PDF - La Feluca Edizioni

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IL BRIVIDO
COLLANA DI NARRATIVA
Alfredo Buttafarro
Le indagini parallele di Moreno Roccati
Il suicidio del professore
LA FELUCA EDIZIONI
Prima edizione digitale Novembre 2013
realizzata da La Feluca Edizioni.
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto
d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non
autorizzata.
 2013 La Feluca Edizioni s.a.s., Messina
http:// www.lafelucaedizioni.it
ISBN: 978-88-96358-16-0
In copertina: “Occhio” Arch. Calatrava – Valencia
( foto di A. Buttafarro)
Il suicidio del professore
Presentazione
Moreno Roccati è un ex ispettore di polizia che,
suo malgrado, è stato costretto a dare le dimissioni
dal Corpo per un’accusa ingiusta e sbarca il lunario
come investigatore privato. Il suo vecchio capo, il
commissario Corrente, ricorre spesso, in maniera
ufficiosa, al suo aiuto quando non riesce a trovare
il bandolo di un’intricata matassa. È questo il caso
dell’apparente suicidio di un professore di economia volato giù dal terrazzo di un palazzo di Monte
Mario in un’afosa notte d’estate. Moreno indaga
con discrezione e abilità tra Roma e Firenze, città
natale del professore. Alla fine riuscirà a chiarire i
risvolti oscuri della vicenda.
Alfredo Buttafarro è nato a Messina nel 1949.
Si è laureato in Medicina e Chirurgia e si è specializzato in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare.
Ha lavorato per un trentennio presso un reparto
ospedaliero di cardiologia come dirigente; è stato
direttore responsabile di “Messina medica”; ha
pubblicato numerosi lavori scientifici su riviste
nazionali e internazionali. La sua prima opera di
narrativa dal titolo “Angeli tristi” è tata pubblicata
2008 da “Il filo”. Nel 2009 ha pubblicato la raccolta di poesie “Parole senza musica” e il romanzo
“Aquilara”; nel 2010 il romanzo “La casa di Natale
Urdì” e nel 2012 la seconda edizione di “Angeli
tristi” tutti per i tipi de “La Feluca Edizioni”
CAPITOLO I
«Aspettami qui», disse il commissario Corrente
all’agente Pozzo scendendo dall’auto di servizio.
A causa del gran caldo tolse la giacca ripiegandola
sul braccio, poi volse lo sguardo in alto verso
l’ultimo dei sei piani dello stabile di piazza Bologna di fronte al quale si trovava, ne varcò il
portone e, con un sospiro di rassegnato sconforto,
cominciò a salire la prima rampa di scale.
Sul pianerottolo del sesto piano sostò qualche
minuto, per riprendere fiato, prima di pigiare il tasto del campanello. L’incisione su una targa
d’ottone mai lucidata era poco leggibile, ma Corrente sapeva che c’era scritto “Moreno Roccati,
Investigazioni”.
Non era la prima volta che saliva quelle scale e
bussava a quella porta. Quando, dopo qualche minuto, l’uscio venne schiuso, il volto amico di
Moreno si aprì in un accogliente sorriso.
«Commissario, è pallido e sudato. Alla sua età
non dovrebbe fare sei piani di scale».
«Quando avrai sessant’anni anche tu, vedrai!
Piuttosto, fammi entrare».
«Si accomodi».
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L’appartamento era modesto, della consistenza
di due piccoli ambienti, fungeva da ufficio e abitazione. La prima stanza, poco più grande di un
ingresso, era arredata con una vetusta scrivania di
legno, due sedie, una poltroncina girevole e uno
schedario verticale. Una ventola a soffitto, col suo
ritmico cigolio che infastidiva, offriva un certo sollievo in quell’afosa giornata di fine luglio.
L’atmosfera era vagamente retrò. Una porta, a
vetri opachi, separava il primo dal secondo ambiente. Il commissario sapeva che al di là c’era un
letto, un fornello a gas su una mensola di marmo,
un piccolo frigorifero e un televisore.
Moreno riusciva a pagare l’affitto e a sopravvivere con gli scarsi proventi della propria attività
che consisteva essenzialmente nello scoprire infedeltà coniugali e cattive frequentazioni di minori
ribelli e incontrollabili. Un paio di volte aveva cercato, con successo, di ritrovare i genitori naturali di
persone date in adozione. Una volta si era presa la
briga di cercare, senza riuscire nell’intento, un cane scomparso.
Poiché non traeva grandi soddisfazioni professionali dal proprio lavoro, non disdegnava le
visite del commissario Corrente che, in via del tutto amichevole e confidenziale, gli sottoponeva casi
ben più impegnativi.
Il commissario Corrente, aveva preso posto in
una delle due sedie davanti alla scrivania, al di là
della quale Moreno con aria sorniona attendeva
che il suo ospite, dopo aver ripreso fiato, comin-
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ciasse a esporgli il motivo che lo aveva condotto
fin là. Lo incitò:
«Allora, qual è il problema?».
Corrente non faceva caso a quell’aria impertinente e di sfida che era tipica di Moreno e che gli
aveva procurato qualche antipatia tra i colleghi,
quando ancora era un ispettore di polizia dotato
d’intuito e capacità professionali rari e preziosi.
«Moreno, devo sottoporti un caso di suicidio,
che non mi convince. Il magistrato vuole archiviarlo, in mancanza di elementi oggettivi che facciano pensare a un delitto».
«E allora? Se non ha fatti a cui appigliarsi lo
faccia archiviare e non ci pensi più».
«Secondo te, uno che vuole ammazzarsi ordina
una macchina nuova di lusso, ha in programma un
viaggio in luoghi esotici in compagnia di una bella
signora, è in lizza per ricoprire un alto incarico
correlato alla propria attività professionale e, addirittura, non lascia un biglietto per giustificare il
proprio gesto?».
«Probabilmente il suo suicida era anche pieno di
soldi e conduceva un’esistenza piacevole».
«L’hai detto!».
«Commissario, lo sa anche lei che il denaro non
dà la felicità. Io però vorrei averne, per provare di
persona se questo detto è vero» aggiunse sorridendo. Poi si alzò, aprì la porta a vetri, passò nella stanza accanto e tornò con in mano due birre ben
fredde. Porgendone una al commissario disse: «Se
vuole posso darle un bicchiere di carta. Io bevo
volentieri dalla bottiglia». Il commissario fece un
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gesto di diniego con la mano e bevve anch’egli un
lungo sorso direttamente dal contenitore.
“Che peccato!” pensò il commissario “un talento
come il suo e poi quel fare schietto, il suo
bell’aspetto e quel sorriso che ti mette di buonumore solo a vederlo.”
Così avrebbe voluto che diventasse quel figlio
che aveva perduto ancora bambino. Che peccato
non avere più l’ispettore Moreno Roccati nella
propria squadra. Mah! Era andato tutto storto quella domenica di Maggio di tre anni prima, a cominciare dal maledetto febbrone che l’aveva costretto a letto non permettendogli di essere presente alla manifestazione di protesta dei produttori di
latte.
I fatti gli erano stati raccontati in seguito dal
commissario Quattrone, ma la versione di questi
non lo aveva convinto.
In effetti, le cose erano andate in maniera diversa da quanto appurato dall’inchiesta, ma Moreno
non aveva potuto dimostrarlo.
Doveva essere un corteo tranquillo che dalla
stazione Termini, attraversando il centro di Roma,
avrebbe raggiunto prima il Senato, quindi la sede
del Parlamento.
Inizialmente era andato tutto bene, la polizia si
era limitata a un blando servizio d’ordine. Dietro
gli striscioni colorati, un seguito chiassoso e ordinato di manifestanti aveva percorso l’itinerario
previsto poi, all’improvviso, quando il corteo era
appena arrivato davanti a Palazzo Madama, sede
del Senato, dalle vie laterali erano sbucati numero12
si facinorosi con il volto coperto da fazzoletti, armati di spranghe e bastoni. Si trattava di un gruppo
di provocatori, circa una trentina, che trasformarono un corteo pacifico in una rissa violenta.
Avevano cominciato a colpire e spintonare sia i
manifestanti che i poliziotti e quanti si erano trovati ad assistere. Ne era scaturita una vera e propria rissa con un fuggi fuggi generale.
L’ispettore Roccati, suo malgrado e per una serie
di circostanze sfavorevoli, si era trovato isolato,
stretto in un vicolo senza uscita. Tre giovani, armati di spranghe, l’avevano costretto spalle al muro
mentre si incitavano reciprocamente:
«Ammazzalo! Dagli addosso! Porco di un celerino!».
Roccati era armato, ma non aveva mai usato la
propria pistola contro qualcuno per ferire, né tantomeno per uccidere. Stringeva lo sfollagente nella
mano destra e sapeva usarlo. Conosceva i punti
sensibili dell’avversario, ma erano in tre e provvisti di lunghe e pesanti barre di ferro. Pensò che se
avesse incassato anche un solo colpo sul capo, nonostante il casco, ci sarebbe rimasto.
Riuscì a schivare la prima sprangata e assestò un
colpo diretto alle ginocchia del suo assalitore che
rotolò per terra urlando di dolore. Ne rimanevano
altri due. Uno era mingherlino e impacciato, l’altro
un gigante furioso.
Il più piccolo tentennò, poi aiutò il compagno
ferito ad alzarsi e, insieme, indietreggiando, ripercorsero il vicolo fino a scomparire; il gigante invece continuava ad agitare la spranga davanti a sé,
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poi attaccò. Un colpo di striscio raggiunse l’ispettore alla coscia sinistra. Urlando di dolore Moreno
spinse lo sfollagente nel ventre del suo avversario,
ma questi non diede l’impressione di accusare la
botta, anzi sollevò la pesante sbarra per dare una
batosta micidiale. Il poliziotto scartò sul lato destro
per schivare la spranga e assestò un colpo di sfollagente sull’orecchio sinistro del suo assalitore.
Questi rimase immobile per qualche istante poi
crollò sulle ginocchia e con un gran tonfo finì bocconi davanti ai piedi di Moreno che capì subito di
avergli provocato una seria lesione. Non perse un
attimo, lo rigirò e tastò l’arteria carotide. Non pulsava, un pallore di morte faceva sembrare di cera il
volto del gigante. Moreno prese a praticare il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca.
All’imbocco del vicolo arrivarono due agenti
che chiamarono un’ambulanza comunicando l’ accaduto al diretto superiore.
Il commissario Quattrone giunse prima dei soccorsi, quando già il gigante aveva ripreso a
respirare autonomamente e Moreno era ancora inginocchiato accanto. L’ispettore Roccati colse il
fugace ghigno di soddisfatta cattiveria sul volto di
Quattrone. Capì subito di avergli fornito l’ occasione che aspettava da tempo.
Nel trambusto qualcuno fece sparire la spranga
di ferro. All’inchiesta, i due agenti e il commissario Quattrone dichiararono che il gigante era disarmato e non fecero menzione dei tentativi di
rianimazione messi in atto dal collega. Anzi, il
commissario affermò che, al suo arrivo, l’ispettore
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era chino sul dimostrante probabilmente perché
aveva continuato a infierire su questi nonostante
giacesse privo di sensi. Il gigante fu operato per
rimuovere un ematoma cerebrale, e sopravvisse,
ristabilendosi del tutto. Al processo, l’ispettore
Roccati venne condannato per eccesso di legittima
difesa. Non scontò la pena che venne sospesa per
l’ottimo stato di servizio degli anni precedenti.
L’ispettore Moreno Roccati venne allontanato
dal servizio per due anni, ma dopo appena un mese
rassegnò le dimissioni che furono accolte immediatamente.
Il commissario Corrente provava rabbia e frustrazione per la sorte che era toccata al migliore
dei suoi uomini. Rabbia, perché sapeva di che pasta era fatto e non aveva creduto a una sola parola
dei suoi denigratori; frustrazione, perché non era
riuscito a scoprire il motivo che aveva indotto
Quattrone a testimoniare contro Roccati. Era ancora assorto in questi pensieri, quando Moreno, finita
la birra gli chiese chiarimenti:
«Mi spieghi meglio come è morto».
«È volato giù dal quinto piano, dal terrazzo di
casa sua, che si trova a Monte Mario, in un palazzo signorile. Il medico legale attribuisce il decesso
a trauma cranico dovuto all’impatto sul terreno. Il
corpo, prima di arrivare a terra nel giardino che
circonda la casa, è rimbalzato sul parapetto di due
terrazzi di appartamenti sottostanti lievemente
sporgenti rispetto a quello del quinto piano, così vi
sono varie lesioni superficiali e fratture multiple
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che potrebbero mascherare eventuali segni di violenza perpetrata prima della caduta. Nessuno ha
visto o udito nulla. Lo stabile ha dodici grandi appartamenti, due per piano. Nove sono attualmente
disabitati perché i proprietari si sono trasferiti nelle
residenze al mare per il periodo estivo. Oltre al
professore, che era celibe e viveva da solo, altre
due famiglie erano presenti la sera della disgrazia:
due anziani coniugi tre piani sotto al professore sul
lato sinistro e un architetto con moglie e due figli,
al quarto piano, in un appartamento sul lato destro
dell’edificio. In ambedue le abitazioni gli infissi
erano chiusi ed era in funzione l’aria condizionata».
«Chi ha scoperto il cadavere?».
«Intorno alle ventitré e trenta il maggiore dei
figli dell’architetto è uscito per portare fuori il cane. Era nell’ascensore quando gli è sembrato di
udire un tonfo. Appena fuori dall’androne, il cane
lo ha trascinato verso il professore che era per terra
in un vialetto tra le aiuole condominiali. Ha citofonato al padre che si è precipitato giù e quindi ha
chiamato noi».
«Che tipo era il professore?… Non mi ha ancora
detto come si chiamava».
«Il professore Enrico Brocca era un tipo affascinante e carismatico. Docente presso la Facoltà di
Economia, rivestiva importanti incarichi in qualità
di consulente del Ministero. Nonostante i suoi sessant’anni aveva un fisico asciutto e ben curato. Era
socio di un circolo del tennis ove giocava due volte
per settimana».
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«Donne?».
«Mai sposato. Chi lo conosceva dice che in passato ha avuto molte donne, forse anche qualche
giovanissima allieva. Da qualche anno ha una relazione stabile con una docente della sua stessa
facoltà, la professoressa Irma Veneziani. È un’ avvenente signora di cinquantatré anni, divorziata e
con una figlia. Questa è sposata con un ingegnere
minerario che lavora in Sudafrica. Vivono lì da
due anni e non hanno ancora avuto figli».
«Dell’ex marito che si sa?».
«All’apparenza un uomo tranquillo e mite. È un
avvocato civilista, stimato e benvoluto dai suoi
collaboratori. La separazione risale a quindici anni
or sono ed è stata consensuale».
«Suppongo che il viaggio che il professore aveva in programma di fare, sarebbe stato in compagnia della signora di cui stiamo parlando».
«Sì. Abbiamo trovato la prenotazione a nome di
tutti e due per una crociera sul Baltico compresi i
biglietti per i voli da Roma a Copenaghen e ritorno
e i transfer al porto di quella città da dove sarebbe
iniziata la crociera stessa».
«Segni di effrazione in casa?».
«No. La porta è blindata, ma con una di quelle
serrature che, se non vi è almeno una mandata, si
aprono strisciando una lastra o una carta di credito
semirigida. Così abbiamo aperto senza bisogno di
chiamare un fabbro. Comunque in casa era tutto
perfettamente in ordine. L’unica cosa fuori posto
che abbiamo trovato, stava sul terrazzo da cui è
precipitato. Una delle quattro sedie di ferro battuto
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che erano disposte intorno a un piccolo tavolo, era
stata spostata e giaceva rovesciata per terra pressappoco nel punto dal quale probabilmente il professore era volato di sotto».
«Potrebbe esservi salito per scavalcare meglio il
parapetto, rovesciandola quando si è dato la spinta
con i piedi».
«Potrebbe! Ma potrebbe anche averla rovesciata
nel tentativo di frapporre un ostacolo tra se e il
proprio aggressore».
«Anche questa è un’ipotesi plausibile».
«Impronte digitali?».
«Tante del professore, alcune sono riconducibili al
portiere o alla donna che si occupava delle pulizie.
Sulla sedia rovesciata alcune impronte non identificate. Niente capelli, se non quelli del professore
tra i pettini nella toilette. Stiamo controllando altre
eventuali tracce».
«Caro commissario, non mi sembra che vi siano
tante frecce al suo arco! Sostenere l’ipotesi di un
omicidio è quantomeno azzardato e privo di elementi fondati. Lei sa benissimo che un momento
di sconforto può capitare a chiunque. La mente
umana è ancora piena di misteri anche per chi la
studia».
«Hai ragione! Ma di solito chi arriva a togliersi
la vita ha dei precedenti, si è sottoposto a terapie
antidepressive se non ha, addirittura, già tentato di
togliersi la vita. Il suo medico di fiducia, oltre che
amico personale, esclude in maniera categorica che
Brocca fosse un depresso».
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Tra un sorso e l’altro della birra ghiacciata, l’ex
ispettore Roccati aveva preso brevi appunti sotto lo
sguardo compiaciuto del commissario. In realtà
aveva annotato solo nomi o parole che gli dovevano servire da promemoria nel corso dell’indagine
successiva.
Il commissario si riteneva soddisfatto. La sua
visita aveva avuto l’effetto di stimolare la curiosità
di Moreno. Questi sapeva bene che Corrente non
aveva alcuna intenzione di sfruttare le sue doti per
trarne un vantaggio personale, e che era mosso solo dall’impulso irrefrenabile di sbrogliare il bandolo invisibile di una matassa che, proprio perché
all’apparenza sembrava semplice, doveva per forza
essere parecchio intricata. Lui e il commissario
erano fatti della stessa pasta: erano due “segugi”
che quando fiutavano una pista dovevano seguirla
fino in fondo, a qualunque costo.
L’avevano fatto, spesso da soli e, qualche volta,
insieme. Tutti e due avevano pagato il prezzo della
propria cocciuta perseveranza.
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CAPITOLO II
L’agente Piera Pozzo bussò alla porta di Moreno l’indomani mattina, di buon’ora. Aveva con sé
un plico sigillato che le aveva dato il commissario
Corrente. L’agente non conosceva l’esatto contenuto del plico, ma immaginava si trattasse di
materiale riguardante l’inchiesta in corso.
«Entra Piera. Ho appena fatto il caffè. Prendiamone insieme una tazza».
«Grazie, lo accetto volentieri, anche se ne ho
preso uno al distributore automatico prima di uscire dal Commissariato. Come va, ispettore?».
Non riusciva a chiamarlo in altro modo. In passato avevano lavorato insieme e provava per lui
un’ammirazione enorme. Anzi, spesso, si era chiesta quale fosse in realtà il sentimento che provava
per Moreno. Poteva essere amore? Forse si trattava
solo di fiducia assoluta mista a devozione, attaccamento, rispetto. In realtà non sapeva bene cosa
fosse l’amore. Da adolescente, a differenza delle
sue coetanee, non aveva mai preso una cotta vera e
propria. C’era stato un ragazzo con cui aveva amoreggiato per qualche mese. Poi basta.
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I corteggiatori non le erano mai mancati, meno
che mai ora che era una giovane donna bella, alta,
bruna, con un fisico atletico e il volto dai lineamenti decisi addolciti da uno sguardo profondo. I
suoi occhi neri possedevano una particolare brillantezza e un fascino accattivante.
Lei e Moreno avevano vissuto anche momenti di
estremo pericolo e non poteva dimenticare lo spirito di abnegazione e la generosità dell’ispettore
Roccati. Questi, durante un conflitto a fuoco con
dei rapinatori in fuga, si era buscato una pallottola
in pieno petto per farle da scudo. Meno male che il
giubbotto antiproiettile aveva tenuto. Il colpo era
stato sparato da distanza ravvicinata con un’arma
di grosso calibro e l’impatto era stato violentissimo
al punto da sbalzare Moreno indietro di qualche
metro.
L’agente Piera Pozzo, allora, aveva appena
vent’anni ed era alla sua prima pattuglia. Era un
bravo pilota. Aveva completato l’addestramento
sulla pista di Monza.
Quando arrivò la comunicazione via radio che
era stata rapinata una farmacia notturna nella loro
zona, l’agente attivò la sirena e, sgommando, fece
un testacoda per immettersi nella giusta corsia,
mentre Moreno indossava il giubbotto. Cento metri
più avanti, una BMW nera sbucò da una traversa
alla loro destra per immettersi nello stesso senso di
marcia accelerando bruscamente.
Cominciò l’inseguimento che si concluse dopo
meno di un chilometro. Il conducente della BMW
perse il controllo della vettura andando a schian21
tarsi contro un’autobotte munita di spazzoloni per
la pulizia delle strade. Pozzo dovette usare tutta la
propria abilità per non cozzare con i mezzi incidentati.
L’ispettore Roccati scese dalla macchina, pistola in pugno. Ordinò alla compagna d’indossare il
giubbotto e di chiamare soccorsi; ma lei, nella
concitazione del momento, non eseguì l’ordine e
scese immediatamente dall’auto con l’arma in mano. Dalla BMW non sembrava venire alcun segno
di vita. Moreno era attento a ogni possibile reazione proveniente dall’automobile con i rapinatori a
bordo e non si era accorto che Piera procedeva alla
sua sinistra, solo un paio di metri dietro. Nello
stesso istante in cui vide il braccio e il luccichio
dell’arma che sporgeva dal finestrino, si rese conto
della presenza della sua collega. Istintivamente
scartò sulla sinistra e le fece scudo con il proprio
corpo.
Il guidatore della BMW, nonostante avesse fratture alle gambe e fosse intrappolato nell’abitacolo
continuò a esplodere altri colpi verso l’auto della
polizia, fino a che non ebbe esaurito i proiettili.
Venne estratto più tardi con l’aiuto dei vigili del
fuoco.
Il suo compagno era morto sul colpo nell’urto,
per trauma cranico.
L’ispettore Roccati ricevette un encomio ufficiale e guadagnò l’eterna gratitudine dell’agente
Pozzo.
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La risposta dell’ispettore la distolse dal ricordo
di quegli avvenimenti
«Va bene, anzi benissimo, se non fosse per il
fatto che col mio mestiere si guadagna una miseria.
Giusto per sopravvivere».
«Veramente non è che con lo stipendio nostro
vada meglio».
«Sono tempi duri per tutti».
Bevvero il caffè in silenzio. Poi Moreno chiese:
«Che ne pensi del caso Brocca?».
«Veramente non ho una precisa opinione. Il
commissario Corrente è convinto che si tratti di
omicidio. Lei, ispettore, che idea s’è fatta?».
La domanda non ebbe risposta. Roccati disse:
«Ti prego Piera, non chiamarmi ispettore. Intanto non lo sono più e poi non potresti chiamarmi
Moreno e darmi del tu? Ormai te lo chiedo da un
po’, ma non vuoi accontentarmi».
Piera annuì, abbassò per un attimo lo sguardo,
poi fissò Moreno con i suoi grandi profondi occhi
neri senza dire nulla. I due si guardarono per un
tempo breve ma che sembrò loro lunghissimo, poi
lei, per congedarsi, tese la mano destra che Moreno
strinse per qualche secondo in più del dovuto. Si
salutarono così senza aggiungere altro.
Piera, scendendo per le scale, si diede della stupida.
Dopo essersi rasato e aver indossato una polo
pulita sui soliti pantaloni chiari di cotone “non stiro”, Moreno sedette alla scrivania e aprì il plico
che gli aveva mandato Corrente. Conteneva le fo23
tocopie di tutto il materiale raccolto sulla morte del
professor Brocca.
Analizzò con cura la relazione del medico legale
che si atteneva alla descrizione anatomica delle
lesioni sia superficiali che profonde.
La morte veniva attribuita al trauma cranico
provocato dall’impatto sul terreno. Vi erano fratture multiple agli arti e numerose escoriazioni e tumefazioni presumibilmente dovute al cozzare del
corpo contro le sporgenze dei terrazzi incontrati
durante la caduta. Al quesito posto dal magistrato
inquirente relativo alla presenza di segni di violenza sul corpo, il medico rispondeva che, considerati
gli effetti dei ripetuti urti, non potevano essere esclusi, specie quelli al capo, in quanto l’impatto sul
terreno era avvenuto proprio con questa parte che
appariva deformata. In definitiva non poteva essere
escluso che qualcuno l’avesse tramortito o solo
spinto giù dal terrazzo. Nessuno aveva udito urla. I
pochi inquilini presenti nello stabile, tenevano gli
infissi chiusi e i condizionatori accesi. Era alquanto improbabile che potessero essere udite grida o
richieste d’aiuto in tali circostanze. Tuttavia bisognava controllare.
Moreno prese il telefono e chiamò Corrente al
cellulare. Non voleva che la sua telefonata passasse dal centralino del commissariato.
«Pronto, commissario, sono Moreno. La disturbo? Può parlare?».
«Dimmi, Moreno».
«Ho pensato che dovrebbe verificare se è possibile udire, nei due appartamenti che quella sera
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erano abitati, con gli infissi chiusi, eventuali urla
provenienti dal terrazzo del professore o, comunque, dall’esterno».
«Ci avevo pensato anch’io. Verificherò».
«Penso pure che dovremmo cercare di saperne
di più riguardo agli incarichi che il professore aveva al ministero e, in particolare, conoscere ciò di
cui si stava occupando in quest’ultimo periodo».
«Va bene, vedo di fissare un appuntamento con
un funzionario. Verrai con me. Ti chiamo per dirti
quando».
«Ok, commissario. Mi chiami al cellulare. Io me
ne vado un po’ in giro per saperne di più sul professore Brocca».
Moreno in sella alla sua vecchia Vespa 150 color amaranto, destreggiandosi nel traffico romano,
raggiunse la Facoltà di Economia dell’Università
“La Sapienza” di Roma in via del Castro Laurenziano.
Parcheggiò il suo logoro mezzo di locomozione
tra tanti fiammanti moderni scooter. Non si può
dire che avesse l’aria di uno studente, ma non
sembrava neanche uno sbirro, un atleta piuttosto,
per il suo incedere agile ed estremamente coordinato e la notevole prestanza fisica.
L’ingresso era ampio e abbastanza fresco, nonostante la calura estiva. Moreno andò dritto verso un
box di alluminio e vetro dentro al quale sedeva un
omino grasso e pelato dall’aria annoiata. A questi
chiese:
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«Senta, mi chiamo Roccati, sono un investigatore ingaggiato da una compagnia di assicurazioni.
Vorrei farle qualche domanda sul professore Brocca. Lei lavora qui da molto? Lo conosceva bene?».
«Io sto qui da vent’anni. Certo che lo conoscevo. Ma che c’entra l’assicurazione?».
Moreno si avvicinò al suo interlocutore con atteggiamento circospetto. Guardandosi intorno e,
abbassando il tono della voce, aggiunse: «Sento di
potermi fidare di lei. Voglio farle una confidenza
che spero sappia tenere per se. Il professore aveva
stipulato da poco tempo un’assicurazione per un
milione di euro in caso di morte accidentale. Per la
polizia si tratta di suicidio anche se non si è trovato
un biglietto o una lettera che spieghi il gesto. Gli
eredi sostengono la tesi di un incidente. La società
per cui lavoro vuole vederci chiaro anche perché la
somma da pagare è considerevole. Lei conosceva il
professore. Pensa che avesse motivi seri per suicidarsi? Signor … Mi scusi, ma non conosco ancora
il suo nome».
«Mi chiamo Mario, Mario Cirro. Come le dicevo, sto qui in questa guardiola da vent’anni. Il
professore Brocca era un pezzo grosso, uno di
quelli che contano, con la mosca al naso. Rispettoso però. Anche gentile. Salutava sempre, ma non si
fermava mai a scambiare una parola».
«Dal punto di vista professionale, che lei sappia,
aveva avuto contrasti, motivi di amarezza o risentimento verso altri?».
«Signor Roccati, si vede che lei non conosce
l’ambiente universitario. Qui è una giungla! Appa26
rentemente sembrano tutti amici, ma, in realtà, i
professori sono sempre in guerra tra loro. Girava
voce che Brocca sarebbe stato il prossimo preside
di Facoltà, anche se l’altro candidato, il professore
Castelli, non era ancora considerato escluso dalla
corsa alla carica. Le elezioni si terranno a settembre. Con tutto il rispetto e senza voler essere cinico
a Castelli non gli poteva andare meglio».
«Senta Mario, anche per capire meglio chi era il
professore Brocca, non che questo abbia attinenza
con l’assicurazione, ma quasi per una curiosità
mia: storie di donne?».
Mario sembrava esitare. Moreno sfoggiò uno dei
suoi sorrisi migliori e, giocando d’astuzia, aggiunse:
«Lasci stare, signor Cirro, capisco il suo riserbo.
Lei è una persona per bene. Non è necessario che
mi dica nulla».
Mario reagì nel modo atteso.
«Io mi faccio sempre i fatti miei, ma qua lo sanno tutti che il professore faceva il dongiovanni con
le studentesse, sempre con molta discrezione però.
Non c’è mai stato uno scandalo. Secondo me qualche studentessa che sapeva del suo vizietto, ne
approfittava per prendere una scorciatoia alla laurea».
«Quindi il professore ci provava!».
«Così si dice».
«E della professoressa Veneziani, che mi dice?».
«Mah! Che le devo dire. Qui dentro quasi non si
salutavano. Ma fuori li hanno visti insieme. Così
dicono».
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«Un’ultima cosa: sa se oggi c’è qualcuno dei
suoi assistenti e dove posso trovarli?».
«Ricercatori si chiamano: una volta c’erano gli
assistenti, ora ci sono solo professori e ricercatori.
Comunque, può trovare qualcuno nella biblioteca
dell’Istituto, al primo piano».
«Grazie e buona giornata».
Moreno salì in fretta al primo piano. La biblioteca era una vasta sala rettangolare. Attraverso la
porta a vetri vide un grande tavolo ovale al centro
circondato da tante sedie di legno. Le pareti erano
rivestite da scaffalature che arrivavano al soffitto,
stracolme di libri. Era deserta. Moreno stava ancora guardando dentro quando gli si avvicinò un
uomo sulla quarantina, dai tratti giovanili, ma con
qualche capello grigio.
«Desidera?» chiese l’uomo.
Moreno trasalì, sorpreso e impacciato «Sì, certo!
Vorrei parlare con un ricercatore dell’Istituto diretto dal professore Brocca».
«Dica pure. Sono il dottor Gualdi, faccio parte
dell’organico dell’Istituto».
Moreno ripeté la fandonia dell’assicurazione e
della necessità di scoprire se il professore avesse o
meno motivi che potessero indurlo al suicidio. Il
dottor Gualdi ascoltò con attenzione e, nonostante
non sembrasse del tutto convinto delle parole del
suo interlocutore, rispose con diligenza:
«Ho letto sul giornale che non è stato trovato
alcun scritto che giustificasse il gesto. D’altro canto, anche se non sono mai stato a casa sua, mi
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sembra che sia abbastanza improbabile che il professore si sia imprudentemente sporto dal terrazzo
fino a precipitare. Io conoscevo bene il professore
solo dal lato professionale. Comunque le posso
assicurare che non mi ha mai dato l’impressione di
essere una persona capace di pensare al suicidio.
Anzi, credo, fosse un uomo capace di apprezzare i
piaceri della vita».
«A proposito. Ho sentito qualche voce su storie
con studentesse».
Il dottor Gualdi rispose immediatamente con
aria indignata, ma con eccessiva enfasi che sembrava contraddire la propria affermazione:
«Malignità assolutamente infondate!».
Moreno capì che era inutile insistere su quell’argomento. Consapevole del passo falso, fece marcia
indietro e corresse il tiro:
«Ne sono convinto anch’io. Sono abituato a raccogliere maldicenze e a dar loro il giusto peso.
Un’ultima cosa vorrei chiederle, anche se, probabilmente, ha poco a che vedere con la mia indagine. Mi risulta che il professore fosse consulente
del ministero dell’Economia. Sa dirmi di cosa si
stesse occupando in questo periodo?».
«Mi dispiace, ma le sue attività extrauniversitarie
appartenevano alla sfera strettamente professionale
e il professore non ne discuteva mai né con me né
con altri del nostro gruppo».
Moreno non cercò di incontrare la professoressa
Irma Veneziani. Voleva prima conoscere l’ex marito. Il suo lavoro alla facoltà di Economia era
finito.
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Uscì sotto i raggi di un solleone e si avviò verso
la vespa. Ebbe la netta impressione di essere osservato. Non si voltò, doveva esserci qualcuno alle
sue spalle, ne era sicuro. Arrivato allo scooter, aprì
il bauletto posteriore, estrasse il casco, lo indossò,
poi montò in sella e solo allora diede uno sguardo
apparentemente distratto agli specchietti retrovisori. Aveva ragione. Un giovane in jeans chiari e
maglietta scura stava seduto sui gradini più bassi
della scalinata d’ingresso e faceva finta di leggere
pagine di un blocco di appunti mentre lanciava
sguardi verso Moreno. Aveva i lunghi capelli scuri
raccolti in una piccola coda e un berretto di cotone
con visiera gli nascondeva la fronte.
Voleva sembrare uno studente che sfogliava distrattamente i suoi appunti. Ma quale studente a
fine luglio sarebbe stato sotto il sole a studiare?
Non doveva essere neppure tanto giovane. Probabilmente aveva più di trent’anni.
Qualcun altro si interessava all’indagine, non
c’era dubbio. Moreno pensò che la cosa migliore
fosse non far capire di essersene accorto. La storia
cominciava a piacergli.
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CAPITOLO III
Alle nove del mattino del giorno dopo, Moreno
e il commissario Corrente s’incontrarono in un bar
di Via XX Settembre poco distante dal ministero
dell’Economia e delle Finanze. Consumarono cappuccino e cornetto. Moreno, tra un sorso e un
boccone, raccontò della sua visita alla facoltà di
Economia, ma non disse che credeva di essere stato spiato.
Corrente, dal canto suo, gli riferì di aver interrogato la professoressa Irma Veneziani che aveva
confermato la propria relazione con il professore,
aggiungendo che avevano in programma di fare
una crociera insieme. Era sembrata sinceramente
addolorata e incapace di dare una spiegazione
all’ipotesi del suicidio. Anche lei era convinta che
non ci fossero motivi per un gesto estremo. Nel
primo pomeriggio ci sarebbero stati i funerali di
Brocca. Concordarono di presenziare alla cerimonia, ma di recarvisi separatamente.
Uno dei segretari del Capo Gabinetto del Ministro si chiamava Gregorio Simoni ed era stato
compagno di classe di Corrente durante gli anni
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del liceo. L’accoglienza fu calorosa. Il commissario disse una mezza bugia presentando Moreno
come un suo collaboratore.
«Caro Gregorio, sono venuto a chiedere un’ informazione riservata che resterà tale. Come avrai
avuto modo di sapere attraverso gli organi di stampa, il professore Brocca è precipitato giù dal
terrazzo di casa sua. Prima di archiviare il caso
come suicidio, dobbiamo escludere qualunque altro motivo. Vorremmo conoscere il ruolo esatto
che rivestiva qui al ministero e, se possibile, sapere
esattamente di cosa si stava occupando in
quest’ultimo periodo».
Simoni rispose senza indugi: «Brocca era un
consulente del Ministro, nominato dallo stesso.
Che io sappia, non lavorava a un progetto specifico. Credo, piuttosto, che fosse un consigliere che
veniva frequentemente interpellato quando bisognava adottare misure atte a fronteggiare questo
periodo caratterizzato da crisi ripetute».
Moreno intervenne: «Se ho ben capito, il professore Brocca, in qualità di consulente, rispondeva
solo al Ministro e quindi solo lui potrebbe darci
ulteriori delucidazioni».
«Sì. È proprio così. Credo di capire che siete
alla ricerca di un’eventuale pista politica. Se volete
un mio parere personale penso che siate fuori strada».
Si congedarono. Erano delusi. Non si riusciva a
cavare un ragno dal buco.
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In via XX Settembre c’era un ingorgo. Anche i
taxi erano bloccati nella corsia preferenziale.
«Commissario, se vuole posso darle uno strappo
con la mia vespa».
«Lascia perdere. A causa della mia artrosi alle
anche non riuscirei a montarci sopra. Prenderò un
taxi più avanti. Ci vediamo al funerale, alle tre del
pomeriggio».
«Ci sarò. A più tardi».
Moreno si avviò con passo deciso, guardandosi
intorno con fare apparentemente distratto. Cercava
il finto studente con i capelli raccolti e il cappellino con visiera. Non c’era. Pensò che forse si era
sbagliato. Magari era proprio uno studente e gli
piaceva starsene lì a prendere il sole.
La storia perdeva d’interesse. Stava addirittura
pensando di non andare al funerale. Avrebbe dovuto telefonare al commissario e inventare una scusa.
Gli sembrò un comportamento infantile. Pazienza,
anche se a malincuore, sarebbe andato!
Moreno, dopo aver parcheggiato la vespa, si
fermò al minimarket sotto casa dove acquistò una
confezione di sei bottiglie di birra, due panini, prosciutto e una mozzarella. Appena tornato in strada
vide passare una moto di grossa cilindrata con due
giovani a bordo. Non ne ebbe la certezza, perché i
due indossavano il casco, ma gli sembrò che
l’uomo seduto dietro fosse proprio il finto studente
di Economia.
Salì i sei piani di scale agilmente. Entrò in casa.
Sistemò le bottiglie nel frigo e cominciò a prepara33
re i panini farcendoli con il prosciutto e fette di
mozzarella.
Un’idea improvvisa gli fece interrompere ciò
che stava facendo. Andò alla scrivania, aprì il cassetto centrale, tirò fuori il plico che gli aveva
mandato Corrente.
Moreno, quando era ancora in polizia, aveva
l’abitudine, riponendo i dossier di sua competenza,
di allineare bene tutte le pagine, lasciando sporgere
dal margine verso il basso di appena qualche millimetro, solo il terzo foglio. L’espediente gli aveva
consentito di individuare intromissioni indesiderate. Questa sua deformazione professionale era
diventata un’abitudine che eseguiva meccanicamente.
Tirò fuori i fogli e vide che erano stati tutti perfettamente allineati. Qualcuno aveva letto quelle
carte durante la sua assenza. Andò a guardare la
serratura della porta d’ingresso. Non notò alcun
segno sospetto. La porta era stata aperta da un professionista.
Tornò a occuparsi dei panini e cominciò a riflettere sull’accaduto.
Qualcuno era interessato all’indagine che stava
svolgendo e voleva conoscere quali elementi avesse raccolto. Probabilmente non si trattava di un
singolo individuo, ma di un’organizzazione. I giovani in moto erano due. Verosimilmente, mentre
uno era entrato in casa, l’altro aveva fatto da palo,
in modo da poter avvertire il complice nel caso di
un suo rientro.
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La chiesa era piena a metà. L’afa, a quell’ora di
pomeriggio, era diventata quasi insopportabile.
Moreno aveva indossato l’unica giacca di cotone
che faceva parte del suo ristretto guardaroba estivo. Attraversò la navata laterale procedendo con
discrezione, percorrendola per intero, cercando di
dare nell’occhio il meno possibile.
C’erano delle panche ai lati dell’altare, poste
perpendicolarmente ad esso, parzialmente nascoste, all’occhio dei più, dalle poderose colonne che
sostenevano la volta dell’abside. Vi trovò posto e
sedette. Si dimostrò essere un buon puto d’osservazione, almeno rispetto alla parte anteriore della navata centrale.
Riconobbe, in prima fila, il Ministro e alcuni
uomini politici dello stesso partito. Una signora di
mezz’età che indossava un abito color verde scuro
dal portamento elegante, sedeva anch’essa in prima fila, proprio accanto alla bara. Doveva essere la
professoressa Veneziani. Accanto a lei un signore
anziano in abito scuro, camicia bianca e cravatta
nera, aveva l’aria sinceramente addolorata. Mentre
cercava di capire chi potesse essere, Moreno sentì
la voce di Corrente che gli sussurrava: «È l’unico
fratello di Brocca, un medico in pensione che vive
a Firenze. È stato lui a fare il riconoscimento della
salma».
Moreno non aveva visto arrivare il commissario,
preso com’era dall’osservare i presenti, e fu sorpreso di vederselo accanto. Non si scambiarono
altri commenti. Il dottor Gualdi dell’istituto di Economia era in quarta fila. Poi gli sembrò di
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scorgere il giovane finto studente. Si alzò senza
dire niente a Corrente e si diresse verso l’uscita
appena in tempo per vederlo montare sulla moto di
grossa cilindrata di cui memorizzò prontamente la
targa che poi trascrisse sul proprio telefonino.
Al termine del rito funebre, fuori dalla chiesa,
Moreno disse a Corrente che voleva parlargli. Andarono in un bar vicino, sedettero ad un tavolo
isolato e lì riferì al commissario delle circostanze
in cui aveva incontrato il giovane, compresa
quest’ultima, e che qualcuno aveva frugato tra i
documenti riguardanti la morte di Brocca.
«Ho preso nota del numero di targa della moto.
Dovrebbe cercare di risalire al proprietario, anche
se credo si rivelerà una pista impercorribile».
«Che vuoi dire?».
«Potrebbe essere una targa falsa o, come penso
sia più probabile, essere criptata».
«Credi che ci siano dietro i Servizi?».
«Chi altri? A chi può interessare sapere come è
morto un professore di Economia consulente del
Ministro?».
«In tal caso, avremmo le mani legate. Lo sai bene che è impossibile ottenere qualche informazione
dai Servizi. Dovrei rivolgermi al Questore, ma
come potrei spiegare che i Servizi stanno spiando
un investigatore privato, ex ispettore di polizia, da
me incaricato delle indagini? Mi dovrei ritenere
fortunato se riuscissi a cavarmela con un trasferimento in un paesino dell’Alto Adige a dover
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imparare il tedesco, una lingua che non riesco a
digerire».
«Io le ho dato la targa, poi faccia lei», concluse
Moreno con quel suo sorriso impertinente.
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CAPITOLO IV
L’avvocato Siani ricevette l’investigatore Roccati dopo aver consultato il sito della Confederazione Nazionale Investigatori Privati (CON.IPI.).
In effetti, tra gli associati operanti nella regione
Lazio, figurava il nome di Moreno Roccati.
L’avvocato non era diffidente per natura, ma in
tanti anni di professione aveva imparato a essere
prudente.
Era sempre bene sapere qualcosa di un interlocutore sconosciuto.
«Prego, si accomodi», disse alzandosi in piedi e
indicando una poltrona di pelle proprio di fronte a
lui, dall’altro lato della scrivania.
«Grazie avvocato! Mi chiamo Moreno Roccati»,
disse mostrando il tesserino della CON.IPI, «come
le avrà certamente detto la sua segretaria che ha
fissato questo appuntamento, sono un investigatore
privato e sto svolgendo una delicata indagine nella
quale lei potrebbe essere, involontariamente e del
tutto marginalmente, implicato».
«Non capisco, si spieghi meglio».
«Si tratta della morte del professore Brocca».
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Moreno fece una pausa e guardò il suo interlocutore che gli sembrò infastidito, piuttosto che
preoccupato.
«Guardi che, per questa storia, ho già ricevuto
la visita di un commissario di polizia non del tutto
convinto che si sia trattato di un suicidio. Poi, a
essere sincero, non capisco a che titolo lei stia
svolgendo un’indagine che, in tutti i casi, se proprio fosse necessaria, sarebbe di competenza
dell’autorità giudiziaria».
Moreno sapeva bene che la storia dell’assicurazione sulla vita non sarebbe stata creduta
dall’avvocato perché a lui avrebbe dovuto rivelare
il nome della Compagnia assicuratrice. Siani avrebbe potuto facilmente controllare la veridicità
delle sue affermazioni. Moreno si trincerò dietro il
segreto professionale che, sicuramente in un colloquio informale come quello, avrebbe retto egregiamente. Mentì: «La prego di scusarmi, ma
l’incarico mi è stato affidato da una persona molto
vicina al professore che mi ha vincolato al più
stretto riserbo».
«Va bene. Sarei tentato di interrompere subito
questo colloquio, ma credo che sia giusto fugare
ogni dubbio o sospetto che lei o altri possono avanzare».
«Grazie per la sua collaborazione. Vorrei sapere
in che rapporti è con la sua ex moglie».
«Esiste reciproco rispetto per le scelte che ognuno di noi ha fatto dopo la separazione. Non ci
vediamo quasi più da quando nostra figlia è partita.
Abbiamo avuto una sola figlia che ha sposato un
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ingegnere minerario e da due anni vive in Sudafrica col marito».
«Lei sapeva della relazione che aveva col professore Brocca?».
«No. Me lo ha comunicato il commissario di
polizia che è venuto a interrogarmi dopo la morte
di questo professore che, a quanto pare, era un personaggio di spicco. Mi è dispiaciuto per Irma.
Vede, dopo tanti anni dalla separazione, ci si dimentica dei torti subiti e degli antichi rancori e si
crea un rapporto affettivo strano, come quello che
si instaura tra lontani parenti che sanno di essere
consanguinei e, per questo, sentono di appartenere
alla stessa famiglia, pur senza frequentarsi o vedersi per periodi lunghissimi. Quando ho saputo, l’ho
chiamata. Abbiamo parlato a lungo. Era veramente
addolorata. Penso che amasse quell’uomo!».
«La ringrazio molto per avermi ricevuto e per
avere accettato di rispondere alle mie domande. Le
auguro una buona giornata». Si alzò e uscì immediatamente dalla stanza. L’avvocato Siani era un
brav’uomo schietto e sincero, pensò. Sicuramente
non aveva nulla da nascondere e sarebbe stato inutile insistere con domande tendenziose. Per Moreno, quella era una pista che si esauriva lì.
Il pomeriggio era caldo e afoso. Moreno non
tollerava il casco; parcheggiò la vespa e decise di
scendere sul lungotevere Michelangelo, quel tratto
della riva destra del fiume che va da piazza Cinque
Giornate a piazza della Libertà, nel rione Prati. Il
Tevere scorreva lento; tra gli alti argini una corren40
te d’aria saliva da valle verso monte portando un
lieve refrigerio. Moreno accese mezzo sigaro toscano aromatizzato all’anice e continuò a passeggiare pigramente. L’indagine era a un punto morto.
Le piste percorribili sembravano tutte esaurirsi
immediatamente: il movente passionale era da escludere; l’avvocato Siani era un uomo tranquillo
che non avrebbe fatto del male a una mosca, figuriamoci al compagno della ex moglie dopo quindici anni di separazione pacifica; delle presunte storie con studentesse non si trovava traccia; per la
sua attività di consulente del Ministro avrebbe potuto attirare l’attenzione di gruppi eversivi, ma non
vi era stata alcuna rivendicazione.
Moreno pensò che avrebbe dovuto indagare meglio su eventuali rivalità nel mondo accademico, o
meglio cercare chi, in quell’ambiente, potesse avere motivi di odio o rancore verso il professore.
Estrasse dalla tasca il telefono e compose il numero del cellulare di Corrente. Dopo alcuni squilli
rispose una donna:
«Ispettore è lei? Sono l’agente Pozzo. Ho visto
il suo numero».
«Piera. Passami il commissario».
«Non posso. Siamo dall’oculista. Il commissario
è impegnato nel controllo del fondo dell’occhio e,
poiché dopo l’applicazione delle gocce di atropina
necessarie all’esame, si ha una visione distorta che
rende impossibile guidare, io l’ho accompagnato.
Mi ha dato il suo cellulare per rispondere alle emergenze, anche se non siamo in servizio. Se vuole, può lasciare un messaggio».
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«Va bene Piera. Vorrei sapere se è riuscito a risalire al proprietario della moto. Lui sa a che cosa
mi riferisco».
«Glielo dirò».
Continuò la sua passeggiata. Pensò che avrebbe
potuto essere più gentile con Piera. Si chiese il
perché del suo atteggiamento con quella ragazza
che sembrava adorarlo. Nel loro ultimo incontro
c’era stato un attimo magico, uno di quei momenti
che possono dare inizio a tutto o sfumare in un
niente. Si chiese cosa provasse per lei, senza riuscire a darsi una risposta. Pensò che le avrebbe
solo fatto del male. Se avessero cominciato a frequentarsi, Piera si sarebbe rovinata la carriera.
Tutti quelli che lo avevano danneggiato, a cominciare dal commissario Quattrone, avrebbero perseguitato anche lei. Mentre era assorto in questi pensieri, squillò il telefono.
«Moreno?».
«Sì».
«Sono Corrente».
«Commissario, come è andata la visita?».
«Così, così. La pressione alta mi sta rovinando
anche gli occhi, ma per il momento non è un problema grave. Speriamo che la situazione non
peggiori!».
«Speriamo!».
«Volevi sapere della targa della moto. È come
pensavo. È criptata. Comunque, è meglio che ne
parliamo vis-a-vis, anche perché ci sono delle altre
novità che dovresti sapere».
«Va bene. Che fa, viene da me?».
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«Mi vuoi vedere morto? Non ce la farei a salire
di nuovo sei piani di scale. Ho un’idea migliore:
visto che domani è domenica, perché tu e Piera
non venite a trovarmi a Genzano per fare il punto
della situazione fermandovi a pranzo da me? Piera è d’accordo. Potrebbe, se vuoi, passare a
prenderti sotto casa alle dieci in punto».
«Va bene, a domani».
Il commissario aveva una graziosa casetta proprio alle porte di Genzano circondata da alberi di
alto fusto che ombreggiavano il piccolo giardino di
pertinenza.
Moreno c’era stato qualche volta, quando ancora
era in servizio e viveva la moglie del commissario,
ottima cuoca e persona gentile. L’idea di tornarvi
in compagnia di Piera non gli dispiaceva.
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CAPITOLO V
Alle dieci in punto dell’indomani mattina Piera
accostò al marciapiede proprio davanti al portone
dal quale, solo dopo qualche secondo, uscì Moreno. L’aria era già calda. Il cielo terso. Si preannunciava un’altra giornata rovente.
Moreno sorrise a Piera salendo in macchina e
sedendole accanto. Lei ricambiò il sorriso e i suoi
occhi scuri brillarono di una luce più intensa del
solito. Aveva sciolto i capelli che le ricadevano
sulle spalle, scuri e lucenti. Indossava jeans chiari
e una maglietta scollata. A Moreno sembrò particolarmente avvenente.
Per fortuna non c’era molto traffico e raggiunsero in poco tempo il grande raccordo anulare che
lasciarono all’uscita ventitré per la Via Appia in
direzione Ciampino - Albano Laziale.
La strada cominciava a salire dolcemente divenendo sempre più alberata. Piera chiuse l’aria
condizionata e abbassò il finestrino. L’aria che entrava era abbastanza fresca e le scompigliava i
capelli. Indossò un paio di occhiali scuri, più per
proteggersi dalla modesta turbolenza della brezza
che dai raggi del sole. La strada, infatti, era suffi44
cientemente ombreggiata da alberi di alto fusto a
chiome folte.
Lungo tutto il tragitto, fin lì, avevano scambiato
solo qualche frase di cortesia e ambedue non riuscivano a dissimulare un certo imbarazzo. Piera
ripensava a quanto tempo aveva impiegato a scegliere gli indumenti che mettessero meglio in
risalto le sue forme, a pettinarsi e truccarsi. Tutto
inutile. Moreno continuava a guardare dritto davanti a sé. Non era da lui essere intimidito da una
presenza femminile, eppure era proprio ciò che gli
stava accadendo. Reagì.
«Ascoltami Piera, non so bene se è per il fatto
che tu continui a darmi del lei o perché vorrei dirti
che mi piaci o per ambedue le cose, ma tutto ciò
mi innervosisce e non facilita il nostro rapporto.
Diventa difficile pure dialogare».
«Anche tu mi piaci», disse lei sorridendo. Spostò la sua mano destra dal volante per poggiarla
dolcemente sulla sinistra di Moreno. Adesso il silenzio era dolce, foriero di sensazioni piacevoli.
Moreno le diede un bacio sfiorandole dolcemente
la guancia. Piera accostò, spense il motore. Si baciarono con passione. Tutti e due ebbero il desiderio di far l’amore in macchina come adolescenti
alle prime esperienze, ma si rendevano conto che
non sarebbe stato possibile in quel luogo e a
quell’ora del giorno. Si staccarono a fatica più volte, per poi riabbracciarsi, prima di decidere di
rimandare a più tardi la loro più intima conoscenza.
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Quando arrivarono davanti alla villetta del
commissario sembravano due ragazzini che avevano qualcosa da nascondere. Corrente andò loro
incontro, ma non parve accorgersi del loro disagio.
Li fece accomodare in giardino, sotto il pergolato,
dove aveva apparecchiato per tre. Era quasi mezzogiorno. Sulla tavola c’erano alcuni piatti da
portata contenenti vari tipi di formaggio e salumi,
altri erano ricolmi di olive, di ortaggi sott’olio e
sott’aceto. Il commissario andò in cucina, alla quale si accedeva attraverso una porta-finestra, direttamente dal giardino e tornò portando, con una
mano, un fiasco di vino bianco ben freddo e, con
l’altra, una forma di pane che diede a Moreno dicendo: «Taglialo in fette non troppo alte. Questo è
il famoso pane di Genzano».
«Dove ha preso tutto questo “ben di Dio”?»,
chiese Moreno.
«In una “fraschetta” dove mi conoscono da sempre».
«Una fraschetta?», chiese Piera incuriosita.
«Le osterie da queste parti si chiamano fraschette perché una volta, l’oste, per indicare che c’era il
vino nuovo, esponeva sulla porta una frasca. Una
tradizione che si mantiene ancora oggi. Io mi servo sempre dalla stessa, perché ha il bianco più
buono della zona. Assaggiatelo. Adesso accendo la
brace per l’abbacchio». Così dicendo si diresse
verso un angolo del giardino, dove c’era un grande
fornello a carbone. Dopo aver armeggiato per qualche minuto davanti ad esso, tornò dai suoi ospiti
con fare soddisfatto, dicendo: «Se non vi sembra
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troppo presto, possiamo cominciare con gli antipasti, mentre la griglia per l’abbacchio si arroventa
ben bene».
Piera e Moreno non se lo fecero ripetere. Cominciarono subito.
Durante il pranzo non accennarono al caso di
cui si stavano occupando. Parlarono del tempo, un
po’ anche di politica, dei progetti per le ferie che
ancora non avevano preso, di un collega anziano
che era andato in pensione proprio in quei giorni e
verso il quale tutti provavano grande stima.
L’atmosfera era estremamente serena e rilassante.
Corrente era cortese e attento verso i suoi ospiti
che ricambiavano le sue premure. Stavano bene
insieme.
Dopo il caffè, Moreno chiese di poter accendere
il mezzo toscano aromatizzato all’anice che aveva
portato con sé. Nessuno sollevò obiezioni.
Corrente andò a prendere una cartella color giallo paglierino che depose sul tavolo, ne estrasse
alcuni fogli che porse ai suoi ospiti.
«Queste sono le fotocopie dell’esame del DNA
eseguito su di un frammento di pelle rinvenuto sotto un’unghia di Brocca. Il campione era estremamente piccolo e il laboratorio ha concluso per un
alto grado di compatibilità con il DNA del professore».
«Allora è il suo», disse Piera.
«Il tecnico mi ha spiegato che non è proprio uguale al suo, ma fortemente compatibile. Ad
esempio potrebbe essere di un consanguineo. C’è
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anche la possibilità di un inquinamento del campione e data l’esiguità dello stesso non è stato
possibile effettuare ulteriori verifiche».
Moreno intervenne: «Dunque, il frammento di
pelle potrebbe essere dello stesso professore o di
un suo parente stretto. Ambedue le ipotesi sono
valide e non possiamo saperne di più».
«Ho interrogato il fratello, che si è fermato a
Roma qualche giorno per gli adempimenti legali
ed è rientrato a Firenze solo ieri. Non è stato trovato alcun testamento. Non esistono altri eredi
viventi oltre il fratello. Questi è vedovo, e non ha
avuto figli. Ha fatto il medico di medicina generale
nella sua città per più di quarant’anni. I Brocca sono originari di Firenze. Da due anni, da quando ha
compiuto settant’anni, è in pensione. Ha un carcinoma prostatico che cura con la radioterapia e,
quando è morto il fratello, si trovava a Firenze,
ricoverato in ospedale proprio per questo motivo.
Ho verificato. Penso che possiamo escludere qualsiasi movente legato ad interesse economico».
«Restano il motivo passionale e politico, anche
se mi sembra non esistano elementi significativi»,
disse Moreno e rimase in silenzio a pensare.
Ruppe la pausa Piera che aggiunse: «Qualcuno
potrebbe avere avuto un motivo di risentimento
personale, ad esempio per un torto subito. Sappiamo tutti che, talvolta, si covano rancori per periodi
lunghi che poi esplodono a distanza».
«Hai ragione. Dovremmo indagare meglio
nell’ambiente universitario», aggiunse Moreno rivolto a Corrente: «mi dica della targa della moto».
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«Ho un amico in Questura che ha accesso
all’archivio dei mezzi di Stato. Mi ha confermato
che la targa appartiene a uno di questi veicoli. Non
ho ritenuto opportuno investigare oltre. È verosimile che l’indagine sulla morte del professore sia
un atto dovuto e che anche i nostri colleghi dei
Servizi vogliano escludere una pista politica, considerato l’incarico di consulente ministeriale che
svolgeva il professore».
«E cosa cercavano tra le mie carte?».
«È probabile volessero sapere a che punto fosse
la nostra indagine, senza esporsi».
«Mi scusi commissario, ma non avrebbero potuto chiederlo a lei?».
«Avrebbero potuto, ma loro non usano mai la
strada principale. Preferiscono, diciamo così, le vie
traverse. Evidentemente, non credendo al suicidio,
speravano di appropriarsi di informazioni in nostro
possesso. Credo che, salvo eventuali clamorosi sviluppi, non si interesseranno più di tanto alle nostre
ricerche».
Il commissario fece un eloquente gesto della
mano con il palmo rivolto ai suoi ospiti per invitarli all’attesa; poi aprì la cartella color giallo
paglierino dalla quale aveva precedentemente estratto il referto del DNA e prese due fogli identici
fra loro che porse a Piera e Moreno dicendo:
«Sono le fotocopie di una lettera inviata al
Questore e pervenutagli due giorni addietro. Il
Questore ne è rimasto colpito al punto che, nonostante fosse fino a quel momento convinto della
tesi del suicidio, ne ha parlato con il magistrato
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inquirente chiedendogli di non archiviare il caso.
Successivamente mi ha chiamato invitandomi a
proseguire le indagini. Leggetela attentamente e
ditemi le vostre impressioni».
Quello che ebbero tra le mani era un foglio dattiloscritto con una macchina per scrivere a nastro,
sicuramente datata. Non c’erano correzioni, mentre
alcune lettere consecutive apparivano marginalmente sovrapposte e non in linea con le altre. La
missiva non era firmata e recava, in calce, la data
di cinque giorni prima.
Moreno lesse a voce alta:
“ Ill. mo Sig. Questore,
Le scrivo per esprimere la mia suprema indignazione per quanto ho avuto modo di leggere sulla
stampa nazionale in merito alla figura del dipartito
professore di Economia Enrico Brocca. Egli è stato
descritto, in alcuni articoli, dei quali allego copie,
come un uomo di grandi doti non solo professionali, ma anche e soprattutto umane. Riguardo a ciò
posso, con la massima onestà ed assoluta certezza,
affermare che, al contrario, egli era un reprobo attribuendo a questo termine ambedue i suoi significati letterali e cioè: 1) colui il quale è degno del
castigo di Dio e 2) chi si è macchiato di gravi colpe.
E dire che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto
porre rimedio al proprio errore e al male fatto.
Non mi sono rivolto alle redazioni dei giornali
mendaci che, avvezzi come sono alle mistificazioni, raramente cercano il vero.
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Ho ritenuto opportuno rivolgermi a Lei come
rappresentante della legalità, perché si adoperi a
ristabilire la verità.
Porgo distinti ed ossequiosi saluti.”
Seguì una pausa piuttosto lunga durante la quale
sia Moreno che Piera continuarono a guardare il
foglio che tenevano in mano, rileggendolo in silenzio con attenzione. Dopo un po’ Moreno disse:
«La prima impressione è che sia stata scritta da
un mitomane o da un visionario, specie quando si
riferisce al castigo di Dio. Poi, quando attribuisce a
Brocca un non meglio specificato errore, al quale
lo stesso non ha voluto porre rimedio, sembra conoscere a fondo il personaggio e rimproverargli il
suo presunto misfatto. Sono convinto che il nostro
personaggio anonimo abbia avuto a che fare con il
professore e, forse, anche con la sua morte».
Piera che aveva ascoltato con attenzione disse:
«L’autore sembra un uomo d’altri tempi perché
ha dattiloscritto la lettera con una macchina a nastro ormai in disuso, quasi un oggetto di modernariato. Al giorno d’oggi, chi non scrive al computer? Inoltre, adopera parole poco utilizzate come..», diede uno sguardo al foglio e continuò «..dipartito, reprobo, mendaci».
«È vero», disse Corrente e aggiunse: «anche il
questore ha fatto le medesime vostre osservazioni».
Piera chiese al commissario: «Da dove è stata
spedita?».
«Il timbro postale è di Firenze».
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Moreno diede un’occhiata all’ultima porzione
di sigaro, ormai consumato, prima di spegnerlo
schiacciandolo nel posacenere di rame a forma di
braciere che aveva proprio davanti a sé. Sembrava
riflettere. Disse: «È difficile venirne a capo. Abbiamo così pochi elementi: una lettera, forse di un
mitomane o di un tale che ha qualcosa da rimproverare a Brocca; un frammento di pelle con un
DNA mal decifrabile che potrebbe appartenere a
un consanguineo del morto; l’assenza di un movente evidente sia passionale che economico.
L’unico debole indizio è la lettera spedita da Firenze ed è lì che dovremmo indagare, magari nel
passato del professore».
Corrente intervenne: «Brocca è nato a Firenze
dove ha trascorso i primi ventotto anni della propria vita. Lì ha frequentato tutte le scuole e
l’università. Si è laureato a ventitré anni. Ha subito
intrapreso la carriera universitaria come assistente
del professore Giuliani e, quando questi è stato
chiamato presso l’università di Roma, lo ha seguito
trasferendosi all’età di ventotto anni nella capitale,
dove ha percorso tutte le tappe della propria carriera. Mai sposato. Mai stabili relazioni note fino a
quest’ultima con la professoressa Veneziani. Anche ammesso che abbia compiuto qualche misfatto
a Firenze, risalirebbe agli anni della giovinezza».
«Allora come procediamo?», chiese Piera, guardando i suoi interlocutori.
«Domani andrò a Firenze», disse Moreno, «cercherò di scoprire qualcosa. Comincerò col chiedere
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al fratello. Commissario, dovrebbe fornirmi l’indirizzo e i recapiti telefonici».
Corrente gli porse un appunto con i dati del dottore Brocca e disse: «Noi vedremo d’indagare
nell’ambiente universitario. La professoressa Veneziani mi ha detto che i due più stretti collaboratori di Brocca, i dottori Gualdi e Landi, sono in
lizza per un solo posto di professore associato.
Sempre secondo la Veneziani, Brocca soste-neva
Landi, mentre Gualdi è appoggiato da Castelli, che
sarebbe stato il rivale di Brocca per le prossime
elezioni di Preside di Facoltà. Piera, domani convochiamo i due ricercatori e controlliamo gli
eventuali alibi di tutti, compreso quello della Veneziani. Dovremmo raccogliere notizie su Castelli
e forse anche interrogarlo».
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CAPITOLO VI
Lasciarono la casa di Corrente nel tardo pomeriggio. L’aria era più fresca. Si era alzato un leggero vento da ponente che aveva cominciato ad
allontanare l’umidità dello scirocco.
Piera diede a Moreno le chiavi della macchina
chiedendogli di guidare. Aveva raccolto i lunghi
lucenti capelli neri in una coda di cavallo scoprendo così il perfetto ovale del viso. Moreno si girava
di continuo a guardarla tra le proteste di Piera che
lo invitava a tener d’occhio la strada. Era più forte
di lui. Gli sembrava di vederla per la prima volta.
Forse era l’idea che sarebbe stata sua, forse perché
gli aveva esplicitamente dichiarato il proprio amore, ma mai gli era sembrata così bella. Erano felici
e spensierati. Chiacchieravano allegramente confessando le proprie piccole cattive abitudini, i
propri desideri segreti. Ci ridevano su e, ad un
tempo, rivelavano un po’ di sé stessi.
Una volta arrivati a Roma, senza alcun imbarazzo e senza falso pudore, decisero di andare a casa
di Moreno.
Quando giunsero al sesto piano ed entrarono in
casa avevano il fiatone, un po’ perché avevano
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salito le scale in fretta e un po’ per l’emozione che
suscitava in loro l’attesa di ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto.
Si scambiarono poche parole e tante carezze.
Una irrefrenabile passione li travolse per un periodo che sembrò loro lungo e breve ad un tempo,
fino a quando, esausti, non rimasero avvinghiati in
un amplesso che ormai aveva perso tutta l’energia
dell’ardore amoroso, conservando solo la dolcezza
di un tenero abbraccio. Così, un senso di profondo
benessere li assalì e si lasciarono andare in un sonno protettore e ristoratore. Così trascorsero il resto
della loro prima notte insieme.
Moreno si svegliò di buon’ora, lasciò il letto e
caricò di caffè la moka. La pose sul fornello elettrico e attese che gorgogliasse.
Piera gli sembrò ancora più bella alla luce del
giorno. I capelli parevano sapientemente disposti a
far da cornice al suo bel volto. Dormiva ancora.
L’uomo, dopo aver versato il caffè nelle tazzine,
fece tintinnare il cucchiaino all’interno di una di
esse. Quella sorta di scampanellio la svegliò. Si
scambiarono un sorriso e un dolce bacio per augurarsi il buon giorno.
La giornata si preannunciava lunga e impegnativa.
Piera doveva andare in commissariato, mentre
Moreno sarebbe andato a Firenze per interrogare il
dottore Brocca e cercare di scoprire una traccia che
lo portasse al misterioso redattore della lettera anonima.
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«Puoi accompagnarmi in commissariato e tenere
la macchina per recarti a Firenze», disse Piera porgendo le chiavi a Moreno.
«Grazie, preferisco andare in treno. Lì mi muoverò in taxi. Non sopporto il traffico e i sensi
vietati. È possibile che debba fermarmi un giorno
in più, sempre che riesca a trovare una pista. Ti
telefonerò per tenerti informata».
Piera lo accompagnò alla stazione Termini e proseguì verso il commissariato.
Alla stazione di Santa Maria Novella l’aria era
calda, immobile e densa d’umidità. In cielo c’era
una sottile velatura nuvolosa che rendeva più opprimente l’afa. Moreno guardò l’orologio, mancavano due minuti alle undici, decise di prendere un
taxi e si fece portare in piazza del Carmine proprio
al centro del quartiere di San Frediano.
L’abitazione del dottore Brocca affacciava sulla
piazza. Gli venne subito aperto da una domestica
non più giovane, ma dall’aria energica ed efficiente che lo fece accomodare in una piccola sala le cui
pareti erano quasi completamente ricoperte da
stampe, disegni, acquarelli e dipinti su tela. Sedette
in una delle quattro poltrone in stile che erano disposte, al centro della stanza, intorno a un basso
tavolo di radica e attese una decina di minuti. Il
dottore Brocca gli sembrò ancora più pallido ed
emaciato rispetto a qualche giorno prima, quando
aveva avuto modo di osservarlo durante il funerale
del fratello. Sedette proprio di fronte a Moreno e
disse: «Il commissario Corrente mi ha annunciato
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la sua visita, pregandomi di fornirle le informazioni che richiederà; mi ha anche spiegato che lei non
è più in servizio tra le forze dell’ordine, ma che
collabora in via straordinaria a questo caso».
«Sì, è proprio così. Vede, abbiamo ricevuto una
lettera anonima apparentemente opera di qualcuno
che serba rancore verso suo fratello. Questo nuovo
evento ci ha indotto a un supplemento d’indagine».
Così dicendo porse la copia della lettera anonima al suo interlocutore che la lesse con attenzione,
mostrando, con una palese espressione del viso,
tutta la propria perplessità e incredulità per il contenuto della stessa. Restituendola a Moreno disse:
«Non capisco. Non mi risulta che Enrico avesse
fatto azioni riprovevoli o tali da generare odio o
rancore. Era una persona seria e stimata e, da giovane, era un tipo aperto, di compagnia, amico di
tutti, forse anche un po’ burlone, come lo sono tutti
i fiorentini. Negli anni in cui ha vissuto a Firenze,
qui con me, in questa casa che era dei nostri genitori, non è mai accaduto alcun fatto memorabile.
Da quando si è trasferito a Roma ci siamo un po’
allontanati. Ci sentivamo ogni tanto telefonicamente. Forse lì può essere accaduto qualcosa…».
«La lettera è stata spedita da Firenze».
«Non so proprio cosa dirle. Può provare a chiedere ai suoi amici di allora: Lorenzo e Gianpiero.
Formavano un trio inseparabile».
«Bene. Può darmi i loro recapiti?».
«Di Gianpiero Pucci non so più nulla, mentre
Lorenzo Foschini fa l’avvocato e ha lo studio qui
57
vicino, in Via Santo Spirito, proprio alle spalle della chiesa».
Moreno si congedò. S’era fatta l’ora di pranzo.
A piazza San Frediano, proprio di fronte
all’abitazione di Brocca, c’era un ristorante con le
porte di legno e vetri attraverso i quali si intravedevano i tavoli apparecchiati con le tipiche tovaglie da osteria a quadri bianchi e rossi e i coprimacchia bianchi. Moreno non amava recarsi da
solo al ristorante. Pensò a Piera. Gli sarebbe piaciuto che fosse lì con lui. Esitò ancora un po’,
quindi decise di concedersi un buon pranzo, anche
perché era alquanto improbabile che a quell’ora
potesse trovare l’avvocato Foschini in studio.
Cominciò con i crostini e proseguì con una enorme bistecca fiorentina. Il vino della casa sembrava fatto apposta per accompagnare quei piatti.
Moreno si limitava a sorseggiarlo di tanto in tanto.
Non poteva eccedere. Aveva davanti a sé un pomeriggio di lavoro. Rifiutò la frutta.
Quando uscì dal ristorante mancava un quarto
alle tre del pomeriggio. Accese mezzo sigaro toscano aromatizzato all’anice e, a passo lento, si
avviò verso il lungarno Guicciardini che percorse
molto lentamente in quel tratto che va dal ponte
alla Carraia fino al ponte S.Trinità. Si fermò in un
bar di piazza Frescobaldi, dove prese un caffè e
attese che si facessero le quindici e trenta. Quindi
si avviò. All’inizio di via Maggio svoltò a destra
in via Santo Spirito. Lì, tra due botteghe d’antiquariato, si trovava un alto portone di legno di noce abbastanza ben tenuto e, probabilmente, rive58
rniciato da poco. Un porta targhe d’ottone conteneva sei insegne, tutte di ugual misura, che si
riferivano ad altrettante attività professionali o
commerciali. Una di esse recava la seguente dicitura:
“ Avv. Lorenzo Foschini
Patrocinante in Cassazione
1° piano ”
La scala era ampia e la distanza tra i gradini
modesta. Lo studio dell’avvocato si trovava al
primo piano. Una giovane donna aprì la porta e gli
chiese se avesse un appuntamento; poi disse che
l’avvocato sarebbe giunto da lì a poco e non era
certa che avrebbe potuto riceverlo. Moreno rispose che avrebbe aspettato.
L’avvocato Foschini non tardò ad arrivare. Ricevette subito Moreno che si presentò come investigatore privato mostrando la tessera di appartenenza
alla CON.IPI.. Esordì dicendo: «Saprà certamente
della morte del professore Enrico Brocca».
«Sì. Ho letto la notizia su “La Nazione”».
«Mi ha parlato di lei il fratello di Enrico. La tesi
del suicidio non è convincente per una serie di motivi. Io sono stato incaricato, in via riservata, di
svolgere indagini in merito. Vorrei che lei leggesse
questa lettera».
Porse la copia all’avvocato che, dopo averla
esaminata attentamente, disse: «Potrebbe essere di
un mitomane».
«Potrebbe, ma vale la pena di cercare nel passato del professore».
59
«Se è per questo che è venuto a trovarmi, non
credo di poterle essere di grande aiuto. Sono stato
molto vicino a Enrico negli anni della nostra giovinezza. Eravamo compagni di scuola al liceo e
poi ci siamo frequentati durante il periodo universitario e, ancora dopo, solo per poco. Lui si è
trasferito a Roma qualche anno dopo la laurea e ci
siamo persi di vista. A quel tempo si pensava solo
alle donne e a studiare. Eravamo inseparabili. Con
noi c’era sempre anche Gianpiero Pucci. Eravamo
proprio un bel trio. Enrico era il più bello e le ragazze gli facevano il filo. Coi suoi occhi azzurri le
incantava tutte. Non è che noi fossimo da buttar
via, ma lui aveva una specie di calamita. Gli cadevano tutte ai piedi. E certo non era come ai tempi
d’oggi che le ragazzine si concedono al primo che
arriva. Allora bisognava corteggiarle un po’, perderci del tempo», fece una breve pausa, come a
pensare e continuò «a noi si univa, di tanto in tanto, Mario Pasini, uno scavezzacollo allora, e pensi
che a tutt’oggi non ha ancora messo la testa a posto. Adesso suona il piano in un pub vicino al
Palazzo del Bargello. Può provare a chiedere a lui.
Non so proprio cos’altro dirle, io non ricordo nulla
di brutto che abbia fatto Enrico a quei tempi. No,
proprio nulla».
«Vorrei porgere qualche domanda al vostro comune amico, Pucci. Può darmi il suo recapito?».
«Non abita più a Firenze. Da molti anni si è trasferito a Francoforte, dove si occupa di importare
prodotti enogastronomici che distribuisce in tutta
la Germania. Ha cominciato come rappresentante
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di un’ azienda che produceva Chianti, si è via via
ingrandito e ora ha un grosso volume d’affari.
Qualche anno fa ci siamo rivisti per un problema
legale, sorto tra lui e un fornitore toscano. Aspetti
un attimo…».
Foschini sollevò il ricevitore del telefono,
schiacciò un tasto e si mise in contatto con la segretaria: «Gabriella, per cortesia, cerchi i recapiti
di Gianpiero Pucci e me li faccia avere subito.
Grazie!». Seguì una pausa.
Moreno sembrava abbastanza deluso da quel
colloquio e stava considerando, tra sé e sé, la scarsa utilità del proprio viaggio. Passarono solo pochi
minuti, poi entrò la segretaria con un foglio piegato in due che consegnò a Foschini. Questi diede
una rapida occhiata e lo porse al suo interlocutore.
Moreno si congedò ringraziando.
Non appena fu in strada compose il numero
dell’ufficio di Pucci a Francoforte, che gli aveva
appena fornito l’avvocato Foschini.
La donna che rispose al telefono parlò dapprima
in tedesco, poi in inglese come richiestole da Moreno. La conversazione fu breve: Pucci non era in
sede, si trovava a New York per motivi di lavoro e
sarebbe tornato a Francoforte all’inizio della settimana successiva.
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CAPITOLO VII
Moreno aveva voglia di sentire Piera. La chiamò
al cellulare e le raccontò quanto aveva fatto dal
momento in cui si erano lasciati. Sentiva l’esigenza
di parlarle. Era il bisogno di starle vicino che lo
spingeva a protrarre la conversazione. Le confessò
il desiderio che aveva di rivederla, ma per quella
sera sarebbe rimasto a Firenze. Le raccontò degli
amici del professore e che sarebbe andato a cercare
quel Mario Pasini nel pub in cui suonava.
Il pomeriggio era afoso e lungo. Moreno doveva
aspettare che si facesse sera. Prese a passeggiare
lentamente per le strade della città gremita di turisti accaldati e chiassosi. Le numerose gelaterie e i
bar erano affollati.
Giunse davanti al Palazzo del Bargello quando
erano da poco passate le sette di sera. Entrò in una
norcineria e chiese se nei pressi vi fosse un pub
dove ascoltare un po’ di musica. Gli vennero indicati due locali. Moreno andò a curiosare. Uno dei
due esercizi consisteva in un’unica stanza non
troppo grande con una zona bar e quattro tavolini
d’alluminio attorniati da sedie dello stesso materia62
le; i muri erano ricoperti da stampe che riproducevano locandine di film famosi e, ai due angoli
opposti, erano visibili due casse acustiche di discrete dimensioni. Dall’interno proveniva un forte
odore di candeggina. Una giovane donna, che stava lavando i pavimenti a grandi quadri bianchi e
neri, quando vide Moreno, che fermo sulla soglia
sembrava indeciso se entrare o meno, si affrettò a
spiegare che il locale sarebbe stato aperto al pubblico dalle venti in poi. Moreno ringraziò.
All’interno non aveva visto un pianoforte, né
una tastiera elettrica. Evidentemente non era quello
il locale che cercava.
Sulla stessa via, poco distante, era ben visibile
un’insegna metallica che pendeva da un’asta posta
di traverso alla strada, sorretta da due catenelle parallele tra loro, a imitazione di quelle che in epoche
lontane indicavano le osterie. Vi era scritto a grandi caratteri “Antico loco di sosta”. Moreno diede
un’occhiata attraverso le porte a vetri che davano
sulla strada, ma l’interno era piuttosto buio e si distingueva ben poco. Decise di entrare. Il luogo era
accogliente e fresco. L’ambiente, sapientemente
climatizzato, dava all’avventore una sensazione di
benessere. Tavoli di legno scuro attorniati da panche dalle giuste proporzioni, invitavano realmente
a una sosta. In uno dei due angoli, in fondo alla
grande sala, vi era il bar delimitato da un bancone
di legno davanti al quale erano disposti alti sgabelli. All’altro angolo un pianoforte nero a mezza
coda sembrava attendere qualcuno che lo suonasse.
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Tra il bar e il pianoforte vi era una porta girevole.
C’era già un discreto numero di avventori. Parecchi tavoli erano occupati, per lo più da stranieri.
Due ragazze vestite allo stesso modo con pantaloni
e magliette di cotone di un colore arancio acceso,
servivano i clienti con sorprendente rapidità ed efficienza, facendo la spola tra i tavoli, il bar e gli
ambienti che si trovavano al di là della porta girevole.
Moreno sedette su uno degli alti sgabelli del bar
e chiese un aperitivo poco alcolico. Il barista indossava anch’egli una maglietta color arancio e
ostentava un sorriso senza giovialità. Preparò un
cocktail con molto ghiaccio, sciroppo di un colore
a metà tra il fuxia e il rosa, acqua tonica e un minimo quantitativo di gin, che servì in un alto
bicchiere.
«Può dirmi se il maestro Pasini, verrà a suonare?», chiese Moreno senza indugi.
«Il maestro?», ribatté il barista con un sorriso di
scherno e continuò «forse cerca Mario, il pianista?».
«Sì, appunto, Mario Pasini. Verrà?».
Diede un’occhiata all’orologio che portava al
polso e disse: «Tra una mezz’ora dovrebbe essere
qui». Rimase in silenzio qualche minuto a guardare
di sottecchi Moreno che, con assoluta noncuranza,
sorseggiava l’aperitivo e non dava l’impressione di
accorgersi del suo interesse, poi aggiunse: «Come
mai ha chiesto di Mario? Lei non sembra uno di
quelli che di solito vengono a cercarlo».
«Chi sarebbero quelli che lo cercano?».
64
«Non lo so! Cosa vuole da me? Io non so niente.
Io faccio il mio lavoro e basta, il resto non mi interessa. Ha capito?» si affrettò a rispondere con
evidente imbarazzo.
Moreno continuò a sorseggiare l’aperitivo con
imperturbabile lentezza mentre soppesava la notizia, appena udita, delle poco raccomandabili frequentazioni di Mario Pasini che, sicuramente, rendevano più vulnerabile il soggetto. Tuttavia poco o
nulla tutto ciò poteva influire sugli elementi che
voleva raccogliere ai fini dell’indagine.
La mezz’ora trascorse in fretta. Moreno capì subito che si trattava del pianista, quando vide
entrare un sessantenne alto, magro, dalla carnagione del volto chiara e grinzosa, ricoperta di efelidi. I
capelli erano tinti di un rossiccio che voleva ricordare il colore originario, ma che sfumava in
tonalità ramate mentre, qua e là, ciuffi di capelli
bianchi rivelavano le zone in cui la tintura non aveva attecchito. Vestiva di nero in pantaloni e
camicia dalle maniche lunghe, abbottonate ai polsi.
L’uomo, dirigendosi subito al pianoforte, rivolse
un cenno di saluto alle ragazze che risposero e al
barista che finse di non vederlo. Moreno pensò che
non fosse il caso di avvicinarlo in quel frangente.
Avrebbe aspettato che facesse una pausa e, magari,
gli avrebbe anche offerto qualcosa da bere. Gli era
venuta fame. Lasciò lo sgabello e andò a sedere a
uno dei pochi tavoli liberi. Subito, una delle ragazze in arancione gli fornì un menù. Diede un’occhiata e notò che la scelta era limitata a bruschette,
insalate, fritti vari, crêpes dolci e salate, gelati.
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Scelse patate fritte, bruschette e una birra alla spina.
Mario Pasini era bravo, suonava pezzi ever green
americani, con brevi e gradevoli divagazioni jazzistiche. Aveva eseguito solo qualche brano e aveva
appena cominciato a suonare “Strangers in the
night” quando varcarono la soglia due personaggi
inquietanti. Uno era basso, tozzo, più largo che
alto, con il volto squadrato, la mandibola prominente, gli occhi piccoli e cattivi sotto una fronte
bassa e una massa di riccioli neri incolti. L’altro,
più alto e più magro, era completamente pelato;
aveva un viso triangolare perché la mandibola,
dall’ impianto largo, finiva per assottigliarsi in un
mento appuntito, mentre le orecchie sembravano
incollate al cranio. Queste caratteristiche lo facevano assomigliare a un pitbull. Tutti e due indossavano aderenti magliette senza maniche, che evidenziavano i loro potenti bicipiti. Rimasero sulla
soglia qualche minuto guardandosi intorno, come
a volersi assicurare che, all’interno, non vi fossero
potenziali pericoli; poi, con incedere lento e un
ghigno crudele sul volto, cominciarono ad attraversare la sala, dirigendosi verso il pianoforte.
Il barista, completamente assorto nel suo lavoro,
sembrava intento alla preparazione di chissà quale
complicato cocktail e teneva il capo chino, evitando prudentemente di guardare verso la sala. Le
ragazze continuavano a fare la spola tra i locali sul
retro e i tavoli. Gli avventori non badavano ai nuovi entrati. Moreno sentiva puzza di guai.
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Il pianista notò i due tipi nel bel mezzo dell’esecuzione del pezzo, che troncò immediatamente.
Senza indugi, si alzò e si precipitò verso la porta
girevole che separava la sala dai locali retrostanti.
I due non sembravano dare peso all’improvvisa
fuga del pianista anzi, il ghigno sui loro volti, si
trasformò in un sorriso di compiacimento. Attraversarono la porta girevole e sparirono alla vista.
Moreno raggiunse il barista e chiese indicando la
porta:
«Da quella parte c’è un’uscita di sicurezza?».
«No. Ci sono i bagni e la cucina. Non c’è nessuna uscita».
La puzza di guai era diventata insopportabile.
Moreno attraversò la porta e si trovò in un corridoio. Sul lato destro c’erano le toilettes. La prima era
riservata agli uomini. Moreno girò la maniglia e
spalancò la porta. Non vi era nessuno. La seconda,
riservata alle donne e ai portatori di handicap, era
chiusa dall’interno. Moreno cercò di spingerla con
forza, ma dal di dentro giunse la voce stridula di
una donna che protestava in inglese, per la scortese
insistenza.
Moreno percorse un paio di metri e si ritrovò
sull’uscio del locale cucina, alla sua sinistra.
All’interno due cuochi si aggiravano con fare disinvolto tra friggitrici e fornelli.
Non erano neppure là.
Proprio alla fine del corridoio c’era una porta di
metallo bassa con un passetto di ferro che era stato
tolto. Moreno ci si avventò contro ma, nonostante
avesse esercitato una spinta vigorosa con tutta la
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sua forza, la porta cedette solo di qualche centimetro. Dall’altra parte avevano messo qualcosa di
ingombrante o di pesante per impedirne l’apertura.
Allora Moreno prese a dare violente spallate mentre urlava ripetutamente: «Aprite! Polizia!».
A ogni spallata, la porta si spostava solo di pochi centimetri. Era esausto quando giudicò che si
fosse creato un varco sufficiente al suo passaggio.
Si infilò di traverso tra la porta e lo stipite e, a
stento, riuscì a farcela. Si ritrovò in un cortile cinto
da un muro alto un paio di metri; era uno spazio di
circa trenta metri quadrati pieno di casse che contenevano vino, birra, bibite, acqua minerale.
C’erano anche grandi bidoni di plastica nera che
servivano a contenere i rifiuti e, ancora, grandi
contenitori di cartone alloggiati sotto una piccola
tettoia di plexiglas. Sembrava non ci fosse nessuno.
Moreno si guardò intorno. Vide ammonticchiate, dietro la porta che aveva aperto parecchie casse
che avevano ostacolato il suo intervento. Avvertì
un lamento provenire dall’angolo più distante del
cortile. Aggirò una colonna di casse e trovò Mario
Pasini, rannicchiato tra un bidone dell’immondizia
e una colonna di scatoloni. Con un fazzoletto cercava di frenare un’emorragia nasale.
All’avvicinarsi di Moreno si rincantucciò ancora di più, come se temesse una nuova aggressione.
Moreno cercò di rassicuralo. Non sembrava avesse
lesioni gravi. I due energumeni, che evidentemente
erano fuggiti scavalcando il muro di cinta del cortile, si erano limitati a dargli un avvertimento. Oltre
68
che dal naso, Pasini sanguinava dal sopracciglio
destro. Moreno aveva in tasca un pacchetto di fazzoletti di carta. Con uno di questi fece due tamponi
cilindrici e li infilò nelle narici del malcapitato;
con altri due fazzoletti esercitò una forte compressione al sopracciglio per cercare di contrastare il
sanguinamento. Dopo qualche minuto fece alzare
Pasini e lo condusse, sorreggendolo, fino alla porticina che dovette liberare dall’ingombro delle
casse, prima di poter rientrare nel corridoio. In bagno, diede una ripulita alla meglio al volto del
pianista che mostrava di essersi ripreso. Questi
chiese:
«Lei è veramente un poliziotto?».
«Non proprio. Mi chiamo Moreno Roccati. Sono
un investigatore privato, ma se non avessi urlato di
essere della Polizia, forse i suoi assalitori non sarebbero fuggiti frettolosamente. Lei che ne pensa?».
«Lo credo anch’io».
«Dovrebbe farsi medicare al Pronto Soccorso di
un Ospedale. Se vuole l’accompagno».
«No. È meglio di no. Non voglio andare in Ospedale. Adesso andrò a casa, dove ho qualche
cerotto e l’occorrente per disinfettare. Abito nelle
vicinanze. Grazie di tutto».
«Posso accompagnarla a casa, se vuole. Potrebbe ancora fare qualche brutto incontro».
Pasini sembrò pensarci su, poi chiese: «Perché si
interessa a me?».
«Come le ho detto, sono un investigatore privato
e sto conducendo un’ indagine sul passato del pro69
fessore Brocca che, come lei saprà, è morto. Sembra che si sia suicidato, ma c’è qualche aspetto
della vicenda che non convince del tutto chi mi ha
dato mandato d’indagare».
«Sì, ho saputo della morte del povero Enrico,
ma non credo di poterla aiutare nelle sue ricerche.
Ci siamo frequentati in gioventù. Non ho più visto
Enrico da quando ha lasciato Firenze».
«Mi interessa saperne di più proprio di quel periodo. Vorrei anche mostrarle una lettera che si
riferisce a qualcosa che potrebbe essere accaduta a
quel tempo, ma non credo che questa toilette sia il
posto più indicato per continuare la nostra conversazione».
«Ha ragione. Le devo qualcosa per avermi tolto
dai guai. Venga a casa mia. Non credo di poter
continuare a suonare, per questa sera».
Rientrarono nella sala. Pasini si rivolse al barista
dicendogli che stava per andar via. Lo pregò di
mettere qualche compact disc nell’impianto di diffusione. Il barista dal canto suo rispose con la
massima naturalezza come se non avesse notato
l’evidente devastazione sul volto del pianista.
Percorsero a piedi un breve tragitto. Si ritrovarono davanti a un antico palazzo. Il portone di
legno scuro bugnato era sormontato da uno stemma nobiliare di pietra i cui elementi figurati mal si
distinguevano, un po’ perché levigati dalle intemperie e un po’ per la scarsa illuminazione della via.
Mario Pasini, quasi a rispondere a una muta domanda del suo accompagnatore che guardava verso
quell’emblema araldico, disse: «Quello è lo stem70
ma della mia famiglia. Questo palazzo era tutto
nostro». Poi aprì il portone e si diresse verso una
porticina situata sulla parete opposta della corte
interna, accanto alla scalinata con balaustra che
portava al piano nobile. Entrò per primo e accese
la luce, poi si rivolse al suo ospite: «Mi scusi se
sono entrato prima di lei, ma l’interruttore è un po’
lontano dall’ingresso. Si accomodi. Ecco quel che
resta ai Pasini del palazzo, una porzione delle antiche stalle».
Erano entrati in un locale di circa cinquanta metri quadrati, con un’unica finestra, larga e poco
alta, sulla parete di fronte all’ ingresso. Vi era un
angolo cottura di ridotte dimensioni. Un grande
divano dalla tappezzeria consunta e scolorita, che
probabilmente serviva da letto, era posto su una
parete laterale con accanto un largo armadio che,
in più punti, aveva perso l’ impiallacciatura di radica e mancava dello sportello centrale, sostituito
da una tenda. Le sedie che attorniavano un piccolo
tavolo sgangherato, erano tutte dissimili tra loro e,
probabilmente, risalivano a epoche diverse. Su di
una parete troneggiava una consolle di legno senza
il ripiano che doveva essere stato di marmo; questa
era sormontata da uno specchio la cui cornice aveva perso in più punti tutta la doratura originaria.
Uno sbilenco lampadario con solo alcuni pendenti
di cristallo a goccia, unici resti di un antico splendore, era attaccato al soffitto. In un angolo stavano
ammonticchiate suppellettili di vario tipo tutte irrimediabilmente danneggiate. Nell’insieme, quel
71
luogo, assomigliava più al magazzino di un rigattiere che a un vero e proprio alloggio.
Pasini chiese permesso e sparì dietro una porticina a vetri, ove doveva esserci la stanza da bagno.
Dopo circa mezz’ora tornò nella sala. Si era lavato
il viso e pettinato, aveva sostituito i tamponi di carta nelle narici con due batuffoli di cotone. Un
vistoso cerotto gli copriva il sopracciglio e una
porzione della fronte. Chiazze rosso violaceo erano
presenti sulla pelle delle guance e del collo Aveva
tolto la camicia insanguinata e indossato una polo
di cotone. Sembrava rilassato e a proprio agio. Si
rivolse a Moreno che aspettava pazientemente:
«Mi dispiace, ma non ho proprio nulla da offrirle. Si chiederà come mai quei due mi hanno
aggredito. Credo di doverle una spiegazione».
«Non è necessario, ma se vuole..».
«Sono i guardaspalle di Moroni. A Firenze lo
conoscono tutti. È un usuraio. Io ho cominciato
diversi anni fa, dopo la morte di mio padre. Una
parte del palazzo era già ipotecata quando l’ho ereditato e se l’è presa la banca; l’altra se l’è presa
Moroni. A me sono rimaste le stalle. Successivamente Moroni ha cominciato a fornirmi la cocaina
e io non ho potuto pagarla. Per questo mi manda i
suoi picchiatori, a ricordarmi il debito. Lui vorrebbe che chiedessi i soldi a mia sorella. Sa che ho
una sorella che vive a Boston ed è sposata con un
chirurgo ricco e famoso, ma non capisce che mia
sorella non vuole più saperne di me. Da quando
ancora era in vita mio padre, ci ha rinnegato; pensi
72
che non si fa chiamare Pasini, ma Worwich con il
cognome di suo marito».
«Negli Stati Uniti abitualmente le donne sposate
assumono il cognome del marito, come una volta
qui da noi. Comunque, le do un consiglio: denunci
questo Moroni e i suoi scagnozzi, altrimenti non se
li leverà mai di dosso e le cose andranno di male in
peggio».
«Mah!... Ci penserò. Adesso mi faccia vedere la
lettera di cui mi ha parlato».
Moreno gli porse la copia che teneva in tasca ripiegata in quattro. Pasini la lesse con attenzione.
Sembrava alquanto perplesso. Rimase qualche minuto a pensare, forse assorto in ricordi di gioventù,
poi scosse la testa e disse: «Mi spiace, ma non riesco a rammentare nulla di male che abbia potuto
fare Enrico. Come le ho già detto, era un bravo ragazzo».
«Capisco, magari qualche affare di donne, gelosie tra amici, o una lite particolarmente accesa con
qualcuno».
«A quel tempo Enrico aveva una ragazza fissa,
ma non mi ricordo il nome. Era la figlia di un tabaccaio del quartiere de “l’Isolotto” dalle parti di
Piazza dei Tigli. Una così, né bella né brutta, non
so cosa ci trovasse. E dire che ne aveva di ragazzette per spassarsi. Quante ne voleva. Quella storia
durò un po’ di tempo».
«Proprio non ricorda il nome?».
«Mi spiace, ma può rintracciare Pucci e chiedere a lui. Gianpiero Pucci per un periodo è stato con
la sorella minore della ragazza. Sì, erano due sorel73
le. Quella che filava con il Pucci era più graziosa.
Però credo che Gianpiero non abiti più a Firenze».
«Sì, lo so. Risiede e lavora a Francoforte. Cercherò di parlare con lui».
Moreno diede un’occhiata al proprio orologio da
polso; estrasse quindi un biglietto da visita dal portafogli che porse al suo ospite dicendo: «La
ringrazio per la collaborazione. Adesso la lascerò
riposare, credo che ne abbia bisogno! Nel caso
rammentasse qualcosa, potrà telefonarmi in qualunque momento al fisso o al cellulare». Si diresse
rapidamente alla porta e uscendo aggiunse: «Segua
il mio consiglio. Li denunci!».
Quando fu in strada guardò di nuovo l’orologio
da polso. Era da poco passata la mezzanotte. Alla
luce di un lampione consultò, sul suo smartphone,
l’ orario ferroviario. Non ci sarebbero stati più treni per Roma fino alle cinque e cinquanta del
mattino. Avrebbe avuto a disposizione parecchie
ore. Accese il solito sigaro toscano aromatizzato
all’anice e, fumando, s’incammino, a passo lento,
verso la stazione di Santa Maria Novella. La città
si stava spopolando, riacquistando un’ accattivante
quiete. Le strade erano divenute silenziose e, solo
di quando in quando, si avvertiva l’eco di un vociare più o meno lontano, probabilmente di giovani
che si attardavano. Attraversando Piazza dell’Unità
d’Italia, Moreno notò due barboni che dormivano
sdraiati sulle larghe soglie di due negozi. Mentre
considerava la miseria di quei derelitti, uno scooter
74
gli tagliò la strada, passando tanto vicino da sfiorarlo, e lo fece sobbalzare.
Tra Piazza della stazione e Piazza Adua, di fronte al terminal dei bus, c’era un piccolo bar aperto.
Moreno entrò. All’interno si spandeva un buon
profumo di caffè. Una coppia di giovani con capienti zaini in spalla, stava consumando cappuccini
e cornetti caldi. Un anziano in calzoncini corti,
maglia sformata e ciabatte di plastica, parlava all’
assonnato barista che faceva fatica ad ascoltarlo.
Moreno sedette a uno dei due tavolini d’alluminio
liberi e prese a sorseggiare il caffè che aveva ordinato sbocconcellando un fragrante cornetto.
Quando uscì dal bar cominciava ad albeggiare e
l’aria era fresca. Si avviò verso la stazione. Dovette aspettare ancora un po’ prima di poter fare il
biglietto, quindi attese il treno delle cinque e cinquanta.
Dormì a sonno pieno per tutto il tragitto. Arrivò
alla stazione di Roma Termini alle otto e venti e si
svegliò a causa dei sobbalzi del treno sugli scambi
che regolavano l’arrivo al binario previsto.
Mentre era sul taxi che lo portava dalla stazione
a casa, ricevette una telefonata.
«Sono Irma Veneziani, parlo con il Sig. Roccati?».
«Sì, mi dica…».
«Ho avuto il suo numero dal commissario Corrente. Desidero incontrarla. Può fissarmi un
appuntamento?».
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«Certamente. Può venire nel mio ufficio oggi
stesso. Diciamo… per le undici».
«Va bene,grazie».
Le diede l’indirizzo e riattaccò.
76
CAPITOLO VIII
Sotto il getto della doccia i muscoli, intorpiditi
per la notte trascorsa senza un opportuno riposo,
cominciarono a reagire distendendosi, producendo
un senso di rilassante benessere. Moreno sarebbe
rimasto lì a godersi quel sottile piacere per più
tempo, se non fosse stato per il fatto che aveva un
appuntamento con la Veneziani. Ci pensò su, ma
non riuscì a immaginare il motivo della richiesta di
quell’incontro. Anche se avesse voluto rivelargli
qualcosa, perché a lui e non alla polizia? Corrente
le aveva fornito il numero di cellulare e, sicuramente, conosceva le intenzioni della donna.
Moreno non ritenne di doverlo chiamare prima
di parlare con la professoressa.
Ebbe il tempo si radersi accuratamente e di telefonare a Piera alla quale raccontò per sommi capi
gli eventi del giorno precedente e della notte appena trascorsa.
Piera sarebbe stata impegnata fino alle cinque del
pomeriggio. Decisero di cenare insieme.
Moreno aveva appena indossato un pantalone blu
di cotone non stiro e una camicia bianca dalle ma77
niche lunghe di cui stava rivoltando i polsi, quando
trillò il campanello. Accese la ventola a soffitto e
aprì.
Irma Veneziani era ancora una bella donna nonostante gli anni e qualche ruga sul volto che
paradossalmente ne aumentava il fascino. Aveva
lineamenti regolari, un bell’ovale del volto e capelli biondi. La tintura che probabilmente copriva i
capelli grigi riproduceva o doveva essere molto
simile al colore originale. Alta, slanciata, era vestita in maniera sobria con una gonna e una camicia,
ambedue di colore beige chiaro, di ottima fattura.
Sedettero una di fronte all’altro ai lati opposti della
scrivania. Moreno la scrutava con attenzione e la
invitò a palesare il motivo della sua visita. La donna non sembrava per nulla imbarazzata, anzi
ostentava sicurezza e autorità. Dava l’idea di essere una persona abituata a disporre degli altri.
Esordì dicendo:
«Dopo la tragica fine di Enrico, sin dal primo
colloquio che ho avuto con il commissario Corrente, mi sono trovata a condividere i suoi dubbi
sull’ipotesi del suicidio. Io amavo Enrico. Avevamo deciso di evitare la coabitazione, che sarebbe
venuta con il matrimonio. Sì, era nei nostri progetti. Io insegno nella Facoltà di Economia ed Enrico
era candidato a Preside della stessa facoltà. Per
evitare strumentalizzazioni avevamo deciso di sposarci dopo le elezioni e la sua eventuale nomina,
quindi nel corso del prossimo anno. Io sono assolutamente sicura che Enrico non si è ucciso. Ho
anche pensato che possa essere precipitato acci78
dentalmente, anche se quest’ipotesi è inverosimile.
Che motivo poteva avere per sporgersi dal terrazzo
fino a precipitare? No, più ci penso e più mi sembra improbabile. Allora non resta che l’omicidio.
Qualcuno lo ha spinto giù. Ma per quanto ci pensi,
non riesco a immaginare chi possa aver compiuto
un gesto simile. Enrico non aveva nemici che potessero odiarlo a tal punto. Semmai qualche rivalità
professionale, sempre presente in qualunque ambiente di lavoro».
Fece una pausa di riflessione.
Moreno che fino a quel momento aveva lasciato
che la donna parlasse, intervenne, più per dare
l’idea di essere interessato che per porgere una
domanda che, a quel punto, poteva avere una sola
ovvia risposta:
«Capisco, ma vorrei sapere qual è il motivo della sua visita».
«Il commissario Corrente mi ha detto che lei sta
conducendo, in via non ufficiale, un’indagine su
quanto accaduto. Mi ha riferito di riporre una
grande fiducia in lei e nelle sue qualità investigative. Il commissario mi ha anche detto che, il magistrato inquirente, in assenza di elementi rilevanti,
vorrebbe archiviare il caso classificandolo come
suicidio. A questo punto vorrei che lei continuasse
la sua indagine per mio conto e a mie spese, facendo quanto necessario».
«Signora, prima che mi affidi l’incarico, voglio
che sappia che a tutt’oggi abbiamo solo pochi elementi su cui lavorare e che l’esito delle ricerche è
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quanto mai incerto, anzi è probabile che non si approdi a una soluzione del caso».
«Sono perfettamente consapevole di quanto lei
sta puntualizzando e apprezzo la sua onestà. D’altro canto la paventata archiviazione da parte della
magistratura competente porrebbe fine alle indagini della polizia. Io non ho intenzione di rassegnarmi a una verità improbabile».
Moreno, senza altro aggiungere, trasse fuori dal
cassetto della scrivania un foglio stampato che
porse alla sua interlocutrice pregandola di compilarlo nelle parti lasciate in bianco e di apporre una
firma in calce, spiegandole che si trattava del modulo per l’affidamento delle indagini. Una parte
conteneva anche le condizioni economiche che
prevedevano una quota giornaliera e un rimborso
forfettario delle spese.
La professoressa Veneziani diede una rapida
lettura prima di redigere e sottoscrivere il modulo
che restituì a Moreno dicendo: «Vorrei precisare
che se ci fossero delle spese extra sono pronta a
sostenerle. Le chiedo solo il massimo impegno».
Adesso l’investigatore Moreno Roccati aveva
una cliente ed era autorizzato legalmente a indagare. Per sommi capi riferì alla professoressa che
aveva indirizzato le indagini verso il periodo in cui
Brocca era vissuto a Firenze e le sue frequentazioni giovanili, alla ricerca di un qualche punto
oscuro relativo a quell’epoca. Infine si rivolse alla
donna con un certo imbarazzo: «Mi dispiace farle
questa domanda, ma la prego di rispondermi con la
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massima sincerità. Vorrei sapere quanto c’è di vero
nelle voci su presunte relazioni del professore con
studentesse».
La donna abbozzò un sorriso ironico che esprimeva abbastanza bene sdegno e amarezza prima di
rispondere: «Lei ha detto voci. Io dirò di più, sono
malignità finalizzate a minare la credibilità di Enrico. Hanno imbastito queste maldicenze per tentare di screditarlo proprio all’interno della facoltà
in vista delle prossime elezioni a preside. Sicuramente c’è lo zampino di Castelli e dei suoi accoliti,
primo tra tutti quell’ingrato di Gualdi, un allievo
del povero Enrico che a lui deve tutto. Gualdi è un
ambizioso che per la carriera si venderebbe l’anima. Nonostante sia più giovane e meno titolato di
Landi, vorrebbe scavalcarlo e diventare professore
associato. Ecco perché ha cercato l’appoggio di
Castelli e ha cominciato a far girare tra gli studenti
queste malignità, che sono arrivate alle orecchie di
Enrico amareggiandolo profondamente. Enrico era
un uomo affascinante e nella sua vita ha avuto tante storie, alcune più serie di altre, ma le posso
assicurare che non ha mai approfittato della sua
posizione e del suo ruolo per trarne squallidi favori
sessuali». La professoressa Veneziani era profondamente indignata e sembrava assolutamente sincera. Moreno pensò che doveva aver amato tanto
quell’uomo che, per quelli che lo conoscevano intimamente, appariva pieno di virtù. Soltanto
l’autore della misteriosa lettera al Questore sembrava essere al corrente di qualche episodio oscuro
della vita di Brocca.
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Non si dissero altro e la professoressa si congedò lasciando Moreno a riflettere sul significato
delle parole dell’anonimo scrittore.
Dopo qualche minuto accese un sigaro aromatizzato all’anice e compose il numero del cellulare
di Corrente che riconobbe l’autore della chiamata:
«Moreno, che novità hai?».
«Buongiorno Commissario, sono tornato da Firenze quattro ore fa. Ho parlato con il fratello e
contattato un paio di vecchi amici di Brocca, ma
non ho ricavato informazioni importanti. In realtà
non sono riuscito ancora a rintracciare un certo
Pucci che, all’epoca, amoreggiava con la sorella di
una ragazza a cui Brocca teneva particolarmente. Il
Pucci vive a Francoforte, ma attualmente si trova
negli Stati Uniti per motivi di lavoro».
«La Veneziani ti ha telefonato?».
«Sì, è appena uscita dal mio ufficio. Ha firmato
l’incarico».
«Bene. Allora sbrigati e cerca di concludere
qualcosa. C’è una novità che devi conoscere: il
questore ha ricevuto un’altra lettera anonima. Te
ne mando una copia con Piera. Il questore ha passato tutto al magistrato che è convinto si tratti di un
mitomane ed è deciso a chiudere il caso. Credo che
non ci rimanga molto tempo. Se non avremo novità sostanziose entro questa settimana, dovremo
arrenderci, almeno ufficialmente».
«Commissario ha interrogato Landi e Gualdi?».
«Sì, ma non c’entrano con la morte del professore: hanno alibi di ferro. Ho parlato anche con
Castelli, con la dovuta cautela, si capisce. Quando
82
è morto Brocca era all’estero. Abbiamo controllato».
«Va bene. Cercherò di rintracciare quel Pucci e,
se necessario, tornerò a Firenze».
Erano da poco passate le tredici. Moreno chiamò al numero di Francoforte. Rispose una donna
in tedesco. Moreno, nel suo inglese scolastico, si
presentò come un investigatore e manifestò la necessità di parlare con Pucci in tempi brevi. La
donna spiegò che il suo datore di lavoro si trovava
negli Stati Uniti e che, in assenza di esplicite disposizioni dello stesso, non era autorizzata a metterlo in contatto con altri, né tantomeno a fornire
un suo recapito telefonico. Moreno allora lasciò il
proprio numero di cellulare pregando la donna di
comunicarlo al Pucci, non appena fosse stato possibile, ribadendo l’urgenza e la necessità di un
colloquio.
Alle diciotto in punto, Piera raggiunse Moreno
che, seduto a un tavolo di un bar davanti al Panteon, guardava distrattamente i passanti ed era
indeciso se accendere o meno uno dei suoi sigari.
L’esitazione derivava dal fatto che, pur essendo
all’aperto, i tavolini erano troppo vicini tra loro e
con ogni probabilità il fumo avrebbe disturbato gli
avventori più vicini. Pazienza! Avrebbe atteso.
Quando la vide, balzò in piedi, e si sentì riempire di gioia. Da tanto tempo non provava una
sensazione simile. Quando Piera lo raggiunse, la
baciò sulla guancia accarezzandole le braccia. Pro83
fumava di buono. Sedettero. Piera lo guardava e i
suoi occhi avevano una luce speciale. Non l’aveva
mai vista così. Cercò di comunicarle le proprie
sensazioni con frasi spezzate, tentando di vincere
un naturale imbarazzo che, tuttavia, Piera colse e
accettò con un sorriso indulgente. Allora lei, senza
dire una parola, prese le mani di Moreno e le strinse forte. Poi, gli sfiorò le labbra con le sue.
Sembravano due adolescenti alla loro prima dichiarazione d’amore.
La suoneria del cellulare di Moreno li sottrasse,
quasi brutalmente, alla profonda intimità delle loro
emozioni. Era Corrente.
«Allora, Moreno, hai letto la seconda lettera del
nostro anonimo scrittore? Che te ne pare?».
«Veramente ho visto Piera solo adesso. Non ne
ho avuto ancora il tempo. La richiamo tra un po’».
Piera capì l’argomento della chiamata, frugò
nella sua borsa e ne trasse un foglio, fotocopia
dell’originale, che diede a Moreno. Questi lo lesse
con attenzione:
“Ill.mo Sig. Questore,
Le scrivo per significare tutto il mio rammarico.
Evidentemente Ella non ha attribuito il giusto valore alla mia precedente che sottolineava la malvagia
condotta di Enrico Brocca che ha ricevuto il giusto
Divin Castigo. Infatti, non ho riscontrato su alcun
giornale una Sua dichiarazione che annullasse le
lodi in favore del reprobo Brocca, in precedenza
immeritatamente tessute dalla stampa. Evidentemente avevo sovrastimato la Sua professionalità.
84
Mi auguro che si ravveda e provveda a rimediare
in breve tempo.
Ossequi.”
Dopo aver letto, chiese a Piera: «Stessa macchina da scrivere e stesso timbro postale?».
«Sì. È stata spedita da Firenze e la Scientifica
dice che anche questa è stata scritta con la medesima vecchia macchina da scrivere, quasi certamente un modello Lettera 32 della Olivetti prodotta dal 1963 in poi, ormai diventata oggetto di
modernariato. Non abbiamo altro. Nessuna impronta. Il bordo della busta è del tipo autoadesivo,
s’incolla dopo asportazione della fascetta di protezione e, sul francobollo, non vi è traccia di saliva.
Stessi rilievi sulla prima lettera. Evidentemente ha
maneggiato il foglio con guanti di lattice e ha bagnato il francobollo con acqua. Corrente ha chiesto
il parere dello psichiatra. Questi pensa che si tratti
di una personalità fortemente disturbata. Il continuo richiamo al castigo e alla giustizia divina fino
a giungere quasi all’identificazione del soggetto
con la divinità, ha il carattere di una visione distorta della realtà. In pratica pensa che quelle lettere,
apparentemente razionali, rappresentino invece il
delirio di uno schizofrenico».
«Allora abbiamo a che fare con un pazzo, che
però sta molto attento a non farsi scoprire, visto
che usa guanti di lattice e non lecca il francobollo».
«Sì, proprio così. Lo psicologo dice che questi
soggetti possono essere meticolosi e molto attenti a
quanto fanno. Allo stesso tempo non esclude che
85
egli abbia costruito una sua realtà attribuendo a
Brocca colpe inesistenti o, viceversa, che abbia
maturato un rancore nel tempo per un torto realmente subito».
«Allora può essere tutto e il contrario di tutto.
Se il nostro uomo ha costruito un castello di carta
sulla sabbia, è probabile che, anche scavando nel
passato di Brocca, non riusciremo a trovare nulla».
«Non è da escludere. Riusciremo a saperlo solo
quando lo avremo trovato».
«Non mi sembra facile, con gli elementi che abbiamo».
Moreno ci pensò su qualche minuto e, senza che
Piera lo distogliesse, compose il numero di Corrente che rispose immediatamente.
«Allora, Moreno, che te ne pare?».
«Dovremmo dare la caccia a uno schizofrenico,
ma come facciamo a trovarlo? L’unica traccia è
una macchina da scrivere fuori produzione che,
probabilmente, si trova a Firenze. Non credo proprio che il nostro uomo se ne vada in giro per le
vie della città con una macchina da scrivere sotto il
braccio».
«Sì, lo so che non è un compito facile, ma sono
sicuro che tu ce la farai».
«Commissario, mi prende in giro?».
«No. Sono convinto di quello che dico». Riattaccò. Moreno guardò Piera con un’espressione di
grande sconforto. Lei gli sorrise.
Ordinarono l’aperitivo. Non parlarono più del
caso per tutta la serata. Loro due erano al centro di
tutto.
86
Passeggiarono per un po’, poi andarono a cena
in una trattoria vicino casa di Moreno che, d’estate,
metteva alcuni tavolini sul marciapiede antistante.
La loro seconda notte d’amore fu ancora più piena di travolgente passione della prima. Briciole di
naturale pudore non impedirono loro di donarsi
l’un l’altra, totalmente così da sentirsi appagati dal
reciproco piacere.
87
CAPITOLO IX
Il tintinnio del cucchiaino rigirato nella tazzina
del caffè, svegliò Piera. Moreno aveva trovato,
nella sua minuscola dispensa, anche qualche biscotto che appoggiò sul bordo del piattino. Piera,
prima di prendere la tazzina, si mise a sedere incrociando le gambe, lisciando con le mani i lunghi
capelli che le ricaddero sulle spalle nude, in ordine,
quasi fossero stati pettinati. Com’era diversa dalla
collega compunta e un po’ musona che aveva conosciuto quando era in servizio, pensò Moreno.
Adesso aveva l’aspetto di una giovane donna orgogliosamente consapevole della propria bellezza,
serena e felice.
Moreno restò a guardarla per un po’ mentre lei
sbocconcellava i biscotti, poi si fece coraggio e
disse:
«Piera, voglio che tu sappia che non mi sono
macchiato di alcuna colpa. Io mi sono dimesso dalla polizia per poter andare a testa alta e non
dovermi vergognare davanti ai colleghi. Con te è
diverso. Devi sapere che le cose sono andate in
maniera differente da come le hanno raccontate al
processo».
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Lei lo interruppe: «Lo so, lo sappiamo. Il commissario Corrente e io non abbiamo mai creduto
che tu potessi aver infierito su una persona indifesa. Come noi, la pensano in tanti in Commissariato. Quello che non riusciamo a capire è perché
Quattrone e i suoi uomini abbiano testimoniato
contro di te».
Moreno ci pensò su, poi disse: «Un motivo c’è.
Te lo dirò, ma non adesso. Fidati, è meglio così.
Quando sarà il momento giusto lo saprai. Fidati!».
Piera si alzò, lo abbracciò stringendosi con forza
al suo petto e disse: «Mi fido, mi fido, ti amo».
Piera era appena uscita per andare in commissariato. Si sarebbero sentiti più tardi.
Moreno accese il computer e consultò le Pagine
Gialle di Firenze. Trovò quattro sole ditte alla voce
“macchine da scrivere: riparazione e vendita”. Telefonò a tutte e quattro presentandosi come collezionista in cerca di chi potesse riparare una antica
macchina portatile della Olivetti. Aveva temuto di
non riuscire a contattare nessuno. Era ormai l’otto
di Agosto e avrebbero potuto aver sospeso l’attività per ferie. In due gli risposero che non si occupavano più del settore e che erano passati alla
riparazione di computer. Un terzo interlocutore gli
riferì di svolgere esclusivamente assistenza a registratori di cassa di varie marche. Il quarto lo invitò
a visitare il proprio negozio dove avrebbe trovato
rari pezzi da collezione, ma anche parti di ricambio
per macchine da scrivere vintage. Moreno decise
di andare a Firenze. Quello sembrava l’unico debo89
le filo a cui appigliarsi. Chiese al suo interlocutore
l’orario del negozio e questi gli rispose di bussare
anche se avesse trovato chiuso, perché viveva
nell’ammezzato sopra la bottega e gli avrebbe aperto purché fosse giunto entro le otto di sera.
Quando arrivò a Santa Maria Novella il cielo era
coperto e l’afa insopportabile. Cominciò a sudare.
Comprò una bottiglia d’acqua minerale non gasata
da mezzo litro che bevve tutta d’un fiato. Dal taxi
si fece condurre in Via delle Casine, poco distante
da Santa Croce, nei pressi della Biblioteca Nazionale. Individuò subito la bottega che cercava.
Erano le tre del pomeriggio. La vetusta porta di
legno e vetri era chiusa. Sullo stipite destro spiccava il pulsante bianco di un campanello che Moreno
pigiò energicamente. Non dovette attendere molto.
Si accese una luce all’interno, poi la porta si aprì e
fece capolino la testa di un omino basso con radi
capelli bianchi, rosee guance, grandi orecchie e un
largo sorriso che mostrava una dentatura regolare.
Moreno pensò che molto simile a quello doveva
essere il viso degli elfi delle favole che ascoltava
da bambino. Non poté fare a meno di ricambiare il
sorriso rivoltogli e chiese di entrare. L’interno era
mal illuminato da un’unica lampadina centrale che
pendeva un po’ sbilenca dall’alto soffitto. Un tavolo da lavoro era ingombro di materiale di vario
tipo: ingranaggi, utensili, alcune boccette piene di
liquido nelle quali erano immersi sottili pennelli,
rotoli di carta per smerigliare, spazzole di diverse
dimensioni, scatole piene di viti di ogni misura e
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un avvitatore elettrico che stonava con il resto a
causa della sua evidente modernità. Le pareti erano
rivestite da alte scaffalature in legno dove erano
stipate macchine da scrivere di varia foggia, tutte
datate, alcune in perfette condizioni, altre malandate e mancanti di parti. C’erano pure tanti scatoloni
di cartone, il contenuto dei quali non era visibile.
Il vecchietto, con evidente compiacimento, lasciò che il visitatore osservasse bene quanto era
esposto e, solo dopo un po’, gli chiese:
«Cosa posso fare per lei? Desidera vedere qualche macchina d’epoca? È un collezionista?».
«Sono un investigatore privato e sto cercando di
rintracciare una persona che ha scritto, con una
macchina Olivetti Lettera 32, missive anonime
spedite da Firenze. L’autore delle lettere potrebbe
far luce su un omicidio commesso alcuni giorni fa
a Roma. Le chiedo di darmi una mano fornendomi
il nome di chi ha comprato da lei o, magari, portato
a riparare una macchina di quel modello».
Il vecchietto sembrò pensarci, prima di rispondere: «Non ho difficoltà a crederle, ma mi chiedo
come mai non sia venuta a cercarmi la polizia».
«In realtà la polizia è propensa a ritenere che si
tratti di un suicidio e vorrebbe archiviare il caso.
La persona che mi ha ingaggiato per condurre queste ricerche è convinta che si tratti, invece, di un
omicidio e, anch’io, nutro dei dubbi in merito».
«Capisco, ma non credo di poterla aiutare. Non
tengo un registro delle macchine vendute, ma solo
di quelle da me comprate, al fine di garantirmi sulla lecita provenienza. Non compro, però, usato
91
ormai da qualche anno poiché è difficile rivenderlo. È un mercato fermo. La gente non ha più soldi
da spendere. Per le riparazioni e la manutenzione
ho un registro dove appunto solo il nome e il numero di telefono dei clienti. Il numero mi serve per
avvertirli, a lavoro ultimato. Se vuole glielo mostro, tanto non sono un medico o un avvocato e
quindi non sono tenuto a mantenere il segreto professionale». Accompagnò queste ultime parole con
il suo sorriso da elfo. Si chinò per estrarre da una
cassettiera posta sotto il tavolo, un grosso quaderno le cui pagine erano riempite da nomi e numeri
di telefono. Lo porse a Moreno, aprendolo nell’ultima pagina compilata.
L’investigatore prese a consultarlo andando a ritroso nel tempo. Segnò sopra un foglio di carta i nomi
e i numeri di telefono dei possessori di una Lettera
32 che, negli ultimi tre anni, avevano portato la
macchina a riparare o soltanto a registrare. Notò
che un nome si ripeteva con periodicità annuale e
chiese al vecchietto:
«Si ricorda di questo suo cliente che si chiama
Andrea Marchini? Lo vedo annotato con una certa
frequenza».
«Certamente! Marchini, sì. È un giovane sulla
quarantina, pignolo, sì molto pignolo, ma ben educato e rispettoso. Almeno una volta l’anno mi
porta la sua Lettera 32 per una revisione completa.
Ci tiene molto a quella macchina! Una volta mi
disse che era stata acquistata della madre parecchio
tempo prima».
92
«Degli altri cinque nomi, che ho qui segnato,
cosa può dirmi?».
Il vecchietto diede una rapida occhiata, e, segnando i nomi con un dito, disse: «Questi due,
Borri e Silvestri, sono collezionisti, clienti abituali,
fanno spesso acquisti e riescono anche a fare da
soli piccole riparazioni; il più delle volte si rivolgono a me per i pezzi di ricambio o per montare
qualche ingranaggio più complicato. Poi c’è la signora Larini. Gran bella donna! È un piacere
vederla in negozio. Ogni tanto viene a curiosare tra
le mie vecchie cose e a scambiare quattro chiacchiere. È più un’amica che una cliente. Il suo papà
era un mio buon amico. È morto una decina d’anni
fa. Sì, anche lei ha una Lettera 32, ma non vedo
come possa avere a che fare con le sue ricerche.
Degli altri due, non mi ricordo».
93
CAPITOLO X
Moreno, dopo essersi congedato dal vecchietto
dalle sembianze d’elfo, si recò nella piazza antistante la basilica di Santa Croce e, lì, sedette al
tavolo di un bar, protetto dal sole pomeridiano dalla tela di un grande ombrellone bianco. Consumò
due bicchieri di té freddo molto zuccherato, che gli
fornirono immediato sollievo ed energia sufficiente a continuare la giornata. Sul suo smartphone,
collegandosi alla rete, cercò sulle “pagine bianche”
gli indirizzi dei sei possessori di una Lettera 32,
indicando i numeri di telefono. Riuscì a trovarli
facilmente. Li annotò accanto ai nomi. Aveva intenzione di andare a far visita a ciascuno di questi
e stava individuando sulla mappa della città le vie,
quando il suo cellulare squillò. Sul display apparve
un numero preceduto da +49, il prefisso della
Germania.
Rispose. Il suo interlocutore aveva una voce calda
e profonda. Esordì:
«Signor Roccati, è lei?».
«Sì».
«Sono Gianpiero Pucci. Sono appena tornato
dagli Stati Uniti. La segretaria mi ha detto che lei è
94
un investigatore privato e che ha la necessità di
parlarmi con una certa urgenza. Io, purtroppo, ho
poco tempo e non posso riceverla. Sto per partire
per un viaggio d’affari in Cina. Starò via una ventina di giorni. Magari, al mio ritorno…».
«Se mi dedicasse solo pochi minuti, potrebbe
rispondere adesso alle mie domande».
«Ma non so neppure di cosa si tratta».
«Della morte del professore Brocca».
«Sì, ho letto la notizia su “ La Nazione” di Firenze. Ne ricevo regolarmente una copia nel mio
ufficio di Francoforte. Nel giornale si parlava di un
suicidio. Come mai si interessa alla vicenda?».
«Il fatto è che non tutto appare chiaro. Gli inquirenti hanno ricevuto anche due lettere anonime
provenienti da Firenze, nelle quali chi scrive si lamenta di un torto subito dal professore. Abbiamo
ragione di credere che ciò possa essere avvenuto
quando ancora il professore risiedeva a Firenze. Io
ho incontrato sia l’avvocato Foschini che il vostro
comune amico Pasini, ma loro non ricordano alcun
evento importante avvenuto ai tempi della vostra
frequentazione».
« Mah…! Non so che dirle. Eravamo giovani. Si
facevano delle burle a quei tempi, ma senza far del
male. Qualche bischerata, niente di più. No, mi
dispiace, ma non ricordo nulla».
«Ancora una domanda. Il Pasini mi ha detto che
il professore frequentava assiduamente una ragazza, la cui sorella era sentimentalmente legata a
lei».
95
«Sì, Laura e Isabella Marchini, le figlie del tabaccaio di Piazza dei Tigli all’Isolotto. Io facevo
l’amore con Isabella, che aveva la mia età ed era
tanto carina, mentre Enrico stava con Laura. Non
si può dire che fosse una bellezza, ma aveva il suo
fascino. Era una donna fatta, era più grande di noi,
lavorava già, se non ricordo male era impiegata al
comune di Firenze, mentre noi si era ancora dei
ragazzotti, studentelli…,via…! Forse per questo
Enrico s’era preso una mezza cotta. Tra me e Isabella finì presto, dopo qualche mese, mentre
Enrico continuò a vedere Laura per parecchio tempo, forse, non ne sono certo, fino a quando lasciò
Firenze per trasferirsi definitivamente a Roma».
«E lei, le ha più riviste? Sa se vivono ancora a
Firenze?».
«No, mi dispiace. Non ne so più nulla».
«Bene! Non ho altro da chiederle. Grazie».
«Di niente. Se avrà ancora bisogno di me, lasci
un messaggio alla mia segretaria e io la ricontatterò, appena possibile. Tanti auguri per la sua
indagine».
Nel foglio che aveva davanti a sé, aveva annotato i nomi di Laura e Isabella Marchini e, tra
parentesi la dicitura, figlie del tabaccaio di piazza
dei Tigli, quartiere Isolotto. In quel foglio era scritto il nome di un altro Marchini, Andrea, il proprietario di una Lettera 32. Moreno avvertì una
leggera accelerazione dei battiti cardiaci accompagnata da un debole pulsare delle tempie, segno che
la sua attenzione subiva una repentina accentuazione. Poteva trattarsi di una coincidenza, anche se
96
piuttosto improbabile. L’indirizzo che aveva annotato, accanto a quel tale Andrea Marchini, solo
pochi minuti, prima durante la sua ricerca, era Via
Torcicoda. Diede un’occhiata alla mappa. Si trovava all’Isolotto, proprio vicino a Piazza dei Tigli.
La coincidenza si stava trasformando in alta probabilità. Doveva andare a trovare quell’uomo.
Moreno Roccati prese un taxi e si fece portare
in Via Torcicoda. Durante il tragitto cominciò a
riflettere. Se quell’individuo che aveva intenzione
di incontrare fosse stato l’autore delle lettere anonime, si sarebbe trovato di fronte a un soggetto
dalla personalità contorta. Gli analisti della polizia,
avevano dedotto dagli scritti che si trattava di uno
psicopatico, con delirio di onnipotenza; ma allo
stesso tempo lo descrivevano come estremamente
intelligente e attento a non lasciare tracce che potessero facilitarne l’individuazione. Il vecchietto
delle macchine da scrivere l’aveva tratteggiato
come un tipo molto pignolo.
Moreno pensò che, per seguire una procedura
regolare, avrebbe dovuto avvertire il commissario
Corrente e, questi, avrebbe chiesto l’intervento della Polizia di Firenze. La macchina da scrivere del
Marchini sarebbe stata sequestrata e, con ogni probabilità, si sarebbe appurato, mediante una perizia,
che le lettere erano state redatte da quell’uomo.
Ma quante probabilità ci sarebbero state di scoprire
un’eventuale suo coinvolgimento nella morte di
Brocca?
97
Se veramente era un uomo attento e intelligente, bisognava giocare d’astuzia e imbastire una
sorta di rete nella quale farlo cadere. Ma come?
Moreno aveva la sensazione di trovarsi molto vicino alla soluzione del caso. Si ricordò che il
vecchietto aveva detto una cosa che poteva essere
importante. La macchina da scrivere era appartenuta alla madre di Andrea Marchini. Quella donna
poteva essere una delle due figlie del tabaccaio? E,
in questo caso, come mai l’uomo portava il cognome della madre? Poteva essere solo un parente
delle due donne, ma perché mai avrebbe dovuto
scrivere quelle lettere, forse perché aveva subito un
torto personalmente? Se adesso aveva una quarantina d’anni, doveva essere molto piccolo, o appena
nato, quando Brocca aveva lasciato Firenze.
Moreno reputò utile avvicinare il soggetto con
molta prudenza, cercando di non metterlo in allarme. Doveva scoprire la relazione che intercorreva
tra quell’uomo e il professore, senza destare sospetti. Elaborò un piano di massima, che avrebbe
adattato, in corso d’opera, al suo interlocutore.
Il quartiere Isolotto era fatto da edifici tutti uguali, a tre o quattro piani. Erano stati costruiti
dall’INA-Casa dopo la Seconda Guerra Mondiale,
negli anni cinquanta, in una zona degradata, dove
prima, a orti e campi, si alternavano depositi di
immondizia e ruderi di vecchie costruzioni, alcune
delle quali erano state sedi di fonderie e officine.
Il taxi si fermò davanti al numero civico che
Moreno aveva indicato. Era pomeriggio inoltrato e
98
il caldo afoso stava lasciando il campo a una leggera brezza che saliva dal vicino Arno.
Accanto al portone c’erano dodici pulsanti di
campanelli di fianco ai nomi degli inquilini, ma
non vi era il citofono. Moreno suonò due volte,
prima che da una finestra del secondo piano facesse capolino un uomo dai lineamenti regolari e dai
capelli cortissimi che con voce stentorea chiese:
«Chi è? Cosa desidera?».
«Sono un collaboratore del notaio Roccati di
Roma». L’investigatore disse una mezza bugia,
poiché esisteva un suo lontano cugino che faceva il
notaio nella capitale e aggiunse «ho una comunicazione per il Sig. Marchini Andrea. È lei?».
«Non conosco nessun notaio di Roma!» esclamò.
Così dicendo, si ritirò e chiuse l’imposta.
Moreno si morse le labbra. Non aveva funzionato. Accese un mezzo toscano all’anice e rimase
ancora un po’ davanti al portone a riflettere. Non
aveva intenzione di mollare, ma doveva trovare
una via d’uscita a quella situazione.
Era indeciso se attendere lì, magari delle ore,
che l’uomo uscisse da casa per avvicinarlo, oppure
chiamare Corrente e ricorrere alle vie ufficiali. Erano passati alcuni minuti, quando la finestra del
secondo piano si riaprì solo per un attimo e, subito
dopo, lo scatto della serratura del portone diede il
via libera a Moreno, che, spento frettolosamente il
sigaro, salì rapidamente i due piani di scale.
Ad attenderlo sull’uscio c’era un uomo sulla
quarantina, dalla corporatura media, ben rasato.
Aveva gli occhi verde chiaro e il colorito del volto
99
appariva estremamente pallido, di chi non si espone al sole.
«Posso vedere un suo documento?», chiese con
diffidenza.
Moreno gli porse la carta d’identità.
Il padrone di casa la osservò con attenzione e poi
aggiunse:
«Casualmente posseggo l’elenco telefonico di
Roma nel quale ho trovato il numero di un notaio
che si chiama Roccati come lei. Ho composto quel
numero, ma era attiva una segreteria telefonica dalla quale ho appreso che lo studio è chiuso per ferie.
Come mai lei, invece, lavora ancora?».
Moreno in cuor suo ringraziò la propria buona
stella che, in qualche modo, aveva sostenuto la sua
bugia. Fece un largo sorriso che doveva servire a
rassicurare il suo interlocutore e disse: «Il notaio
Roccati è mio cugino. Io collaboro per alcune funzioni particolari, come rintracciare persone oggetto
di atti e notificare comunicazioni fuori città. Per
tale motivo sono libero di organizzare il lavoro che
non segue, necessariamente, orari e giorni
d’ufficio».
Andrea Marchini sembrò soddisfatto della spiegazione e lasciò finalmente entrare il suo ospite.
L’ingresso era angusto e piuttosto buio. La poca
luce filtrava da una porta a vetri opachi che si apriva in un ambiente adibito a salotto. Vi entrarono.
La stanza era arredata con poltrone dalla tappezzeria consunta disposte intorno a un tavolino dal
ripiano in onice al centro del quale era posto un
vassoio d’argento dai bordi cesellati e, in gran par100
te, anneriti. Alle pareti, rivestite da una carta con
arabeschi dorati, ingiallita quasi uniformemente,
c’era qualche stampa che raffigurava piazze e vedute di Firenze. In un angolo spiccava un trumò, in
radica di noce ormai opaca per il tempo, che doveva risalire alla prima metà del millenovecento.
Sulla ribalta del mobile c’era un grande portafotografie che conteneva il ritratto di una donna
abbastanza giovane, molto somigliante al Marchini, con i capelli cotonati, come usava nel periodo
compreso tra la fine degli anni sessanta e l’inizio
del decennio successivo.
Nell’insieme, l’ambiente era alquanto deprimente e, un odore di chiuso e di stantio, vi aleggiava
pesantemente. I due sedettero nelle poltrone, uno
di fronte all’altro. Marchini, continuava a tenere un
atteggiamento vagamente diffidente. Il suo sguardo
era sfuggente. Solo raramente incontrava quello
del suo interlocutore.
Moreno decise di sferrare subito il colpo decisivo. Non ritenne utile tirarla per le lunghe. Pensò
che fosse il caso di affrontarlo direttamente e chiese:
«Lei conosceva il professor Enrico Brocca?».
La mano destra di Andrea Marchini, che teneva
posata sul ginocchio, cominciò a oscillare, dapprima finemente, poi grossolanamente, mentre egli si
portava la mano sinistra al capo dicendo: «Non so.
Non ricordo… sto male. Ho mal di testa!».
«Non importa. Non si preoccupi. È solo una
formalità burocratica. Sono venuto a comunicarle
101
che il professore Brocca ha lasciato un testamento
nel quale la nomina suo erede».
«Ma come?...Non capisco!... Allora è un riconoscimento?».
«Il riconoscimento di che cosa?».
«Niente…non so. Ho mal di testa. La prego, mi
lasci solo. Non sto bene. Ho bisogno di riposo».
Il tremore si era diffuso all’altra mano, mentre
sul volto pallido erano comparse delle chiazze rossastre dai contorni irregolari.
L’uomo era visibilmente agitato e continuava a
ripetere di star male chiedendo di essere lasciato da
solo. La sua voce era molto salita di tono.
Moreno giudicò di dovere lasciare immediatamente quella casa, prima che Marchini andasse in
escandescenza, pericolosamente. Si congedò in
fretta, raggiunse l’ingresso e chiuse la porta alle
sue spalle. Rimase solo un attimo a origliare. Non
si udiva più nulla. Discese rapidamente la scale e,
una volta in strada, si allontanò dalla casa a grandi
passi.
Aveva fatto centro.
102
CAPITOLO XI
Moreno si allontanò da quella casa. Svoltato
l’angolo, si ritrovò in Piazza dei Tigli, proprio di
fronte al negozio di un tabaccaio.
Guardò l’orologio. Erano ancora le sette e mezza del pomeriggio. Entrò. Dietro al banco dei
tabacchi c’era una donna di mezz’età, mentre, sulla
destra, un uomo stava dietro uno sportello dove
due clienti facevano la fila per giocare al superenalotto. Moreno chiese una scatola di mezzi
toscani all’anice e una di fiammiferi “svedesi”. Pagò. Mentre la donna contava il resto le chiese:
«Lei fa parte della famiglia Marchini?».
«Nient’affatto», rispose e aggiunse «il tabacchino l’era dei Marchini, ma noi, io e mio marito, lo
s’è comprato dal vecchio, diciott’anni or sono».
«Posso chiederle se ancora qualcuno dei parenti
abita nel quartiere?».
«Sì, l’Andrea, il nipote del vecchio. La su’
mamma, la povera Laura, una delle due figlie del
precedente padrone, l’è morta da meno d’un anno
e ha lasciato codesto figliolo. Ma l’è un disgraziato, un mezzo matto, meglio non averci a che fare».
«E del padre, che ne è stato?».
103
«Ma quale padre? Non s’è mai saputo chi fosse.
Laura era una ragazza madre. Di quei tempi era
una disgrazia, mentre oggi i figli li fanno pure in
boccetta».
«Provetta si dice, non boccetta!», esclamò
l’uomo dietro lo sportello, che fino a quel momento non aveva preso parte alla conversazione.
«Beh! Provetta o boccetta che sia, è sempre una
cosa contro natura», rispose la donna infastidita e
continuò «mio marito vuol dire sempre la sua.
Comunque sia, Laura era una brava ragazza. Un
tipo riservato. Lavorava all’anagrafe del Comune.
Era una donna indipendente. Quel figlio, l’ha cresciuto come un principino, sempre ben vestito.
Purtroppo era malato. Pensi che da ragazzo è stato
ricoverato varie volte in una clinica dove curavano
i matti».
Moreno approfittò della loquacità dei tabaccai e
chiese ancora: «Dell’altra figlia del vecchio che sa
dirmi? È morta pure lei?».
«No. Ha sposato un impiegato delle Poste. È partita, poco dopo le nozze, col marito, quando questi
è stato trasferito a Bolzano. Non s’è più vista da
allora. Non so che rapporti avesse con la sorella e
col nipote». Alla fine, la donna, che non aveva lesinato gratuite informazioni, sentì il bisogno di
soddisfare la propria curiosità e chiese: «Ma lei
perché vuole sapere dei Marchini? L’avrà bene un
motivo!».
«Sì, certamente. Si tratta di un’eredità di un lontano parente che va ai membri della famiglia anco-
104
ra in vita. Le notizie che mi ha fornito saranno estremamente utili. La ringrazio tanto».
L’investigatore Roccati si ritrovò per strada a
pensare. Aveva in mano molti più elementi di
quanto avesse sperato solo qualche ora prima. Non
aveva dubbi sul coinvolgimento di Andrea Marchini nella vicenda. Era molto probabile che egli
fosse l’autore delle lettere anonime. C’era anche la
possibilità che egli credesse, a torto o a ragione,
che Enrico Brocca fosse il padre di cui la gente
non sapeva nulla. Andrea doveva avere l’età giusta
per essere stato concepito negli ultimi tempi della
permanenza di Brocca a Firenze.
Moreno sapeva di non potere spingersi oltre. Era
necessario un mandato di perquisizione nella casa
di Marchini per cercare la macchina da scrivere
con la quale aveva redatto le lettere e bisognava
interrogarlo con l’assistenza di uno psicologo, considerata la sua contorta personalità.
Moreno telefonò al commissario Corrente. Gli
riferì tutti gli avvenimenti della giornata e quanto
era riuscito a sapere su Andrea Marchini.
Il commissario disse che avrebbe immediatamente avvertito il Questore e il magistrato inquirente
per ottenere il mandato e la collaborazione dei colleghi di Firenze. Avrebbe cercato di rintracciare
anche Isabella Marchini a Bolzano per avere notizie sulle vicende della sua famiglia.
L’investigatore Roccati era soddisfatto dei risultati ottenuti. Pensò che non aveva più nulla da fare
a Firenze. Si recò alla stazione di Santa Maria Novella e prese l’ultimo treno della sera. Telefonò a
105
Piera che insistette per incontrarlo al suo arrivo,
nonostante l’ora tarda, alla stazione di Roma Temini.
Quando Moreno scese dal treno, Piera gli corse
incontro e, quando fu tra le sue braccia, lo strinse
forte a sé; poi scoppiò a piangere.
L’uomo la accarezzò dolcemente, attese che i
singhiozzi si smorzassero, si staccò da lei quel tanto che bastava per poterla guardare in viso e
chiese:
«Che succede?».
«Scusami, piango di rabbia!».
«Raccontami tutto».
«Stamane, ero in ufficio, da sola nella mia stanza, intenta a fare una serie di fotocopie, quando mi
si è avvicinato quel grassone perennemente sudato
di Malvasi, l’ispettore tirapiedi di Quattrone. Sorrideva in modo malizioso. Ha aperto quella sua
boccaccia piena di denti fradici per insultarmi».
«Che ti ha detto?».
«“Sgualdrinella, prima facevi la sdegnosa, mentre ora gliela dai a quel rinnegato di Roccati”. Si è
avvicinato ancora di più stringendomi verso l’angolo tra la copiatrice e il muro. Mi ha messo le
mani addosso. Gli ho tirato una ginocchiata ai testicoli. Si è piegato in due ed è stramazzato al
suolo. Non volevo creare complicazioni. L’ho lasciato gemente a terra. Mentre uscivo dalla stanza
mi ha minacciato: “Attenta a te! Farai la fine di
Roccati! Parola di Malvasi. Vi teniamo d’occhio!”. Sono andata in sala radio, dove c’erano al106
tri colleghi. Non l’ho più visto durante il giorno.
Poco fa, mentre venivo qui, mi sono accorta che
una piccola Opel rossa mi ha seguito fino al parcheggio. Non sono riuscita a riconoscere il conducente. Credo sia giunto il momento che tu mi spieghi cosa è successo tra te e Quattrone. Ho il diritto
di saperlo, perché ho il diritto di difendermi».
Moreno rimase in silenzio per alcuni minuti. Rifletteva sull’accaduto e sulle proprie responsabilità. Disse:
«Piera, tu sei importante per me. Per molto tempo ho tenuto nascosti i miei sentimenti. Non
volevo coinvolgerti in alcun modo. Ormai fai parte
della mia vita ed è giusto che tu sappia. Quattrone
e qualcuno della sua squadra, sicuramente Malvasi
e Ialongo, sono coinvolti in un traffico di droga.
Uno spacciatore di nome Ezio Falanga, che avevo
beccato mentre cercava di piazzare merce rubata,
messo alle strette, per guadagnarsi la libertà, mi
rivelò chi erano e il sistema che usavano. Falanga
informava Quattrone dove potesse trovare un po’
di droga, generalmente case di piccoli spacciatori;
solo qualche volta segnalava un trasporto di quantitativi maggiori. Il commissario e i suoi facevano
irruzione, verbalizzavano solo una piccola parte
della droga trovata, il resto Quattrone lo dava a
Falanga che la vendeva poco per volta e dividevano i guadagni».
«Bastardi! Scusa, ma perché non hai avvertito
Corrente? Potremmo prendere Ezio Falanga e farlo confessare, oppure farci dare da lui la soffiata
giusta per beccare sul fatto tutti quanti».
107
«Mi ripromettevo di farlo dopo aver raccolto
altre prove, ma purtroppo non è stato possibile».
«Perché?».
«Falanga è sparito tre anni fa, nello stesso periodo in cui ho avuto il problema che mi è costato la
sospensione dal servizio. Non se ne sa più nulla.
Né da vivo, né da morto. Prima di venire sospeso
feci delle ricerche per via telematica presso le altre
questure, ma niente. Sembrava svanito nel nulla.
Probabilmente hanno saputo, con le buone o con le
cattive, quello che aveva fatto e che non era affidabile. Per questo l’hanno fatto sparire. Potrebbero
essere stati i trafficanti o addirittura quelli del
gruppo di Quattrone».
«Ora capisco perché hanno testimoniato contro
di te al processo. Volevano screditarti in modo che
le tue eventuali accuse contro di loro potessero
sembrare prive di fondamento o, peggio ancora,
frutto di sterile vendetta».
«Sì, è proprio così. Per loro ero una minaccia.
Una mina vagante che doveva essere disinnescata
e hanno avuto l’occasione per farlo».
«Ma non capisco perché ora cercano di intimidirmi».
«Pensano che io ti abbia messo al corrente dei
loro loschi traffici. Ti vogliono spaventare. Forse
cercheranno anche di montare qualche altra storia
per screditarmi ai tuoi occhi».
«Moreno, parliamone con il commissario Corrente. Tu devi essere riabilitato e quei bastardi
devono pagare le loro malefatte».
108
«Piera, ti prego, lascia perdere. Non abbiamo
elementi per poterli incastrare e a Corrente creeremmo solo problemi. Oggi hanno fatto ciò che
temevo. Hanno tirato dentro te, in questa brutta
storia. Piera, io ti voglio un gran bene, te ne ho
sempre voluto. Ora temo per la tua incolumità. Lo
hanno fatto apposta. Appena hanno saputo che ci
frequentiamo hanno pensato di mandarmi un altro
messaggio, minacciando la persona a me più cara.
Ma se vogliono la guerra, l’avranno! Dove hai parcheggiato?».
«Nella piazza a destra, in fondo, dopo la fermata
dei bus».
«Va bene. Aspettami qui».
«Che vuoi fare?».
«Niente di male. Voglio solo dire due parole a
Malvasi».
«Moreno, lascia perdere».
«Piera, credimi, non lo farei se non fosse necessario. Ho un messaggio da mandare a Quattrone».
«Vengo con te».
«No!Aspettami qui!».
Le diede un bacio e la lasciò in mezzo
all’andirivieni dei viaggiatori che continuavano ad
affollare la banchina sulla quale si erano incontrati.
Moreno uscì dall’ingresso laterale della stazione
in via Giolitti, attraversò la strada e, a passi lenti, si
avviò verso la piazza lanciando occhiate in direzione del parcheggio. Superato il terminal dei bus,
intravide il tetto di tre macchine di colore rosso. Le
superò, quindi si voltò per averle davanti a sé. Non
109
fece fatica a individuare la piccola Opel rossa che
gl’interessava, perché era parcheggiata pochi metri
dietro l’utilitaria di Piera che riconobbe agevolmente. Si avvicinò con circospezione evitando la
possibile traiettoria visiva degli specchietti retrovisori dell’Opel. Quando fu a pochi metri da questa,
una macchina nera gli passò davanti e si fermò vicino a lui in doppia fila; ne scese un signore
trafelato che si diresse di corsa verso la stazione
lasciando la vettura aperta senza la chiave nel quadro, giusto perché potesse essere, in caso di
necessità, spostata a spinta. Ciò che fece Moreno
per posizionarla proprio dietro l’Opel. Quando
Malvasi si rese conto che la sua auto era stata
bloccata, suonò ripetutamente il clacson. Guardando indietro vide che l’abitacolo della macchina
nera era vuoto. Perse la pazienza. Era appena sceso
quando lo sportello spinto da Moreno si richiuse
con violenza schiacciandogli gambe e torace in
una morsa dolorosissima che lo immobilizzò senza
permettergli alcun movimento. I due si ritrovarono
così faccia a faccia divisi dallo sportello che, sotto
la pressione del corpo di Moreno, si era trasformato in una metallica camicia di forza.
«Lasciami, bastardo. Te la farò pagare!».
«Malvasi, sei monotono, non sai dire altro. Ascoltami bene: devi dire a Quattrone che ho tutto
scritto e depositato in mani sicure. Se mi succede
qualcosa, voi tutti finirete sulle prime pagine dei
giornali. Magistrati, DIA e Questure saranno informati simultaneamente. Digli pure di farsi furbo
perché, se mi succede qualcosa, le rivelazioni non
110
saranno più quelle di un rinnegato, ma di un martire. Quindi, che ci pensi bene prima di qualunque
iniziativa».
I lamenti di Malvasi erano sempre più frequenti
e fiochi: doveva provare un forte dolore. Sembrava rassegnato e non tentava più di reagire. Poco
prima era riuscito a tirare fuori l’avambraccio sinistro che, subito, Moreno, aveva colpito violentemente col taglio della mano e, adesso, gli penzolava, forse fratturato, lungo il fianco.
Moreno aggiunse: «Lasciate stare la ragazza. Lei
non c’entra. Se le succede qualcosa, qualsiasi cosa,
ti vengo a cercare e ti do tante di quelle martellate
sui testicoli da ridurli in poltiglia. Hai capito bene?».
Malvasi non rispondeva; allora Moreno spinse
ancora di più lo sportello fino a farlo urlare di dolore, mentre il suo volto diventava paonazzo e gli
occhi sembravano volergli uscire dalle orbite. Sussurrò:
«Pietà… abbi pietà. Ho capito… Sì, ho capito
bene».
Moreno Roccati, ridusse la pressione lentamente,
mentre Malvasi si accasciava, malconcio, sul sedile. Moreno gli sfilò la pistola dalla cintura,
dicendo:
«Questa la prendo io. Non vorrei che, a caldo, ti
venisse in mente di usarla. Dovrai giustificare la
perdita dell’arma, ma se vuoi e hai pazienza, potrai ripescarla in fondo al Tevere. Non ti dico il
punto, altrimenti è troppo facile. Ciao! Ah, dimenticavo, perché non vai da un buon dentista e ti fai
111
sistemare la bocca che fa proprio schifo? Tanto di
soldi sporchi ne hai fatti abbastanza, insieme ai
tuoi compari».
Moreno tornò da Piera fumando il suo mezzo
sigaro, col solito sorriso aperto e rassicurante. Lei,
vedendolo, tirò un sospiro di sollievo e scacciò in
un attimo tutti i brutti pensieri che poco prima
l’avevano angosciata.
Brevemente, senza scendere nei particolari, Moreno le raccontò del suo incontro con Malvasi.
Quando raggiunsero il parcheggio non vi era più
traccia della Opel rossa.
Andarono a cenare al solito ristorantino sotto casa
di Moreno e trascorsero la notte insieme.
112
CAPITOLO XII
Nei giorni che seguirono, Corrente avviò le procedure necessarie. Chiese e ottenne la collaborazione dei colleghi fiorentini. Venne effettuata la
perquisizione dell’abitazione di Andrea Marchini.
Lì fu trovata la macchina da scrivere Lettera 32
che, da una perizia, risultò essere stata utilizzata
per redigere le lettere anonime. Si procedette
all’interrogatorio del Marchini, in presenza di uno
psicologo, ma l’evidente stato di alterata percezione della realtà del soggetto, rese impossibile attribuire alla procedura validità assoluta. Tuttavia, in
casa del sospettato, vennero ritrovati biglietti ferroviari usati da Firenze a Roma e viceversa,
obliterati il giorno della morte del professore. Il
Marchini ammise di essere stato a Roma e nell’abitazione del professore, senza sapere spiegarne la
motivazione.
Corrente rintracciò Isabella Marchini che venne
convocata dal giudice istruttore come persona informata sui fatti.
La domenica successiva, Corrente invitò a Genzano Piera e Moreno.
113
I due giovani non riuscirono ad arrivare a destinazione prima dell’ora di pranzo a causa di un
ingorgo sul raccordo anulare. Sembrava che tutti i
romani rimasti in città, in quella seconda domenica
d’Agosto, avessero deciso di recarsi al mare o ai
Castelli.
Corrente li accolse con la solita premura. Il vino
era sempre lo stesso, mentre le pietanze erano diverse dalla volta precedente. Il Commissario aveva
fatto preparare al cuoco della vicina trattoria una
teglia di lasagne e una di pollo al forno con patate.
Mangiarono con appetito in una distesa e cordiale
atmosfera.
A fine pranzo, dopo il caffè, Corrente prese a
parlare del caso che li aveva impegnati nelle ultime
settimane: «Sapete già della perizia sulla macchina
da scrivere e dei biglietti ferroviari ritrovati in casa
di Andrea Marchini. Adesso, sono in grado di dirvi
che il DNA del frammento di pelle ritrovato sotto
l’unghia di Brocca è compatibile con quello di
Marchini e che la grande affinità trai due DNA è
dovuta al fatto che erano padre e figlio. Un’impronta digitale rinvenuta sulla sedia rovesciata sul
terrazzo, appartiene a Marchini; pertanto, non vi è
più alcun dubbio che questi sia stato in quella casa
la notte della morte di Brocca e che tra i due, proprio sul terrazzo, vi sia stato un contatto fisico.
Probabilmente, il figlio è andato a trovare il padre
per rinfacciargli l’abbandono subito e, tra i due, è
nato un alterco che si è concluso con la caduta del
professore. Sarà difficile, visto lo stato mentale di
Marchini, stabilire l’intenzionalità dell’evento. Al114
la luce di tutto ciò, penso che il magistrato, domani, incriminerà ufficialmente Andrea Marchini per
l’omicidio di Brocca. Ho assistito all’interrogatorio di Isabella Marchini. A quanto pare, era
l’unica della famiglia a sapere chi fosse il padre di
Andrea. La sorella ne aveva tenuto nascosta
l’identità a tutti perché Brocca non aveva mai voluto riconoscere il figlio. Nonostante ciò, alcune
volte, era andato a trovare i due e, in occasione
della prima comunione del bambino, gli aveva regalato un orologio che sul retro aveva inciso la
dicitura “ dal tuo papà”. Secondo la zia, le visite e i
regali, uniti al mancato riconoscimento ufficiale,
avevano contribuito a turbare l’equilibrio psichico
del ragazzo che, in età puberale, aveva manifestato
i segni di vera e propria schizofrenia. Da adulto, la
malattia, si era in parte attenuata».
Il commissario Corrente fece una pausa per versarsi un bicchiere di vino e Piera intervenne per
chiedere:
«Come mai il Marchini era rimasto da solo, senza che nessuno si occupasse di lui?».
«Dopo la morte della sorella, Isabella Marchini
si era recata a Firenze per fare ottenere al nipote la
reversibilità della pensione della madre e per sistemare le pratiche amministrative connesse
all’eredità. La donna aveva lasciato al figlio l’appartamento in cui vivevano e una discreta somma
depositata in banca. Dopo il rifiuto di Andrea a
trasferirsi a Bolzano, la zia aveva fatto avere una
delega a un legale, amico della famiglia, perché
questi si occupasse di incassare la pensione, delle
115
spese correnti e di fornire al nipote una piccola paga mensile. Una donna che rigovernava la casa
prima della morte di Laura, aveva continuato ad
accudire Andrea così da provvedere anche a preparargli i pasti».
Moreno fumava il suo sigaro in silenzio, aveva
ascoltato con attenzione e ormai tutti gli elementi,
emersi dal passato di Brocca e connessi alla sua
morte, erano andati al loro posto a combaciare come in un puzzle. Solo una tessera sembrava avere
un colore e un disegno diversi dal contesto. Che
c’entravano i servizi con Brocca e i suoi problemi
familiari? Rivolse la domanda a Corrente che con
un sorriso sornione rispose:
« Ah! Dimenticavo!... Il Questore mi ha convocato per complimentarsi con me per la soluzione
del caso in tempi così brevi. Mi ha letto una nota
del capo di gabinetto del Viminale nella quale si
precisa che la brillante investigazione condotta dalle forze di polizia ha fugato ogni dubbio sorto sul
decesso del professore Brocca, fedele servitore
dello Stato, impegnato in importanti progetti di
riforma amministrativa. Evidentemente stava svolgendo un incarico di rilievo e c’era il timore che un
gruppo eversivo avesse compiuto il delitto. Il Questore, sicuramente informato dai servizi sul tuo
ruolo nell’indagine, mi ha fatto un cicchetto formale col sorriso sulle labbra, però. Quando gli ho
detto che tu lavoravi su incarico della Veneziani,
ha aggiunto: «La prego, Corrente, non mi prenda
per scemo! Comunque, siamo stati più bravi dei
Servizi. Loro, con tutti i loro mezzi, non sapevano
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niente del passato di Brocca e non erano arrivati ad
alcuna conclusione».
Piera si alzò e batté la mano sulla spalla di Moreno, come si fa per complimentarsi tra colleghi.
Avrebbe voluto dargli un bacio, ma si trattenne.
Alle dieci del mattino del Lunedì, Irma Veneziani, convocata con urgenza solo due ore prima da
Moreno, pigiò il tasto del campanello dell’ufficio
dell’investigatore Roccati. Venne invitata a sedere.
Rifiutò con cortesia il tè freddo che le era stato offerto e rimase in attesa di conoscere il motivo di
quell’incontro.
Moreno le riferì tutto quello che sapeva sul caso
Brocca, unitamente a quanto aveva appreso il giorno prima dal commissario Corrente, specificando il
proprio ruolo nell’indagine. Le spiegò che, in giornata, il magistrato avrebbe incriminato Andrea
Marchini come autore di omicidio volontario.
L’indomani la notizia sarebbe apparsa sui giornali, per tale motivo l’aveva convocata con urgenza, prima che i fatti divenissero di pubblico dominio.
Quando l’investigatore ebbe terminato la propria
esposizione, la professoressa Veneziani, che l’aveva ascoltato senza proferire parola, ma con evidente partecipazione, disse: «Non avrei mai immaginato che Enrico avesse un tale segreto e che lo
custodisse con tanta riservatezza. Eppure, il nostro
rapporto, era imperniato sulla sincerità e sulla reciproca fiducia. Mi sento in qualche modo tradita,
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ma non posso fare a meno di perdonare questa sua
debolezza. Io l’amavo e lo amo ancora. Enrico aveva paura delle malattie. Forse lo intimoriva la
malattia di questo figlio misconosciuto. Chissà! Mi
viene da pensare che, facendo soffrire altre persone, abbia sofferto tanto anch’egli pur se non lo
dava a vedere».
Una lacrima le rigò il bel viso.
Moreno si sentì in dovere di aggiungere qualcosa:
«Prima le ho raccontato i fatti. Adesso le voglio
esprimere un mio personale parere sull’accaduto.
Credo che quella sera, dietro richiesta di Andrea, il
professore abbia acconsentito a riceverlo. È probabile che, inizialmente, tra i due, seduti sul terrazzo,
si sia svolto un colloquio sereno. Successivamente,
affrontati argomenti più intimi e personali, forse
dopo aver visto negata l’ennesima richiesta di riconoscimento, Andrea avrà avuto un brusco cambiamento d’umore. Qualcosa di simile a quanto è
accaduto durante la mia visita, in casa sua. Allora,
quando accennai ai suoi rapporti con Enrico Brocca, dapprima fu percorso da tremori intensi, poi
prese ad agitarsi, costringendomi a lasciare l’appartamento.
Tornando a quella sera, il professore, forse impaurito, si è alzato indietreggiando fino al parapetto, facendosi scudo con una di quelle sedie in
ferro battuto. Ad un tratto, spinto dal figlio o solo
dalla paura, è caduto giù. Non credo che Marchini
avesse intenzione di uccidere il padre di cui sentiva
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la mancanza e che voleva affettivamente ritrovare,
ancor più dopo la morte della madre».
«Sì, la sua ricostruzione dell’accaduto è verosimile. Adesso, che apprendo la verità, non sono più
tanto sicura di aver fatto bene a ricercarla e, con il
suo aiuto, a conoscerla. I morti sono morti e bisogna lasciare che trovino pace».
La sera dello stesso giorno, Piera e Moreno, cenarono insieme seduti a uno dei tavoli sul
marciapiede antistante la trattoria vicino casa di
lui. Moreno ordinò una bottiglia di chardonnay.
Brindarono alla conclusione dell’indagine e
all’assegno che la professoressa Veneziani aveva
compilato in mattinata.
L’atmosfera era serena, quando Piera, a un tratto,
cambiando espressione del volto, da gaia a riflessiva, disse:
«Moreno, adesso dobbiamo pensare a smascherare Quattrone e i suoi tirapiedi».
«C’è tempo… c’è tempo… Per questa sera pensiamo solo a noi due…», rispose sorridendole.
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Nota dell’autore
I fatti e i personaggi narrati sono frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone esistenti o eventi accaduti nella realtà è casuale. Eventuali omonimie tra
personaggi e individui esistenti sono accidentali.
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INDICE:
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Nota dell’autore
pag. 9
pag. 20
pag. 31
pag. 38
pag. 44
pag. 54
pag. 62
pag. 77
pag. 88
pag. 94
pag.103
pag.113
pag.120
Collana Il Brivido
Titoli già pubblicati
1. Mario Oscar Venuti, Rosso Natale.
2. Mario Oscar Venuti, Vigilia nera.
3.Mario Oscar Venuti, Quando finisce la notte.
4. Vincenzo Ragno, Lampi di lucida follia.
5. Vitaliano Cusumano, Nebbia sullo Stretto.
6. Alfredo Buttafarro, Il suicidio del professore.