ATTO POETICO di LAURA VOLTOLINA “Taglia”, dico. Nuda e cruda

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ATTO POETICO di LAURA VOLTOLINA “Taglia”, dico. Nuda e cruda
ATTO POETICO di LAURA VOLTOLINA
“Taglia”, dico.
Nuda e cruda, la voglio.
La verità.
L’autenticità.
Glielo dico che ho ancora lo shampoo addosso, mentre mi lava i capelli.
“Quanto?”
“Molto”.
Ci sono specchi dappertutto, qui dentro: le donne controllano il risultato del
suo lavoro, sembra che si guardino con gli occhi della gente fuori dalla
vetrata del negozio, di chi cammina sul marciapiede.
Io mi guardo coi miei occhi, solo quelli, tanto anche se volessi non ci riuscirei
a mettermi fuori, sul marciapiede, e osservarmi da lì.
Voglio la mia faccia, i lineamenti del viso, così come sono. E se il mondo deve
guardarmi, che possa vedermi dritto, senza cornici.
Quand’ero piccola, mia mamma mi pettinava.
Aveva sempre fretta, era di corsa.
Mi prendeva, e mi pettinava.
Con quei pettini, non so se esistano ancora perché non ne ho più visti, quei
pettini con denti larghi da un lato e più stretti dall’altro, fatti apposta per
sciogliere i nodi piano, con dolcezza, prima i più grossi, poi i più piccini.
Solo che lei aveva fretta, e non faceva piano.
Solo che io sono riccia.
Chi ha capelli ricci mi capisce di sicuro: venire pettinata era una tortura.
Mi colavano lacrime lungo le guance, fino al mento e io non sapevo trattenerle.
Era il momento peggiore della giornata.
“Perché non ti pettini? Non ti metti in ordine?”
I miei boccoli scuri mi incorniciano il viso e sono sempre stralunati.
Me li taglio da sola, che tanto sono ricci e nessuno si accorge se sono
irregolari.
“I capelli ricci non si pettinano, mamma”.
Imperterrita, ogni volta che mi vede, la prima cosa che dice mentre sono
ancora sulla porta è sempre quella.
“Perché non ti pettini?”.
Lo ripete come un mantra.
Ripenso alla bimba con le lacrime lungo le guance e mi arrendo: te lo devo
proprio dimostrare, perché non mi pettino.
Così vado nel suo bagno e cerco il pettine. Ovviamente lo trovo, i tempi sono
cambiati e adesso ha solo denti a distanze omogenee.
Lo prendo e piano, dolcemente, mi pettino.
Passo i ricci uno alla volta, con cura. Ci vuol pazienza, quando arrivo alla
nuca ho le braccia stanche e pesanti.
“Il pranzo si raffredda! Cosa combini?!”
Arrivo a tavola coi capelli pettinati e l’aria trionfante di chi ha corretto un
errore antico.
“Oddio, ma cos’hai combinato?”.
Eccomi appena uscita dal tunnel del vento, la testa completamente
elettrizzata, pettinata e vittoriosa: ho finalmente messo la parola fine ad anni
e anni della stessa domanda, reiterata, ripetuta, ribattuta, una goccia cinese
eterna, sicura come la notte dopo il tramonto.
Quello che da bambina non sapevo fare.
“Perché non ti pettini?”
Mi apre la porta sorridendo.
Non ricorda il tunnel del vento, forse, ma è troppo giovane per l’Alzheimer.
Mi scrollo di dosso la domanda.
Mi arrendo, stavolta sul serio.
Non mi pettino, è un dato di fatto e i fatti non hanno bisogno
dell’approvazione di nessuno, nemmeno della sua.
Ci ho provato.
Ci ho provato a pettinarmi, a stare in ordine.
Mi sono pettinata, e mi sono laureata in giurisprudenza.
Mi sono pettinata, e ho lavorato in ufficio.
Ma i miei ricci non si pettinano.
La verità è questa.
Gradualmente ho guardato in faccia la mia faccia vera, e ho visto le lacrime
di tutti i pettini che mi ero lasciata imporre.
Ci ho messo del tempo per trovarmi e non sempre mi sento intera, ma mi
alleno ad essere autentica.
Non perché dico quello che penso.
La verità è oltre, o forse prima, è accorgersi delle maschere che ho addosso,
messe lì chissà quando e rimaste appiccicate addosso, a soffocare la
spontaneità, a sprecare vita.
Autenticità è toglierle, giorno dopo giorno.
Incarnare la propria verità è un dato di fatto e i fatti, appunto, non hanno
bisogno dell’approvazione di nessuno.
Ero all’università quando lo Yoga mi ha trovata, mi ha attecchito dentro e ha
messo giù una radice così profonda che non so proprio dove arrivi e nemmeno
me lo chiedo.
Essere colta dallo Yoga mi ha mostrato che i nodi venivano da quell’abitudine
sottopelle a sentirmi, in fondo, sempre spettinata, sempre controcorrente,
anche se non potevo, non potevo proprio pettinarmi e vivere una vita che non
sentivo appartenermi.
Ho lasciato il lavoro senza rimpianti perché non mi somigliava: e io, per
somigliare a quel lavoro per cui provavo comunque interesse, mi dovevo
mascherare. “Lo facciamo tutti”, sospirava con rassegnazione la mia amica e
collega.
Forse sì, ma diversamente da altri ho bisogno di poterla vedere bene, la mia
faccia.
“Taglia”, ho detto.
Erano anni che mi arrangiavo i capelli da sola, ma non bastavano più i ricci
stralunati.
Volevo andare alla radice.
Allora ha tagliato, molto corto.
Adesso la mia faccia è nitida.
Quando non mi sento in armonia passo le dita sulla testa, sento lo spessore
minimo dei capelli e tiro un respiro di sollievo.
Guardo agli anni trascorsi a pettinarmi con un pettine a denti sempre più
larghi, penso a tutto il tempo e le lacrime che ci ho messo e non rinuncerei
mai alla mia faccia, adesso che ce l’ho.
A Ferragosto la piazza in cui abito si riempie di migliaia di persone che
vengono da tutta la città e dalla provincia per vedere i fuochi d’artificio. È un
carnaio impensabile.
Sono rientrata in città giusto alla fine dello spettacolo, quando l’oceano
umano si muove compatto come il cemento verso gli sbocchi della piazza, verso
casa propria.
Era quasi impossibile fendere la marea umana.
Ero in senso opposto: loro venivano via, io stavo arrivando. Arrancavamo tutti,
loro e io, in direzioni contrarie
Un signore anziano che, come tutti, ondeggiava lento, irritato dal
rallentamento che rappresentavo sul suo cammino, mi ha apostrofata burbero
“Eh, signorina, mai andare controcorrente”.
Gli ho sorriso, “lo dice lei!”.