volume Storia e Archivi Fotografici"

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volume Storia e Archivi Fotografici"
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STORIA E
ARCHIVI FOTOGRAFICI
La fotografia e le immagini hanno oggi
un posto autorevole nella ‘cassetta
degli attrezzi’ degli storici e della
strumentazione di cui si dotano tutti
coloro che ambiscono a comprendere
il rapporto tra presente e passato.
Ogni passo in avanti ci fa tuttavia
comprendere quanta strada può esserci
ancora da percorrere. È per tutte queste
ragioni che abbiamo voluto rammentare,
a chi avrà la pazienza e l’interesse a
seguirci, come la fotografia sia una
modalità di comunicazione da cui non si può
prescindere per la conoscenza della società in
tutti i suoi innumerevoli aspetti.
Si può guardare ad essa da diversi
punti di vista: artistico, informativo,
documentale. Tutti parimenti rilevanti,
coinvolgenti, capaci di narrare,
complessi sul piano del metodo.
ADOLFO MIGNEMI
STORIA E
ARCHIVI
FOTOGRAFICI
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STORIA E
ARCHIVI
FOTOGRAFICI
LA FOTOGRAFIA COME
DOCUMENTO
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Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito dell’accordo di collaborazione, stipulato
tra la Comunità Montana della Carnia e l’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del
Friuli Venezia Giulia, già Centro Regionale di Catalogazione e Restauro dei Beni Culturali,
per un progetto di catalogazione e divulgazione delle esperienze inerenti agli archivi
fotografici in Carnia e il rapporto tra fotografia, storia e didattica.
Il progetto prosegue le attività di raccolta, studio e catalogazione del patrimonio fotografico
che i due Enti, in collaborazione con il Circolo Culturale Fotografico Carnico, portano avanti
dal 2006 nell’ambito di CarniaFotografia.
COMUNITÀ MONTANA
DELLA CARNIA
Istituto Regionale per il Patrimonio
Culturale del Friuli Venezia Giulia
Istituto Comprensivo di Tolmezzo
SToRIa E aRChIVI FoToGRaFICI
La fotografia come documento
Edizioni Comunità Montana della Carnia
Tolmezzo, 2015
Immagine di copertina
Campo coltivato a Zuglio, 1980 ca. Collezione Comune di Zuglio
Realizzazione editoriale
Forum editrice, Udine
Progetto di copertina
cdm associati
Stampa
Poligrafiche San Marco, Cormòns (Go)
© Gli autori per i testi
© Gli autori o i detentori per le immagini
© Comunità Montana della Carnia - Tolmezzo 2015
ISBN
978-88-96546-06-2
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STORIA E
ARCHIVI
FOTOGRAFICI
LA FOTOGRAFIA COME
DOCUMENTO
a cura di
Roberto Del Grande e adriana Stroili
un progetto ideato e curato da
Dino Zanier
COMUNITÀ MONTANA DELLA CARNIA
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Referenze iconografiche
Si ringraziano tutti coloro che hanno prestato le loro fotografie alla Fototeca territoriale CarniaFotografia:
Noella Picotti, Socchieve (Ud); Maria Caterina Pascoli, Verzegnis (Ud); Giobatta De Monte, ampezzo (Ud); Rina Siardi,
Socchieve (Ud); Clara Comessatti, Socchieve (Ud); Regina Mainardis, Socchieve (Ud); Enrico Tacus, Socchieve (Ud);
Fides Del Fabbro, Socchieve (Ud); Rina Bearzi, Socchieve (Ud); Romano Picotti, Socchieve (Ud); Maria Teresa Fabbro,
Socchieve (Ud); Giacomino Bertoli, Socchieve (Ud); Luca Spangaro, Socchieve (Ud); Serena Coradazzi, Socchieve (Ud);
aurora Comessatti, Socchieve (Ud); Lidia Mecchia, Socchieve (Ud); Francesco Zilli, Socchieve (Ud); Gianfranca Breda,
Socchieve (Ud); archivio Ispettorato Ripartimentale delle Foreste di Tolmezzo (Ud); Laura Fabbro Venier, Zuglio (Ud);
Comune di Zuglio (Ud); Ezio Vidussoni, Verzegnis (Ud); Luigina Zamolo, Enemonzo (Ud)
e chi ha concesso le immagini per la pubblicazione in questo volume:
Corrado Fanti, Bologna; archivio Piero Bottoni IDPa Politecnico di Milano; archivio privato L. Finzi; archivio privato
a. Finzi; Immagini TerraItaly™; archivio Istituto Comprensivo di Tolmezzo (Ud); archivio aMMER; Famiglia Gardel,
ovaro (Ud); adriana Stroili, Verzegnis (Ud).
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.
L’editore rimane a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.
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INDICE
Presentazioni
Lino Not
Commissario straordinario della Comunità Montana della Carnia............................p.
Rita auriemma
Direttrice dell’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale
del Friuli Venezia Giulia...................................................................................................»
henri Dao
Presidente del Circolo Culturale Fotografico Carnico..................................................»
Tiziana D’agaro
Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo........................................»
7
8
10
11
Il metodo
adolfo Mignemi
Perché la storia ha bisogno della fotografia..................................................................»
15
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio...........................................»
21
Franca Merluzzi
La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia. Una progettualità
in divenire....................................................................................................................»
39
Roberto Del Grande
Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia
nella fruizione in rete...................................................................................................»
55
Teresa Kostner
Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa..................»
75
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adolfo Mignemi
La fotografia come documento storico..........................................................................»
91
Corrado Fanti
La fotografia come estensione della memoria. Riflessioni sul passato analogico
e problemi per un futuro digitale .................................................................................» 107
La pratica
adolfo Mignemi
L’utilizzo della fotografia nella ricerca storica. Impariamo a leggere
la copertina di un libro ................................................................................................» 147
Maria Teresa Sega
La fotografia come documento nella didattica della storia...........................................» 153
adriana Stroili
La fototeca in classe .....................................................................................................» 167
Silvia Marcolini
Educazione all’immagine nella Scuola Media ‘Gian Francesco da Tolmezzo’:
presupposti teorici ed esperienze ..................................................................................» 179
Margherita Grosso, Dino Zanier
La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto ........................................» 183
Maddalena Morassi, Dino Zanier
Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio......» 205
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Da molti anni la Comunità Montana della Carnia sostiene l’opera di raccolta, catalogazione, conservazione e divulgazione del patrimonio fotografico carnico, attraverso la salda
collaborazione con il Circolo Culturale Fotografico Carnico, vero e proprio ‘braccio operativo’ sul territorio, e con l’Istituto Regionale per Patrimonio Culturale del Friuli Venezia
Giulia, già Centro Regionale di Catalogazione e Restauro, riferimento imprescindibile per
la documentazione del patrimonio culturale, anche fotografico.
CarniaFotografia, il progetto per una Fototeca territoriale della Carnia, è stato ufficializzato infatti con l’adesione della Comunità Montana al SIRFoST – il Sistema Informativo
Regionale Fotografie e Stampe, avviato dall’attuale Istituto Regionale per il Patrimonio
Culturale – e poi con la sottoscrizione della Convenzione per il Progetto CarniaFotografia
da parte dei 28 Comuni della Carnia.
In questi anni è proseguita l’opera di archiviazione fotografica come pure l’attività di sensibilizzazione, al fine di incrementare le adesioni alla Fototeca. La ricerca di foto d’epoca,
infatti, è stata rivolta non solo agli archivi di fotografi noti che hanno ripreso la Carnia di
altri tempi, ma anche alle foto conservate nei cassetti di privati cittadini. Tutto ciò nella
convinzione che, attraverso le immagini, sia possibile comprendere, e far comprendere ai
più giovani, il territorio in cui essi vivono e la sua gente.
a riprova dello spessore di questa iniziativa, gli Enti coinvolti hanno voluto confermare
la loro volontà di sostenere il progetto, attraverso l’accordo di collaborazione che ha portato, tra l’altro, alla realizzazione di questo volume.
Storia e archivi fotografici rappresenta dunque la pietra d’angolo di un ‘edificio culturale’
dalle basi solide, che si pone un duplice obbiettivo finale: da un lato, preservare il bene
fotografico non solo in quanto espressione artistica, ma anche come testimonianza dell’evoluzione della società, del paesaggio, degli usi di un popolo; dall’altro, insegnare alle
giovani generazioni a ‘leggere’ la fotografia d’epoca, a comprenderne il linguaggio, e con
ciò a sviluppare la capacità di valutazione e critica del presente, che farà di loro cittadini
consapevoli di questo territorio.
Lino Not
Commissario straordinario della Comunità Montana della Carnia
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Il ricchissimo patrimonio storico-culturale della Carnia, terra di confine e cerniera permeabile tra il mondo mediterraneo e quello d’oltralpe, è andato crescendo nel corso dei
secoli grazie al profondo senso di appartenenza e identità delle singole comunità, che ne
sono state gelose custodi. Il grande valore di questa eredità è stato riconosciuto per tempo
dal Centro Regionale di Catalogazione e Restauro che, fin dalla metà degli anni ’70 del
Novecento, a poca distanza dalla sua costituzione nel 1971, ha dato avvio alla sua sistematica catalogazione. L’impegno si è mantenuto costante nel corso dei decenni e ha via
via affinato i suoi strumenti metodologici, da sempre allineati ai criteri rigorosamente
scientifici e alle normative predisposti dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), estendendo il proprio ambito di interesse a tutte le tipologie di beni di
cui è stato progressivamente riconosciuto il valore storico-culturale.
L’inizio degli anni ’90 ha visto l’elaborazione e la messa in atto da parte del Centro del
Progetto Carnia che si riprometteva di completare e portare avanti sistematicamente la
catalogazione dei beni culturali dei Comuni, con la precisa volontà di contribuire a rivitalizzare la montagna carnica anche attraverso una valorizzazione del suo patrimonio culturale che potesse completarne l’offerta turistica. Tali attività sono confluite nei quaderni
editi dal Centro di Catalogazione e hanno costituito a lungo lo strumento privilegiato per
la divulgazione dei risultati raggiunti.
a partire dalla fine degli anni ’90 e nel corso del primo decennio del nuovo secolo l’impegno del Centro nei confronti del patrimonio storico-artistico della Carnia è proseguito
anche attraverso la partecipazione a importanti progetti europei transnazionali e interregionali, come l’Interreg ‘Transmuseum’.
In questo scenario ampio e articolato si è inserita la proficua collaborazione tra il Centro
di Catalogazione e la Comunità Montana della Carnia. Tramite il Circolo Culturale Fotografico Carnico, con il progetto CarniaFotografia, si è dato avvio alla Fototeca territoriale
che si prefigge l’obiettivo di raccogliere, conservare e valorizzare il patrimonio fotografico
storico e non, relativo al territorio, e di renderlo disponibile al pubblico attraverso il Sistema Informativo Regionale per il Patrimonio Culturale (SIRPaC). Dal 2007 a oggi sono
stati promossi progetti di catalogazione relativi al Fondo Gortani, all’archivio del fotografo
Giuseppe Schiava, al Fondo Socchieve e – recentissimi – agli archivi familiari di Zuglio
e dell’Ispettorato Ripartimentale Foreste di Tolmezzo.
Su questa base è nato l’accordo istituzionale per raccogliere in un volume i risultati otte-
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nuti con le campagne catalografiche di ‘CarniaFotografia’ e le interessanti esperienze didattiche e divulgative che negli anni sono state portate avanti dal Circolo Culturale Fotografico Carnico, attraverso la Fototeca territoriale, e dall’Istituto comprensivo di Tolmezzo
nell’ambito dei percorsi di educazione all’immagine. La pubblicazione approfondisce il
rapporto fotografia, storia e didattica grazie a interventi di studiosi ed esperti nel settore
fotografico, insegnanti e operatori culturali che assieme agli allievi hanno effettuato ricerche, compilato schede, realizzato documentari, partendo da una corretta lettura delle immagini d’epoca. Parallelamente le esposizioni allestite a Zuglio e a Tolmezzo rendono
fruibili fotografie finora inedite presentandole alla collettività con tutta la loro forza evocativa e come documenti storici da interpretare, comparare e comprendere.
Tutto ciò trova piena rispondenza nelle finalità statutarie dell’Istituto per il Patrimonio
Culturale del Friuli Venezia Giulia (IPaC), delineato dalla legge regionale 10/2008 come
ente funzionale e autonomo della Regione e subentrato al Centro dal 1° febbraio di quest’anno, raccogliendone la prestigiosa attività. L’Istituto si pone oggi come un progetto di
innovazione culturale, un’opportunità reale per lo sviluppo delle politiche culturali della
regione.
In questa prospettiva, l’educazione al patrimonio e la divulgazione sono sfide ineludibili,
obiettivi correlati e strategici per l’Istituto: ricostruire e comunicare la storia attraverso
una fonte primaria come la fotografia è garanzia di una lettura critica e corretta del nostro
passato, e incentivare l’uso di questa documentazione da parte delle giovani generazioni
ne costituisce la necessaria premessa. Non a caso una delle ambizioni dell’Istituto è la costruzione di una rete di collaborazione per lo studio e la valorizzazione degli archivi fotografici di Enti pubblici e privati sul territorio regionale. Una sezione importante delle
attività della rete riguarderà proprio l’educazione al patrimonio fotografico nel più ampio
contesto dell’educazione al patrimonio culturale, con una serie di incontri e workshop tematici, anche di aggiornamento. Momenti educativi e formativi come quello attuato con
il progetto ‘CarniaFotografia’ si pongono quindi come necessario e prezioso riferimento,
auspicio importante per lo sviluppo sistematico di questa finalità prioritaria.
Rita Auriemma
Direttrice dell’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia
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a nome del Circolo Culturale Fotografico Carnico, esprimo la soddisfazione di fare parte
del gruppo di lavoro e del progetto che ha portato alla realizzazione di questa pubblicazione, che si pone un obiettivo per noi particolarmente significativo: approfondire l’importanza storica della fotografia di archivio.
La fotografia, per il Circolo Culturale Fotografico Carnico, è un bene materiale che può
dare un notevole contributo alla conoscenza del territorio. La nostra associazione si è costituita riunendo persone che avevano interessi diversi, ma legati, in un modo o nell’altro,
al mondo della fotografia. Sin dall’inizio, tuttavia, un principio unanimemente condiviso
è stato l’orientamento verso un’attività di servizio nei confronti di enti e associazioni culturali che avevano l’esigenza di tutelare la ‘fotografia storica’, pur non disponendo delle
competenze tecniche necessarie.
Dopo anni di attività legata alle fotografie d’epoca, in quanto associazione di riferimento
per il supporto tecnico-organizzativo della Fototeca territoriale, ci sembra giusto soffermarci per una riflessione, chiederci in che direzione si stia andando e se quanto finora è
stato attuato sia consono agli obiettivi di sensibilizzazione della tutela del patrimonio fotografico del nostro territorio.
Noi crediamo che i saggi dei professionisti contenuti in questa pubblicazione diano un
contributo notevole nel portare avanti il dibattito.
Henri Dao
Presidente del Circolo Culturale Fotografico Carnico
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La Scuola Media Statale ‘Gian Francesco da Tolmezzo’, divenuta ora Istituto Comprensivo, nasce come scuola sperimentale a tempo prolungato che privilegia come stile cognitivo il linguaggio per immagini avvalendosi della comunicazione multimediale attraverso
l’analisi e la produzione audiovisiva.
Negli ultimi decenni del Novecento in Carnia vi è stata una diffusa sensibilità verso la fotografia d’epoca, che ha avuto notevole rilevanza sociale. Poiché accanto alla creazione di
cortometraggi a soggetto e di documentari è sempre stato attivo il laboratorio di fotografia
per lo sviluppo e la stampa della pellicola, la Scuola si è organizzata elaborando una sua
strategia di utilizzo relativa all’osservazione delle immagini d’epoca.
Di fatto, la fotografia d’archivio ha una connaturata forza evocativa e si presta ad essere
usata nella didattica come stimolo per interrogarsi sulle condizioni di vita del passato recente tenendo conto dei disagi, delle paure, dei sacrifici e delle difficoltà di chi ha vissuto
prima di noi per guardare al futuro in modo costruttivo.
Nell’ambito dell’educazione all’immagine sono state quindi organizzate due attività basate
su questi archivi: la schedatura fotografica e il documentario storico.
La schedatura fotografica prevede la compilazione di una scheda con l’inserimento di fotografie provenienti dagli album familiari. Le fotografie, così riprodotte e analizzate, vanno
a formare l’archivio di classe che idealmente propone una memoria storica collettiva.
Con la scheda fotografica l’immagine entra in stretto rapporto con la scrittura: i due codici
si mettono in relazione e si completano producendo un’amplificazione del significato. Ciò
che la scrittura non dice lo indica l’immagine e viceversa.
Il documentario storico è un’attività proposta alle classi terze della scuola media che organizzano l’indagine iconica a partire da una fotografia scelta dall’insegnante. Dall’osservazione dell’immagine e dalla relativa descrizione accurata nascono i temi di
approfondimento affidati ai gruppi in cui sarà divisa la classe. Partendo dal tema assegnato, tali gruppi fanno ipotesi e formulano domande su tutto ciò che non è evidente. I
quesiti, rivolti ad un esperto, chiariscono il contesto in cui è stata scattata la foto e forniscono le informazioni per il commento parlato dell’audiovisivo.
Tiziana D’Agaro
Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo
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Il metodo
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Perché la storia ha bisogno della fotografia
Adolfo Mignemi
Perché la storia ha bisogno
della fotografia
ormai tutti sanno che agli occhi degli studiosi del passato ogni cosa ad esso riconducibile, anche se la più banale, è da considerarsi un documento capace di aprire
prospettive interpretative sempre nuove.
Cosa più delle immagini dunque potrà fornire stimoli e pretesti agli studiosi di una
società come la nostra caratterizzata da una
articolatissima comunicazione visiva.
Il problema però è come rapportarsi alle
immagini, come esaminarle, come decodificarle. Ed è questione che coinvolge non
solo chi deve interrogarle in relazione allo
studio del passato ma chiunque viva questo
tempo ed abbia occasione di ‘incontrarle’.
Proviamo a spiegarci meglio a partire dall’esempio suggerito da fotografie di interesse storico che di questi tempi ricorrono
di frequente davanti agli occhi di tutti.
Cento anni fa la prima Guerra Mondiale.
allora la fotografia entrò all’improvviso
nella vita di molte persone con modalità e
contenuti diversi tra loro.
Nell’estate del 1914 Robert Musil, come
molti altri scrittori e intellettuali in Europa,
era stato trascinato dall’entusiasmo della
mobilitazione e si era arruolato volontariamente. assegnato alle truppe dislocate sul
confine italo-austriaco, aveva preso parte
alle operazioni belliche tra le montagne del
Sudtirolo e sulle sponde dell’Isonzo. Più
tardi avrebbe lavorato come redattore per
due gazzette militari: a partire dal 1916 per
«Tiroler Soldaten-Zeitung» di Bolzano e,
dal 1918, per «heimat», edita dal quartier
generale della stampa bellica di Vienna.
Nelle pagine del primo avrebbe scritto: «Il
ricordo è un apparecchio scadente. Tra un
paio d’anni non avrete più una immagine
chiara di ciò che è stato. Le immagini poetiche degli scrittori […] vi sembreranno realtà. Mancherà la parte migliore, la parte
viva, ai limiti dell’impossibile, di quello che
ora vi sta intorno in ogni istante». Ed oltre
aveva aggiunto: rimarranno le fotografie
perché esse «conserveranno per sempre a
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Adolfo Mignemi
1 R. MUSIL, Kameraden
arbeitet mit!, in «Tiroler Soldaten-Zeitung», n. 9, 1916, p.
4 (ora in Id., La Guerra
parallela, Riverdito, Trento
1987, p. 22).
tutti i combattenti di questa guerra l’eccezionalità del presente»1.
La Grande guerra è caratterizzata dall’irruzione della propaganda nel conflitto con
ruolo di protagonista: essa manifesta rapidamente la sua capacità di proporsi come
un’arma che per vastità d’impiego e di risorse messe in campo dimostra le sue incredibili potenzialità offensive sia sul fronte
interno sia sul campo di battaglia. Spesso
essa diventerà un ordigno capace di mantenere il suo potere distruttivo e velenoso
per anni e anche per decenni, in grado di
sopravvivere alla tregua definitiva dei conflitti ed alle proclamazioni formali della
pace.
Tra gli strumenti principali della propaganda vi sono le immagini, in particolare la
fotografia ed il cinema.
Questi nuovi strumenti sul piano tecnico
ancora mal si adattano ad una documentazione degli avvenimenti, in particolare dei
combattimenti, per cui la loro vicenda, in
particolare quella dei dispositivi fotografici
risultò assai complessa. Sul piano militare,
infatti, si passa dagli impieghi più direttamente tattici dello studio relativo alle difese
e all’attività del nemico alla documentazione
del conflitto in tutte le sue componenti organizzative. Quest’ultima documentazione
viene realizzata principalmente attraverso
il lavoro di verifica e controllo (largamente
censorio) delle immagini scattate dagli operatori non militari a cui era concesso di avvicinarsi alle zone di operazione dei vari
fronti.
Vi è poi un secondo aspetto, non meno im-
portante, relativo alla pratica, che si diffonde sempre più tra i militari, di fotografare in prima persona alcune delle vicende
belliche nelle quali si era coinvolti. Essa genera una produzione ‘non ufficiale’ di immagini che finisce per confrontarsi con l’immagine ufficiale del conflitto.
La grande espansione della stampa illustrata, che caratterizza il sistema delle comunicazioni di massa in quegli anni, vedrà
crearsi un percorso interessantissimo di interazioni tra fotografi non ufficiali e modalità di informazione visiva sull’andamento
del conflitto realizzate dai numerosi giornali
di informazione popolari.
In Italia però la produzione a livello personale di immagini fotografiche relative alla
guerra rimane appannaggio degli strati sociali più abbienti, che si possono permettere
l’onerosità ancora significativa delle apparecchiature (anche quelle amatoriali) e dello
sviluppo e stampa dei materiali impressionati. Per quanto non si trattasse sempre di
ufficiali superiori, che spesso non sapevano
fotografare, ma collezionavano volentieri le
immagini prodotte dai fotografi militari o
civili accreditati ai comandi, è chiaro che a
cimentarsi con questa nuova forma di scrittura e narrazione attraverso le immagini
erano persone che riversavano nelle proprie
istantanee e nell’organizzazione delle
stampe raccolte una cultura molto precisa
e strutturata anche sul piano degli immaginari visivi.
Da qualche anno l’attenzione crescente alla
fotografia amatoriale e non ufficiale ha reso
frequente l’incontro con questi percorsi che
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Perché la storia ha bisogno della fotografia
sono diventati suggestive riflessioni su una
vera e propria ‘rilettura’ degli avvenimenti
vissuti, affidata quasi sempre alle pagine di
album, compilati al ritorno a casa, e destinati talvolta solo a confrontarsi con il proprio ricordo personale, nella maggior parte
dei casi a rappresentare il tipico percorso
pedagogico nelle memorie familiari borghesi. È significativo che anche Vittorio
Emanuele III, appassionato di fotografia,
abbia compilato, con le proprie istantanee
e altri scatti procuratisi via via, un album
destinato all’erede al trono, Umberto.
La guerra raccontata da questi diversi nuclei
di documentazione fotografica ci ha fatto
certamente scoprire realtà spesso sconosciute, talvolta volutamente rimosse, ha sottoposto ai nostri sguardi particolari dell’orrore di un conflitto che non aveva avuto
analoghi precedenti, ma è riuscita solo ad
accompagnarci ai margini del baratro che
quegli avvenimenti hanno aperto.
Non è un caso che quegli immaginari visivi
siano quasi sempre assai lontani da quelli
elaborati dalla cultura popolare e proletaria
della maggior parte dei fanti che affollavano
le trincee.
Questi strati sociali hanno prodotto diari,
corrispondenze, memorie autobiografiche
che negli ultimi decenni hanno dischiuso
agli storici un approccio nuovo alla storia
della Grande guerra: se andiamo a sfogliarli
siamo quasi sopraffatti dalla istanza di comunicare attraverso le immagini che caratterizza la scrittura di quegli anni. Essa è lo
specchio di un mondo che sta vivendo una
profonda rivoluzione nei processi comuni-
cativi, ma guarda caso, si direbbe, l’immagine della guerra che si sta vivendo è assente, talvolta è palesemente tenuta lontana
quasi per il desiderio di non turbare le famiglie.
Il filosofo alain (Émile-auguste Chartier),
che durante il primo conflitto mondiale era
stato profondamente «segnato dall’esperienza del fronte», riflettendo su ciò che in
guerra è vero o falso evidenziava la «sorprendente inclinazione a render conto non
in base alla verità, ma secondo quel che è
meglio. E il meglio ha molte facce»2.
Non stupisce quindi riscontare che l’immagine della Grande guerra nell’ambito di
questi materiali è principalmente riconducibile al genere del ritratto. È il ritratto del
soldato in divisa o del gruppo di commilitoni ripresi in un momento di riposo, il più
delle volte lontano dall’inferno delle trincee,
nella zona delle retrovie. È un’immagine
che ha l’unico scopo di tranquillizzare e di
rassicurare. allorché è scattata in uno studio
fotografico, essa appare del tutto sovrapponibile a quelle dell’emigrazione, che caratterizzano le corrispondenze dei decenni
precedenti. L’abito buono di quelle immagini, carattere distintivo del successo raggiunto, è in questo caso costituito dalla divisa lavata e rammendata, dalle fasce ripulite
dal fango e dagli scarponi lucidati; come
allora non erano presenti richiami alla fatica
del lavoro e alle ristrettezze quotidiane, non
compaiono elmetti, baionette e fucili, ma
un fondale dipinto e qualche supporto a
cui poggiarsi per evitare il ‘mosso’.
Fa da controcanto a questi ritratti l’analoga
17
2 ALAIN (É.-A. Chartier), Mensonges militaires, in Id.,
Propos, Gallimard, Paris 1956,
p. 215.
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Adolfo Mignemi
3 P. MELOGRANI, Trincee in technicolor, in «Domenica Il sole 24 ore», 7 marzo 2004,
p. 1.
ripresa, quasi sempre in studio, del gruppo
familiare che riorganizza, in assenza del
capo famiglia al fronte, le gerarchie della
stessa: la centralità della moglie, i figli e a
volte anche i genitori. È in un certo senso
un ritratto che fissa la temporanea rivoluzione dei ruoli, che trova sempre riscontro
nelle architetture culturali della corrispondenza tra fronte /casa e viceversa.
Questa trama visiva di fototipi conservati
gelosamente nelle tasche della giubba e nei
portafogli, manipolati ripetutamente, all’infinito, nei riti quotidiani del ricordo di casa,
fa da sfondo alla sterminata produzione di
documenti su cui studiare, come si diceva,
con sguardo nuovo la ‘guerra Grande’ dei
combattenti, ma non solo.
attraverso questa nuova sensibilità è possibile rileggere anche la storia visiva che ci è
stata consegnata fin da allora dall’immagine
ufficiale del conflitto, attraverso le fotografie
ed i filmati.
La capacità critica accresciuta ci consente
infatti di porci in atteggiamento impensabile
solo una decina di anni fa.
Nel 2004, ad esempio, a proposito di queste
immagini lo storico Piero Melograni scriveva: «La Fremantle home Entertainment
pubblica due dvd con immagini filmate
della Prima guerra mondiale a colori. ovviamente il colore è stato aggiunto di recente, grazie alle nuove tecnologie, e qualcuno ha protestato asserendo che si tratta
di uno stravolgimento: le immagini erano
state girate in bianco e nero e tali devono
restare. Ma non siamo d’accordo. Nel caso
dei documentari, infatti, il problema della
coloritura delle immagini si pone in termini
diversi che per gli antichi film a soggetto
tipo Metropolis o Tempi moderni. Questi
film sono opere d’arte concepite, pensate e
realizzate per il bianco e nero. Colorarli
oggi può essere un abuso. Ma i documentari
della guerra 1914-18 intendevano rappresentare fedelmente la realtà così come essa
era, e quella realtà si mostrava a colori, non
in bianco e nero. La distorsione rispetto
alla verità è semmai costituita dal bianco e
nero, non dall’immissione del colore. Se la
coloritura viene oggi compiuta in modo corretto, l’effetto può essere emozionante»3.
Melograni però scrivendo queste cose faceva un torto al suo stesso brillante lavoro
storiografico sulla prima Guerra Mondiale
che ancora oggi si legge con piacere e di
cui si apprezza l’intelligenza.
Quelle immagini erano nate in bianco/nero
non per caso: gli operatori, si potrebbe dire,
pensavano in quei due soli colori, ben sapendo valutare la forza e la capacità narrativa
della luce. Inoltre esse erano state accuratamente costruite. Una attenta osservazione
evidenzia infatti che la maggior parte di esse
erano riprese documentarie con le quali si
intendeva raccontare la guerra e i combattimenti attraverso ‘messe in scena’ o raffinati
montaggi che suggerissero una vicinanza
alla linea del fuoco che in realtà non c’era e
non ci sarebbe potuta essere se non ad altissimo rischio, a causa dei limiti tecnici
delle cineprese (ingombro, scarsa sensibilità
delle pellicole ecc.).
Non ultimo gli operatori sapevano come
dosare il ritmo delle riprese e come animare
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Perché la storia ha bisogno della fotografia
adeguatamente quelle immagini destinate a
restare mute dei suoni originali non essendo
tecnicamente ancora possibile una loro registrazione parallela né dare alla versione
definitiva dei filmati anche una completezza
audiovisiva.
Ecco dunque come le immagini prodotte
cento anni fa possono oggi farci conoscere
meglio quanto avvenne durante quel drammatico conflitto. Esse ci consentono di entrare nella storia di quegli uomini che furono coinvolti con una sensibilità che
nessuna relazione ufficiale ha mai potuto
consentire; esse infine danno corpo e volto
a quella «eccezionalità del presente» di cui
scriveva Musil.
Solo alcuni decenni fa, quando gli strumenti
dell’analisi delle immagini erano ancora lontani dall’essere definiti, tutto ciò appariva impossibile: le fotografie erano un puro e semplice apparato illustrativo/decorativo. Le
uniche ad avere considerazione erano quelle
‘ufficiali’ che narravano però, ancora una
volta, la storia di re e di generali, parlavano
la lingua della retorica, spingevano ai margini
le istantanee personali, gli sguardi individuali,
non riuscendo a trovare per essi la giusta collocazione e la corretta chiave di lettura.
abbiamo dunque percorso molto cammino
sul piano scientifico. La fotografia e le immagini hanno oggi un posto autorevole nella
‘cassetta degli attrezzi’ degli storici e della
strumentazione di cui si dotano tutti coloro
che ambiscono a comprendere il rapporto
tra presente e passato.
ogni passo in avanti ci fa tuttavia comprendere quanta strada può esserci ancora da
percorrere.
È per tutte queste ragioni che abbiamo voluto rammentare nelle pagine che seguono,
a chi avrà la pazienza e l’interesse a seguirci,
come la fotografia sia una modalità di comunicazione da cui non si può prescindere
per la conoscenza della società in tutti i suoi
innumerevoli aspetti. Si può guardare ad
essa da diversi punti di vista: artistico, informativo, documentale.
Tutti parimenti rilevanti, coinvolgenti, capaci di narrare, complessi sul piano del metodo (non ci stancheremo mai di ripeterlo!).
19
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1. Copertina del volume
Cimiteri di montagna.
Ricerca fotografica in
Carnia, curato dal Circolo Culturale Fotografico Carnico, Cjargne
culture, Tolmezzo 2002.
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
21
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini*
Raccogliere fotografie in Carnia.
Un tentativo di bilancio
1. Introduzione
a corredo dei seminari di studio e delle iniziative di ricerca promosse fra il 2000 e il
2001 sotto il titolo La religiosità popolare
nella montagna friulana, a cura del Circolo
Culturale Fotografico Carnico fu realizzata
la mostra e il catalogo Cimiteri di montagna1,
che raccoglievano i risultati di una ricerca
imponente, nella quale erano stati censiti
tutti i cimiteri della Carnia, fotografate e
schedate tutte le tombe precedenti agli anni
’50 del Novecento. a questi risultati esposti
sotto forma d’itinerario e di ‘categorie’
(forme, bambini, epitaffi, simboli), nel libro
s’univano i saggi di approfondimento di Patrizia Casanova, adriana Stroili, Marica
Stocco, Dino Zanier, Patrizia Gridel, Marina
Giovannelli e Giorgio Ferigo2. Il testo, oltre
a documentare la rappresentazione fisica del
luogo della sepoltura di molti cimiteri in Carnia, ne segnalava alcuni in stato di abbandono3. Si tratta di un repertorio prezioso,
perché cimiteri e lapidi, foto e modalità di
lasciar tracce dei morti per mezzo dei vivi,
permettono di delineare i cambiamenti nel
tempo delle strategie necessarie a ricordare
chi non c’è più in un luogo specifico: il simitèri, per l’appunto. Questi spazi seguono di
pari passo le vicende dei paesi a loro vicini,
nelle pulsazioni demografiche che un tempo
li hanno visti abitati da concrezioni della memoria e poi li hanno abbandonati: le finestre
chiuse dei paesi, il silenzio, l’assenza si accompagnano così alle erbacce e ai muschi, ai
segni di rovina, alla pietra sbrecciata, ai lumini che non ardono più.
Il repertorio d’immagini e di testi attorno a
questi luoghi raccolto in Cimiteri di montagna, benché per il contesto alpino risultasse
assolutamente pionieristico4, aveva dei fondamenti in alcune ricerche comparabili per
l’area mediterranea. Uno dei riferimenti
portanti era senza dubbio il lavoro di Francesco Faeta – soprattutto Imago mortis5 –
svolto tra gli anni ’70 ed ’80 del Novecento
nei cimiteri dell’entroterra calabrese6. Faeta
* Il contributo è frutto della
discussione dei due autori. La
paternità dei paragrafi va
ascritta a Donatella Cozzi per
2-3, 4.4-4.5, 5-6, ed a Claudio
Lorenzini per i rimanenti.
1 CIRCOLO CULTURALE FOTOGRAFICO
CARNICO (a cura di), Cimiteri di
montagna. Ricerca fotografica
in Carnia, Cjargne culture, Tolmezzo 2002.
2 Gli atti dei seminari e del
convegno conclusivo tenutisi
fra il 2000 e il 2001 sono raccolti nei volumi P. MORO, G.L.
MARTINA, G.P. GRI (a cura di),
L’incerto confine, vol. [1], Vivi e
morti, incontri, luoghi e percorsi di religiosità nella montagna friulana, Associazione
della Carnia Amici dei Musei e
dell’Arte, Tolmezzo 2000 (Quaderni dell’Associazione della
Carnia Amici dei Musei e
dell’Arte, 7) e P. MORO, G.L.
MARTINA, C. LORENZINI (a cura di),
L’incerto confine, vol. [2], Simboli, luoghi, itinerari di religiosità nella montagna friulana,
Associazione della Carnia
Amici dei Musei e dell’Arte,
Tolmezzo 2000 (Quaderni
dell’Associazione della Carnia
Amici dei Musei e dell’Arte, 8).
3 Non tutti così rimasti. È il
caso del cimitero di Timau, recuperato con un intervento
mirabile che si è avvalso delle
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22
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
ricerche contenute in CIRCOLO
CULTURALE FOTOGRAFICO CARNICO (a
cura di), Cimiteri di montagna… cit.; ora in F. MENTIL (a
cura di), Il recinto della memoria. Recupero del vecchio cimitero di Timau, Circolo
culturale G. Unfer-Circolo culturale Menocchio, TimauMontereale Valcellina 2010.
4 Nello stesso periodo comparve la ricerca di M. GIOVANNELLI, Le virtù estreme. Donne,
uomini, bambini e soldati nelle
epigrafi delle Prealpi carniche,
Montagna Leader, Maniago
2001.
5 F. FAETA, M. MALABOTTI, Imago
mortis. Simboli e rituali della
morte nella cultura popolare
dell’Italia meridionale, catalogo della mostra, Roma, Galleria nazionale d’Arte
moderna, 2 luglio-10 agosto
1980, De Luca, Roma 1980.
6 Cfr. S.M. BARILLARI (a cura di),
Immagini dell’aldilà, Meltemi,
Roma 1998.
7 S. MARRA, Immagini del
mondo popolare silano nei
primi decenni del secolo,
Electa, Milano 1984; S. MARRA,
Gente di San Giovanni in Fiore,
Alinari, Firenze 2007.
8 G.P. GRI, Lo scenario funebre
in val d’Arzino, Università
degli Studi di Trieste, Trieste
1976 (Atlante storico-linguistico-etnografico friulano
(ASLEF). Sezione etnografica.
Quaderni, 2).
9 P. MORO, G.L. MARTINA, G.P. GRI
(a cura di), L’incerto confine…
cit.
10 H. BELTING, Antropologia
delle immagini, Carocci, Roma
2011; H. BELTING, Facce. Una
storia del volto, Carocci, Roma
2014.
11 F. FAETA, M. MALABOTTI, Imago
mortis… cit.
si è soffermato non soltanto sugli usi sociali
della fotografia, ma ha anche curato l’opera
di fotografi intenti a documentare vari
aspetti del mondo popolare e contadino,
come ad esempio il catalogo dedicato a Saverio Marra7, fotografo che ha documentato il mondo popolare silano nei primi
decenni del secolo.
La riflessione sviluppata da Faeta, dalla
quale cominciamo – e, come si leggerà, non
casualmente – si articola intorno all’uso popolare della fotografia a partire dal contesto
degli usi funebri. Una mappa tutta improvvisata del diffondersi della fotografia sulle
lapidi, sembra dirci che il prevalere di essa,
in rapporto con l’epigrafe o in progressiva
sostituzione di essa, è collegato non solo alla
diffusione del ritratto fotografico o d’occasione, ma anche alla progressiva sparizione
della dimensione orale e rituale: laddove i
riti dell’agonia, della veglia, del pianto rituale – come nel caso documentato per la
valle dell’arzino8 o in generale nella montagna friulana9 – iniziano a diradarsi, s’intravede incominciare un rapporto denso di
significati con l’immagine del volto ormai assente grazie alla fotografia10. oppure, come
ha documentato Faeta per l’area calabrese,
ancora alla fine degli anni ’70 in occasione
della festa dei defunti la lamentazione funebre si dirige alla fotografia, attraverso i suoi
contenuti: la fissità, il tempo, la bidimensionalità in luogo delle virtù o delle gesta in
vita. ad offrire il destro al ricordo è quanto
si presenta allo sguardo, quanto si desidera
far sopravvivere alla sclerosi progressiva
della memoria11.
La diffusione della fotografia, e lo spazio
che ha trovato nei rituali funebri, ha condizionato fin dal suo esordio la costruzione
della memoria – individuale, familiare, comunitaria, collettiva. La mostra e il catalogo
Cimiteri di montagna si collocava in un
solco profondo, nel quale erano state seminate una miriade di iniziative e tante pubblicazioni che avevano nell’immagine
fotografica una delle leve della ricerca sociale, culturale, storica in Carnia. Il testo
che segue è un tentativo di lettura e di bilancio di una stagione di studio feconda –
ne fanno fede i numeri e la qualità delle
pubblicazioni che citeremo – e di prospettiva.
Il potere dell’immagine, e in particolare di
quelle che fin dalle prime mostre e libri son
state classificate come ‘foto vecchie’, è
(stato) tale da condizionare la nostra capacità di ricostruire il passato e di pensare il
presente. È bene dunque soffermarsi, per
cominciare, da questo aspetto.
2. Partire dalla fine
Partiamo dalla memoria – individuale, familiare, comunitaria – offrendo (un po’
schematicamente) qualche annotazione
esemplificativa fondata ancora sulla ricerca
Cimiteri di montagna.
a. Il potere di presentificazione della fotografia: l’immagine del defunto che sta per il
corpo assente (il caso dell’emigrante sepolto lontano, con la tomba vuota, sulla
quale è collocata la sua foto) che fa da contraltare al funerale in assenza: per il cràmar,
fin dal Cinquecento, quando la fotografia
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
non c’era12, e poi per l’emigrante; ma anche
per il soldato morto, in particolare quelli
della Prima Guerra mondiale, il cui corpo
non è stato recuperato13. alla retorica ufficiale pubblica della memoria per i morti,
costruita con particolare impegno in Italia
attraverso i monumenti14 e culminata nell’esperienza del Milite ignoto15, si è contrapposta e ha resistito una memoria
comunitaria collettiva e privata, guidata dal
medesimo intento di riempire con un resto
e con un nome una tomba16, confinando nei
luoghi dell’alterità – le montagne, gli alpeggi – il vagare delle anime tormentate dal
non aver ricevuto una ‘buona’ morte17 (ma
le cose cambieranno decisamente per i
morti della Seconda Guerra mondiale).
b. La foto postuma, riscontrabile nell’uso di
fotografare il cadavere (quando il farsi una
foto in vita non era ancora usuale; o nel
caso dei neonati, considerato di malaugurio). Era un genere piuttosto diffuso18, insieme alla foto di nozze, a riprova
dell’intrudersi precoce della fotografia nei
rituali. Per l’arzino è documentata questa
usanza per i neonati19, ma sono diverse altre
le attestazioni che si possono riscontrare: a
Forni di Sopra20, a Cercivento21, a Comeglians o Cedarchis ancora negli anni ’6022.
c. Il rapporto di cura con la foto sulla lapide: la si accarezza, la si pulisce. La stessa
foto del defunto viene conservata nei medaglioni che si portano al collo. E, ancora,
il legame d’intimità esibita nel cimitero con
la lapide: la conversazione a voce alta (o interiore) presso la tomba; l’utilizzo dei
fiori23. Il rapporto casa-morte-fotografia: la
casa (la cucina, in particolare), luogo dei
vivi, si afferma almeno fino agli anni ’90
quale luogo di custodia e di esibizione delle
foto dei familiari scomparsi, assenti, vicini
e lontani24. L’immagine dà sostanza alla dimensione di appaesamento, domesticazione
tanto dell’assenza quanto della morte: avviene una trasposizione del mondo di qua
con il mondo di là, che trova nell’immagine
una interlocuzione forte.
d. ancora su questo rapporto, ben documentato altrove, l’erigere in vita la propria
tomba, ma senza la fotografia. Se il ritratto
fotografico presentifica il defunto, non è
possibile la doppia presenza del simulacro
e del vivente. In altre parole: non si può essere presenti in due mondi contemporaneamente, quello dei vivi nel quale la persona
è presente e quello dei morti, la cui presenza è richiamata dall’immagine, ma non
dalla sostanza.
e. La vita è assimilata al potere di controllo
dello sguardo e mette anche ordine alle immagini in relazione con le attività pratiche
e simboliche. E la morte appare come una
apocalissi del visivo: l’oscurare gli specchi25;
le lacrime alla chiusura e alla sepoltura della
cassa, che sottraggono alla vista dapprima
il corpo e poi il contenitore nel quale racchiuderlo in terra26.
f. Maschile e femminile, quindi il genere.
Non solo per quanto riguarda il rapporto
con le fotografie, ma per quanto documenta
il libro: l’incarico del trasporto del cadavere
fino al cimitero, non solo nel caso delle coscritte, ma particolarmente quando gli uomini erano lontani.
23
12 Cfr. G. FERIGO, Le cifre, le
anime. Un saggio di demografia storica, in «Almanacco culturale della Carnia», I (1985),
pp. 31-73 (ora in ID., Le cifre, le
anime. Scritti di storia della
popolazione e della mobilità in
Carnia, a cura di C. Lorenzini,
Forum, Udine 2010, pp. 3-45).
In generale sulla celebrazione
di funerali in assenza di cadavere in area alpina – pratica
variamente proscritta o tollerata in contesti di forte incidenza della mobilità
professionale maschile – cfr.
L. LORENZETTI, R. MERZARIO, Il
fuoco acceso. Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia d’età
moderna, Donzelli, Roma
2005.
13 Yves Pourcher, ricercatore
dell’Università di Tours, ha dedicato delle pagine molto intense sulla desolata e
disperata ricerca del corpo
del proprio padre, marito, figlio, morto o disperso in
guerra, spesso sulla scorta
dei fotoritratti degli scomparsi: nell’immane scialo di
morte della fine della Prima
Guerra mondiale, il piano
della memoria individuale diviene, con questa ricerca, collettivo, cfr. Y. PURCHER, Les jours
de guerre. La vie des Français
au jour le jour entre 1914 et
1918, Plon, Paris 1994 (nuova
edizione Hachette, Paris
2008). Di immagine in immagine, almeno due recenti film
francesi riprendono lo stesso
tema: La vita e niente altro di
Bernard Tavernier (1989), con
Philippe Noiret e Sabine
Azéma e il Una lunga domenica di passioni (ma il titolo
originale recita: Un long dimanche de fiançailles) di
Jean-Pierre Jeunet (2004), dal
romanzo di Sébastien Japrisot, con Audrey Tatou e Gaspard Ulliel.
14 Nonostante la rilevanza
del tema, anche in prospettiva fotografica, si tratta di un
aspetto ancora poco studiato
per la montagna friulana,
fatta eccezione per alcuni
casi: Villa Santina (M. DE SABBATA, L. MARIN, La memoria
scolpita. Attilio Selva e il monumento ai caduti di Villa
Santina (1922-1926), in «Me-
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24
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
todi e ricerche», n.s., XXVII
(2008), 2, pp. 283-298), Paularo (E. SCREM, “La gloria che
sparge fiori ed alloro sulla
tomba dei caduti”. Il racconto
della costruzione del monumento ai caduti di Paularo,
Moro, Tolmezzo 2012) e il
Tempio ossario/Santuario del
Cristo di Timau (R. TEDINO, M.
UNFER, Il Tempio Ossario di
Timau, Istituto di cultura timavese, Timau 2006).
15 A. MINIERO, Da Versailles al
Milite ignoto. Rituali e retoriche della vittoria in Europa
(1919-1921), Gangemi, Roma
2008.
16 Esigenza insopprimibile e
primaria che non scompare
neppure oggi, leggendo le pagine che Favole ha scritto sul
crollo delle due Torri a New
York l’11 settembre del 2001:
«Con un nome, la famiglia può
seppellire la persona amata.
Con un nome, il patrimonio
può essere sistemato; si può
incidere una lapide; si può
stabilire una fine», A. FAVOLE,
Resti di umanità. Vita sociale
del corpo dopo la morte, Laterza, Roma-Bari 2003, p.
165.
17 Cfr. C. FRAGIACOMO, Manifestazioni dell’Aldilà nei racconti
della val d’Incarojo, in P. MORO,
G.L. MARTINA, G.P. GRI, L’incerto
confine… cit., pp. 273-298; R.
DAPIT, Manifestazioni dell’Aldilà attraverso le testimonianze dei resiani, in P. MORO,
G.L. MARTINA, G.P. GRI, L’incerto
confine… cit., pp. 217-264;
G.P. GRI, Altre presenze. Storie
di mont, in U. Da Pozzo, Malghe e malgari, Forum, Udine
2005, pp. 195-199.
18 Per la Calabria, va citata
l’opera di Giuseppe Palmieri,
sacerdote e fotografo, che
aveva l’abitudine di fotografare e benedire i cadaveri del
suo villaggio, lasciandoci un
corpus straordinario di fotografie e sugli usi funebri. Cfr.
F. FAETA, La mort en images, in
«Terrain», n. 20 (1993), pp. 6981.
19 G.P. GRI, Lo scenario funebre in val d’Arzino… cit.
3. Due note preliminari
Da questi spunti articolati intorno al tema
della memoria (e del suo opposto, l’oblio),
che intessono la dimensione privata della
fotografia con quella dei suoi usi sociali, si
può approntare una prima riflessione sulla
straordinaria stagione di passioni che ha
visto nell’accurato recupero della memoria
per immagini in Carnia un momento politico di riflessione e di pratica.
Due note preliminari.
La prima di carattere teorico. Benché prevalga l’uso comune di ‘memoria’ come patrimonio sociale, collettivo e condiviso, si
dovrebbe distinguere, come avverte Michael
herzfeld27 tra ‘memoria’ e ‘ricordo’: il primo
è un processo psicologico, opaco nei suoi
stati interiori, che per essere verbalizzato –
quindi trasmesso – si appoggia alle forme apprese del raccontare (la fiaba trasmessa oralmente si poggia su un repertorio del saper
raccontare che è diverso dal racconto, ad
esempio, di un episodio di guerra che ci vede
protagonisti, la cui cifra stilistica è più prossima al resoconto scritto, di apprendimento
scolastico, come nel diario e nella memorialistica; oppure ha il tratto della scrittura istituzionale, come la testimonianza per una
inchiesta, per un processo verbale, e così via);
il secondo è un processo sociale.
‘Memoria’ e ‘ricordo’, tuttavia, sono pratiche sociali e culturali28 che l’immagine fotografica sollecita in accezione positiva: la
foto serve anche a mantenere traccia di sé e
degli altri. Tuttavia, nel momento stesso in
cui viene prodotta, l’immagine fotografica
determina uno scarto tra il ricordo e la me-
moria, generando necessari processi di
oblio. L’immagine di per sé non può essere
esaustiva, così come l’insieme dei ricordi
che vi si affastellano non esaurisce gli argomenti che ne possono scaturire. Eppure,
contribuisce in misura rilevante a costruire
la memoria collettiva.
Ricordare e dimenticare possono essere
obiettivi espliciti di corrispondenti processi
sociali, «ma non è mai certo se la loro induzione volontaria avrà successo o meno»29.
Paul Connerton, in un saggio del 2008,
Seven Types of Forgetting30, analizza a fondo
il tratto, molto marcato per le culture occidentali, che considera l’oblio come un fallimento. Questo atteggiamento permea il
contesto del dibattito intellettuale e pubblico
sulla memoria, nelle vesti per cui ricordare e
commemorare sono virtù, e virtù civili – ne
è un indice la creazione delle ‘giornate della
memoria’ – mentre dimenticare è necessariamente un fallimento o una voluta e colpevole
negazione del passato. Ma l’oblio non è un
fenomeno unitario; Connerton propone di
distinguerne almeno sette tipi (un paio dei
quali verranno ripresi in queste note31). In
altre parole, indurre al ricordo o imporre
l’oblio possono generare strategie di resistenza, processi di selezione consapevoli e inconsapevoli, momenti di consapevolezza e
riflessività e di fondazione di una nuova
identità, retoriche, senza sottovalutare la trasformazione del ricordo e delle sue immagini
in ‘patrimonio culturale’.
La seconda nota preliminare. Quel che scriveremo mancherà di oggettività, peccando
per essere appassionatamente parziale: per
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
25
2. Pagina dell’articolo di
Giorgio Ferigo, La
Carnia vista dalla parte
della gente, pubblicato
in «In uaite», IV (1981),
1, p. 11.
3. Pagina della rivista
«Perimmagine», II
(1981), 1, p. 1.
20 A. ANZIUTTI (a cura di), Se chi
rioni/Cosa eravamo, Forni di
Sopra, Coordinamento Circoli
culturali della Carnia, 1993
(Archivi fotografici della Carnia, 3), p. 126.
21 W. DE STALES (a cura di),
Noles & lops, Coordinamento
Circoli culturali della Carnia,
Cercivento 1991 (Archivi fotografici della Carnia, 2), p. 118.
l’autrice si tratta della giovinezza di una parte
della sua generazione, nata tra la fine degli
anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso e
di quella che l’ha preceduta, nata quando la
Seconda Guerra mondiale andava verso la
sua sofferta conclusione; per l’autore, che è
stato osservatore partecipe dell’ultima fase di
quella stagione di ricerca (che grazie al Circolo Culturale Fotografico Carnico è ancora
in atto), nato e cresciuto nel mentre le prime
mostre venivano inaugurate.
4. Una stagione di passione: scrivere
l’identità con la luce
4.1. Un bilancio. Una delle esperienze editoriali più organiche e significative, dalla
quale torna utile partire, è la collana ‘archivi fotografici della Carnia’, edita fra il
1990 e il 1996 dal Coordinamento dei Circoli culturali della Carnia (CCCC) che
conta cinque volumi. Si tratta dell’esito (tardivo?) delle mostre promosse e realizzate
dai singoli circoli e associazioni nei loro
paesi a partire dalla seconda metà degli anni
’70, in particolare della collettiva La Carnia
della gente, realizzata nel 1979 in una decina di comunità32.
In questi libri furono raccolti i risultati di
una vera e propria campagna di scavo, sia
presso gli archivi fotografici allora a disposizione (è il caso delle lastre di Paul Scheuermaier scattate a Forni di Sotto negli anni
’20 del Novecento, durante le ricerche per
22 G. FERIGO, M. LEPRE (a cura
di), La Carnia di Candoni. Così
vicina, così lontana. La Carnia
degli anni Sessanta nelle immagini di un fotografo irregolare, Forum-Coordinamento
Circoli culturali della Carnia,
Udine-Cercivento 1999, p. 52.
23 J. GOODY, C. POPPI, Flowers
and Bones: Approaches to the
Dead in Anglo-American and
Italian Cemeteries, in «Comparative Studies in Society
and History», vol. 36 (1994), 1,
pp. 146-175.
24 Si vedano gli splendidi ritratti, in particolare quelli
d’interni, di Ulderica Da Pozzo
raccolti in U. DA POZZO, Il fum e
l’âga. Volti e parole della memoria, Forum, Udine 1998.
25 G. FERIGO, Di alcune superstizioni igieniche relative alla
morte, in CIRCOLO CULTURALE FOTOGRAFICO CARNICO (a cura di), Cimiteri di montagna… cit., p.
201.
26 A. FAVOLE, Resti di umanità… cit., §§ 1-2. In generale
su questi aspetti si rimanda a
D. FREEDBERG, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure:
reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 1993 (ed.
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26
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
4. Copertina dei volumi:
Cungiò veciu paîs, a
cura di Erminio Polo,
Coordinamento Circoli
culturali della Carnia,
Forni di Sotto 1990, il
primo della serie
‘Archivi fotografici della
Carnia’;
Noles & lops, a cura di
William De Stales,
Coordinamento Circoli
culturali della Carnia,
Cercivento 1991;
Se chi rioni / Cosa
eravamo, a cura di Alfio
Anziutti, Coordinamento
Circoli culturali della
Carnia, Forni di Sopra
1993;
I Faremos, a cura di
Carlo Cimenti,
Coordinamento Circoli
culturali della Carnia,
Cercivento 1995;
Tracce di storia per
immagini, a cura di
Tullio Ceconi,
Coordinamento Circoli
culturali della Carnia,
Cercivento 1996.
l’atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (aIS))33, sia
soprattutto fra le case e i paesani vicini e
lontani dei villaggi di appartenenza: Forni
di Sotto34; Cercivento35, Forni di Sopra36,
Paluzza37, Forni avoltri38.
Una prima considerazione riguarda la cronologia. I volumi hanno rappresentato una
collazione ragionata e ampliata delle mostre, nelle quali le ‘foto vecchie’ non superavano i primi anni ’60 del Novecento,
mentre come termine a quo c’era l’ultimo
decennio dell’ottocento, quando anche in
Carnia cominciano a comparire le prime
macchine per la fotografia e i primi semiprofessionisti del mezzo39.
Tuttavia non era soltanto la fotografia prodotta ‘in Patria’ a rappresentare un documento, ma anche (o forse soprattutto) i
molteplici scatti riferibili all’esperienza migratoria, che almeno fino al secondo dopoguerra era squisitamente maschile. Di fatto
in questi libri, così come in altre esperienze
editoriali fondate sulla fotografia, è questa
una delle sezioni più ricche e complesse, per
l’articolazione delle mete e per i mutamenti
che vi si possono registrare pressoché per un
secolo circa. In questo ambito, soprattutto,
l’immagine diviene agente ‘provocante’ della
memoria40.
La presentazione per temi e categorie – il
ciclo della vita e dell’anno; il lavoro in patria
e fuori; le manifestazioni pubbliche; la sfera
religiosa; la ritrattistica, specie familiare e
così via – se nelle mostre poteva essere giustificata e necessaria, nei libri ha prodotto
un effetto congelante. L’intento originario
delle mostre – dichiaratamente dirompente,
come vedremo – trova un’eco soffusa nei
volumi, che diventano ottimi strumenti di
comprensione del contesto locale, ma non
sempre offrendo gli strumenti necessari per
la sua comprensione e, soprattutto, per la
comparazione.
In tutta evidenza, obiettivi e prospettive, a
distanza di dieci-quindici anni, fra le mostre
e i libri erano mutati, anche se a coordinare
l’edizione di quelle ricerche c’erano, di
fatto, le stesse persone.
4.2. A precedere e seguire: iniziative editoriali e mostre fotografiche. Le prime e più
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
fortunate iniziative editoriali, quelle più
prossime e concomitanti all’esperienza de
La Carnia della gente del 1979, furono tuttavia ‘autorali’, ancorate alla necessità di ricostruire un catalogo di un fotografo
operante in Carnia.
Il primo e più noto episodio di quella stagione fu La Carnia di Antonelli 41, ossia la
rappresentazione fotografica prodotta sulla
Carnia da Umberto antonelli (1892-1949),
il farmacista fotografo di Enemonzo, attivo
produttore di ritratti e ben noto fautore dell’immagine ‘da cartolina’ che caratterizzerà
l’‘invenzione della tradizione’ stereotipizzata della montagna friulana, soprattutto
nel suo versante femminile.
obiettivo manifesto della mostra e del catalogo era quello di confutare questa prospettiva: su quelle cartoline si era costruita
l’ideologia che voleva (e avrebbe voluto
mantenere) quell’idillio: le donne alla fontana, chine sui campi e ritte sui prati; gli uomini laboriosi e appacificati. a fronte di un
corpus fotografico qualitativamente e quantitativamente notevolissimo ma manifestatamente falsato, ci si trovava nella necessità
di restituire un contesto nella sua dimensione reale, vagliando, come recava il sottotitolo dell’opera, «Ideologia, realtà»42.
Il secondo episodio di questo percorso autorale è quello legato a Umberto Candoni
(1883-1972), in particolare alle sue foto realizzate durante gli anni ’60 del Novecento,
presentate in una mostra realizzata nel
199543, ampliata e trasposta in catalogo
quattro anni dopo44 dallo stesso formato di
quello su antonelli, con un titolo esemplare: Così vicina, così lontana. «La Carnia
degli anni Sessanta» veniva messa in mostra
dall’occhio attento di un fotografo «irregolare», che pagò duramente la sua militanza
antifascista e l’adesione alla causa anarchica, e che nonostante la sua età avanzata
volle registrare i profondi mutamenti che in
quegli anni s’andavano verificando nella
montagna: il progressivo abbandono del-
27
orig. The Power of Images.
Studies in the History and
Theory of Response, University of Chicago Press, Chicago-London 1989; nuova ed.
italiana, Einaudi, Torino 2009).
27 M. HERTZFELD, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, L’ancora del
Mediterraneo, Napoli 2003, §
3 (ed. orig. Cultural Intimacy.
Social Poetics in the NationState, Routledge, New YorkLondon 1997).
28 U. FABIETTI, V. MATERA (a cura
di), Memorie e identità. Simboli e strategie del ricordo,
Meltemi, Roma 1999.
29 M. HERTZFELD, Intimità culturale… cit., p. 96.
30 P. CONNERTON, Seven Types of
Forgetting, in «Memory Studies», vol. 1 (2008), 1, pp. 59-71.
31 Connerton elenca i seguenti tipi di oblio: la cancellazione repressiva (1.
repressive erasure); l’oblio
prescrittivo (2. prescriptive
forgetting); l’oblio costitutivo
nella formazione di una nuova
identità (3.); l’amnesia strutturale (4. structural amnesia);
oblio come annullamento (5.
forgetting as annulment);
oblio come obsolescenza pianificata (6. forgetting as plan-
5. Copertina del volume
La Carnia di Antonelli.
Ideologia e realtà,
curato da Remo Cacitti,
Marco Lepre, Sergio
Marini, Tarcisio Not,
Laura Puppini, Marco
Puppini, Dino Zanier,
prefazione di Leonardo
Zanier, grafica di
Renato Calligaro,
Centro editoriale
friulano, Udine 1980.
6. Pagina dell’articolo di
Silvana Fachin Schiavi,
Obiettivo Carnia,
pubblicato in «In uaite»,
III (1980), 8, p. 9.
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28
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
7. Copertina del volume
La Carnia di Candoni.
Così vicina, così
lontana. La Carnia degli
anni Sessanta nelle
immagini di un
fotografo irregolare, a
cura di Giorgio Ferigo,
Marco Lepre, Forum Coordinamento Circoli
culturali della Carnia,
Udine-Cercivento 1999.
ned obsolescence); oblio
come silenzio umiliato (7. forgetting as humiliated silence).
Da questo elenco riporteremo
alcune suggestioni limitate a
1. (cancellazione repressiva) e
3 (oblio costitutivo di una
nuova identità), ibid.
32 G. FERIGO, La Carnia vista
dalla parte della gente, in «In
uaite», IV (1981), 1, p. 11.
33 E. POLO (a cura di), Cungiò
veciu paîs, Coordinamento
Circoli culturali della Carnia,
Forni di Sotto 1990 (Archivi
fotografici della Carnia, 1); G.
KEZICH, G. SANGA, P.P. VIAZZO (a
cura di), Scheuermeier, le Alpi
e dintorni, in «SM. Annali di
San Michele», n. 12 (1999).
34 E. POLO (a cura di), Cungiò
veciu paîs… cit.
35 W. DE STALES (a cura di),
Noles & lops… cit.
36 A. ANZIUTTI (a cura di), Se chi
rioni… cit.
37 C. CIMENTI (a cura di), I Faremos, Coordinamento Circoli
culturali della Carnia, Cercivento 1995 (Archivi fotografici
della Carnia, 4).
38 T. CECONI (a cura di), Tracce
di storia per immagini, Coordinamento Circoli culturali
della Carnia, Cercivento 1996
(Archivi fotografici della Carnia, 5).
39 I. ZANNIER, Fotografia in
Friuli. 1850-1970, Arti Grafiche Friulane, Udine 1979; C.
BROCCHETTO, Fotografi della
Carnia tra ’800 e ’900, Associazione culturale ‘Elio cav.
l’economia tradizionale (specie quella pastorale e silvocolturale), le nuove intraprese
industriali, il (relativo) benessere.
a differenza de La Carnia di Antonelli,
quella di Candoni rappresentava un passato
non più idilliaco e idealizzato, ma dinamico
e in pieno mutamento, anche nei cambiamenti dell’emigrazione, in parte riconoscibile e in parte sconosciuto, oppure –
volutamente, necessariamente – dimenticato, trovando posto nell’oblio45.
Due ulteriori episodi di questa rassegna
vanno ricordati.
Il primo è relativo al catalogo del fotografo
tolmezzino Vittorio Molinari (1878-1964),
in particolare il corpus delle immagini più
precoci, fino agli anni ’30 del Novecento,
realizzato da Laura Matelda Puppini46.
Rappresenta, ad oggi, il primo tentativo organico di restituzione di un repertorio fotografico fra i più antichi conservatisi in
Carnia.
Il secondo è la ricerca su Giacomo Segalla
(1915-1990), fotografo di Paularo attivo già
negli anni ’30 e attento testimone della vita
nella vallata dell’Incaroio fino alla sua
scomparsa47. Recentemente48, allargando
un catalogo molto ricco per quantità e qualità, l’antologia è stata ampliata e, soprattutto, contestualizzata grazie all’apporto di
schede di approfondimento su ciascun
aspetto messo in luce – il fascismo, il lavoro
nel bosco e nelle malghe, i bambini e i vecchi, i mestieri artigiani, i paesi e le loro architetture, e così via – mettendo in luce in
tal modo, così come approntato in La Carnia di Candoni, molteplici possibilità di
confronto, con la Carnia e l’altrove.
4.3. Continuatori, precursori. Se la rassegna
delle esperienze ‘autorali’ può dirsi esaustiva, quella delle iniziative espositive e (soprattutto) editoriali fotografiche legate ad
un paese, nonostante sussistesse la volontà
del Coordinamento dei Circoli culturali di
divenire collettore delle istanze di ciascuna
comunità e associazione culturale che vi
opera, è largamente difettosa49. a rimarcare
il carattere segmentale delle sue comunità50,
anche dal versante della produzione dei
libri di paese e per il paese, spesso per chi si
appresta a queste imprese editoriali risulta
preferibile non travalicare i confini del comune. oppure, come accade il più delle
volte, sono i legami mantenuti con chi nel
paese non vive più a divenire motore per la
loro realizzazione. In questa accezione
vanno osservate le pubblicazioni periodiche, come i lunari, editati puntualmente in
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
almeno una decina di comunità51, che
hanno nel recupero dell’immagine fotografica ‘vecchia’ un tratto comune del loro genere. La loro diffusione è, oltreché nel
paese di appartenenza, massiccia fra i molti
che più non vi abitano. Così come è spesso
fra chi è del paese ma vi vive lontano lo
sforzo necessario ad approntare la ricerca e
il recupero delle immagini per realizzare lunari e pubblicazioni fondate sul paese: Illegio52, Cabia53, Treppo Carnico54, Piedim55,
Verzegnis56, Pesariis57 divengono comunità
documentate e narrate attraverso l’immagine fotografica.
4.4. Substrati. al nostro sguardo, l’insieme
di queste iniziative offre una molteplicità di
piani di lettura. Il fatto che i precursori, attivi dagli anni ’70, abbiano ancor oggi dei
continuatori, porta necessariamente a riflettere sul perché quel particolare uso delle
fonti fotografiche per documentare le varie
dimensioni della vita e della storia locale sia
stato così fecondo.
Un primo aspetto da rievocare è il clima intellettuale e storico, l’humus dal quale germinarono queste iniziative, con una rapida
rassegna sulle innovazioni nella ricerca sociale e culturale per gl’anni nei quali sorsero
quelle mostre: la microstoria, come reazione alla storia evenemenziale58; l’inizio
della riflessione post-coloniale in antropologia; lo strutturalismo in linguistica e nelle
scienze umane; il diffondersi della storia
orale e di una nuova sensibilità nel trattamento delle fonti, che portava ad ampliarle
nella direzione della materialità. Soprat-
tutto, era molto vivace – anche in Friuli59 –
il dibattito sulle tradizioni popolari, in concomitanza alla definitiva trasformazione
economica e strutturale in Italia: la contrapposizione gramsciana tra ‘culture egemoniche’ e ‘culture subalterne’ fu applicata,
discussa, complessificata alla luce dei concetti di ‘centri’ e ‘periferie’. Il ‘folklore’,
svincolatosi dal ‘folklorismo’, uscì dalla retorica dello specialismo ed entrò nella fruizione collettiva, come fu per il caso della
musica con la diffusione, anche in Friuli,
dei cosiddetti ‘canzonieri popolari’.
In questo contesto, la tragedia del terremoto del 1976 ed i cambiamenti irreversibili nello spazio dei paesi e nella socialità,
rappresentarono un termine riconoscibile
per stabilire l’affermazione definitiva di un
mutamento già in corso. Per una buona
parte dei nati fra gli anni ’50 e ’60, il Taramòt
funzionò, a partire dal dolore e dalle perdite,
come acceleratore e agglutinante di pratiche
sociali attente a ‘fare legame’ impegnandosi
nelle comunità, e/o presa di coscienza politica verso le retoriche dell’egemonia. Una
versione di quest’ultima tensione fu la volontà di ‘riprendersi la storia’ contro le retoriche dominanti, cercando di restituire la
voce di chi – i ‘senza storia’, per l’appunto –
ne era rimasto ai margini: donne, migranti,
artigiani, marginali. L’innovazione principale nell’affrontare quella nuova prospettiva d’indagine fu l’utilizzo, secondo un
principio neorealista, dell’immagine fotografica nella ricerca. Nelle parole di Italo
Zannier, citate in apertura a La Carnia di
Antonelli:
29
Cortolezzis’, Treppo Carnico
2006.
40 M.T. SEGA, La memoria provocata. Fotografia e storia
personale, in Storia orale e
storie di vita, a cura di L. LANZARDO, Angeli, Milano 1989, pp.
119-127. Una ricerca molto
dettagliata, condotta spesso
a partire dall’immagine, e incentrata sull’emigrazione
contemporanea da Fusea, in
particolare nel secondo dopoguerra, è quella di A. PIUTTI,
Fuseàns pal mont. 100 anni di
emigrazione, Società Operaia
di Mutuo Soccorso ed Istruzione di Fusea, Fusea 2008.
41 R. CACITTI et al. (a cura di),
La Carnia di Antonelli. Ideologia e realtà, Centro editoriale
friulano, Udine 1980.
42 Non è inutile mettere in
luce una voluta coincidenza. Il
volume Cultura materiale in
Carnia di qualche anno dopo,
che raccoglieva una serie di
saggi su questo versante
della ricerca antropologica e
storica, aveva per sottotitolo
Fonti, ideologia, realtà. Cfr.
Cultura materiale in Carnia.
Fonti, ideologia, realtà, Coordinamento circoli culturali
della Carnia, Tolmezzo 1993
(Mito e storia della Carnia, 2).
43 Così vicina, così lontana. La
Carnia degli anni Sessanta
nelle fotografie di Umberto
Candoni, Gruppo ‘Gli Ultimi’,
Tolmezzo 1995.
44 G. FERIGO, M. LEPRE (a cura
di), La Carnia di Candoni… cit.
45 Correndo il rischio della didascalicità, ricordiamo che
Così lontano così vicino (In
weiter Ferne, so nah!), il film di
Wim Wenders successivo alla
riunificazione tedesca, al
quale il titolo della mostra e
del catalogo s’ispirano, è del
1993.
46 L.M. PUPPINI (a cura di), Vittorio Molinari. Commerciante,
tolmezzino, fotografo. Immagini della vecchia Tolmezzo dai
primi del Novecento agli anni
Trenta, Gruppo ‘Gli Ultimi’Cjargne culture, TolmezzoCercivento 2007.
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30
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
47 E. SCREM et al. (a cura di),
Giacomo Segalla fotografo.
L’uomo, l’artigiano, l’artista,
Comunità Montana della Carnia, Tolmezzo 1990.
48 E. SCREM (a cura di), In un
bati di ceas. Paularo attraverso l’obiettivo di Giacomo
Segalla, Moro, Tolmezzo 2015.
49 Costruire una bibliografia
di questi contributi non è facile, sia per la natura composita di questi materiali
(pubblicazioni periodiche
come i calendari, pubblicazioni occasionali e cataloghi,
monografie su diverse località,
saggi, eccetera), sia per il rapporto controverso che sussiste
fra i paesi e gli istituti preposti
a documentare queste iniziative (fra i quali, ad esempio, il
Museo carnico). Più recentemente questa funzione viene
svolta meritoriamente dalla
Fototeca territoriale ‘CarniaFotografia’ (cfr. www.carniamusei.org).
50 P. HEADY, Il popolo duro. Rivalità, empatia, struttura sociale
in una vallata alpina, Forum,
Udine 2001 (ed. orig. The Hard
People. Rivalry, Sympathy and
Social Structure in an Alpine
Valley, Harwood Academic
Press, Australia 1999).
51 Fino a divenire rassegna
periodica, Il lunari fat in Cjargne, che (se non sbagliamo) è
stata realizzata l’ultima volta
nel 2012.
52 D. JOB (a cura di), Illegio. Un
percorso tra immagini e parole
/ Diec’. Imaginas e peraulas,
Circul culturâl di Diec’, Illegio
1992.
53 Cjabie. Memories in blanc e
neri, Comune di Arta - Circolo
culturale Il ferâl, PaluzzaCabia 2011.
54 A. CORTOLEZZIS, M. PLOS, M.
QUAGLIA (a cura di), Trep e i teus.
Immagini di un secolo di vita,
Associazione culturale ‘Elio
cav. Cortolezzis’, Treppo Carnico 2002.
55 S. DI GALLO (a cura di), Piedim e la sô int, Circolo culturale
‘Dinsi une man’, Piedim 2012.
Il fotografo più di ogni altro operatore culturale è chiamato a scegliere i temi e i modi
della rappresentazione. L’immagine è una
sintesi di un’analisi della realtà […] il punto
di vista non è quindi solo un vertice ottico,
ma corrisponde alla connotazione culturale
del fotografo, alla quale è impossibile sottrarsi, nonostante ogni tentativo di disimpegno, indifferenza, neutralità60.
La Carnia di Antonelli questo voleva mettere in evidenza: come fosse necessario
saper leggere le immagini svelandone la costruzione e composizione (la finzione, diremmo oggi); mostrando, pur negli aneliti
progressisti del fotografo, le illusioni verso
una mirabile sorte e progressiva che i cambiamenti economico-sociali in corso nei
primi decenni del Novecento sembrava dovessero garantire a tutti, senza riuscire a far
entrare nell’immagine lo sprofondo della
crisi e della miseria; rendere chiaro come
una fotografia possa costruire visioni dei
luoghi e comunicare valori che parzialmente restituiscono la realtà, e che questa
realtà è filtrata attraverso l’essere situato socialmente del fotografo.
Il grande formato delle lastre di Umberto
antonelli conservatesi consentiva, per
mezzo dell’evidenziazione di alcuni particolari in secondo piano con mirabili soluzioni grafiche adottate da Renato Calligaro,
di scomporre l’immagine. Ciò permetteva,
spesso, di manifestare i rapporti gerarchici
di genere e di sfruttamento, le condizioni di
lavoro nei cantieri e nelle segherie, il rilievo
sociale assunto dalle persone ritratte nelle
foto di posa. Questa scelta editoriale, portava in primo piano le dimensioni della
quotidianità silenziosamente sofferte, che
trovarono poca eco in alcune pagine critiche, antologizzate ne La Carnia di Antonelli, di antonio Dall’oglio, Eugenio
Blanchini, Giovanni Marinelli, e diversi
altri.
Il secondo tema è quello della costruzione
di una identità di comunità dal basso, che
restituisse la qualità politica di una appropriazione della storia locale documentata da
chi l’ha direttamente vissuta, da chi ne ha
conservato ricordo depositato in immagini,
in grado di restituire le dimensioni pubbliche (gli eventi di minuto rilievo, come
l’inaugurazione di una chiesa; l’insediamento di un parroco; la prima pietra di un
edificio pubblico; e gli eventi di rilievo storico, come le guerre), le traiettorie sociali
(le migrazioni, il lavoro), le declinazioni private (il ciclo di vita e i suoi riti di passaggio)
di un paese. Questa qualità politica di riappropriazione storica è rintracciabile ab origine, fin dalla presentazione della serie di
mostre fotografiche che accompagnarono
l’uscita del fotolibro dedicato al fotografo
Umberto antonelli. La Carnia della gente
fu infatti il titolo sotto il quale il Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia
volle raccogliere queste iniziative61, esemplificando il lavoro svolto nei vari paesi: con
la gente e tra la gente nel momento della ricerca, raccolta e catalogazione del materiale, fatte per la gente62. Così scrisse, nel
presentare queste iniziative, Marco Lepre:
«alla base del lavoro svolto dai vari gruppi
[…] c’era infatti il tentativo di presentare e
documentare quella faccia, o meglio, quelle
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
facce, della Carnia e della storia della Carnia che le immagini “ufficiali” e un certo
tipo di tradizione hanno sempre messo tra
parentesi»63; così invece Erminio Polo64, sia
nello stesso numero di «Perimmagine», la
rivista promossa dal Circolo fotografico
friulano (poi Comitato Tina Modotti) di
Udine che ospitò diversi interventi su
quell’iniziativa65, sia, in modo più esteso,
nella prefazione al suo volume fotografico
su Forni di Sotto:
Le foto del libro sono rigorosamente coperte
da copyright. ogni riproduzione è vietata. Il
libro non è commerciabile. Le foto non possono essere usate per la pubblicazione di
atlanti linguistici e Dizionari dialettali67.
abbiamo voluto ricostruire la storia di questo paese perché ci era caro e perché lo
amiamo. Ci è stato anche facile: è rinato dopo
il 1946.
La sua storia è scritta tutta sui libri, su quelli
ufficiali, ma soprattutto su quelli che il Centro di Cultura stesso ha pubblicato, mettendosi dalla parte della gente, degli emarginati,
emigranti ed oppressi, per riscoprire i protagonisti veri, quelli dimenticati dalla storia ufficiale, i “senzastoria” non meno eroi, non
meno saggi, non meno importanti dei padroni e dei vari sorestanz. […] La storia si è
costruita anche con noi, lasciandoci ai margini, passandoci sopra. Ma ci siamo. Siamo
noi in quelle immagini. Siamo noi.
Una ripresa di coscienza, una identità storica,
un essere poveri ma protagonisti. E la rabbia
anche di essere stati lasciati soli. Quando esistevamo. […] Come essere usciti dal buio per
essere improvvisamente investiti dalla luce di
un flash e restare lì, in una posa goffa, ma
umana, ma vera, ma piena di storia66.
La tutela della dimensione privata dell’immagine precede dunque la sua valenza pubblica, quasi a voler tutelare quel ‘popolo’
che, nonostante la sua rappresentazione fotografica, non era ancora valorizzato a sufficienza e come tale. Corrono alla memoria
le parole di andreina Ciceri che Leonardo
Zanier cita nella prefazione a La Carnia di
Antonelli: «ciò ci libera dalle ultime illusioni: prenderemo anche noi delle pedate
dal popolo “che ha fatto irruzione nella storia” e proprio per aver dedicato la vita a
conservare oggetti e memorie della sua vita
e del suo lavoro!»68.
Le critiche o la voluta indifferenza che si affollarono intorno alle mostre e alla pubblicazione de La Carnia di Antonelli, oggi
siamo in grado di comprenderle meglio (il
che non implica accettarle, ovviamente). I
fotolibri del Coordinamento proponevano
un metodo di lavoro sulle fonti, la loro raccolta e i fini della stessa che era oppositivo
rispetto ad un certo modo di lavorare di etnografi e linguisti: gente tra la gente, paesani tra paesani, contro ogni tipo di élite,
intellettuale o capitalistica che fosse.
Corrosiva come un manifesto programmatico, in quello stesso volume, primo titolo
della collana archivi Fotografici della Carnia, prima del frontespizio troviamo questa
nota:
4.5. Patrimonio. Quel modo particolare di
acquisire le immagini fotografiche ha precorso quanto oggi viene chiamato ‘patrimonio fluido’: beni culturali diffusi su un
territorio, spesso in disponibilità di privati,
31
56 Gnàus. Identità di un paese
chiamato Verzegnis. Lettura
del territorio. Ricerca ambientale di carattere sociale, storico e geografico ripresa ed
aggiornata a vent’anni di distanza, Scuole elementari di
Verzegnis, anni scolastici
1979-1980 e 1980-1981,
Co.El., Udine 2003.
57 G. BERGAMINI (a cura di), Pesariis. Album ritrovato, Comune di Prato Carnico, Udine
1994, fondato sulle fotografie
di Luigi Monaci del 1942.
58 Val la pena ricordare che
data al 1977 il primo volume
de I senzastoria di Tito Maniacco, con disegni di Ferruccio Montanari (T. MANIACCO, I
senzastoria, Casamassima,
Udine 1977-1980). I significati
di ‘tempo’, ‘memoria’ e ‘identità’, interconnessi con l’affermazione di una storia ‘dal
basso’, furono precocemente
accolti nella didattica (cfr. P.
FALTERI, G. LAZZARIN (a cura di),
Tempo, memoria, identità.
Orientamenti per la formazione storica di base raccolti e
proposti dal Gruppo nazionale
di antropologia culturale MCE,
La Nuova Italia, Firenze
1986). L’impegno profuso dal
CIDI (Centro iniziativa democratica degli insegnanti) della
Carnia-Gemonese è stato notevole: cfr. M.G. LAZZARIN, A.
LONDERO, J. STACUL Dagli oggetti
al mondo sociale. Agricoltura e
strumenti di lavoro in Carnia:
una ricerca sul campo e due
proposte didattiche, Cluf,
Udine 1994 (Strumenti, 1); D.
DEGRASSI et al., Musei di carta.
Archivi ed inventari di beni in
Friuli: proposte per la ricerca
storica e per la didattica della
storia, Petra, Udine 1994
(Strumenti, 3); F. MICELLI et al.,
La casa rurale in Carnia. Materiale e proposte per la didattica, Petra, Udine 1994
(Strumenti, 4); Il Museo carnico delle Arti e tradizioni popolari. Proposte per
l’utilizzazione didattica, Petra,
Udine 1995 (Strumenti, 5); Archeologia industriale in Carnia. Proposte e suggestioni per
la scuola, per la ricerca, per il
turista curioso, Petra, Udine
1995 (Strumenti, 7); Conoscere la storia per insegnare
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Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
la pace. Da Omero al Ruanda,
Petra, Udine 1996 (Strumenti,
9). Specificatamente sull’utilizzo didattico della fotografia
in Carnia, è noto l’impegno
pluridecennale di Dino Zanier; cfr. almeno D. ZANIER, L.
BASSO, Una lezione di storia attraverso la fotografia, in «Immagine cultura», I (1994), 1,
pp. 54-55.
59 G. FORNASIR (a cura di), La
cultura popolare in Friuli, atti
del convegno di studio, Udine,
palazzo del Torso, 28 ottobre
1989, Accademia di Scienze
lettere e arti, Udine 1990; G.
FORNASIR, G.P. GRI (a cura di), La
cultura popolare in Friuli: “lo
sguardo da fuori”, atti del convegno di studio, Udine, palazzo
Mantica, 21 novembre 1992,
Accademia di Scienze lettere e
arti, Udine 1993.
60 R. CACITTI et al. (a cura di), La
Carnia di Antonelli... cit., p. 6.
61 Dal lavoro realizzato nei
mesi anteriori all’esposizione,
dal 18 dicembre 1980 al 15
gennaio 1981, realizzato a
Forni Avoltri dal locale Archivio
Fotografico Comunale, a Comeglians dal Circolo Sociale
Culturale Ricreativo, a Forni di
Sotto dal Centro di Cultura Popolare Fornese, a Sauris dal
Gruppo Giovani e dalla ProLoco, ad Arta ed Enemonzo dal
Gruppo ‘Gli Ultimi’ di Tolmezzo
e a Prato Carnico dal Gruppo
Donne Val Pesarina.
62 G. FERIGO, Viaggio in due foto
e dintorni…, in «Perimmagine», II (1981), 1, pp. 4-5.
63 M. LEPRE, La Carnia della
gente, in «Perimmagine», II
(1981), 1, p. 1.
64 E. POLO, Ricostruire una
storia, in «Perimmagine», II
(1981), 1, pp. 2-3.
65 Gli interventi furono quelli
di Marco Lepre, La Carnia
della gente; Gruppo donne Val
Pesarina, La donna in Carnia
dal 1880 al 1950; Erminio
Polo, Ricostruire una storia;
Laura Puppini, Antonelli testimone di un’epoca; Giorgio Ferigo, Viaggio in due foto e
dintorni…; Tullio Ceconi, L’ar-
che occasionalmente viene concesso, o duplicato, per attività culturali come mostre,
pubblicazioni, eccetera. Da questo nascono
gli archivi fotografici, in alternativa alla musealizzazione dell’immagine, con quanto ne
consegue per il fatto di circondare di aura
artistica e isolata dal contesto di produzione
ciò che era legato a forme di fruizione ben
diverse. Inoltre, comprendiamo che tali critiche sono da attribuirsi in parte a quanto
Michael herzfeld69 ha denominato intimità
culturale. Fare ricerca sulla ‘intimità culturale’ significa mettere a nudo gli stereotipi
che la cultura ufficiale tende a nascondere
per mantenere il controllo sulla sua immagine pubblica e gli spazi attraverso i quali
le persone costruiscono la propria sensazione rassicurante di appartenenza ad una
comunità. Ciascuno tende a rimuovere quegli aspetti della propria identità culturale
che considera imbarazzanti al cospetto di
persone da fuori, stranieri o estranei, mentre con coloro che appartengono al proprio
gruppo consentono forme di socialità condivisa, centrale per configurare appartenenza e identità (locale o nazionale). Così
da un lato si smascherava la retorica alla
base dello stereotipo onest, salt e lavoradôr,
intriso di rapporti di diseguaglianza economica, sociale e di genere, così ben documentata dalle foto di antonelli, che
mostrano una arcadia ruralmente montana
immota, chissà perché popolata solo da
donne, di cui si intravedono le pieghe fresche di stiratura in quello che dovrebbe essere l’abito da lavoro. Dall’altro ci si
appropriava di una immagine che questi
aspetti li mostrava: esplicitamente, come nei
carichi sulle povere spalle delle donne, talvolta edulcorati nelle foto degli emigranti
in posa con il vestito buono – ah, ecco dove
erano gli uomini! – o dietro ad un sorriso
stanco o alla fissità seria e ieratica – legata
ai tempi di posa – di una foto di matrimonio o di una scolaresca. I piedi e le calzature
non mentono: zoccoli, scarpèz o scarpe dichiarano le possibilità della famiglia, la stagione e l’asperità del percorso, la necessità
di aderire al sasso o alla terra per i propri
passi.
Mostrare pubblicamente la propria intimità
culturale è analogo a violare impudicamente un segreto, e questo fu intollerabile
per molti. attraverso le fotografie raccolte
emergeva una storia corale, che parlava di
memorie private e anonime, di emigrazione,
di minuti eventi locali, di lavori che un
tempo non si esitava a considerare umili,
bassi, di fatica – lavandaie e scalpellini, boscaioli e carradori, sfilère e donne che falciano i prati – e oggi veicolano al contrario
saperi tramandati, culture di mestiere, sapienti ibridazioni tra innovazioni tecniche
e cicli di lavorazione tradizionali.
4.6. Cronologie. a mettere in luce la completezza di un percorso, si può osservare
come il termine ultimo col quale si sono
raccolte le ‘vecchie’ fotografie, gli anni ’60
del Novecento, rappresenti l’oggetto principale dell’opera di Umberto Candoni,
pressoché l’unica che abbia dichiaratamente dato ragione oltre i confini del villaggio ripreso dalla macchina fotografica o del
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
suo autore, di un contesto. Si è trattato, fin
dal titolo di quella mostra – Così lontana,
così vicina – di un vero e proprio salto qualitativo che ha portato a riconoscere la volontà di dimenticare – la lontananza –
riaffermando la necessità di ricordare – la
vicinanza, confermando che la possibilità di
ricordare e generare memoria è connessa
alla inderogabile necessità di dimenticare70.
In questa prospettiva, l’esperienza di studio
e il volume Cimiteri di montagna, si offre
come una tappa – che ci auguriamo non ultima – estremamente significativa. Nelle lapidi, nelle tombe vi si riconoscono le
pratiche di trasmissione dei saperi fra le generazioni e le istanze di riconoscimento
delle appartenenze, in un dialogo incessante fra i vivi e i morti, fra quel che non c’è
più e quel che non c’è ancora, ancorando
alla dimensione comunitaria – quella di chi
c’è e quella di chi non c’è più – ogni istanza
di rinnovamento71.
5. Identità d’immagini
agli inizi degli anni Novanta non era ancora entrato in voga il termine di identità,
accompagnato dagli aggettivi culturale o etnico. Nei passi citati si parla di identità storica, quindi legata ad una storia singolare.
Storia che, abbiamo iniziato a comprendere
proprio in quegli anni, ha caratteri singolari
e insieme condivide con l’arco alpino e con
le regioni contermini elementi comuni.
È ormai un truismo per gli antropologi dire
che le identità si costruiscono, si disfano e
ricompongono, e sono negoziate. Il percorso per immagini del quale stiamo par-
lando si situa in un periodo che tanti sentivano come di identità condenda, oggi la potremmo definire di una riflessività storica
sui confini sociali che implicano l’appartenenza a collettività72. La fotografia rende
presente le difficoltà, le miserie, la fragilità
e la vulnerabilità degli umani, delle cose,
del paesaggio. Non è possibile guardare le
meravigliose case di legno di Forni di Sotto
con i fienili riempiti senza avere un brivido
pensando agli incendi – come purtroppo
accadde per mano nazifascista il 24 maggio
1944. Non è possibile guardare a certi paesaggi senza pensare a come si tenesse conto
della capricciosità di torrenti e fiumi. Non
è possibile guardare alle foto di antonelli –
ma vale lo stesso per attilio Brisighelli73 e
Ugo Pellis74 – senza pensare a una autorialità che domina il mezzo tecnico. Questo
per diverse ragioni: la prima è legata alla nascita della fotografia, e le sue compromissioni con l’arte. L’autore è colui che
mantiene caratteristiche estetiche anche
con il nuovo mezzo: equilibrio della composizione, prospettiva, chiaroscuro. Passare
dalla foto di autore, quindi da una autorialità circondata da aura, alla centralità dei
soggetti raffigurati non è una operazione da
dare per scontata, né ora né allora.
Il problema è che i temi dell’identità trascinano con sé quelli dell’autenticità: solo
quanto è supposto presentare l’essenza dei
caratteri di quella particolare identità è da
considerare ‘autentico’. Come tale, convoglia valori positivi, costruisce una certa idea
di tradizione, una memoria del passato che
si vuole coerente, immagini di una natura
33
chivio fotografico. Nel numero
precedente era stato ospitato
un articolo che recensiva la
mostra (R. PERESANI, D. COZZI, La
Carnia di Antonelli, in «Perimmagine», I (1980), 1, p. 9). Su
«Perimmagine», che divenne
periodico del Comitato Tina
Modotti, e il suo principale
fautore, ossia il fotografo Riccardo Toffoletti, cfr. ora M. DOMINI et al. (a cura di), Riccardo
Toffoletti: un mondo alla rovescia. Fotografia, cultura e impegno, Forum, Udine 2013.
66 E. POLO (a cura di), Cungiò
veciu paîs… cit., p. 2.
67 Ivi, p. IV. Non ritroviamo
questi divieti nei volumi successivi della serie.
68 L. ZANIER, Risorsa acqua, risorsa luce, in R. CACITTI et al. (a
cura di), La Carnia di Antonelli… cit., p. 5.
69 M. HERTZFELD, Intimità culturale… cit.
70 G. LIGI, Il senso del tempo.
Percezioni e rappresentazioni
del tempo in antropologia culturale, Unicopli, Milano 2011,
p. 91.
71 G. FERIGO, Periferie di periferie. Il Museo carnico di Tolmezzo tra aspettative di
rappresentanza e necessità di
contesto, in «Quaderni dell’Associazione della Carnia
Amici dei Musei e dell’Arte», 2
(1995), pp. 33-38 (atti del convegno Musei in rete. Una prospettiva per le raccolte, i
centri di documentazione, i
musei di piccola scala, Tolmezzo, 1° aprile 1995) (ora in
ID., Morbida facta pecus…
Scritti di antropologia storica
della Carnia, a cura di C. Lorenzini, Forum, Udine 2012,
pp. 435-441).
72 Cfr. G.P. GRI, (S)confini, I
quaderni del Menocchio,
Montereale Valcellina 2000.
73 G. BERGAMINI (a cura di), Attilio Brisighelli fotografo, Art& Civici Musei, Udine 1989.
74 S. PERULLI (a cura di), Ugo
Pellis. Un fotografo in movimento, Società Filologica
Friulana, Udine 2008.
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34
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
75 M. HERTZFELD, Antropologia.
Pratica della teoria nella cultura e nella società, Seid, Firenze 2006.
nutrice e accogliente, borghi che riposano
tra prati e alture ordinate. Nonostante la
critica sociale del testo e le istanze analitiche
degli autori, ancora oggi per tanti, carnici e
no, la Carnia di antonelli resta il deposito
e il coagulo di questo immaginario visivo.
Una ironia della sorte: un testo di immagini
nato per contestare una rappresentazione
illusoria che ha dato vigore ad un intero immaginario visivo.
6. Immagini e identità oggi
Per chi non ha partecipato a quella ricerca
e scoperta, quella fatica di cercare, chiedere, raccogliere, vagliare, catalogare, l’insieme dei volumi fin qui citati si presenta
come uno straordinario patrimonio etnografico. Non era certamente quello che gli
autori si proponevano, ma è l’effetto di ambiguità che è insito nella pluralità di sguardi
che si incrociano sulla superficie di una fotografia: sguardi di affetto che inseguono
nomi e ricordi, sguardi analitici e critici,
sguardi tecnici, sguardi estetici. Le fotografie di questi volumi dedicano molta attenzione alle attività della vita quotidiana – il
dominio dell’etnografo. offrono straordinari materiali sugli usi della fotografia, sulle
culture di mestiere (l’abbigliamento, la socialità di genere e in genere, l’architettura e
il paesaggio, il ciclo di vita e i riti di passaggio, gli usi funebri, le festività): sono un vigoroso antidoto contro la sclerosi della
memoria.
Commemorazione e oblio possono essere
legati tra loro più di quanto non sembri. Le
pratiche commemorative che hanno come
scopo di far ‘risorgere’ le generazioni precedenti hanno, secondo herzfeld75, in ultima analisi lo scopo di cancellare le identità
storiche attraverso la ripetizione, creando
una sorta di amnesia che corrisponde, a livello nazionalista, alla cancellazione delle
identità individuali in nome di una causa
comune (come nel Monumento al Milite
Ignoto) e a un atteggiamento possessivo nei
confronti di un nome nazionale – che sia
Patria, o Piccola Patria. È quanto Connerton definisce ‘cancellazione repressiva’, ovvero la manipolazione politica del ricordo
per consolidare il consenso intorno ad un
unico modo di concepire la verità storica.
Ma un’istanza di possessività si può esprimere intorno alla memoria, quale radice di
una identità vissuta come ignorata e calpestata sino a quel momento; Connerton ne
parlerebbe come di ‘oblio costitutivo di una
nuova identità’, con la capacità di creare
scompiglio tra le categorie imposte sul passato da coloro che tengono le redini del potere, eppure con alcuni elementi che nelle
immagini non compaiono e che quindi restano fuori quadro. ad esempio: se la storia
delle singole comunità propone tanti esempi
di solidarietà formalizzata – cooperative di
consumo, società di mutuo soccorso, lavoro
su base di scambio comunitario, eccetera –
alcuni elementi di conflittualità restano fuori
quadro. Le comunità di villaggio attuavano
forme di controllo sociale e disciplina famigliare forte, che sapeva esprimersi anche in
modo brutale verso le donne o coloro che
erano considerati marginali, o venivano da
fuori. Le fratture sociali interne alle comu-
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
nità non seguivano solamente le faglie
aperte dalle dicotomie tra sotàns e sorestàns,
ma avevano gradazioni di censo, genere,
mestiere, stato civile.
E le nuove generazioni? Si potrebbe ipotizzare che lo scemare dell’interesse verso la
fotografia e le iniziative di recupero della
memoria per immagine siano un effetto di
quella che va sotto al nome di ‘perdita’
dell’identità dei giovani. Tuttavia, come
sempre, le cose sono più complesse.
Gli antropologi hanno valide ragioni per
essere particolarmente sensibili alle implicazioni del visualismo: dal concetto di ‘osservazione partecipante’, all’enfasi collocata
sul ‘punto di vista’ – del nativo, locale, eccetera – emerge storicamente come, tra i
sensi quasi esclusivamente una capacità in-
35
8. Umberto Antonelli,
Colonia elioterapica a
Enemonzo (Ud), 19351938 (collezione privata
/ Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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36
Donatella Cozzi, Claudio Lorenzini
corporata – la vista – abbia permesso di sviluppare un’amplissima morfologia di controllo e di potere, perfettamente in grado
di autoriprodursi. L’uso del visuale come
strumento di controllo sociale è un fenomeno relativamente recente – il Settecento
– e localizzato – l’Europa occidentale. Dal
momento che i linguaggi della rappresentazione sono diventati letteralmente il senso
comune del mondo moderno industriale,
sono divenuti anche relativamente invisibili
– e questa è di per sé una metafora rivelatrice. La fotografia è accessibile a tutti, vive
parassitaria entro mezzi tecnici destinati inizialmente ad altri usi (come i telefoni cellulari), è fruibile a tutti e legata ad una obsolescenza rapida. Conservazione e fruizione
sono preoccupazioni meno rilevanti di un
tempo, anche se la volatilità delle memorie
digitali le renderebbe ancor più urgenti. La
lastra, il negativo, erano molto più vicini
all’opera d’arte e alla sua unicità poiché il
loro obiettivo era la durata. Il fine è l’immediatezza della fruizione, la condivisione
sui Social Network, in una ottica di manifestazione di soggettività piuttosto che di
rimembranza. La fotografia oggi mette a
fuoco soprattutto pratiche sociali e agentività. I media sono antropologicamente importanti oggi per due principali motivi, entrambi legati alle pratiche sociali,
all’agentività e al tema dell’identità. Il primo
è che i media ritraggono spesso le azioni di
soggetti che risultano diversi da quelli di
una ipotetica ‘cultura’ e ‘identità’ omogenee; il secondo è che il coinvolgimento con
l’agentività porta la ricerca etnografica a in-
dagare su come gli attori sociali costruiscono collegamenti tra ciò che conoscono
attraverso i media e le proprie vite, e sistemi
sociali, generando ulteriori e imprevedibili
costruzioni di agentività, necessariamente
diverse da quelle delle generazioni differenti. Non di identità si tratta, quindi, ma
di una soggettività che cerca, mantiene e
produce forme di agire – anche solo in
modo virtuale – sulla realtà circostante.
Questo modifica la vita relazionale – per
nodi e reti, non più per relazioni di vicinato,
vincoli di parentela, strutture gerarchiche
consolidate, forme di trasmissione generazionali o tra pari, di filiazione. Nel duplice
versante di perdita che, secondo alcuni, è
legato alle patologie della modernità, e di
converso di acquisizione di agentività, di
strumenti completamente diversi da quelli
di un tempo. Le identità si scompongono e
ricompongono, si trasformano, si amplificano attraverso forme di soggettività che talvolta non siamo in grado di ascoltare, perché
ci destabilizzano, perché non sono le nostre.
Possiamo osservare questo cambiamento
mentre si compie senza ipotizzare cosa significherà per le categorie classificatorie
che continuiamo ad utilizzare – cultura,
identità, appartenenza e così via. Così come
non era omogeneo il mondo della tradizione, così non lo è quello contemporaneo.
ambito materiale e ambito simbolico
spesso si fondono nell’uso delle nuove tecnologie, e il senso delle immagini si presta
a letture impreviste. Vi è a tal proposito una
bella frase di Réné Char: ‘abbiamo una eredità ma non abbiamo un testamento’. L’ere-
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Raccogliere fotografie in Carnia. Un tentativo di bilancio
dità visuale che il Coordinamento dei Circoli culturali della Carnia ci ha lasciato e
continua a trasmetterci è enorme. Possiamo, grazie a questa, sostenere la riflessione critica sull’immagine, creare percorsi
di comprensione del patrimonio e di recupero della memoria, incentivare riflessività
storica e consapevolezza dell’impiego delle
fonti, valutare criticamente il senso comune. «È, questa, una fonte fondamentale
della comprensione umana, accessibile soltanto nei momenti in cui l’ordine categorico
delle cose non appare più certo, quando,
cioè, la teoria non è costruita in base alla
pratica, ma si rivela come una forma di pratica essa stessa»76.
76 Ivi, p. 24.
37
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1. Umberto Antonelli,
Giobatta Picotti con
quindici nipoti,
Socchieve (Ud), 1910 ca.
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
Franca Merluzzi
La catalogazione partecipata in rete
e CarniaFotografia.
Una progettualità in divenire
Racconti per immagini dalle collezioni fotografiche di famiglia è il titolo della rassegna
di incontri che si tengono nell’ambito del
progetto CarniaFotografia. In quell’occasione vengono presentati i risultati ottenuti
con i più recenti lavori di ricerca, di studio
e di catalogazione dei materiali fotografici
individuati nelle raccolte diffuse sul territorio. L’attenzione e la curiosità del pubblico
– e soprattutto la sua partecipazione emotiva – aumentano durante la proiezione
delle immagini con ritratti singoli o di
gruppo, vedute e ‘panoramiche’ del paese
e della valle. È questo il momento più toccante della serata e il più atteso. La comunità si riconosce; naturalmente chi ritrova
un parente o un famigliare è ancora più gratificato ma in genere tutti si lasciano prendere da una specie d’incanto di fronte alle
vecchie immagini. La fotografia ha una sua
forza evocatrice, attiva meccanismi di memoria personale e collettiva. Le relazioni
degli esperti restituiscono, in termini scien-
tifici, quanto hanno rilevato con i metodi rigorosi della ricerca e con l’osservazione dei
materiali e delle tecniche, ma anche quanto
hanno appreso dal contatto con le persone
incontrate.
Lo hanno ben capito coloro che da anni
collaborano a CarniaFotografia: per questo
le relazioni diventano anche racconti che
recuperano ricordi a partire dalle persone
ritratte, dalle occasioni in cui si fecero fotografare, dagli avvenimenti salienti e dalle vicende umane evocate. La comunità si sente
protagonista, ascolta, condivide, aggiunge
ulteriori particolari, si intrattiene alla fine
dell’incontro, approfondisce e forse anche
garbatamente dissente su qualcosa o qualcuno.
Le serate organizzate a Socchieve, Sutrio,
Verzegnis e Zuglio, alla presenza di rappresentanti delle amministrazioni locali, sono
anche un riconoscimento all’attività del Circolo Culturale Fotografico Carnico, associazione che da anni opera, attraverso la
39
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40
Franca Merluzzi
1 T. KOSTNER, La salvaguardia
della memoria attraverso le
immagini: l’album fotografico
della Famiglia Picotti di Nonta
di Socchieve, Università di
Udine, Facoltà di Lettere e filosofia, 2007, relatore G.P. GRI.
2 D. ZANIER (a cura di), La
scuola documenta la Carnia.
La produzione di documentari
con fotografie d’epoca, Istituto
comprensivo di Tolmezzo, Tolmezzo 2014.
3 Fondamentale il contributo
di Dino Zanier alla rassegna,
giunta nel 2014 alla decima
edizione, Tolmezzo città stenopeica. Fotografia stenopeica tra didattica e creatività,
cfr. D. ZANIER, La scatola dei
racconti, Comunità Montana
della Carnia, Scuola media
statale Gian Francesco da
Tolmezzo, Tolmezzo 2008;
cfr. Sulle orme di Giorgio Ferigo, un anno in classe: percorsi
didattici multidisciplinari,
Scuola media statale Gian
Francesco da Tolmezzo, Tolmezzo 2011.
Fototeca territoriale, per il recupero delle
raccolte e la loro conservazione con accurate operazioni di digitalizzazione.
La ‘salvaguardia’ della memoria
La fotografia è strumento di conservazione
della memoria anche in un contesto completamente diverso da quello della fruizione
pubblica appena descritto. Ne ho preso
consapevolezza ritornando recentemente
sull’argomento assieme a Teresa Kostner,
autrice di uno degli interventi di questo volume, diventata un’appassionata ricercatrice sul campo con la tesi di laurea
intitolata La salvaguardia della memoria attraverso le immagini: l’album fotografico
della Famiglia Picotti di Nonta di Socchieve,
discussa nel 2007 all’Università di Udine1.
Il contesto a cui prima alludevo è la casa di
riposo per anziani. andare ‘in ricovero’ è
un momento delicato e destabilizzante; la
persona abbandona le abitudini, la casa, i
luoghi conosciuti per entrare in un ambiente organizzato per dare assistenza, ma
estraneo. La memoria, per chi ancora la
possiede, si affievolisce, spesso si perde rapidamente. L’esperienza e la sensibilità
degli operatori suggeriscono che l’anziano
abbia con sé una o più fotografie significative: lo aiutano a mantenere la memoria del
proprio vissuto, dei legami familiari e nello
stesso tempo dà la possibilità a chi si rapporta con lui di aprire un canale di comunicazione; una parola, una frase, una
battuta scherzosa, prendendo spunto proprio dalle immagini, possono favorire l’interazione.
Nell’ambito delle attività di animazione di
una casa di riposo tolmezzina sono stati proiettati i documentari ‘La scuola documenta
la Carnia’, alla cui realizzazione hanno contribuito, nell’anno scolastico 2012-20132, insegnanti e alunni dell’Istituto comprensivo
di Tolmezzo. ogni audiovisivo si è basato
sull’analisi di una fotografia d’epoca, seguita
da una più ampia ricerca di una classe che
ha costruito poi un racconto, per lo più di
breve durata, adatto quindi anche alle persone con difficoltà di concentrazione.
Come mi è stato riferito, il video I luoghi
dell’incontro - Osterie, fontane e lavatoi ha
sortito interesse e provocato discussioni tra
degli ospiti della struttura: il tema delle osterie ha coinvolto di più gli uomini, le fontane
e i lavatoi maggiormente le donne, con molta
soddisfazione dell’animatrice. Probabilmente
nessuno prefigurava questo inedito utilizzo
dei documentari nati come percorsi di educazione all’immagine, neppure – penso –
Dino Zanier, stenopeista ed esperto delle tecniche fotografiche che per vent’anni si è confrontato con generazioni di ragazzi e di
insegnanti nelle scuole di Tolmezzo. Zanier,
ideatore di numerosi progetti didattici e dei
documentari in questione3, considera la fotografia un documento e uno strumento per far
partecipare i ragazzi alla storia, per farli entrare – così si esprime – dentro la storia.
anche noi operatori dell’Istituto regionale
possiamo dire di essere entrati pian piano
dentro la storia degli anziani minatori dell’ex miniera di Cludinico a ovaro. Li abbiamo interpellati per avere informazioni
sui materiali esposti nel Museo, arnesi, at-
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
41
2. Umberto Candoni,
Minatori all’ingresso
della medaglieria di
Creta d’Oro, Cludinico
(Ud), 1953 ca.
(collezione privata
Gardel). Il fotografo
Luigi Gardel
accompagnò il collega
Candoni e lo aiutò nella
realizzazione dello
scatto.
La fotografia ritrae alcuni operai davanti alla portineria della miniera Creta d’oro: hanno probabilmente
concluso il turno del mattino e si sono messi in posa, i volti ancora sporchi di polvere nera. hanno con
loro le lampade, unico oggetto che identifica il loro mestiere, ma non gli attrezzi, lasciati in qualche deposito
nella galleria principale o passati ai compagni.
Come spiegò Luigi Gardel fotografo di ovaro e prezioso custode di questa immagine, era assai difficile
realizzare riprese all’interno della miniera a causa della luce scarsa.
Nel 1953 il fotografo Luigi Candoni di Comeglians, presso cui Gardel era apprendista, si recò a Cludinico
e, ispezionato il luogo, scelse un posto facilmente riconoscibile: nel bosco, alla fine del sentiero per Creta
d’oro, c’era uno slargo, racchiuso da un lato dalla parete rocciosa, sull’altro da una staccionata e sullo
sfondo dalla baracca in legno della portineria o medaglieria. Qui ad ogni minatore veniva infatti assegnata
una “medaglia” numerata: con questo metodo si teneva il conto degli uomini presenti al lavoro in miniera.
Erano inoltre distribuite dosi di carburo per le lampade e si compivano tutte le registrazioni indispensabili
per il conteggio delle ore da retribuire e per l’assicurazione in caso di infortuni.
Superata la portineria, gli operai entravano nella galleria principale. Dopo aver percorso un tratto comune,
si radunavano per l’appello in zona, detta ponsa, da dove, divisi dal capoturno in gruppi di tre o quattro,
raggiungevano fronti di abbattimento. Quando Gardel aprì il proprio studio fotografico, l’attività della miniera era ormai esaurita. I suoi legami con questo luogo sono comunque testimoniati da tanti oggetti, da
lui donati al museo, appartenuti al perito minerario Massimo Mocci che diresse la miniera di Cludinico
dal 1942 in poi.
Da Il carbone di Creta d'oro, Forum, Udine 2012, p. 99.
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42
Franca Merluzzi
3. Attilio Vidussoni,
Anita Vidussoni, figlia
del fotografo, in
costume carnico,
Verzegnis (Ud), 19401942 (collezione privata
/ Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
trezzature e documenti di cui era in corso
la catalogazione nell’ambito del progetto
Interreg ‘Transmuseum’4. Lo storico da noi
incaricato, Gilberto Dell’oste di ovaro, catalogatore e ‘intermediario’ nello stesso
tempo, ha registrato i loro racconti – poi allegati alle schede – in cui la storia individuale, piena di fatiche ma anche di
orgoglio, si intreccia con quella della Val di
Gorto che attorno al 1940 attrasse un numero considerevole di lavoratori (fino a
1.600) per lo sfruttamento del giacimento
carbonifero di ‘Cuesta di Laur’ (Costa o
Creta d’oro). abbiamo riascoltato dalla
loro voce con forte emozione – nostra e loro
– le testimonianze di vita e di lavoro portate
durante le presentazioni del volume Il carbone di Creta d’oro. Storia della miniera di
Cludinico, svoltesi nell’agosto e nel settembre 2012, a ovaro e al Museo etnografico
del Friuli di Udine5.
L’accenno a questa attività per il Museo di
Cludinico e alle altre iniziative che ruotano
attorno a CarniaFotografia, porta a riflettere sul progetto in generale e sulla sua evoluzione, ad interrogarsi sull’indirizzo futuro
e sull’apporto dei soggetti coinvolti. a
monte esiste un rapporto di condivisione di
metodologie tra la Comunità Montana della
Carnia e l’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia che
dal primo febbraio 2015 è subentrato al
Centro regionale di catalogazione e restauro dei beni culturali6. La circolarità
delle informazioni ha ampliato i contatti e
incluso le campagne di catalogazione in una
più ampia progettualità con finalità didat-
tiche e divulgative, arricchita nel suo divenire grazie alla partecipazione di soggetti
che operano con le competenze specifiche
del settore. La pubblicazione offre l’occasione per approfondire il legame tra storia,
fotografia e didattica, tema ritenuto d’interesse dalla Comunità Montana della Carnia
e dall’Istituto Regionale per il Patrimonio
Culturale del Friuli Venezia Giulia sulla
base delle esperienze concrete condotte in
questi anni e coerenti con le finalità istituzionali.
Il catalogo dei beni culturali del Friuli
Venezia Giulia
L’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia - IPaC gestisce il Sistema Informativo Regionale del
Patrimonio Culturale - SIRPaC che rappresenta il catalogo dei beni culturali regionali7. L’universo dei beni documentati è
ampio, differenziato e in continua crescita.
attraverso il sito si può accedere ai dati
delle diverse tipologie: pitture e sculture e
altri beni storico artistici, numismatici, reperti e siti archeologici, architetture, parchi
e giardini storici, fotografie e stampe, ma
anche installazioni d’arte contemporanea,
testimonianze materiali e immateriali che
rievocano antichi saperi ed esperienze migratorie. Il concetto di bene culturale si
evolve nel tempo, comprende le ‘eccellenze’
assieme alle ‘memorie’ del passato e alle
‘espressioni’ del presente ‘aventi valore di
civiltà’. Il catalogo, che si configura come
una banca dati, ha assunto dimensioni notevoli: sono oltre 300.000 le schede (di cui
43
4 Il progetto ‘Transmuseum’
Rete museale transfrontaliera per la promozione dello
sviluppo sostenibile (20092011), nell’ambito del programma di cooperazione
europea Interreg IV Italia Austria 2007-2013, aveva tra i
partner anche la Comunità
Montana della Carnia con
CarniaMusei.
5 Il carbone di Creta d’oro.
Storia della miniera di Cludinico, Udine, Forum 2012.
6 L’Istituto Regionale per il
Patrimonio Culturale del
Friuli Venezia Giulia è configurato dalla Legge regionale
n. 10 del 13 ottobre 2008,
come un ente funzionale, autonomo, sottoposto alla vigilanza della Regione. Ha sede
nell’Esedra di Ponente, a Villa
Manin di Passariano, in comune di Codroipo (Ud).
7 Pubblicato nel 2005, il Sistema Informativo Regionale
del Patrimonio Culturale rappresenta l’evoluzione della
banca dati, in rete già nel
1999 a seguito dell’informatizzazione delle schede cartacee realizzate con le
campagne di catalogazione
fin dagli anni ’70.
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44
Franca Merluzzi
8 In un’ottica di divulgazione
dei risultati e delle metodologie adottate è stato pubblicato nel 2013 il volume I beni
culturali del Friuli Venezia
Giulia. La catalogazione partecipata in cui sono descritti i
progetti 2010-2012, che si
collega al precedente del
2010 I beni culturali del Friuli
Venezia Giulia. Il catalogo in
rete (Progetti 2005-2009), a
cura di F. MERLUZZI. Dal 2005,
anno di pubblicazione del
SIRPAC, sono state formalizzate oltre cinquanta adesioni
da parte di Comuni, Province,
Comunità Montane, Fondazioni, Musei ed Ecomusei,
Consorzi, Associazioni, Atenei
e Istituti scolastici.
9 In base al Codice dei beni
culturali e del paesaggio (D.
Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42)
l’attività di catalogazione – il
processo di documentazione
e di registrazione dei dati –
può essere svolta sul territorio dalle Regioni e da altri Enti
pubblici territoriali. All’art. 17
del Codice stesso: «Il Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici
territoriali, assicura la catalogazione dei beni culturali e
coordina le relative attività. Le
procedure e le modalità di catalogazione sono stabilite con
decreto ministeriale. A tal fine
il Ministero, con il concorso
delle regioni, individua e definisce metodologie comuni di
raccolta, scambio, accesso ed
elaborazione dei dati a livello
nazionale e di integrazione in
rete delle banche dati dello
Stato, delle regioni e degli
altri enti pubblici territoriali».
circa 120.000 relative a beni fotografici)
consultabili in rete, frutto delle campagne
annuali che si sono susseguite nei diversi
settori.
Il Sistema consente sia la compilazione
delle schede direttamente nel web, sia l’accesso ai dati e alle immagini delle attività
condotte e presentate attraverso pagine descrittive, ma anche a informazioni e aggiornamenti che riguardano il mondo dei beni
culturali. offre inoltre la possibilità di
creare relazioni tra i beni e di localizzarli sul
territorio regionale tramite un webgis.
obiettivo prioritario è ora quello di rendere
amichevole e immediato l’approccio al patrimonio facilitando le ricerche nel catalogo
e incrementando i percorsi guidati per gli
utenti.
L’Istituto dispone di un archivio costituito
per conservare, ordinare e permettere la
consultazione del materiale fotografico prodotto con l’attività di catalogazione. La fotografia ha infatti un ruolo fondamentale
nella documentazione del patrimonio culturale: in quanto strumento di riconoscibilità ne trasmette nel tempo l’immagine. ad
ogni scheda catalografica viene associata
una o più immagini con le relative notizie
compilate in un’apposita sezione. L’archivio
consta, tra analogiche e digitali, di oltre
212.000 fotografie di cui può essere chiesta
copia per finalità di studio e di ricerca.
Sono molteplici i settori in cui l’IPaC interviene: in questo contesto vorrei portare all’attenzione le attività di catalogazione
partecipata realizzate dal 2005 in un unico
ambito informativo regionale, il SIRPaC,
da oltre cinquanta soggetti diversi. Navigando dentro il sito (www.sirpac-fvg.org) e
familiarizzando con le modalità di ricerca
indirizzate nel modo appropriato, si prende
consapevolezza dell’ampia documentazione
prodotta all’interno di un interessante processo partecipativo.
La catalogazione partecipata
all’incremento del Sistema regionale concorrono enti, università e altri soggetti pubblici e privati che si impegnano ad adottare
le modalità della catalogazione partecipata
per realizzare dei progetti condivisi, spesso
tematici e pluriennali8.
L’Istituto mette a disposizione l’assistenza
per le attività catalografiche condotte secondo gli standard – costituiti dalla normativa, da specifici strumenti terminologici e
da metodologie per la compilazione delle
schede – elaborati dall’Istituto centrale per
il catalogo e la documentazione (ICCD),
che fa capo al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MiBaCT)9. I
tracciati ministeriali sono utilizzati in Italia
soprattutto dagli Enti di tutela nella prospettiva della costituzione del Catalogo nazionale dei beni culturali.
L’adozione di procedure condivise garantisce l’uniformità delle informazioni provenienti da catalogatori che afferiscono a
soggetti diversi – ma tutti aderenti al sistema
–, lavorano in rete dalle loro postazioni e utilizzano, nella compilazione delle schede, gli
strumenti di supporto comuni: vocabolari
controllati, liste di ricorrenze e archivi a gestione unica: gli authority file, elenchi d’au-
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
torità relativi ad autori, editori, fotografi, bibliografia, stemmi, emblemi e marchi.
Partendo dal presupposto che la fotografia
è un bene culturale, l’immagine viene catalogata utilizzando la scheda ministeriale F
scheda (Fotografia) alla quale è collegata la
scheda aUF-autore Fotografo e la scheda
STM - Stemma/Emblema e Marchio.
Per fare un esempio, del fotografo Umberto antonelli – di cui è stata compilata
la scheda Fotografo (con profilo biografico, bibliografia, luogo e periodo di attività, luogo di conservazione delle raccolte,
ecc.) – sono stati rilevati, sulla base delle immagini finora catalogate (539), sette marchi
commerciali a stampa e a secco diversi tra
loro, relativi alla sua attività a Padova, Enemonzo, Enemonzo/Udine e Socchieve.
La digitalizzazione sistematica del recto e
del verso di ciascuna fotografia esaminata
e l’inserimento nella scheda, consente di
documentare la presenza del marchio (o di
altre iscrizioni) ai fini dell’identificazione
del fotografo o dello studio fotografico.
Nel corso delle ricerche in Carnia sono
stati censiti oltre quaranta fotografi, pro-
45
4. Umberto Antonelli,
Ritratto di gruppo con le
Alpi Carniche sullo
sfondo. Si possono
identificare Umberto
Antonelli e Pietro
Pascoli, 1925
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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46
Franca Merluzzi
5. Esempio di scheda di
catalogazione compilata
sulla base del modello
F (Fotografia)
pubblicata nel Sistema
informativo del
patrimonio culturale
regionale (www.sirpacfvg.org).
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
fessionisti e dilettanti, un risultato interessante che arricchisce la storia della fotografia con nomi che altrimenti sarebbero
rimasti sconosciuti come Isidoro Straulino
(1866-1943) di Sutrio e attilio Vidussoni
(1895-1946) di Chiaicis di Verzegnis, assieme al fratello Silvio (1890 ca.-1920 ca.) e
al figlio Ezio (1930). La scheda è un documento ‘aperto’: i dati acquisiti nel sistema
SIRPaC possono essere integrati, aggiornati
e ripubblicati in tempo reale, previa validazione da parte del responsabile del settore.
Gli enti che aderiscono al Sistema regionale
riconoscono il valore della catalogazione secondo standard nazionali ed esprimono
anche un forte interesse a utilizzare le informazioni ottenute per altre iniziative. È questa un’esigenza molto sentita e l’Istituto
regionale si impegna affinché questo avvenga all’interno di percorsi comuni. Spesso
un’attività specialistica qual è la catalogazione diventa il punto di partenza per iniziative di divulgazione (pubblicazioni,
mostre, cataloghi, conferenze, incontri a
tema), ma anche per allestimenti museali e
percorsi didattici.
Materiali storici: progetti per archivi
pubblici e privati
Consultando il sito (www.sirpac-fvg.org) si
può accedere alle raccolte relative a un
primo ‘censimento’, non sicuramente esaustivo, dei fondi e degli archivi pubblici e privati presenti nel territorio regionale che
conservano materiali storici o di particolare
interesse.
I risultati, ottenuti con i principi della cata-
logazione partecipata, appaiono importanti
sotto l’aspetto quantitativo: sono consultabili 119.954 schede F (Fotografia), e significativo è anche il numero dei fotografi e degli
studi fotografici inseriti nell’authority list:
2.530 nomi corrispondenti ad altrettante
schede.
a seguito della digitalizzazione viene assicurata ‘la messa in sicurezza degli originali’ che
continuano ad essere conservati dagli enti
proprietari; nel web appaiono nel formato a
bassa risoluzione con il loro corredo informativo basato sulla struttura della scheda
ministeriale. Per le operazioni di digitalizzazione dei materiali analogici è stata definita
una casistica per i vari formati fotografici; il
file prodotto ad alta risoluzione conserva le
dimensioni originali della fotografia divenendo a sua volta un’immagine documentaria attendibile10.
Nel SIRPaC confluiscono anche i dati di
aMMER, l’archivio Multimediale della
Memoria dell’Emigrazione Regionale costruito in forma partecipata tra varie istituzioni (Regione, atenei di Udine e di Trieste,
Centro di Ricerca e archiviazione della Fotografia - CRaF, associazioni)11. Il portale
www. ammer-fvg.org raccoglie testimonianze
e immagini in regione e nei principali paesi
di espatrio; presenta 15.000 fotografie, 2.200
profili di emigranti, 745 interviste.
Gli studiosi incaricati hanno incontrato gli
emigranti e i loro discendenti, in qualità di
testimoni dell’esperienza vissuta direttamente o attraverso la memoria conservata
all’interno della famiglia. La prassi prevede
infatti che i catalogatori ripercorrano la sto-
47
10 I file da archiviare devono
avere alcuni requisiti minimi:
il formato TIF ad alta risoluzione di almeno 300 DPI o il
formato originario RAW. Questo consente di ottenere immagini adeguate per la
riproduzione a stampa.
11 Approfondimenti sono
contenuti nella serie editoriale ‘I quaderni di AMMER’ e
nei cataloghi tematici di mostre realizzate all’estero. Cfr.
Un secolo di partenze e di ritorni. L’emigrazione dal Friuli
Venezia Giulia verso l’estero
(1866-1968), Regione autonoma Friuli Venezia Giulia,
Università degli studi di
Udine, Forum, Udine 2010; B.
VATTA, Legami mobili. Famiglie
migranti nello spazio europeo
del Novecento, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia,
Università degli studi di
Udine, Forum, Udine 2012.
Dopo un’intensa attività di ricerca confluita nel sito (20052013) è stata organizzata una
mostra itinerante dal titolo ‘In
viaggio’ indirizzata in maniera
particolare al mondo della
scuola e dei giovani, cfr. R. DEL
GRANDE et al. (a cura di), In
viaggio dal Friuli Venezia Giulia. Immagini e parole dall’archivio dell’emigrazione
regionale, Regione autonoma
Friuli Venezia Giulia, Università degli studi di Udine,
Forum, Udine 2013. Ed inoltre, per la didattica, si segnala: A. BRUGNOLI, A. GIUSA (a
cura di), Partire e tornare. Percorsi di lettura dell’immagine
fotografica in ambiente cooperativo di rete, Rete dei Ragazzi del Fiume, Centro di
catalogazione e restauro dei
beni culturali, Arti Grafiche
Friulane/Imoco, Udine 2007.
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48
Franca Merluzzi
12 Per gli aspetti catalografici
cfr. R. DEL GRANDE, La storia
dell’emigrazione regionale, in F.
MERLUZZI (a cura di), I beni culturali del Friuli Venezia Giulia. Il
catalogo in rete. Progetti di catalogazione partecipata, Regione autonoma Friuli Venezia
Giulia, 2009, pp. 46-49; ID., Il
progetto Ammer, in MERLUZZI F.
(a cura di), I beni culturali del
Friuli Venezia Giulia. La catalogazione partecipata, Progetti
2010-2012, Regione autonoma
Friuli Venezia Giulia, 2013, pp.
112-113.
6. Umberto Antonelli,
Gemma, Antonietta e
Roberto Martinis di
Ampezzo, Enemonzo
(Ud), 1945 ca.
(collezione privata /
AMMER).
ria migratoria mediante un’intervista e il
supporto delle immagini conservate nelle
raccolte personali. ottenute le informazioni
procedono alla compilazione della scheda
EMI - Emigrante (con i dati biografici e una
sintesi dei temi trattati: motivazioni della
scelta di partire, il viaggio, i primi periodi, il
lavoro, i nuovi nuclei familiari, i ricongiungimenti ecc.), della schede F - Fotografia e
la scheda BDI - Beni demoetnoantropologici immateriali, relativa all’intervista in allegato che si può scaricare e ascoltare12.
Le raccolte contengono fotografie di epoche
diverse; digitalizzate e catalogate ‘sul posto’,
spesso riportano marchi e iscrizioni con i
nomi di fotografi o di studi fotografici delle
località di partenza. È il caso di antonietta
Martinis originaria di ampezzo che con-
serva in argentina, dove è emigrata, una fotografia in cui è ritratta bambina assieme alla
mamma Gemma e al fratellino Roberto.
Nella scheda, redatta nel 2005 a Mendoza,
si specifica che è una fototessera utilizzata
per il passaporto; la ripresa è stata eseguita
a Enemonzo nello studio di Umberto antonelli intorno al 1945, il cui marchio è visibile
in basso a sinistra. Il suo album catalogato è
composto da una trentina di altre fotografie
collegate alla scheda biografica che permette
di ascoltare un brano dell’intervista in cui
antonietta conclude: «… l’unico aspetto negativo della mia esperienza è stata la nostalgia per la mia terra e la mia famiglia. anche
se adesso la mia famiglia è qui e non me ne
andrei mai amo la Carnia, è un luogo per me
paradisiaco».
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
altri progetti hanno riguardato collezioni e
archivi, interi fondi o parte di essi; spiccano
per consistenza: l’archivio del Consiglio regionale (schede 10.053), la Fototeca dei Civici Musei di Udine (schede 9.076),
l’archivio del CRaF - Centro di Ricerca e
archiviazione della Fotografia (schede
14.171) e per l’importanza nel settore dei
beni culturali il nucleo storico denominato
‘Fondo Venezia’ dell’archivio della ex Soprintendenza per beni architettonici e per il
paesaggio e per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico del Friuli Venezia Giulia, conservato nell’Ufficio di Udine
(schede 2.237)13.
L’Istituto regionale ha ereditato dal Centro
di catalogazione una lunga esperienza nel
settore dei beni fotografici ed è il punto di
riferimento per le metodologie catalografiche in ambito regionale. Il Sistema è stato
più volte utilizzato anche come strumento
per le esercitazioni che accompagnano le
tesi di laurea dei corsi universitari di Storia
e tecnica della fotografia e di antropologia
culturale della Facoltà di Lettere e filosofia
dell’ateneo udinese.
attraverso i suoi esperti l’Istituto provvede
alla formazione dei catalogatori che operano
per conto degli enti, ne segue l’attività, procede alla validazione e alla pubblicazione
dei dati e delle immagini. anche gli apparati
fotografici digitali rispondono a formati prestabiliti e vengono pubblicati in Internet
protetti da un marchio in filigrana a tutela
dei diritti.
L’Istituto mette inoltre a disposizione le sue
competenze per la digitalizzazione, ma
anche per aspetti riguardanti l’inventariazione, operazione che attesta la consistenza
dei fondi da parte dell’ente proprietario, le
fasi di archiviazione, di conservazione e di
gestione dei materiali analogici e digitali.
accompagna le ricerche degli studiosi e di
tutti coloro che consultando i siti inoltrano,
anche dall’estero, richieste per informazioni
o riproduzioni di materiali.
In quest’ultimo decennio, come si è già evidenziato, grazie all’apprendimento in ambito universitario e alle esperienze svolte
dall’ex Centro di catalogazione, nelle Soprintendenze, al CRaF e presso altri Enti,
Musei, archivi e Fototeche, sono maturate
alcune professionalità specializzate nel settore degli archivi fotografici, nella catalogazione e negli studi della fotografia in quanto
bene culturale.
Questo tipo di formazione ha incentivato
l’interesse dei giovani studiosi, l’affinamento
delle tecniche sul campo e l’approfondimento e la restituzione delle conoscenze sul
territorio14.
La Carnia è stata oggetto di ricerche specifiche che in alcuni casi sono state avviate
all’Università di Udine, durante il corso di
Storia e tecnica della fotografia tenuto da
antonio Giusa. Nel 2006 lo studio dei fotografici carnici, effettuato da Chiara Brocchetto nel 2002 per la sua tesi di laurea, è
diventato anche una pubblicazione15.
CarniaFotografia: l’impegno per un
progetto condiviso
Nel novembre 2006 la Comunità Montana
della Carnia accolse la proposta dell’allora
49
13 Si tratta di un insieme di
immagini proveniente dalla
prima Soprintendenza ai Monumenti di Venezia istituita
con Regio Decreto nel 1907,
già Ufficio Regionale per la
conservazione ai monumenti
del Veneto. Il fondo è stato
consegnato dapprima alla
Soprintendenza di Trieste e in
un secondo momento all’Ufficio di Udine. Le schede delle
foto storiche sono state compilate da Elisa Bertaglia nel
Sistema regionale e collegate
alle relative schede esistenti
di beni storico-artistici. Il progetto di catalogazione, completato nel 2006, nacque con
la tesi di laurea di Elisa Bertaglia Le fotografie del Friuli
nell’Archivio fotografico della
Soprintendenza ai Monumenti
di Venezia già Ufficio Regionale per la conservazione ai
Monumenti del Veneto (19031923), Università degli studi
di Udine, Facoltà di Lettere e
Filosofia, anno 2003, relatore
Antonio Giusa. Cfr. anche E.
BERTAGLIA, L’archivio fotografico
della Soprintendenza per i
beni storici, artistici ed etnoantropologici del Friuli Venezia
Giulia - Ufficio di Udine, in
A.M. SPIAZZI, L. MAJOLI, C. GIUDICI
(a cura di), Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e
limitrofi, atti della giornata di
studio, Venezia 29 ottobre
2008, Terra Ferma, 2010, pp.
243-253.
14 Per la Carnia si evidenzia
in particolare l’attività delle
catalogatrici Chiara Brocchetto, Teresa Kostner ed
Elisa Bertaglia; quest’ultima
per la schedatura di parte
dell’Archivio di Gino Del Fabbro (1931-2014) nell’ambito
del progetto Interreg ‘Transmuseum’. La selezione delle
immagini esplora il lavoro del
professionista di Forni Avoltri
attivo a partire dalla metà del
secolo scorso.
15 C. BROCCHETTO, Fotografi
della Carnia tra ’800 e ’900,
Associazione culturale Elio
cav. Cortolezzis, Treppo Carnico 2006.
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50
Franca Merluzzi
16 Conservato presso la Fototeca territoriale, il fondo documenta soprattutto la
collezione etnografica del
museo raccolta dal suo fondatore il geologo Michele Gortani (1833-1966). Comprende
anche le riprese fotografiche
commissionate dallo stesso
Gortani a professionisti, tra i
quali il più famoso Umberto
Antonelli (1882-1949) e altri
nuclei tematici alcuni legati
alla professione di geologo
come le spedizioni per conto
dell’AGIP nel 1936-38 in
Africa orientale o gli studi
sulla zona del Vajont.
17 Lo studio e la catalogazione dell’archivio di Giuseppe Schiava (1879-1963)
ha documentato l’attività del
fotografo dilettante diventato
un punto di riferimento per la
sua comunità. Le riprese riguardano temi diversi e tre
eventi significativi per Socchieve: il volo con l’aliante di
Arturo Silverio nel 1938, il
passaggio a Sutrio di Primo
Carnera nel 1930, la visita del
principe ereditario Umberto
di Savoia nel 1926.
Centro di catalogazione di aderire al SIRFoST - Sistema informativo regionale fotografie e stampe, il sottoinsieme appositamente creato per rendere fruibili fotografie,
stampe e matrici, conservate in collezioni e
archivi regionali, in un’ottica di condivisione
di standard e metodologie riconosciute a
livello nazionale. all’adesione formale del
febbraio 2007 seguì la stipula, nel 2008, di
un atto importante: la convenzione tra la
Comunità Montana della Carnia e i suoi 28
Comuni per le attività riguardanti il patrimonio fotografico del territorio. Con la convenzione, rinnovata nel 2011, si coinvolgono
gli enti per la «promozione e gestione coordinata della Fototeca territoriale ‘CarniaFotografia’, e si individua il ‘Circolo Culturale
Fotografico Carnico’ quale associazione di
riferimento per il supporto tecnico e organizzativo della fototeca territoriale». La Fototeca «viene costituita per la ricerca, conservazione e valorizzazione del patrimonio
fotografico della Carnia, nonché la condivisione dello stesso grazie a tecniche informatiche». ha sede a Tolmezzo, nei locali di
Palazzo Frisacco attrezzati per l’archiviazione e la conservazione dei materiali. Tra i
suoi obiettivi «l’immissione dei dati catalografici nel circuito della rete informatica regionale» ed infatti la Fototeca si propone
di «coordinare ed indirizzare le attività di
ricerca in campo fotografico, fornendo delle
linee guida relative alla digitalizzazione delle
immagini, alla conservazione e alla catalogazione, con riferimento alle indicazioni
fornite dal Centro di catalogazione di Passariano».
Il progetto CarniaFotografia prosegue nel
solco tracciato nei decenni precedenti dai
Circoli culturali carnici con iniziative editoriali ed espositive che contribuirono a diffondere, ad ampio raggio – oltre il territorio
della Carnia – l’interesse per il patrimonio
fotografico locale.
I rapporti istituzionali stretti nel 2007 con la
convenzione stipulata con la Comunità Montana della Carnia furono l’inizio di forme di
collaborazione allargata e durature poiché
basate sul rispetto di modalità operative condivise e di reciproco interesse, ma anche di
contatti e sintonie tra coloro che sono coinvolti – con ruoli diversi – nelle attività.
I progetti catalografici principali hanno riguardato una sezione del Fondo Gortani di
proprietà della Fondazione Museo Carnico
delle arti Popolari ‘Michele Gortani’ di
Tolmezzo16, l’archivio Schiava ceduto dalla
famiglia del fotografo Giuseppe Schiava al
Comune di Sutrio17, il Fondo Socchieve,
un’indagine sulle collezioni familiari del
Comune di Socchieve realizzata poi anche
nel Comune di Zuglio; un fondo consistente preso in esame di recente (2014) è
quello dell’Ispettorato Ripartimentale delle
Foreste di Tolmezzo, che presenta riferimenti attendibili per la datazione e l’individuazione dei luoghi delle riprese.
Il sostegno della Comunità montana della
Carnia che nel periodo 2006-2014 ha promosso le campagne catalografiche sul territorio rimane fondamentale perché assicura
continuità alla ricerca sul campo; altrettanto importante risulta l’apporto dei referenti del Circolo Culturale Fotografico
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
51
7. La Fototecnica, Anna
Picotti con la cognata
Livia Cainelli ed i nipoti
Noella e Giorgio Picotti
posa su un calesse,
Socchieve (Ud), 1940
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia)
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52
Franca Merluzzi
8. Santa Picotti con il
marito Umberto De
Monte, Leonina Fachin e
Anna Picotti; in primo
piano Giobatta Picotti
con la figlia Ada,
Ampezzo (Ud), 1926
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
Carnico che ha scelto di procedere – come
spesso ripete adriana Stroili responsabile
della Fototeca – ‘a piccoli passi’, prendendo
in esame, di volta in volta, dei singoli fondi
non molto consistenti dal punto di vista
quantitativo.
L’approccio ai materiali è rigoroso e analitico: costituisce un esempio di buone prassi
all’interno di un processo che programmaticamente prevede, dopo l’individuazione
delle raccolte pubbliche o private, la digitalizzazione e la catalogazione nel Sistema regionale. attraverso il web le notizie e le
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La catalogazione partecipata in rete e CarniaFotografia
fotografie degli archivi carnici diventano patrimonio e bene comune, fruibile da tutti gli
utenti e posto in relazione con altri fondi catalogati con gli stessi criteri18.
L’approfondimento e la contestualizzazione di ciascuna immagine, consente di
recuperare i dati per la compilazione della
scheda catalografica a volte ricorrendo
all’utilizzo di documentazione scritta e testimonianze orali: trattandosi spesso di archivi familiari l’incontro con chi detiene la
memoria è un valido aiuto per individuare
le persone ritratte e ricostruire circostanze
e data dello scatto con un buon margine
d’esattezza.
In mancanza di questi riferimenti, come nel
caso del fondo studiato da Teresa Kostner,
anche la fotoceramica su una vecchia lapide
in pietra del cimitero dimesso di Castoia, a
Socchieve, diventa il riferimento chiave per
l’identificazione del personaggio effigiato,
il signor Giuseppe Picotti di Nonta. Di ogni
informazione, come previsto nella scheda
ministeriale, viene indicata puntualmente
la fonte, sia bibliografica che verbale.
Particolare attenzione viene riservata alle
procedure di prestito, precedute da una
chiara spiegazione sull’utilizzo delle immagini; gli originali, in mancanza di una volontà
di donazione, vengono sempre restituiti in
tempi brevi ai proprietari, come ben eviden-
ziato nel regolamento della Fototeca territoriale.
«La ricerca di foto d’epoca è proseguita e,
grazie alla disponibilità dei proprietari delle
fotografie, l’archivio inizia ad avere una
certa consistenza: un piccolo tesoro di informazioni dirette o indirette e di riproduzioni digitali», scrive adriana Stroili19. Immagini della Fototeca sono inserite dalla
stessa Stroili in qualità di curatrice nel volume edito nel 2013, in occasione del centenario della costruzione del ponte sul fiume
Tagliamento in località avons. Ricerca storica e ricerca fotografica si completano a
vicenda: in apertura la straordinaria pano ramica della conca tolmezzina, databile
1915-17, di attilio Vidussoni, seguono altre
riproduzioni che integrano i saggi e l’apparato documentale costituito da atti e progetti conservati negli archivi di Tolmezzo e
di Cavazzo Carnico20. In chiusura la sezione
Il ponte che vorrei, tema didattico svolto
dalle scuole primarie e secondarie dell’Istituto comprensivo di Tolmezzo: le grandi
arcate di avons vengono riprese nei disegni
dei più piccoli, reinterpretate con fantasia
ad esprimere concetti di tempo, spazio, collegamento, unione e attraverso le visioni
‘oniriche’ ottenute con tecnica stenopeica
a doppia esposizione. Immagini ponte tra
la storia e il futuro.
53
18 R. DEL GRANDE, Gli archivi…
cit., pp. 50-53.
19 A. STROILI, Il progetto CarniaFotografia. Un’esperienza di ricerca nei luoghi e con le
persone, in MERLUZZI F. (a cura
di), I beni culturali del Friuli
Venezia Giulia... cit., pp. 8083.
20 A. STROILI (a cura di), I primi
100 anni del ponte Avons
1913-2013. Comunità e vie di
comunicazione tra ’800 e ’900,
Tolmezzo 2013.
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1. Umberto Antonelli, Lucia Zilli e i figli
Arrigo e Mario Mainardi, Enemonzo
(Ud), 1921 (collezione privata /
Fototeca territoriale CarniaFotografia).
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
Roberto Del Grande
Leggere la fotografia nel web.
I valori storici e culturali della fotografia
nella fruizione in rete
Introduzione
Dopo oltre dieci anni di attività di catalogazione e raccolta dei dati sui beni culturali
nel Sistema Informativo Regionale per il
Patrimonio Culturale – SIRPaC –, l’Istituto
per il Patrimonio Culturale ha dato avvio
ad una nuova fase che ha per obiettivo prioritario la disseminazione della conoscenza
sui beni stessi.
Il SIRPaC, ormai attivo dal 2005, è l’erede
dei primi sistemi di catalogazione informatizzata e della schedatura cartacea e, ad oggi,
mette a disposizione una grande quantità di
dati in formato digitale che, per riferirsi alla
sola fotografia, ammonta a 119.954 schede.
Questa quantità di informazioni è stata prodotta attraverso progetti realizzati dall’Istituto in collaborazione con gli enti
proprietari e detentori delle fotografie, secondo la modalità consolidata della catalogazione partecipata. La documentazione
raccolta assume diverse funzioni: è utilizzata per lo studio e la ricerca degli archivi
fotografici, di specifiche tematiche storicosociali o dell’attività dei fotografi e degli
atelier storici; diviene essenziale per la definizione di specifiche strategie di conservazione e gestione del patrimonio fotografico
da parte degli Enti proprietari degli archivi;
costituisce la base scientifica per attività divulgative, come pubblicazioni, esposizione,
seminari ed incontri. Inoltre, lavorando a
stretto contatto con il territorio si formano
competenze specifiche in grado di sviluppare ulteriori attività di valorizzazione sul
patrimonio.
L’Istituto ha fatto tesoro delle esperienze di
catalogazione partecipata considerandole
una buona base di partenza per la disseminazione dei dati in forme accessibili ad un
pubblico sempre più allargato. In vista del
nuovo obiettivo che l’Istituto si è posto, si
sono rese necessarie alcune riflessioni sulla
fruizione dei dati nel web e, in particolare,
nel Sistema Informativo Regionale per il
Patrimonio Culturale.
55
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56
Roberto Del Grande
1 La fotografia è inserita per
la prima volta come oggetto di
tutela nel 1999 con il ‘Testo
Unico delle disposizioni legislative in materia di Beni Culturali e Ambientali’, D. Lgs. 29
ottobre 1999, n. 490.
2 G. BENASSATI (a cura di), La
Fotografia. Manuale di Catalogazione, Graphis, Bologna
1990.
3 È la scheda ministeriale
adottata dall’Istituto Centrale
per il Catalogo e la Documentazione per la descrizione
della fotografia formulata
nella sua prima versione nel
1990. Cfr. Strutturazione dei
dati delle schede di catalogo.
Beni artistici e storici Scheda
F, Ministero per i Beni e le Attività culturali - Istituto Centrale per il Catalogo e la
Documentazione, 1999, scaricabile on line dal sito iccd.beniculturali.it nella sezione
Standard catalografici. La
normativa è oggi sostituita
dalla versione 3 aggiornata al
2014.
Riflessioni indirizzatesi a fare in modo che i
valori di cui la fotografia è portatrice, come
bene culturale e come oggetto storico, siano
considerati parte fondante del processo di
documentazione e valorizzazione. La catalogazione informatizzata in questo processo è
oggi uno strumento privilegiato perché da
modo di osservare il proprio archivio da
molti punti di vista e di mettere a disposizione di tutti, in primo luogo nel web, il
frutto di queste osservazioni.
In questo nostro intervento si farà il punto
sull’attività ultra decennale di catalogazione
informatizzata prendendo ad esame alcuni
progetti incentrati sulla documentazione fotografica e le relative modalità di fruizione,
nella consapevolezza che per far sì che una
fotografia si possa dire documento storico
è imprescindibile associarvi un corredo informativo quanto più dettagliato possibile.
Fotografia come bene culturale.
Il riconoscimento del valore culturale
della fotografia
La catalogazione del patrimonio culturale regionale, una delle funzioni prioritarie dell’Istituto, è da considerarsi parte integrante del
processo di valorizzazione dei beni. Tale processo nasce con il riconoscimento del valore
culturale di un bene e si compie attraverso
una serie di attività finalizzate alla condivisione di tale valore con l’intera comunità.
Il ‘ciclo di vita pubblico’ del bene culturale
inizia, di norma, nel momento in cui esso
viene individuato e censito dagli enti preposti o dagli specialisti del settore e, attraverso diverse tappe, si perfeziona con il
riconoscimento da parte della comunità che
lo identifica come parte integrante del proprio ‘codice genetico’ culturale. La catalogazione è il momento fondante di questo
percorso di vita e permette di associare al
bene una specifica identità, definita in relazione al contesto in cui esso viene reperito,
raccolto, conservato e che corrisponde ad
una sorta di passaporto del bene stesso.
Se per alcuni beni, come le opere d’arte o
certe architetture, il riconoscimento del valore culturale è spesso implicito, per altri,
di minor visibilità, non lo è affatto: è il caso
della fotografia, che trascorre spesso una
lunga e nascosta vita riservata negli archivi
privati dei suoi proprietari.
Non è un caso se l’entrata ufficiale della fotografia nella legislazione italiana relativa al
patrimonio culturale è piuttosto recente1 e
se tale ingresso è frutto di riflessioni iniziate
con il convegno di Modena del 1979 dal
sintomatico titolo Fotografia come bene culturale. Un convegno che, tra le altre cose,
sancì anche l’importanza della descrizione
catalografica delle fotografie, con il risultato
di gettare le basi per la stesura del primo
Manuale di catalogazione nel 19902 e della
prima versione della Scheda F a dieci anni
di distanza3.
L’interesse per il valore culturale della fotografia comincia dunque a farsi prassi e metodo solo sul finire del secolo scorso, alle
soglie di una nuova fase dello sviluppo degli
strumenti di comunicazione nella quale la fotografia (ormai digitale) entra a pieno titolo
nella quotidianità, grazie ai nuovi media e in
particolare al web 2.0 e ai device come smar-
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
tphone e tablet. Tuttavia il ‘Codice Urbani’
del 20044, nell’elencare i beni culturali, insiste sul carattere di ‘pregio e rarità’ come coppia di qualità che sancisce il valore culturale
della fotografia. Rarità e pregio sono caratteristiche di difficile definizione.
ad esempio, è ormai frequente studiare e
catalogare nei sistemi informativi la fotografia vernacolare, con particolare attenzione
per la fotografia di famiglia, che non è certo
modello privilegiato in cui riscontrare le
due qualità sopracitate. Per quanto possa
essere vero che nell’epoca attuale la fotografia analogica (a cominciare da quella di
famiglia) assume quasi un carattere di rarità, difficile è associarle in modo generalizzato il carattere di pregio. Il discorso si
complica quando si parla di fotografia digitale (che ha sostituito di fatto quella analogica) e soprattutto di quella usata nei social
network sulla quale i giudizi di rarità e pregio non sono nemmeno da porre in essere.
Ciononostante è innegabile che questo genere di immagine sia traccia di un determinato momento storico, non diversamente
dalla fotografia analogica e ne possa assumere i medesimi valori culturali. Valgono
ancora in questo senso le parole dello storico Giancarlo Susini che, nel 1991, riferendosi alla fotografia analogica, scriveva: «Chi
scatta una foto lo può fare per passione, per
souvenir, per affetto, ma produce nel contempo – lo sappia e lo voglia o no – un bene
culturale, cioè un rettangolo impressionato
destinato a documentare uno specchio sociale, un arredo, un abito, un atteggiamento, un paesaggio»5.
Riprendendo il filo del discorso, abbiamo accennato ad alcuni aspetti istituzionali della
fotografia per sottolineare come essi si siano
definiti in un’epoca – per quanto recente –
lontana dalle recenti evoluzioni mediatiche
e tecnologiche e come, in parallelo, il mondo
della catalogazione possa apparire arretrato
a confronto con l’attuale sistema di divulgazione delle immagini nei media.
alla base di queste nostre riflessioni, lo ribadiamo, sta la considerazione che la fotografia assume il valore di bene culturale
quando è inclusa in un processo di valorizzazione. Grazie alla catalogazione si riconosce di fatto la fotografia come bene culturale
e, di conseguenza, la sua importanza per la
conoscenza della storia recente, quando non
di quella antica come nel caso della documentazione storico artistica.
Tale riconoscimento ‘di fatto’ ha permesso
di portare alla luce un’enorme quantità di archivi privati e fotografie vernacolari e di metterli a disposizione della comunità, attivando
il loro ciclo di vita pubblico, in primo luogo
attraverso internet. Un genere, la fotografia
familiare, che ormai rappresenta una buona
fetta della fotografia catalogata in rete e ottiene sempre di più l’attenzione degli specialisti e degli storici della fotografia6, rispetto
all’interesse già consolidato nei confronti
della fotografia d’autore.
Fotografia come oggetto storico.
La fotografia come realtà storica
In effetti la storia della fotografia è disciplina piuttosto recente. La definizione della
natura stessa della fotografia, dai Salon di
57
4 «Sono beni culturali […] e)
le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti
audiovisivi in genere, aventi
carattere di rarità e di pregio», Codice dei beni culturali
e del paesaggio (D. Lgs. 22
gennaio 2004, n. 42), art. 10.
5 G. SUSINI, Il ‘Bene culturale’:
nuova vocazione interdisciplinare dell’Università, citato in
G. DE FRANCESCHI SORAVITO, La fotografia. Un materiale documentario speciale in
biblioteca, «AFT», XVII, n. 33,
Giugno 2001, p. 3.
6 È del 2010 il convegno organizzato a Ravenna dalla Società Italiana per lo Studio
della Fotografia dal titolo
Forme di famiglie, forme di
rappresentazione fotografica,
archivi fotografici familiari, cfr.
www.sisf.eu nella sezione
Convegni.
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58
Roberto Del Grande
7 Si veda a titolo d’esempio il
blog Fotocrazia di Michele
Smargiassi, cfr. smargiassimichele.blogautore.repubblica.it/
8 A. MIGNEMI, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come
documento storico, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, p. 55.
9 G. DE LUNA, La passione e la
ragione: il mestiere dello storico contemporaneo, B. Mondadori, Milano 2004, p. 136.
10 Ivi, p. 135.
11 Ibid.
Charles Baudelaire agli odierni blog specialistici7, è da sempre oggetto di dibattito e di
controversa interpretazione, sia da un
punto di vista teorico sia pratico. Inoltre,
solo negli ultimi decenni se n’è valutato appieno il valore documentario e di supporto
come fonte per le altre discipline. Una fonte
che non è più solo considerata, come in
passato, un supporto decorativo ad un discorso testuale, ma è osservata come oggetto complesso e ricco di informazioni,
anche al di là di quello che strettamente appare nel rettangolo impressionato. Non è
dunque più esclusivamente il soggetto inquadrato (il referente) e stampato sulla carta
a fornire le informazioni determinanti.
Come indica lo storico adolfo Mignemi «la
necessità di riflettere sull’origine e sull’attendibilità della fonte fotografica comporta la
ricostruzione del nesso tra produzione e fruizione dell’immagine, pur avendo ben presenti i passaggi e i caratteri tecnici attraverso
i quali si realizza un’immagine e ricordando
come si debbano ritenere fonti diverse ed autonome i prodotti di ciascun passaggio»8.
accanto al soggetto inquadrato, suggerisce
Mignemi, va valutato il contesto in cui
nasce un’immagine in relazione a quello in
cui essa viene guardata, prestando attenzione al fatto che ogni riproduzione della
fotografia originaria dà vita ad una nuova
immagine. allargando il discorso, nell’analizzare il valore storico della fotografia, diviene sempre più importate comprenderne
il contesto produttivo (dove, quando e perché il fotografo ha scattato), quello di veicolazione e di distribuzione (dove, quando
e perché la fotografia è circolata), quello di
ricezione e di attribuzione di significati
(dove, quando e perché la fotografia è stata
vista e interpretata).
Riferendosi ad un altro storico italiano che
ha riflettuto sull’uso della fotografia come
fonte, Giovanni De Luna, potremmo definire questi contesti come una sorta di stratificazione dei livelli informativi della
fotografia, la quale, in tal modo, «acquista
una nuova vita, diventa più complessa, organizza le sue informazioni in molteplici livelli: il primo è l’oggetto rappresentato, il
secondo è quello legato alla cultura, e alla
mentalità di chi la produce e all’ambiente
in cui è inserito e così via»9. In tal modo il
valore del soggetto inquadrato passa in secondo piano, o meglio, è uno dei molteplici
livelli che costituiscono il significato della
fotografia.
ancora De Luna nel definire un approccio
all’uso della fotografia come fonte storica individua in essa, e nelle immagini in genere,
la chiave di volta di un «progressivo spostamento dell’interesse [storico] dagli aspetti
stilistico-formali delle opere d’arte al contesto storico in cui erano inserite, al rapporto
con la cultura del loro tempo»10. Egli rifiuta
di adoperare le immagini quali ‘mero riflesso’ di un qualsivoglia referente, o quale
certificazione visiva della storia, al contrario,
esse devono essere considerate «come elemento costitutivo della realtà storica»11.
Proprio come elemento della realtà storica
va descritta la fotografia nella fase della catalogazione: in tal modo si contribuisce ad
attribuirle delle chiavi di lettura che la ac-
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
compagneranno per tutto il percorso di valorizzazione e costituiranno i primi livelli di
significato grazie ai quali assumerà il valore
storico e culturale di cui può essere portatrice; nel passaporto che le viene rilasciato
si inizierà a tenere traccia dei timbri del
viaggio che sta intraprendendo.
Dalla fotografia come elemento della
realtà storica al web
Delineati sinteticamente i valori intrinseci
(culturale e storico) da considerare nel processo di valorizzazione della fotografia, è
ora necessario soffermarsi su come essi
sono riscontrabili negli attuali sistemi di divulgazione sul web.
In effetti il processo di valorizzazione è finalizzato a rendere le fotografie fruibili in
diverse forme, sia cartacee sia digitali. Ma
va tenuto presente che vedere le immagini
in un supporto o in un altro influisce in
modo inequivocabile sui significati che le si
attribuiscono.
La fruizione è per la gran parte oggi riferibile
al web e alle sue declinazioni nei nuovi
media, dove la quantità di immagini a disposizione degli utenti pare pressoché illimitata.
È molto semplice reperire un’immagine via
internet, tramite motori di ricerca come
Google. Tuttavia la qualità della fruizione e
in particolare delle informazioni che l’immagine porta con sé deve essere oggetto di
attenta valutazione.
Nel considerare la fruizione delle fotografie, si deve sempre tener conto che essa è un
momento di relazione tra chi guarda e l’oggetto che viene guardato: in tal senso un’im-
magine a video non può essere considerata
alla stessa stregua di una fotografia analogica. Si deve considerare con attenzione
come ogni contesto di ricezione (una rivista,
un album fotografico, una proiezione, un
sito internet specializzato, un sito commerciale, ecc.) sia in grado di influenzare il significato della fotografia. Per rifarsi al
versante della semiotica delle immagini, con
le parole degli studiosi Pierluigi Basso Fossali e Maria Giulia Dondero, risulta chiaro
che la relazione fruitore/oggetto riveste una
grande importanza: «le caratteristiche materiali delle fotografie hanno una forte influenza sul modo in cui vengono lette e
interpretate, dato che differenti forme materiali segnalano e determinano differenti
semantizzazioni e modi di utilizzo»12.
Nella catalogazione informatizzata è prevista la digitalizzazione della fotografia con il
trasferimento da un supporto cartaceo a un
supporto ‘virtuale’ o video; una vera e propria trasformazione materiale dell’oggetto
originario. Dall’analogico al digitale il salto
è grande e, come sottolineano gli autori sopracitati, la digitalizzazione, proprio sotto
l’aspetto dell’interpretazione dei significati,
può rivelarsi assai rischiosa: «La riproducibilità digitale rischia di dare accesso solo al
testo dell’immagine e non all’immagine in
quanto oggetto: la traccia dell’uso sull’oggetto-fotografia viene perduta»13.
In buona sostanza, prima di leggere le immagini su uno schermo, sarebbe bene prendere in mano gli originali, capire come sono
fatti. oggi la scansione della fotografie è
un’azione abbastanza comune, oltre ad es-
59
12 M.G. DONDERO, P. BASSO FOSSALI, Semiotica della fotografia.
Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi, Guaraldi, Rimini
2006, p. 99.
13 Ivi, p. 108.
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Roberto Del Grande
sere indispensabile per ogni uso che se ne
voglia fare. Le informazioni che si ottengono
tenendo con mano una fotografia, sono
molto diverse dal guardarla sul video o, al
massimo, ‘toccarla’ su un touch screen. Il rischio è di perdere il senso della fotografia
come oggetto e dunque di obliterare quei
passaggi o elementi tecnici-materiali, richiamati da Mignemi, che contribuiscono alla
definizione del suo valore storico. Solo
avendo presente l’oggetto fotografia se ne
potranno valutare le ricontestualizzazioni e
le conseguenti ricezioni in funzione del supporto di lettura: rivista, esposizione, libro, internet, tablet, sito tematico, ecc.
oltre alla perdita delle qualità materiali
dell’oggetto, la rete, quando frequentata in
modo superficiale, tende a far subire ai contenuti che in essa circolano meccanismi di
semplificazione e di omologazione. Le immagini che entrano nel vortice del web 2.0
vengono copiate-incollate, taggate, sminuzzate e, in poche parole, vengono loro associati sempre nuovi significati ad ogni nuovo
uso. In queste operazioni di ricontestualizzazione il valore storico della fotografia può
essere distorto, adulterato, modificato a piacimento, se non totalmente rimosso.
Grazie ad un’accurata catalogazione si può
attuare un’opera di conservazione degli
aspetti materiali delle fotografie, con un’accurata digitalizzazione e un’opportuna descrizione delle caratteristiche fisiche e tecniche. Ma non solo, anche quei valori che
abbiamo definito intrinseci possono essere
tutelati, delineando i contesti in cui le immagini sono state prodotte, distribuite e re-
cepite, oltre a descrivere ciò che rappresentano (il referente) e le informazioni ‘anagrafiche’ di base. In tal modo la catalogazione diviene un’azione insostituibile per
delineare in modo uniforme e sintetico il
valore storico di ogni fotografia.
Nel mondo digitale, dove la catalogazione
è gestita direttamente attraverso sistemi informativi, per lo più on line, quello che abbiamo definito il passaporto digitale del
bene è la base di partenza per un più ampio
processo di divulgazione e, in generale, di
riutilizzazione dei dati attraverso i diversi
media. Sia che si tratti di prodotti cartacei,
sia che si tratti di diffusione sul web, i dati
iscritti nel passaporto del bene si trasferiscono da un supporto all’altro, a volte nella
loro forma originaria, come si trovano nel
SIRPaC ad esempio, a volte a seguito di importanti trasformazioni, come le app per i
diversi device che traggono i contenuti dalle
schede di catalogazione.
In questi sempre più usuali passaggi si deve
avere l’accortezza di non perdere i molteplici livelli che le informazioni della scheda
possono esprimere. Si dovrebbe cercare di
conservare e trasmettere il valore intrinseco
della fotografia in considerazione della relazione tra chi guarda l’immagine sul suo
personale device e il contesto in cui questa
immagine viene guardata.
Come vedremo tramite gli esempi che seguono il contesto nel web non è solo costituito dal dispositivo tecnologico in cui si
guardano le fotografie, ma è anche la cornice costruita attorno ad esse: il sito, una sezione di esso, una galleria, e più in generale,
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
il percorso di accesso alle schede dei beni,
diventa un ambito di attribuzione di significato di grande rilevanza.
Le fotografie di famiglia nel SIRPAC,
esempi di lettura
Prendiamo ad esempio alcune cartoline catalogate nel SIRPaC - www.sirpac-fvg-org.
La cartolina rimanda all’idea di spostamento, di temporaneo abbandono del
luogo di residenza, alla distanza tra chi l’ha
spedita e chi l’ha ricevuta.
Nei primi decenni del Novecento e per
oltre cinquant’anni era abbastanza usuale
stampare le fotografie di famiglia in formato cartolina per mandare un ricordo di
sé agli amici e ai parenti lontani. Non per
forza poi queste venivano spedite da sole,
spesso accompagnavano una lettera o rimanevano nei cassetti senza mai partire.
Proviamo ad analizzare alcuni esempi tratti
dalla banca dati SIRPaC, scoprendo per
gradi alcuni significati ad essi attribuibili.
La prima fotografia (foto 1) che prendiamo
ad esempio è un ritratto di famiglia realizzato in studio. Molto probabilmente si
tratta di una madre con i suoi due figli.
L’abbigliamento, e il gioco nelle mani del
bambino più grande, fa pensare che si tratti
di una famiglia agiata. Lo studio è molto curato e grazie al timbro posto in alto a sinistra possiamo affermare con certezza che
l’autore dello scatto è Umberto antonelli,
noto fotografo professionista del periodo.
Sinora non abbiamo molte altre informazioni, se non quella dell’assenza del padre.
analizzando questi primi elementi, dagli
abiti allo studio, e grazie alle informazioni
storiche sul fotografo, possiamo permetterci di datare l’immagine all’incirca nella
prima metà del Novecento. Deduciamo
anche che è stata scattata in Carnia dove
antonelli aveva lo studio. avendo conoscenza della storia del primo Novecento infine non sarebbe azzardato pensare che sia
stata scattata per spedirla al padre dei bambini, lontano dalla famiglia perché in guerra
o emigrato all’estero.
Girando la fotografia ci rendiamo conto
che si tratta di una cartolina che non è stata
inviata direttamente tramite posta. Il verso
della fotografia ci dà altre due informazioni
preziose.
La prima è la data, il 1921. La seconda è dovuta all’iscrizione a penna: «Ricordati del
tuo sangue». Possiamo ora ipotizzare che,
con prosa drammatica, la madre volesse
mandare un messaggio al marito, probabilmente lontano.
Tutte queste informazioni sono anche reperibili nella scheda della banca dati. approfondendo la fruizione della scheda,
sappiamo anche i nomi e le generalità anagrafiche delle persone ritratte. abbiamo
inoltre la conferma che è stata la madre a
scrivere il messaggio. Purtroppo non ne conosciamo il motivo.
Non abbiamo altri indizi e questo è quanto
riusciamo ad ottenere grazie all’analisi della
fotografia e alle informazioni catalografiche.
Tuttavia la fotografia è un’importante testimonianza di diversi aspetti del suo tempo:
dal punto di vista della storia della fotografia
è di grande interesse per lo studio del foto-
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Roberto Del Grande
2. Photo J. Godichaux,
Carlo Mainardis e Lucia
Zilli, Parigi, 1922
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
grafo e del suo atelier; cercando informazioni di storia del costume è sicuramente
interessante per l’analisi dell’abbigliamento
dei soggetti ritratti o del gioco del bambino;
è sicuramente interessante come testimo-
nianza della storia della famiglia, il cui padre
vive lontano dal nucleo familiare.
Per quest’ultimo aspetto le informazioni riportate nella scheda a questo proposito
possono essere solo in punto di partenza
per ulteriori indagini.
ad aiutarci nell’approfondire la sorte della
famiglia ci vengono in soccorso altre fotografie di questa collezione catalogate nel
SIRPaC.
La prima (foto 2) dell’anno successivo è
scattata in Francia e rappresenta la coppia
ricomposta. Il padre, ora lo sappiamo, era
emigrato in Francia.
La seconda, di alcuni anni più tardi, rappre-
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
senta i due fratellini ormai ricongiunti al
padre in Francia (foto 3). In questo caso la
fotografia è stata inviata, probabilmente allegata ad una lettera, alla zia dei bambini,
come recita l’iscrizione: «In pegno di un etterno [sic] ricordo alla mia cara zia Palmira
tuo caro arigo e Mario».
E per concludere, a più di dieci anni di distanza, nel 1942, un ritratto del figlio più
grande, Mario Mainardis, in divisa militare,
accanto ai genitori, disegna il quadro tipico
di una famiglia emigrata e radicatasi all’estero (foto 4).
Quest’ultima fotografia segna anche un
passo essenziale della storia della fotografia
rispetto alle precedenti, essendo uno scatto
familiare non realizzato da un fotografo
professionista, come le precedenti, ma da
un dilettante, con una macchina fotografica
portatile. Una testimonianza dell’ingresso
3. Arrigo Mainardis e
Mario Mainardis,
1923 ca.
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Roberto Del Grande
4. Mario Mainardis con
il padre Carlo e la
madre Lucia Zilli,
Cannes, 1942 ca.
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
della fotografia nella vita quotidiana. In
questo caso il verso della fotografia non dà
informazioni determinanti, che sono invece
tratte dall’intervista con l’informatore e
proprietario della collezione. L’intera documentazione di questa piccola collezione familiare infatti è frutto del progetto
CarniaFotografia14 che prevede la schedatura delle fotografie degli archivi privati in
Carnia. I proprietari vengono contattati, intervistati e le loro fotografie vengono digitalizzate per entrare a far parte di un
archivio digitale depositato presso la Fototeca CarniaFotografia a Tolmezzo (Udine).
Grazie a questa modalità di operare a diretto contatto con i protagonisti delle fotografie o i loro eredi si riesce ad attribuire
alle immagini una quantità di significati non
direttamente riconducibili alla sola analisi
dei referenti o dell’oggetto.
Prendiamo un altro esempio (foto 5). Soffermandoci sul recto di questa immagine; è
chiaro che si tratta di un ritratto di tre bambini in posa: non si capisce se sia stato eseguito in uno studio fotografico. Si può
tuttavia pensare che i bambini siano stati
vestiti per l’occasione o che sia stata scelta
una circostanza particolare per farli posare,
visto che sono tutti e tre ben vestiti. Il
primo, il più grande, indossa una camicia
scura che, insieme alla postura, può far fa
pensare ad un periodo intorno agli anni
Trenta come data dello scatto. Le scarpe
consumate suggeriscono che non si tratta
di una famiglia agiata. Non è stato chiesto
ai bambini di sorridere, contraddicendo
una convenzione oggi ormai acquisita del
ritratto di famiglia (l’ostentato cheese a cui
ormai siamo abituati); sono al contrario
seri, cercano di presentarsi in modo dignitoso. Sembrano tre fratelli. Non sappiamo
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
chi ha scattato la fotografia, né dove.
Se giriamo ‘virtualmente’ la fotografia ci rendiamo subito conto, anche se la fotografia
non ha bolli o timbri di viaggio, del valore
che assume rispetto al senso della memoria
e della distanza.
È una cartolina ma non è stata spedita come
tale, forse ha viaggiato insieme ad una lettera
o è passata di mano in mano. Le due iscrizioni ci danno informazioni diverse. La
prima in ordine cronologico è del 1944:
«ecco i nostri cari sono naturali come vedi.
Di certo Gino al tuo ritorno non lo conosci
perché cresce molto e birichino. Prata il
19.9.1944». Un messaggio semplice di un
genitore che descrive i propri figli – «i nostri
cari» – probabilmente al compagno lontano.
La seconda, di altro pugno – «Ricordo di
noi fratelli» – ci fa intendere che il tempo è
passato, i fratelli sono cresciuti e la fotogra-
fia è diventata un ricordo di quando erano
bambini.
Grazie alle informazioni scritte sul verso abbiamo potuto assegnare all’immagine tre di-
65
5. Ricordo di noi fratelli,
Prata di Pordenone
(Pn), 1944 (collezione
privata / AMMER).
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66
Roberto Del Grande
14 Per approfondire il progetto si veda: R. DEL GRANDE, Gli
archivi fotografici in Carnia, in
F. MERLUZZI (a cura di), I beni
culturali del Friuli Venezia
Giulia. Il catalogo in rete. Progetti di catalogazione partecipata, Regione autonoma Friuli
Venezia Giulia, 2009, pp. 5053, e A. STROILI, Il progetto CarniaFotografia. Un’esperienza
di ricerca nei luoghi e con le
persone, in F. MERLUZZI (a cura
di), I beni culturali del Friuli
Venezia Giulia. La catalogazione partecipata, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia,
2013, pp. 80-83.
15 Cfr. www.ammer-fvg.org.
versi significati: dapprima uno scatto di tre
bambini realizzato in Italia durante la seconda guerra mondiale; poi una comunicazione sullo stato dei figli inviata da un
genitore ad un altro; infine un ricordo d’infanzia di tre fratelli. ognuno di essi rappresenta un livello di significato: l’aggiunta di
un contenuto, di un valore.
abbiamo guardato la fotografia come se la
tenessimo in mano, senza avere ulteriori informazioni in merito, come se l’avessimo
trovata, ad esempio, in un mercatino dell’antiquariato.
In questa lettura è stata di grande aiuto la
presenza del verso della cartolina digitalizzata. Non è così consueto trovare sul web
tramite i motori di ricerca canonici fotografie
digitalizzate sia nel recto sia nel verso. Normalmente sono i siti specifici, relativi alla documentazione sugli archivi fotografici storici,
a dare questo genere di servizio.
Torniamo ai tre fratellini. La fotografia è
stata schedata nel progetto dedicato all’emigrazione regionale aMMER15. Il progetto
prevede la schedatura di fotografie e di interviste audio relative a persone emigrate dal
Friuli Venezia Giulia a partire dalla seconda
metà dell’ottocento. Le due tipologie di
schede sono collegate ad una terza che descrive la biografia e il racconto migratorio di
ciascuna persona. Come per l’esempio precedente la documentazione su questa fotografia contiene molte informazioni sui
soggetti ritratti che non sono direttamente
desumibili dalla fruizione dell’immagine.
Il primo luogo il fatto che la fotografia sia
reperibile nel sito dedicato all’emigrazione
aggiunge già un nuovo significato: la fotografia si legge come una comunicazione tra
genitori sulla condizione dei figli, genitori
lontani a causa della partenza di uno dei
due verso un luogo di migrazione.
Il contesto di fruizione, la cornice in cui la
fotografia viene presentata e letta (il sito sull’emigrazione), fa in modo che si associ immediatamente un significato alle immagini.
Tuttavia il contesto a volte può essere del
tutto o in parte fuorviante. Solo analizzando
la scheda e le informazioni corredate potremo attribuire ulteriori significati che ci
permetteranno di svelare altri ‘retroscena’.
La fotografia infatti, racconta l’informatore
intervistato, è stata inviata dalla madre al
padre dei bambini nel periodo in cui quest’ultimo svolgeva il servizio militare durante
la seconda guerra mondiale. La storia migratoria della famiglia verso l’argentina inizierà
solo alcuni anni più tardi, nel 1948/49.
Tutte le informazioni incluse nella scheda
rendono la fotografia un oggetto parlante al
di là del soggetto che rappresenta. aver ricostruito il contesto di produzione o ancor meglio di distribuzione della cartolina motiva
l’esistenza di questa fotografia. Questa
somma di informazioni ha un significato nella
misura in cui l’immagine è letta nella sua
complessità, divenendo una testimonianza familiare, sociale, culturale, storica, del periodo
antecedente al viaggio migratorio.
anche nel terzo esempio (foto 6) che andiamo a proporre, come per i precedenti,
siamo nell’ambito della rappresentazione
familiare. Si può da subito dedurre che la
fotografia è scattata in uno studio o da un
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
fotografo ambulante; lo sfondo dipinto ne
è la prova. In questo caso al centro dell’inquadratura sta la donna, probabilmente la
madre dei bambini e potremmo (ma non ci
attarderemo) soffermarci sulla descrizione
dell’abbigliamento per avere altri indizi su
queste persone e sul contesto storico e sociale di appartenenza.
Una fotografia anche in questo caso in formato cartolina (con diciture in inglese e francese); come le altre non spedita come tale.
L’iscrizione recita: «a te Tonin questo nostro
ricordo perché nella tua vita ti ricordi e ami
sempre con afetto [sic] i tuoi fratelli e
mamma tua sorella. Maria, Fulvio, Faelin».
Una fotografia scattata allo scopo di ravvivare il ricordo dei cari lontani. Grazie al
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6. Marina de Cillia, con i
figli Maria, Fulvio
Baritussio, Rafael,
Treppo Carnico (Ud),
1935 ca. (collezione
privata / AMMER).
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Roberto Del Grande
16 Si tratta della scheda EMI
(Emigrato) strutturata ad hoc
per il progetto AMMER.
testo manoscritto, capiamo che Tonin è
forse il più grande dei fratelli. Non è indicata né la data né il luogo della ripresa.
Visto che siamo nel sito di aMMER immaginiamo da subito che Tonin è emigrato in
un luogo lontano da casa; grazie alla scheda
con i suoi dati, sappiamo che si chiama antonio Baritussio, è nato a Treppo Carnico
(UD) nel 1920 e a 15 anni ha viaggiato attraverso l’oceano atlantico per raggiungere il
padre Erminio in Uruguay. Quest’ultimo voleva infatti che i suoi figli non venissero reclutati nell’esercito. La madre e le sorelle lo
hanno seguito nel 1939.
Queste informazioni vanno ben oltre i possibili significati che il rettangolo impressionato porta con sé. Vanno anche oltre
l’iscrizione che abbiamo trovato nel verso
della cartolina e anche oltre quelle reperibili
nella singola scheda F.
In questo caso possiamo testimoniare come
la fotografia sia capace di fornire delle informazioni storiche grazie all’attivazione di
meccanismi di rielaborazione della memoria
da parte delle persone intervistate. È l’informatrice, la figlia di antonio ormai deceduto,
a raccontare la storia del padre a partire dalla
lettura delle fotografie. Sono proprio le fotografie che mettono in moto i ricordi dei
singoli protagonisti o delle loro famiglie; ricordi che sono raccolti in una scheda biografica16 collegata a quelle fotografiche.
Il progetto aMMER, come il progetto CarniaFotografia, prevede interviste ad informatori (discendenti, familiari, conoscenti o
gli emigrati stessi) che descrivono storie
personali e familiari. Tuttavia di persona in
persona, di famiglia in famiglia, di contesto
in contesto, si crea un insieme di memorie
che hanno tratti in comune, come il luogo
e il periodo di partenza, la nave o il mezzo
di trasporto dei viaggi, i mestieri che venivano svolti, ecc. Memorie che collegate alle
altre presenti nell’archivio aMMER permettono di allargare il campo di analisi all’intero fenomeno migratorio. In più, viste
da altre prospettive queste foto diventano
storia della società, del lavoro, del costume,
dei media, ecc. Nella moltiplicazione degli
esempi e delle informazioni ricorrenti non
si produce una traccia del reale, ma la descrizione di un contesto che è fonte storica
privilegiata perché testimoniata da elementi
concreti di quella realtà storica.
Quindi la fotografia è un documento complesso in cui numerosi livelli di significato
si stratificano, ma non solo. La fotografia è
incline a farsi traguardare a seconda del
punto di vista, di ciò che chi guarda sta cercando.
Le fotografie che abbiamo portato ad esempio viste in aMMER vengono da subito associate al tema migratorio, viste in una
banca dati come SIRPaC tra le altre decine
di migliaia schede F saranno interpretate
dapprima come beni culturali fotografici,
come salvaguardia della memoria storica,
viste nel sito del Comune in cui sono state
scattate rappresenterebbero una piccola traccia delle storie dei suoi abitanti, viste in un
sito tematico sull’abbigliamento assumerebbero tutt’altro valore, viste nell’archivio CarniaFotografia sono strumenti fondamentali
per lo studio della storia del territorio.
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
Nuove ipotesi di fruizione della
fotografia nel SIRPAC
Nel periodo più recente si è messa in discussione la complessità della scheda F attraverso
la quale, in sistemi come il SIRPaC, vengono
associate le informazioni alle immagini da far
veicolare in rete. Forse di fronte alla facilità
di ‘lanciare’ immagini nel web ci si chiede
perché dover perdere tempo nella descrizione catalografica dei beni.
Paradossalmente queste riflessioni sull’utilità della catalogazione avvengono quando
ormai gli strumenti informatici on line permettono una gestione dei dati di gran lunga
più agile di quanto non succedesse con le
banche dati cartacee, o con i data base off
line usati in precedenza. La duplicazione di
dati delle schede per crearne di nuove, la disponibilità di vocabolari predefiniti facilmente cliccabili, la possibilità di utilizzare
stringhe di descrizioni fatte dagli altri catalogatori, sono caratteristiche dei sistemi informativi attuali che riducono lo sforzo
redazionale degli operatori. L’attenzione alla
lettura delle fotografie è una virtù che andrebbe stimolata e che tutela la fotografia.
Di fronte alla complessità della lettura fotografica e alla consapevolezza dei meccanismi di semplificazione nel trattare le
immagini sul web, negli ultimi anni sono
state proposte nuove forme di fruizione del
patrimonio digitalizzato e catalogato. In
particolare ci si è resi conto della possibilità
di rendere accessibili diversi livelli di approfondimento dei beni, proponendo descrizioni di contesto che forniscono chiavi di
lettura predefinite e implicite nella frui-
zione delle pagine web. oltre ai dati inseriti
nelle schede, si impostano nuove dinamiche
di contestualizzazione dei beni attraverso le
ricerche guidate, i percorsi tematici, le suddivisioni dei siti in categorie di beni affini,
fino ai siti dedicati a specifiche raccolte.
Cosicché a partire da una ricerca che può
anche essere fatta su un motore generalista
si approda ad una piattaforma in cui
l’utente è chiaramente indirizzato a comprendere, senza troppa difficoltà, alcuni dei
significati che il bene catalogato porta con
sé, nella speranza che nel suo eventuale uso
futuro ne resti traccia.
L’esempio più calzante, l’abbiamo visto, è il
progetto aMMER nato nel SIRPaC, come
attività di catalogazione delle fotografie e
delle interviste relative all’emigrazione regionale. ad aMMER da subito è stato garantito uno spazio di fruizione dedicato in
cui i dati, le immagini e i file multimediali,
fossero in primo luogo presentati come
strumenti di veicolazione del tema migratorio. Tuttavia è nella seconda versione del
sito (on line dal 2014) che si manifesta chiaramente questa volontà con la presenza di
mappe navigabili, strumenti per la ricerca
tematica sui mestieri o sulle navi dei migranti. Le fotografie vengono presentate
come gallerie di immagini e si fa più evidente il legame tra esse e l’emigrato di cui
viene raccontata l’esperienza migratoria.
Storie di vita che sono messe in primo
piano, sino al punto di offrire la possibilità
di raccontare on line la propria, quella della
famiglia, degli avi o dei parenti che sono
emigrati, corredandola delle digitalizza-
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Roberto Del Grande
17 A questo scopo è stata
ideata una scheda ICCD-like
definita Musei Collezioni
Fondi – MCF – in cui vengono
documentate queste tipologie
di raccolte.
zione delle proprie fotografie custodite in
un cassetto. Il sito, dunque, non solo propone forme di fruizione predefinite, ma
rende anche attivi meccanismi di partecipazione e identificazione.
L’evoluzione del sito di aMMER è stata la
base per riorganizzare il sito di fruizione SIRPaC, oggi completamente integrato al portale IPaC. Nel nuovo sito sono stati messi a
disposizione degli strumenti che permettono
di costruire dei percorsi di fruizione specifici
per gruppi o singole schede. Rispetto al sito
precedente si è poi garantita la possibilità di
visualizzare i gruppi di fotografie anche senza
le informazioni incluse nella scheda, ma solo
come immagini ingrandite (thumbnails) oppure a piena pagina (slideshow), per permettere anche un’esperienza di fruizione
concentrata sulle sole immagini.
Le fotografie di CarniaFotografia ad esempio sono accessibili in diversi modi. Dalla
sezione del sito dedicata al patrimonio fotografico regionale, si accede ad una mappa
che colloca la collezione nel punto esatto in
cui è depositata. Da qui si entra nella
scheda che descrive la collezione17 nel suo
complesso ed indirizza alla fruizione delle
fotografie in essa contenute. In un’altra modalità di accesso alle schede, esse vengono
incluse in percorsi tematici che mirano a valorizzarne degli aspetti specifici. Le fotografie
si leggeranno in questo caso con l’ausilio di
un testo introduttivo a cui segue la visualizzazione dei beni correlati ad esso in diverse
forme: direttamente su mappe, attraverso
liste di parole, elenchi predefiniti, gruppi di
schede o thumbnails; modalità tutte finaliz-
zate a fornire agli utenti un’esperienza di conoscenza più semplice e nel contempo più
ricca di significati. L’utente entrerà in contatto con le immagini attraverso diversi livelli
di fruizione, scegliendo a suo piacimento di
approfondire le informazioni sulla singola fotografia che lo incuriosisce.
La visualizzazione della scheda completa,
nella sua articolazione standard, è divenuta
l’ultima opzione, mentre un set di informazioni predefinite, limitate nel numero ma in
grado di dare il corretto inquadramento dei
valori autoriali, culturali, tecnici e storici,
accompagnano la fotografia quando vi si
clicca sopra.
La catalogazione informatizzata come
strumento di relazione col territorio e
gestione degli archivi
La catalogazione, l’abbiamo visto, è strumento ricco di funzioni che non permette
solo di raccogliere i dati per il passaporto
di un bene ma diventa un dispositivo descrittivo essenziale per la tutela e disseminazione dei valori intrinseci alla fotografia.
In più, può essere di grande importanza
anche per la relazione tra il bene e il suo territorio, tra il bene e i suoi gestori, e tra il
bene e il suo pubblico potenziale.
Se un tempo lo studio e la catalogazione
degli archivi fotografici era frutto dell’applicazione di uno o più studiosi con una divulgazione che inevitabilmente passava
attraverso canali indirizzati ad un pubblico
specializzato oggi, attraverso il web, i risultati di queste attività sono disponibili ad un
numero elevatissimo di persone.
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
a monte tuttavia, se inquadrato in un contesto di apertura e conoscenza, il lavoro di
catalogazione è uno strumento fondamentale di relazione (la fotografia stessa è un oggetto in relazione) con la comunità in cui
essa nasce o si trova.
In questo senso alcune attività dell’Istituto
sono state di grande insegnamento.
Pensando ad aMMER, grazie alla catalogazione si è creata una comunità virtuale,
composta da tutti gli informatori del progetto: persone reali che si riconoscono nella
grande storia dell’emigrazione attraverso le
piccole storie personali, testimoniate dalle
fotografie.
altri progetti hanno messo in moto meccanismi di partecipazione da parte della comunità. Vale la pena di ricordare la raccolta
svolta a Budoia18, un piccolo comune del
pordenonese. Grazie alla collaborazione
con il Comune, che ha messo a disposizione
gli spazi della biblioteca, si è ricostruita la
memoria collettiva del paese con le famiglie
che hanno condiviso le loro fotografie.
Nello stesso modo CarniaFotografia ha attivato un censimento degli archivi fotografici che permette di usufruire oggi di una
mole di informazioni, visive e non, di
grande rilevanza. Un’attività che ormai
dura dal 2004 e che sta costruendo a poco
a poco una grande collezione digitale della
storia della Carnia. Tramite progetti di catalogazione promossi e/o sostenuti dall’Istituto – in forma di catalogazione partecipata
– si sono sviluppati numerosi processi di
costruzione e disseminazione della conoscenza: una disseminazione che spesso si
traduce in specifiche attività (espositive ed
editoriali) ma che ha origine dalla collezione permanente accessibile a tutti on line.
Sia nel caso di collezioni pubbliche, sia nel
caso delle fotografie di famiglia, nel momento
in cui si avvia una catalogazione informatizzata si inducono gli operatori, gli enti coinvolti, i collezionisti e in generale i proprietari
dei beni, ad aderire alle buone prassi definite
nell’ambito della catalogazione partecipata.
Queste buone prassi prevedono in primo
luogo la condivisione di una serie di modalità
operative, all’insegna del rispetto della fotografia come bene culturale.
Quando si approccia un archivio fotografico in un progetto di catalogazione se ne
valuta lo stato di conservazione e si condividono gli attuali standard di conservazione. La prassi infatti prevede un’attività
di conservazione a due livelli. Il primo è
quello relativo alla conservazione fisica
delle fotografie: le buste e le scatole più idonee, i possibili interventi di pulizia, l’adeguamento degli ambienti in cui vengono
collocate. Il secondo livello è quello della
digitalizzazione che, nei migliori dei casi va
realizzata contestualmente alla corretta attività conservativa. La buona digitalizzazione ha notevoli aspetti positivi: permette
una chiara fruizione sul web, sia del recto
sia del verso; consente di poter accedere alla
fotografia una sola volta, risparmiandole lo
‘stress’ di ulteriori manipolazioni; si delinea
come intervento conservativo a tutti gli effetti. a tal fine sono stati definiti dall’Istituto degli standard che permettono di
visualizzare e utilizzare l’immagine digitale
71
18 A. GIUSA, N. MICHILIN, Le
opere e i giorni. Budoia: una
storia per immagini, Biblioteca civica ‘M. Lozer’, Budoia
2002.
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Roberto Del Grande
7. Esempio di ricerca
sulle collezioni del
progetto
CarniaFotografia grazie
al quale sono ad oggi
catalogate 4.012 schede
F nel SIRPAC. Grazie ai
filtri di ricerca sono
visibili le 166 fotografie
relative alla Collezione
privata Giovanni Solari.
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Leggere la fotografia nel web. I valori storici e culturali della fotografia nella fruizione in rete
anche per le attività divulgative successive
alla catalogazione, come ad esempio realizzare delle stampe cartacee di diversi formati
o pubblicare le immagini in un volume.
a queste azioni di tipo conservativo si aggiungono quelle di carattere catalografico,
che vanno dall’uso degli standard ICCD
per documentazione, alle condivise modalità descrittive concepite per il SIRPaC, che
garantiscono una certa uniformità dei dati
associati alle immagini e una riflessione
sulla complessità della fotografia come veicolo di informazioni. Il momento della catalogazione fa riflettere gli operatori sulla
qualità informativa della fotografia e sui
meccanismi di trasmissione dei significati in
essa racchiusi. I catalogatori saranno dunque allenati a entrare in ‘relazione virtuale’
con gli utenti del web per tradurre al meglio
i valori delle immagini.
Da un lato allora, la valutazione dei vari
aspetti del processo conduce ad una riflessione implicita sul riconoscimento del valore culturale dei beni fotografici; dall’altro
tali riflessioni inducono a seguire delle
buone prassi condivise e dunque diffondono una sensibilità culturale nei confronti
della fotografia.
Infine, si può pensare alla catalogazione on
line anche come strumento di gestione delle
proprie collezioni sul web. I dati possono
essere inseriti nelle schede con diversi livelli
di completezza, dalla semplice attività di inventariazione ad una approfondita descri-
zione. anche se non si volesse affrontare subito la descrizione catalografica approfondita in una prima fase di approccio ad un
archivio, sarà comunque possibile farlo in
un secondo momento.
Il catalogo informatizzato dà modo di organizzare sia nella fase dello studio sia nella
fase della valorizzazione grosse quantità di
immagini (foto 7). Grazie ai numerosi filtri
proposti in fase di ricerca, relativi agli
aspetti tecnici (come ad esempio la natura
dei materiali o le loro dimensioni) e a quelli
descrittivi (il titolo, il soggetto, il luogo e la
data dello scatto, ecc.), i grandi numeri possono essere gestiti a seconda delle necessità
e le immagini possono essere confrontate in
modo semplice ed efficace. Risulta chiaro
che la qualità e la quantità dei dati inseriti
è propedeutica ad una più agevole gestione
informatizzata dei beni.
In conclusione, un aspetto primario dell’attivazione del processo di valorizzazione a partire dalla catalogazione informatizzata è che
induce a pensare alle forme e alle modalità di
divulgazione del proprio archivio tramite il
web, e per i passaggi successivi, già durante
la fase di progetto. Diviene infatti fondamentale disegnare in una fase preliminare una
strategia per individuare i dati più efficaci
all’organizzazione della propria collezione,
includendo le successive fasi di valorizzazione
in un unico processo di disseminazione della
conoscenza, che segua tutto il ciclo di vita
pubblico del bene fotografico.
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1. Umberto Antonelli,
Rina Baschiera,
Enemonzo (Ud), 1930
ca. (collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
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Teresa Kostner
Archivio fotografico e territorio:
il fondo Socchieve. Esperienza operativa
Nel 2007, con la collaborazione del Circolo
Culturale Fotografico Carnico, ho avviato
una ricerca di materiale fotografico conservato presso le famiglie residenti nelle varie
frazioni del Comune di Socchieve (UD).
Già nel 1992 e nel 1993, diverse persone
erano state coinvolte per mettere a disposizione le proprie fotografie di famiglia per la
realizzazione di una mostra. armando Danelon ed Enzo De Prato, promotori dell’iniziativa, dopo aver ricevuto in prestito e
quindi riprodotto pressapoco duemila fotografie, selezionarono circa trecentocinquanta immagini che, nell’estate del 1993,
furono esposte, seguendo un ordine tematico, nella mostra ‘Una comunità dalla fine
dell’ottocento ai recenti anni ‘60’. L’esposizione fu organizzata dal Comune di Socchieve in collaborazione con la Pro Loco
‘Col Gentile’ di Mediis e il ‘Comitato Gianfrancesco da Tolmezzo’ di Socchieve. In
Carnia, negli anni ’80 e ’90 del secolo
scorso, diversi gruppi culturali hanno pro-
mosso varie ricerche fotografiche che
spesso hanno portato alla pubblicazione di
alcuni volumi fotografici1. Le indagini fotografiche hanno interessato, per esempio, i
Comuni di Cercivento, Forni di Sopra,
Forni di Sotto, Forni avoltri, Paluzza, ecc.
Così, nella primavera del 2007, dopo aver
contattato l’amministrazione Comunale,
ho elaborato in forma scritta una richiesta
di collaborazione da recapitare personalmente ad ogni famiglia. attraverso questo
invito, con termini semplici e descrittivi, ho
potuto spiegare alle diverse famiglie che
questa nuova ricerca di materiale fotografico avrebbe portato alla creazione di un archivio fotografico comunale. Nello stesso
tempo, ho avuto la possibilità di chiarire i
vari momenti del lavoro di indagine: dalla
presa in prestito del materiale all’acquisizione digitale degli originali fotografici,
dalla compilazione della scheda F alla condivisione in rete delle immagini.
In poche settimane, ho fatto visita a due-
1 E. POLO, Cungiò veciu paîs,
Tolmezzo 1990 (Forni di
Sotto); W. DE STALES, Noles &
Lops, Tolmezzo 1991 (Cercivento); A. ANZIUTTI, Se chi rioni
(cosa eravamo), Tolmezzo
1993 (Forni di Sopra); C. CIMENTI, I Faremos, Tolmezzo
1995 (Paluzza); T. CECONI,
Tracce di storia per immagini,
Tolmezzo 1996 (Forni Avoltri).
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Teresa Kostner
2 I progetti sono stati realizzati con il sostegno del CRAF,
Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia di Lestans (Spilimbergo), il
supporto della Comunità
Montana della Carnia e la collaborazione dell’Istituto Regionale per il Patrimonio
Culturale.
centottantacinque famiglie e sono riuscita
ad ottenere la collaborazione di settanta famiglie che mi hanno prestato complessivamente circa duemila fotografie. ogni
proprietario, nel momento della consegna
del proprio materiale, ha compilato una
specifica scheda di prestito che serviva a definire l’autorizzazione per la digitalizzazione
e l’eventuale divulgazione delle immagini.
Gli originali fotografici sono stati messi
temporaneamente a disposizione dalla Fototeca per consentire la riproduzione digitale: le stampe originali, infatti, sono tutte
state restituite ai legittimi proprietari. ogni
famiglia, inoltre, si è resa disponibile per
uno o più incontri; questi colloqui sono
stati necessari per il reperimento delle informazioni relative a ciascuna fotografia.
Pur essendo stata una scelta sicuramente
impegnativa per la quantità di tempo che
ha richiesto, la decisione di contattare di
persona ciascuna famiglia mi ha dato la possibilità di rendere la popolazione concretamente partecipe al progetto di recupero,
conservazione, valorizzazione e divulgazione delle immagini fotografiche. Le numerose famiglie di Socchieve che hanno
partecipato a questo importante progetto
mi hanno quindi dimostrato di aver effettivamente compreso la necessità di un immediato intervento di tutela basato sulla
consapevolezza dell’importanza culturale
della fotografia, intesa nella sua qualità di
documento della vita privata e della vita
collettiva.
Il Circolo Culturale Fotografico Carnico ha
digitalizzato millenovecentosettantotto fo-
tografie, ne abbiamo catalogate milleseicentosessantasei2.
Il Fondo Socchieve è esclusivamente costituito da positivi (stampe) che risalgono ad
un periodo di tempo compreso tra l’ultimo
decennio dell’ottocento e i primi anni ’60
del Novecento.
La maggior parte delle fotografie raccolte
sono ritratti e, in particolare, ritratti in studio. Le poche fotografie datate intorno agli
ultimi anni dell’ottocento sono state perlopiù realizzate a Udine: pochi socchievini, in
mancanza di un fotografo locale, potevano
permettersi viaggi così lunghi.
Nel 1909, arriva proprio a Socchieve il fotografo Umberto antonelli. Nato a Padova
nel 1882, nella sua città natale consegue la
laurea in chimica e farmacia e, dopo una
breve permanenza in Cadore, antonelli si
trasferisce in Carnia, prima a Socchieve e
tre anni dopo a Enemonzo dove acquista la
locale farmacia. È attivo in Carnia sia come
farmacista sia come fotografo professionista
dal 1909 al 1949, anno della sua morte.
L’esercizio fotografico continua con la figlia
Paola fino al 1963.
Sono numerosissime le famiglie del Comune di Socchieve che possiedono almeno
una fotografia di qualche familiare scattata
nello studio di Enemonzo: sono stati catalogati ben trecentoottanta ritratti realizzati
da antonelli. Credo sia interessante soffermarci sull’attività di questo fotografo.
I primi ritratti di antonelli sono eseguiti su
carta albuminata, fragile e delicata; questa,
attraverso una pressa a caldo, veniva fatta
aderire ad un cartoncino di vario formato.
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
In questo modo, il cartoncino, sporgendo
ai lati della fotografia, assumeva l’aspetto di
una cornice. antonelli abbandona presto la
carta albuminata e comincia ad utilizzare il
procedimento alla gelatina ai sali d’argento.
Spesso le riproduzioni fotografiche presentano sul recto o sul verso il marchio commerciale dello studio fotografico. antonelli, nel
corso della sua attività, ha modificato questo
segno di riconoscimento diverse volte. L’analisi della tipologia del marchio commerciale,
in mancanza di precisi riferimenti biografici,
si è più volte rivelata indispensabile nel tentativo di attribuire alle immagini una data
d’esecuzione attendibile.
Le immagini eseguite da Umberto antonelli,
inoltre, presentano diverse tipologie di ritratto: a mezzo busto, a figura intera, individuale, di coppia e di gruppo. I ritratti singoli
a mezzo busto presentano uno sfondo monocromo e scuro in modo da esaltare il viso
della persona fotografata. Il volto era l’elemento più importante della fotografia e tutta
l’attenzione doveva concentrarsi in quel
punto. I ritratti a figura intera, invece, presentano un fondale. Inizialmente troviamo alcuni fondali con motivi floreali che poi con il
tempo sono stati sostituiti dai fondali con
motivi architettonici. Questa ambientazione
doveva dare l’idea di essere stati fotografati
all’interno di una casa facoltosa.
Umberto antonelli era un fotografo professionista, pignolo e meticoloso. Curava con
attenzione le pose dei clienti, individuando
la posa più adatta. Nella fotografia, oltre al
fondale compare sempre un tavolino o una
sedia che, nella maggior parte dei casi, ser-
vivano da appoggio per la mano della persona ritratta, in modo tale che questa non
‘penzolasse’. Il fotografo utilizzava anche
diversi accessori. Numerose persone, per
fare un esempio, mi hanno confermato che
antonelli, per abbellire le donne e farle
sembrare più ‘aristocratiche’, utilizzava le
collane di sua moglie (foto 1).
all’epoca farsi fotografare era un evento
straordinario. Solitamente si andava la domenica, unico giorno della settimana in cui
si toglievano i vestiti logori del lavoro e s’indossavano i vestiti buoni. Prima di commissionare un ritratto, poteva capitare di dover
chiedere in prestito a qualche parente un
abito decoroso. Le immagini, ad esempio,
raccontano che le signore Maria Galante,
Maria Rabassi e Maria Fachin, tra loro parenti e tutte residenti a Lungis, hanno utilizzato in anni diversi la medesima camicia
per un ritratto nello studio di Enemonzo
(Maria Galante e Maria Rabassi hanno persino condiviso lo stesso vestito e le stesse
scarpe); questa circostanza mi è stata confermata dai loro familiari (foto 2-4).
Ci si recava dal fotografo per immortalare
qualche ricorrenza particolare come il fidanzamento o il matrimonio. La fotografia,
quindi, serviva a commemorare i momenti
’importanti‘ della vita di una famiglia. ad
esempio, il signor Enrico Tacus ha voluto
celebrare la liberazione nazifascista dell’Italia portando la propria famiglia dal fotografo: domenica 29 aprile 1945, Enrico
insieme alla moglie Vilma, prima dello scatto,
appuntano sul vestitino del piccolo Luciano
tre nastri colorati (verde, bianco e rosso) per
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Teresa Kostner
2. Umberto Antonelli,
Maria Galante,
Enemonzo (Ud), 1929
ca. (collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
ricordare la bandiera d’Italia. (foto 5)
Inoltre, si andava in uno studio per avere
una fotografia da mandare ai parenti lontani, emigrati all’estero. L’immagine che si
voleva dare di sé e dell’intero nucleo familiare doveva essere la più dignitosa possibile. Lo scopo era quello di far vedere che
nonostante tutto si stava bene. Sono numerose le fotografie di gruppo nelle quali compaiono mamma e figli; probabilmente la
fotografia veniva scattata proprio per essere
inviata al marito all’estero (foto 6).
anche un tempo le persone sapevano bene
che la fotografia ha la capacità di rafforzare
i legami di parentela. antonelli, in più, così
come ricordato da diverse persone, utilizzava dei fischietti o dei pupazzi per attirare
l’attenzione dei bambini; il fotografo solitamente adagiava i bambini più piccoli,
spesso ritratti nudi o con un semplice vestitino, su una pelliccia. I bambini rendevano
molto faticoso il momento dello scatto (era
complicato mantenerli immobili). agli inizi
del Novecento in molti studi fotografici
comparivano dei cartelli in cui s’informava
che ‘si fotografano anche bambini e animali’.
Mi auguro che la catalogazione del Fondo
Socchieve possa in futuro contribuire allo
studio della produzione fotografica di Umberto antonelli, fino ad oggi conosciuto per
lo più per le serie di cartoline ‘folkloristiche’ e per la realizzazione di fotografie di
tipo industriale. Il Fondo Socchieve ha permesso di chiarire alcuni aspetti tecnici del
lavoro di antonelli. attraverso l’età anagrafica dei soggetti ritratti, ad esempio, è stato
possibile individuare una sequenza cronologica dei diversi marchi e timbri a secco
utilizzati dal fotografo. Tra gli aspetti tecnici
che andrebbero approfonditi c’è l’abitudine
del fotografo di ritoccare pesantemente i ri-
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
3. Umberto Antonelli, Maria
Rabassi con la figlia Severina
Rabassi, Enemonzo (Ud), 1930 ca.
(collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
4. Umberto Antonelli, Maria
Fachin, Enemonzo (Ud), 1932 ca.
(collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
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Teresa Kostner
5. Umberto Antonelli,
Enrico Tacus con la
moglie Vilma Cecchini e
il figlio Enrico,
Enemonzo (Ud), 1945
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
6. Umberto Antonelli,
Maria Fachin con i figli
Mario, Silvio, Dante,
Sante e Santina Dorigo,
Enemonzo (Ud), 1928
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
Iscrizione sul verso:
Di casa il 27-6-28/
Ricordandoti sempre/
siamo a augurarti/ un
buon onomastico/
intiera tua famiglia/ noi
altri ti avrebero/ avuto a
piacere che fossi/ stato
anche tu in compa/
gnia. Ti baciamo tanto/ i
figli Baciandoti/
affettuosamente tua/
sposa Maria.
tratti per migliorare la resa delle stampe.
Questa pratica ci è stata confermata dalla signora Luigina Zamolo che ha lavorato
presso lo studio di antonelli dal 1939 al
1963. Egli, infatti, spesso adoperava la china
o la matoleina per donare maggiore risalto
ad alcuni particolari del volto o del vestito
(marcava il profilo delle labbra, il contorno
degli occhi, la linea delle sopracciglia, ecc.).
oltre alle fotografie in studio, ho recuperato
anche diverse immagini realizzate in
esterno. I ritratti con l’abito tradizionale carnico, in particolare, sono molto frequenti.
Diverse immagini testimoniano qualche particolare evento comunitario: l’arrivo delle
nuove campane presso la Pieve di Santa
Maria annunziata in Castoia nel settembre
del 1923, gli esercizi ginnici eseguiti dai Balilla e dalle Giovani Italiane nel giugno del
1934, ecc.
Inoltre, molte famiglie conservano numerose immagini provenienti dai luoghi di emigrazione (Europa, america del Sud, africa).
Tante persone emigrate all’estero in cerca di
fortuna e di lavoro hanno inviato alle famiglie d’origine un proprio ritratto cercando
di rimandare un’immagine positiva di sé. alcune fotografie sono state realizzate all’interno di uno studio fotografico; molte le
fotografie realizzate in cantiere sul luogo del
lavoro o durante una pausa (foto 7).
Numerosissime le fotografie dei militari;
anche in questo caso si ritrovano le diverse
tipologie di ritratto (ritratto a mezzo busto,
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
ritratto a figura intera, ritratto individuale,
di coppia e di gruppo). Purtroppo diversi
ritratti sono anonimi: non sempre, infatti, i
proprietari sono stati in grado di riconoscere l’identità delle persone raffigurate. È
una circostanza abbastanza comune.
ognuno di noi, probabilmente, rovistando
in un vecchio cassetto di un mobile ormai
dimenticato in soffitta, ha rivenuto per caso
un ritratto fotografico. Spesso, nonostante
i nostri sforzi per tentare di individuare un
lineamento o un’espressione del volto da
poter associare o confrontare con qualche
persona conosciuta, rimaniamo perplessi e
delusi per la nostra incapacità di offrire al
soggetto una precisa identificazione. Fortunatamente ogni tanto le fotografie presen-
tano sul recto o, con maggiore frequenza,
sul verso una nota manoscritta circa il soggetto, la data oppure il luogo di realizzazione. In alcuni casi, le lapidi collocate
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Teresa Kostner
7. Operai in un cantiere
edile in Francia, 1920
ca. (collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
Iscrizione sul verso:
Non sovente/ ma ti
ricordo!/ e tu? ti pesa
tanto la mano per
segnare/ due auguri di
salute/ a tuo fratello?/
Gino.
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
presso il cimitero dismesso della Pieve di Castoia sono state una preziosa fonte di informazioni. È il caso, ad esempio, di Giovanni
Picotti che non è stato riconosciuto in fotografia dai discendenti per la totale assenza di
indicazioni scritte a mano sulle diverse riproduzioni fotografiche conservate dai nipoti e
per la mancanza di precise informazioni tramandate oralmente da una generazione all’altra. L’identificazione, quindi, è stata
possibile soltanto confrontando l’originale
con la riproduzione su fotoceramica applicata alla lapide collocata in cimitero il cui
epitaffio, seppur deteriorato, è ancora leggibile (foto 8).
Come ricordato, le riprese di panorami
sono poche ma molto significative in
quanto valide testimonianze visive dello sviluppo urbanistico, paesaggistico ed architettonico del territorio. Il confronto fra il
passato e il presente, per mezzo della fotografia di paesaggio, è molto marcato: tra-
83
8. Stabilimento
Fotografico Malignani,
Romano Picotti, 18841905 (collezione privata
/ Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Teresa Kostner
9. Aristide Candotti con
il nipote Primo Bertoli
nella bottega di
falegname, Lungis
(Socchieve, Ud), 1920
ca. (collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
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10. Lavoro nei campi,
Lungis (Socchieve, Ud),
1925 ca. (collezione
privata / Fototeca
territoriale
CarniaFotografia).
mite la fotografia, infatti, i cambiamenti del
territorio apportati dall’opera del tempo e
dalla mano dell’uomo sono evidenti. La
maggior parte delle immagini con panorami
non sono fotografie ’amatoriali‘, bensì vere
e proprie cartoline.
Inoltre, sono state recuperate diverse interessanti immagini che documentano le tradizioni e le abitudini, le feste e le cerimonie,
i mezzi di trasporto e di comunicazione, i
mestieri e i lavori di un vivere quotidiano che
ormai è trascorso e concluso (foto 9-11).
attraverso la mia ricerca, infine, ho tentato
di offrire una dimostrazione pratica dell’uti-
lità della creazione di un archivio fotografico comunale. La maggior parte delle fotografie del ’Fondo Socchieve‘ datate intorno
agli ultimi anni dell’ottocento e ai primi
anni del Novecento provengono dalla famiglia Picotti e, nello specifico, da quel ramo
che ruota attorno alla persona di Giuseppe
Picotti, nato a Nonta nel 1874 e deceduto a
Socchieve nel 1956. La famiglia Picotti ha
costituito per diverse generazioni un nucleo
familiare allargato; i membri di questo casato
hanno condiviso per secoli non soltanto il
medesimo spazio abitativo (dapprima solo
a Nonta e poi sia a Nonta che a Socchieve)
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Teresa Kostner
11. Particolare di una casa con
ballatoi in legno, Lungis
(Socchieve, Ud), 1930 ca.
(collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
ma anche gli impegni lavorativi legati al
commercio. L’autorità ed il prestigio della
famiglia Picotti sono oltremodo dimostrate
dal gran numero di esemplari fotografici
realizzati a Udine presso gli studi Malignani
e Pignat. alcuni esponenti della famiglia Picotti, avendo in gestione il commercio locale, abitualmente si recavano in Friuli, e
talvolta anche in Veneto, per la compravendita dei generi alimentari; probabilmente
durante questi viaggi, nei momenti di sosta,
alcuni Picotti colsero l’occasione per farsi fotografare e quindi solennizzare determinati
avvenimenti familiari (nascita, comunione,
fidanzamento, matrimonio e simili). La famiglia Picotti, pertanto, a cavallo tra il XIX
e XX secolo, in mancanza di un fotografo locale, ricorse agli studi fotografici udinesi (gli
studi avviati da Giuseppe Malignani e da
Luigi Pignat, alla fine dell’ottocento, costituivano un punto di riferimento per coloro
che, non solo in città, desideravano un ritratto fotografico); a partire dal 1909 la famiglia Picotti commissionò i propri ritratti
al fotografo Umberto antonelli. Dagli anni
’40 le fotografie familiari sono amatoriali,
vale a dire realizzate personalmente.
attraverso l’analisi delle fotografie e il confronto tra le numerose fonti messe a disposizione dai discendenti (ricordi personali,
memorie scritte, elenchi patrimoniali, registri contabili e simili) è stato quindi possibile
87
12. Umberto Antonelli,
Aurora Comessatti,
Enemonzo (Ud), 1921
ca. (collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
13. Piccole Italiane.
Aurora Comessatti,
prima fila, quinta da
sinistra, 1930 ca.
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Teresa Kostner
14. Trasporto del
corredo di Costantino
Coradazzi e di Pierina
Dorigo, Tamariona
(Socchieve, Ud), 1958
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
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Archivio fotografico e territorio: il fondo Socchieve. Esperienza operativa
15. Umberto
Antonelli, Giacomo
Rotaris con la moglie
Aurora Comessatti in
occasione del
matrimonio,
Enemonzo (Ud), 1943
(collezione privata /
Fototeca territoriale
CarniaFotografia).
ricostruire la storia di questa influente famiglia socchievina. I discendenti mi hanno aiutato a chiarire i legami parentali e a delineare
il profilo storico ed economico entro cui il
signor Giuseppe, in particolare, ha dovuto
vivere e confrontarsi. Le immagini fotografiche, conservate dai nipoti del signor Giuseppe, mi sono servite per definire un
itinerario visivo per lo studio di questa famiglia, sia in ambito privato sia in quello
pubblico. ho ricreato un unico album familiare mettendo insieme le immagini conservate dai diversi discendenti: ciascun nipote
in questo modo è venuto in possesso di tutte
le fotografie familiari sopravissute nel
tempo. Mi auguro che questa ricerca non
costituisca un contributo episodico: spero,
infatti, che la ricostruzione della storia della
famiglia Picotti possa divenire un modello
per analoghi lavori riferiti ad altri nuclei familiari. Penso, ad esempio, alla signora aurora Comessatti immortalata dalla fotografia
in diversi momenti significativi della sua vita
(foto 12,13,15).
Le fotografie del ‘Fondo Socchieve’, quindi,
adeguatamente conservate, attendono soltanto una maggiore valorizzazione.
Ricordo, alla fine, che l’archivio fotografico
del Comune di Socchieve è stato presentato
alla comunità in un incontro pubblico ‘Racconti per immagini: le collezioni fotografiche delle famiglie di Socchieve’ che si è
tenuto il 21 agosto del 2008 presso il Centro
Culturale di Socchieve.
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La fotografia come documento storico
Adolfo Mignemi
La fotografia come documento storico
Le immagini accompagnano da sempre la
presenza dell’uomo: sono strumento insostituibile di conoscenza ed al tempo stesso
scrigno in cui depositare memoria e costruzioni/narrazioni articolate della stessa.
Le modalità di produzione delle immagini
sono in grado di restituirci le sfumature dei
processi storici con una ricchezza di articolazioni e di stimoli conoscitivi che poche
altre forme di documentazione riescono ad
eguagliare.
È conseguente a questo ruolo svolto dalle
immagini nella vita individuale e nella
esperienza dei gruppi umani la capacità di
condizionare anche il modo di pensare, di
porci in relazione l’un l’altro: in altre parole di costruire la stessa realtà nella quale
viviamo.
L’ultima epocale rivoluzione in tal senso è
avvenuta nel momento in cui si è scoperta
la possibilità meccanica di fissare stabilmente nel tempo una immagine e disporre
di essa indipendentemente dalle restituzioni
mnemoniche e dalla soggettività degli
sguardi individuali.
La messa a punto dei procedimenti fotografici e cinematografici ha modificato il modo
di guardare, di percepire la realtà e di trasmettere la memoria.
La rapidità in cui tutto ciò è avvenuto, i loro
continui perfezionamenti nonché l’associazione alla registrazione del suono non ci
hanno però ancora messi in condizione di
poter padroneggiare con sicurezza l’intreccio tra questi nuovi linguaggi e le forme tradizionali della narrazione ed esposizione.
oggi il nostro sguardo si muove spesso involontariamente sulla falsariga degli schemi
appresi guardando fotografie, filmati e
video-riprese; a quelle strutture narrative
può accadere di imputare la capacità di inglobare frazioni, più o meno brevi, dei propri percorsi esistenziali perdendo il senso
del reale. Infatti se questo tipo di documentazione è imprescindibile per chi si ponga
il problema di studiare il passato degli ul-
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Adolfo Mignemi
1 Le pagine che seguono rielaborano i contenuti di alcune
relazioni tenute rispettivamente ad un corso di aggiornamento per insegnanti del
Canton Ticino ed al convegno
‘Forme e modelli. La fotografia come modo di conoscenza’.
timi due secoli, va anche preso atto che oggi
siamo addirittura al paradosso del poter
conservare quantità sterminate di immagini
fisse e spezzoni di riprese per il cui esame
occorrerebbero non una ma milioni di vite
da spendere a rivedere e riascoltare il tutto.
allo storico si pongono dunque vari ordini
di problemi che vanno da quello dell’analisi
del documento visivo a quelli della necessità di disporre di archivi organizzati e ordinati presso i quali condurre le proprie
ricerche.
E vorremmo iniziare ad affrontare alcune
questioni generali proprio a partire dal percorso che porta l’immagine a farsi documento1.
Dall’immagine al documento
Esistono molte collezioni e pochissimi archivi.
Uno sguardo anche distratto alle numerose
raccolte di immagini costituitesi un po’ in
ogni dove ci pone di fronte a questa singolare constatazione.
La questione, come cercheremo di evidenziare, è di fondamentale rilevanza nell’analisi del passaggio dall’immagine al documento visivo, soprattutto in relazione allo
sforzo di costruire un corretto rapporto tra
le fotografie e le esigenze scientifiche degli
studiosi che ritengono utile, se non indispensabile, ricorrere ad esse nell’analisi,
scientificamente documentata, della realtà.
Inoltre essa è rilevante ed altresì non più
procrastinabile, poiché riguarda nella sostanza tutta la produzione di immagini realizzata attraverso mezzi meccanici (fotogra-
fia, cinema, immagini digitali) indipendentemente dalle peculiarità linguistiche.
La descrizione di un’immagine, l’identificazione del suo autore, la datazione delle
sue diverse ‘edizioni’, l’analisi del suo supporto sono sicuramente indispensabili per
consentire il passaggio dall’immagine al documento, ma non per dare ad esso la necessaria compiutezza di fonte.
Se poniamo al centro della nostra riflessione in particolare la produzione di immagini fisse, possiamo rilevare come non sia
certo casuale che il primo approccio alla catalogazione di questo tipo di materiali sia
avvenuto passando attraverso la descrizione
della singola fotografia alla stregua della descrizione di un’opera d’arte i cui caratteri
di unicità sono però ben diversi da quelli
peculiari di un documento.
La fotografia oggi soffre di questo approccio che, introducendo criteri di analisi prioritariamente formale, finisce per costruire
inutili e discutibili gerarchie: inutili in
quanto tendono a separare rigidamente i
documenti fotografici in base alla natura
della produzione dell’immagine e senza
porre quasi attenzione alla sua fruizione; discutibili in ragione dell’inevitabile mutare
del gusto.
È una vicenda per certi versi non nuova
nella storia dei documenti.
alla scienza archivistica infatti si è giunti attraverso la costruzione della diplomatica e
l’esegesi documentale del periodo rinascimentale. Fu un percorso approdato, con
non poca fatica, all’applicazione del metodo storico nel secolo XVIII, ma divenuto
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La fotografia come documento storico
scienza, ovvero sistema di metodi e di regole, non subito, bensì dopo non poco
tempo.
Crediamo quindi si debba guardare con
estrema attenzione a tale esperienza, che
mostra avere molti elementi in comune con
quella odierna della fotografia sia per evitare di ripeterne gli errori (si pensi alla contrapposizione tra l’ordinamento per
materia, o secondo il principio della pertinenza, e la ricostruzione dell’ordine originario, ovvero l’ordinamento secondo il
principio di provenienza o metodo storico)
sia per consentire alla fotografia di entrare
a pieno titolo nell’universo delle fonti documentali.
In termini molto schematici tenteremo di
indicare alcune possibili tappe ed alcuni
elementi che possono essere considerati acquisiti dalla riflessione scientifica.
Il percorso dall’immagine al documento fotografico è articolato, lontano dal semplice
schema che rappresenta l’idea, rielaborata
progressivamente, diventare materialmente
opera.
La produzione dell’immagine, ovvero l’impiego di un complesso sistema tecnologico
(l’apparecchio, la ‘camera’) da parte del fotografo in un determinato luogo/tempo,
non è il progetto di un documento, ma una
realtà documentale a cui si dovrà/potrà
dare una materialità propria autonoma che,
a sua volta, è al centro della problematica
relativa all’uso dell’immagine.
È indispensabile ragionare intorno a queste
peculiarità del procedimento fotografico
perché lì è la chiave interpretativa della for-
mazione del documento: produzione ed
uso dell’immagine fotografica.
L’uso dell’immagine può avvenire in tempi
assai diversi dal momento della sua produzione e con modalità differenti di volta in
volta. Il ricorso a mezzi e tecnologie, inoltre, può essere illimitato e determinante in
tutte queste fasi.
Torneremo più avanti su tali questioni. Nel
contesto dei lavori proposti in questo volume interessa mettere a fuoco alcune problematiche generali legate alla patrimonializzazione della fotografia, nell’ambito della
ricerca storica generale e dello studio delle
vicende del mezzo fotografico, al suo passare appunto dalla condizione di immagine
a quella di documento vero e proprio, ed a
ciò che meglio può garantire tale status.
Dobbiamo quindi ritornare alla constatazione iniziale: esistono molte collezioni e
pochissimi archivi fotografici.
Che cosa intendiamo per archivio? Nulla
più dell’istituzione chiamata «a mettere al
sicuro, raccogliere, classificare, conservare,
custodire e rendere accessibili i documenti
che avendo perduto la loro antica utilità
quotidiana e considerati perciò superflui
negli uffici e nei depositi meritano d’essere
preservati»2: l’«universitas rerum, diversa
dalla somma dei documenti che la compongono»3.
L’elenco delle funzioni attribuite all’archivio non è pleonastico: l’archivio non è tale
se non è ordinato, ed è in tale ordinamento
che il singolo documento trova la sua pienezza, il suo valore d’uso.
Introduciamo questa ulteriore categoria, nei
93
2 K. POMIAN, Collezione, in Enciclopedia Einaudi. 3: CittàCosmologie, Einaudi, Torino
1978, p. 332.
3 E. LODOLINI, Storia dell’Archivistica italiana. Dal mondo antico alla metà del secolo XX, F.
Angeli, Milano 2001, pp. 247 e
ss.
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94
Adolfo Mignemi
4 P. CARUCCI, Le fonti archivistiche. Ordinamento e conservazione, La Nuova Italia
Scientifica, Roma 1989, p. 43.
termini di una semplice parentesi aperta e
subito chiusa, in quanto la fotografia si propone come una tipologia di documento che
nasce con un proprio contenuto economico
che spesso continua a mantenere anche allorché entra in una collezione o in un archivio (come sfruttamento di diritti), a differenza di quanto accade per gli oggetti
preziosi che entrano a far parte di una collezione o di un museo (per i quali permane
il valore di scambio, ma cessa il valore
d’uso).
Dire archivio, però, significa dire archivistica e archivisti.
E per archivistica si deve intendere la «disciplina storica in sé (ordinamento), e non
semplicemente ausiliaria della storia (compilazione dei mezzi di ricerca)»4.
Per archivisti ovviamente si intende dire formazione altamente qualificata di personale.
Vorremmo approfondire questi due aspetti
ricorrendo ad esemplificazioni che ci consentano almeno di suggerire l’ampiezza
delle problematiche che comporta affrontarli.
Volutamente abbiamo prima richiamato alcuni aspetti dei procedimenti fotografici in
relazione all’uso dell’immagine.
È peculiare del procedimento fotografico il
proporre spesso un numero molto elevato
di copie tutte tratte da un medesimo negativo, ma stampate in tempi diversi e con
progettualità diverse che impongono un taglio dell’immagine capace di alterare in
modo assai significativo i contenuti comunicativi. Di fronte a questa molteplicità di
edizioni dell’immagine i problemi metodo-
logici sono notevoli. Ecco dunque che allo
studioso si impone un approccio analitico
comparativo tutt’altro che semplice e di
certo non comune nell’esperienza delle
altre tipologie documentali ove può essere
presente il problema delle copie, ma quasi
mai nelle proporzioni e con le peculiarità
presenti nell’universo dei documenti fotografici.
Non è infrequente il caso che lo stesso archivio conservi più copie di documenti del
tipo che abbiamo ora descritto, anzi che lo
stesso archivio diventi produttore di nuove
edizioni di una immagine allorché realizza
copie delle fotografie conservate.
Il problema della molteplicità di edizioni di
un documento fotografico non è questione
che riguarda unicamente i criteri di analisi
filologica dell’immagine e della sua edizione
critica.
Raffrontarsi con questa peculiarità del procedimento deve essere compito anche dell’archivista nel momento in cui procede a
riordinare la documentazione secondo il
metodo storico.
L’affermazione comporta che si affronti in
modo molto preciso, ad esempio la questione della formazione del personale.
Le scuole di archivistica devono incominciare a porsi queste problematiche che non
possono essere superate riconducendo il
trattamento delle nuove fonti, tra le quali è
la fotografia, a quello della documentazione
tradizionale con piccoli aggiustamenti ed
adattamenti e per semplice analogia.
Le sezioni fotografiche dei fondi archivistici
(là dove sono raccolte anche per motiva-
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La fotografia come documento storico
zioni di tipo prettamente conservativo le fotografie presenti nei vari carteggi) e ancor
più gli archivi fotografici (là dove sono ribaltate le proporzioni tra la documentazione visiva e quella cartacea tradizionale)
pongono problematiche che affondano le
proprie radici nei meccanismi di produzione dei documenti fotografici, perciò la
conoscenza di queste è doverosa e ineludibile per l’archivista né più né meno della
paleografia e della diplomatica.
L’evoluzione delle tecniche fotografiche ha
spesso totalmente rivoluzionato le modalità
di creazione delle immagini, sovvertendo
linguaggi e modi di trasmettere informazioni, costruendo forme nuove di comunicazione. Si pensi al passaggio dal daguerrotipo ai procedimenti negativo/positivo,
all’affermarsi commerciale del colore sull’impiego del bianco e nero, e alla recente
‘rivoluzione’ sia tecnica che culturale connessa all’imporsi del digitale.
La formazione degli archivisti deve comportare la creazione di figure professionali
capaci di accompagnare ed assistere gli studiosi nelle loro attività di analisi e studio
della documentazione conservata dall’archivio, che non può essere solo un percorso
attraverso le immagini, ma talvolta un non
facile cammino tra tecniche e tecnologie
complesse.
all’operatore di un archivio fotografico si
chiede pertanto di affrontare una vera e
propria rottura degli schemi tradizionali di
organizzazione del proprio lavoro e del proprio percorso di formazione.
In ambito fotografico non esistono, se non
raramente, enti che istituzionalmente producono documenti di questa natura. ai caratteri di complessità dell’archivio di una
amministrazione pubblica può forse essere
accostata l’attività dell’archivio di una agenzia fotografica, ma già la produzione di un
grosso studio è forse più logico sia assimilata ad un archivio personale che ad altre
categorie.
Ciò significa che gli archivi fotografici nascono privi di organizzazione della documentazione standardizzata e condivisa da
altri enti analoghi. Non esistono cioè fondi,
serie, sottoserie, unità archivistiche ecc. di
dimensioni e caratteri analoghi a quelli di
un archivio tradizionale. Nella maggior
parte dei casi i fondi sono costituiti magari
da poche immagini depositate da un privato
cittadino, non sempre ordinate e ordinabili
secondo i criteri dell’archivistica classica.
Ben che vada esse sono organizzate in
album. Si tratta di immagini eterogenee che
possono essere state realizzate solo in parte
dalla persona alla quale si deve la costituzione della raccolta, che propongono tipologie diverse di documenti fotografici
(negativi, diapositive, stampe fotografiche
ecc.).
Come si può ben constatare siamo sicuramente agli antipodi di un archivio tradizionale tanto che anche i criteri per affrontare
il riordino di una miscellanea appaiono inadeguati.
Le competenze degli operatori per gli archivi fotografici devono dunque essere
molto specifiche, ma è indispensabile che la
loro formazione si realizzi in ambito archi-
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Adolfo Mignemi
vistico perché analoghe devono essere la logica e il rigore metodologico di approccio
al documento e perché gli strumenti di corredo, che si devono andare a costruire, devono essere predisposti in un contesto
comune a quello degli strumenti di corredo
degli archivi storici tradizionali.
Ritorniamo nuovamente alle immagini-documento.
La soluzione del problema archivistico consentirebbe di affrontare in modo diverso e
forse decisivo anche la questione dei criteri
di edizione delle fotografie.
La battaglia per imporre agli editori una
corretta informazione sulla natura documentale delle immagini è stata fino ad ora
ampiamente persa.
Il contenuto economico delle immagini prevale di gran lunga sui contenuti culturali.
alcuni esempi per richiamare l’ampiezza
dei problemi: si impone il nome dell’agenzia che distribuisce l’immagine e si omette
il nome dell’autore; se non nel caso di una
edizione critica di fotografie, pare sia inimmaginabile il dovere di indicare l’archivio
di provenienza delle fotografie o il fondo di
appartenenza o il carattere della riproduzione dell’immagine (ad esempio, se parziale
o un particolare); sulla stampa periodica
l’errata attribuzione di contenuti (luogo,
data ecc.) per le immagini storiche è considerato un peccato veniale, non degno di
rettifiche, come avviene invece per altro
tipo di contenuti.
Questi tre casi sottolineano come la battaglia non possa essere abbandonata ma, soprattutto, che essa debba essere fatta
propria dagli studiosi, i quali, anche nel
caso si tratti di persone sensibili al problema scientifico, nella pratica paiono invece disposti a permettere questi indegni
errori introdotti nei loro testi.
L’ultima questione che vorremmo affrontare riguarda la digitalizzazione delle immagini storiche e l’uso della rete internet per
la conoscenza dei materiali.
Il ricorso a sempre nuovi strumenti per
consentire la sopravvivenza dei documenti
non è un problema di oggi.
La fragilità della fotografia impone interventi conservativi talvolta radicali che tuttavia, salvo casi di elevato deterioramento
dell’originale, non possono imporre allo
studioso l’esclusione dall’accesso diretto ai
documenti originali.
Non si dimentichi infatti che, quando si sottolinea la centralità del procedimento di
produzione nell’analisi dell’immagine, si afferma di fatto che la materialità della fotografia è elemento costitutivo di tale tipo di
documento.
La pratica di una duplicazione digitale di sicurezza degli originali sta favorendo però la
creazione di nuovi archivi paralleli che rischiano di essere alla fine proposti e percepiti
come il riferimento più comodo, nonché immediato, per la consultazione dei documenti.
accanto a questa situazione si deve richiamare anche altro, a partire dall’eventuale
ulteriore intervento di restauro integrativo
delle immagini che oggi i programmi consentono con grande facilità, creando però
un diverso documento.
Nonostante il moltiplicarsi di nuove rile-
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La fotografia come documento storico
vanti problematiche, che esigono puntuali
risposte sul piano scientifico, sarebbe anacronistico e privo di senso ritenere la digitalizzazione delle immagini uno strumento
infido. Essa è, al momento, la più semplice
ed economica scelta per la messa in sicurezza delle immagini e per la loro consultazione di primo approccio.
La rete può e deve diventare un mezzo attraverso il quale divulgare edizioni critiche
dei documenti fotografici, anche per contrastare la cattiva moneta della proliferazione indiscriminata di materiali visivi che
in essa è possibile incontrare; potrebbe divenire inoltre uno dei luoghi privilegiati per
costruire nuovi strumenti tecnici adatti a
portare avanti il discorso sulla comparazione delle immagini.
Continuiamo invece a restare perplessi di
fronte alla tentazione di immettere in rete
ampie antologie di materiali presenti negli
archivi, se in esse le immagini sono trattate
ancora a livello molto superficiale, perché
ci troveremmo di fronte a presentazioni di
documenti ed a inventari o repertori che finirebbero per creare più confusione che
certezze.
a proposito di queste preoccupazioni, ci limiteremo qui a riprendere una citazione dal
manuale elaborato da Samuel Muller Fz.,
Johan adriaan Feith, Robert Jacobus Fruin,
direttori degli archivi del Regno di Utrech,
Groninga e Middelburg, nel 1898, considerato ancora oggi uno dei principali testi di
riferimento per l’archivistica5.
al Capo III, sotto il titolo ‘Redazione dell’inventario’, si legge: «Si deve anzitutto ba-
dare che l’inventario deve servire solo di
guida, e che quindi deve dare soltanto il
prospetto del contenuto dell’archivio e non
già del contenuto dei documenti. […] Nella
descrizione di ogni parte dell’archivio si
deve tener presente questo scopo dell’inventario; chi si sforza di far conoscere il
contenuto di ogni singolo documento, compie senza dubbio opera utile, ma non fa un
inventario d’archivio. Non c’è bisogno che
un inventario faccia conoscere tutto ciò che
un archivio contiene sopra un dato argomento o sopra una data persona; che anzi,
se ci si sforza di ottener questo, si fa certissimamente un inventario cattivo. La guida
dell’archivio non deve mirare a rendere superflua la consultazione dell’archivio stesso;
ciò è del resto impossibile, e l’archivista che
vuol raggiungere questo scopo, non fa che
intristire e spendere inutilmente la vita e lascerà per di più a mezzo il lavoro»6.
abbiamo esordito affermando che esistono
molte collezioni e pochissimi archivi ed abbiamo evidenziato sicuramente più questioni aperte o dubbi che certezze nella
pratica dell’uso scientifico delle fotografie.
Siamo però convinti che solo un confronto
serrato su queste tematiche potrà consentire una sempre più definita, corretta e generalizzata utilizzazione documentale delle
immagini nei lavori di ricerca.
La fotografia come fonte nel lavoro
storiografico
Tenteremo ora di approfondire vari elementi, fin qui già richiamati, alla luce della
possibilità di iscrivere la fotografia tra le
97
5 S. MÜLLER FZ., J.A. FEITH, R.J.
FRUIN, Handleiding voor het Ordenen en Beschrijven van
Archivien, Groningen 1898. Il
testo fu pubblicato in Italia
nel 1908, per i tipi dell’Unione
Tipografico-Editrice Torinese,
nella «traduzione libera con
note di Giuseppe Bonelli e
Giovanni Vittani riveduta dagli
Autori, dall’edizione ultima,
uscita in tedesco a cura di H.
Kaiser» con il nuovo titolo Anleitung zum ordnen und beschreiben von archiven (O.
HARRASSOWITZ, Leipzig 1905,
trad. it. Ordinamento e inventario degli archivi, Utet, Milano
1908).
6 Ivi, p. 53.
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98
Adolfo Mignemi
7 H. BREDEKAMP, Immagini che
ci guardano. Teoria dell’atto
iconico, R. Cortina, Milano
2015, p. 47.
principali fonti a cui fare riferimento nel lavoro di ricerca.
ha scritto horst Bredekamp: «Siamo immersi in un mondo sempre più fatto da immagini: e ciò induce a studiarle come non
avveniva più dai tempi dell’iconoclastia bizantina e dei movimenti protestanti radicali»7.
Le fonti per la storia degli ultimi due secoli
includono materiali che per propria natura
non possono essere elusi da parte della ricerca storica; al tempo stesso, tuttavia, queste nuove fonti hanno caratteristiche
particolarissime di accumulazione – in conseguenza, anche di conservazione e organizzazione archivistica – e di ‘sopravvivenza’,
essendo realizzate su supporti materiali fragili o di facile e irreversibile deterioramento.
Tra queste fonti vi è sicuramente la fotografia, caratterizzata da un forte contenuto
economico (le fotografie sono merce!) e da
specificità tecnologiche che fanno sì che i
criteri di deposito e di accesso immediato
al materiale non corrispondano assolutamente alle logiche tradizionali di accumulazione e conservazione dei documenti
tradizionali cartacei.
Detto ciò vale tuttavia la pena di interrogarsi su qual è, in realtà, l’atteggiamento
degli storici verso la fotografia?
In generale, al di là delle affermazioni di
principio, essi vivono con la fotografia un
rapporto di estraneità ed al tempo stesso di
fascinazione. Si possiede una conoscenza
del processo di produzione delle immagini
ridotta né più né meno ai termini esempli-
ficati dalla celebre frase del signor Eastman
«voi schiacciate il bottone, al resto pensiamo noi!». al tempo stesso però negli ultimi anni è andato rapidamente crescendo
il numero di opere di saggistica storica con
ampi corredi di immagini o, più semplicemente, all’interno delle quali l’autore e
l’editore impongono la presenza di ampi inserti illustrati.
a ben vedere questa passiva accettazione,
come si potrebbe dire, del venir espropriati
dei meccanismi di produzione rischia di relegare questa fonte documentale tra quelle
secondarie magari definite «di utilizzazione
senz’altro limitata» per colpevole incapacità
o pigrizia epistemologica.
Eppure vi sono almeno due questioni che
inducono a considerare con particolare attenzione una fonte documentale quale la fotografia tra quelle peculiari e ineludibili
nello studio delle vicende storiche contemporanee.
La prima riguarda quelle che potremmo definire le sue matrici ideologiche.
L’immagine fotografica è «innanzitutto un
modo di pensare, un tratto caratteristico
della figurazione occidentale […] attraverso la nascita e l’affermazione della rappresentazione prospettico-matematica si [è
costituito] definitivamente qualcosa che
possiamo definire ‘ideologia dell’istantanea’.
Qui è da individuare l’inizio di uno dei più
grandi miti della modernità. Infatti, la storia
della prospettiva è la storia dell’idea di
un’immagine perfetta, di un momento colto
al volo nel suo farsi o disfarsi. Sogno di uno
specchio fedele, che nell’ottocento diven-
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La fotografia come documento storico
terà una macchina, anzi la macchina delle
‘immagini assolutamente fedeli’»8.
Nei quasi 200 anni che ci separano dalla
diffusione dei procedimenti fotografici essi
si sono affermati ovunque e hanno ‘contagiato’ tutte le culture, divenendo ciò che alcuni hanno definito semplicisticamente un
linguaggio comune e universale.
In realtà nulla è più totalmente falso: le fotografie si guardano e comunicano in modo
diverso non solo con il trascorrere del
tempo ma anche quando ad esse ci si pone
di fronte in luoghi del mondo diversi e distanti tra loro.
La seconda questione riguarda il ruolo delle
immagini nelle società contemporanee: la
progressiva spettacolarizzazione della politica manifestatasi nella società contemporanea a partire soprattutto da dopo il primo
conflitto mondiale, da un lato, l’atomizzazione, la dissoluzione dei gruppi primari e
dei rapporti comunitari, la privazione dello
status sociale, la liquidazione dell’identità
che hanno indotto una vera e propria
«ansia di un mondo fittizio».
Le masse non credono nella realtà del
mondo visibile, della propria esperienza;
non si fidano dei loro occhi e orecchi, ma
soltanto della loro immaginazione. Lo ‘spettacolo’ dei rapporti politici non è più
quindi messo in opera e imbastito dal potere, da una intenzionalità che lo manovra
e lo trascende per rappresentare semplicemente se stesso. È la realtà a divenire intrinsecamente spettacolare perché tutta
l’esperienza, nella sua essenza, è radicalmente artificializzata e derealizzata.
Il significato, il valore che in simile contesto
viene ad assumere la formazione di una
fonte documentale quale la fotografia è tale
dunque da consolidare il più fermo convincimento che essa rappresenterà sempre più
per lo storico contemporaneo, con la produzione audiovisiva, non semplicemente
una ulteriore fonte documentale bensì una
fonte imprescindibile per la maggior parte
della ricognizione storiografica.
Ciò implica tuttavia che si facciano i conti
con gli elementi costitutivi del documento e,
nel nostro caso, dell’immagine fotografica.
Non è impossibile né impensabile analizzare il documento fotografico alla stregua
di un tradizionale documento per il quale i
manuali di diplomatica distinguono caratteri estrinseci e caratteri intrinseci. I primi
riferiti alla fattura materiale del documento
ed al suo aspetto esteriore; i secondi riferiti
al contenuto del documento che viene rappresentato.
In ogni tipo di documento tali caratteri dipendono dalle modalità di produzione
dello stesso.
Nel caso della fotografia essi vanno ricercati
nei meccanismi di realizzazione dell’immagine, all’interno dell’apparecchio di ripresa
e delle sue parti: ottica, meccanica e fotochimica.
ognuna di esse presiede ad una specifica
definizione dell’immagine che si realizzerà
anche indipendentemente dalla volontà del
fotografo, essendo indispensabili al compimento del procedimento fotografico.
È qui in un certo senso anche parte dell’ambiguità dell’immagine, della sua capacità di
99
8 D. MORMORIO, Una invenzione
fatale. Breve genealogia della
fotografia, Sellerio, Palermo
1987, pp. 20-21. Recenti interessanti analisi della ‘rivoluzione dello sguardo’ che
accompagna la ‘rivoluzione
scientifica’ già nel XVIII secolo
sono in L.J. SNYDER, Eye of the
Beholder: Johannes Vermeer,
Antoni van Leeuwenhoek and
the reinvention of seeing, W.W.
Norton, New York 2015.
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100
Adolfo Mignemi
9 Cfr. A. GILARDI, Storia sociale
della fotografia, Feltrinelli, Milano 1976.
ricostruire anche oltre la volontà stessa di
chi la provoca.
Non è certo mia intenzione illustrare in
questa sede il funzionamento di un’apparecchiatura di ripresa ed il procedimento
fotografico.
oltretutto l’evoluzione tecnologica contrassegna in modo determinante i caratteri del
documento fotografico rendendolo ogni
volta diverso dal precedente e dal successivo: le modalità di comunicazione, e quindi
i caratteri documentali, ad esempio del daguerrotipo sono sostanzialmente diverse da
quelle della fotografia realizzata con il procedimento negativo-positivo e questa a sua
volta e abissalmente diversa dall’immagine
digitale.
Qualcuno ha sostenuto che ogni volta è un
po’ come se si azzerassero i problemi, in realtà pur senza giungere a questi estremi
dobbiamo prendere atto che tra l’invenzione presentata a Parigi nella prima metà
dell’ottocento e la fotografia digitale dei
nostri giorni vi è la stessa distanza culturale
e tecnologica che separa, per dirla con il
tono provocatorio di un ando Gilardi, «la
slitta dell’uomo primitivo dalla Ferrari»9.
Per semplicità espositiva continueremo a
considerare in modo unitario la produzione
dell’immagine fotografica.
Basterà, quindi, agli scopi della nostra riflessione, richiamare la rilevanza di elementi come l’impostazione compositiva
dell’immagine, la definizione del soggetto,
la profondità di campo, la deformazione
prospettica, l’eventuale uso di effetti
(mosso, grana, ecc.). Nonché, là dove si di-
sponga della intera documentazione relativa al procedimento fotografico – cioè il
negativo e la stampa –, le scelte operate nel
passaggio dall’uno all’altra (tagli, forzatura
di contrasti tonali, espedienti tecnici introdotti, textures, ecc.).
Fondamentale è stabilire chi ha operato nel
procedimento fotografico, cioè in altri termini chi ha fatto «click» e chi ha curato la
stampa del negativo.
E siamo ad una questione metodologica di
rilevanza fondamentale: il materiale negativo e quello positivo costituiscono elementi
documentali con una propria autonomia.
La distanza che separa l’evento fotografico
dal fototipo e la totale autonomia dei due
momenti, per quanto difficili da far proprie
in un contesto che non sia di estrema razionalizzazione dei procedimenti e della natura dei documenti, sembrano diventare
improponibili quando si passa a discutere
delle differenze tra un negativo e i positivi
da esso ricavati e ricavabili nel tempo,
quando cioè si afferma che ogni stampa è
di per sé una sorta di atto unico.
Va da sé che quanto fin qui detto si debba
applicare quando ci si trova di fronte sia
una fotografia, sia una sua riproduzione con
procedimento poligrafico.
anzi, in tal caso, a maggior ragione in
quanto siamo addirittura nel campo della
fruizione dell’immagine e pertanto di un diverso uso dell’immagine fotografica ed esso
costituisce un elemento di attenzione fondamentale per lo storico.
Competenze tecniche specifiche sono indispensabili a permettere una corretta verifica
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La fotografia come documento storico
dell’autenticità del materiale (ad esempio se
si tratta della fotografia prodotta in una determinata epoca ed attribuibile ad un determinato autore, se non sono stati operati
interventi di contraffazione ad opera di
terzi, ecc.). Si tratta comunque in larga misura di competenze neppure eccessivamente specialistiche: esse sono né più né
meno gravose di quelle che si devono riservare ad una qualsiasi fonte documentale
cartacea tradizionale.
Sembrerà un paradosso ma è normalmente
specchio delle contraddizioni vissute da
parte degli storici la distanza che separa
l’elaborazione storiografica dai criteri archivistici, descrittivi e conservativi, che riguardano la fonte.
Mentre per le fonti tradizionali – a stampa,
manoscritte ecc. ed anche per quelle di cultura materiale – c’è un immediato e consolidato rapporto con l’elaborazione storiografica – modi di produrre strumenti di
consultazione, criteri descrittivi, approcci
analitici ecc. – con la fotografia tutto questo
viene meno.
È possibile affermare che anche le fonti di
cultura materiale godano di un più definito
statuto di fonte, grazie alle discipline che si
sono occupate di individuarle e analizzarle
– si pensi all’archeologia per restare nell’ambito della cultura materiale più strettamente legata alla elaborazione storiografica
– con la fotografia invece il documento è
confuso con ciò che esso rappresenta, con
l’evento che l’ha generata. Non esiste pertanto quasi mai un approccio di sistematizzazione e configurazione del suo carattere
di documento in quanto tale. Ci si limita a
valutarla nei termini di evento – l’evento
che essa ha registrato – di cui lo storico, grazie alle particolarissime peculiarità di rappresentazione offerte dalla fotografia,
diviene, o ancor più si sente a sua volta una
sorta di ‘testimone’.
Nulla di più aberrante ma soprattutto di
più riduttivo per il carattere documentario
della fotografia che finisce per soggiacere
alle logiche di rilevanza e di autoreferenzialità, in base alle quali pressoché nessun interesse è imputabile, se non all’interno forse
della storia del mezzo fotografico, al processo di formazione in quanto documento
e tutta l’attenzione è concentrata sull’applicazione di codici interpretativi assoluti
quali possono essere quelli formali.
La produzione fotografica può divenire, in
altre parole, oggetto unicamente di valutazioni di tipo estetico, sollevando interessi
per la propria unicità e per il fatto di essere
opera di un determinato autore.
Il carattere paradossale di questo approccio
può essere facilmente smascherato se si
pensa, anche semplicemente, cosa accadrebbe se ogni documento scritto venisse
sottoposto a criteri di analisi e quindi di selezione analoghi: il 99,9% dei documenti
d’archivio sarebbero da destinarsi allo
‘scarto’.
È, a ben vedere, quanto accade ai grandi
depositi di documenti fotografici: basta penetrare nell’archivio di una agenzia o anche,
più semplicemente, provare a mettere il
capo nell’archivio di lavoro di un fotografo
di professione, anche senza scendere al li-
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Adolfo Mignemi
vello della raccolta delle sue fotografie personali.
Questo richiamo ci consente di avviare un
secondo livello di considerazioni.
Se è pur vero che non basta la semplice dichiarazione di riconoscimento del carattere
di documento della fotografia ma è indispensabile, da parte degli storici, che a questa tipologia documentale si ricorra
sistematicamente con pari dignità rispetto
alle altre fonti, è altresì vero che anche da
parte del fotografo e di chi tratta il materiale fotografico per ragioni professionali –
la fotografia è purtroppo una fonte che ha
un forte ‘contenuto economico’! – ci si deve
rapportare correttamente al suo contenuto
documentario.
Se lo storico cade spesso e volentieri nell’errore di scrivere la storia sugli altri documenti e di illustrarla con le fotografie al
tempo stesso egli trova, il più delle volte, il
miglior alleato nei fotografi e negli archivi
delle agenzie a cui ci si rivolge. oggi come
oggi, infatti, i maggiori archivi fotografici
sono rappresentati dalle aziende che commerciano immagini o che intendono sfruttarne il contenuto economico, spesso in
regime di assoluto monopolio. Si pensi, a
questo proposito, alle fotografie rastrellate
in tutto il mondo e accumulate ‘per sicurezza’ in una miniera di sale negli Stati Uniti
per conto dell’agenzia Corbis, di proprietà
di Bill Gates, per le quali sono state definite
precise regole di accesso e di fruizione che,
come denunciato da numerosi studiosi statunitensi, annullano di fatto la libertà di studio della documentazione e introducono un
pericoloso controllo sulla diffusione delle
immagini fotografiche prodotte per l’informazione giornalistica.
E qui si ritorna alla questione metodologica
della confusione del documento fotografico
con l’evento che lo ha generato.
Il contenuto economico della fotografia è
soprattutto fondato sul carattere di verosimiglianza, di veridicità, di ‘congelamento’
e di restituzione immediata nel tempo successivo di quanto accaduto.
Per una fotografia ‘vera’, bella o brutta che
sia, si possono guadagnare milioni. Il mito
del ‘paparazzo’ nasce all’interno di questi
meccanismi ed è una sorta di gioco delle
parti tra il fotografo e il giornale.
Un esempio divenuto ormai classico. Il miliziano ‘che muore’ fotografato da Robert
Capa (che noia, penseranno di sicuro molti
di voi, ma è una immagine a tal punto conosciuta che a partire da essa ogni esemplificazione diviene molto semplice!).
La discussione sulla ‘veridicità’ dello scatto
o il suo carattere di eccellente ‘ricostruzione’, sviluppatisi in modo significativo
negli ultimi anni nulla ha tolto al valore documentario dell’immagine, sia che si tratti
della ripresa dell’attimo in cui una persona
viene colpita a morte, sia che mostri uno
scivolone che ne ha interrotto la corsa.
Tutto il discutere intorno a questa ‘morbosa
narrazione della morte’ la ha arricchita fornendo elementi conoscitivi non secondari
sul lavoro dei fotografi e sul loro rapporto
con la rappresentazione degli eventi.
Come tutti ben sappiamo la storia veridica
delle icone e delle reliquie non ha mai
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La fotografia come documento storico
messo in crisi nessuna fede anzi in taluni
casi, storicizzandone il percorso, l’ha resa
più razionale e meglio accettabile.
Ma veniamo alla questione generale sottesa
alle considerazioni introduttive: quali risposte attende oggi la fotografia dagli storici?
L’immagine fotografica è, tra i documenti,
la più ‘ingannevole’ per quel carattere di verosimiglianza che essa mantiene in ogni sua
parte e per la capacità di narrare comunque, cosa che non accade con nessun altro
tipo di documento tradizionale. La fotografia, cioè, può essere ritagliata, ridotta ai minimi termini, ma permarrà in essa, in ogni
suo frammento, la parvenza di una realtà.
Si può addirittura sostituire la ricostruzione
di un evento con la sua documentazione effettiva, o viceversa, senza che ciò sia facilmente intelleggibile, anzi creando grossi
problemi di lettura critica dei materiali. È
ancora emblematica di ciò la vicenda prima
sommariamente richiamata del miliziano
fotografato da Robert Capa.
a partire da queste specificità – che per alcuni, sono sicuramente limiti difficilmente
accettabili – vanno affrontati sia il problema
dell’uso della documentazione visiva nella ricerca storica, sia il problema della scrittura
visiva degli esiti del lavoro storiografico.
L’uso della documentazione implica, in
primo luogo, massimo rispetto dei caratteri
della fonte visiva (i caratteri tecnici e quelli
culturali).
In secondo luogo, essa comporta la necessità di affrontare congiuntamente e globalmente le problematiche della produzione e
della fruizione dell’immagine.
La storia della visione di una immagine, in
altre parole, è fondamentale per la comprensione e l’uso dei suoi caratteri documentali, anche se la più recente vicenda dei
mezzi di comunicazione di massa sembrerebbe indicare la tendenza generale ad imporre, con l’eccesso e la ridondanza della
comunicazione visiva, una ‘vita breve’ per
le immagini. a dispetto di ciò gli immaginari visivi collettivi sembrano sopravvivere
alle ondate di scoop a base di immagini che
si afferma compaiano per la prima volta in
quel determinato momento, ma che in realtà risultano essere già note. È il caso soprattutto delle cosiddette immagini di
‘documentazione storica’ ampiamente divulgate e viste a ridosso degli avvenimenti,
poi dimenticate ma puntualmente ‘riscoperte’, a distanza di qualche decennio, da
qualcuno disposto a scambiare la propria
personale ‘non conoscenza’ con un carattere di inedito dei documenti.
In terzo luogo, l’uso della documentazione
esige, da parte dello studioso, il rispetto dei
caratteri documentali, partendo dall’assunto che proprio in ragione della sua problematicità la documentazione visiva, più di
ogni altra, esige una facilità di accesso e
controllo da parte di tutti.
Per quanto concerne poi il problema della
scrittura, alla luce dell’utilizzo delle fonti visive, va rilevato come le peculiarità di questo tipo di fonti sembrano consentire a tutti
di improvvisarsi ‘scrittori di storia’: chi dispone di una immagine relativa ad un
evento si sente un po’ come il testimone
propenso a scambiare la propria memoria
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Adolfo Mignemi
degli avvenimenti con la ricostruzione storica degli stessi.
Ma le esigenze della scrittura per immagini
– esse devono essere viste non possono essere semplicemente raccontate – non possono legittimare scorciatoie, salvo compromettere gli stessi caratteri documentali della
fonte. I principali nemici del processo di
strutturazione dell’immagine come fonte
sono proprio i divulgatori, coloro cioè che
in ragione di un più semplice accesso alla
comunicazione sono disposti a sacrificare
tutto ciò che può consentire un pieno e totale controllo delle fonti.
Costi quel costi bisogna dunque, da un
canto, avere il coraggio di definire e dichiarare totalmente la natura e la provenienza
documentale dei materiali a cui si è attinto:
diversamente si abbia la correttezza di collocare il proprio lavoro nel terreno della libera scrittura o della fiction – come oggi si
suole definire il campo della produzione
delle immagini in movimento, non documentarie – talvolta più efficaci e nobili della
scrittura di carattere scientifico.
Dall’altro, lo storico deve avere pienamente
il senso che queste nuove fonti per il suo lavoro, pur avendo un contenuto economico,
sono e rimangono un bene culturale, che
sono cioè patrimonio collettivo come qualsiasi altra fonte documentale, che disponga
oppure sia priva di qualsivoglia valore venale.
Alcune ipotesi operative
Da questa assunzione di coscienza derivano
alcune importanti indicazioni operative sia
sul piano del lavoro scientifico sia su quello
della divulgazione delle ricerche.
Tali indicazioni potranno apparire a taluni
forse anche banali ma la loro pratica, siamo
certi, potrebbe portare a significativi riflessi
nel campo della valorizzazione delle nuove
fonti documentarie.
La prima: gli archivi visivi attuali sono
spesso depositi che provocatoriamente vorremmo definire ‘infidi’, non controllabili
totalmente, con finalità sicuramente non
conservative nel senso comunemente noto
agli storici tradizionali. Il lavoro dello storico interagisce notevolmente con il carattere di merce, posseduto dalle fonti
fotografiche, restituendo, ad esempio, a
molte di esse, dopo un certo tempo un valore d’uso altrimenti perso verso il mercato.
Si pensi a tutto il recente recupero dei materiali di fotocronaca o di documentazione
industriale e aziendale che dal punto di
vista dello sfruttamento economico rientravano nella tipologia della semplice fotografia a cui la legge italiana garantiva una tutela
assai limitata nel tempo, per cui tali materiali sono stati sottoposti a sistematico
‘scarto’ dalle agenzie e dagli stessi fotografi,
salvo il caso dei pochi che per passione o
per ambizione hanno conservato il proprio
lavoro ed ora – per fortuna non solo degli
storici – esso è ancora disponibile alla consultazione ed allo studio.
Un corretto rapporto dello storico con la
fonte è dunque, di certo, l’unica garanzia
per consentire la sopravvivenza della fonte
stessa agli alterni interessi del mercato.
La seconda: deve essere compito dello stu-
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La fotografia come documento storico
dioso, oltre che la divulgazione degli esiti
della propria attività di ricerca, l’impegno
civile, con tutti i mezzi di cui egli disponga
e con l’ausilio degli enti preposti sul piano
istituzionale a questi compiti (soprintendenze, archivi di Stato ecc.), alla salvaguardia dei beni documentali individuati,
quando essi non appartengano a strutture
che garantiscano una reale conservazione
ed un libero accesso.
La terza: come già si rilevava, la tentazione
degli scoop – reali o meno che essi poi si rivelino – è sempre fortissima in un contesto
sociale quale il nostro, fortemente caratterizzato da un sistema di comunicazione globale ove obiettivo, da perseguire più sul
piano quantitativo che sul piano qualitativo,
è la concorrenza informativa. Lo storico
veicola però giudizi e ha, con la piena coscienza dei limiti del proprio lavoro, il massimo rispetto per le fonti del suo elaborare,
che dovranno sempre essere individuabili e
interrogabili da chiunque dopo di lui. Poco
si confà a questa antica e onesta pratica di
lavoro il culto dell’accaparrarsi l’esclusivo
uso delle fonti.
La quarta: il rifiuto di patteggiare l’uso
scientifico delle immagini con le esigenze
decorative dell’edizione. Nessun saggio
deve ospitare immagini che non trovino in
esso adeguato trattamento in qualità di documenti.
Si ricordava prima che se per ogni storico è
onorevole raccogliere, analizzare e pubblicare serie di documenti, sicuramente più disdicevole è procedere alla edizione di
antologie di materiali fotografici. Ma non
solo, pensiamo all’abitudine invalsa negli
ultimi anni di produrre saggi storici con a
corredo apparati fotografici. Di solito la
cura e la selezione di tali materiali sono delegate ai grafici o ai responsabili delle ricerche iconografiche – come si suol oggi
definire questo profilo professionale – i
quali sicuramente hanno grande consuetudine con la manipolazione del materiale, nei
rapporti con le agenzie che vendono le immagini, ma certamente meno con la dimensione scientifica del documento. Qual è lo
studioso disposto a scrivere un saggio e ad
affidare all’editore il compito di integrarlo
con note o documenti che da lui non siano
approvate? a ben vedere, se guardiamo a
ciò che accade con le fotografie, dovremmo
rispondere alla domanda: quasi tutti.
Vorremmo tuttavia soffermarci ancora, brevemente, sull’esatto significato di quello che
abbiamo definito corretto rapporto con la
fonte.
Ed è la quinta, ed ultima, indicazione operativa.
La definizione di standard di conservazione
e catalogazione, di duplicazione, di edizione deve essere fatta propria sia dagli archivi sia dagli editori.
Il primo aspetto attiene a problematiche di
carattere squisitamente tecnico che non sta
a queste considerazioni affrontare direttamente. Diverso il caso del secondo e terzo
aspetto.
La struttura che conserva il documento
deve tutelarlo, facendosi carico di offrire a
chi lo consulta tutti gli strumenti utili al suo
studio.
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Adolfo Mignemi
Tali strumenti includono in particolare il
‘diritto’ del documento fotografico di essere
riprodotto, ‘duplicato’, rispettando tutti i
suoi caratteri formali, né più né meno, di
quanto avviene per la ‘duplicazione’ di
qualsivoglia documento tradizionale. Chi si
permetterebbe di fornire la duplicazione di
un testo manoscritto o dattiloscritto mutilandone volutamente delle parti? Per quale
ragione può ritenersi invece legittimo procedere alla stampa di un negativo fotografico o alla riproduzione di un positivo
prefigurando il ‘taglio’ di una porzione di
immagine per rientrare negli standard del
formato carta o per evitare la poco estetica
presenza dei margini originali dell’immagine? La risposta è ovvia, la pratica consueta degli archivi, e in particolare in quelli
delle agenzie fotografiche, va tuttavia in diversa direzione.
La struttura che conserva il documento,
poi, deve essere in grado di fornire in modo
semplificato gli elementi essenziali che
compongono la schedatura descrittiva completa – quella prevista per l’edizione critica,
tanto per intenderci – in modo tale da poterli inserire in didascalia, in forma essenziale, senza elementi di linguaggio
settoriale, fatta eccezione per il ricorso a
forme di abbreviazione universalmente riconosciute e comuni.
Sono indicazioni alquanto elementari, ma
alla portata di tutti. Basterebbe, da un lato,
agli studiosi, dall’altro agli editori e agli archivi, rispettivamente, solo un po’ di buona
volontà e un minimo di rigore scientifico.
Nulla di più.
Ben sappiamo però, ormai per lunga esperienza, che il cammino ancora da percorrere non è affatto breve.
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La fotografia come estensione della memoria
Corrado Fanti
La fotografia come estensione della memoria.
Riflessioni sul passato analogico e problemi
per un futuro digitale
Da anni mi occupo di fotografia come strumento di comunicazione e come prodotto
artistico, sia sul piano della riflessione teorica sia su quello pratico della produzione
d’immagini.
Non posso negare che quanto è avvenuto
nei tempi recenti, intendo dire dall’avvento
del digitale, mette a dura prova chi come
me in decenni di letture ed esperienze si è
formato alla scuola della riflessione teorica
dei grandi maestri, dei fautori di un pensiero
‘forte’, Marc augé direbbe delle ‘grandi narrazioni’. Con questo termine l’autore intende
riferirsi alle grandi concezioni filosofiche
che offrivano una spiegazione totale e unitaria del mondo e della storia. L’avvento del
digitale è un fenomeno che a mio avviso
ben s’inscrive in quel cambiamento di cui
parla augé. Riprenderò più avanti questa
tematica.
Vengo preso dalla sensazione che forse
molte cose dette per quasi 150 anni di fotografia oggi da un lato vadano riviste e ag-
giornate o che addirittura certe teorizzazioni
appartengano a un periodo ormai concluso.
Forse anche nella fotografia si può respirare
quella sensazione che, come qualcuno afferma di provare nell’ambito delle arti, della
musica e della poesia, tutto sia stato già
detto, composto e scritto e che ora non resti
altro che ricucire citazioni in maniera trasversale ed inventare contaminazioni, il
tutto con una certa disincantata ironia. Nel
dire questo non faccio altro che sottolineare
alcuni concetti della postmodernità, laddove
peraltro c’è chi trova aspetti positivi nelle
caratteristiche che connotano tale concetto
storico-culturale, ad esempio il venir meno
di tante forme di totalitarismo e il conseguente rispetto delle differenze.
Faccio un passo indietro rispetto a questi
ultimi decenni: è mia intenzione condurre
una riflessione a partire dalla situazione che
ha preceduto l’avvento del digitale, utilizzando criteri che erano alla base di un pensiero precedente l’era della postmodernità.
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108
Corrado Fanti
1 A.C. VARZI, Ontologia, Laterza,
Roma-Bari 2005.
2 U. ECO, ‘Introduzione’, in P.
CONSAGRA, U. MULAS, Fotografare l’Arte. Introduzione di
Umberto Eco, Fratelli Fabbri
Editori, Milano 1973.
Questo anche perché il presente contesto
mi pare rivolga l’attenzione a quella che
viene definita in senso ‘forte’ fotografia storica, anche se è opportuno affermare che
qualsiasi fotografia è storica, indipendentemente dal soggetto che ritrae. Chi scrive
confessa di essere legato a un’area di pensiero che non accetta in pieno un pensiero
‘debole’ o totalmente relativistico: con questo non voglio assolutamente difendere taluni aspetti di un pensiero ‘forte’ e
totalitario (gli storicismi e le ideologie che
hanno prodotto gli spaventosi disastri bellici e ideologici del secolo scorso), ma non
per questo ho inteso abbandonare modelli
di pensiero e metodi di operatività che si rifanno a una concezione ‘classica’. Mi servirò di alcuni concetti dandoli per acquisiti,
anche se passibili di disaccordo o di differenti posizioni interpretative, allo scopo di
chiarire l’orizzonte nel quale si svolge tutta
la successiva riflessione, l’identificazione
dei problemi, e quello che è stato l’aspetto
operativo del mio lavoro.
Come la maggior parte delle opere grafiche,
la fotografia può essere considerata secondo differenti angolature.
Sul piano estetico credo sia esaurita l’antica
discussione se essa possa essere arte o
meno, soprattutto nel momento in cui lo
statuto dell’arte, sul piano ontologico, è
oggi piuttosto vago: si può giungere ad affermare che tutto è arte, che l’unica cosa
che distingue un oggetto artistico da qualunque altro è semplicemente la considerazione che gli viene data, ovvero la cornice
all’interno della quale viene collocato.
Scrive Varzi: «certi oggetti e certi eventi
contano come creazioni artistiche in quanto
una certa comunità ha deciso di considerarli tali. Una delle grandi rivoluzioni della
filosofia dell’arte contemporanea rappresentata dal manifesto di Goodman si riassume proprio nello slogan per cui la
domanda da porsi non è ‘che cosa’ sia l’arte
ma ‘quando’ ci sia arte»1.
In secondo luogo, credo che nessuno possa
mettere in dubbio che la fotografia rappresenta un fenomeno sociale che, dati i riti e i
modi che ne vedono la produzione, sicuramente rappresenta un indice e un documento importante per la riflessione sulla
nostra società dalla metà dell’ottocento a
oggi.
ancora, la fotografia si presenta come importante fonte, testimonianza e documento
storico in senso proprio. Considero acquisite le riflessioni circa le metodologie della
sua lettura: quella più immediata presta attenzione al soggetto che era presente ‘al di
là’ dell’obiettivo, il soggetto di cui essa non
è solo icona, traduzione, testimonianza, ma
anche ‘indice’ secondo il significato del termine che la semiotica di Eco prescrive2. Il
Nostro suggerisce che la fotografia sia da
definirsi non come un’icona, termine che
meglio si adatta ai prodotti delle arti figurative; neppure ritiene opportuno definirla
un ‘segno’, in virtù di un’arbitrarietà che lo
connota, laddove in fotografia – fino a
quella digitale – non possiamo parlare di
convenzionalità in modo analogo. Piuttosto
egli suggerisce il concetto di ‘indice’, come
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La fotografia come estensione della memoria
la traccia che un bicchiere umido ha lasciato sul tavolo o l’orma di un piede sulla
sabbia: qualcosa che è stato materialmente
prodotto (dalla luce sulle sostanze fotosensibili della pellicola) e che «mantiene con
l’oggetto a cui si riferisce un rapporto dichiarato di causa ad effetto»3 e di prossimità fisica che lo richiama senza peraltro
esserne un duplicato. Così come il detective
cerca sulla scena del crimine delle ‘prove’,
analogamente lo storico cerca nelle fotografie, quelle prodotte attraverso la chimica, i
resti visivi che ci aiutino a capire taluni
eventi e le loro motivazioni.
Una lettura delle immagini fotografiche più
approfondita è quella che, oltre a prestare
attenzione al senso che il fotografo, consapevolmente o meno, ha voluto trasmettere
a proposito di un soggetto, analizza l’intero
contesto che ne ha visto la realizzazione,
quindi l’utilizzo successivo e la sua funzione
nella comunicazione. È senz’altro opportuno parlare di più significati della medesima immagine, tanti quanti sono gli usi che
ne sono stati fatti e le reazioni che hanno
prodotto.
Date per acquisite queste riflessioni, intendo
accennare a qualche problema che riguarda
la fotografia oggi e, per meglio chiarire il
mio pensiero, distinguo due momenti concettuali fondamentali che interessano il fotografo che ha realizzato un’immagine e la
cui distinzione è utile allo storico per fare il
suo mestiere: quello che si riferisce al ‘cosa’,
ovvero al soggetto che il fotografo ha scelto
di riprendere, e quello che riguarda il
‘come’, ossia la modalità con la quale un
tempo e diversamente oggi, quel particolare
ambulante, professionista, dilettante, cronista, fotografo di studio, scienziato, voyeur,
ha guardato il mondo.
Inizierò dal secondo problema, cioè dalla
riflessione su quali siano state e siano ora i
modi storici del guardare e del vedere la
realtà per poi trasformarla in fotografia. Nel
parlare di modi storici non intendo fissare
una distanza temporale che necessariamente
serva a separare il passato dal presente: con
amore del paradosso possiamo affermare
che la storia si arresta un attimo prima del
momento attuale. Lo spazio della storia non
è tanto definito da un orizzonte temporale
denotato da una precisa frontiera che ci separa dal passato quanto piuttosto dal modo
di osservare le cose; un modo critico, che
guarda dall’esterno, una sorta di spazio metalinguistico nel quale non si agisce e non
si comunica all’interno del teatro degli
eventi, sul palcoscenico della storia. Quello
della storia è il luogo dove si riflette su come
si è agito e comunicato osservando il triste
spettacolo dal loggione; questo per poi rientrare nell’azione, dentro le cose, per muoverci come attori con un copione per il futuro. Chi ha esperienza d’insegnamento, sa
bene come la maggiore difficoltà nella didattica della storia non sia tanto far apprendere fatti e nozioni come oggetti da esibire
con erudizione quanto educare al ‘senso’
della storia, alla presenza del passato e alla
storicità del presente.
Nel trascorrere degli anni e nella naturale
(e salutare) selezione che via via si compie
3 Ivi,
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110
Corrado Fanti
4 A.C. QUINTAVALLE, Messa a
Fuoco. Studi sulla Fotografia,
Feltrinelli, Milano 1983.
di tutte le teorizzazioni lette e ascoltate (da
quando è nata la fotografia, il dibattito se
essa potesse essere considerata arte, quale
fosse la sua specificità, quale il suo statuto
ontologico, ha prodotto fiumi di parole) mi
resta e ricorre nelle mie orecchie una frase
che lo storico dell’arte, andrea Emiliani,
all’apertura del convegno ‘La Fotografia
come Bene Culturale’ (Modena 1979) ebbe
a dire: «La fotografia a cavaliere com’è fra
la realtà e ciò che della realtà l’uomo pensa».
a differenza delle altre modalità di produrre
immagini, la fotografia, e con essa il cinema,
almeno fino all’avvento della realtà virtuale,
ha pur sempre avuto bisogno di un brandello di realtà che imprimesse la propria
orma sulla pellicola, ma, al contempo, ha interpretato, modificato, tagliato, decontestualizzato, scelto, falsificato e rivelato
(come nel film Blow Up di Michelangelo
antonioni). avverte Quintavalle: «dobbiamo […] leggere le fotografie come un
modello d’interpretazione critica della realtà, dunque non documento ma discorso
critico (o acritico, si badi bene) di storia in
senso proprio e completo»4.
Inoltre, come s’è detto, la fotografia non è
solo il risultato dell’interpretazione del fotografo ma quanto essa comunica può assumere ulteriori significati a seconda dei diversi contesti in cui è inserita e utilizzata. Si
pensi solo a come il cambiamento della didascalia può mutare completamente il senso
di una foto, fino a trasformarla in un ‘mito’,
anche laddove non fosse nata con questo
senso. È per questo che lo storico della fotografia deve essere principalmente storico
della ‘cultura’ (secondo l’accezione storica,
economica, antropologica… del termine) che
ha prodotto e veicolato ogni immagine. analogamente a quanto riguarda la comunicazione verbale, occorre tenere presente la correlazione di un’immagine, sul piano
sincronico, con tutte quelle prodotte nella
medesima occasione, allargando il campo
fino al confronto con la più ampia produzione nazionale e internazionale del momento e mettendola a confronto con le altre
espressioni grafiche. Dall’altro se ne deve osservare la mutazione in senso diacronico, la
sua trasformazione nel tempo, di cui è parte,
come si diceva, anche l’uso successivo e i diversi contesti che ne hanno prodotto via via
un senso differente. La classificazione stessa
di un’immagine, (assieme alla sua interpretazione), diventa un conferimento di senso
che può mutare nel momento in cui un archivista ne muti la collocazione all’interno
di un fondo. Possiamo affermare, con amore
del chiasmo, che non esiste una fotografia
storica quanto piuttosto esiste un uso storico
della fotografia che prosegue con la sua archiviazione, così come accanto ad una fotografia ‘della’ storia dobbiamo considerare la
fotografia ‘nella’ storia.
Credo che, sulla scorta di queste assunzioni,
sia secondaria la classificazione delle fotografie secondo i generi mutuata dalle arti
pittoriche: non è prioritario suddividerle secondo i canoni quali la fotografia sociale, di
paesaggio, di ritratto, ecc. bensì è possibile
classificarle sulla base delle motivazioni,
modi ed usi della loro produzione. Su questo tornerò più avanti.
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La fotografia come estensione della memoria
Per riflettere ulteriormente sulle specificità
della fotografia a cavallo tra riproduzione e
interpretazione, vorrei fare brevemente riferimento ad alcune riflessioni teoriche relative al campo interdisciplinare che si situa
tra estetica e neuroscienze; di fatto negli ultimi tempi si parla sempre di più di ‘neuroestetica’. Negli ultimi sessant’anni, da
Gombrich5 a Kandel6 , per citare solo due
autori, le ricerche che erano partite dai contributi freudiani sull’inconscio, si arricchiscono degli esiti offerti dalla psicologia
della percezione e da metodologie che non
sono più campo esclusivo di riflessioni verbali afferenti all’esprit de finesse del critico
d’arte, ma che intendono basarsi su precisi
principi epistemologici ed essere sostenute
da evidenze sperimentali.
Rispetto alla fotografia, il dipinto come il
disegno sono ovviamente percepiti con la
funzione prioritaria di essere un prodotto
di un artista / disegnatore / grafico il quale
ci sta offrendo l’analogo di una ‘propria’
immagine mentale di ciò che conosce, vede
e intende comunicare con una precisa modalità. Sulla retina del disegnatore vi è
un’informazione visiva che si forma in
modo assolutamente ‘naturale’, tuttavia
l’immagine mentale che egli elabora e riproduce si trasforma in un prodotto ‘culturale’. Sappiamo bene come, ad esempio,
i disegnatori al seguito dei conquistadores
delle americhe, che consideravano gli amerindi come non appartenenti al genere
umano, nel disegnarne le fattezze a scopo
documentario, commettessero errori grossolani circa particolari anatomici, errori
che mai avrebbero commesso raffigurando
loro connazionali. Se avessero ripreso delle
istantanee fotografiche, i particolari anatomici sarebbero risultati corretti. È questa
una considerazione piuttosto banale ma è
pur vera.
Non possiamo tuttavia ignorare l’aspetto
interpretativo della fotografia. Su quest’ultimo è stato scritto moltissimo in giusta polemica contro chi, in una visione realisticamente ingenua, sosteneva che la fotografia
fosse ‘unicamente’ la riproduzione della realtà così com’è. È per questo che, parlando
di fotografia come fonte storica, non voglio
dilungarmi sui fattori che fanno sì che essa
sia un’interpretazione che in qualche misura
trasforma il soggetto raffigurato sottolineando la particolare percezione (anche tendenziosa) che noi abbiamo di esso. In breve,
la fotografia modifica le dimensioni dello
spazio da tre a due, modifica la visione del
soggetto attraverso la scelta del punto di
vista, lo decontestualizza rispetto all’ambiente circostante tagliato com’è dall’inquadratura, ne riduce la policromia a rapporti
di bianco e nero o trasforma i colori percepiti dall’occhio in quelli riproducibili tramite le emulsioni, ecc. ancora, le informazioni contenute nel supporto col suo
spessore vengono a far parte della materia
dell’immagine, la didascalia e l’uso ne determinano il senso, e così via. Su ognuno di
questi fattori è stato ampiamente dissertato
(da Barthes7, a Sontag8, a Lindekens9 ecc.),
molto è stato scritto, per cui, dopo fiumi di
semiologia, vorrei fare un passo indietro
verso quel ‘buon senso comune’ di chi os-
111
5 E.H.J. GOMBRICH, Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965.
6 E.R. KANDEL, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello
dalla grande Vienna ai nostri
giorni, Raffaello Cortina, Milano 2012.
7 R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974.
8 S. SONTAG, Sulla fotografia.
Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino
1978.
9 R. LINDEKENS, Semiotica della
fotografia, il Laboratorio, Napoli 1980.
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112
Corrado Fanti
10 W. BENJAMIN, L’Opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino
1966, citato da M. DI MONTE,
Introduzione - Se fossi nei tuoi
occhi, in A. DANTO, M. DI MONTE
(a cura di), La storicità dell’occhio. Un dibattito con Noël
Carroll e Mark Rollins, Armando, Roma 2007, p. 12
11 A. DANTO, M. DI MONTE (a
cura di), La storicità dell’occhio… cit., pp. 38-50.
12 M. FERRARIS, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani,
Milano 2011.
serva una fotografia per quello che essa rappresenta e di cui è una documentazione.
È stato ampiamente dibattuto, ed è tuttora
oggetto di discussione, un problema legato
a quella che è definita tesi della modernità
che vede fronteggiarsi due scuole di pensiero. Il problema consiste nella domanda
se le arti come la fotografia o il cinema dal
XIX secolo abbiano modificato il modo in
cui noi percepiamo la realtà.
Esistono, semplificando le cose, due scuole
di pensiero. Scrive Walter Benjamin: «il
modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana […], non è condizionato soltanto in un senso naturale, ma
anche storico […], l’epoca delle invasioni
barbariche [avrebbe posseduto, N.d.A.]
non solo un’arte diversa da quella antica ma
anche un’altra percezione»10. Su questa
linea di pensiero i sostenitori della tesi modernista e dello storicismo relativistico culturale affermano che l’epoca attuale è
caratterizzata da una nuova modalità di
percezione e che nel soggetto talmente sottoposto al continuo consumo di immagini
virtuali e mercificate si sarebbero prodotti
cambiamenti significativi nella funzione del
vedere la realtà. I processi legati alla percezione visiva manifesterebbero pertanto una
certa penetrabilità da parte dell’ambiente
storico culturale.
L’altra scuola di pensiero si oppone a questa
visione giudicandola informata ad un eccessivo storicismo: Danto afferma che «abitudini e aspettative condizionano il modo in
cui le cose vengono rappresentate più che
il modo in cui vengono viste […] Fu una
scelta culturale decidere come dipingere,
ma non come vedere, che resta immune da
interventi di carattere politico [nel senso di
‘storico-culturale’ N.d.A.] […] ciò che è
storico in un simile progresso è la mano
[che dipinge; l’autore fa ferimento all’opinione che, dai tempi di Vasari, ritiene che
la storia della pittura e della prospettiva
abbia seguito un’evoluzione progressiva,
N.d.A.] piuttosto che l’occhio, […] questo
stesso progresso presuppone che l’occhio
non sia storico, che il vedere resti costante
attraverso i cambiamenti che coinvolgono
la rappresentazione, […] per l’occhio non
c’è stata alcuna significativa evoluzione
negli ultimi 100.000 anni»11. È un problema
di cui si occupano anche i filosofi: Maurizio
Ferraris rivolgendo la sua attenzione in
modo particolare all’uso del telefono cellulare ci racconta come «Nell’agosto 2004, il
filosofo ungherese Knstóf Nyíri, durante
l’annuale congresso wittgensteiniano di Kirchberg, mi propose un duetto con Derrida
sull’argomento, al convegno ‘Seeing, Understanding, Learning in the Mobile age’, che
si è tenuto a Budapest dal 28 al 30 aprile
2005. L’idea di fondo era che proprio il telefonino, mobile, in inglese, stia portando
delle trasformazione non calcolate, per l’appunto nel vedere, nel capire, nell’apprendere»12.
Non ritengo opportuno addentrarmi nei particolari di questo dibattito, e tantomeno pretendo di dare un ulteriore contributo riguardo al problema se la percezione sia
penetrabile o impenetrabile e fissa (kantia-
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La fotografia come estensione della memoria
namente ‘a priori’ rispetto alle nostre facoltà
percettive); intendo tuttavia utilizzare la distinzione di Noël Carroll fra ‘vedere’ e ‘notare’ laddove «Con ‘vedere’ ci si riferisce a
ciò che la percezione compie automaticamente; con ‘notare’ si indica invece il modo
in cui possiamo organizzare quel che vediamo, spesso come conseguenza di un apprendimento»13; notiamo quando organizziamo ciò che vediamo e ne focalizziamo
dei dettagli in modo diverso a seconda delle
nostre conoscenze. Riprendo le parole di
Danto: «Sappiamo che, in qualche modo,
deve esserci un’interazione tra sistemi percettivi e processi cognitivi, nel senso che noi
interpretiamo ciò che percepiamo relativamente al nostro sistema di credenze. […] È
grazie a questa interazione che la storia sopravviene alla percezione […] l’occhio non
è storico, ma noi sì»14. Potrei adattare al
nostro caso queste parole dicendo che in
una camera oscura la formazione di un’immagine tramite un obiettivo su di una superficie (pellicola o sensore pixel) non è assolutamente culturale ma obiettiva oggi così
come si presentava nel XVIII secolo a
Guardi, a Canaletto e a Bellotto, attraverso
la loro ‘camera ottica’: un’immagine capovolta rovesciata e a colori esattamente come
quella che noi oggi percepiamo con un
banco ottico. Diversamente, le manipolazioni chimiche o digitali e le scelte fra le diverse modalità di ripresa sopra accennate,
sono storiche e dipendono dai cambiamenti
culturali e dalla vicenda personale del fotografo.
In conclusione, vorrei per il momento assu-
mere che tutti vediamo nello stesso modo
ma ognuno è in grado di guardare, notare
e mettere mentalmente in relazione le cose
in modo diverso.
La nascita della fotografia, e con essa il modernismo, ha un effetto emotivo e psicologico piuttosto che fisiologico; influisce
sull’attenzione, sui tempi di osservazione,
sui criteri per una riflessione critica su
quanto ci circonda, oltre ad influire sui rituali sociali, sui comportamenti di massa,
sull’economia del nostro produrre e consumare icone. analogamente non intendo
chiedermi se l’avvento del digitale abbia ulteriormente modificato la capacità naturale
del vedere. Piuttosto mi chiedo, utilizzando
le scienze della mente e della percezione, se
sia possibile fare ulteriore luce nel rapporto
tra la memoria che abbiamo della percezione delle cose soltanto vedute e la medesima memoria nel momento in cui ne
conserviamo testimonianza anche attraverso una fotografia la quale a sua volta
viene successivamente percepita nel tempo
e a sua volta ricordata in modo diverso. Una
serie di rimandi e metalivelli nei quali cosa
resta dell’evento iniziale?
Proviamo a guardare un soggetto qualsiasi
come una casa, una vetrina, una persona e
poi volgiamo lo sguardo altrove voltandogli
le spalle. Proviamo a descriverlo nei suoi
dettagli senza averlo più davanti agli occhi.
a meno di non essere affetti da particolari
forme di autismo, ci accorgiamo immediatamente dell’estrema povertà d’informazioni consce di cui siamo in possesso; ma al
contempo della sorprendente capacità in-
113
13 N. CARROL, La modernità e la
plasticità della percezione, in
A. DANTO, M. DI MONTE (a cura
di), La storicità dell’occhio…
cit., p. 72.
14 A. DANTO, M. DI MONTE (a
cura di), La storicità dell’occhio… cit., p. 55.
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114
Corrado Fanti
15 Z. BAUMAN, Modus Vivendi.
Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, Roma-Bari
2007.
conscia di riconoscere il soggetto, anche
dopo qualche tempo, anche se in parte trasformato, e di riconoscerlo in un tempo
brevissimo. In passato i disegnatori di mestiere avevano il compito di registrare il
maggior numero possibile d’informazioni
su un soggetto quale un’antica architettura,
di cui sarebbe stato impossibile per chiunque tenerne a mente i dettagli.
Nasce la fotografia e, con un dispendio di
tempo e di denaro minimo rispetto alle arti
tradizionali, essa diventa un’estensione, potremmo dire con un termine medico e tecnico, una ‘protesi’ della nostra memoria e
anche della nostra capacità percettiva, persino nel caso dell’osservazione più attenta.
Consideriamo l’enciclopedia dell’immaginario collettivo quando gli uomini avevano
a disposizione un numero estremamente limitato di icone che rendevano loro testimonianza di ciò che si collocava al di fuori
della loro diretta esperienza. In genere ciò
che vedevano dipinto, per la maggior parte
dei casi nelle chiese, erano scene che ricordavano la vita di Cristo e dei santi e di ciò
che secondo la religione ci attende dopo la
morte; per i nobili, in più, erano i ritratti
degli antenati. Ben poco altro. oggi ognuno
di noi può attingere ad una quantità
enorme di cose viste per interposto apparecchio fotografico che, comunque, assumono il medesimo valore di ciò che
abbiamo visto direttamente, anzi, spesso,
un valore più forte, ‘mitico’.
La fotografia registra cose che a occhio
nudo è impossibile cogliere (si vedano a
questo proposito le posizioni delle gambe
dei cavalli al galoppo che, nei dipinti, finalmente appaiono corrette solo dopo le fotografie di Muybridge). Questa ‘protesi’ ci
soccorre come un deposito di copie del
mondo reale che, nonostante esse siano una
traduzione in parte infedele e mai possano
costituire un ‘doppio’ del reale, tuttavia può
integrare in modo sorprendente la nostra
memoria naturale: e non si tratta solo di
memoria di sembianti ma anche di emozioni e sensazioni. La fotografia è buona testimone del fatto che, al di là di ogni
distorto ricordo dei testimoni, pur nella
loro massima buona fede, le cose stavano in
un certo modo e non in un altro.
almeno questa era la situazione ai tempi
della fotografia analogica: ora con il digitale
potremmo mostrare agli amici un autoscatto sullo sfondo delle cascate del Niagara, quando in realtà abbiamo trascorso il
fine-settimana in campagna dalla nonna,
appena fuori porta.
In che misura la fotografia digitale rappresenti una perdita di quel tipo di affidabile
protesi della memoria è un ulteriore problema che forse meriterebbe di essere affrontato in questa nostra ‘modernità
liquida’15.
La fotografia – analogica – è diventata dunque fin dall’inizio una memoria, anche collettiva, dalla quale in qualsiasi momento
possiamo attingere una quantità impressionante di dettagli in assenza della percezione
del reale che essa ha registrato, che a loro
volta possono essere ‘notati’ e non semplicemente visti da chi dopo qualche tempo
osservi nuovamente la medesima fotografia,
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La fotografia come estensione della memoria
forte di nuovi interrogativi. In fondo è questa la principale funzione che, a livello di utilizzo di massa, abbiamo attribuito alla
fotografia: quella di ricordo della nostra storia personale, delle immagini più importanti
che conserviamo nel portafoglio, quelle dei
nostri figli. Si tratta dunque della registrazione della realtà, e insieme la registrazione
di ciò che abbiamo scelto, del ‘modo’ in cui
abbiamo registrato e di ciò che della realtà
abbiamo pensato sulla base dei nostri valori.
Il discorso è completamente diverso nel
caso di un artista che per comunicarci le immagini e i fantasmi della sua creatività si
serve di chimica e ottica piuttosto che di
sanguigna, fusaggine e pigmenti. Mi riferisco al caso di un artista che forza e spinge il
mezzo ottico ad andare oltre alla mera riproduzione del reale per approdare magari
a forme di iperrealismo magico, di surrealismo, di suggestioni metafisiche o di arte minimalista o concettuale.
Vi è un aspetto di tipo neuroscientifico che
riguarda il rapporto fra la mente e gli strumenti di cui ci serviamo, apparentemente
distante dal nostro discorso, sul quale voglio intrattenermi un attimo.
Nel 1998 esce sulla rivista «Nature» un articolo nel quale Matthew Botvinick e Jonathan Cohen, due neuroscienziati del
Dipartimento di Psichiatria e Psicologia
della Carnegie Mellon, la famosa università
di Pittsburgh, riferiscono di un esperimento
che in seguito avrà importanti sviluppi16. In
questo esperimento un soggetto attribuisce
la forte sensazione tattile, soggettiva, a una
mano di gomma che gli sperimentatori avevano posto su di un tavolo al quale egli era
seduto, nella normale postura di chi vi poggia sopra ambedue le mani: una mano era
appoggiata sul tavolo mentre l’altra era nascosta al di là di uno schermo, non visibile,
e, al suo posto, sul tavolo, era collocata in
maniera speculare e simmetrica, quella di
gomma in posizione assolutamente naturale.
Quindi, mentre il soggetto riceveva sulla
mano nascosta alla sua vista stimoli di varia
natura, i medesimi stimoli erano contemporaneamente praticati sulla mano di gomma,
sotto i suoi occhi. In seguito a queste ripetute stimolazioni i soggetti riferivano di
avere perduto in parte la sensazione della
mano vera, di sentirla ‘gommosa’, di avere
la sensazione che il braccio di gomma appartenesse al loro corpo e addirittura di provare dolore se ad esso erano forniti degli
stimoli dolorosi, senza che la mano reale
fosse minimamente toccata. I soggetti, richiesti di toccare ad occhi chiusi con la
mano posta sul tavolo l’altra – quella vera –
tendevano a dirigere la prima verso l’arto di
gomma o commettevano errori nell’afferrare quella reale, a lungo nascosta alla vista.
È questo un esperimento che riguarda il
problema della propriocezione, ovvero della
percezione di sé, complementare al sistema
ideato dal neuroscienziato Ramachandran
noto per aver trovato un sistema del tutto
psicologico per risolvere i terribili problemi
dei dolori all’‘arto fantasma’ percepiti da
persone cui era stato per l’appunto amputato un arto; tale sistema è basato semplicemente su di uno specchio, «un congegno a
115
16 M. BOTVINICK, J. COHEN, Rubber hands ‘feel’ toutch that
eyes see, in «Nature» 391,
756 | doi: 10.1038 / 35784 (19
febbraio 1998).
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Corrado Fanti
17 V. RAMACHANDRAN, Che cosa
sappiamo della mente, Mondadori, Milano 2004.
18 Cfr. J.-F.DORTIER (sous la direction de), Le cerveau et la
pensée. Le nouvel âge des sciences cognitives (1a éd. 1998),
Sciences Humaines Éditions,
Auxerre Cedex 2011; A. CLARK,
D.J., CHALMERS, The extended
mind, in «Analisys», 58:1,
1998, reprinted in The
Philosopher’s Annual vol. XXI1998 (Ridgeview, 2000),
reprinted in D. CHALMERS (ed.),
Philosophy of mind: classical
and contemporary readings,
Oxford University Press, Oxford 2002.
specchio che fa rivivere la mano fantasma»17
e su di una situazione ‘ingannevole’, in qualche misura analoga a quella sopra descritta.
Queste evidenze mediche propongono il problema ontologico della ‘definizione’ del nostro corpo e dei suoi limiti, formulato con la
nota domanda filosofica: il non vedente
‘sente’ il terreno nella mano che tiene il bastone o lo sente sulla punta del suo bastone?
Dove finisce il suo corpo, nella mano o nella
punta del bastone che saggia il terreno e fino
a che punto il bastone è diventato tutt’uno col
suo corpo? Si tratta del problema della mente
estesa e della cognizione estesa ovvero dell’estensione del sé della mente a oggetti del
mondo esterno e a strumenti tecnologici18.
Credo che il quesito possa porsi anche riguardo al fotografo. Quando costui guarda
nel mirino di una macchina fotografica, vede
la realtà inquadrata dalla macchina o vede il
vetro smerigliato della macchina sul quale è
proiettata un’immagine leggermente diversa
rispetto a quella della realtà direttamente percepita? La differenza non è poi tanto sottile.
Quale rapporto conscio/inconscio, percettivo, ma anche emotivo, denso di sensazioni
ed emozioni, se non di sentimenti, lega un fotografo alla sua macchina? Qual è quel fotografo che vedendo un bambino che gli afferra
l’apparecchio e che sta per toccare l’obiettivo
con un dito umido dei suoi umori non prova
un vero e proprio fastidio fisico? Quanto
l’apparecchio fotografico diventa un prolungamento dell’occhio-mente del fotografo e
quale immagine mentale egli si forma della
realtà nel momento in cui essa è filtrata da
questo strumento?
Dopo alcuni decenni di fotografia – prevalentemente in bianco nero – posso testimoniare circa la mia difficoltà di accontentare
chi mi richiedeva di eseguire riprese, nello
stesso tempo, in bianco e nero e a colori. Ricordo di avere suscitato ilarità rispondendo
che, almeno per l’arco di un’intera giornata
di riprese, era nella mia mente che avevo
messo la pellicola in bianco-nero e che non
riuscivo contemporaneamente a ‘notare’ le
cose a colori. La percezione delle forme secondo i rapporti luce-ombra, secondo le
gradazioni tonali e i contrasti è ben diversa
da quella prodotta dall’attenzione ai valori
cromatici. D’altronde ai principianti di disegno, il ‘maestro’ suggerisce di osservare il
soggetto attraverso un vetro leggermente affumicato per vederlo annullandone il colore, rassicurandoli che, con tanto esercizio,
avrebbero finito per osservare i valori tonali
trascurando i colori del soggetto, ovviamente da recuperare per le lezioni di pittura e per la vita quotidiana.
analogamente, posso affermare che spesso
sono stato condotto a fare sopralluoghi
sulla scena dove avrei dovuto eseguire riprese, nel corso dei quali le ‘scoperte’ visive
erano relativamente scarse. Tornando sul
luogo in seguito, da solo, munito della specifica attrezzatura, ciò che notavo tramite lo
schermo fotografico, era qualcosa di nuovo
e sorprendente rispetto ciò che prima avevo
soltanto guardato: il soggetto mi appariva
in un crescendo di scoperte visive lungo un
percorso che mi sembrava quasi indicato e
offerto dall’apparecchio fotografico.
Del legame che si crea fra l’apparecchio e il
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La fotografia come estensione della memoria
suo possessore sono esemplare testimonianza le parole affettuose con le quali
ando Gilardi racconta la propria esperienza. «L’anima della fotografia di quel periodo semmai è quello della mia Leica:
l’apparecchio fotografico che più ho
amato»19. In questo testo che si presenta
sotto forma di un’intervista, l’interlocutrice
a ben ragione osserva: «La vedo illuminarsi
mentre parla della Leica... È stato proprio
il suo grande amore fotografico». Gilardi le
risponde «Parlo per esperienza vissuta: non
deludere troppo, anzi quasi mai, fu una
quota essenziale dell’incantesimo della
Leica, usurpato a partire dagli anni sessanta
dal nuovo fascino più volgare delle ‘reflex’
giapponesi»20.
Credo possa essere opportuno, dal punto
di vista della riflessione storica contemporanea, interrogarsi se l’uso di massa della fotografia con il cellulare abbia raffinato o
banalizzato la capacità di ‘notare’ la realtà, di
individuare modalità diverse e personali di
osservazione. Potremmo ancora chiederci se
il vorticoso consumismo che oggi rende obsolete le attrezzature fotografiche dopo pochissimo tempo abbia indebolito il (tenero)
attaccamento del fotografo al suo apparecchio; in quale misura si siano frammentate
l’estensione della memoria in cui consiste la
fotografia e le relative funzioni che essa ha
esercitato nei centocinquant’anni che hanno
preceduto l’esplosione del digitale.
Torniamo all’analisi concettuale della produzione dell’immagine da parte di un fotografo. In sintesi la struttura della situazione
è la seguente: il fotografo si trova dietro al
suo cavalletto ‘al di qua’ della lastra fotografica, con la sua storia, la sua attrezzatura
concettuale, le sue scelte e condizionamenti; ‘al di là’ c’è la realtà vera, quella che
Godard nel film Due o tre cose che so di lei,
(1967) si chiedeva perché mai chiamassimo
oggettiva «dal momento che di un oggetto
abbiamo soltanto visioni soggettive». La realtà ‘in sé’, parafrasando Kant, è definitivamente dichiarata inconoscibile dalla stesura
e dalle argomentazioni della Ragion Pura.
Tuttavia, prendendo le distanze da un relativismo in voga qualche decina di anni or
sono, credo che possiamo ben dire, invocando sempre il ‘buon senso’, che se davanti a noi s’innalzano le vette delle alpi
non possiamo certo affermare che la ‘costruzione’ mentale della nostra percezione
assuma le forme di un paesaggio marino, affermazione che ci renderebbe mentalmente
disturbati. Carr, il noto storico e metodologo inglese, nelle sei lezioni tenute dal
1960 presso l’Università di Cambridge, osservava che «il fatto che una montagna assuma forme diverse a seconda dei punti di
vista dell’osservatore non implica che essa
non abbia alcuna forma oggettiva»21. ad
ogni buon conto essa resta pur sempre una
montagna!
La distinzione di due spazi, al di qua e al di
là della lastra fotografica a mio avviso è
molto importante anche per la schedatura
di materiali storici: può essere utile chiarire
graficamente, attraverso l’organizzazione
degli spazi della scheda, dove si stanno registrando dati relativi al soggetto fotogra-
117
19 A. GILARDI, Meglio ladro che
fotografo, Bruno Mondadori,
Milano 2007, p. 82.
20 Ivi, p. 85.
21 E.H. CARR, Sei lezioni sulla
storia, Einaudi, Torino 1966.
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22 R. QUENEAU, Exercices de
Style, 1a ed., Gallimard, Paris
1947; èdition nouvelle, Gallimard, Paris 1995.
23 A.C. QUINTAVALLE, Messa a
Fuoco… cit.
fato o viceversa dove vengono annotati i
dati che riguardano la persona che ha ‘ritagliato’ il momento, il luogo, e la porzione di
soggetto ripreso, che ha scelto di rappresentarlo con una sola immagine o con una sequenza che si pone come un vero e proprio
racconto… Se pensiamo al problema di
tipo ontologico che il fotografo può porsi,
ossia quello di stabilire i limiti che definiscono un soggetto da fotografare, ad esempio dove finisce l’eventuale edificio che si
vuole riprodurre, se ne siano parte integrante le relazioni di continuità/discontinuità che esso intesse con la strada, con gli
altri edifici situati all’interno della cerchia
delle mura cittadine e le relazioni che la
città medesima intrattiene con il territorio
e il paesaggio circostante, la decisione in
merito è una ‘scelta’ precisa e determinante
per conferire un determinato senso alle riprese fotografiche.
Per ora interroghiamoci quindi su quello
che succede al di qua della lastra: sul fotografo, sul ‘come’ e sul ‘perché’.
Diamo per scontati gli aspetti tecnici che
permettono di interpretare e manipolare in
più modi il medesimo oggetto, cosa che
oggi, col digitale, è ancor più facile, al
punto che siamo portati a non dare ad una
fotografia maggiore attendibilità di quanta
non potremmo dare ad un disegno. Prendiamo in considerazione le diverse attrezzature mentali, le differenti modalità
concettuali e di esecuzione tecnico-linguistica che permettono, nei confronti del medesimo oggetto, di comunicare il diverso
‘senso’ che via via gli possiamo attribuire
come in un Gioco di Stile di Queneau. Si
veda la stupenda edizione del 194722, oppure le successive edizioni del 1963, o del
1979, per i tipi di Gallimard, dove le diverse
stesure della medesima struttura narrativa
sono stampate con opportuni differenti caratteri tipografici e accompagnate da disegni, collage, opere grafiche, fotografie…:
ognuna è intonata, se così possiamo dire, ad
ogni stesura del testo a seconda dello stile
particolare che la connota, in modo da formare un’unità di comunicazione coerente e
complessa.
La prima cosa da prendere in esame è la
motivazione che spinge il fotografo a realizzare una ripresa e ad osservare un soggetto, prestando attenzione e mettendo a
fuoco qualcosa di ben preciso, e secondo
una peculiare modalità, isolandolo da quella
parte di contesto che viene eliminata o cui
viene dato il ruolo di sfondo indistinto.
Quintavalle osserva come nell’operazione
di organizzazione e conservazione di materiali storici sia forte la tendenza a raggruppare i materiali fotografici attraverso una
griglia concettuale che li distingue sulla base
degli oggetti raffigurati piuttosto che della
finalità della loro rappresentazione23. Più
raramente si imposta il discorso partendo
dalle motivazioni profonde del fotografo e
dalla concettualità attraverso la quale questo
testimone ha filtrato una particolare interpretazione delle cose. Qualunque fotografo,
al pari di noi tutti, si trova calato in una situazione storico culturale precisa, con i suoi
valori (o non-valori), ovvero quella che negli
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La fotografia come estensione della memoria
anni Settanta molti filosofi chiamavano
‘ideologia’ (nel senso di criteri culturali di
riferimento accettati inconsapevolmente in
quanto ritenuti naturali) che tende a condizionare molte delle sue scelte. analogamente, anche chi conserva e organizza un
fondo di fotografie storiche può inconsapevolmente sovrapporre a quella del fotografo la propria ideologia, ad esempio attribuendo a certe immagini un particolare
senso, estraneo alle intenzioni dall’autore
ma che il conservatore rileva sulla base di
una sensibilità che si è evoluta in tempi successivi.
Ciò che è recentemente accaduto con l’avvento del digitale va a complicare notevolmente le riflessioni ed i conseguenti criteri
dell’operare del critico e del conservatore.
Quella che definiamo fotografia storica e i
relativi fondi conservati hanno una consistenza e un’identità che consentono un lavoro di analisi critica relativamente agevole.
Tuttavia se per un attimo dimentico il ‘glorioso’ passato della fotografia, da quella
pionieristica fino agli anni Settanta e mi riferisco solo alla contemporaneità, mi trovo
a riflettere sul fatto che Instagram, il popolare sito di condivisione d’immagini acquisito da Facebook, ha riferito che ogni
giorno sul suo network si pubblicano cinquantacinque milioni di scatti, 38.000 al minuto. Mi domando: nel panorama attuale
dei riti di consumo di massa cosa spinge
all’atto compulsivo del ‘selfie’, che poi altro
non è se non un ‘autoritratto’, espresso però
con la dilagante quanto provinciale esterofilia linguistica? «Fino a non molto tempo
fa, girare per una città (specie se non turistica) e vedere qualcuno che faceva fotografie era raro. ora invece tutti fotografano,
per strada, in pizzeria, ovunque, trovi sempre chi sta immortalando (cioè, alla buona,
registrando) un momento, o sta guardando
sul telefonino una foto che gli è appena arrivata»24.
Naturalmente, come accade a tutti i fenomeni che assumono proporzioni di massa,
anche i commenti sui fenomeni stessi si
moltiplicano: anche gli psicologi s’interrogano sulle motivazioni di tali fenomeni e ci
si chiede se la mania degli autoritratti sia una
ricerca attraverso un mezzo di comunicazione nuovo o se possa essere considerata
una forma di narcisismo dilagante. a proposito di narcisismo, consideriamo le parole
di Lowen scritte all’inizio degli anni ottanta: «La proliferazione delle cose materiali
diventa la misura del progresso nel vivere
[…] Quando la ricchezza occupa una posizione più alta della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità e
quando il successo è più importante del rispetto di sé, vuol dire che la cultura stessa
sopravvaluta l’’immagine’ e deve essere ritenuta narcisistica»25.
Subito dopo, che ne è della quantità mostruosa degli scatti eseguiti con i cellulari?
Quanti sono quelli presenti in una nazione
in un dato momento e in un anno ogni cellulare quanti scatti esegue? Parlo di cellulari
poiché è sempre più raro e a me provoca
una certa tenerezza, vedere qualcuno con
una macchina fotografica a tracolla mirare
eseguendo con attenzione l’inquadratura,
119
24 M. FERRARIS, Dove sei?... cit.
25 A. LOWEN, Il narcisismo.
L’identità rinnegata, Feltrinelli, Milano 1985.
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spostandosi leggermente per modificarla…
fino al punto giusto.
Il cambiamento di paradigma riguarda non
solo la pratica quotidiana o le fotografie
amatoriali ma investe anche l’aspetto professionale della fotografia. Nella precedente
era dell’analogico spesso le industrie affidavano ai grandi fotografi sia il compito creativo sia quello esecutivo di una campagna
pubblicitaria. Il fotografo era un autore, un
ricercatore, un analista la cui visione del
tutto personale era riconosciuta e ben riconoscibile. Pensiamo all’assoluta personalità
delle opere di autori come Richard avedon
o helmut Newton, per citare alcuni dei
maggiori, dotati di linguaggi così diversi sia
pur lavorando all’interno dello stesso genere. allora poteva prendere corpo ed essere condotta a termine l’idea di una
produzione totale a cui il fotografo partecipava attivamente fin dalla nascita dell’idea
della comunicazione, per giungere alla realizzazione, alla grafica, all’impaginazione.
oggi riscontriamo che il fotografo ha sempre minori margini di autonomia ideativa
così come il segno dei diversi fotografi è a
mio avviso sempre meno distinguibile: la
produzione è parcellizzata attraverso una
catena di montaggio di competenze specialistiche e al fotografo è imposto anche un
segno che non sia tanto distintivo dell’autore quanto unicamente del prodotto, un
segno le cui caratteristiche anonime gli vengono indicate dalle indagini di mercato con
finalità unicamente economiche. Il mercato
dà al consumatore ciò che egli vuole e nel
consumatore si deve indurre il bisogno di
ciò che il mercato produce. Si entra in un
circolo vizioso nel quale l’inventiva, la novità, i linguaggi personali vengono sempre
più sacrificati e si appiattiscono in una banalità stereotipata e ripetitiva.
Raccolgo la testimonianza di Fabio Caria,
da più di trent’anni titolare e ‘tecnico’ di
un laboratorio fotografico per autori e professionisti (‘BT&C Laboratorio di trattamento di immagini fotografiche e digitali’),
il quale si è sempre fatto carico di un’attenta
riflessione teorica sulla fotografia anche
come promotore d’incontri di carattere culturale: «oggi la definizione di laboratorio
fotografico è completamente svuotata. […]
parlo di un cambiamento assoluto di paradigma. […] La memoria di esperienze precedenti non è più accettata nel confronto e
nel passaggio al digitale […] quello fotografico non è più un ‘campo’ ma solo un
mercato […] Non possiamo più parlare di
‘memoria’ o meglio di percorso della memoria […] oggi usiamo i ‘linguaggi’ come convenzioni, nominiamo cose che non conosciamo, ma che ci permettono di vantarci di
conoscere […] occorre affrontare la fotografia e conoscerla come percorso storico stratificato […] oggi che sono in corso cambiamenti epocali del suo linguaggio e dei suoi
statuti, della sua tecnica e della sua identità,
del suo ruolo sociale e del suo mercato».
Lavoro d’équipe o piuttosto catena di montaggio? D’altronde mi sembra di poter registrare una certa rinascita generale di un
modo di produzione di tipo tayloristico.
Forse il fatto che il cambiamento degli ultimi decenni ci abbia portato in una dimen-
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La fotografia come estensione della memoria
sione diversa fa sì che gli aspetti e le modalità della fotografia storica possano apparirci sotto una veste nuova e che se ne stia
modificando il nostro giudizio critico.
Facciamo un passo indietro nella storia, e
fermiamoci a prima che apparisse il digitale.
Come storici e conservatori di archivi fotografici, non dovremmo forse segnare una
periodizzazione che individua una frattura
fra il periodo dell’analogico e quello del digitale così come il Direttore di una Pinacoteca distingue le sale del Rinascimento da
quelle del Barocco? Il digitale poi, rispetto
all’analogico, pone precisi e nuovi problemi
di conservazione: il tecnico mi raccomanda
di conservare i file delle immagini anche in
almeno due memorie esterne parallele; ancora, di duplicarli dopo qualche anno,
anche se vengo avvertito di non essere
troppo ottimista, in quanto ogni passaggio
d’informazioni comporta un inevitabile decadimento delle stesse e della struttura che
tende inevitabilmente al ‘disordine’. Non
parliamo poi delle stampe la cui durata è assicurata per tempi risibili rispetto a quelli
dei supporti ai sali d’argento (analogici)
trattati con gli opportuni viraggi. Se vogliamo conservare immagini di notevole importanza artistica, la stampa controllata e
approvata dall’autore ha vita breve: quando
costui sarà venuto a mancare e dell’immagine resterà il solo file, come sarà possibile
ristampare la fotografia così come cromaticamente è stata voluta dall’autore, dal momento che, a seconda delle stampanti, degli
inchiostri, dei tipi di carte, ecc. il risultato
è sensibilmente diverso? a quale ‘originale’
è possibile fare riferimento? La risposta che
mi viene data dal mercato è che la fotografia
digitale è fatta per essere usata, dopo di che
non ‘serve’ conservarla. Sul piano scientifico pare vi siano soluzioni, ma non so
quanto siano economicamente sostenibili.
Il mondo attuale dell’informazione è forse
destinato ad una perdita della memoria?
Magari dovuta anche al fatto dell’enorme
produzione che scoraggia l’idea di conservare tutto questo materiale.
Ma torniamo ai tempi dell’analogico e all’analisi di ciò che avviene al di qua della lastra fotografica.
Pensando allo studio e alla classificazione
delle fotografie, ho ritenuto opportuno utilizzare concettualmente un modello strutturato come una tabella a doppia entrata
nella quale le righe orizzontali classificano
e suddividono un corpus d’immagini sulla
base dei tradizionali generi (soggetti); al
contempo le colonne verticali le suddividono in base alle differenti poetiche e specifici linguaggi.
Privilegerò questo secondo modo di classificare le immagini, a mio avviso più utile.
Pensiamo ad esempio a come due immagini
che riproducono soggetti assolutamente
differenti, un profumo e un’automobile,
pubblicati nelle pagine pubblicitarie di una
rivista patinata possano comunicare il medesimo senso di piacere tattile e il relativo
desiderio di possesso. oppure come lo
stesso genere di soggetto, ad esempio l’interno di una casa, possa comunicare due
cose assolutamente distanti nel momento in
121
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26 R. BARTHES, Miti d’oggi… cit.
cui, in un caso l’interno di una dimora con
arredi d’industrial design sia riprodotto in
una rivista d’architettura, e nell’altro siano
documentate le misere condizioni di una
stanza di contadini del sud ripresi nel corso
di un’indagine sociologia sulla vita delle
classi subalterne. Un’eventuale classificazione che inserisse le due immagini nella
stessa categoria ‘interni di case’ sarebbe
quanto meno fuorviante per chi conducesse
una precisa ricerca all’interno di un archivio
fotografico.
allo scopo di individuare tassonomie utili
alla classificazione di materiali fotografici
ritengo possa essere opportuno distinguere
tre situazioni di carattere economico, corrispondenti a tre diverse motivazioni che
hanno condotto alla realizzazione di una fotografia.
La prima consiste nel soddisfare la richiesta
di un committente che è disposto a investire
del denaro. all’interno di questa categoria
possiamo inserire il fotogiornalismo e la fotografia di cronaca, (per comodità aggiungiamo la fotografia di costume, di
spettacolo…) che propone una lettura événementielle, e di tipo narrativo. In secondo
luogo, ricordiamo la fotografia di cerimonia
e di autorappresentazione realizzata da
quello che un tempo era il fotografo di bottega. La fotografia di riproduzione assume
una funzione di tipo scientifico e oggettivamente documentario senza concedere alcuno spazio all’interpretazione. Quarta: la
fotografia pubblicitaria o celebrativa che
presuppone l’intento della valorizzazione
dell’oggetto, il quale assume un forte con-
tenuto simbolico che si dilata e si consuma
come ‘mito’ nel senso utilizzato da Barthes26. Infine la fotografia glamour ed erotica: al di là del soggetto ‘nudo’, vorrei
distinguere questo tipo di fotografia da
quello pubblicitario. Un raffinato nudo di
donna può suggerire in modo prevalente
l’idea di un profumo o di una lingierie ma
anche di una automobile, così come una fotografia di food può essere connotata da
una grande raffinatezza erotica. al contrario un nudo espresso con un linguaggio più
diretto e volgare (sempre che non voglia essere una provocazione artistica di tipo
espressionista) è rivolto al piacere emotivo
ed istintuale così potente nel genere umano
e fonte di tanto guadagno editoriale. Per
fare un esempio della trasversalità dei linguaggi rispetto ai generi, Bruno Zevi intitolò un articolo nella sua rubrica di
architettura su «L’Espresso» Quella casa è
una pin up (conservo in archivio la pagina
ma purtroppo non ho annotato l’anno e il
numero), aggiungendo che l’erotizzazione
e l’abbellimento sono requisiti della pubblicità in generale; Zevi conclude affermando:
«Nulla di strano, quindi se l’informazione
architettonica si congela in foto di edifici
‘pin-up’ eternamente giovani».
Forse la distinzione fra questi due ultimi
linguaggi finisce per tradursi in una distinzione fondata su di un giudizio di valore:
quello della raffinatezza che può anche arrivare a tradursi in arte (penso ai nudi di
Man Ray o di Edward Weston, così come
quelli con un segno tanto differente, di helmut Newton) e quello della volgarità e della
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La fotografia come estensione della memoria
‘bruttezza’27, che va dall’erotismo vero e
proprio al cattivo gusto dei rotocalchi di
gossip con la copertina che espone il topless
o il lato b di personaggi noti violati nella
loro (presunta) inconsapevolezza della ripresa fotografica. Sul piano della conservazione si potrebbero semplificare le cose
decidendo di non prendere in esame la produzione infima della fotografia, ma cosa direbbe il sociologo di una scelta tanto
selettivamente moralistica o estetizzante?
Certo è problematico il percorso nello spazio tridimensionale individuato dai tre vettori dei generi, dei linguaggi e del giudizio
di valore estetico.
In una terza categoria (della seconda, a cavallo fra queste prime due, parleremo dopo,
in quanto andranno a seguire più precise riflessioni in merito) possiamo classificare la
fotografia eseguita al di fuori di una committenza, che ‘auto appaga’: dalla fotografia
come ricerca artistica (finché non intervengono gli interessi dei galleristi) fino alla fotografia fotoamatoriale. Le immagini sono
realizzate con totale libertà di chi le fa o almeno questa è la sua opinione, poiché il
farle appaga di per sé. Il fotografo artista si
esprime e si muove in uno spazio creativo,
del tutto libero nelle sue scelte, anche se mi
chiedo quanto spesso, nella dialettica e nel
confronto con la realtà concreta, l’arte sia
stata davvero libera e svincolata dal mercato: forse solo in un periodo dell’ottocento e nell’ambito di alcune avanguardie
del Novecento questo può essere accaduto,
anche se questi episodi hanno creato nel
pensiero collettivo l’idea romantica dell’artista motivato sempre e ‘puramente’ dalla
libera ispirazione.
Siamo all’interno della categoria del pittorico, quanto mai vasta e sfumata: dal pittoricismo ottocentesco o dall’uso della fotochimica per creare immagini informali fino
alle stranianti provocazioni d’installazioni.
Il denominatore comune consiste nel considerare la fotografia non tanto come uno
strumento con una funzione nell’ambito
della comunicazione quanto come un oggetto finito che determina autonomamente
e contiene in sé la propria giustificazione
estetica. Naturalmente si possono dare situazioni nelle quali un fotografo artista,
come l’abbiamo appena tratteggiato, utilizza
la propria sensibilità e capacità in ambito
pubblicitario: cito solo oliviero Toscani fra
gli altri per le interessanti interviste che ha
rilasciato al proposito. Purtroppo nella maggioranza dei casi la fotografia di evasione
vede il fotoamatore compiere un rito sovente fine a se stesso, nel quale sono investiti
tempo libero e denaro, catturato, come lo
siamo noi tutti, dai meccanismi dietro i quali
si cela la sottile persuasione pubblicitaria
che condiziona al consumo di apparecchi
costosi piuttosto che all’affinamento di poetiche personali. L’autore si ritiene libero,
tuttavia è possibile verificare come spesso
le immagini realizzate finiscano per riprodurre modelli iconici e stereotipi visivi mutuati dai grandi autori le cui immagini si
trasformano in miti e in topoi nell’imitazione
dei quali il fotoamatore misura la propria
abilità, sempre a patto che abbia acquistato
123
27 U. ECO (a cura di), Storia
della bruttezza, Bompiani, Milano 2007.
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28 A.C. QUINTAVALLE, Messa a
Fuoco… cit.
l’apparecchio di cui l’autore-mito si è reso
sponsor.
Infine consideriamo anche l’inoffensiva fotografia di puro ricordo come semplice riproduzione di qualcosa che si vuole
conservare, affinché resti presente ciò che
ormai non è più.
a cavallo di questi due principali linguaggi
intendo collocare la fotografia concettuale
e d’indagine che, per dirla semplicemente,
conserva la libertà espressiva del modello
fotoamatoriale, persegue intenzioni estetiche
attraverso le quali l’autore si esprime con un
linguaggio personale, ma che si colloca all’interno di un processo di comunicazione
teso a interpretare la realtà nell’impegno e
nella consapevolezza dell’operazione che si
sta compiendo.
Dedicherò un maggiore spazio a questo registro espressivo poiché è quella cui ho
fatto principalmente riferimento nel lavoro
fotografico che viene presentato in mostra
contestualmente al presente convegno.
Questa modalità operativa è quella specifica di chi assume le vesti dell’operatore culturale godendo di una notevole libertà
rispetto ai possibili condizionamenti della
committenza. anche le altre due aree descritte sono dotate (quando lo sono) di una
qualche concettualità che informa le scelte
operative, ma uso questo termine per meglio definire una fotografia consapevole di
essere una traduzione della realtà attuata secondo una concezione intenzionale, autonomamente assunta e dichiarata. Sovente il
preciso soggetto della fotografia diventa se-
condario rispetto al tipo di problema che
l’operatore vuole esprimere, al punto che è
quest’ultimo ad essere il vero soggetto dell’immagine che ne diviene espressione metaforica. Il fotografo rende espliciti i criteri
ai quali il suo pensiero è informato, cosicché la fotografia, nel rappresentare se stessa
come operazione, oscilla in un’altalena fra
linguaggio e metalinguaggio producendo
spesso, in questo modo, un particolare
senso di straniamento (si vedano le fotografie di Wenders degli anni Settanta).
Non mancano, e sono fra i più interessanti,
gli episodi storici che possono essere ricondotti a questa modalità espressiva: farò unicamente riferimento all’episodio della Farm
Security Administration nell’america dal
1929 che durò una decina d’anni e alle recenti campagne di Paolo Monti. Per quanto
riguarda la prima si pensi ai nomi di W.
Evans, D. Lange, B. Shahn, a Rothstein, J.
Delano… tutti estremamente diversi, con
un segno personale assolutamente distintivo, ma, come dice Quintavalle28, per tutti
c’è un punto di partenza comune che ha
fatto sì che si potesse parlare di uno stile
della FSA. Ciò che li unisce, di fatto, non
sono il linguaggio o le poetiche personali, e
neppure il genere dei soggetti fotografati,
bensì l’intenzione ‘politica’, nel senso nobile, aristotelico, del termine, quello della
riflessione sul problema storico e sugli
aspetti della terribile crisi del 1929.
L’identificazione di questi tre ambiti può
portarci a chiarire la distinzione che separa
la fotografia come atto economico o edonistico da quella come atto politico, pur nella
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La fotografia come estensione della memoria
consapevolezza di non poter mai sottrarsi
totalmente al concetto di mercato.
L’altro esempio di cui mi voglio rendere testimone, anche per una personale conoscenza, è quello di Paolo Monti. a
proposito di Monti scrive andrea Emiliani
«al di là dei pur splendidi valori formali,
era sempre sottesa all’immagine una complessità di connessioni, di legami, di inventiva continuità del lavoro umano, tale da
corrispondere pienamente e sempre a quel
concetto di globalità conservativa che era
divenuto un punto fermo dell’esperienza
delle campagne di rilevamento»29.
Monti era del tutto calato nel problema
della conservazione del nostro patrimonio
artistico urbanistico paesaggistico, nell’accezione più larga che il termine ‘bene culturale’ può comprendere. Il suo era lo
sguardo che lavorava di concerto con il Soprintendente conservatore e l’architetto impegnato nel progetto di tutela e di restauro
della città: mi riferisco a Pierluigi Cervellati
ideatore e realizzatore del recupero complessivo dei centri storici, dell’attuazione
delle isole pedonali e del restauro conservativo del tessuto storico, anche non monumentale, della città antica30.
Per molti dei miei lavori fotografici la finalità e il metodo furono gli stessi, come
quello con il quale ho realizzato le immagini
che sono presentate, come dicevo, contestualmente a questo convegno. Il lavoro,
pur eseguito con un investimento di tempo
per le riprese molto limitato, è stato quello
di cogliere le specificità di un territorio, il
senso del genius loci, cosa sovente più age-
vole per uno sguardo non nativo dei luoghi.
L’occhio estraneo (penso a Monti, milanese,
in Emilia-Romagna), purché ben educato
alla visione, riesce talvolta a sorprendersi e
a cogliere ciò che, per chi è nato e vissuto
in un territorio, può essere percepito come
‘normale’. osserva Gombrich parlando
della nostra capacità di osservare la natura,
e per fare questo cita Ruskin, che «la verità
di natura non può essere colta da sensi non
educati […] abbiamo capito che non è possibile separare nettamente ciò che vediamo
da ciò che sappiamo»31. Il sapere non è
tanto legato ad una assidua frequentazione
di una precisa situazione, quanto piuttosto
a una grande esperienza e memoria di diverse altre, tutte viste all’interno di uno specifico universo di problemi, cosa che
consente gli opportuni confronti.
Sia per lo storico dell’arte sia per lo studioso del territorio così come per l’artista,
che al territorio s’ispira per leggerlo e interpretarlo, è imprescindibile l’esperienza continua del guardare e riguardare le medesime
cose che mai appaiono sempre le stesse e
rapportarle continuamente alle nuove. È
solo sulla base dei confronti (e a buona ragione Roberto Longhi intitolò la sua rivista
di critica d’arte, la più autorevole del Novecento, «Paragone») che possiamo cogliere problemi sempre nuovi e vivi, in
quanto solo così siamo in grado di vedere
ciò che diversamente potrebbe sfuggirci.
È ancora Gombich che dichiara: «ogni osservazione, come ha messo in evidenza Karl
Popper, è il risultato di un interrogativo che
noi rivolgiamo alla natura e ogni interroga-
125
29 A. EMILIANI, ‘Introduzione’, in
A. BACCILIERI, J. BENTINI (a cura
di), Il Patrimonio Culturale
della Provincia di Bologna. I.
Gli Edifici di Culto del Territorio
delle Diocesi di Bologna e
Imola, Rapporto della Soprintendenza alle Gallerie di Bologna, n. 15/1973, Alfa,
Bologna 1973-1974.
30 P. CERVELLATI, La città postindustriale, Il Mulino, Bologna
1984.
31 E.H.J. GOMBRICH, Arte e illusione… cit.
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126
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32 Ivi.
33 H. FOCILLON, Vita delle forme,
Minuziano, Milano 1945.
tivo presuppone un’ipotesi, sia pur provvisoria […] si deve avere un punto di partenza, un termine di confronto se si vuole
iniziare quel processo di fare e confrontare
e fare di nuovo che alla fine si realizza nell’immagine compiuta. L’artista non può
partire da zero»32 dotato della sola bravura
tecnica o della sua ‘ispirazione’, come potremmo aggiungere noi sorridendo tuttavia
su questo facile mito. L’intento di Monti
non era tanto quello della sola documentazione, pur indispensabile per ogni intervento di programmazione, tutela e restauro,
e neppure quello di realizzare unicamente
immagini di ricerca estetica. La cosa che mi
sorprese, nel vedere alcuni suoi lavori nella
sua casa di Milano, era l’assoluta unità di
forme, linguaggio ed espressione nelle fotografie quasi astratte e materiche dei ‘muri’
e in quelle eseguite nei centri storici, utili
agli urbanisti e agli architetti. La sua era una
grande capacità di cogliere le ‘forme’33 e il
senso delle cose e saperlo rendere come un
grande direttore d’orchestra che ci affascina
sia nel momento in cui esegue una composizione personale sia quando dirige l’esecuzione di un grande pezzo del passato. Nella
serialità della sua produzione si sente come
Monti abbia assimilato in pieno quel rinnovamento della critica d’arte prodotto dai
contributi critici che vanno da Longhi ad
arcangeli, da Gnudi ad Emiliani, e, insieme
ad esso, la grande lezione della storia, anzi
‘delle storie’ che ha inizio con i contributi
degli «annales». Rinnovamento che ha
scardinato quei confini angusti del concetto
di opera d’arte, riservato solo ad alcuni
grandi capolavori, aprendo ed estendendo
il concetto di bene culturale dal singolo oggetto alla trama di relazioni che esso intesse
con gli altri: un concetto di bene storico artistico che si apre all’universo di territorio
dotato di una logica interna specifica e da
comprendere nella globalità del suo insieme
e nella tipicità dei segni che lo connotano,
dai maggiori ai minori.
Fin dalla fine degli anni Settanta sono stato
coinvolto in questo tipo di lavoro e ho
avuto il privilegio di condurre numerose ricerche informate a questi criteri: va ad andrea Emiliani la mia gratitudine per essere
stato tramite della mia conoscenza di Paolo
Monti e per aver potuto continuare dopo la
sua scomparsa numerosi lavori di analisi del
territorio.
oltre a questo tipo d’indagine, ho condotto
in passato ricerche personali di tipo diverso
delle quali tuttavia non è qui il caso di parlare né questo spetta all’autore ma piuttosto
ai critici. Voglio comunque dichiarare che,
anche quando il mio lavoro ha avuto i caratteri del ‘servizio’, ho rivolto la mia attenzione ai valori estetici e al rispetto di quel
mondo vivo delle forme che la fotografia mi
ha aiutato a ‘notare’. a titolo di poetica personale, ho sempre ritenuto che la tensione
per la ricerca così come l’entusiasmo per la
scoperta delle forme, dovesse essere fondato su un criterio fondamentale fra gli
altri: quello dell’’autenticità’ d’espressione
(senza peraltro voler aderire ad una estetica
crociana). In termini molto semplificati,
credo che si possa sostenere che il parametro dell’autenticità, unito e a quello della ri-
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La fotografia come estensione della memoria
conoscibilità di un segno personale all’interno di un linguaggio autonomamente
strutturato e a quello della qualità tecnica
(conoscenza e perizia tuttavia non succube
dei tecnicismi), possa porsi come paradigma di riferimento per l’attribuzione
della qualità artistica alle opere di un autore, nel senso classico, forte, del termine.
Credo che alla fine tale criterio possa aiutarci a distinguere la qualità dalla ‘maniera’,
della quale l’autore stesso può diventare
prigioniero quando il mercato gli richiede
un tipo di opera bene definita e riconoscibile.
Nel caso della presente – breve – esperienza
sul territorio della Carnia, come in molti
altri, per quanto riguarda il mio specifico
linguaggio, posso fare solo una dichiarazione di intenti che altri giudicherà se raggiunti o meno. ho cercato di cogliere alcuni
aspetti formali del genius loci di questo territorio, ponendomi ancora una volta il problema della progressiva perdita, da parte di
un territorio, della propria identità, problema tanto presente nel nostro paese insieme all’interrogativo su di un futuro
compatibile con i valori che la storia ha prodotto. Non ho inteso esprimere una denuncia indignata per il degrado ormai dilagante,
soprattutto in Italia, attraverso uno stile aggressivo e da reportage, ma in qualche misura ho adottato un modo di guardare
analitico, che mi appartiene, adattando naturalmente il mio linguaggio alla specificità
del territorio. Come nella maggior parte dei
miei lavori mi sono servito della fotografia
come metafora, preferendo esprimere i
contenuti attraverso un montaggio di sequenze piuttosto che tramite l’autonomia
della singola immagine.
a proposito di un intento ed un modo di
fare storia, mi piace ricordare le parole di
Nietzsche espresse nell’opera Sull’utilità e
il danno della storia per la vita, con le quali
il filosofo invita lo storico a prendere decisamente le distanze da ogni pedante collezionismo antiquario come da ogni
monumentalismo celebrativo, a favore di
quella che lui chiama ‘storia critica’34. Mi è
sempre sembrato opportuno corredare
queste considerazioni con l’avvertenza di
Bloch35 e di Ginzburg36 i quali indicano il
criterio per un approccio fecondo alla storia
locale anche quando essa è oggettivamente
modesta rispetto i grandi eventi: essi osservano come tale storia abbia grande dignità
nel momento in cui lo storico (così come il
fotografo), si fa sempre carico di problemi
di ordine generale, pur restando in un ambito territoriale circoscritto. Mi si potrà
obiettare la notevole differenza fra il mestiere del fotografo e quello dello storico.
In realtà non è poi così grande come potrebbe sembrare. Cito un caso esemplare.
Nel maggio 1942 da parte del Ministry of
Information fu conferito l’incarico, pare
nientemeno che a Cecil Beaton, di svolgere
un corso di formazione per i fotografi ufficiali inglesi che avrebbero seguito le truppe
degli alleati in Italia. In quest’occasione fu
redatto un interessante documento allo
scopo di fornire una sintesi dell’addestramento loro impartito, nel quale s’indicava
come fornire al pubblico un’immagine della
127
34 F. NIETZSCHE, Unzeitgemässe
Betrachtungen. Vom Nutzen
und Nachteil der Historie für
das Leben, 1a ed. Leipzig 1874
(tr. it. di G. Sossio, Considerazioni inattuali. II. Sull’utilità e il
danno della storia per la vita,
in «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo I, edizione
italiana diretta da G. Colli e M.
Montinari, Adelphi, Milano
1973.
35 M. BLOCH, Apologia della
storia o mestiere dello storico,
1949; versione definitiva a
cura di E. Bloch, Einaudi, Torino 1998.
36 C. GINZBURG, ‘Intorno a storia
locale e microstoria’, in P.
BERTOLUCCI, R. PENSATO (a cura
di), La memoria lunga. Le Raccolte di storia locale dall’erudizione alla documentazione,
Editrice Bibliografica, Milano
1985.
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Corrado Fanti
37 Ministry of Information,
Photograph Division, Sergeant-Photographer: This is Your
New Job…, PH 21/11, May
1942, in Archivio Imperial War
Museum di Londra (tr. it. di G.
Casadio, dattiloscritto in archivio personale dell’autore).
38 R. BARTHES, Miti d’oggi… cit.
guerra a sostegno della politica del War office: un vero e proprio manualetto di alcune
pagine ciclostilate, piuttosto riservato (chi
scrive conserva una copia del documento
originale, tradotto da Gianfranco Casadio).
In esso si dichiara: «Queste note sono per
dirti qual è il tipo di foto di cui abbiamo bisogno […] Le tue fotografie non sono soltanto documenti – esse possono diventare
anche un’efficace propaganda […] E
quando tutto sarà finito, le vostre fotografie
formeranno una parte dell’archivio nazionale della guerra, da conservare nel tempo
[…] Soprattutto, non fallire la ‘grossa’ foto
per essere troppo preoccupato per questa
eventualità. E ricorda che le tue fotografie
dovranno avere l’enfasi dell’aZIoNE in
qualunque luogo. Va’ ora, e buona caccia!»37. È palese la consapevolezza di dovere produrre delle fonti storiche e che in
futuro il giudizio su quella guerra sarebbe
dipeso anche dalle immagini con le quali i
fotografi-soldati l’avrebbero rappresentata
e dal confronto fra le testimonianze inglesi,
quelle sovietiche, statunitensi e degli altri
paesi coinvolti. Si pensi poi che l’addestramento impartito ai fotografi-soldati si svolgeva all’interno di studi cinematografici
allestiti in madrepatria, dove erano stati
creati scenari di guerra. Molte delle fotografie qui riprese furono poi utilizzate come
‘autentiche’ dalla stampa a livello di «Life»,
in quanto giudicate estremamente significative. Sottolineo l’importanza dei falsi storici
che, quando smascherati, sono una testimonianza molto rivelatrice circa le ‘vere’ intenzioni di chi le ha prodotte.
Lo storico analizza fonti, documenti e testimonianze del passato; il fotografo produce
fotografie che domani potranno essere documenti e testimonianze non solo del passato, bensì anche dei modelli concettuali con
i quali quel preciso fotografo ha interpretato
la propria contemporaneità e cultura, che
potranno rivelarsi al critico in modo anche
più evidente di quanto il fotografo medesimo forse non ne fosse consapevole.
In un microcosmo, anche ignorato dalle
guide turistiche che evidenziano in verde i
centri di grande interesse e che ci distraggono dal rimanente, è possibile cogliere i
segni di problemi, per l’appunto, d’ordine
generale. La fotografia può comunicare una
riflessione e una rielaborazione su ciò che
oggi siamo e come vediamo le cose di un
passato che giunge fino all’attimo presente,
ponendosi l’interrogativo, spesso senza risposta, di un progetto possibile e auspicabile per il futuro. Essa potrà forse essere
utile a chi, osservandone la connotazione e
il senso, sarà in grado di indicare tale possibile progetto. Penso a come Roland Barthes, analizzando numerose fotografie dal
punto di vista della semiotica, ne abbia derivato spunti per corrosive riflessioni storiche, sociali e politiche, oltre naturalmente
a servirsene come esempi della propria costruzione teorica38.
È questo l’atteggiamento critico del fotografo che, consapevole della propria visione
del mondo, considera importante offrire
spunti per riflessioni e domande sul presente. È stato questo l’atteggiamento con-
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sapevolmente assunto da Luigi Ghirri,
esponente della ‘scuola emiliana di fotografia’, all’interno della quale chi scrive è stato
talvolta collocato39, anche se, personalmente, sono restio a considerarmi appartenente a qualunque ‘scuola’ o gruppo. Molti
degli autori annoverati in questa scuola
sono poi presenti in quella che Roberta Valtorta cita come ‘La cosiddetta scuola italiana di paesaggio’40.
La fotografia di Luigi Ghirri rappresenta
un capitolo significativo della seconda metà
del secolo scorso. Egli percorre con senso
critico i luoghi dell’ovvio e della banalità
quotidiana denunciando l’ambiguità della
fotografia di consumo. Il suo gioco straniante produce momenti di difficoltà nella
distinzione tra immagine riprodotta e realtà
giungendo a inventare dimensioni sospese
e quasi metafisiche. E questo non per fare
arte bensì denuncia politico-culturale, in
modo totalmente diverso da quello del linguaggio del fotogiornalismo, come egli dichiarava negli incontri che Italo Zannier
promuoveva presso l’Università di Bologna,
e ai quali chi scrive è stato partecipe.
È doveroso, per tracciare un minimo orizzonte comprendente autori pur molto diversi tuttavia accomunati dal medesimo
intento critico, citare quei grandi indagatori
e provocatori che sono stati, fra molti altri,
Robert Frank e Lee Friedlander, antesignani di questi linguaggi e di questa modalità di fare fotografia.
Voglio proporre un ulteriore chiarimento,
giocando per confronti attraverso una clas-
sificazione di tre modi differenti di leggere
un territorio, allo scopo di meglio delineare
il tipo di intervento fotografico che può essere posto in atto descrivendo un territorio;
sono queste, assieme ad alcune che ho
sopra esposto, riflessioni non nuove, sulle
quali ho già avuto modo di stendere qualche appunto41. Mi riferisco alla figura del
turista, dell’abitante e del viaggiatore.
Il ‘turista’ è un consumatore vorace quanto
frettoloso dei ‘luoghi comuni’ sia in senso
stilistico che geografico. Spesso riveste la figura del fotoamatore nel senso più riduttivo
e tecnico del termine: il suo scopo fondamentale è quello di realizzare la ‘bella’ fotografia. Il suo gesto spesso è un rito fine a
se stesso e il suo sguardo su ciò che lo circonda più che cogliere le specificità del suo
ambiente, è teso all’emulazione degli stereotipi visivi mutuati dai grandi modelli
proposti dai media, nell’imitazione dei quali
egli misura la propria abilità. In modo ancora più riduttivo, ma sentimentalmente
più che giustificato, il turista spesso si limita
a qualche foto ricordo che pare spesso una
cattiva copia delle cartoline più banali.
oggi con i cellulari la sua vita è estremamente semplificata: egli realizza una grande
quantità di immagini che, una volta riversate sul computer, spesso non sono più consultate.
L’‘abitante’ si conforma talvolta ad un linguaggio e a scelte campanilistiche o da cartolina: lascio di nuovo a Nietzsche le parole
per descriverne la mentalità ‘antiquaria’.
Tuttavia va rilevato come altre volte il fotografo assuma i caratteri del giovane impe-
129
39 W. GUADAGNINI, La scuola
Emiliana di fotografia, Art&,
Udine 1997.
40 R. VALTORTA, ‘Territorio e società nelle collezioni del
Museo di Fotografia Contemporanea’ in La fotografia come
fonte di storia, Convegno, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Università degli
Studi di Padova, Dipartimento
dei Beni Culturali, Palazzo
Franchetti, Venezia 4 - 6 ottobre 2012.
41 C. FANTI, ‘La visione delle
forme-linguaggi e funzioni
della fotografia nelle campagne di rilevamento’, in A. EMILIANI (a cura di), Le opere e i
luoghi, Amilcare Pizzi, Milano
1997.
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Corrado Fanti
gnato (giovane per l’atteggiamento mentale,
non per la sola anagrafe), spesso esperto fotoamatore, che, educato ai grandi maestri,
registra con una certa attenzione l’ambiente
in cui vive. In questo secondo caso questo
‘dilettante’, nel senso nobile del termine, sa
strappare il velo abitudinario col quale
l’abitante guarda quotidianamente le cose
e sa diventare viaggiatore nel suo stesso
paese. È uno sforzo che richiede notevole
impegno, poiché chi è coinvolto emotivamente nei confronti dei luoghi che più si legano ai suoi affetti, spesso fatica ad
osservarli con occhio libero e critico. Va rilevato come questa figura possa rivestire
una grande importanza nel momento in cui,
nella vacanza di molte Istituzioni pubbliche, spesso i circoli fotografici di cui egli fa
parte, adempiono a funzioni culturali di
conservazione di materiali e di organizzazione di momenti culturali molto importanti.
Il ‘viaggiatore’ è colui che cerca il ‘senso’ di
un luogo, l’apertura con l’altro e un confronto nel quale s’interroga sul proprio sé:
egli ben sa come mettersi in relazione e in
discussione con la diversità. I suoi sono i caratteri del ricercatore, che si muove senza i
condizionamenti della committenza così
come si è liberato dei modelli stereotipati
delle riviste di settore. È il fotografo che è
consapevole dell’operazione che sta compiendo, del modello concettuale in base al
quale indirizza il proprio sguardo sulla realtà.
I differenti linguaggi di questi tre tipi di fotografi, al di là dei contenuti delle relative
immagini, possono diventare testimonianze
del clima culturale di un luogo e di un periodo storico in misura maggiore nel momento in cui il tempo ci allontana dal
momento in cui sono state eseguite. La fotografia quando diventa storica ci permette
di prendere coscienza in modo rilevante su
come sia cambiata la realtà. Forse mai nel
passato, prima dell’avvento della fotografia,
gli uomini hanno potuto riflettere su termini di paragone tanto evidenti.
Forse qui si nasconde una contraddizione.
Siamo diventati più sensibili al nostro cambiamento ma nello stesso tempo percepiamo un senso di fissità delle cose, di una
loro presunta immodificabilità storica.
Molto spesso i giovani vivono il presente rifuggendo l’idea di una progettualità che si
proietti in un futuro lontano. Di fronte al
detto «il contadino pianta l’albero di cui
non mangerà i frutti, i quali saranno colti
soltanto dai figli», molti fra i miei studenti
restano interdetti e, diversamente, si dichiarano motivati solo verso qualcosa che abbia
un ritorno a breve termine. Così come a fatica s’immaginano un passato regolato da
categorie, ad esempio economiche, diverse
da quelle attuali, analogamente non comprendono come esse siano il risultato momentaneo – se pur di lunga durata – di
scelte culturali e storiche. Eppure quando
ad esempio guardiamo le foto degli anni
Settanta, proviamo un senso di enorme distanza e dalle fisionomie stesse possiamo distinguere se ci troviamo in quegli anni o nel
periodo fra le due guerre. Questo fenomeno non dovrebbe forse produrre una re-
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La fotografia come estensione della memoria
troazione, un feedback culturale che dalla
percezione del nostro divenire ci induca alla
progettazione di un cambiamento di noi
stessi e dei nostri costumi laddove li troviamo inadeguati? Mai nel passato, prima
dell’avvento della fotografia, gli uomini
hanno potuto riflettere su termini di paragone tanto evidenti e, in qualche misura, indiscutibili. Che tipo di rivoluzione della
percezione di sé è avvenuta dopo una
grande continuità di secoli, fino alla metà
dell’ottocento, quindi, in maniera progressivamente accelerata, nella seconda metà
del Novecento?
Proviamo un senso di enorme distanza dal
passato, come fosse una favola o uno spettacolo (forse la storia appare alle ultime generazioni come nient’altro che una serie
televisiva in costume, una fiction) ma al
contempo nella nostra quotidianità viviamo
un senso statico delle cose e del tempo; rifuggiamo l’utopia e percepiamo (o ce ne illudiamo) un senso di onnipresenza e
onnipotenza del presente al punto che viviamo anche il futuro, il progresso, come
già presente nelle tecnologie attuali, quelle
dell’’ultima generazione’. L’insistenza linguistica ad usare termini quali ‘prodotti
avanzati’, ‘evoluti’, nei quali, appunto, il futuro è già presente nelle sue forme ottimistiche e risolutrici, a dispetto degli
accadimenti che mostrano il contrario, cosa
può nascondere circa nostri timori più profondi per quanto ci attende? Il progresso e
il cambiamento sono già tecnologicamente
inscritti nella logica e nel programma del
presente.
Con questa domanda spostiamo la nostra
attenzione da quanto avviene al di qua della
lastra fotografica, nella mente del fotografo,
per spostarci al di là e per riflettere sul soggetto che attualmente appare come il
mondo visto attraverso il mirino, e nello
specifico, il paesaggio nel senso più lato del
termine.
È evidente che sotto quest’aspetto può rendersi necessario recuperare il concetto di
‘genere’ relativamente al fatto che, a seconda delle situazioni, il fotografo deve
porre in atto procedure di ripresa differenti, che a loro volta incidono sul linguaggio fotografico e sul senso dell’immagine.
Una cosa è una fotografia al microscopio o
scientifica, un’altra la ripresa pubblicitaria
in studio di un’automobile, oppure un ritratto o una fotografia di architettura.
Le forme si evolvono o semplicemente cambiano. alcune, come edifici, strade, città…
hanno impiegato molto tempo per trovare
la loro struttura identitaria che si esprime
in una serie di moduli il cui denominatore
comune è ben riconoscibile e ci rimanda un
senso di continuità pur nel variare delle
forme nei secoli. Questo fino al Novecento.
Può accadere che per chi si sia formato
nella familiare quotidianità della loro percezione, esse diventino scontate e imprescindibili per il senso della propria
personale identità. al viaggiatore diversamente esse sono estranee ed appaiono
spesso cariche di grande suggestione e bellezza, caratterizzata da quell’unità di fondo
che viene percepita come un’armonia musicale, una trama coerente di note e di frasi
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pur diverse ma unitarie. Queste caratteristiche fanno della città, come del paesaggio
storico, ciò che è stato definito ‘Bene Culturale’, opera d’arte diffusa, un museo vivo
e a cielo aperto.
Tuttavia noi percepiamo questa continuità,
pur nelle differenze, fino al Novecento. ora
viviamo in quella che è stata definita postmodernità. Ne darò un solo esempio in
negativo, l’ultimo per me in ordine cronologico.
Di recente ho compiuto un tragitto a piedi
nella parte antica di Genova, nell’intrico
della trama medievale dei suoi vicoli: un
cammino rettilineo che da via del Campo
prosegue per via Fossatello quindi confluisce in via San Luca; un itinerario parallelo
alla cornice del porto, lungo il quale leggevo un’insegna che avvertiva che quella
zona era definita dall’Unesco ‘Patrimonio
dell’umanità’. È questo l’ultimo caso, fra i
tanti, purtroppo sempre più ricorrenti, che
ho dovuto tristemente riportare nel mio cahier de doléances, ormai saturo di annotazioni. ho percorso una teoria di negozi (un
tempo erano sicuramente antiche botteghe), oggi sventrati e imbiancati come dei
garage, con l’apertura grande quanto il
vano, incorniciata da un infisso di alluminio
anodizzato, sormontata da una scritta luminosa da supermercato dai colori volgari e
priva della minima attenzione alla materia
e alle forme della città. Una lunga teoria di
garage-botteghe: le luci fredde e impersonali dei neon che invadono l’immediato
esterno con espositori colmi di oggetti
kitsch di ogni fatta e genere, ma tutti con-
trassegnati dal medesimo senso dell’inutilità
del gadget di poco prezzo e della sua immediata destinazione alla discarica, non appena acquistato. Persino la frutta, accanto
a borse cinesi, occhiali, cappelli, foulard, e
cianfrusaglie varie, mi apparivano come oggetti di plastica dai colori improbabili. a
terra lungo questa epifania di stazioni del
cattivo gusto, intervallate da botteghe di
Tatu, International Comunication, Cucina
Pakistana, Stock house, Discunt [sic] alimentare… come una teofania di un dio minore dell’olimpo del mercato, il selciato era
viscido per un liquido sospetto e maleodorante. Lungo il percorso una bottega con
l’accesso sprangato da assi inchiodate, riportava un cartello di protesta appiccicato
di traverso a denunciare una violenza subita
e la necessità della chiusura; un altro accesso di bottega nero del fumo di un incendio, il vano spalancato come una voragine
oscura. al termine di questo percorso si
apre Piazza Banchi che mi sorprende con
l’improvvisa apparizione della splendida
chiesa di San Pietro in Banchi. Dall’interno
di un porticato a tre volte, il portale si affaccia su di un ampio terrazzo all’altezza del
primo piano, limitato da un parapetto di aggraziate colonnine: vi si accede da una scalinata centrale a destra e a sinistra della
quale, fanno da sostegno all’edificio le vetrine sulle quali campeggiano le scritte ‘ferramenta’, ‘casalinghi’, ‘utensileria’.
ho visitato questo ‘patrimonio’ fra il fastidio e la tristezza, richiamando alla mente gli
innumerevoli casi di scempio e degrado
dove la mancanza di fondi per i restauri da
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un lato e la colpevole incuria dall’altro producono quell’ambiente degradato nel quale
crede di prosperare una sottospecie di economia più o meno sommersa. Il senso di
sconfitta era tale che non sono riuscito a riprendere neppure una fotografia.
Dove viceversa è già presente un’economia
che produce investimento, edificazione,
grandi opere, lì prevale il segno postmoderno o, con diversa sfumatura, post-industriale42, segno della perdita dei luoghi,
dell’identità, dei legami con le forme e con
i materiali della storia e della natura. «Il
paesaggio italiano è irrimediabilmente sfregiato. Quanto al patrimonio artistico, sono
molto scettico circa la sua sopravvivenza».
Sono parole riferite a Federico Zeri43. Su «Il
Sole-24 ore» del 24 settembre 2006 leggiamo Liucci che parla di «saccheggio del
territorio… in spregio all’interesse generale»44. Quindi segue la testimonianza di a.
Cederna che «denunziava senza requie i
vandali in casa che nella rapidissima ricostruzione sventravano i centri storici delle
città d’arte e spianavano di cemento monti,
colline, coste».
La nostra montagna è un’opera d’arte naturale, ma è sufficiente che la si veda incorniciata da lastre di metallo ondulato più o
meno arrugginite, o da materiali che nulla
hanno a che vedere con quelli naturali, oppure che faccia da sfondo a cartelli e installazioni pubblicitarie, sono sufficienti questi
contenuti perché la cornice visiva della
montagna ci possa apparire come un fondale finto, stereotipato, di plastica e dipinto
con colori acrilici. Diversamente, quando il
crinale della costa montuosa è accompagnato dall’intonata inclinazione di un tetto,
quando la materia di questo e le strutture
che lo sorreggono odorano ancora della vita
del legno del bosco che ricopre lontano la
costa, allora la montagna è vera, le forme vivono una vita che si arricchisce nel tempo,
la sua materia è la materia del costruire
quotidiano, del curare, è la materia del
legno la cui essenza nell’aria dà leggerezza
al viaggiatore avvolto dall’odore della bellezza del luogo.
L’allarme per il degrado delle città d’arte, e
non solo quelle, è forte: è sensato pensare
che si debba porre un riparo e che ciò deve
essere fatto presto.
Non c’è solo la Grande arte, la ‘Grande
bellezza’, che Sorrentino indica forse come
ultimo baluardo, ultimo valore che ci può
salvare dal violento caos amorfo e dilagante.
Voglio invocare un concetto a mio parere
altrettanto importante: quello che vorrei
definire di ‘bellezza diffusa’. La bellezza
diffusa del paesaggio dei centri minori che
sta ai valori estetici della grande arte come
la storia locale sta alla grande storia, qualora
la prima sia indagata nell’attenzione ai problemi di ordine generale, e la bellezza diffusa s’inscriva nell’ampio contesto di un
territorio che si struttura e che si dispiega
come una sinfonia. Esprimevo poco tempo
addietro all’amico Dino Zanier il mio sconforto e il mio pessimismo circa l’incidenza
che possono avere operazioni editoriali
come la presente, mostre, convegni, episodi
culturali. Per quanto riguarda la mia persona, dopo quarant’anni di lavori in que-
133
42 P. CERVELLATI, La città postindustriale… cit.
43 M. PIGOZZI, R. GIOIA, Federico
Zeri e la Tutela del Patrimonio
Culturale Italiano, Clueb, Bologna 2006.
44 R. LIUCCI, «Il Sole-24 Ore»,
24.09.2006.
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Corrado Fanti
45 T. DE MAURO, Sette italiani
su dieci non capiscono la lingua - Cresce l’analfabetismo
di ritorno «Corriere della
Sera», 28.11.2011.
46 G. BOLLATI, L’italiano. Il Carattere nazionale come storia
e come invenzione, Einaudi,
Torino 1983.
st’ambito e soprattutto dopo poco più di
mezzo secolo d’interventi di storici dell’arte, architetti, scienziati del territorio,
ecc., è avvilente registrare lo stato delle
cose. Per consolarmi l’amico Dino mi riferiva del successo che ha avuto una mostra
su Man Ray, che ha registrato un grande interesse da parte dei giovani. al che mi sorgeva spontaneo osservare come tanto
pubblico si sia entusiasmato e commosso
alla lettura di Dante offertaci da Benigni,
poi, finita la trasmissione, si continua a massacrare la nostra lingua con una grammatica
approssimativa. ammiriamo il nostro
idioma giusto per il tempo della trasmissione, ma facciamo regolare scempio della
lingua italiana nella quotidiana comunicazione con i nostri sms, mail… i giornalisti
fra i primi. Per meritare la patente di persone sensibili alla cultura non sono sufficienti un paio d’ore di Benigni. È nella
quotidiana difesa della bellezza del nostro
patrimonio linguistico che è richiesto il nostro impegno per la bellezza diffusa. Si
pensi soltanto a quante sigle e quanti neologismi tecnologici e termini cacofonici entrano ogni anno nella nostra quotidianità e
nel dizionario Zingarelli; perlopiù inutili,
con il solo effetto gergale del senso di appartenenza ad un gruppo di eletti che ne
fanno uso. Si pensi a quanta banalizzazione
della complessa struttura sintattica della nostra lingua che, come un’architettura gotica,
viene appiattita su di un muro di cemento
nel quale gli archi rampanti dei congiuntivi
e dei condizionali vengono assorbiti nella
banalità di un indicativo per ogni situa-
zione. Tullio De Mauro, in un articolo del
«Corriere della Sera» del 28 novembre
2011, sottotitolato ‘Cresce l’analfabetismo
di ritorno’, osservava che «il 71% della popolazione italiana si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura
di un testo di media difficoltà»45. Rifletto
sulla contraddizione fra un ampliamento
della lingua e un aumento di termini specifici e specialistici da un lato e dall’altro un
abbassamento della capacità media di lettura e comprensione.
Nella descrizione di questo disastro il mio
occhio vive lo sconforto, ha smesso di fermare immagini e ripercorre col pensiero la
citazione leopardiana di Bollati: «Siamo
all’esteriorità che diverte i viaggiatori calanti dal Nord. Leopardi guarda con quegli
stessi occhi ma non sorride al pittoresco. Il
teatrino italiano nasconde uno sfacelo profondo. La mancanza di società determina
arbitrio e difformità nei comportamenti:
‘ciascuna città italiana non solo, ma ciascun
italiano fa tuono in maniera da sé’ [G. Leopardi, Opere, a cura di F. Flora, Poesie e
prose, vol. II]; quindi dispregio di ogni
norma sociale, poco rispetto di sé, nessuno
degli altri, l’opinione pubblica impotente e
irrisa. Ignoranza, presunzione, indifferenza,
cinismo;… ‘il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci’ [Leopardi, ibid.]46».
Ma c’è qualcosa di più sconfortante nel momento in cui pensiamo al paesaggio. Resto
perplesso nel vedere lo sbigottimento sorpreso con il quale il giornalista del telegiornale annuncia l’ennesimo smottamento del
torrente in piena che tracimando travolge
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La fotografia come estensione della memoria
con violenza automobili e ogni cosa che
trova nel suo cammino, lungo la strada che
si è trasformata in un vortice di fango; e
questo accade quando più di trent’anni or
sono Lucio Gambi (si veda l’antologia di
scritti47), uno dei più importanti innovatori
del Novecento in ambito geografico (oggi
la sua eredità è raccolta da Franco Farinelli
– professore ordinario presso l’Università
di Bologna –, di cui consiglio la lettura delle
pubblicazioni disponibili), avvertiva che le
modalità degli interventi sul territorio, il
cambiamento delle culture e di tutto ciò che
stava avvenendo dalla ricostruzione postbellica in poi avrebbe inevitabilmente
portato a tali devastazioni. Già, ma allora si
era accusati di pessimismo e di volere arrestare il progresso.
Era questa bellezza diffusa che con il lavoro
fotografico di Paolo Monti e di altri (non
molti per la verità), s’intendeva sottolineare:
destare l’attenzione ad essa e sollevare l’allerta per una sua possibile distruzione in chi
non ne percepiva la fragilità. Il degrado e
l’offesa alla bellezza diffusa non è già come
lo sfregio di un pazzo ad un importante capolavoro in un museo: non è così eclatante
da risvegliare l’immediata riprovazione di
chiunque. È fatta di azioni quotidiane minime, di piccoli abbattimenti di edifici, di
piccole ricostruzioni che nulla hanno a che
vedere col contesto: l’installazione di una
parabolica, un cartello pubblicitario stonato, un traliccio dell’Enel che poteva essere collocato più in là. atti diffusi di scarsa
educazione alla bellezza.
È una singolare contraddizione che sia nato
e si sia sviluppato il concetto di ‘arredo urbano’, al quale è riservato uno specifico
spazio nelle facoltà di architettura e al contempo non vi sia mai stato tanto disordine
e bruttezza per tutti gli orpelli che inquinano visivamente lo spazio urbano, che poi
non è altro che la nostra casa allargata. Non
vorrei eccedere in polemica ma a volte mi
chiedo se sia meglio invocare l’intervento
dei giovani architetti creativi post-moderni
per sistemare il maquillage delle nostre città
o se piuttosto le cose lasciate alla casualità
e senza progetto siano in fondo meno fastidiose allo sguardo, sempre che non intervengano pesanti interessi economici. Ma
devo dire che qui in Carnia ho visto cose
che mi fanno ben sperare in merito ad architetture contemporanee che fanno rivivere, rinnovate, le forme ed i materiali
storici.
Nel sollevare queste critiche mi riferisco soprattutto all’Italia, anche se il degrado della
post-modernità è un problema che riguarda
la globalizzazione; tuttavia in alcuni paesi
europei vedo molto spesso acquisita la lezione dei nostri storici dell’arte e conservatori (tenuta magari dalla cattedra della
Sorbona, mentre essi vengono dimenticati
a casa nostra). all’estero vedo spesso messa
in pratica questa lezione, e la vedo penetrata nel buon senso di molte persone
d’ogni livello culturale, che hanno elaborato un qualche rispetto per gli spazi pubblici del vivere. Non sono un denigratore
del mio paese ma, proprio perché è il ‘mio’,
e lo amo – quarant’anni di lavoro e di didattica lo dimostrano – sento di doverne
135
47 L. GAMBI, ‘Scritti di Lucio
Gambi’, in M.P. GUERMANDI et al.
(a cura di), La cognizione del
paesaggio. Scritti di Lucio
Gambi sull’Emilia Romagna,
Bononia University Press, Bologna 2008.
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136
Corrado Fanti
48 J.-F. LYOTARD, La condizione
postmoderna. Rapporto sul
sapere, Feltrinelli, Milano
1981.
49 M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia
della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993.
denunciare lo scempio a chi nella piccola
quotidianità, offesa dopo offesa, ha assunto
il brutto che ci circonda come ‘normale’.
Questo va denunciato così come vanno giustamente denunciati gli scempi alla giustizia, alle leggi, allo Stato, tipiche della nostra
cultura… ma non è il caso di allargare il discorso anche se il rapporto fra edilizia, urbanistica, territorio e illegalità organizzata
è molto stretto.
Fortunatamente esistono situazioni virtuose: per citare casi lontani da queste zone
della Carnia, fra i luoghi a me noti mi piace
richiamare la situazione significativa della
Val d’orcia, in Toscana, nei trent’anni circa
che seguirono la decisione di farne un parco
con una regolamentazione per il rispetto del
paesaggio molto attenta e rigorosa, il cui ritorno anche economico ha ben persuaso chi
inizialmente era perplesso.
Purtroppo, diversamente da quanto è stato
realizzato in qualche isola del rispetto, ciò
che è avvenuto nella seconda metà del Novecento ha qualcosa di assolutamente singolare rispetto alla storia del passato:
Lyotard48 allargando l’orizzonte territoriale
all’ambito dell’intera globalizzazione, teorizza come nella cultura postmoderna, il sapere non venga più legittimato attraverso
quella che egli definisce la ‘grande narrazione’, il pensiero forte, le filosofie che intendevano dare una risposta articolata e
coerente al senso della storia. La cosiddetta
‘grande nazione’ è stata sostituita dal valore
frammentario delle merci, dal suo ‘consumo’, (anche la cultura è qualcosa che si
consuma), atto di una nuova cultura che si
regge sul binomio utile-inutile che sostituisce l’ormai vecchio e superato vero-falso.
«a cosa serve?»: è la domanda generalizzata e ricorrente che ci si pone di fronte a
qualunque cosa. Nella scuola non si dà più
importanza alle attitudini o alle capacità individuali, ma si tende a formare delle ‘competenze’ piuttosto che un metodo critico;
non esiste progetto o utopia per il futuro,
ma si considera lo stato attuale come immodificabile nell’immobile e continua permanenza del progresso tecnologico. Nella
scuola, alla comprensione del ‘senso’ si sostituisce la meccanica ripetizione delle cose.
Questa visione delle cose diventa il supporto teorico della lettura del paesaggio
operata da augè49: i ‘non luoghi’ sono spazi
che non hanno più un’identità e una relazione col passato, non si fondano più sulla
storia come portatrice di senso; non mostrano più alcuna organicità, si presentano
solitari, come il contrario di ogni utopia, la
loro non identità tende ad allargarsi a macchia d’olio in maniera uniforme. Gli oggetti, le cose che un tempo avevano un loro
spessore, un loro peso e una loro concretezza sono sostituite da informazioni, cartelli, icone, da tutta una virtualità che si
sostituisce alla realtà. Il relativismo che doveva essere tolleranza e ascolto è diventato
azzeramento d’ogni riferimento ad una sensata storicità identitaria. Il rifiuto di ogni
storicismo irrazionalista e ideologico (gli
storicismi che hanno condotto alla devastazione delle ultime due guerre) è diventato
pragmatismo del libero mercato e del consumo quali unici valori oggi difesi o ai quali
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La fotografia come estensione della memoria
ci siamo oggi rassegnati nella delusione e
nell’incapacità di costruire nuovi o rinnovati valori profondi, quando purtroppo non
siano connotati da fanatismo estremista.
Se vogliamo fare un’osservazione di larghissimo respiro e molto semplificante, potremmo rilevare un analogo copione nel
Medioevo e nella nostra società progredita:
allora si cercava di raggiungere il paradiso
(forse mai raggiunto da nessuno) attraverso
donazioni di denaro alla Chiesa e una comunicazione verticale, superstiziosa, con un
supposto deus ex machina. Nella nostra società progredita si cerca di raggiungere la
felicità (sicuramente mai raggiunta in questo modo) attraverso versamenti di denaro
al dio Mercato e una comunicazione orizzontale informatizzata con messaggi e mail
a supposti amici virtuali. In ambedue i casi
i rituali di fronte all’altare quotidiano, sia
esso l’inginocchiatoio o il computer, con il
loro diverso ma simmetrico copione, non
cambiano lo stato profondo delle nostre attese ed illusioni psicologiche.
Vivo in modo forte il senso dell’inutilità
della mia azione e delle mie indicazioni di
fronte alla forza dirompente dei valori del
mercato e, a costo di apparire impopolare,
quello che ai miei occhi appare come un
preoccupante abbassamento di capacità critiche nelle nuove generazioni. Non so se
questo è solo un giudizio personale che potrebbe inscriversi nella dialettica opposizione generazionale che si verifica da
sempre. Troppo spesso, tuttavia, ho occasione di raccogliere da parte di giovani studenti o ricercatori particolarmente dotati e
sensibili lo sconforto per una dichiarata solitudine ed estraneità ai supposti interessi e
alla vita dei coetanei, giudicati talvolta con
una severità maggiore della mia e con altrettanta rassegnazione.
Ritengo tuttavia un dovere morale tentare
di compiere anche un piccolo atto finalizzato alla preservazione dei Beni Culturali
perché, se finora il pensiero unico del consumo si è imposto, tuttavia il disastro ecologico (natura, salute, alimentazione, guerre
diffuse, inquinamento…) renderà necessaria, anche se tardiva, quella indicazione
concreta, finora sconfitta, che negli ultimi
trent’anni ha cercato di porre un freno al
pensiero unico dilagante.
La situazione nella quale ci dibattiamo s’involve su se stessa nel paradosso. oliviero
Toscani con la violenta ed evidente semplicità di linguaggio dei suoi enormi cartelli
pubblicitari ci ha costretto a guardare queste piaghe (la terribile fotografia della giovane ragazza anoressica nuda, la coppia
anch’essa nuda in posizione erotica con i
due intenti al computer portatile…). Toscani vuole provocarci alla riflessione, e
evita di comunicare un prodotto con un’immagine ammiccante e patinata, ma al contempo ci induce alla condivisione della
scelta della marca che, in secondo piano,
appare come sostenitrice di quella comunicazione. In modo inverso ma ugualmente
paradossale, gli spot buonisti, che palesemente ci invitano all’attenzione ecologica,
al risparmio energetico, al sogno di una
campagna incontaminata dove l’antico mulino macina ancora il grano con la pulizia di
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Corrado Fanti
un tempo, in realtà ci inducono a comportamenti consumistici i cui effetti sono il
contrario del messaggio dichiarato.
È stato necessario un film a rammentarci il
valore della ‘grande bellezza’: dobbiamo
ora riscoprire il valore di quella che ho voluto definire ‘bellezza diffusa’: uno sguardo
dall’alto, uno sguardo che prende il volo
dalla nostra casa, dalle nostre strade, città,
campagne, montagne… uno sguardo a volo
d’uccello, una ichnoscenographia. ho negli
occhi le mirabili tempere o acquerelli settecenteschi, che mostrano in primo piano
l’aia su cui si affaccia il casolare con il fienile, il grande olmo a dare frescura, il
pozzo, gli edifici di servizio, l’orto, la casa
padronale, poi appena dietro, la cavedagna
sinuosa lungo l’argine e, accanto, la piantata
a delimitare l’ordito dei campi modellati a
porche, sì da convogliare le acque lungo le
scoline, i filari che si allontanano verso l’azzurro delle colline lontane, punteggiate da
borghi… Quel mirabile sposalizio, intendo,
fra la fatica dell’uomo ed una natura che
Leopardi definiva per l’appunto ‘umanata’.
I cabrei e i catasti settecenteschi non sono
certo capolavori alla pari di quelli dei Carracci – in ogni caso nelle tele dei grandi,
quanti appunti, note e descrizioni puntuali
sul territorio! – nondimeno sono tracce,
segni di quella bellezza diffusa senza la
quale, come un accogliente grembo materno, i grandi capolavori intristiscono
come oggetti solitari venerati il giorno dell’inaugurazione della mostra di cui si fa un
gran parlare, davanti ai quali file interminabili sostano solo per qualche secondo, il
tempo per poter dire di avere fatto cultura;
quindi le grandi tele ripiombano nella silenziosa tristezza delle vuote sale dei musei.
Il concetto di bellezza diffusa si collega a
quello di ‘cura’, tuttavia non nella pessimistica concezione heideggeriana: anche se è
vero che la mia generazione si è formata nel
segno (ma non solo) di un’inquietudine esistenziale che, nell’accendere la domanda
sul senso della ‘mia’ vita, in taluni casi è approdata ai valori laici di cui ho parlato finora, i quali, trasversalmente, sapevano
confrontarsi anche con un pensiero non
laico, sulla base di progetti per una costruzione umana da attuarsi con buona volontà.
ora intendo utilizzare il termine cura nel
senso maggiormente frequentato di attenzione nei confronti di qualcosa che si ama
e di se stessi, consapevoli della comune fragilità.
La pratica quotidiana del guardare e annotare sulla pellicola, nel contrappunto delle
riflessioni teoriche, ci insegnava come
l’opera d’arte andasse osservata, scoperta,
compresa e fotografata non solo all’interno
del limite della tela, bensì insieme a quella
cornice rappresentata dall’altare, all’interno
dello spazio di una cappella, nella teoria del
percorso in una chiesa inerpicata su un
colle o adagiata nella campagna, lungo una
strada che ne segnava la storia, il campanile
a indicare il luogo, le distanze, gli spazi fra
borghi e in fondo la città, grande opera
complessa, sedimentata nel tempo, nel contrappunto sempre diverso e singolare ma
mai dissonante dei diversi stili nei secoli.
Questo fino alla postmodernità. Il dopo-
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La fotografia come estensione della memoria
guerra: un disastro di distruzione e di edificazione selvaggia attuata prevalentemente
per il solo interesse speculativo, spesso nel
più sfacciato, colpevole e tollerato, quando
non sanato, abusivismo. Si pensi alla trama
della centuriazione romana che ha disegnato e organizzato la Pianura Padana fin
dai secoli prima di Cristo e che nei secoli ha
faticosamente costituito l’ordito portante
delle successive opere di regimentazione
delle acque, di un’organizzazione del loro
deflusso dalle grandi arterie fino alla rete
minima di capillari come le scoline nei
campi. Una struttura che ha fatto da fondazione a tutto il successivo sviluppo economico e urbanistico. Una vera e propria rete
di linfa che, sapientemente collegata alle
grandi arterie fluviali, riesce a equilibrare
mirabilmente l’approvvigionamento idrico
e per converso il deflusso dell’eccedenza
delle acque in quel grande polmone che è
la pianura. Poi arriva il dopoguerra e la postmodernità con una serie ininterrotta d’interventi che non hanno tenuto conto della
storia e che hanno ritenuto di potere inoffensivamente e utilitaristicamente interrompere per lunghi tratti questo tessuto, con
lunghe barriere stradali. Sono arterie di
traffico su ruote che hanno vivisezionato e
reciso il faticoso lavoro di secoli provocando dissesto e necrosi di larghe parti della
campagna. Lucio Gambi, che abbiamo
prima ricordato, ci ammoniva del futuro disastro ecologico che puntualmente abbiamo subito e stiamo subendo, in realtà
superiore a quei moniti che venivano presi
con leggerezza, ‘troppo pessimistici’ ci di-
cevano. E oggi, sbigottiti, ci indigniamo per
i disastri che violano le nostre proprietà, per
i torrenti che devastano la Liguria, un esempio fra i tanti, miopi oggi nel comprenderne
le cause come tanti erano miopi allora nel
saper prevedere i futuri effetti.
È un panorama davvero inquietante e sconfortante quello che si apre davanti all’obiettivo della nostra camera ottica.
Ritengo che stiamo vivendo in una situazione di forti contraddizioni; oltre a quelle
già notate, penso si debba aggiungere qualcos’altro: c’è stato un enorme aumento di
possibilità di comunicazione e d’informazione, e con esse si dovrebbe aggiungere di
democrazia. Per tutti v’è la reale possibilità
di esprimere il proprio pensiero con parole
– internet – e con le immagini. Tutti possediamo i mezzi che una volta erano riservati
a una élite di professionisti. D’altro canto
di fatto si registra un aumento di analfabetismo culturale, una proliferazione esponenziale di pettegolezzi e un balbettio generalizzato nel Web, un’esplosione
d’immagini inutili sui cellulari unita a una
crescente incapacità di una loro lettura critica. Un allineamento in un ‘pensiero unico’
e nei comportamenti che fa sì che siano
molti coloro che dubitano di essere in democrazia. Filosofi e sociologi denunciano
un crescente ed innaturale aumento d’individualismo (non di individualità, di singolarità consapevole): al contempo non possiamo che registrare un preoccupante
aumento di comportamenti omologati.
Viviamo in una società globale, collettiva,
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Corrado Fanti
tuttavia connotata da una grande mancanza
del senso della collettività; ciò forse a causa
di una sotterranea ansia per un futuro davvero preoccupante che spinge ognuno di noi
a ritirarsi nel proprio particolare, a mettere
in atto atteggiamenti di difesa a oltranza dei
figli, sgomitando con aggressività forse nell’avvertimento che non ce ne sarà per tutti.
Un altro paradosso: quasi nello stesso momento (anni Novanta) in cui le nostre istituzioni attraverso una legge dello Stato
prendono atto formalmente che la fotogra-
fia è un bene culturale, qualcuno potrebbe
a ragione dire che, con la digitalizzazione di
massa, la fotografia è morta. a questo proposito le parole di ando Gilardi sono estremamente dure: cito l’intervista pubblicata
nel testo (ando intervistato da P.):
«a – La fotografia analogica è finita: morta,
floscia e putrefatta! […]
P – Secondo lei, dunque, quelle prese con
una Nikon Coolpix non sono fotografie, sia
pure digitali?
a – Diciamo pure fotografia digitale, però
se dico immagine digitale è meglio e non
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La fotografia come estensione della memoria
confonde le idee […] quando schiaccio il
bottone dopo aver inquadrato un quadro
del Louvre, la Nikon Coolpix ne prende
un’istantanea digitale che può essere il principio, la base, il punto di partenza di una
serie praticamente illimitata di differenti
immagini digitali cioè di nuovi quadri digitali. L’operazione non ha assolutamente
nulla a che vedere con quella dell’istantanea
analogica che viene sommariamente chiamata fotografia.
P – Lei crede che da questa confusione sia
dipeso…
a – …un disastro culturale.
a – […] oggi, con il digitale che è il giustiziere dell’analogico»50.
Devo precisare che, per quanto riguarda le
stampe fotografiche presentate nella mostra
che accompagna questo convegno, le riprese sono state eseguite con un apparecchio digitale: tuttavia la mia modalità
operativa è stata analoga a quando lavoravo
con la pellicola. Eseguito lo scatto, sono
state realizzate le minime manipolazioni necessarie, analoghe agli interventi che un
tempo si eseguivano in camera oscura.
141
1-2. Corrado Fanti, Uno
scorcio del centro
storico di Tolmezzo,
2014 (© C. Fanti).
50 A. GILARDI, Meglio ladro che
fotografo… cit., p. 31.
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Corrado Fanti
In un solo caso, quello di uno scorcio del
centro storico di Tolmezzo, ho presentato
due stampe della stessa ripresa. Una, nella
quale l’ambiente urbano appariva così
come si presentava e l’altra nella quale ho
eliminato tutti i piccoli orpelli che avviliscono la città, ai quali non facciamo più
caso: cartelli, plafoniere, strisce pedonali,
automobili… ho reintegrato queste parti
con la parte dei muri, del selciato… registrata nello scatto, senza inventare nulla,
restituendo l’immagine così come la si sarebbe potuta realizzare in analogico togliendo materialmente tali oggetti, cosa
che fu realmente eseguita quarant’anni or
sono nel corso di un importante lavoro di
Paolo Monti per lo studio del centro storico di Bologna. Togliere fisicamente da un
muro un cartello stradale, semplicemente
perché è ‘brutto’, o toglierlo con Photoshop sostituendolo filologicamente con
parti del medesimo muro è la stessa cosa:
è il giudizio e la decisione che conta, non
lo strumento con il quale la si attua. È
un’operazione che rende con la massima
evidenza il concetto di restauro conservativo e cura dello spazio urbano, che allora
fu di supporto all’idea delle isole pedonali
nei centri storici. È questo il contrario di
un’operazione di maquillage che alteri
forme e tinte; è questa un’operazione che
attua una loro restituzione alla condizione
originale, con l’accettazione dei segni del
tempo, dal momento che anch’essi assumono un significato. Il punto, quindi, a
mio avviso, non è tanto quello della tecnica di realizzazione di un’immagine chi-
mica piuttosto che digitale, quanto quello
del modo con cui ci si serve di uno strumento; in questo senso posso usare il digitale come se fosse analogico, solo con
alcune possibilità in più. L’importante è
non farsi prendere la mano dalla facilità
delle manipolazioni che molto facilmente
ci conducono al kitsch.
a proposito di contraddizioni è singolare
osservare come da un lato con il digitale e
con i cellulari, la pratica della fotografia si
sia enormemente diffusa ma come al contempo «i giovanissimi non sanno più cos’è
la fotografia» come ebbe a dichiarare Roberta Valtorta nel convegno di Venezia del
2012. È per questo motivo che la Valtorta
sottolineava l’importanza dell’attività didattica che si tiene presso il museo di fotografia
contemporanea di Cinisello Balsamo,
presso Milano.
abbiamo un aumento incredibile di capacità tecnologiche cui fa da contrappunto
una preoccupante incapacità operativa di
servircene, di modificarle a nostro criterio,
di intervenire sulla loro funzione in maniera
consapevole e finalizzata a dar loro un preciso senso; le manipolazioni tecniche delle
immagini hanno luogo secondo modalità
sempre più omologate ed è diffusa la sensazione che non vi sia nulla di nuovo da ricercare, che vi sia un programma già pronto
per ogni esigenza a patto però che le nostre
esigenze siano previste dai programmi.
analogamente di fronte ai problemi tecnici
che riguardano le nostre attrezzature, le risposte sono quelle già previste e program-
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La fotografia come estensione della memoria
mate. Non sono più possibili interventi e
modifiche come quelle che i tecnici
dell’’hasselblad erano ben disponibili a realizzare in base alle mie personali richieste.
Il digitale offre possibilità facili e illimitate
di manipolazione d’immagini ma mi sembra
che la fotografia di ricerca e di sperimentazione sia estremamente priva di novità rispetto a quello che ci sorprendeva ai tempi
dell’analogico nel fecondo rapporto fra
aspetti tecnici e contenuti culturali: dalle ricerche di Moholy Nagy e Man Ray fino a
Veronesi e Migliori. Ebbi il privilegio di conoscere Luigi Veronesi in un incontro negli
anni ottanta, quando già allora egli mi
esprimeva un accorato lamento sul progressivo impoverimento e standardizzazione dei
mezzi chimici, delle pellicole e delle carte
con rabbia e al contempo con un vigore sorprendente, data l’età, mostrando inalterati
l’entusiasmo e la volontà di ricercare, sperimentare e produrre.
La vera fotografia è una pratica molto solitaria. Fu osservato che chi fotografa non
partecipa all’evento e se viene indotto a
prendervi parte, non è più in grado di fare
fotografie. Essa è una pratica solitaria ma
nello stesso tempo è un mestiere che pone
chi lo fa in una continua relazione con
l’uomo e con ciò che l’uomo ha prodotto,
o ciò che è osservato e giudicato dall’uomo
degno di tale osservazione: nel bene e nel
male, sia esso un paesaggio, una bella
donna, un volto morente o un assassino arrestato. Molto raramente il fotografo interagisce col soggetto, anche se si potrebbe
dire che, al contrario, la fotografia è la testimonianza di un’interazione. Esiste tuttavia una situazione nella quale questo
rapporto diventa palese e cruciale: talvolta
l’apparecchio fotografico crea uno spazio
riservato, del tutto particolare e inconsueto,
che circoscrive e protegge la relazione che
si crea fra il soggetto ed il fotografo. Nel
caso del ritratto è proprio la presenza del
diaframma dell’apparecchio fotografico che
a volte fa scattare un colloquio del tutto singolare fra il fotografo ed il soggetto che
guarda in macchina riflettendo su quella
traccia di sé che sta per lasciare: su ciò che
essa rivelerà, su come egli vede se stesso nel
momento in cui è osservato dal negativo in
quell’istante o nel tempo delle lunghe pose
dei fotografi dell’ottocento. La macchina
fotografica diventa un paravento a difesa
della sua intimità e delle sue emozioni, e
nello stesso tempo un veicolo. Il fotografo
deve restare dietro alla macchina, il soggetto ne è difeso e sa che non vi è rischio di
superare certi limiti. Talvolta, se il fotografo
sa ascoltare, egli si lascia andare a riflessioni
su di sé, a confidenze, a pensieri segreti, che
restano scritti nelle pieghe del suo volto e
che non rivelerebbe mai se non filtrati dalle
consuete difese. Il fotografo da solo, di
fronte all’altro, può riuscire a creare lo spazio privilegiato del confessore, dello psicologo, tuttavia è solo, osserva con rispetto,
non si mette in causa se non con le proprie
domande, con la propria attenzione.
Il fotografo è solo, al di fuori da ciò che sta
accadendo. osserva dentro ad un mirino,
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Corrado Fanti
51 Ho citato molti autori e ho
precisato concetti ben noti a
lettori iniziati all’argomento,
ma, dato il contesto in cui si
pone la presente pubblicazione e l’Istituzione che la
promuove, ho pensato ad una
finalità anche didattica di
questo scritto rivolto quindi
anche a giovani che potranno
cogliere le provocazioni e approfondire e discutere gli argomenti trattati.
un’inquadratura che oscura tutto ciò che
sta attorno, una finestra che lo allontana e
al contempo lo avvicina in modo nuovo alla
realtà. anzi egli non la vede più: un occhio
è chiuso e l’altro osserva un’immagine diversa, a due dimensioni, su di uno schermo
e spesso la vede mentalmente in bianco e
nero, se la sua mente è allenata a vedere nei
modi della cromia della pellicola caricata in
macchina. È un momento di assoluta solitudine, di concentrazione, di permeabilità
nel quale ci si lascia spesso condurre dall’immagine proiettata sul vetro smerigliato.
Ci si accorge – dopo – che, nei casi più felici
d’insight, non eravamo tanto noi a creare
l’immagine, quanto era quest’ultima a rivelarsi nella pienezza di un senso che era celato nel momento in cui la osservavamo
distrattamente, nella visione ordinaria.
Guardando in macchina siamo fuori dalla
realtà, percepiamo quanto il senso di ciò che
stiamo vedendo non ne sia che una traduzione mentale, e ci troviamo in un’insolita
solitudine che al contempo è rapporto profondo con ciò che vediamo. È una solitudine che normalmente temiamo, un silenzio
che fa paura e che nella nostra quotidianità
deve essere riempito ovunque da musica
come rumore di fondo. La pratica che ho
descritto oggi avviene sempre più di rado
nell’organizzazione manageriale della produzione fotografica. La fotografia con il cellulare diventa un gesto senza poesia, senza
silenzio, senza il tempo lungo dell’attenzione. appositi dispositivi ci permettono di
eseguire riprese non mosse pur muovendoci, per non perdere tempo, proiettati
continuamente nel gesto successivo senza
mai riuscire a vivere il presente.
Penso a qualche breve e intenso momento
vissuto con Paolo Monti camminando su
una costa dell’appennino per fotografare
insieme a lui il paesaggio. Non ci scambiavamo neppure una parola, eppure comunicavamo nel breve contatto dei nostri
sguardi silenziosi, attraverso il digradare dei
colli. Le parole venivano poi, magari in una
lunga serata a Milano, guardando le immagini, parlando di forme e di tecniche.
Mi accorgo che il tono è quello del rimpianto, ma anche della gioia profonda che
ho sempre colto negli occhi di quanti stavano facendo con amore il proprio mestiere. Della mia gioia per i progetti e le
scoperte sempre nuove che mi venivano regalate, per quella solitudine piena dei segni
del passato e gravida della storia dell’uomo,
che mi accompagnava mentre camminavo
sulle zolle dei campi, dentro alle chiese,
nelle antiche città51.
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La pratica
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L’utilizzo della fotografia nella ricerca storica 147
Adolfo Mignemi
L’utilizzo della fotografia nella ricerca storica.
Impariamo a leggere la copertina di un libro
È divenuta ormai una consuetudine che i
saggi di storia o i libri, i quali pretenderebbero di essere tali, affidino, nella maggior
parte dei casi, il loro primo contatto con il
lettore ad una immagine fotografica ovvero
ad un documento a cui non si fa alcun riferimento nel testo scritto e del quale, in linea
di principio, sostanzialmente si diffida.
Non si è sottratto a questa logica il saggio
Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa1 nel
quale, a dire il vero, l’autore sembra collocarsi più sul versante della narrazione divulgativa a sfondo storico che sul terreno del
saggio vero e proprio. alla lettura fin dalle
prime pagine, infatti, ci si rende pienamente
conto di come Pansa abbia utilizzato, ad
esempio, una ampia bibliografia che però
non ha ritenuto opportuno condividere con
il lettore attraverso quei, cosiddetti, ‘apparati scientifici’ – le noiosissime note – che
solitamente contraddistinguono la saggistica storiografica ma, soprattutto, consentono ai curiosi di approfondire, confrontare
e valutare le analisi sviluppate nel testo.
Pansa è in primo luogo giornalista: padroneggia bene nella scrittura l’interagire delle
fonti diverse – la parola scritta, la testimonianza e le immagini – e i suoi testi, non
solo quest’ultimo, si presentano scritti in
forma tale da indurre quasi costantemente
il lettore a cercare il supporto dell’immagine – fotografia o film che sia – su cui egli
sembra essersi documentato. Come quasi
sempre accade ai giornalisti che si cimentano in un saggio storico, egli tende però a
contenere al massimo le sue virtuose capacità narrative per indulgere al vizio della
accademia che considera fonti vere solo
quelle scritte mentre tutto il resto è tenuto
al più come ornamento.
Nel libro pertanto se gli par utile ogni tanto
citare qualche studioso o qualche pubblicazione, quando vuol richiamare una immagine fotografica lo fa come se tutti la
conoscessero e, nella maggior parte dei casi,
senza premurarsi di indicare dove egli l’ab-
1 Il volume è stato edito da
Sperling & Kupfer, Milano, nel
2003.
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Adolfo Mignemi
1. Copertina del volume
Il sangue dei vinti,
Sperling & Kupfer, Milano 2003.
2. Copertina del volume
Il sangue dei vinti con
l’immagine modificata
per la seconda edizione
in una delle numerose
ristampe (Sperling Paperback, Milano (2010).
bia vista, né di menzionarne – ma questo è
un vizio tipico dei periodici – quando l’immagine è riprodotta, l’autore, preferendogli
in assoluto il nome dell’agenzia che ha fornito
l’immagine ma che – nel caso di fotografie di
carattere storico, è frequente – non è detto
che ne detenga effettivamente i diritti.
Il sangue dei vinti ci propone così in copertina il particolare di una fotografia scattata
ad un uomo in abiti civili che avanza, mani
alzate sul capo, al centro di una via circondato da una folla vociante. Sullo sfondo
sono stati collocati due occhi che sembrano
evocare sgomento e dolore.
Benché si tratti – ed è cosa rilevante – non di
una fotografia ma di un fotomontaggio, il risvolto di copertina ci annuncia che essa è
una immagine dell’archivio Paolo Pisanò,
che fu scattata a Milano il 30 aprile 1945 ma
senza nulla aggiungere sulle circostanze ( che
in realtà si datano al 28 aprile) e sull’autore.
Sono stati i giornali pubblicati nei giorni
successivi all’edizione del libro a ‘rivelare’
che l’uomo catturato era Barzaghi, il ‘boia
del Verzé’, e che la foto (anzi, a dire il vero,
si tratta di un fotogramma di un’ampia sequenza) era stata scattata da un fotografo
dello studio Farabola.
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L’utilizzo della fotografia nella ricerca storica
L’immagine era stata in questi settanta anni
pubblicata infinite volte. Uno scatto tratto
dalla sequenza era comparso nella prima
pagina dell’edizione milanese di «avanti!»
del 29 aprile 1945; l’immagine era poi comparsa nelle pagine dei vari volumi dedicati
da Giorgio Pisanò alla guerra civile2 ed era
stata inclusa anche in una classica monografia dedicata a Farabola da Gaetano afeltra3,
in cui si sottolineava il suo appartenere ad
una vera e propria sequenza fotografica. È
inspiegabile perché Pansa abbia preferito
non approfondire la questione dell’origine
dell’immagine scelta per la copertina tanto
più che probabilmente l’archivio Pisanò ne
conserva copia puntualmente timbrata sul
retro da Farabola, come lo studio fece con
tutte le immagini – e furono veramente
tante – uscite dai suoi laboratori fin da quei
giorni di fine aprile, inizi di maggio 1945.
Perché non restituire al suo legittimo autore
un diritto inalienabile? Perché privare chi
non ha mai visto quella immagine del diritto di sapere che, innanzitutto, la copertina propone il particolare di una ripresa
fotografica, inoltre che l’autore di quello
scatto non era né un casuale passante né un
partigiano, difficilmente rintracciabili a di-
149
3. Agenzia Farabola, La
cattura di Carlo Barzaghi, il ‘boia del Verzé’,
Milano, 28 aprile 1945.
Immagine originale utilizzata per la copertina
del volume il Sangue
dei vinti.
2 Cfr. Il vero volto della guerra
civile, supplemento al n. 9 del
3 marzo 1961 di «Gente. Settimanale di politica, attualità
e cultura», Milano; G. PISANÒ,
Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, Edizioni FPE,
Milano 1965.
3 G. AFELTRA, Farabola fotografo d’assalto, Rusconi, Milano 1982.
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150
Adolfo Mignemi
4 È da notare che nelle edizioni successive del saggio
scompaiono dall’immagine di
copertina gli occhi.
5 Il filmato è liberamente visibile nel sito Archivio Piero
Bottoni. Urbanistica Architettura Design Arte. Sez. Film e
studi di tecnica cinematografica (http://www.archiviobottoni.polimi.it).
Alla «successione non organizzata di riprese dei giorni
della Liberazione a Milano»,
realizzata da Bottoni e della
durata di 9 minuti, è stato
dato il titolo 25 aprile 1945.
stanza così grande di anni, bensì un fotografo
professionista il cui archivio è ancora attivo.
Si potrà opporre a queste osservazioni che in
fondo tutte queste cose potrebbero non essere fondamentali ad una completa lettura
della fotografia: Pansa voleva comunicare
la sofferenza che la memoria di quei giorni
deve suscitare in tutti, non solo nei vinti, e
il fotomontaggio di copertina, bello o
brutto che sia dal punto di vista grafico, assolve egregiamente allo scopo4.
Barzaghi era solo una delle migliaia di vittime di quei giorni dell’odio e la fotografia
restituisce quello spessore emozionale forse
meglio di uno sterile elenco di nomi, che
non sa grondare sangue.
Lo aveva ben capito Giorgio Pisanò quando
negli anni Cinquanta avviò per conto dell’editore Edilio Rusconi quella raccolta di
materiali che avrebbe pubblicato prima sul
settimanale milanese «Gente», di grande
diffusione, poi in opere altrettanto ampiamente diffuse anche in veste di fascicoli
venduti in edicola, come la Storia della
guerra civile in Italia. Ma la fotografia di
Farabola, considerata nella sua interezza e
quindi non ‘tagliata’ come nella copertina
in questione, aggiunge ben altre cose.
La drastica riduzione della folla che accompagna Barzaghi priva infatti l’immagine di
uno spessore sociologico che è essenziale
alla sua lettura e alla comprensione stessa
di ciò che stava accadendo: c’era una folla
che odiava palesemente la vittima e la accompagnava in un rituale quasi macabro –
ancor più macabro quando scopriamo che
alla fine del percorso vi fu l’esecuzione pubblica – tra uomini, donne e ragazzi che si
mettono in posa per il fotografo che è sempre lì presente, identificato e quasi invocato
con la sua tecnologia e la perizia professionale.
È inconfutabile che in tutta probabilità un
fotografo improvvisato non ci avrebbe consegnato una sequenza di analoga qualità né
intensità emozionale.
Non ci paiono questioni di poco conto.
Va segnalato infine che vi è anche una sequenza cinematografica girata contestualmente e finita in un montaggio realizzato da
Piero Bottoni nel 1945. Il filmato, oggi conservato al Dipartimento architettura e
Studi Urbani del Politecnico di Milano,
fondo Piero Bottoni, restituisce, da una diversa posizione, ma con gli stessi intenti documentari quel tragico ‘rituale’5.
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L’utilizzo della fotografia nella ricerca storica
151
4. Fotogramma del filmato raccolto da Piero
Bottoni, 1945 (© Archivio Piero Bottoni, Dipartimento Architettura e
Studi Urbani del Politecnico di Milano).
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1. Classe IV della Scuola
elementare Oriani, a.s.
1937/1938. Si riconosce
Lia Finzi, cacciata dalla
scuola all’inizio dell’anno
scolastico successivo,
Venezia, 1938 (archivio
privato L. Finzi).
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La fotografia come documento nella didattica della storia
Maria Teresa Sega
La fotografia come documento
nella didattica della storia
Premessa. Il contesto in cui operiamo
Per una pratica didattica che consideri le fotografie come documento è indispensabile
conoscere il linguaggio fotografico, il mezzo
tecnico e la sua evoluzione nel tempo.
I ragazzi vivono immersi in immagini continuamente prodotte e immediatamente
consumate, scambiate tramite social network, presto dimenticate: un flusso di comunicazione visiva senza mediazione,
selezione e interpretazione.
ognuno può diventare produttore di notizia riprendendo una scena o accadimento e
mettendolo in rete, dove può essere rilanciato e diffuso e raggiungere un numero
esponenziale di contatti. Così abbiamo potuto vedere di recente il filmato in diretta
dell’attentato terrorista al museo del Bardo
a Tunisi, ripreso con una piccola videocamera da un turista e mandato in onda dai
telegiornali di tutto il mondo. Nessun fotoreporter era presente, eppure queste immagini, prese in maniera quasi involontaria,
sono entrate nella storia a documentazione
del fatto. E nel nostro immaginario.
anche limitandoci alla vita privata, alla dimensione quotidiana e sociale, la produzione di immagini, con i mezzi digitali di cui
disponiamo, non necessita della prestazione
di un esperto e viene immediatamente
scambiata esaltando il protagonismo del
soggetto in pubblico e il mantenimento di
una rete di relazioni che va oltre il rapporto
col territorio. Smartphone, computer e social network sono anche un modo di archiviare le immagini che ha sostituito il
cassetto e l’album. Per mostrare le proprie
foto si apre lo smartphone o il tablet e si
fanno scorrere. Quali tracce lasciano?
Come saranno archiviate? Come saranno
utilizzate dai futuri storici?
Sostiene Serge Noiret, che al tema ha dedicato pagine illuminanti: «tutte le fotografie
in rete divengono potenzialmente fonti per
la storia, indipendentemente dalla loro origine e dalla loro collocazione nei siti web»,
153
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154
Maria Teresa Sega
1 S. NOIRET, Nulla sarà più
come prima: considerazioni
sul digital turn e le fonti fotografiche dal punto di vista
della storiografia, in G.B. BRUNETTA, C.A. MINICI ZOTTI (a cura
di), La fotografia come fonte di
storia, Istituto Veneto di
Scienze Lettere e Arti, Venezia
2014.
2 Rimando al mio testo Il soggetto e lo sguardo. L’immagine fotografica delle italiane,
in G.B. BRUNETTA, C.A. MINICI
ZOTTI (a cura di), La fotografia
come fonte di storia… cit., pp.
271-102.
3 Si tratta di Prosperina Vallet
‘Lisetta’, nata ad Aymavilles
(AO) nel 1911, partigiana della
formazione Vetrosan. La foto
fu scattata dagli alleati, fu
trovata negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra.
Le due giornaliste sono Emanuela Risari e Maria Teresa
Zonca. A. MIGNEMI (a cura di),
Storia fotografica della Resistenza, Einaudi, Torino 1995.
Mignemi ha ricostruito la storia della forse più nota foto
della resistenza femminile:
quella che ritrae tre ragazze
armate in via Brera a Milano,
lasciando intendere che sia
stata scattata durante l’insurrezione, in realtà lo scatto
è del 28 aprile e le ragazze,
studentesse di Brera, stanno
andando a consegnare le
armi (che non hanno mai
usato).
tuttavia «i contenuti che includono documenti fotografici, digitalizzati o nativi digitali, o che combinano documenti nativi
digitali con immagini che derivano da originali analogici, non sono stati e non sono
oggetto di riflessioni sistematiche sulla loro
conservazione»1.
C’è da considerare, se ci si accinge a fare un
ricerca su un determinato argomento, la facilità con la quale è possibile reperire immagini tramite internet e di utilizzarle senza
troppo preoccuparsi di copyright, provenienza, veridicità.
Si fa un uso (e abuso) pubblico di immagini
come evocazione e rappresentazione, spesso
le stesse, immediatamente riconoscibili perché già entrate nell’immaginario sociale,
avulse da ogni contesto di pertinenza, adottando unicamente un criterio estetico o di
efficacia comunicativa. Prendiamo ad esempio le fotografie di partigiane in armi che,
utilizzate come simbolo della Resistenza
senza alcuna didascalia, o con didascalia
inesatta, producono un’immagine spesso
distorta della partecipazione delle donne.
Nulla ci dicono delle protagoniste, che rimangono volti anonimi2. Per contro va sottolineata la potenzialità di internet per la
loro identificazione, come è accaduto per
la partigiana che marcia nella neve con i
compagni in Val d’aosta, una delle più note
e diffuse, di cui si è potuto conoscere alcuni
anni fa il nome e la storia grazie all’appello
facebook di una giornalista, raccolto e rilanciato al TG locale da un’altra giornalista.
Il giorno dopo è arrivata in redazione la telefonata delle figlie3.
Le fotografie e il laboratorio di storia
Per affrontare il tema della fotografia come
fonte nella didattica della storia mi sembra
indispensabile dunque partire dalle pratiche attuali di produzione e divulgazione
delle fotografie e da un confronto con le
precedenti. Proprio tenendo conto della ‘rivoluzione digitale’ è indispensabile una formazione critica delle immagini.
Il web può essere un grande serbatoio a cui
attingere, che amplia moltissimo l’accessibilità a fondi fotografici e archivi, a patto che
si sappiano selezionare le informazioni e le
fonti attendibili con criteri di pertinenza
(web quest con la supervisione dell’insegnante). Si sta progressivamente diffondendo, da parte di istituzioni culturali e
fondazioni private, la creazione di archivi digitali di fotografie scannerizzate ed è auspicabile che tale pratica sia incrementata.
Si tratta di un contesto e un modo di operare molto diverso da quello nel quale ho
iniziato, a metà anni ottanta, a sperimentare percorsi di didattica della storia con la
fotografia: uscivamo di classe, con macchina fotografica analogica e registratore, a
documentare il territorio, sviluppavamo e
stampavamo le foto in laboratorio, cercavamo foto in archivi pubblici e privati (non
era sempre facile avere le riproduzioni); poi
si procedeva a operazioni di archiviazione,
tematizzazione, selezione e collocamento all’interno di ordinatori spazio-temporali.
La metodologia di riferimento – allora e
oggi – è quella del laboratorio di storia, inteso sia come luogo attrezzato che come atteggiamento mentale e organizzazione del
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La fotografia come documento nella didattica della storia
155
2. Classe IV dell’Istituto
Magistrale Nicolò Tommaseo, a.s. 1937-1938.
Si riconoscono Alba
Finzi, cacciata da scuola
all’inizio dell’anno scolastico successivo, e il
preside Augusto Levi,
anch’esso allontanato.
Venezia, 1938 (archivio
privato A. Finzi; fotografia conservata anche
nell’archivio dell’Istituto Tommaseo).
lavoro di gruppo. Questo metodo, che ha
avuto negli anni una lunga elaborazione e
sperimentazione4, addestra alla costruzione
attiva del sapere, attraverso una serie di
operazioni analoghe a quelle compiute
dallo storico. Un ruolo centrale ha la conoscenza e la lettura critica delle fonti, il loro
intreccio e confronto per ricavare le informazioni: ponendo le domande costruiamo
il documento.
Vi sono oggi sperimentazioni di insegnamento laboratoriale che, utilizzando nuovi
ambienti, tecniche e strumenti (pc, tablet,
L.I.M. e rete), si rivelano particolarmente
utili per l’apprendimento di competenze
complesse, servendosi di internet per la co-
struzione di un sapere cooperativo e un
percorso conoscitivo basato sul porre le
giuste domande e la ricerca delle risposte
(inquiry learning), con la mediazione dell’insegnante5.
Se consideriamo le fotografie come fonti6 è
utile iniziare con una serie di esercizi volti
ad analizzare criticamente i luoghi comuni
associati all’immagine fotografica (oggettività, neutralità, aderenza alla realtà). È indispensabile chiedersi, procedendo alla
critica del documento, quale rapporto intercorre tra immagine ed evento: che cosa
dice, occulta, distorce? Il senso comune è
portato a dare un valore di fonte primaria
alle immagini, come traduzione immediata
4 Mi riferisco in particolare
alle pratiche delle associazioni di educatori come Movimento di cooperazione
educativa (MCE), di gruppi di
ricerca sull’insegnamento
della storia (CLIO 92 e IRIS) e
della rete di Istituti storici che
fa capo all’Istituto nazionale
per la storia del movimento di
liberazione in Italia (INSMLI).
C. BRIGADECI, A, CRISCIONE, G. DEIANA, M. GUSSO, Il laboratorio di
storia, Unicopli, Milano 2001;
G. BERTACCHI, L. LAJOLO, L’esperienza del tempo. Memoria e
insegnamento della storia,
EGA, Torino 2003.
5 Vedi la rivista on line dell’INSMLI www.novecento.org. Didattica della storia in rete.
Dossier La storia nell’era digitale.
6 M.T. SEGA, La storia scritta
con la luce. La fotografia come
fonte, www.bibliolab/laboratorio di storia/gli interventi
degli esperti.
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156
Maria Teresa Sega
3. Alunni e insegnanti
della Scuola media
ebraica. Si riconoscono
l'alunna Lia Finzi e il
preside Augusto Levi,
Venezia, 1939 (archivio
privato L. Finzi).
e perciò fedele della realtà: ciò che è testimoniato visivamente appare più veritiero di
ciò che è narrato. Fondamentale è acquisire
consapevolezza che l’operazione del fotografare, anche quando si vuol ottenere il
massimo di realismo, ritaglia un frammento
di spazio, di movimento, e fissa una sequenza temporale. Essa è essenzialmente
un punto di vista sulla realtà.
Se proviamo a descrivere fatti, situazioni e
relazioni tra i soggetti presenti in una foto
(chi sono, dove si trovano, cosa pensano?)
senz’altra informazione, il risultato prevedibile è che ognuno immagina situazioni
diverse, con maggiore o minore approssimazione a seconda delle preconoscenze
possedute e della capacità di ricavare in-
formazioni. Priva di contesto la foto è muta,
inutilizzabile come fonte. Stendiamo quindi
un elenco di domande e progettiamo una
scheda che raccolga i dati che dobbiamo
conoscere per la ricerca, a partire dalle informazioni minime (data, luogo, soggetto,
autore, scopo, archivio di provenienza),
dati che possono essere ampliati fino a comprendere la tecnica di produzione, elementi
della composizione, appartenenza ad una
serie, all’uso privato/pubblico dell’immagine nel tempo, informazioni ricavabili
dalla foto stessa, da altre fonti (orali o
scritte) o da inferenze. a questo punto
siamo in grado di stendere una esauriente
didascalia.
Il secondo passo è quello di considerare
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La fotografia come documento nella didattica della storia
157
4. Alunni e insegnanti
del Liceo ebraico. Si riconoscono l’alunna Alba
Finzi e il preside Augusto Levi, Venezia, 1939
(archivio privato L.
Finzi).
l’evoluzione storica dei mezzi di produzione, mettendo in relazione il prodotto con
lo strumento: saper distinguere un’immagine digitale da una analogica, un originale
da una copia è un requisito fondamentale,
così come capire come l’evoluzione delle
prime macchine fotografiche, ingombranti
e che richiedevano lunghe esposizioni, alle
più maneggevoli piccole camere tipo Leica
con pellicola avvolgibile, hanno reso possibile la nascita del reportage fotografico.
ampliamo il discorso alla lettura dell’immagine: composizione (ad esempio analizzare
le relazioni tra persone nelle foto di famiglia
o di gruppo, gli ambienti, la disposizione
degli oggetti); distinzione tra posa e istantanea.
altro dato importante è la ricostruzione di
una serie: fotografie dello stesso autore in
contesti e tempi diversi; fotografie che rappresentano la stessa occasione (foto di
classe) in tempi diversi, ecc.
È indispensabile l’operazione della tematizzazione (la scelta di un tema di analisi) e
l’individuazione delle fonti sulle quali basare la propria indagine. Come reperire le
fotografie? Ricognizione negli archivi presenti nel territorio, archivi informatici, archivi privati, pubblicazioni. Ci troveremo a
disposizione materiale eterogeneo che dovremmo selezionare per procedere a una
schedatura della singola o di una serie omogenea di foto.
La costruzione di una linea del tempo dove
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158
Maria Teresa Sega
5. Quaderno di Lia Finzi,
con foto ricordo delle
compagne dell’Istituto
Montebello di Castagnola (Lugano), dove ha
vissuto durante la sua
permanenza in Svizzera, 1945 (archivio privato L. Finzi).
collocare le fotografie si rivela uno strumento molto utile per storicizzarle e contestualizzarle, tanto più se le informazioni
sono attinte dalla rete in cui il percorso reticolare sostituisce quello lineare: essa evidenzia, in una lettura in orizzontale, i
cambiamenti, in una lettura verticale, consente di fare confronti e mettere in relazione, ad esempio fotografia e altre tecniche
di produzione di immagini (pittura), strumenti di divulgazione (giornali illustrati),
contesto politico. Possono essere inventati
altri strumenti ordinatori per evidenziare le
relazioni, come grafici ad albero (foto di famiglia), a rete o a stella.
Se scegliamo di analizzare ad esempio le trasformazioni del territorio, il percorso può
iniziare da una visita agli archivi locali, per
prendere visione della documentazione
conservata, che consente anche un contatto
con la fotografia originale nella sua materialità.
Si prosegue con la visita ai luoghi per realizzare un reportage fotografico e se è pos-
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La fotografia come documento nella didattica della storia
sibile incontrare testimoni: scelta di alcuni
siti significativi per comprendere le trasformazioni del paesaggio opera della natura e
opera dell’intervento umano (ad esempio il
corso di un fiume), o il riuso di un edificio
nel tempo, ecc.
abbiamo bisogno di acquisire mappe attuali
e storiche dei luoghi e di costruire una linea
del tempo in cui collocare eventi e periodi:
lunghe, medie o brevi durate a seconda di
ciò che si vuole osservare. Si attivano diverse
operazioni cognitive: confronto presente/
passato; relazioni tra oggetto e contesto, micro e macrostoria; relazioni tra fonti diverse;
ed infine progettazione di un prodotto di
sintesi e comunicazione (power point, mostra, video).
Per la ricerca in classe un utile suggerimento è attingere all’archivio stesso della
scuola, che può riservare interessanti sorprese, e agli archivi privati conservati dalle
famiglie degli studenti, che si rivelano
spesso di grande interesse. Entrambi hanno
il vantaggio di essere accessibili e prossimi,
159
6. Libretto di rifugiata di
Lia Finzi, con foto identificativa rilasciato dal Governo federale elvetico
(archivio privato L.
Finzi).
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Maria Teresa Sega
7. Classe V della Scuola
elementare ebraica in
Ghetto. Tra gli alunni
Angelo Grassini, deportato ad Auschwitz e non
tornato, Venezia, 1940
(archivio privato Lidia
Dina).
7 M.T. SEGA (a cura di), La
scuola fa la storia. Gli archivi
scolastici per la ricerca e la didattica, Nuova Dimensione,
Portogruaro (VE) 2002.
8 www.imago.rimini.unibo.it,
responsabile prof. Paolo Sorcinelli, documentazione sulla
memoria del quotidiano con
una sezione fotografica, immagini tratte da album di famiglia.
cioè di stabilire una relazione diretta tra il
sé e la storia7.
La ricerca coordinata dal prof. Sorcinelli all’Università di Bologna - sede di Rimini si
propone proprio di valorizzare questi archivi, attraverso la realizzazione di un archivio on-line, in cui le fotografie raccolte sono
documenti per analizzare i cambiamenti generazionali. Leggiamo:
Le esperienze didattiche condotte all’interno
dell’insegnamento di Storia Sociale hanno
dimostrato che la ricostruzione del passato
attraverso le fotografie conservate in famiglia, contribuisce a creare attorno alle immagini di bisnonni, nonni e genitori un
interesse che può trasformarsi in un reticolo
di conoscenze storiche che vanno aldilà del
nucleo familiare, per abbracciare l’intera società, le visioni e le rappresentazioni del
mondo.
E ancora:
La scomposizione dei diversi tasselli di
un’immagine permette ad una èquipe di ricercatori di fornire di ciascuna immagine una
lettura diacronica e comparativa delle mutazioni strutturali, della cultura e delle mentalità collettive attraverso i cicli generazionali8.
Con le foto portate dai ragazzi si possono
costruire insiemi, serie, confronti, analizzare le pose, scoprendo come ogni soggetto
è fotografato nei rituali sociali di passaggio,
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La fotografia come documento nella didattica della storia
laici e religiosi, con modalità analoghe che
si ripetono nello spazio e nel tempo, ma che
la sua individualità è irriducibile, non viene
del tutto cancellata. Nei ritratti la soggettività parla attraverso il corpo, l’atteggiamento, l‘espressione, ma è anche caricata di
riferimenti, sia da parte del fotografato sia
del fotografo, a modelli dominanti, stereotipi
di genere, di generazione, di classe sociale di
cultura (la maschera); e questo ci aiuta a capire che ci sono diversi piani di lettura di
ogni singola fotografia: rappresentazione,
autorappresentazione, informazione.
Nelle classi multietniche di oggi questo lavoro può presentare aspetti problematici,
come l’accentuazione delle differenze, ma
anche può rappresentare un arricchimento.
Si porrà ad esempio il problema di che cosa
è fotografabile, e quindi mostrabile, in un
determinato contesto sociale e culturale, ciò
che la foto cela o non dice, oltre a ciò che
mostra.
Scuola e Shoah: un percorso conoscitivo
Da alcuni anni propongo alle scuole – di
ogni ordine e grado – un approccio conoscitivo sulla Shoah attraverso la storia della
scuola: un approccio che vede protagonisti
bambini e ragazzi ebrei veneziani, cacciati
dalla scuola pubblica, e ne segue le vicende
161
8. Multiclasse della
Scuola elementare
ebraica, con la maestra
Alba Finzi e il Rabbino
Elio Toaff, Venezia, 1946
(archivio privato A.
Finzi).
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162
Maria Teresa Sega
9. Classe II della Scuola
elementare ebraica con
la maestra Lia Finzi, Venezia, 1950 (archivio privato L. Finzi).
fino alla fine della guerra e il ritorno a
scuola, in un percorso che si snoda nell’arco
di un decennio, dalla promulgazione delle
leggi razziali (1938) al dopoguerra (1948)9.
Partiamo da una ricognizione sull’immaginario: a quali immagini viene spontanea-
mente associato il tema Shoah? Solitamente
vengono alla mente immagini dell’orrore, i
corpi aggrappati a fili spinati nei lager, o
buttati per terra; ma se parliamo di infanzia
è la foto del bambino con le mani alzate arrestato con altre persone nel Ghetto di Varsavia, presente in ogni manuale, ad essere
conosciuta. Nella nostra ricerca non ci sono
foto dell’orrore, ma ritratti di bambini/e,
ragazzi/e, foto di classe, immagini della normalità che risultano emotivamente toccanti
se veniamo a conoscere i soggetti prima e
dopo l’abbattersi delle leggi razziali nelle
loro vite.
Un modello di ricerca storica e didattica a
cui fare riferimento è il lavoro realizzato a
cura di Maria Bacchi e Fernanda Goffetti
nell’Istituto comprensivo Luisa Levi di
Mantova, al cui centro c’è la bambina ebrea
a cui è stato intitolato10. Seguendo la storia
di Luisa si giunge a comprendere che cosa
avviene agli ebrei in Italia e in Europa tra
leggi razziste e soluzione finale. Il libro che
illustra la proposta didattica inizia mostrando le foto incollate in una pagina di
album di Luisa da piccola (in costume regionale, con la bambola, mentre fa le bolle
di sapone), dove appare come una bambina felice come tante, una ‘bambina e
basta’11; veniamo però a conoscere dalla didascalia che l’album è stato trovato sepolto
nel giardino di casa Levi12, dove era stato
nascosto: da questo spaesamento iniziale e
dall’interesse che suscita prende avvio la ricerca. Nel lavoro didattico, che porta progressivamente i bambini ad allargare le
conoscenze a partire dalle loro domande,
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La fotografia come documento nella didattica della storia
le fotografie hanno un ruolo fondamentale
di fonti, analizzate e collocate all’interno di
strumenti ordinatori (tempo e spazio): seguiamo così la crescita della bambina
Luisa, le relazioni con i familiari e con altri
bambini, i luoghi della sua infanzia e adolescenza e infine i luoghi lontani della deportazione (auschwitz, Ravensbruck,
Bergen Belsen) dove è stata e da cui non è
tornata. «Sulla strada che mi ha portato
verso Luisa, dopo i racconti dei coetanei,
sono riaffiorate decine di fotografie», afferma Maria Bacchi, autrice della ricerca, e
prosegue:
Dai primi giorni di vita agli ultimi di libertà,
Luisa deve essere stata il soggetto preferito
della passione fotografica di una famiglia numerosa: era la più piccola e la più burlona.
Queste foto, le dediche scritte sul retro,
l’usura delle superfici, la memoria di chi me
l’affidava, i luoghi in cui erano riposte contribuirono a costruire meglio la conoscenza
dei contesti della sua vita e, soprattutto, le
caratteristiche della sua personalità. […]
Fotografie che affiorano, colme di intatta freschezza, da un passato reso ancor più remoto
dalla guerra e dallo sterminio degli ebrei.
Come quelle contenute in una valigetta sepolta nel giardino della casa nell’autunno
1943, prima della fuga. Le ritrovò Franco, il
163
10. Album con foto degli
alunni della Classe I
della Scuola elementare
ebraica della maestra
Lia Finzi, Venezia, a.s.
1950-1951 (archivio privato L. Finzi).
9 Sulla ricerca ho curato una
mostra e relativo catalogo: Ritorno a scuola. L’educazione
dei bambini e dei ragazzi ebrei
a Venezia tra leggi razziali e
dopoguerra, Nuova Dimensione, Portogruaro (VE) 2012.
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164
Maria Teresa Sega
11. Pannello della mostra Ritorno a scuola.
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La fotografia come documento nella didattica della storia
fratello maggiore, l’unico sopravvissuto della
famiglia; e le portò con sé in Israele, dove ho
potuto vederle13.
anche nella nostra ricerca veneziana le fotografie conservate dai testimoni hanno un
ruolo fondamentale. La nostra indagine
prende avvio proprio da alcune foto di
classe, prima (foto 1 e 2) e dopo le Leggi
razziali (foto 3 e 4), e prosegue con la ricostruzione dei destini di alcuni alunni e
alunne ebrei, per la quale ci avvaliamo di testimonianze orali dei testimoni che siamo
riusciti a rintracciare e documenti da loro
conservati. Un ruolo importante ha l’esplorazione dell’archivio scolastico, dove si può
trovare traccia delle Leggi razziali nelle circolari dell’epoca e delle conseguenze nella
vita scolastica: allontanamento di alunni e
insegnanti ebrei, istituzione di classi speciali
con ingressi separati.
Ci hanno guidato in questo percorso due
sorelle, alba e Lia, che hanno raccontato la
loro storia e fornito i loro documenti e le
loro fotografie. Ci hanno anche aiutato a
identificare le persone (maestre e allievi)
presenti nelle foto, alcuni dei quali a loro
volta ci hanno messo a disposizione i loro
ricordi, orali o scritti. Incrociando le foto di
classe con i registri conservati nell’archivio
scolastico abbiamo verificato i nomi degli
alunni delle classi. Con grande emozione
abbiamo dato un volto ad angelo, un bambino deportato ad auschwitz con la famiglia e mai più tornato (foto 7)14, di cui
avevamo raccolto i ricordi di un compagno
di giochi. Il pannello della mostra finale evidenzia le relazioni tra fonti (foto 11).
Nella nostra ricerca le fotografie hanno valore di fonti primarie, poiché hanno fornito
informazioni essenziali che hanno arricchito
e in alcuni casi provocato la ricerca. Temi
cruciali e difficili come la Shoah sono stati
affrontati con gli studenti, anche di scuola
primaria, a partire dal vicino (la propria
scuola e città), ricostruendo le storie di
bambini e ragazzi come loro e inserendole
nella storia del Novecento. La fotografia
come fonte è importante anche dal punto
di vista didattico, poiché consente di dare
concretezza, associando ai racconti ascoltati
i volti e i corpi di persone reali, di entrare
in contatto diretto con loro e di comprendere l’importanza che ricoprono le immagini fotografiche nell’identità e nella
memoria delle persone. Per questo, spesso
fortunosamente salvate, sono state conservate con cura, come oggetti preziosi, per ricomporre le vite spezzate.
165
10 M. BACCHI, F. GOFFETTI, Storia
di Luisa. Una bambina ebrea a
Mantova, Arcari, Mantova
2011. Il libro contiene lo
SCHEDARIO: schede per un
laboratorio storico-didattico
sperimentato in classi di
scuola primaria.
11 L. LEVI, Una bambina e
basta, Edizioni e/o, Roma
1997. Vedi il laboratorio didattico realizzato dall’ISTORETO
Bambini e basta. 1938 ‘Via
dalla scuola, sei ebreo’, nella
rivista on-line www.novecento.org.
12 M. Bacchi ha trovato l’album in Israele, conservato dai
discendenti del fratello di
Luisa.
13 M. BACCHI, F. GOFFETTI, Storia
di Luisa… cit., p. 25. Maria
Bacchi ha scritto Cercando
Luisa. Storie di bambini in
guerra 1938-1945, Sansoni,
Milano 2000.
14 I volti della memoria. Le fotografie degli ebrei deportati
dall’Italia, progetto del Centro
documentazione ebraica contemporanea (CDEC) per dare
un volto, oltre al nome, agli
ebrei deportati. Visita il sito.
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1. Umberto Antonelli, Una giovane
madre posa insieme ai suoi cinque
figli nello studio del fotografo a
Enemonzo, inizi del Novecento
(collezione privata / Fototeca territoriale CarniaFotografia).
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La fototeca in classe
Adriana Stroili
La fototeca in classe
L’Istituto Comprensivo di Tolmezzo persegue da anni l’obiettivo di suscitare nei ragazzi interesse per la terra d’origine,
affrontando argomenti di studio che siano
collegati alla realtà locale. Nella prospettiva
di una gestione aperta della scuola, la ‘fotografia d’epoca’ fa parte dei temi che meritano un approfondimento con il supporto
di esperti esterni. Dino Zanier – insegnante,
precursore nella didattica della scuola
media con il laboratorio di Educazione all’immagine, socio fondatore del Circolo
Culturale Fotografico Carnico (CCFC) – è
l’insostituibile promotore delle iniziative e
la figura fondamentale di collegamento tra
la scuola e l’esterno – in questo caso il Circolo e la Fototeca territoriale CarniaFotografia.
Per parlare di foto d’epoca con i giovani allievi, viene adottato l’approccio dal ‘basso
verso l’alto’, come sovente si dice oggi in diversi contesti, che consente di spiegare
cos’è una fototeca a partire dalle immagini
custodite nel cassetto di casa; un’impresa
un po’ meno difficile che iniziare illustrando concetti di storia e filosofia della fotografia. Ritengo sia saggio semplificare
(che non significa banalizzare) il percorso
conoscitivo: le foto di famiglia hanno un interesse anche emotivo, oltre che oggettivo,
e quindi possono far scattare molle inattese,
che si tramutano in conoscenza e coinvolgimento.
L’intento generale è di far comprendere che
le immagini – come i documenti, gli oggetti,
le opere d’arte e d’artigianato, gli edifici e
persino il paesaggio antropizzato – non
sono qualcosa di astratto dalla collocazione
indefinibile, ma tracce nella storia di coloro
che ci hanno preceduto, orme che continuiamo a generare.
In classe, la presentazione dell’argomento
‘foto d’epoca’, esposto ovviamente con il
supporto di immagini proiettate, inizia con
una breve introduzione teorica su cos’è una
fototeca, partendo dall’analogia con la più
167
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168
Adriana Stroili
nota biblioteca; qualche informazione sulla
storia della fotografia è d’obbligo, per collocare temporalmente l’argomento in modo
corretto; alcune brevi note sull’aspetto tecnico (i tempi di esposizione, per esempio)
sono funzionali alla comprensione delle
foto che verranno mostrate in seguito, inclusi gli ‘errori’, come il ‘mosso’, spesso rilevabile nelle immagini dei bambini.
Un accenno a come sono cambiati i materiali e le attrezzature per ‘scrivere con la
luce’ consente di mettere in rilievo le differenze tecniche tra passato e presente: per
fare qualche esempio, il passaggio dallo
scatto analogico al digitale, dalla stampa fotografica al file, dal bianco e nero al colore.
Si sospende deliberatamente il giudizio
sull’aspetto estetico della fotografia, argomento molto dibattuto e complesso, nonché sulle scelte artistiche del fotografo
(punto di vista, inquadratura della foto...),
che sollecitano altre considerazioni, non oggetto dell’esposizione in corso, e meritano
di essere affrontate separatamente.
Un punto fondamentale riguarda le indicazioni sui dati minimi da raccogliere, per
ogni singola foto, in fase di ricerca:
– dove = il luogo della ripresa fotografica;
– quando = la data della foto;
– chi/cosa compare nella foto = la descrizione dell’immagine;
– chi ha scattato la foto = il nome del fotografo, quando è possibile.
ogni altra notizia è preziosa, quindi si invitano i ragazzi a trascrivere tutte le informazioni, anche se al momento non sembrano
fondamentali.
L’esposizione prosegue per argomenti, solitamente dal particolare al generale, ovvero
dai ritratti di famiglia alle foto di paesaggio,
possibilmente carnico e quindi abbastanza
noto agli alunni delle scuole del territorio,
proprio per rendere le osservazioni più vicine all’esperienza quotidiana. Molto significativo risulta il confronto con la realtà
odierna, che dovrebbe, possibilmente, essere anche visivo, grazie alla proiezione di
foto contemporanee. Si ricorda sempre che
la raccolta delle foto e dei dati fa parte
dell’analisi e non dei risultati di una ricerca:
le conclusioni, infatti, verranno in seguito,
anche perché necessitano di approfondimenti ben maggiori. Questo, invece, è il
momento dell’osservazione e della comprensione del documento fotografico, da
‘leggere’ come un testo scritto purché se ne
impari il linguaggio.
Iniziando dunque dalle foto di famiglia, si
evidenzia fin da subito una differenza quantitativa: oggi moltissime foto (selfie compresi); un tempo cinque o sei scatti nel
corso di una vita – in occasione del battesimo, della comunione o della cresima, del
servizio militare o peggio della imminente
partenza per il fronte, del matrimonio, della
riunione di famiglia da nonni con nipoti e
pronipoti.
Guardando le foto di collezioni private soprattutto si possono fare alcune considerazioni di carattere generale, per esempio
com’è cambiata nel tempo la consistenza e
la struttura della popolazione. L’osservazione risulta pressoché spontanea quando
l’attenzione si sofferma su una foto di bam-
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La fototeca in classe
bini d’asilo o di scuola elementare: potremmo dividere come minimo in quattro
parti la foto scattata davanti all’asilo di Mediis per ottenere lo stesso numero di bambini che c’è oggi in paese!
Sollecitati dalla proiezione di foto di gruppi
familiari, si può iniziare un ragionamento
sulla composizione della famiglia attuale
(nucleo ridotto composto da tre o quattro
persone al massimo) rispetto a quella allargata di un tempo (con nonni, genitori, zii e
numerosi bambini conviventi sotto un
unico tetto).
Classica tra le immagini ‘nel cassetto’ è la
foto di matrimonio, fino agli anni ’50 realizzata in studio magari il giorno precedente
o successivo alla cerimonia, che vede la coppia di sposi ritratti a mezzo busto (come
amava fare antonelli), oppure con i testimoni e i genitori; una notevole differenza
rispetto alla ripresa in esterno con tutti gli
invitati, per non parlare dell’odierno reportage fotografico composto da innumerevoli
scatti.
Tra i pochi momenti immortalati, nelle collezioni è frequente trovare lo scatto in stu-
169
2. Le maestre e i numerosi bambini posano nel
cortile dell’asilo infantile,
Mediis (Socchieve, Ud),
1925 (collezione privata /
Fototeca territoriale CarniaFotografia).
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Adriana Stroili
3. Un emigrante carnico
e due amici posano
scherzosamente dietro
ad un aereo di cartone,
Parigi, 1925 ca. (collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
dio di una famiglia ‘incompleta’: una donna
sola con i figli. Probabilmente è l’immagine
spedita al marito-padre emigrante, un messaggio per inviare notizie ‘concrete’ sulla salute, aggiungendo magari un più esplicito
ma laconico «quando torni?».
Nel ‘messaggio di risposta’ inviato a casa, la
foto ritrae il marito-padre con altri operai
sul luogo di lavoro, oppure con indosso
l’abito ‘buono’ nello studio di un fotografo
straniero, quasi a voler ostentare una certa
agiatezza (chissà, poi, se reale), o ancora
con amici in un’ambientazione scherzosa
con fondali in cartone che rappresentano
aerei, cavalli e altre simpatiche diavolerie
mai viste in patria. Di solito le parole che
accompagnano le fotografie sono ben
poche, quando ci sono: la durezza del carattere e la poca dimestichezza con la scrittura lasciano spazio di espressione
all’immagine, piuttosto che alla penna.
Dagli emigranti al capitolo del ‘lavoro’ il
collegamento è immediato. Le immagini, a
partire da fine ottocento, testimoniano in
modo più diretto di qualsiasi descrizione i
mestieri di un tempo e consentono una riflessione su come è cambiata la realtà lavorativa. Il fondo fotografico dell’Ispettorato
Ripartimentale delle Foreste di Tolmezzo
(catalogato in parte nella campagna appena
conclusa), ad esempio, offre numerosissimi
spunti in questo senso; vi sono documentati
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La fototeca in classe
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4. Il laboratorio di edilizia della ‘Regia Scuola
d’Arte Professionale
Carnica Albino Candoni’, Tolmezzo (Ud)
(collezione privata / Fototeca territoriale CarniaFotografia).
5. Opere idraulico-forestali: «Rio Neval di
sopra - frana a destra briglia in costruzione1930» (archivio Ispettorato Ripartimentale
delle Foreste di Tolmezzo, Ud).
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Adriana Stroili
6a. La piazza principale
di Zuglio nel 1935 circa.
In primo piano il monumento ai caduti, ora
spostato sul lato est
della piazza. Dietro al
monumento un edificio,
successivamente demolito, che si trovava di
fronte a palazzo Tommasi Leschiutta, Zuglio
(Ud), 1935 ca. (collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
6b. La piazza principale
di Zuglio nel 1976-78
circa. Il seicentesco palazzo Tommasi Leschiutta fotografato
dopo il sisma del 1976,
Zuglio (Ud), 1976/78 ca.
(collezione del Comune
di Zuglio).
lavori incredibili di risanamento di frane e
di costruzione di briglie sui torrenti, eseguiti a ‘pala e piccone’, con ai piedi scarpets
(le tipiche calzature carniche con la suola di
stracci trapuntati e la tomaia di tela o velluto), pantaloni spesso alla zuava e calzettoni di lana pesante, camicia chiara e gilè,
cappello a larga tesa per proteggersi un minimo dal sole; e le donne, con gli abiti a
mezzo polpaccio almeno, il grembiule e il
fazzoletto legato sulla nuca a coprire i capelli, impegnate con l’immancabile gerla
nello spostamento della ghiaia, dei sassi, dei
cavi di una costruenda teleferica, oppure
nel trasporto del cibo per gli operai in cantiere.
Tra le immagini particolari proiettate in
classe non possono mancare i bellissimi
scatti del laboratorio Edilizia della ‘Regia
Scuola d’arte Professionale Carnica albino Candoni’ di Tolmezzo. anche in
questo caso si può spaziare nell’evidenza
delle diversità rispetto ad oggi: dagli edifici che ospitavano i laboratori (demoliti),
al modo di abbigliarsi di insegnanti e allievi, agli attrezzi utilizzati. Di questo
fondo è curiosa anche la modalità di acquisizione in fototeca: le lastre fotografiche originali sono state consegnate da una
terza persona, che ha voluto rimanere
anonima e quindi non si sa nemmeno chi
ringraziare per questo gesto, sorprendente
quanto generoso.
Il capitolo delle trasformazioni edilizie e
territoriali viene trattato per ultimo nell’incontro in classe, iniziando dall’edificato per
concludere con il paesaggio; come ausilio si
utilizzano immagini di soggetti potenzial-
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La fototeca in classe
mente noti ai ragazzi. ad esempio, si fa osservare la foto d’epoca di un edificio che ha
subito delle modifiche, oscurando la didascalia, e si chiede ai ragazzi di effettuare il
riconoscimento; se non c’è una risposta immediata si svelano via via alcuni particolari,
invitando a guardare l’immagine completa,
sfondo compreso, fino a identificare il soggetto della ripresa; quando è possibile si facilita il processo con l’aiuto di immagini
odierne. In ogni caso i ragazzi sono sollecitati a partecipare attivamente, osservando,
chiedendo spiegazioni, commentando e
mettendo in evidenza i cambiamenti rilevati.
Lo stesso esercizio si può ripetere prendendo come soggetto il tessuto urbano.
Una ripresa aerea della zona dell’ex stazione ferroviaria di Tolmezzo, risalente agli
anni della Grande guerra (foto interessan-
tissima, acquisita dalla fototeca grazie al
prestito di una collezione privata) viene
messa a confronto con una foto aerea attuale. Ciò consente di rilevare lo sviluppo
dell’edificato in quell’area, ma non solo: si
può ragionare sul motivo per cui si scattavano le foto delle strade principali e delle
linee ferroviarie durante la guerra, avviare
un discorso sulla storia della prima Guerra
Mondiale, oppure sulle vie e i mezzi di trasporto del periodo, o ancora su quali edifici
erano già presenti all’epoca, e magari completare l’esperienza con il riconoscimento
diretto delle caratteristiche architettoniche
degli edifici stessi.
Sempre patrimonio culturale della fototeca,
ma provenienti da un altro fondo fotografico, sono due bellissime immagini, risalenti
agli anni ’20 circa, del mercato del bestiame
173
6c. La piazza principale
di Zuglio nel 2011. Il Palazzo Tommasi Leschiutta restaurato. Dal
1995 il Palazzo è sede
del Civico Museo Archeologico ‘Iulium Carnicum’, dove sono
esposti numerosi reperti preromani, romani
e alto medioevali rinvenuti nel corso di scavi
sistematici o ritrovamenti casuali nell’area
di Zuglio e della Carnia,
Zuglio (Ud), 2011 (© A.
Stroili).
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Adriana Stroili
7a. Attilio Vidussoni, Ripresa aerea di Tolmezzo
(Ud), 1915-1917 (collezione privata / Fototeca
territoriale CarniaFotografia).
7b. Ortofoto di Tolmezzo
(2011). In evidenza il
tracciato della ferrovia
dismessa e la ex stazione (Immagini TerraItaly™ - © CGR SpA –
Parma
www.terraitaly.it, p.g.c.
di CGR s.p.a. di Parma autorizzazione del
24.07.2015).
8a. Il mercato del bestiame a Tolmezzo, con
la cappella Linussio e
l’antica fabbrica di tessuti sullo sfondo, Tolmezzo (Ud), anni ‘20
(collezione privata / Fototeca territoriale CarniaFotografia).
8b. Il mercato del bestiame a Tolmezzo. A sinistra si vede l’asilo
infantile ‘Don G. B. De
Marchi’ inaugurato nel
1912, sullo sfondo Pracastello e la Torre Picotta verso nord,
Tolmezzo (Ud), anni ‘20
(collezione privata / Fototeca territoriale CarniaFotografia).
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La fototeca in classe
di Tolmezzo, che si svolgeva proprio nella
zona inclusa nella ripresa aerea sopra citata.
Componendo le informazioni dedotte da
queste immagini diverse dello stesso sog-
getto si inizia a disegnare il quadro conoscitivo, che in questo caso riguarda un frammento di storia, con la consapevolezza che
la composizione di più frammenti dà una
175
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176
Adriana Stroili
9a. Attilio Vidussoni,
Panorama della Conca
Tolmezzina nel periodo
della Grande Guerra,
Verzegnis (Ud), 1915-17
(collezione privata / Fototeca territoriale CarniaFotografia).
9b. Panorama della
Conca Tolmezzina, 2005
(© A. Stroili).
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La fototeca in classe
visione d’insieme sempre più completa.
La lettura delle foto di paesaggio, infine,
offre numerosi spunti. Due riprese della
Conca tolmezzina, ad esempio, scattate a
circa novant’anni di distanza, sono ottimali
per discutere svariate tematiche: come si
siano sviluppati i centri abitati, come
l’opera dell’uomo abbia cambiato l’ambiente, come sia cambiato l’assetto territoriale e anche socio-economico. oppure,
detto con termini più ‘indigeni’, come Tolmezzo si sia espanso sulle rive del fiume Tagliamento e le frazioni di Verzegnis sui
rilievi della sponda destra, come il lago artificiale di Verzegnis della fine degli anni ’50
abbia cambiato l’aspetto della vallata (lo
spunto, tra l’altro, è perfetto per parlare di
energia rinnovabile), quanto si siano ridotte
le superfici a prato e siano invece aumen-
tate le aree a bosco anche in questa zona
della Carnia; come, infine, l’abbandono dell’agricoltura abbia causato la quasi totale
scomparsa degli agricoltori, del bestiame
nei prati e nelle stalle, nonché dei prati e
delle stalle stesse.
Imparare a leggere le immagini e a concatenare le informazioni reperite consente di
accrescere la conoscenza e, di conseguenza,
più aumenta la consistenza del patrimonio
fotografico e più si incrementa il bagaglio
culturale collettivo.
Si potrebbe obiettare che sono solo fotografie. È vero, ma la lettura delle immagini
contribuisce ad affinare il senso critico, l’attenzione, la curiosità e la capacità di collegare dati e situazioni, di acquisire strumenti
intellettivi che aiutano a crescere e a coltivare il libero pensiero.
177
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Educazione all’immagine nella Scuola Media ‘Gian Francesco da Tolmezzo’: presupposti teorici ed esperienze
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Silvia Marcolini
Educazione all’immagine nella Scuola Media
‘Gian Francesco da Tolmezzo’: presupposti
teorici ed esperienze
Parlare di Educazione all’immagine per e
nella scuola media, non significa riferirsi ad
un ambito specificatamente disciplinare, significa invece richiamarsi ad uno dei percorsi più interdisciplinari, significativi e fondanti del nostro operare per l’insegnamento.
Due sono gli ordini di motivi: l’uno strutturale tiene conto delle qualità intrinseche
al tempo ed allo spazio all’interno dei quali
caliamo la nostra azione, l’altro metodologico tiene conto delle dinamiche attraverso
le quali avviene l’apprendimento.
attraverso le immagini è veicolata la maggior parte dei messaggi che quotidianamente riceviamo, nelle immagini riconosciamo sempre più spesso la nostra
dimensione sociale, con le immagini misuriamo la nostra capacità di comprendere i
fatti, per immagini sempre più abitualmente
ci esprimiamo o raccogliamo informazioni.
I giovani in particolare vivono immersi nelle
immagini fin dalla più tenera età: libri illustrati, cartoni animati, documentari, video
clip, giochi virtuali, pubblicità, istantanee,
riviste e conformazione dei testi scolastici,
costituiscono lo sfondo della loro esperienza
della realtà, indistinta1.
Se l’obiettivo primario della scuola «è
quello di formare saldamente ogni persona
sul piano cognitivo e culturale, affinché
possa affrontare positivamente l’incertezza
e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri»2 e se «è compito della scuola offrire agli studenti
occasioni di apprendimento dei saperi e dei
linguaggi di base»3, un percorso condiviso
e graduale di educazione all’immagine non
può mancare in una scuola calata nel presente, poiché offre uno strumento indispensabile per approcciare alla realtà attuale.
a chi nella scuola opera, ma non solo, risulta evidente quanto rilievo abbiano le immagini per gli adolescenti e quante ricadute
comporti l’eccesso del loro uso (ma più
spesso abuso) nell’ambito delle difficoltà di
apprendimento. Deficit attentivi, altera-
1 Spesso trascuriamo quanta
importanza abbia sulle dinamiche dell’apprendimento
questo approccio massivo ed
invasivo dei segni rispetto
all’esperienza reale. A livello
editoriale risulta significativo
il successo di collane che associano alla trascrizione grafica delle parole anche una
connotazione spaziale, mediante uso di grassetto, variazioni grafiche o della
dimensione dei caratteri, inibendo però un apprendimento personalizzato o
fortemente condizionando le
ricadute sulla interiorizzazione dei concetti.
2 Indicazioni per il curricolo:
per la scuola dell’infanzia e
per il primo ciclo d’istruzione,
Ministero della pubblica
istruzione, Roma 2007, p. 16.
3 Ibid.
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180
Silvia Marcolini
4 Anche la percezione della
scrittura risulta rilevante in
relazione al mezzo attraverso
il quale essa si compone,
computer e tablet hanno
preso il posto di carta e
penna e la percezione che il
cervello ha della scrittura
sembra stia cambiando con
conseguenze non del tutto
trascurabili. B. KEIM, La
scienza della scrittura, in
«Mente e cervello», n. 117
(settembre 2014), p. 34.
5 Secondo lo studioso canadese Derrick de Kerckhove,
teorico legato ai brain frames,
esiste una stretta correlazione fra cervello e tecnologia, tanto che l’attività del
cervello può essere orientata
nelle sue prestazioni dall’ambiente tecnologico nel quale
si trova ad operare ed è così
possibile assistere a delle
modificazioni nel modo con
cui usiamo la nostra mente
ed i nostri sensi, cfr. I. DOMANIN,
Antropologia della scrittura,
http://www.extramuseum.it/
mondobit/p2.htm.
6 Il funzionamento del sistema visivo ha una sua relativa autonomia e segue
alcune regole di impostazione
che, condizionando i processi
visivi, di fatto rendono l’inesperto (il giovane) ‘vittima’
dell’organizzazione dello spazio percettivo, cfr. L. LUMBELLI, Il
ruolo della percezione visiva
nell’apprendimento con animazioni, in «Form@are», n. 80.
7 Indicazioni per il curricolo...
cit., p. 22.
8 Sono le regole in base alle
quali regoliamo la nostra selezione visiva mediante contrasto, in particolare in base
alle quali arriviamo alla distinzione fra figura e sfondo,
attraverso una focalizzazione
di oggetti (per immagini fisse)
o di eventi (per immagini in
movimento).
9 Inizialmente il ragazzo vive
oggettivamente, riguardo al
suo approccio, esperienze che
interiorizza senza subirle
come mancanze (di fronte ad
immagini in 3D nascoste ad
esempio verifica la sua effica-
zioni nella memoria di lavoro, diversa percezione della scrittura4, problemi di gestione di un metodo di studio, ma anche e
soprattutto confusione fra reale e virtuale5,
sono tutte problematiche note agli insegnanti ma già ascritte dalla psicologia cognitiva ad una alterazione nei processi di
elaborazione dei concetti mediata dalle immagini6.
Se conoscere e favorire la funzionalità dei
processi costituisce un imperativo metodologico per garantire «l’elaborazione dei saperi
necessari»7, educare all’immagine diventa un
imperativo metodologico per condurre alla
capacità di riflettere sul mondo e su se stessi,
poiché per immagini apprendiamo (la nostra
mente è un immenso archivio di immagini) e
dalle immagini siamo avvolti.
Nel momento in cui parliamo di educazione, ci riferiamo ad un’azione che, per la
sua dimensione temporale di durata (e-ducare, condurre fuori riporta ad un’idea di
spostamento), reca impliciti i concetti di
gradualità (ossia passaggio da un prima ad
un dopo per fasi) e di efficacia (l’effetto
educativo deve esplicitarsi nell’acquisizione di una competenza spendibile negli
ambiti più diversi). Trattandosi inoltre di
un percorso, ossia di un processo dinamico, è opportuno riferirsi all’esercizio di
abilità (ricorsive e progressive) testate concretamente non solo attraverso esercitazioni guidate, ma – e soprattutto –
attraverso esperienze creative. Passaggi
fondamentali per arrivare a percepire, discernere, decostruire e strutturare (rielaborare) il contesto esterno, sono la lettura,
la descrizione, la comprensione e l’interpretazione delle immagini fisse od in movimento che spesso ce lo mediano.
L’apprendimento prende avvio dalla percezione, prima fase di un complesso processo
per il quale è importante essere addestrati,
nel caso delle immagini essere addestrati significa essere avviati alla conoscenza ed
all’uso delle strategie di contatto con la realtà, alla conoscenza e gestione quindi delle
modalità di percezione e nello specifico
delle salience rules8, così da interagire in
modo esperto con ciò che ci appare.
La percezione umana si basa su processi di
selezione e pre-attenzione che determinano
pesantemente l’elaborazione cognitiva che
ne segue: solo ciò che è stato selezionato
passa alla memoria di lavoro per essere elaborato. offrire la possibilità di esercitarsi a
governare la fase attentava ed a guidare in
maniera sistematica quella selettiva, significa aprire alla curiosità verso i meccanismi
dell’apprendimento, significa offrire la possibilità di rilevare carenze nelle procedure,
significa far riflettere in modo partecipe sui
meccanismi attraverso i quali agiamo nei
confronti di ciò di cui facciamo esperienza9.
È attraverso la direzione dell’attenzione che
impariamo a raccogliere le informazioni che
illusoriamente sono per noi secondarie, ma
che si possono rivelare determinanti per
una conoscenza approfondita della realtà
oggettiva. È compito della scuola favorire
lo sviluppo della capacità di cogliere tutto
quanto è presente in un’immagine, cioè i
suoi elementi e il suo significato di insieme.
attraverso domande guida o stimoli alla de-
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Educazione all’immagine nella Scuola Media ‘Gian Francesco da Tolmezzo’: presupposti teorici ed esperienze
scrizione si favorirà l’integrazione o la connessione di una serie di differenti funzioni
cerebrali con un duplice vantaggio: stimolare un apprendimento generativo e contenere i danni conseguenti alla riduzione dei
tempi di attenzione ed alla fluttuanza e superficialità di quelli della concentrazione.
Guidare all’osservazione porta a consolidare la formazione dei concetti, attraverso
lo sviluppo partecipe dei processi induttivi
e deduttivi: osservare, ordinare, classificare
e attraverso la generalizzazione passare al
concetto astratto10.
Favorire queste operazioni a livello di classe
offre la possibilità di ottenere forme più
omogenee di apprendimento, inoltre proporle in forma inversa abitua ad attribuire
un’immagine alle parole e quindi a gestire
meglio attenzione e ritenzione.
Considerato che il cervello umano ricorda
le immagini più di qualsiasi altra cosa e che
circa l’80% delle informazioni nel cervello
sono di tipo visivo11 partire da immagini per
raccogliere, dedurre, ipotizzare e confrontarsi dialetticamente, apre ad una naturale
e positiva ricaduta sui processi di assimilazione e ritenzione, così da favorire un apprendimento costruttivo, reticolare, trasferibile, attivo, collaborativo, situato e
metacognitivo12, in poche parole efficace.
Nella scuola media ‘Gian Francesco da Tolmezzo’, il percorso di Educazione all’immagine nasce intorno agli anni ’70, sulla scorta
delle esperienze di sperimentazione laboratoriale collegate all’avvio del tempo pieno.
In quegli anni si cercava di adattare l’insegnamento alle mutate condizioni dell’am-
biente, di passare concretamente dalla
scuola della parola e del libro, fino a quel
momento cuore della didattica come acquisizione e trasmissione del sapere, alla
scuola dei media, con il progressivo diffondersi di una serie di mezzi che porgevano in modo visivo e audiovisivo il
materiale didattico (diapositive, lettori di
cassette, televisioni), promuovendo la
scuola come co-costruzione del sapere.
Erano gli anni della Preside Maria Fabro
Comoretto, mente attiva e propositiva attenta allo sviluppo congiunto della persona e dell’allievo, a lei sono riconducibili
le Libere attività e l’organizzazione di
esperienze nuove all’interno delle quali si
esplicavano i corsi relativi all’immagine, in
particolare Cineforum e Fotografia. Cineforum era sostenuto da mons. Giuseppe
Faidutti (all’epoca conosciuto come don
Bepi) e dalla prof.ssa di Lettere Lia Durigon; l’attività avviava l’allievo alla lettura e
commento delle pellicole cinematografiche
attraverso un approccio testuale (scomposizione in sequenze e sviluppo di un apparato critico relativo a regia ed interpreti,
con contestualizzazione a livello di genere
e comparazione stilistica).
Il corso di Fotografia approcciava all’utilizzo di una reflex e misurazione con esposimetro, con successivo sviluppo dei rullini
e stampa su carata fotografica. Si trattava di
percorsi con adesione libera (unica eccezione Cineforum per le classi guidate da insegnanti di riferimento) che si garantivano
la continuità attraverso la formazione interna con preparazione dei docenti in in-
181
cia nel focalizzare sguardo e
concentrazione e la confronta
fra pari), successivamente
manifesta poi un atteggiamento di partecipazione più
consapevole riguardo alle
metodologie e ai contenuti
proposti più in generale.
10 Si pianifica così la trasformazione di un ostacolo in una
facilitazione del processo di
apprendimento.
11 Le ultime ricerche di settore hanno portato all’elaborazione di uno schema detto
‘Cono di apprendimento’ o
cono di Dale, che distingue le
informazioni che la mente
raccoglie relazionandole ai
tempi di ritenzione ed alle
modalità di apprendimento.
Dallo schema si evince che
guardare una foto porta a un
ricordo ed apprendimento del
30%, mentre guardare un film
alza la percentuale al 50%.
12 Gli aggettivi citati rappresentano una sintesi efficace
che raccoglie le sollecitazioni
teoriche della psicologia
dell’apprendimento di M. Cole
e L.S. Vigotskij fatte proprie
da Luisa Bartoli in occasione
di un seminario organizzato a
Udine nel 1999 presso l’Istituto ‘Bertoni’ dal titolo Per
una ‘lettura strategica’ delle
indicazioni curricolari relative
alla scuola di base.
13 Attività operative erano la
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Silvia Marcolini
stampa a contatto in prima,
fotografia con creazione di
una camera a foro stenopeico
in seconda, realizzazione di
frasi-video in seconda e talkshow in terza (con utilizzo di
cinepresa e macchina per il
montaggio). Attività teoriche
erano la teoria dei campi e dei
piani ed i movimenti di macchina. Un’integrazione successiva ha tenuto conto delle
Tic e ha riguardato la produzione e gestione delle immagini mediante computer ed in
rete.
14 L’elaborazione digitale
delle fotografie è diventata
parte integrante del programma di seconda e il passaggio da immagine fissa ad
immagini in movimento si è
codificato nella schedatura
fotografica con successivo
passaggio al documentario
storico attualmente in uso in
terza. È inoltre stato integrato
un intervento di riflessione
sulle fotografie storiche di
paesaggio, gestito dal Circolo
Culturale Fotografico Carnico.
gresso e condivisione delle metodologie.
Negli anni ’80 il percorso ha raggiunto una
sua definizione progettuale ed è entrato a
far parte degli assi portanti dell’offerta formativa, attraverso la duplice referenza della
prof.ssa Ilda Durigon e dell’operatore Tecnologico prof. Dino Zanier. organizzato secondo una sequenza stabilita di ore ed attività, il percorso prevedeva uno sviluppo
progressivo nei tre anni dell’obbligo e comprendeva attività pratico-creative13 unitamente ad attività teoriche gestite in condivisione con gli insegnanti di Lettere e
Tecnologia, ma con il contributo di tutte le
discipline. anche in questo periodo è stato
possibile garantire continuità attraverso la
formazione, l’individuazione di una referenza e la possibilità di compresenze costruttive in classe.
Nell’ultimo decennio il percorso ha subito
un’ulteriore variazione, con un’integrazione
consistente nella conoscenza ed uso delle
immagini mediate da computer (con utilizzo di programmi quali Slide show o
Cabrì), si è passati inoltre alla telecamera
digitale per le riprese e la macchina di montaggio è stata sostituita dal programma
iMovie della apple. Gli insegnanti di Lettere e Tecnologia (per due anni anche gli insegnati di arte ed Immagine sono stati
coinvolti a seguito di un corso sulla produzione di cartoni animati con tecnica dello
slow motion), hanno gestito il percorso con
l’apporto esterno del prof. Dino Zanier
(come esperto) e del Circolo Culturale Fotografico Carnico14.
Negli ultimi anni i tagli alle compresenze ed
al monte ore hanno portato ad un obbligato
ridimensionamento dell’attività, collegato
anche alla variabilità e fluttuanza del corpo
docenti; sono venuti a mancare continuità e
formazione e la concorrenza delle diverse discipline si esplica nella sfera dei singoli ambiti. Prodotti particolari sono diventati
esemplari come modello, ma sono frutto di
singole potenzialità o dello sviluppo di stimoli legati all’intervento di esperti esterni.
Nonostante le difficoltà, l’Educazione all’immagine resiste nella scuola ‘Gian Francesco’,
offrendo soddisfazioni e raccogliendo il riconoscimento anche all’esterno del mondo
scolastico.
La scelta di ritagliare uno spazio specifico
nell’ambito della didattica delle singole discipline, ha nascosto e nasconde ancora
oggi la volontà di prendere atto di una urgenza metodologica e trasversale alle discipline, così da offrire un approccio comune
traducibile nelle specificità delle singole
materie. Leggere ed interpretare un paesaggio (in Geografia o Tecnologia), così come
una fonte (in Storia, od in arte ed Immagine), piuttosto che un’opera, diventano stimolo alla gestione di una mole di dati
attraverso un atteggiamento che non sia
passivo. Il passaggio da passivo ad attivo costituisce uno dei punti nodali di questo percorso, in quanto consente innanzitutto di
distinguere tra realtà oggettiva e realtà virtuale, inoltre recupera la consapevolezza e
l’attenzione nei confronti di ciò che è
mondo e infine potenzia la capacità creativa, che da sempre è stata motore per ogni
forma di evoluzione umana.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
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Margherita Grosso, Dino Zanier
La schedatura fotografica:
ipotesi per un archivio d’Istituto
L’approccio tecnico alla schedatura
La Scuola Media Statale di Tolmezzo all’interno del progetto sull’educazione all’immagine «si è sempre confrontata con i
nuovi linguaggi espressivi […] adattando le
diverse tecnologie alla lettura e alla produzione di codici espressivi specifici, ampliando di anno in anno la sua offerta
formativa»1.
Per quanto riguarda la fotografia, fin dagli
anni ’70, il nostro Istituto si è avvalso di un
laboratorio attrezzato che è stato implementato e arricchito nel corso degli anni.
Era interamente gestito dall’allora insegnante di ‘educazione tecnica’ che, con un
approccio operativo-costruttivo, coinvolgeva i ragazzi nella produzione tecnica dell’immagine producendone la prima
schedatura.
Elemento centrale di questo percorso didattico era la macchina fotografica, punto di
partenza per la scoperta di tutti i mezzi di
comunicazione di massa.
Innanzitutto gli alunni dovevano apprendere le basi funzionali degli elementi tecnici
che la componevano, quali il diaframma e
l’otturatore in relazione alla sensibilità della
pellicola. Si passava quindi ad alcune nozioni sulla tipologia degli obiettivi e venivano fornite le informazioni fondamentali
sullo sviluppo e la stampa in camera oscura.
Gli alunni, infatti, dopo l’uscita per le riprese, erano tenuti a dimostrare le conoscenze tecniche acquisite attraverso l’uso
autonomo del laboratorio, sviluppando il
negativo e la stampa del positivo per l’ingrandimento.
Il risultato dell’operazione serviva all’insegnante per controllare le conoscenze apprese (valutazione didattica) e, in base alla
qualità del risultato, ipotizzare l’eventuale
applicazione di correttivi. Come si può notare quindi, si trattava di un approccio essenzialmente meccanicistico in linea con le
finalità disciplinari specifiche2.
1 D. ZANIER, I laboratori per i
progetti, in D. ZANIER (a cura
di), Sulle orme di Giorgio Ferigo. Un anno in classe: percorsi didattici
multidisciplinari, Scuola
Media Statale ‘G.F. da Tolmezzo’, Tolmezzo 2011, pp.
177-181.
2 Si veda anche D. ZANIER, La
fotografia stenopeica. Un itinerario didattico nella Scuola
Media, in Lo specifico stenopeico, filosofia e pratica della
fotografia stenopeica, atti del
convegno nazionale, Senigallia 19 maggio 2012, MUSIF
(Quaderni dell’archivio italiano di fotografia storica), online: http://issuu.com/
osservatoriofotografiancona/docs/fotografia__stenopeica_atti_i__convegno_2012
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Margherita Grosso, Dino Zanier
3 D. ZANIER, I laboratori... cit.,
pp. 177-181.
4 C. FANTI (a cura di), L’immagine, storia e critica, bollettino
n. 3, Consorzio provinciale per
la pubblica lettura, Ravenna
1981. Anche in C. FANTI, La fotografia storica, in P. BERTOLUCCI
e R. PENSATO (a cura di), La memoria lunga, atti del convegno
realizzati in collaborazione
con l’Istituto regionale superiore etnografico di Nuoro e
l’Associazione nazionale biblioteche, Cagliari 28-30
aprile 1984, Regione Autonoma della Sardegna / Assessorato alla pubblica
istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e
sport, settore beni librari,
1985.
5 Richiesta di finanziamento
della prof.ssa Patrizia Casanova al Consiglio d’Istituto
della Scuola Media ‘G. Cantore’ di Gemona. La domanda
prevedeva di «concludere l’attività con una piccola mostra
fotografica…».
6 Per una simile descrizione
relativa ai ritratti pittorici si
veda il contributo di A.M.
BRECCIA CIPOLAT, Ritratti di Carnia, la didattica, in Ritratti di
Carnia tra ’600 e ’800. Costumi
e tessuti nella tradizione,
Museo Carnico delle Arti Popolari ‘Michele Gortani’, Tolmezzo 1990.
La fotografia come documento
Dagli ultimi decenni del Novecento la sensibilità verso la fotografia d’epoca ha avuto
notevole rilevanza sociale. Su quest’ondata
di interesse la Scuola si è organizzata per
l’attività di raccolta e di archiviazione: gli
alunni sono stati invitati a riprodurre fotografie portate da casa, scelte dal loro archivio familiare. Tale attività si era proposta
diverse finalità: sensibilizzare i ragazzi verso
un bene culturale qual è la fotografia; insegnare ad utilizzare l’immagine fotografica
come fonte documentaria per ricavare da
essa tutte quelle informazioni necessarie
alla sua collocazione storico-antropologica;
abituare i più giovani a confrontare la realtà
storica di una fotografia d’epoca con il presente. «Con la schedatura fotografica l’immagine entra in relazione con la scrittura: i
due codici comunicano e si completano. È
un circuito che produce un’intensificazione
di significato: ciò che non dice l’immagine
lo indica la scrittura e viceversa»3.
La schedatura fotografica - cronistoria
La prima schedatura fotografica d’immagini portate dagli alunni è stata realizzata
dall’allora insegnante di educazione tecnica
Dino Zanier nell’a.s. 1983/1984 con un
gruppo di classe seconda della Scuola
Media di arta Terme. Questa esperienza ha
prodotto circa una trentina di schede che
sostanzialmente sono rimaste invariate nelle
compilazioni successive. Il prototipo, stampato su foglio formato a4, è stato ripreso
da un modello simile di dimensione maggiore proposto dal prof. Corrado Fanti uti-
lizzato per l’archiviazione di fotografie
d’epoca in Emilia Romagna4. Per questa
unità didattica gli alunni hanno dovuto fotografare nuovamente le istantanee portate
da casa, stamparne una copia utilizzando
l’ingranditore fotografico e compilare la
scheda chiedendo le informazioni necessarie ai genitori.
La stessa scheda, nell’anno scolastico
1993/1994, è stata utilizzata dell’insegnante
di lettere prof.ssa Patrizia Casanova nella
Scuola Media di Venzone in una classe seconda.
L’attività proposta aveva come obiettivo
non solo quello di «sensibilizzare i ragazzi
verso un bene culturale quale la fotografia»
e «insegnare ad utilizzare l’immagine fotografica come fonte documentaria», ma
anche «ricevere informazioni che riguardavano l’evoluzione dell’abbigliamento infantile nell’ultimo secolo»5.
L’insegnante, in questo caso, aveva dato agli
alunni un compito supplementare: cercare
negli archivi familiari le fotografie di bambini con particolare attenzione all’abbigliamento. In questo modo lo sguardo si
sarebbe spostato sui contenuti dell’immagine diventando non solo un patrimonio da
tutelare, ma un documento per la ricerca e
fonte di conoscenza. Le 50 schede realizzate sono state disposte sulle due facce del
foglio: da un lato la riproduzione fotografica e i dati tecnici, sul retro il disegno del
capo di vestiario del bambino ottenuto
scontornandolo dalla fotografia. L’abbigliamento veniva così evidenziato e descritto
dettagliatamente6.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
Schedatura come lettura dell’oggetto
La scheda, originariamente ideata nell’ambito archivistico da Corrado Fanti per tutelare un bene facilmente deperibile come la
fotografia e utilizzata in ambito scolastico
con simili finalità, ha dimostrato una duttilità inaspettata: si è rivelata, infatti, mezzo
ideale per aiutare gli alunni a descrivere oggetti e cicli di lavorazione in modo articolato e completo.
Tra le due unità didattiche sopra considerate sono passati ben dieci anni. In questo
periodo la schedatura fotografica è stata utilizzata in modo rilevante da molti insegnanti di diverse discipline, ma non per
schedare fotografie d’epoca.
Gli insegnanti di lettere hanno iniziato a
schedare gli oggetti di alcune sezioni del
Museo Carnico ‘Michele Gortani’ di Tolmezzo; scelta la sezione, veniva affidato a
ogni alunno uno o più manufatti da descrivere. In questo modo sono stati rappresentati i reperti della stoviglieria ceramica
tradizionale, dell’alpeggio, dell’oreficeria e
della tessitura. Lo stesso vale per l’insegnante di religione che l’ha utilizzata per
quelli della religiosità popolare. Nel progetto Illegio una comunità numerosi insegnanti hanno partecipato alla schedatura di
oggetti della cucina, di strumenti di lavoro,
di ancone votive, ecc.7.
Corso di fotografia di rilievo
Poiché inizialmente le fotografie che illustravano l’oggetto erano scattate dall’operatore Tecnologico, è stato ideato, da alcuni
insegnanti, un breve corso di fotografia di
rilievo8 al fine di rendere l’alunno autonomo anche nella fase di ripresa.
In sei ore curricolari ed alcune a casa, gli
alunni si dovevano esercitare sui quattro
aspetti della ripresa fotografica: lo sfondo,
il punto di vista, l’inquadratura e la luce9.
Con l’acquisizione della capacità fotografica, avevano la possibilità di utilizzare la
scheda anche fuori dall’ambito dell’Istituto
per descrivere oggetti della tradizione
ovunque si trovassero.
Itinerario di schedatura
Contemporaneamente veniva messo a punto
l’itinerario di schedatura fotografica. Gli oggetti più complessi ed i cicli di lavoro erano
descritti in modo da affidare parti del rilievo
ad un singolo o a gruppi di alunni. In questo
caso era di fondamentale importanza la progettazione per organizzare la classe secondo
un percorso di descrizione che avrebbe coperto tutta l’area d’indagine dell’oggetto o
del processo di produzione. L’attività ha
preso avvio dalla schedatura di un mulino
tradizionale a energia idraulica sotto la guida
degli insegnanti di educazione tecnica e di
lettere10 e ha permesso, in un secondo
tempo, di descrivere le abitazioni storiche
del centro di Tolmezzo e della frazione di Illegio in collaborazione con l’ufficio tecnico
comunale. Gli insegnanti di scienze hanno
invece approfondito alcuni aspetti della riproduzione animale ed il ciclo della lavorazione del latte con l’insegnante di lettere11.
altre schede sono state redatte per archiviare itinerari di lavoro prodotti nei laboratori della scuola di ceramica e di fotografia.
185
7 D. ZANIER (a cura di), Illegio
una comunità, CD proposto
da: Patrizia Pati - educazione
interculturale, Dino Zanier educazione all’immagine, grafica - informatica prof. Mario
L. Coco, realizzato con uscite
protratte nei due a.s.
2000/2001 e 2001/2002 edito
dalla Scuola Media Statale
‘Gian Francesco da Tolmezzo’.
8 In quel periodo la fotografia
di rilievo era al centro del dibattito sull’archeologia industriale. Gli edifici di grandi
aree industriali dismesse
erano fotografati per porre
all’attenzione dell’amministrazione pubblica il loro possibile riutilizzo. Abbiamo
preso spunto dalla rivista semestrale «Scuola Officina»
del Museo del Patrimonio Industriale di Bologna che dava
spazio al dibattito e indicava
gli elementi fondamentali per
la ripresa fotografica.
9 L’esercitazione prevede di
scattare fotografie per
ognuno di questi punti; per lo
sfondo, per esempio, lo stesso
oggetto è fotografato sul
banco e su uno sfondo neutro. In questo modo l’alunno si
abitua a considerare lo
sfondo come elemento importante della fotografia e a tenerne conto durante la
ripresa e questo anche per gli
altri tre aspetti. Il corso si
trova nel CD di D. ZANIER (a
cura di), Il mulino di Illegio. Itinerari didattici monotematici
– noi lavoriamo così – il rilevo
fotografico, Istituto Comprensivo di Tolmezzo, 2001.
10 D. ZANIER, Un bene ambientale per la scuola. La schedatura fotografica come metodo
d’indagine sul campo, in
«Scuola e didattica», a. XLV, n.
11 del 19/02/2000, pp. 71-77.
11 CD D. ZANIER (a cura di), Il
mulino di Illegio – Itinerari didattici monotematici, Istituto
Comprensivo di Tolmezzo
2001. C. DE MICHELIS, G. DELL’OSTE, Casa De Corte a Ovasta,
Ovaro, Itinerari di schedatura,
(classe 2^C), in D. ZANIER (a
cura di), Sulle orme di Giorgio
Ferigo... cit., pp. 90-93 e D. ZANIER, I laboratori per i progetti... cit.
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Margherita Grosso, Dino Zanier
12 M. MORASSI, Storia e archivi
familiari, in D, ZANIER (a cura
di), Sulle orme di Giorgio Ferigo... cit., pp. 70-83.
13 Durante questa settimana
l’orario didattico è riorganizzato in modo che le classi
possano utilizzare il laboratorio di fotografia e informatica
con gli insegnanti esperti; per
le classi prime: sperimentazione di pre-cine, film di animazione e uscita per le
riprese con la macchina fotografica foro stenopeico; per le
classi seconde, esperimenti
di stampa a contatto di semplici oggetti (nel laboratorio
fotografico), la grammatica
filmica, le riprese per il breve
film a soggetto (frase video);
per le classi terze: montaggio
d’immagini statiche in aula di
informatica.
La ripresa della schedatura di
fotografie d’epoca
Nell’anno scolastico 2008/2009, con l’unità
didattica I bambini di ieri nell’ambito del
Progetto Giorgio Ferigo12, l’insegnante di lettere Maddalena Morassi ha ripreso l’attività
di archiviazione fotografica, in continuità
con quella già citata di Patrizia Casanova,
poiché circoscriveva l’oggetto di descrizione
e organizzava l’attività d’indagine sull’abbigliamento infantile.
Un archivio d’Istituto
Nell’anno scolastico 2012/2013 tale esperienza è diventata un vero e proprio progetto d’Istituto dal titolo Storia e archivi
fotografici: la fotografia come documento storico, che ha coinvolto tutte le classi prime
(sei classi in tutto) interamente gestite dagli
insegnanti di italiano.
L’obiettivo finale era quello di insegnare ad
osservare la realtà attraverso la lettura delle
immagini. La fotografia è stata quindi presentata come uno strumento che fissa ‘un
attimo fuggente’ della realtà e va elaborata
e compresa. L’unico prerequisito richiesto
era la capacità di leggere e descrivere una
fotografia, passando da una visione globale
ad una analitica. Da qui la speranza di educare i ragazzi ad una fruizione dell’immagine più consapevole e ragionata, che con il
tempo avvii alla maturazione dello spirito
critico e della riflessione autonoma.
Tappe dell’esperienza
Il primo intervento è stato condotto dai singoli insegnanti di italiano delle classi prime
che hanno anticipato ai ragazzi alcune informazioni sul progetto inserito nella Settimana dell’Immagine13 e che li avrebbe visti
coinvolti nei mesi successivi. Tale premessa
descriveva loro il valore della fotografia
come immagine/copia di una particolare realtà storica e sottolineava l’importanza del
sistema di archiviazione delle fotografie
(per la loro catalogazione, conservazione,
condivisione, ecc.) motivandoli con l’allettante proposta di organizzare una sorta di
archivio fotografico della classe e magari, in
seguito, della scuola.
È stato quindi chiesto ai ragazzi di cercare
in famiglia o presso parenti alcune fotografie in bianco e nero risalenti a non oltre gli
anni ’60, con lo scopo di procedere alla loro
schedatura tecnica. Per non limitare la raccolta, volutamente non è stato definito un
tema in particolare, lasciando liberi gli allievi di scegliere il materiale richiesto.
La raccolta delle fotografie
Il secondo intervento è stato condotto dalla
responsabile della Fototeca territoriale CarniaFotografia, adriana Stroili, che ha presentato ufficialmente il progetto alle classi.
In quest’occasione l’esperta ha definito il significato e il ruolo della nostra Fototeca
come luogo della memoria d’immagini, sito
dove si conservano le fotografie, si riproducono gli originali e si definiscono prestiti e
donazioni. ha messo in evidenza, grazie
all’uso di molti esempi fotografici, il ruolo
della fotografia per ricostruire luoghi, ambienti, mestieri e attività produttive ormai
scomparsi.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
Si è soffermata poi sulle informazioni necessarie e indispensabili che danno alla fotografia la possibilità di essere utilizzata
come fonte documentale: dai dati squisitamente tecnici (nome del proprietario, dimensioni, tipo di supporto, fotografo, ecc.),
a quelli relativi al contenuto (chi e che cosa
è stato ritratto e breve descrizione, perché,
dove, quando, ecc.).
L’attività è proseguita con un’attenta analisi
comparativa di esempi fotografici al fine di
abituare gli alunni all’osservazione e al confronto visivo. Per questo motivo i ragazzi
sono stati chiamati ad esprimere le proprie
sensazioni e ad interagire con le immagini
proiettate per ricavare più informazioni
possibili.
La ricerca delle immagini negli archivi familiari è stata preceduta da una lettera ai genitori per informarli del progetto. Nel
comunicato si specificava il motivo della richiesta, la finalità didattica dello stesso e si
garantiva la restituzione a breve termine
delle fotografie originali. Le istantanee, portate in classe nelle buste recanti il nome dell’alunno, sono state veramente molte, a
dimostrazione di un notevole interesse e
partecipazione delle famiglie all’attività.
Questa mole ingente di fotografie non poteva essere digitalizzata dagli insegnanti,
che hanno quindi chiesto al Circolo Culturale Fotografico Carnico (CCFC di seguito
nel testo) di espletare questa incombenza.
L’incarico ha richiesto un notevole impegno
in termini di tempo.
La compilazione della scheda fotografica
Dai file digitali si sono stampate le fotografie in formato cartolina 10x15 cm, che gli
alunni hanno incollato sulla scheda predisposta per la raccolta dei dati. Non essendo
stato dato un limite al numero di fotografie
da raccogliere, la quantità di schede che
ogni alunno doveva compilare variava sensibilmente, ma si è provveduto a distribuire
gli incarichi in modo che, comunque,
ognuno avesse del lavoro da compiere.
L’impegno iniziale è stato quello di chiedere
le informazioni ai propri genitori e/o parenti e riportarle sulla scheda in modo corretto: nome e data di nascita di chi vi era
rappresentato, luogo dello scatto, data e
motivo di origine della foto. Sono dati importanti che permettono di collocare l’immagine nel giusto contesto temporale e
ambientale. Questa è stata la parte più difficile, ma al tempo stesso anche la più stimolante, visto che ha implicato una sorta di
intervista ai propri parenti.
Per fare in modo che le immagini d’epoca
diventino patrimonio comune e oggetto di
studio, la Scuola ha infine predisposto un
documento da sottoscrivere alle famiglie al
fine di chiedere l’autorizzazione al deposito
dei file digitali delle fotografie nella Fototeca territoriale CarniaFotografia limitandone l’uso all’ambito puramente culturale.
Conclusioni
I punti di forza dell’attività sono stati molteplici: l’esperienza è stata recepita dai ragazzi come stimolante e ‘alternativa’ e ha
coinvolto positivamente anche gli alunni
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Margherita Grosso, Dino Zanier
14 Le schede selezionate
sono state inserite nella mostra secondo questa successione: matrimoni, bambini,
gruppi familiari, scuola, prima
comunione, giochi, agricoltura, emigrazione, trasporti,
militari.
15 M.T. SEGA, ‘Lo specchio dotato di memoria’: la fotografia,
in P. FALTERI, G. LAZZARIN (a cura
di), Tempo, Memoria, Identità.
Orientamenti per la formazione storica di base raccolti e
proposti del Gruppo nazionale
di antropologia culturale MCE,
La Nuova Italia, Firenze 1986.
più agitati e poco motivati; la fotografia,
molto spesso inclusa nei testi come semplice illustrazione e/o elemento di decoro,
è stata presentata come testimone di una realtà storica da indagare e quindi come documento storico; l’attività ha permesso
l’integrazione degli alunni in difficoltà e/o
con handicap (aiutati e supportati dagli insegnanti di sostegno); il percorso, infine, ha
favorito ed arricchito il programma di lettere, introducendo in maniera pratica il lavoro sul testo descrittivo.
Le criticità, invece, sono state le seguenti:
la mancanza di una tematica precisa ha reso
il lavoro piuttosto gravoso e di difficile gestione vista la molteplicità delle fotografie
raccolte; il numero delle fotografie era eccessivo per un’attività che doveva essere
precisa e puntuale nella descrizione; la datazione delle foto era troppo vaga (non oltre
gli anni ’60 del Novecento), sarebbe stato
necessario stabilire un arco di tempo più limitato; il progetto, affidato interamente all’insegnante di italiano e senza la prevista
collaborazione di quello di storia, è stato recepito dai ragazzi come un’attività puramente disciplinare e non dal taglio
fortemente interdisciplinare.
L’aspetto quantitativo però è anche stato l’elemento che ha distinto questo progetto, perché
ha permesso di fare osservazioni sulla tipologia fotografica, che nelle schedature precedenti non era stato possibile effettuare.
La mostra fotografica
Gli insegnanti avevano stabilito di ultimare
l’attività con una mostra che rendesse conto
ai genitori del lavoro svolto. Poiché era necessaria una scelta tra fotografie simili, in
collaborazione con il CCFC sono state esaminate tutte le schede individuando quelle
più rappresentative. Ci siamo accorti che
man mano che proseguiva la cernita delle
diverse tipologie fotografiche (matrimoni,
bambini, prime comunioni ecc.14), prendeva
forma una sorta di memoria collettiva che
seguiva a grandi linee i momenti rilevanti
del ciclo di vita, anche se la provenienza
delle famiglie era di diversa dislocazione
geografica. Ciò che era difficilmente riconoscibile nelle immagini delle singole classi,
dove l’estrema varietà di casi particolari nascondeva l’omogeneità di fondo, emergeva
con evidenza nella selezione di un numero
consistente di fotografie. Le famiglie avevano scelto di immortalare gli stessi momenti di vita unanimemente ritenuti degni
di essere ricordati.
La memoria condivisa
«[…] la fotografia ha sostituito nella nostra
epoca il racconto orale nella trasmissione
della memoria familiare delle classi popolari; più precisamente: la memoria non è più
unicamente orale […], ma affidata a un oggetto, che è nello stesso tempo strumento e
modello con cui la famiglia o l’individuo, riconoscendosi e celebrandosi come tale,
adempiendo i riti di iniziazione sociale, si
integra»15. Quindi è facilmente comprensibile che i riti, alla base dell’identità culturale, siano gli stessi documentati dalle
fotografie degli archivi familiari nel periodo
storico preso in considerazione.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
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1. Prima schedatura fotografica:
una delle trentacinque schede
realizzate con un gruppo classe
di 2^ della scuola media di Arta
Terme, a.s. 1983/1984, insegnante prof. Dino Zanier.
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Margherita Grosso, Dino Zanier
2. Schedatura tematica:
quarantasette schede di
catalogazione realizzata
dall’insegnante di lettere prof.ssa Patrizia
Casanova in una classe
seconda della Scuola
Media di Venzone, a.s.
1993/1994. Esempio con
sul recto i dati di analisi
della foto, sul verso le
osservazioni sull’abbigliamento dei bambini e
il disegno schematico
dell’immagine.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
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Margherita Grosso, Dino Zanier
3. Schedatura in museo: esempio
di una delle cinquanta schede relativa agli oggetti della collezione
di stoviglieria ceramica conservata al Museo Carnico delle Arti
Popolari ‘Michele Gortani’ di Tolmezzo (Udine). Scuola Media Statale ‘G.F. da Tolmezzo’, a.s.
1996/1997.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
193
4. Itinerario di schedatura fotografica: esempio di una delle 31
schede con cui è stato descritto
il mulino a energia idraulico di
Illegio (Tolmezzo). Scuola Media
Statale ‘G.F. da Tolmezzo’, a.s.
1990/1991.
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Margherita Grosso, Dino Zanier
5. Esempio di schedatura fotografica: ‘Matrimonio’. Progetto
d’Istituto ‘Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento storico’, Istituto
Comprensivo di Tolmezzo, a.s.
2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
195
6. Esempio di schedatura fotografica: ‘Bambini’. Progetto
d’Istituto “Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento storico”, Istituto
Comprensivo di Tolmezzo, a.s.
2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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Margherita Grosso, Dino Zanier
7. Esempio di schedatura fotografica: ‘Scuola’. Progetto d’Istituto
“Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento storico”,
Istituto Comprensivo di Tolmezzo,
a.s. 2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
197
8. Esempio di schedatura fotografica: ‘Gruppi familiari’. Progetto d’Istituto “Storia e archivi
fotografici: la fotografia come
documento storico”, Istituto
Comprensivo di Tolmezzo, a.s.
2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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198
Margherita Grosso, Dino Zanier
9. Esempio di schedatura fotografica: ‘Prima Comunione’. Progetto
d’Istituto “Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento
storico”, Istituto Comprensivo di
Tolmezzo, a.s. 2012/2013, classi
prime con gli insegnanti di italiano.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
199
10. Esempio di schedatura fotografica: ‘Giochi’. Progetto d’Istituto
“Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento storico”,
Istituto Comprensivo di Tolmezzo,
a.s. 2012/2013, classi prime con
gli insegnanti di italiano.
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Margherita Grosso, Dino Zanier
11. Esempio di schedatura fotografica: ‘Agricoltura’. Progetto d’Istituto “Storia e archivi fotografici: la
fotografia come documento storico”,
Istituto Comprensivo di Tolmezzo,
a.s. 2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
201
12. Esempio di schedatura fotografica: ‘Emigrazione’. Progetto d’Istituto “Storia e archivi
fotografici: la fotografia come
documento storico”, Istituto
Comprensivo di Tolmezzo, a.s.
2012/2013, classi prime con gli
insegnanti di italiano.
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202
Margherita Grosso, Dino Zanier
13. Esempio di schedatura fotografica: ‘Trasporti’. Progetto
d’Istituto “Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento
storico”, Istituto Comprensivo di
Tolmezzo, a.s. 2012/2013, classi
prime con gli insegnanti di italiano.
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La schedatura fotografica: ipotesi per un archivio d’Istituto
203
14. Esempio di schedatura fotografica: ‘Militari’. Progetto d’Istituto
“Storia e archivi fotografici: la fotografia
come documento storico”, Istituto Comprensivo di Tolmezzo, a.s.
2012/2013, classi prime
con gli insegnanti di italiano.
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1. Fâ modòn - schedatura di una foto d’epoca,
fotografia utilizzata come fonte primaria per
la realizzazione del dia-tape, a.s. 1988/1989.
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
205
Maddalena Morassi, Dino Zanier
Animare la fotografia.
La costruzione di un audiovisivo
con immagini d’archivio
Il documento fotografico
La tipologia di audiovisivo presa in considerazione ha segnato un importante momento
di svolta nella produzione di documentari,
perché riduce il tempo d’esecuzione ed è
un’esperienza efficace per gli insegnati a cui
interessa affrontare il problema della storia
con i ragazzi come protagonisti della ricerca.
Di seguito faremo il punto sulla produzione
di documentari costruiti con fotografie
d’epoca e in particolare sul primo realizzato
nel nostro Istituto: La fotografia di Natalina.
Un racconto per immagini (foto 2).
La scelta di utilizzare un documento fotografico come base per l’indagine storica è
in linea con l’attività del nostro Istituto, che
da sempre lavora sull’educazione all’immagine. affermare che l’immagine è più vicina
alla sensibilità degli studenti di un documento scritto è quindi soltanto parte delle
motivazioni.
Punto di inizio è l’osservazione dell’immagine fotografica e la relativa descrizione ac-
curata, considerando che «a differenza di
qualsiasi altra immagine visiva, una foto
non è una riproduzione, un’imitazione o interpretazione del soggetto, ma una sua traccia. Nessun dipinto o disegno, per quanto
naturalistico, appartiene al soggetto quanto
una fotografia»1.
Dal momento che la fotografia «Isola, preserva e presenta un istante sottratto alla continuità»2, la descrizione di questa impronta è
il nucleo d’indagine per la ricostruzione del
contesto, portandoci ad interrogarci su
quello che non c’è, ad indagare sul continuum
che l’istantanea ha interrotto, a ricostruire il
filo spezzato della storia.
Analogico e digitale
Tracciare una storia della produzione audiovisiva all’interno del sistema di educazione all’immagine dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo vuol dire isolare un unico
percorso da un’attività organica, quale appunto l’educazione all’immagine, che si in-
1 J. BERGER, Capire una fotografia, Contrasto, Roma 2014,
p. 73.
2 Ivi, p. 36.
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206
Maddalena Morassi, Dino Zanier
3 Si pensi all’itinerario di
schedatura fotografica, che
per certi versi ripercorre la
descrizione di uno stesso oggetto con più fotografie commentate o ai documentari di
soggetto antropologico.
4 C. FANTI, La fotografia come
estensione della memoria. Riflessioni sul passato analogico e problemi per un futuro
digitale, in questa pubblicazione a p. 109.
treccia con altre unità operative simili per
obiettivi, ma non convergenti sullo stesso
mezzo espressivo3. Cercheremo, quindi, di
concentrarci sui percorsi per la produzione
di audiovisivi che sono direttamente connessi alla costruzione di documentari con
fotografie d’epoca per non allargare eccessivamente l’ambito tematico.
Un antesignano dei documentari prodotti
con fotografie è senza dubbio quello che si
avvaleva delle diapositive sonorizzate. Negli
anni ’90 non era facile produrre audiovisivi
con telecamera e montaggio video. L’attrezzatura non era ancora digitale e i pochi audiovisivi che si realizzavano erano prodotti
nelle libere attività complementari. Per produrre un audiovisivo a classe intera con una
tecnologia semplice, veniva utilizzato il diatape: le diapositiva sincronizzate con testo e
musica sono state lo strumento più efficace e
immediato per lungo tempo. Rispetto ad una
ripresa video analogica la diapositiva è molto
più maneggiabile: si può spostare, togliere e
sostituire senza che questo implichi il rifacimento di parte o di tutto l’audiovisivo. a ben
guardare il rapporto tra la produzione di
brevi documentari con diapositive che avevano come oggetto temi curricolari e la produzione del documentario fotografico ci
sono più analogie che differenze. In entrambi
i casi si opera con immagini statiche, il testo
a commento è registrato e mixato con la musica, la sincronizzazione viene abbinata al
commento parlato con le immagini. anche
la progettazione segue lo stesso itinerario di
lavoro di qualsiasi prodotto audiovisivo,
fungendo da anello di congiunzione tra le
due tipologie di elaborati. Infatti la scelta del
tema, la divisione dello stesso in parti omogenee (scaletta), la produzione del documento scritto (relazione) e la creazione dello
storyboard sono le stesse. Ciò che cambia in
modo macroscopico è la tecnologia: da
un’immagine prodotta su pellicola (analogica) a un’immagine digitale. Questa metamorfosi ha facilitato enormemente l’attività
di produzione audiovisiva semplificandone
la creazione nell’attività a classe intera.
Discontinuità
Nella produzione del documentario La fotografia di Natalina c’è un fatto nuovo: si
pone all’attenzione della classe un documento fotografico da decifrare, il tema è sconosciuto. Partendo da una fotografia sono
da scoprire, descrivere e commentarne il
contenuto, il contesto e il motivo che ne ha
dato origine. Questo documentario e quelli
che seguiranno sono stati realizzati dalla
classe con un obiettivo semplice: fare in
modo che ogni alunno si ponga delle domande sul contenuto della foto e cerchi delle
risposte: «Chi ha esperienza d’insegnamento, sa bene come la maggiore difficoltà
nella didattica della storia non sia tanto far
apprendere fatti e nozioni come oggetti da
esibire con erudizione quanto educare al
‘senso’ della storia, alla presenza del passato
e alla storicità del presente»4.
Come si sceglie la fotografia da
analizzare
L’insegnante sceglie la fotografia all’interno
di un orizzonte che è dato dall’ambito della
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
sua disciplina, dalla conoscenza del territorio
in cui è inserita la scuola e dai suoi interessi
personali. La fotografia, così com’è stata utilizzata fino ad ora, fa parte del patrimonio
storico del territorio e quindi l’attività s’inserisce all’interno del curricolo locale.
Se l’insegnante di storia considera quest’attività come estensione o approfondimento
della disciplina, le sue preferenze cadranno
verso immagini che si collegano direttamente al programma curricolare, fotografie
quindi legate alla prima o seconda guerra
mondiale o riguardanti l’emigrazione, ecc.
Ma comprendere la storia è anche immergersi nella vita quotidiana del passato non
necessariamente collegato ad un evento
eclatante: «Una storia ‘dal basso e del
basso’, come si dice, che nasceva anche
dalla volontà di risarcire quanti sono stati
fin qui trascurati dalla storiografia tradizionale e condannati all’insignificanza»5.
La vita materiale e il suo riprodursi sono il
contesto in cui si genera l’evento; la scelta
della fotografia si allarga quindi a tutte
quelle immagini che riprendono aspetti
della vita quotidiana relativa al lavoro agricolo e artigianale, ai modi di vivere e di abitare fino all’assetto urbanistico e di
costume.
La fotografia deve avere contenuti evidenti,
facilmente individuabili e che si organizzano su uno stesso argomento. L’immagine
della squadra di fornaciai, che prenderemo
in considerazione tra poco (foto 1), e la fotografia della signora Natalina Tolazzi ne
sono un esempio. Entrambe le immagini
rappresentano un gruppo di persone volte
ad uno scopo comune. Ma anche l’abitazione tradizionale di Forni di Sopra (foto
7), scelta per un documentario sulle case
tradizionali, ha una notevole forza evocativa. In questo caso l’immagine rimanda ad
un unico argomento: chi, come e perché si
costruivano queste abitazioni. Lo stesso si
può dire per la scelta dell’immagine della
fanfara militare che sta suonando in piazza
(foto 6) con la quale è stato prodotto il documentario sulle bande musicali in Carnia.
Il disordine è solo apparente, la fotografia
infatti rimanda alla disposizione che si crea
quando una banda suona in pubblico: uomini, donne e bambini disposti in ogni
dove, la banda militare, gli altri gradi dell’esercito. Tutti gli elementi partecipano a
formare l’unità del contenuto.
alla luce di quanto detto risulta evidente che
non è necessario optare per un’immagine
che abbia attinenza con il curricolo disciplinare. Il più delle volte questa scelta rassicura
l’insegnante che più facilmente si orienta nel
trattare un’immagine il cui contenuto a
grandi linee gli è noto, di fatto però ha almeno una controindicazione riguardante
l’obiettivo principale che con questa indagine si vuole raggiungere: l’acquisizione della
dimensione storica a partire da una attività
individuale e di classe propositiva.
Se i contenuti devono essere appresi dagli
alunni autonomamente, passo dopo passo,
è importante che ci sia la disponibilità a
porsi di fronte ad un evento sconosciuto
con curiosità verso ciò che non è dato. I
contenuti non dovrebbero essere offerti
dall’insegnante o appresi attraverso letture
207
5 G.P. GRI, Lettera alle ragazze
e ai ragazzi della scuola media
di Tolmezzo in Giorgio Ferigo
nella didattica, Scuola Media
Statale ‘G.F. da Tolmezzo’, Tolmezzo 2011, p. 6. Il testo è la
trascrizione dell’intervento
dell’autore a Tolmezzo, l’11
giugno 2011, alla presentazione del volume D. ZANIER,
Sulle orme di Giorgio Ferigo,
Scuola Media Statale ‘Gian
Francesco da Tolmezzo’, Tolmezzo 2011.
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208
Maddalena Morassi, Dino Zanier
di gruppo o altro. Scegliendo una fotografia
di argomento conosciuto, anche se involontariamente, l’insegnante riproporrà la lezione frontale: anziché orientare gli alunni
verso la ricerca di soluzioni originali, si daranno loro risposte già confezionate.
L’insegnante avrà il ruolo di conduttore del
percorso e la sua funzione principale sarà
quella di verificare che tutti gli allievi raggiungano gli obiettivi stabiliti secondo le rispettive capacità e competenze.
La lettura della foto
L’uso della scaletta consente di leggere la
fotografia in tutti i suoi aspetti ed evitare di
privilegiare un singolo elemento a discapito
di altri considerati erroneamente marginali.
Questo elenco di oggetti (cose, persone,
ambienti, relazioni, ecc.) viene organizzo in
modo da coprire tutta la superficie fisica e
concettuale dell’immagine per definire
l’ambito di approfondimento del documento. Essendo l’immagine interpretabile
in modo plurimo, l’indagine sarà rivolta
verso gli aspetti di contenuto piuttosto che
di composizione artistica o della cultura
storico fotografica.
Se ogni alunno deve porsi in modo interrogativo rispetto alla fotografia è necessario
che abbia lo spazio su cui investigare, fare
ipotesi e attivarsi rispetto al documento da
interpretare. È quindi importante isolare le
macro aree che compongono il documento
per affidarle alla descrizione dei singoli allievi o di piccoli gruppi di alunni. Questa
divisione può essere a tema o a oggetto: se,
per esempio, un gruppo di alunni s’incarica
dell’abbigliamento di una o più persone ritratte nella foto, lo stesso gruppo di persone
può essere indagato, da un altro alunno o
gruppo, per ciò che riguarda l’aspetto sociale o relazionale.
Nel documentario La fotografia di Natalina
le persone ritratte sono state descritte sia rispetto alle loro relazioni, ai ruoli nella famiglia e all’attività lavorativa, sia rispetto
all’abbigliamento e agli oggetti trasportati.
Esempi di lettura dell’immagine
Per far capire alla classe qual era il modo di
affrontare la descrizione dell’immagine senza
dilungarci in analisi concettuali sul ruolo
della fotografia come documento storico, abbiamo proposto due interventi mirati.
Il primo è stato quello della responsabile
della fototeca CarniaFotografia adriana
Stroili, alla quale abbiamo chiesto di chiarire cos’è una fototeca e di fare alcuni
esempi di utilizzo di fotografie nei diversi
ambiti di ricerca: urbanistico, emigrazione,
guerra, lavoro e di costume. L’intervento,
della durata di un’ora circa, è stato recepito
positivamente dalla classe che ha assistito
alla proiezione di fotografie d’epoca commentate nel confronto con la situazione
odierna.
Nel secondo intervento è stato proiettato in
classe il dia-tape Fâ modòn (foto 1). Questo
audiovisivo, della durata di 9 minuti, è stato
ideato per chiarire come un’immagine fotografica possa essere letta ed interpretata. Indaga, infatti, su un’unica fotografia che
ritrae una squadra di operai in posa addetti
alla produzione di mattoni, presumibil-
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
mente in austria all’inizio del Novecento.
L’audiovisivo è composto da due sequenze:
la prima descrive il modo di fabbricazione
dei mattoni partendo dagli strumenti di lavoro che i singoli operai hanno in mano, la
seconda descrive i ruoli che gli stessi hanno
nel gruppo.
Fondamentale è stata la scelta di proiettare
la fotografia originale prima della visione
dell’audiovisivo. La classe, invitata ad esprimere la propria opinione riguardo all’attività svolta dalla squadra dei lavoratori, seppure incuriosita, non è riuscita nemmeno
approssimativamente a capire né la professione né il periodo dello scatto. Molti non
hanno nemmeno riconosciuto il gruppo di
bambini sulla destra che pure è consistente.
Dopo la proiezione è stato sottoposto un
questionario per la verifica di quanto recepito riguardo al ciclo di lavoro e alla condizione degli operai. Tutti gli allievi hanno
dimostrato di aver compreso gli elementi
fondamentali della lettura dell’immagine.
Presentazione della fotografia
Con la presentazione alla classe del documento fotografico scelto si vuole stimolare
l’attitudine al gioco dell’indagine, «imparare
a osservare, riconoscere, fiutare, confrontare, immaginare, prefigurare, interpretare,
con pazienza e costanza»6. Si chiede loro
di indicare di getto, senza troppe riflessioni,
quello che li colpisce di più: non ci sono risposte giuste o errate. Gli alunni sono invitati a prendere atto del contenuto generale
dell’immagine descrivendo e formulando
delle ipotesi sugli aspetti più evidenti.
Se si chiede ai ragazzi la partecipazione alla
lettura del documento non si deve mettere
loro fretta: è importante aspettare che la
maggior parte della classe s’inserisca nel
gioco.
L’insegnante non spiega, non propone contenuti, ma sollecita gli alunni a guardare, a
cogliere i particolari e le relazioni tra gli oggetti e le persone. Questo primo approccio
è importante anche per l’insegnante che individua le potenzialità interpretative e di
approfondimento della classe.
Temi d’interesse e approfondimento
Dagli interrogativi suscitati dal documento
originano i temi d’interesse e di approfondimento, che formeranno i capitoli della relazione finale.
Partendo da un particolare aspetto trasformato in domanda, si procede in un movimento a spirale la cui risposta ritorna a
spiegare l’immagine in forma più approfondita. Questo insieme di notizie, che si organizzano a partire dai singoli temi, danno
una visione più completa del contesto in cui
è stata scattata la fotografia.
Didatticamente è il modo più efficace per
ridare un passato e un futuro a quella frazione di secondo che la macchina fotografica ha congelato.
La fotografia di Natalina
La fotografia di Natalina (foto 2), qui presa
ad esempio, è stata la prima esperienza di
questo genere. Si tratta di un gruppo in
cammino: il movimento lento, continuo e
incessante che caratterizza gran parte della
6 Ivi, p.10.
209
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210
Maddalena Morassi, Dino Zanier
7 M. MORASSI, D. ZANIER, Il formaggio: saperi e sapori. Il Col
Gentile e i sette formaggi capitali - strumento didattico per
il territorio, Scuola Media Statale ‘Gian Francesco da Tolmezzo’ e Associazione
Culturale La biblioteca dei
Sapori, 2008.
vita di lavoro della società rurale. Gli interrogativi suscitati dall’immagine sono immediati: da dove vengono e dove vanno queste
persone? Che cosa trasportano? Perché
sono accompagnate dagli animali? Chi
sono? Che cosa stanno facendo? Perché
sono lì? In che anno è stata scattata la fotografia e dove?
La descrizione fatta dagli alunni ha portato
alle seguenti considerazioni: è un gruppo di
persone in movimento, sono le donne che
fanno l’azione e non gli uomini che s’intravvedono nello sfondo, hanno tutte la gerla,
all’interno delle gerle si riconoscono alcuni
oggetti, sono vestite tutte uguali, anche se
davanti ci sono due giovani donne e una più
anziana dietro, è un gruppo che procede con
gli animali, capre, pecore e mucche, non si
sa in che anno il gruppo è stato fotografato.
Dalle osservazioni emerse vengono definiti
i seguenti temi di approfondimento:
Chi sono le persone ritratte nella foto?
Dove sono state ritratte?
Da dove vengono?
Che oggetti trasportano?
Che vestiti indossano?
Che posto avevano gli animali nella vita rurale?
Dove stanno andando?
Come vivevano nella comunità?
I temi, così come sopra elencati, sono stati
messi in ordine logico in funzione della relazione finale.
Ieri e oggi
Descrivendo l’atteggiamento delle persone,
degli animali che le accompagnano e delle
cose che trasportano, si prende coscienza
della distanza che ci separa da un modo di
vivere tanto diverso rispetto al nostro, pur
non essendo passati tanti anni. abbiamo
sottolineato alla classe che le due giovani
donne in primo piano, all’epoca della fotografia, avevano 14 anni: la loro stessa età. Se
si considera che questa fotografia è stata
scattata nel 1949, si può immediatamente
riflettere su quanta differenza esista tra le
due ragazze in primo piano nella foto e gli
alunni della classe.
Dal problema alle domande
La fotografia di Natalina è stata da noi notata nell’ambito della produzione di un documentario che aveva come oggetto la
lavorazione tradizionale del latte7. In quel
periodo sono state visionate numerose fotografie concernenti l’alpeggio, ma questa,
rispetto alle altre dello stesso genere, è organizzata in modo più chiaro ed evidente.
Gli aspetti che caratterizzano la transumanza sono messi in evidenza in forma didascalica: la prospettiva pone in primo
piano le due giovani donne che non sembrano affaticate ma contente di quello che
stanno facendo, con lo sguardo diritto e sicuro verso la macchina fotografica, in contrasto con il viso reclinato della donna in
secondo piano, più anziana e pensierosa. Le
capre tra le due giovani e le mucche in secondo piano mostrano in maniera plastica
un aspetto non secondario della vita quotidiana tradizionale: l’interdipendenza tra
uomini e animali che condizionava all’epoca gran parte della vita delle famiglie.
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
Di questa fotografia siamo riusciti a risalire
alla proprietaria, signora Natalina Tolazzi,
che è la seconda da sinistra. Quando l’abbiamo contattata si è detta disponibile a
raccontare alla classe la storia della fotografia. Con la sua testimonianza abbiamo potuto dare un nome alle persone e alle cose
nell’immagine e, quello che più conta, ricostruire l’ambiente che l’ha generata.
Come fare l’intervista
Ci è sembrato che il modo più semplice e
diretto di coinvolgere gli alunni nell’indagine fotografica fosse di proporre loro di
fare l’intervista alla signora Natalina Tolazzi. Era anche il modo più efficace per incentivare la classe a formulare le domande
e a raccogliere le informazioni.
Per far capire come si organizza un’intervista abbiamo chiesto la collaborazione di un
giornalista. Nell’arco di due ore l’esperto ha
dato alla classe gli strumenti pratici per formulare domande partendo da un tema assegnato. Sostanzialmente le domande devono
essere sempre dirette, semplici e chiare, in
modo che le risposte ottenute siano esaurienti per tutti gli aspetti trattati. Con questi
suggerimenti gli alunni si sono esercitati con
i propri compagni di banco e sono riusciti ad
ottenere risposte pertinenti ed esaustive rispetto agli argomenti assegnati.
Il questionario
I temi di approfondimento individuati sono
stati assegnati ad altrettanti gruppi di alunni
che avevano il compito di formulare quattro/cinque domande ciascuno al fine di
chiarire l’argomento loro affidato. Le domande erano necessariamente limitate, perché il tempo dedicato all’intervista era già
stato stabilito in precedenza e non doveva
superare le due ore. La classe ha quindi costruito il questionario per l’intervista.
Il primo gruppo, ad esempio, che aveva
come tema: ‘Chi sono le persone ritratte
nella foto?’, ha suddiviso la propria sezione
nelle seguenti domande:
– quando è stata scattata la foto e dove?
– come si chiamavano le persone ritratte
nella foto?
– quale era il grado di parentela?
– che cosa stavano facendo?
La signora Natalina Tolazzi non si è limitata
a rispondere a quanto richiesto, ma ha aggiunto ulteriori informazioni riguardanti i
componenti della propria famiglia, anche se
non presenti nella foto. Gli allievi si sono
così trovati a dover gestire un’altra sequenza non prevista (la famiglia dell’intervistata all’epoca della foto), ma comunque
importante per capire il contesto del periodo del gruppo fotografato.
L’intervista
L’intervista è stata condotta in classe dagli
alunni coordinati dall’insegnante di lettere.
In primo luogo ci si è accordati su chi
avrebbe fatto il portavoce del gruppo e in
che successione si sarebbero alternati durante l’intervista. ogni gruppo avrebbe dovuto registrare gli appunti relativi alle proprie
domande, ma durante l’intervista non sempre le risposte erano puntuali e spesso trattavano argomenti di pertinenza di altri settori.
211
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212
Maddalena Morassi, Dino Zanier
La difficoltà è stata quella di far cogliere agli
allievi gli aspetti relativi al proprio approfondimento anche se erano in risposta ad una
domanda fatta da un altro gruppo.
Mentre gli argomenti e le domande erano
stati organizzati in modo sufficientemente
esaustivo, purtroppo non è stato altrettanto
ponderato l’andamento dell’intervista.
I due aspetti che sono carenti riguardano il
mancato controllo sulle risposte che i
gruppi andavano annotando e la incapacità
di orientare l’intervistata sul terreno delle
domande. Di fatto gli appunti degli allievi
sono stati spesso imprecisi e il ruolo di moderatore dell’insegnante presente poco efficace. Per correggere questo aspetto
bastava intervenire durante l’intervista chiedendo ai gruppi che cosa stavano registrando o perché non lo stavano facendo.
Inoltre era necessario considerare che la
classe non era in presenza di un insegnante
che ‘detta’, ma di una persona esterna che
‘racconta’. Tra dettato e racconto c’è in
mezzo la capacità, non banale, di selezionare le informazioni pertinenti alla propria
domanda. Era quindi necessario che l’insegnante interloquisse di più con l’intervistata, dando modo al gruppo di individuare
l’aspetto essenziale della risposta. Fondamentale anche prendere più tempo tra una
domanda e l’altra per registrare le informazioni e verificare se le notizie importanti
erano state rilevate. Le carenze sopra descritte si sono ripresentate anche negli anni
successivi, quando in altre classi sono stati
intervistati storici e studiosi abituati a parlare agli studenti. La difficoltà nella regi-
strazione degli appunti indica che non è
l’intervistato il problema, ma la gestione
della classe durante questa fase delicata che
va organizzata ad hoc.
Il riordino degli appunti
ogni gruppo di alunni ha confrontato ciò
che è stato rilevato singolarmente e scritto
una nuova relazione partendo dagli appunti
più completi. La composizione dei gruppi,
che deve essere omogenea, prevede che in
ognuno ci sia almeno uno con buone competenze nella scrittura. Il lavoro in classe è
stato di confronto continuo tra insegnante e
gruppi che cercavano conferme sulle informazioni rilevate da inserire nella propria relazione. L’insegnante spesso ha dovuto intervenire per spostare informazioni da una
relazione all’altra e per eliminare le ripetizioni.
Mano a mano che i gruppi concludevano la
loro relazione venivano invitati a leggerla
pubblicamente. È il sistema più semplice
per uniformare la scrittura, eliminare le ridondanze e arrivare ad una relazione di
classe omogenea e completa. La relazione
collettiva finale è il frutto di continue correzioni, riscritture del testo, spostamento di
capitoli e aggregazione di argomenti simili
per uniformare il testo.
a conclusione di questa prima frase i
gruppi hanno rilevato che mancavano dati
per completare la descrizione dell’immagine. Erano carenti informazioni sulla vita
della signora Natalina Tolazzi, il rapporto
con la malga, il tragitto, la vita di paese. Si è
reso necessario un supplemento di intervista
che è stato realizzato l’anno successivo,
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
quando la classe era in terza media. La signora Natalina si è così sobbarcata altre due
ore di colloquio con la classe. a questo punto
è stata rivista la successione delle sequenze,
si sono inserite quelle mancanti e ridistribuiti
i compiti. La realizzazione di questa seconda
fase è stata più semplice dato che si trattava
di introdurre le informazioni mancanti in una
relazione già scritta.
Le sequenze finali dell’audiovisivo sono le
seguenti:
01. introduzione sulla fotografia
02. persone ritratte nella foto
04. alpeggio
05. oggetti trasportati
06. vestiario
07. animali
08. tragitto
03. vita di paese: adulti e ragazzi8
Per dare l’idea di quanto ogni gruppo ha
scritto per completare la sua relazione, di
seguito riportiamo le prime due sequenze:
La fotografia di Natalina
Un racconto per immagini
01. INTRODUZIONE
Alesia Carretta - Gabriele Moser
Questa foto è stata scattata nel 1949, precisamente l’8 settembre, dal fotografo di Paularo
Giacomo Segalla, in località Rosa dei Venti.
Al centro, tra la madre e un’amica coetanea,
è inquadrata la proprietaria della foto Natalina Tolazzi, allora 14enne, originaria di
Rinc, borgata nel comune di Arta. Ora risiede a Colza di Enemonzo.
Dietro sono ritratti uno zio paterno, quello
con la bicicletta, ed il fratello Andrea, il ragazzo che chiude la comitiva e si intravede in
fondo. Tra le persone alcune mucche e capre.
Attraverso la descrizione di questa immagine
Natalina ci ha raccontato a scuola la sua vita
ed alcuni aspetti del modo di vivere la sua
giovinezza.
02. PERSONE RITRATTE NELLA FOTO
Giulia Sanna - Erica Iob
Natalina si chiama così perché è nata il 25 dicembre nel 1935; Maria, tuttora sua grande
amica, a quel tempo aveva 15 anni.
Questa è la famiglia di Natalina. Lo zio paterno viveva nella loro famiglia perché celibe.
Il fratello Andrea aveva trascorso la sua
prima estate in malga. Natalina lo ricorda
contento per il primo compenso guadagnato.
Il padre costruiva gerle e faceva il boscaiolo,
la madre cuciva ‘scarpets’ e si occupava della
casa, dei terreni in campagna e della stalla,
una sorella filava la lana.
La loro casa era molto piccola, infatti la cucina
era solo 4x4 m. Per scaldarsi e cucinare avevano lo ‘spolert’ e per questo motivo la cucina
era la stanza più calda. Nelle camere non c’era
il riscaldamento così, per non avere freddo, si
usava mettere nel letto un mattone caldo.
La relazione finale è la parte più consistente
del progetto e di gran lunga la più complessa
e significativa. Tutti gli alunni hanno approfondito i singoli argomenti suggeriti dalla fotografia, sono entrati nella dimensione storica
facendo delle ipotesi e proponendo delle domande verificate attraverso le risposte.
Secondo le competenze individuali gli al-
213
8 La sequenza ‘03. Vita di
paese’ è stata spostata alla
fine del documentario, in fase
di montaggio, per dare l’idea
complessiva delle condizioni
di vita come conclusione generale.
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214
Maddalena Morassi, Dino Zanier
9 Per quanto riguarda la datazione, per alcuni è stato difficile individuarla anche in
modo approssimativo.
lievi hanno fatto relazioni socio economiche
e culturali complesse, confrontando il proprio modo di vivere con quello raffigurato
nell’immagine. La fotografia è stata analizzata in tutti i suoi punti e, per sommi capi,
è stato ricreato il contesto che l’ha generata.
Di fatto l’intera classe è stata coinvolta nella
partecipazione all’indagine.
Per loro, le fotografie hanno acquisito importanza documentale, non saranno più oggetti che si possono buttare via, che non
hanno valore. La storia si trova anche lì, in
quelle immagini che tanto spesso hanno
visto senza guardare.
Dalla relazione al documentario
Finora i documentari dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo erano stati realizzati
con immagini in movimento riprese con la
telecamera e montate in successione secondo lo storyboard. Per questo audiovisivo
invece, sono state utilizzate solo fotografie
che si riferivano al periodo relativo alla fotografia di Natalina, sostanzialmente quello
tra le due guerre mondiali.
Raccontare un’immagine attraverso altre
immagini è stato un rischio, ma ne è valsa
la pena: non dover fare riprese in esterno
avrebbe ridotto notevolmente i tempi di
produzione e l’attività sarebbe divenuta
possibile anche nelle classi a tempo normale. Tramite l’intervista poi, si poteva evitare il lungo lavoro della ricerca dei dati
indispensabili al commento parlato.
Sicuramente la lunga esperienza passata
con la produzione del dia-tape sonorizzato
ha permesso di affinare il rapporto imma-
gine statica e commento parlato e l’uso
delle fotografie all’interno dei documentari
ha fornito l’esperienza necessaria per affrontare questa nuova sfida.
Immaginare il testo
Il testo era stato costruito, ora dovevamo
abbinare le immagini. La richiesta fatta alla
classe era uno sforzo di fantasia: dividere il
testo in frasi ed immaginare quale fotografia
sarebbe stata più appropriata per commentare quanto scritto.
In poco tempo i gruppi hanno risolto il problema scrivendo accanto alla frase l’immagine ideale ritenuta più adatta. L’esercizio
successivo era leggermente più complicato:
si trattava di trovare concretamente la fotografia che più si avvicinava a quanto ipotizzato in precedenza.
In classe abbiamo portato una trentina di
libri fotografici realizzati da associazioni
culturali che avevano raccolto le immagini
negli archivi familiari del proprio comune
ed alcune opere di fotografi, sempre della
nostra zona. Le immagini di questi testi coprivano pressappoco il periodo che va dagli
anni ’20 agli anni ’50 del secolo scorso.
ogni gruppo, sfogliando i libri, doveva scegliere una o più fotografie dello stesso periodo storico della fotografia principale9;
queste dovevano essere adatte a commentare la frase, e segnalate attraverso un postit nella pagina con annotato il nome del
gruppo, la fotografia scelta nella pagina e il
numero della frase che avrebbe dovuto
commentare. Gli allievi erano tenuti, inoltre, a trascrivere le analoghe informazioni
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
comprensive del titolo e dell’autore del
libro in calce allo storyboard.
La seconda parte della richiesta aveva lo
scopo di tener conto della bibliografia da
inserire nei titoli di coda del documentario.
Di seguito presentiamo lo storybard delle
tre sequenze: alpeggio, oggetti trasportati e
il vestiario.
04. ALPEGGIO
Piazza Simone - Forabosco Martina - Fabiani Antonia
commento parlato
n. immagini
Natalina, la sua amica e sua madre sono qui riprese a
Paularo località campo sportivo. È l’8 settembre e
stanno rientrando dopo aver dormito in malga.
01 Foto Natalina; zoomata
da sua madre e la sua
amica alla foto intera
Scendevano da ‘Cueste Robie’, malga di proprietà
della famiglia Tarussio di Paularo, dove avevano
portato gli animali per l’estate.
02 Malga ‘Queste Robie’ foto archivio Segalla
La malga è un complesso di più edifici collocati ad una
altitudine minima di 800 metri,
03 Malga ‘Queste Robie’ foto archivio Segalla
alcuni adibiti al ricovero di bovini e ovini,
04 Malga Promosio - Se chi rioni
altri a quello dei pastori e alla produzione del
formaggio nel periodo estivo.
05 Malga Promosio - Se chi
rioni panoramica orizzontale
I tre mesi, da giugno a settembre, come scritto nel
contratto con il proprietario,
06 Gruppo di pastori - foto
archivio Segalla
garantivano la fornitura di una certa quantità di forme
di formaggio ‘di malga’,
07 In casera - foto Segalla
diverso da quello che si produceva a valle per il tipo di
alimentazione delle mucche: erba fresca ricca di
essenze naturali.
08 Mucca che bruca
- primo piano - fermo
immagine
Il padrone pesava il latte 3 volte nella stagione (mattina
e sera): dopo la prima settimana,
09 Interno malga (‘musce’
con pastore) - Se chi rioni
due mesi dopo l’arrivo in malga e una settimana prima
del rientro;
10 Mucca al pascolo - fermo
immagine
a queste pesate solitamente assistevano i proprietari
delle mucche e delle capre.
11 Interno malga con pastori
- Tracce di storia per immagini
La media di queste tre pesate moltiplicata per i giorni
di alpeggio dava il latte complessivo prodotto.
12 Interno malga, la cottura del
latte - Carnia - Da Pozzo
Metà di questo latte andava al padrone della malga
e metà al proprietario delle mucche.
13 Persone fuori dalla malga Cjabie - Memories in blanc e…
Da questa quantità di latte si facevano derivare i kg
di formaggio spettanti al proprietario del bestiame.
14 Forme di formaggio in
stagionatura - fermo immagine.
215
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216
Maddalena Morassi, Dino Zanier
05. OGGETTI TRASPORTATI
Cortiula Riccardo - Pillinini Arianna
commento parlato
n. immagini
Il gruppo sta trasportando a valle i prodotti della
malga; formaggio
01 Malgaro con forma di
formaggio - Se chi rioni
e ricotta.
02 Ricotte fresche - fermo imm.
Come era abitudine in tutto l’arco alpino, il modo
più consueto per spostare la maggior parte dei
materiali era la gerla.
03 Ragazze con gerla - La Carnia
di Antonelli
In quella della madre di Natalina si intravedono le
forme di formaggio e due ombrelli utili in caso
di maltempo.
04 Foto di Natalina - primo piano
madre di Natalina
La gerla, come la cesta, si realizzava intrecciando fibre
di varie essenze legnose.
05 Uomo che intreccia - Intrecciatura tradizionale
a seconda delle vallate e del carico da trasportare
avevano forma diversa, più o meno allargata.
06 Donna con gerla - archivio
Segalla
Solitamente venivano costruite in famiglia, per
risparmiare;
07 Cungiò veciu paîs
infatti le gerle nella foto sono state intrecciate dal
padre di Natalina.
08 Foto Natalina - particolare
Natalina e amica
attrezzate di bretelle, si riempivano dei materiali
più diversi,
09 Donna con gerla e pentolone
- Cungiò veciu paîs
dal corredo nuziale alle foglie, al fieno, alla legna,
al letame e così via.
10 Trasporto corredo nunziale archivio Socchieve
Già da bambine, le donne venivano abituate al
trasporto su schiena, con gerle piccole chiamate ‘geuts’.
11 Bambini con gerla Cungiò veciu paîs
Un altro mezzo, per trasportare a valle materiali più
pesanti e voluminosi, era la slitta.
12 Slitta in primo - Noles e lops
È uno strumento leggero e allo steso tempo resistente.
13 Donne con slitta - Noles e lops
Dalla gerla dell’amica di Natalina fuoriesce una ‘crame’
14 Particolare gerla amica
Natalina
o cassettiera per trasportare indumenti, alimenti
e altro materiale fragile.
15 Primo piano foto di ‘crascjgne’
(Museo)
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
217
06. IL VESTIARIO
Bortolotti Thomas - Tirelli Alice - Valle Eliana
commento parlato
n. immagini
Nella foto le tre donne indossano camicie pesanti,
gonne lunghe fino alle ginocchia
01 Foto Natalina - panoramica sulle
tre donne
e grembiuli scuri, calze di lana e ‘scarpez’.
02 Panoramica madre Natalina
all’epoca si possedevano due soli vestiti a persona,
03 Gruppo con abiti da festa archivio Natalina
uno per le feste e uno per tutti i giorni,
04 Idem
che si lavava la sera per essere indossato nuovamente
l’indomani.
05 Gruppo donne in abito da
lavoro - Tracce di storia per…
Gli anziani portavano vestiti scuri,
06 Donna anziana - idem
mentre i ragazzi ne avevano di più chiari e a fantasia,
come si vede dalla classe di Natalina.
07 Classe di bambini - Cungiò veciu
paîs
Le famiglie tenevano una pecora bianca e una nera
da cui ricavavano la lana per le maglie e le calze.
08 Donne che sgranano - Cungiò
veciu paîs
anche la mamma di Natalina cuciva in casa i vestiti
per la famiglia.
09 Donne al corso di cucito - I
faremos
In inverno si usavano giacche, golf di lana e maglie
pesanti.
10 Persone anziane - archivio
Segalla
Con la pioggia e nei pavimenti bagnati delle stalle
si calzavano ‘las dalbidas’,
11 Donna con biancheria - Cungiò
veciu paîs
degli zoccoli di legno.
12 Zoccoli - Il lavoro dei contadini
Dalla scansione al montaggio video
ogni gruppo aveva la propria cartella con le
fotografie scelte, che sono state scansionate
dagli alunni e in parte dall’o.T. La fase di
montaggio video è stata dimostrata in classe
e fatta eseguire dalla maggioranza degli allievi. Da questo momento in poi l’attività è
stata eseguita da piccoli gruppi di alunni,
all’esterno della classe, guidati dall’operatore
tecnologico e/o dall’insegnante di lettere.
Gli alunni hanno utilizzato lo stesso programma semplice ed efficace impiegato per
l’attività di montaggio video degli elaborati
prodotti nella classe seconda10, usando l’effetto ‘Ken Burns’, che permette di simulare
panoramiche e zoomate su immagini fisse.
Il gruppo di montaggio video era composto
da tre alunni: uno operava con il programma
di montaggio vero e proprio, il secondo, con
un altro computer, aggiornava lo storyboard
con eventuali altri abbinamenti fotografici e
modifiche. Un terzo alunno leggeva la frase
per dar modo al montatore di allungare o diminuire la durata dell’immagine così da sin-
10 Le classi seconde producono un breve film della durata di 3-4 minuti che
abbiamo chiamato la ‘frase
video’. Il format prevede che il
soggetto sia un argomento
che si sviluppa in classe e che
tutte le fasi di progettazione e
produzione vengano realizzate in aula. La scelta delle
inquadrature, le riprese il microfono ecc. sono realizzate
dagli alunni. Alla fine le riprese vengono montate con lo
stesso programma con cui si
realizzano i documentari.
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218
Maddalena Morassi, Dino Zanier
11 J. BERGER, Capire... cit., p.
75.
cronizzare testo e foto. alla fine di questa
operazione si è passati alla registrazione del
commento parlato.
L’insegnante ha specificato alla classe in che
modo doveva essere letto un testo per la registrazione di un documentario. Dopo le dovute prove, l’insegnante ha scelto l’alunno
che meglio interpretava il testo, rispetto al
giusto ritmo ed intonazione. La registrazione
è stata incisa in tre incontri nell’aula meglio
isolata acusticamente: la biblioteca.
La fase di sincronizzazione è una fase prevalentemente tecnica e gli alunni sono stati veloci nel realizzarla, ma con tempi di
persistenza dell’immagine troppo rapidi.
Durante la prima visione del documentario
questo difetto si è rivelato in modo evidente:
le immagini ‘scappavano via’ dallo schermo
e davano una sensazione di fastidio a causa
della velocità eccessiva di panoramiche e
zoomate. Sono state, quindi, eliminate alcune foto e rallentata la visione complessiva
delle audiovisivo.
In conclusione, in tredici minuti e trenta secondi di proiezione si vedono 145 immagini,
per una media di 6-7 secondi di persistenza
ciascuna.
Documentare la Carnia
Dopo un anno di riflessione il progetto, seppure con ancora alcuni aspetti da approfondire, è stato proposto a tutte le 7 classi terze
dell’Istituto durante il primo Collegio Docenti dell’anno scolastico 2012/2013.
Rispetto alle fasi sviluppate per la produzione del documentario La fotografia di Natalina abbiamo apportato alcune modifiche.
Innanzitutto per il reperimento delle informazioni sulla foto da analizzare si è pensato
ad uno storico o, comunque, ad una persona
informata sul suo contenuto per non vincolare l’attività solo alle fotografie che avevano
un testimone diretto.
Esistono due tipi di fotografie: «Ci sono le
fotografie che appartengono alla sfera privata
e fotografie di uso pubblico. […] La fotografia privata […] è apprezzata e letta in un
contesto che è coerente con quello da cui la
macchina fotografica l’ha rimosso. […]
La foto è un promemoria tratto da una vita
mentre viene vissuta […] In generale la fotografia pubblica contemporanea presenta
un evento, cattura una serie di apparenze
che non hanno nulla a che fare con noi, suoi
lettori, o con il significato originale dell’evento»11.
Se riannodare i fili di un evento alla presenza
di un testimone diretto è molto più facile,
perché è impossibile sbagliare l’interpretazione, è altrettanto vero che la maggiore
parte di fotografie significative non ne dispongono e, in questo caso, l’intervista con
lo storico garantisce un’interpretazione
ampia e articolata dell’evento.
La seconda variazione all’itinerario didattico
precedente è stato eliminare l’incontro con
il giornalista. Poiché l’intervistato sarebbe diventato una persona che ha approfondito
scientificamente l’argomento trattato, non
era più necessario preoccuparsi di come impostare un eventuale colloquio e si è ritenuto
sufficiente concentrarsi sulle domande.
Un ulteriore aspetto, non secondario, era la
programmazione dei tempi di realizzazione
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
dei progetti. Si ricorderà che l’audiovisivo La
fotografia di Natalina è stato realizzato in due
anni, ma era la prima esperienza e aveva bisogno di una riflessione più lunga per affrontare i problemi che via via si presentavano.
La soluzione di alcuni aspetti rilevanti ci
hanno permesso di progettare la costruzione
di un audiovisivo in tempi molto ridotti
senza rinunciare agli obiettivi formativi.
L’itinerario di produzione definitivo proposto al Collegio Docenti è stato il seguente:
STORIA E FOTOGRAFIA
La fotografia come documento storico
classi terze
Itinerario delle attività in classe
1. Scelta del tema fotografico
L’insegnante sceglie la fotografia da descrivere che farà da guida a tutto il percorso di
approfondimento.
I criteri per la scelta possono essere diversi:
dall’interesse documentale (storico-antropologico), al collegamento con il programma
curricolare, ecc.
Non scegliere temi conosciuti, ma lasciare alla
classe il compito di approfondire l’argomento.
2. Presentazione della foto in classe come
documento storico
Proiezione di esempi di descrizione fotografica.
Dopo un breve commento sulla foto scelta,
ad ogni alunno verrà consegnata una copia
per una descrizione individuale.
3. Divisione, per argomenti, del contenuto
della foto
La fotografia verrà divisa in 8-10 temi o unità
di contenuto che saranno sviluppati autonomamente dai gruppi in cui la classe verrà divisa. È necessario assegnare un numero ad
ogni tema in modo che vi sia un percorso logico di lettura (dal generale al particolare).
4. Divisione della classe in gruppi
I gruppi di lavoro saranno di due, massimo
tre alunni, possibilmente eterogenei.
5. Domande per l’intervista (lavoro di
gruppo)
ogni gruppo avrà il compito di formulare 56 domande sul tema definito, che dovranno
essere mirate al fine di chiarire in maniera
esaustiva la descrizione dell’argomento.
Le domande dovranno essere consegnate all’esperto almeno una settimana prima dell’intervista in classe.
6. Intervista con l’esperto
L’autore del libro fotografico in classe risponderà alle domande formulate dai singoli
gruppi. È importante che gli alunni sappiano
prendere appunti, tenendo conto delle informazioni che vengono loro date. L’insegnante
condurrà l’intervista.
7. Sistemazione degli appunti (lavoro di
gruppo)
ogni gruppo organizzerà gli appunti in
modo organico unendo le informazioni
avute senza omettere aspetti importanti o
fare ripetizioni. L’insegnante verificherà che
l’insieme del lavoro dei gruppi sia coerente,
correggerà gli appunti che verranno riscritti
definitivamente dai gruppi in un testo unitario.
8. Scelta delle immagini per il commento del
testo (lavoro di gruppo)
Il testo di ogni singolo gruppo verrà diviso
219
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220
Maddalena Morassi, Dino Zanier
21 alunni
Esperto Dr. Erminio Polo
Durata 19 minuti
in frasi a cui gli alunni faranno corrispondere
una fotografia scelta dai libri fotografici a disposizione in classe.
SCELTa DEL MEZZo PIÙ oPPoRTUNo PER TRaSMETTERE I CoNTENUTI
a questo punto il testo e le foto del contenuto verranno abbinati per la visione conclusiva. Si potrà scegliere il mezzo più adatto
al lavoro svolto (power point, schede fotografiche, video, ecc.).
Durante l’anno scolastico le classi terze
hanno prodotto i seguenti documentari partendo dalla fotografia scelta.
IIIa
L’emigrazione in Carnia tra fine ’800
e inizio ’900
Prof.ssa Elisa Blasio
tempo prolungato
24 alunni
Esperto Dr. Denis Baron
Durata 17 minuti
IIIB
Il senatore Michele Gortani
Prof.ssa Silva Marcolini
tempo prolungato
24 alunni
Esperto Dr. Denis Baron
Durata 8 minuti
IIIC
Alcune tradizioni in Carnia
Prof.ssa Tiziana Tomat
tempo normale
22 alunni
Esperto Dr. Bruno Mongiat
Durata 10 minuti
IIID
Suonare insieme - Le bande musicali
in Carnia
Prof.ssa Marta Colle - sez. musicale
IIIE
La casa tradizionale dell’Alta
Val Tagliamento
Prof.ssa Veronica Gasparini
19 alunni
Esperto Dr. Erminio Polo Durata 14 minuti
IIIF
I luoghi dell’incontro
Osterie fontane e lavatoi
Prof. David Brunner
22 alunni
Esperto Sig. alfio anziutti Durata 27 minuti
IIIG
L’occupazione cosacca in Carnia
Prof.ssa Rosa Maria Pascale
25 alunni
Esperto Dott.ssa Marina Di Ronco
Durata 22 minutia
L’itinerario dell’attività è descritto nella
breve pubblicazione allegata al cofanetto
contenente i 7 DVD La scuola documenta la
Carnia. La produzione di documentari con fotografie d’epoca, edito dal nostro Istituto.
Qui abbiamo inserito le fotografie che sono
all’origine della prima esperienza di lettura
dell’immagine (Fâ modòn), del racconto
della storia personale e collettiva di Natalina
Tolazzi, della produzione dei sette documentari più recenti, con una breve sintesi del
contenuto, un breve riassunto del percorso
didattico sullo sviluppo di un tema partendo
da una fotografia.
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
221
1. Fâ modòn - schedatura di una foto d’epoca - a.s. 1988/1989
Prof. Dino Zanier - dia-tape di 49 diapositive - durata 9 minuti
Come si legge una fotografia? La risposta a questa domanda è l’obiettivo che ci si propone di raggiungere
attraverso l’audiovisivo. È la descrizione di una squadra di operai in posa durante una pausa di lavoro per
la produzione di mattoni, probabilmente in una fornace austriaca all’inizio del ’900. Le due sequenze che
lo compongono prendono in considerazione gli strumenti di lavoro, le mansioni nel ciclo produttivo ed i
rapporti gerarchici all’interno del gruppo.
Inizio del Novecento (collezione privata Antonella Cappelletti, Udine).
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Maddalena Morassi, Dino Zanier
2. La fotografia di Natalina. Un racconto per immagini - a.s. 2010/2011 classe 3A
Prof.ssa Maddalena Morassi - O.T. Dino Zanier - tempo prolungato - durata 18 minuti
È il 1949, tre donne con capre, mucche e pecore stanno percorrendo la strada che dalla malga le porterà
al proprio paese. La seconda da sinistra è Natalina Tolazzi, nata nel 1935, all’epoca quattordicenne, che
racconterà alla classe la storia di quel tragitto: che cosa veniva trasportato, la vita della sua famiglia e la
quotidianità di una borgata alpina.
1949 (collezione privata Natalina Tolazzi, Enemonzo - Ud).
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
3. L’emigrazione in Carnia tra fine ’800 e inizio ’900 - a.s. 2012/2013 classe 3A
Prof.ssa Elisa Blasio - tempo prolungato - Esperto Dr. Denis Baron - durata 17 minuti
L’emigrazione è una realtà diffusa e persistente che ha coinvolto gran parte della popolazione e ha condizionato la vita del nucleo familiare e dei paesi della Carnia.
Sono state ricercate le cause, il modo e i luoghi dell’emigrazione, le conseguenze di chi rimane in paese: la
donna sulle cui spalle gravava il peso della conduzione della casa e del lavoro agricolo e i bambini che si
trovavano nella condizione di essere abbandonati a se stessi.
Inizio del Novecento (collezione privata Tolmezzo - Ud).
223
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Maddalena Morassi, Dino Zanier
4. Il senatore Michele Gortani - a.s. 2012/2013
classe 3B
Prof.ssa Silva Marcolini - tempo prolungato - Esperto
Dr. Denis Baron - durata 8 minuti
È una veloce biografia della vita di Michele Gortani
che, iniziando dalla sua infanzia, attraversa gli studi
giovanili, l’università e il mondo accademico per
approdare alla docenza di geologia di fama internazionale. Ricercatore per la compagnia petrolifera
italiana in africa orientale, per tanti anni parlamentare a Roma, grazie al suo impegno politico
diviene uno dei padri costituenti, ma anche difensore delle ragioni di chi vive in montagna. L’interesse per la cultura e le tradizioni del suo territorio
lo porteranno a fondare il Museo carnico delle arti
e tradizioni popolari che a lui è stato intitolato.
5. Alcune tradizioni in Carnia/a.s. 2012/2013
classe 3C
Prof.ssa Tiziana Tomat - tempo normale - Esperto Dr.
Bruno Mongiat - durata 10 minuti
Il documentario prende spunto da una semplice
fotografia dove è ritratto il nonno di un alunno
mentre pranza all’esterno di un casolare in alta
montagna. Da qui parte la descrizione di alcuni
aspetti della cultura materiale della Carnia, principalmente dei prodotti alimentari più tipici,
come quelli derivati dal latte proveniente dalle
malghe o dalla lavorazione delle carni del maiale.
Si passa, quindi, alla cucina per un breve excursus sulla storia della produzione della polenta e
su alcuni piatti che accompagnavano questo alimento di base.
1900 (Archivio del Museo delle Arti Popolari ‘Michele Gortani’, Tolmezzo - Ud).
Primi anni ’60 del Novecento (Archivio dell’Istituto Comprensivo di Tolmezzo - Ud).
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
6. Le bande musicali in Carnia - Suonare insieme per tutti - a.s. 2012/2013 classe 3D
Prof.ssa Marta Colle - sez. musicale - Esperto Dr.
Erminio Polo - durata 19 minuti
Come sono nate le bande, quali sono le differenze fra banda e fanfara, quali gli strumenti
che le caratterizzano, dove e in che occasione
suonano, qual è l’importanza per la comunità
locale in cui sono presenti?
Questi sono alcuni degli interrogativi a cui il
documentario cerca di rispondere non trascurando gli ideali e le aspirazioni che hanno motivato tante persone a suonare e a sostenere questi gruppi musicali.
Inizio Novecento (Archivio fotografico famiglia Schiava-Doriguzzi, Sutrio - Ud).
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7. Le case tradizionali dell’Alta Val Tagliamento - a.s. 2012/2013 classe 3E
Prof.ssa Veronica Gasparini - tempo normale Esperto Dr. Erminio Polo - durata 14 minuti
Le abitazioni tradizionali dell’alta Val Tagliamento - Forni di Sopra, Forni di Sotto, ampezzo - hanno caratteristiche peculiari che le
differenziano dalle altre per l’uso consistente di
legno nella facciata. L’audiovisivo descrive i materiali da costruzione, le caratteristiche delle
stanze e il loro utilizzo. Prende in considerazione, inoltre, il modo tradizionale di costruzione e le relazioni di paese che hanno favorito
la realizzazione degli edifici.
Anni ’60 del Novecento (dal volume: Adriano Alpago Novello,
fotografie di Giovanni Edoardo Nogaro, Carnia – Architettura
spontanea e costume, Görlich editore, Paderno Dugnano –
Mi, 1973, p. 119).
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Maddalena Morassi, Dino Zanier
8. I luoghi dell’incontro - Osterie fontane e lavatoi a.s. 2012/2013 classe 3F
Prof. David Brunner - tempo normale - Esperto Sig.
Alfio Anziutti - durata 27 minuti
L’audiovisivo descrive due luoghi che forse più di
altri erano deputati allo scambio d’informazioni sulla
vita quotidiana del paese: le osterie, ambiente di
svago e gioco per gli uomini, e le fontane e i lavatoi,
ad esclusivo uso delle donne. In questi spazi la concentrazione delle persone favoriva la diffusione delle
notizie, ma anche il perpetuarsi di modi di dire, di
fare e del comportamento della comunità.
Uomini in osteria, metà anni ’30 del Novecento
Donne al lavatoio, 1929
(Archivio fotografico famiglia Schiava-Doriguzzi, Sutrio - Ud).
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Animare la fotografia. La costruzione di un audiovisivo con immagini d’archivio
9. L’occupazione cosacca in Carnia - a.s. 2012/2013 classe 3G
Prof.ssa Rosa M. Pascale - tempo normale - Esperto Dott.ssa M. Di Ronco - durata 22 minuti
La Carnia, durante la seconda guerra mondiale, dall’ottobre 1944 al primo maggio 1945, è stata occupata dai
cosacchi. Un’occupazione militare, ma anche civile con donne, bambini e anziani provenienti da una zona,
anche culturalmente, tanto distante dalla nostra. I cosacchi, stabiliti nelle case dei carnici, hanno obbligato le
famiglie ad una convivenza difficile ed estenuante. L’audiovisivo racconta come si è arrivati a tanto e quali
sono stati gli esiti di questa relazione forzata.
1944-1945 (collezione privata ‘Capelin’, Cavazzo Carnico - Ud).
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Biografie
Donatella Cozzi è ricercatrice di antropologia
culturale presso l’Università degli Studi di
Udine. Fra i suoi principali interessi di ricerca
vi sono gli ambiti medico e psichiatrico, nei
quali va annoverato Le imperfezioni del silenzio.
Riflessioni antropologiche sulla depressione femminile in un’area alpina (acireale 2007). assieme
a Domenico Isabella ed Elisabetta Navarra è
stata curatrice delle ricerche raccolte in
Sauris/Zahre. Una comunità delle Alpi carniche
(Udine 1998-1999).
Roberto Del Grande opera come consulente
per l’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia. Esperto nella
gestione e nella valorizzazione degli archivi fotografici ha ideato e curato mostre e volumi relativi alla fotografia storica e contemporanea.
ha conseguito il dottorato di ricerca in ‘Storia
dell’arte’, specializzandosi nello studio dei fotografi d’arte della seconda metà del Novecento.
È docente a contratto di Storia e tecnica della
fotografia al DaMS di Gorizia.
Corrado Fanti, autore e studioso della fotografia
come espressione storica e artistica, bene culturale e comunicazione, alterna quest’attività
con l’insegnamento della filosofia di cui è titolare di cattedra.
ha svolto attività di ricerca e di didattica in
qualità di relatore e docente in convegni e corsi
anche universitari - professore a contratto.
Come autore e direttore artistico ha pubblicato
più di ottanta fra saggi e volumi, dei quali ha
interamente ideato e realizzato immagini ed è
stato presente in più di sessanta esposizioni fra
personali e collettive, ottenendo riconoscimenti,
a livello europeo. È presente con altri autori in
un centinaio di pubblicazioni e sue immagini
sono riportate nella in Storia d’Italia. Annali.
L’Immagine Fotografica 1945-2000 (Torino
2004).
Margherita Grosso, insegnante di Lettere
presso l’Istituto Comprensivo di Tolmezzo da
tre anni, è tuttora referente del gruppo di Educazione all’Immagine. ha lavorato sull’indagine
storica attraverso la scheda fotografica e con la
sua classe ha prodotto brevi filmati a soggetto.
Teresa Kostner, laureata presso l’Università degli Studi di Udine in ‘Storia dell’arte e conser-
vazione dei beni artistici e architettonici’, collabora da alcuni anni con il Circolo Culturale Fotografico Carnico e con la Comunità Montana
della Carnia per la promozione degli interventi
di recupero, studio, catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico locale.
Claudio Lorenzini si è formato presso l’Università degli Studi di Udine, dove ha conseguito il
dottorato di ricerca in ‘Storia: culture e strutture
delle aree di frontiera’. Le sue ricerche sono
concentrate sulla cultura, la società e l’economia
dell’area alpina. Fra le sue ultime pubblicazioni:
Assenti più o meno illustri: «Comunità alpine»
e il bosco. Il caso delle Alpi orientali (con G.
Bernardin, in «Storia delle alpi», 2013). Fa
parte dell’associazione culturale Giorgio Ferigo
(Comeglians).
Silvia Marcolini è insegnante di Lettere presso
l’Istituto Comprensivo di Tolmezzo. Nell’ambito
dell’educazione all’immagine è stata referente
del Gruppo immagine, Tutor per la formazione
interna docenti (a.s. 2007/2008), Tutor per il
Centro di Formazione GoLD (2010). ha collaborato a diversi progetti interni a partire dall’a.s. 2000/2001. Si occupa di ricerca storica, di
arte e cultur a, ambiti nei quali ha pubblicato e
pubblica libri ed articoli in collaborazione con
diversi Enti pubblici e privati.
Franca Merluzzi svolge la sua attività presso
l’Istituto Regionale per il Patrimonio Culturale
del Friuli Venezia Giulia con il ruolo di coordinatore. Si è occupata di progetti tematici di censimento e schedatura tra cui: le opere musive in
Friuli Venezia Giulia, le collezioni d’arte di enti
pubblici e privati, i parchi e giardini storici sul
territorio regionale. Nel 2011 ha curato il volume I beni culturali del Friuli Venezia Giulia.
Il catalogo in rete, nel 2013 I beni culturali del
Friuli Venezia Giulia. La catalogazione partecipata in rete.
Adolfo Mignemi si occupa da anni del rapporto
tra fotografia e storiografia; collabora con l’INSMLI di Milano e ha insegnato all’accademia
albertina di Belle arti di Torino. Tra i suoi numerosi studi sul tema ricordiamo: La storia fotografica della Resistenza (Torino 1995); Lo
sguardo e l’immagine. La fotografia come docu-
mento storico (Torino 2003); Un’immagine dell’Italia. Resistenza e ricostruzione (con G. Solaro
e a. Steiner, Milano 2005).
Maddalena Morassi, insegnante di Lettere
presso l’Istituto Comprensivo di Tolmezzo da
dieci anni, è stata referente del gruppo di Educazione all’Immagine. ha prodotto all’interno
delle sue classi alcuni documentari, schede fotografiche e brevi filmati a soggetto.
Maria Teresa Sega è ricercatrice presso l’Istituto
veneziano per la storia della Resistenza e della
società Contemporanea e Presidente dell’associazione rEsistenze - memoria e storia delle
donne in Veneto. Studiosa dei movimenti delle
donne e di storia della scuola, per anni si è occupata di didattica della storia. ha curato, tra
gli altri, le pubblicazioni La scuola fa la storia.
Gli archivi scolastici per la ricerca e la didattica
(Portogruaro 2002), Se questa è una donna. Violenza memoria narrazione (SommacampagnaVenezia 2010); Ritorno a scuola. L’educazione
dei bambini e dei ragazzi ebrei a Venezia tra leggi
razziali e dopoguerra (con L. Voghera Luzzatto,
Portogruaro 2012).
Adriana Stroili è architetto e responsabile della
Fototeca territoriale ‘CarniaFotografia’ gestita,
senza fini di lucro, dal Circolo Culturale Fotografico Carnico. Studiosa di architettura e paesaggio rurale, è autrice, tra l’altro, di Verzegnis,
territorio e architettura rurale (Tolmezzo 1992),
e La via storica del marmo di Verzegnis. (Verzegnis 2007). Recentemente ha curato la pubblicazione I primi cent’anni del Ponte Avons
(amaro, Cavazzo Carnico, Tolmezzo e Verzegnis
2013).
Dino Zanier, laureato in sociologia a Trento negli anni ’70, ha insegnato Educazione Tecnica
nella scuola secondaria di primo grado per poi
assumere, nella stessa, il ruolo di operatore Tecnologico. appassionato dell’Educazione all’immagine. Con i colleghi di tutte le discipline, ha
approfondito l’indagine sul territorio progettando percorsi fotografici e documentari. È socio fondatore del Gruppo ‘Gli Ultimi’ e del Circolo Culturale Fotografico Carnico, che da anni
collabora con l’Istituto Comprensivo di Tolmezzo.
x stampa cop archivi fotografici_Layout 1 24/08/15 18:46 Pagina 1
STORIA E
ARCHIVI FOTOGRAFICI
La fotografia e le immagini hanno oggi
un posto autorevole nella ‘cassetta
degli attrezzi’ degli storici e della
strumentazione di cui si dotano tutti
coloro che ambiscono a comprendere
il rapporto tra presente e passato.
Ogni passo in avanti ci fa tuttavia
comprendere quanta strada può esserci
ancora da percorrere. È per tutte queste
ragioni che abbiamo voluto rammentare,
a chi avrà la pazienza e l’interesse a
seguirci, come la fotografia sia una
modalità di comunicazione da cui non si può
prescindere per la conoscenza della società in
tutti i suoi innumerevoli aspetti.
Si può guardare ad essa da diversi
punti di vista: artistico, informativo,
documentale. Tutti parimenti rilevanti,
coinvolgenti, capaci di narrare,
complessi sul piano del metodo.
ADOLFO MIGNEMI
STORIA E
ARCHIVI
FOTOGRAFICI