti.
Non osò aggiungere altro e proprio come se avesse il diavolo alle calcagna
uscì dalla stanza.
I muratori scardinarono la porta e mentre uno di loro si occupava di murare le
finestre, un altro cominciava a darsi da
fare con la porta.
III
Quanti giorni erano passati?
Non lo sapeva. Forse erano settimane o
forse addirittura anni.
Il fetore in quella stanza aumentava di
giorno in giorno. Le parve persino di
sentire lo squittire di qualche topo.
Il marito di sua figlia Kata le portava
spesso del cibo che faceva passare dalla
piccola fessura, ma nessun altro mai si
era degnato di andarla a trovare. Forse
era troppo il dolore di saperla rinchiusa
o forse era ancora più forte il dolore di
saperla colpevole di reati tanto aberranti.
Si sentiva sporca, appiccicosa. L’odore
dei suoi stessi escrementi accumulatisi
era soffocante. In certi giorni la stanza
sembrava un forno e in certi altri una
ghiacciaia, ma non le era permesso ave-
re coperte, legna da ardere e nemmeno
più aria.
Nemmeno Majorova era mai andata a
farle visita. Forse aveva paura che qualcuno la notasse e incriminassero anche
lei.
Alla fine però, non le importava di nessuno. Non le creava alcun problema la
solitudine a cui l’avevano costretta. Aveva almeno modo di meditare e di entrare in contatto con il maligno.
Le mancava non poter dar sfogo alla
rabbia… questo sì. Le mancava lasciarsi
andare a momenti di lussuria.
Una sottile fessura lasciava entrare appena un filo di luce… era giorno dunque.
Il suo grande specchio non poteva essere spostato, ma le venne un’idea. Era
troppo tempo che non rimirava la propria figura.
Si avvicinò a tentoni e ne toccò la superficie con la punta delle dita. Prese un
grosso barattolo.
Chissà cosa c’era dentro quel barattolo?
L’unguento?
Il sangue di Ilona?
Non lo sapeva, ma sarebbe servito allo
scopo. Colpì con tutte le forze lo specchio che andò in frantumi. Subito si accosciò e ne raccolse una grossa scheggia. Non si accorse nemmeno dei numerosi tagli che si stava praticando.
Con il suo prezioso oggetto, corse verso
quello scarno raggio di luce; salì sulla
sedia e posizionò la scheggia in modo
da poter osservare il proprio viso.
Forse in quell’istante perse davvero il
poco di ragione che le era rimasta.
Iniziò a tremare come se fosse stata colta da una febbre alta, mentre sentiva il
cuore perdere colpi.
Non poteva essere lei quella!
Gli occhi erano cerchiati e la luce diretta li fece lacrimare rendendoli rossi.
Profonde rughe solcavano la fronte alta,
un tempo liscia e perfetta. Le labbra erano raggrinzite come due prugne vecchie e tanto pallide da sembrare quelle
di un morto. Le palpebre superiori ricadevano sull’occhio come molli coperte
lucide. Il gonfiore subito sotto gli occhi
rendeva pesante lo sguardo, ancor più
delle occhiaie e delle rughe.
Cos’era accaduto alla sua bellezza?
Come poteva il poco tempo passato in
quella prigione, averla ridotta così?
Si sentì cadere; il suo specchio di fortuna le cadde di mano e andò in piccoli
frantumi. Crollò a terra con un terribile
dolore al petto, senza riuscire a spiegarsi che cosa le stesse accadendo.
Solo quando vide un’ombra farlesi incontro, comprese.
La sua ora era arrivata e il maligno era
pronto a prenderla per mano e portarla
con sé.
Erzsébet sorrise e le si illuminarono gli
occhi.
Tese il braccio destro, mentre col sinistro si teneva stretto il petto.
Il maligno non aveva viso né consistenza, ma lei sapeva che era bello e possente. Ricordava la loro prima unione come
fosse avvenuta solo poche ore prima.
Le loro mani si toccarono e lei percepì
tutte le promesse che avrebbe desiderato.
L’attendeva la vita eterna, le fiamme
dell’inferno, la perfezione del corpo e la
vendetta.
Era il 21 agosto 1614.
Faceva caldo, ma non era la temperatura
in quella stanza a riscaldare il suo corpo.
Cadde in un vortice di fiamme gialle e
rosse. Vive e voraci. Il suo corpo bruciò
e fu avvolto dal dolore eterno. Attorno a
sé, centinaia di specchi le rimandavano
l’immagine del suo stesso corpo.
Cominciò a ridere e ridere e ridere. Il
suo vestito evaporò come una nuvola, la
pelle del viso si tese. Gli occhi divennero di nuovo grandi, luminosi e più neri
della notte.
Vide il seno sollevarsi e ridiventare turgido, le gambe snelle, le caviglie sottili.
I capelli le si sciolsero attorno al corpo.
Neri come la pece e setosi come non ne
aveva mai visti. La bocca assunse il colore del sangue e sporgenti canini spuntarono da essa.
Sentì una voce.
Ora va e compi la tua vendetta. Cammina sulla terra e porta la morte.
“Sì mio signore.” Rispose in un sussurro mentre la vita se ne andava e i suoi
occhi si spegnevano sul mondo che la
circondava e si riaprivano…
Conclusioni
Ho deciso di scrivere un romanzo su
questo personaggio realmente esistito,
dopo aver effettuato alcune ricerche e
averne cercato invano uno contemporaneo che parlasse di lei.
Si parla sempre di Dracula senza sapere
che questa donna misteriosa e potente
fu la più grande serial killer di tutti i
tempi.
La sua crudeltà si fondeva con una lucida follia priva di ogni tipo di freno morale e supportata da ricchezza, potere e
dalle losche figure che la attorniavano.
Forse vittima di un destino non del tutto
scelto.
Forse vittima di quelle pecche genetiche
derivanti dalla consanguineità dei suoi
stessi genitori.
Erzsébet non è stata solo una giovane
donna affascinante e potente, ma anche
una spietata omicida alla continua ricerca dell’elisir di eterna giovinezza.
Era per lei inaccettabile invecchiare, lasciare che i propri lineamenti sottili cedessero sotto il peso dell’età. Era inaccettabile accontentarsi di essere
un’amorevole madre o una fedele moglie.
Lei voleva innanzitutto essere una donna desiderata e perfetta e per raggiungere questo obiettivo era disposta a tutto.
Ma alla base di tutto c’era senza dubbio
un bisogno assoluto di predominare.
Solo torturando e uccidendo riusciva a
raggiungere quella sorta di soddisfazione e quasi di serenità che diversamente
era negata alla sua anima nera.
Ho cercato di seguire il più possibile gli
avvenimenti della sua vita senza stravolgerli, ma è evidente che i fatti sono
stati filtrati dalla mia fantasia.
In realtà, la contessa iniziò a uccidere
dopo la morte del marito. In precedenza
si era sempre fermata prima e si era
“accontentata” di dare severissime punizioni.
Ponikenus subentra al predecessore
Berthoni successivamente alla morte di
Ferencz.
Dorkò, Jò Ilona, Ficzkò, Kata, furono
realmente suoi servitori, ma i tratti del
loro carattere sono opera di fantasia.
Darvulia e Majorova lavorarono davvero per lei nei termini descritti, ma anche
i loro tratti caratteriali ed estetici sono
opera di fantasia. Molti spunti sul loro
modo di fare sono tratti da descrizioni
reali.
Ebbe davvero quattro figli più uno che
morì appena nato.
Le furono attribuite molte relazioni sia
con donne che con uomini.
Il solstizio d’inverno fino al 1582 era
stato il 13 dicembre, ma da quell’anno
fu abbandonato il calendario Giuliano e
adottato il calendario Gregoriano. Il solstizio quindi cadeva il giorno del 24.
Solo più avanti fu nuovamente spostato
al 21 per far sì che non coincidesse con
la vigilia di Natale.
Dorkò fu assunta solo nel periodo del
matrimonio di Anna Nàdasdy, figlia di
Erzsébet.
Kata arrivò dopo la morte di Ferencz.
STAMPA E RITAGLIA
(meglio se su cartoncino)