Al centro della città
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Al centro della città
Al centro della città punti di vista Dinamiche di urbanizzazione Marc Augé Etnologo e antropologo Sabato 6 ottobre 2012, nel corso dell’iniziativa «Milano al plurale» organizzata dalla Fondazione Culturale San Fedele e, in particolare, dalla rivista Popoli, si è tenuta una tavola rotonda sul tema «Città plurale: da risorsa a emergenza». Presentiamo qui l’intervento dell’etnologo e antropologo francese Marc Augé, una riflessone sul rapporto tra urbanizzazione generalizzata, funzione della città e ruolo dell’architettura. L a lingua corrente riserva sorprese. Ad esempio oggi facciamo spesso ricorso all’uso del privativo “senza”: parliamo di “senza fissa dimora” o di “sans papiers” [persone “senza documenti”: la locuzione francese per indicare gli immigrati irregolari, i clandestini, ndr]. E anche se sappiamo con certezza che la situazione di queste persone è davvero problematica, siamo indirettamente portati a credere che avere una residenza fissa e documenti in regola sia condizione sufficiente per la serenità. Altri esempi potrebbero facilmente convincerci del contrario. I più fortunati di questo mondo accumulano domicili, hanno “seconde case” in diversi continenti, yacht, soggiornano in hotel di lusso di tutto il mondo. Hanno documenti, ovviamente, ma sono così certi di questi e così sicuri della propria identità che hanno a malapena consapevolezza di mostrarli, se lo devono fare. L’accumulo di residenze e la sicurezza dei più agiati provano che l’ideale della vita individuale non è necessariamente l’attaccaAggiornamenti Sociali novembre 2012 (775-783) 775 mento a un luogo fisso, come quello della cozza al suo scoglio, né il fatto Antropologo ed etnologo di poter declinare la propria identità al francese, già direttore della bisogno, mostrando i propri documenEcole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, ti, ma, al contrario, è la libertà effettida anni dedica i suoi studi va di circolare e restare relativamente all’«antropologia dei mondi anonimi. contemporanei», focalizzando la sua attenL’attrazione che le città del XIX zione sui «non luoghi», cioè quegli spazi secolo esercitavano su coloro che fugche non sono identitari, in cui milioni di persone si incrociano senza creare una relagivano dalle campagne e quella che zione: autostrade, centri commericali, mezesercitano oggi le grandi città del Nord zi di trasporto, ecc. Tra i suoi libri ricordiadel mondo sui migranti arrivati dal Sud mo Il senso degli altri (1994), Disneyland sono nate dalla stessa rappresentazione, e altri non luoghi (1999), Futuro (2012). il cui carattere largamente illusorio è evidente, ma per chi si interroga sull’ideale della vita urbana ai giorni nostri è essenziale prenderla in considerazione. La città non smette di espandersi. La maggioranza della popolazione mondiale vive in città e la tendenza è irreversibile. L’urbanizzazione del mondo trasforma la città, potremmo notare spingendoci un po’ oltre. Verso quale città quindi accorrono oggi i migranti? Il fenomeno dell’urbanizzazione generalizzata corrisponde più o meno a quello che chiamiamo globalizzazione per designare la diffusione generalizzata del mercato, l’interdipendenza economica e finanziaria, l’estensione delle reti di circolazione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronici. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che il mondo è come un’immensa città. Il “mondo città”, come ho proposto di chiamarlo, è caratterizzato dalla mobilità e dalla standardizzazione. Sotto un altro aspetto, le grandi metropoli si espandono e vi si trova ogni diversità (etnica, religiosa, sociale, economica), ma anche tutte le divisioni del mondo. Così si può opporre la “città mondo”, le sue divisioni, i suoi punti fermi e i suoi contrasti, al “mondo città”, che ne costituisce il contesto globale e che appone in maniera spettacolare il suo marchio estetico e funzionale su alcuni punti chiave del paesaggio urbano: grattacieli, aeroporti, centri commerciali o parchi di divertimento. Più la grande città si espande, più essa si “decentra”. I centri storici diventano musei visitati da turisti stranieri e luoghi di consumi di ogni genere, dove i prezzi sono elevati e i residenti sono sempre di più una popolazione agiata, spesso di origine straniera. L’attività produttiva e talvolta culturale si sposta extra muros (al di fuori delle mura, dei confini della città). I trasporti sono il problema principale dell’agglomerato urbano: le distanze tra l’abitazione e il luogo di Chi è Marc Augé 776 Marc Augé punti di vista lavoro sono spesso considerevoli. Il tessuto urbano si espande lungo le arterie di circolazione, i fiumi e le coste. In Europa le periferie urbane si costeggiano, si uniscono, si confondono, e può nascere la sensazione che, con la diffusione generalizzata dell’“urbano”, stiamo perdendo la città. Il decentramento delle città (le cui forze vitali si spostano extra muros), delle abitazioni (in cui il fulcro dell’intimità è collegato con l’esterno da televisione e Internet) e anche dell’individuo stesso (incessantemente portato all’esterno dai suoi strumenti elettronici), contribuiscono fortemente a questa conquista dello spazio che per molti paradossalmente si avvicina a una perdita di possesso. Come ritrovare la città perduta? Nel mondo globale la risposta si impone in termini di spazio: ripensare il locale. Malgrado le illusioni diffuse dalle tecnologie della comunicazione, dalla televisione a Internet, viviamo nel luogo in cui viviamo. L’ubiquità e l’istantaneità restano metafore. Rispetto ai mezzi di comunicazione, la cosa importante è prenderli per quello che sono: mezzi adatti a facilitare la vita, ma non a sostituirla. Da questo punto di vista, il compito da portare a termine è immenso. Si tratta di evitare che la sovrabbondanza di immagini e di messaggi conduca a nuove forme di isolamento. Per frenare questa deriva, già osservabile, le soluzioni saranno necessariamente spaziali, locali e, per dirla tutta, politiche nel senso ampio del termine. Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà del nonluogo? È da considerare l’idea di ripensare la città nel suo insieme e l’alloggio nei suoi dettagli? Una città non è un arcipelago, l’il- Le Corbusier, pseudonimo di Charles-Edoulusione creata da Le Corbusier di una ard Jeanneret-Gris (1887-1965), è stato vita centrata sull’alloggio e l’unità di un architetto e un urbanista francese. Pioabitazione collettiva ha portato ai ca- niere dell’architettura moderna, nel suo testo Verso una architettura (1923) enuncia sermoni a schiera delle nostre banlieues i cinque punti dell’architettura moderna: (le periferie dei grandi agglomerati ur- l’uso di piloni, di tetti-giardino, di finestre a bani francesi), abbandonati abbastanza nastro, la pianta libera e la facciata libera. in fretta dai negozi e dai servizi che Sua fu anche l’idea di progettare unità di dovevano renderli estremamente vivi- abitazione, la prima delle quali realizzata a Marsiglia tra il 1945 e il 1952, vere e bili. Vi è stata trascurata la necessità proprie città-edificio. della relazione sociale e del contatto con l’esterno; è proprio lì che puntano a modo loro i giovani delle banlieues, quando, ad esempio nell’agglomerato parigino, si spostano regolarmente dalle loro città satellite verso i quartieri che sono al tempo stesso il cuore della città storica e i simboli della società del consumo: gli Champs Élysées o il quartiere di Châtelet-Les Halles. Al centro della città 777 Nelle città reali, che cosa è in grado di evocare qualcosa di ciò che potremmo considerare come la città ideale? Mi vengono in mente due esempi. Certamente li idealizzo, ma è proprio di questo che si tratta: trovare delle tracce di ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città di media grandezza dell’Italia settentrionale, come Parma o Modena. Nel centro di queste città la vita è intensa, la pubblica piazza resta un luogo di incontro, si gira in bicicletta, si costeggiano con naturalezza i luoghi della storia. Il visitatore di passaggio ha la sensazione di poter scivolare nell’intimità di questo mondo piacevole senza farsi notare, di stabilire relazioni senza esserne costretto e di passare da una città all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, si obietterà, bisogna davvero avere gli occhi chiusi per ignorare tutto ciò che contrasta con questa visione da turista miope: la povertà, l’immigrazione, gli atteggiamenti di rifiuto, ecc. Ancora una volta, mi soffermo sull’ideale, che esige, in effetti, una sorta di miopia. Un altro esempio: la vita di quartiere a Parigi. Potrebbero essere citati ben altri esempi e si sa che nelle più grandi metropoli del mondo (Città del Messico, Chicago) sono molto attive alcune forme di vita sociale. La vita di quartiere è quella che si può osservare per strada, presso i commercianti, nei caffè. A Parigi, dove da diversi anni la vita è più difficile, è a livello micro che si vedono legami fragili resistere al disincanto: le conversazioni al bancone del bar, i convenevoli tra una persona anziana e la giovane cassiera del supermercato, i pettegolezzi dal droghiere tunisino: altrettante modeste forme di resistenza all’isolamento che sembrerebbero provare che l’esclusione, il ripiego su se stessi e il rifiuto dell’immaginazione non sono una fatalità. Che cosa concludere da questi indizi sparsi? Ogni programma d’insieme e ogni progetto dettagliato riguardanti la città dovrebbero associare vari tipi di riflessione: una riflessione da urbanista sulle frontiere e gli equilibri interni al corpo della città; una riflessione da architetto sulle continuità e le rotture di stile; una riflessione antropologica sull’abitazione odierna, che deve conciliare la necessità di aperture multiple verso l’esterno e il bisogno d’intimità privata. Si tratta di una vasta opera di “rammendo” (nel senso che una volta sarte e rammendatrici rammendavano i vestiti strappati e le calze smagliate). Si dovrebbe, nella misura del possibile, ritracciare frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Frontiere, vale a dire soglie, passaggi, porte ufficiali, per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implici778 Marc Augé punti di vista ta. Bisogna ridare la parola al paesaggio. Ci si potrebbe assegnare, a lungo termine, il compito di rimodellare un paesaggio urbano moderno, nel senso inteso da Charles Baudelaire, in cui gli stili e le epoche si mescolerebbero consapevolmente come le classi sociali. In Francia i Comuni e i quartieri delle città più grandi hanno l’obbligo di una certa percentuale di case popolari, ma, oltre al fatto che questo obbligo è spesso aggirato, accade sovente che lo stile adottato e i materiali utilizzati producano la stigmatizzazione di chi vi abita. Un ulteriore sforzo: l’ideale dovrebbe ritrovarsi nella disposizione interna degli appartamenti più modesti, dove dovrebbero combinarsi in piccola scala le tre dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, eventualmente il pubblico (all’occorrenza familiare) e la relazione con l’esterno. Così formulato, l’ideale è utopistico e non è chiaramente di sola competenza dell’architetto. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già presente. Torno per concludere all’immagine della sarta e della rammendatrice. Questa non è esclusiva dei grandi progetti che possono offrire bellezza a ogni sguardo, né del rimodellamento dei grandi paesaggi in cui ciascuno può perdersi e ritrovarsi. Vuole solamente ricordare che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto, e che, se non lo tengono almeno un po’ in considerazione, le più grandi imprese sono vane. Forse un giorno il pianeta si presenterà come un insieme urbano unico e compiuto. Noi oggi iniziamo a percepirlo così, dal momento in cui prestiamo attenzione alle opere di qualche grande nome dell’architettura che si fanno eco da un capo all’altro del pianeta o allo sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica che definiscono la «metacittà virtuale» di Paul Virilio. Bisogna sperare che quel giorno avremo trovato il mezzo per fornire a questo immenso mondo-città l’energia necessaria al suo funzionamento armonioso. Ma bisogna Filosofo e urbanista francese, Paul Virilio anche dirsi che è sull’organizzazione (nato nel 1932), esperto di nuove tecnolodelle relazioni tra gli esseri umani che gie, è noto in particolare per le sue opere sullo sviluppo della tecnologia in relazione si misurerà la riuscita o il fallimento di alla velocità e al potere. questa impresa, utopia realizzata o fine del mondo programmata, e quindi sulla nostra capacità di invertire il processo attuale di aumento delle differenze tra ricchi e poveri, tra colti e ignoranti. L’energia necessaria a questa impresa gigantesca, che è la sola che valga, è essenzialmente mentale e fa appello alle qualità fondamentali dell’individuo umano: intelligenza, volontà e immaginazione. La cultura è, ancora per molti, la stretta intimità che esisteva e si lascia ancora percepire, in piccola scala, tra una società, le sue opeAl centro della città 779 re e il suo paesaggio, ed essi faticano a immaginare, dal momento che la loro vita è ogni giorno più difficile, dove sarà il loro posto nel mondo planetario, sotto questo aspetto “postculturale”, che si eleva davanti a loro. L’ipotesi che si vorrebbe testare in questa sede è che l’antropologo può contribuire utilmente alla riflessione sul necessario ricentramento delle attività umane e degli individui, non per negare le nuove prospettive che si aprono all’umanità, ma per affrontarle senza nostalgia, perché esse sono sempre state all’orizzonte delle domande che le culture nella loro diversità o alcuni filosofi precursori hanno posto più o meno esplicitamente. Sarebbe dunque finalmente giunta l’ora di capire cosa succede sul “nostro” pianeta e di ricentrarsi sull’essenziale, la conoscenza, grazie agli inediti scompigli della nostra epoca. In un certo senso, gli sforzi di preservazione che oggi si compiono vanno in questa direzione: costituzione di un patrimonio dell’umanità, creazione di “parchi naturali”. Ma se non si accompagnano a uno sforzo deciso in campo educativo, rischiano di diluirsi in un mondo di immagini, una forma di consumismo come un’altra. Proprio quando possiamo vedere nel cambiamento di scala, a cui corrispondono i nuovi paesaggi che compaiono (compreso quello del pianeta in quanto tale) e che, in un certo senso, riassumono la storia dell’umanità, una fonte di domande, di inquietudini e di sogni mescolati. Ritorno all’architettura I nomi dei grandi architetti sono conosciuti nel mondo quasi quanto quelli dei grandi calciatori. L’architettura gode oggi di un statuto del tutto particolare. Si minaccia di ridurre di qualche metro il grattacielo che Jean Nouvel sta per costruire a Manhattan? La stampa si agita. Una grande azienda vinicola di Bordeaux vuole accrescere il prestigio dei suoi vini? Affida al costruttore della cattedrale di Evry, Mario Botta, il compito Jean Nouvel (1945), rinomato architetto di disegnare le sue nuove cantine. Un francese, ha realizzato progetti in tutto il nuovo museo apre le sue porte a Bilbao mondo, tra cui quello del museo del Quai Branly di Parigi, dedicato alle arti e civiltà o a Chicago? Le folle si precipitano per degli altri continenti. Insieme a Norman scoprirlo, attratte più dall’edificio che Foster gli è stata affidata la realizzazione da quello che contiene. Gli architetti di tre grattacieli nell’ambito del progetto di più in vista sono celebrati nel mondo ricostruzione di Ground Zero a Manhattan intero e alcune città di media impor(New York) coordinato da Daniel Libeskind. tanza cercano di ottenere che uno di Mario Botta (1943), è un architetto svizessi costruisca almeno una sua opera zero. Tra le sue realizzazioni ricordiamo, sul loro territorio per accedere alla diin Italia, la ristrutturazione del Teatro alla gnità planetaria e turistica. Scala di Milano (2002-2004). 780 Marc Augé punti di vista Ci si può interrogare sulle ragioni e sulle conseguenze di questa infatuazione. Si può notare in primo luogo che la grande architettura ha sempre espresso e ratificato i rapporti di potere nella società. L’architettura grandiosa delle downtown americane e dei quartieri degli affari europei oggi simbolizza nella maniera più diretta quale sia il potere delle imprese, proiettando verso il cielo diurno le loro torri avvolte nello scintillio delle pareti a specchio o verso il cielo notturno le trasparenze luminose dei loro uffici sempre illuminati. Le grandi imprese che si installano nei grattacieli più recenti lo fanno prima di tutto per la loro immagine. Immagine: questa parola magica e affascinante che riassume agli occhi di molti tutto ciò che è possibile conoscere del mondo in cui viviamo. Lo fanno anche per offrire buone condizioni di lavoro ai loro impiegati. Ma queste stesse condizioni si legano all’immagine. Gli spazi senza pareti divisorie (gli open space) sono meno spazi liberi in cui lo sguardo porta fino all’orizzonte attraverso immense vetrate, che spazi dove ciascuno è prigioniero dello sguardo altrui, anche perché lo spazio dell’impresa è rigorosamente gerarchizzato. Lo testimonia, a contrario, il fatto che i responsabili più importanti dispongono di uffici chiusi. Quanto ai musei, concepiti essi stessi come opere d’arte, tendono a relegare in secondo piano gli oggetti, le collezioni e le mostre che vi trovano spazio. I turisti si preoccupano davvero di ciò che vedranno all’interno del museo di Bilbao? Oggi il nuovo museo non è solamente l’abitacolo concepito per mettere in mostra oggetti artistici o storici, ma è il clou dell’esposizione. C’è stato in passato un dibattito tra etnologi e amanti dell’arte a proposito del Quai Branly di Nouvel: un altro dibattito implicito sul ruolo dell’architettura. Il modo in cui l’architetto del museo rispetta gli oggetti rischia di essere prima di tutto un modo di interpretarli. Ad esempio, immergere gli oggetti africani in una semioscurità significa meno valorizzare la loro dimensione estetica, che suggerire qualcosa di vago e ineffabile. Si è parlato talvolta di “cultura del progetto” a proposito degli architetti che si affrontano nei progetti finanziati dallo Stato, dagli enti locali o da investitori privati. Nel momento in cui si consultano i progetti di gruppi di lavoro concorrenti, ci si rende subito conto che, al di là degli argomenti tecnici che corrispondono in modo preciso ai disciplinari di incarico, questi tendono a sviluppare discorsi necessariamente eccessivi sul significato dell’edificio che intendono costruire. È inevitabile: immaginate che si chieda a romanzieri o saggisti di preparare essi stessi la critica del loro libro per ottenere Al centro della città 781 l’autorizzazione a scriverlo: che tesori d’eloquenza ostenterebbero! Gli architetti sono in questa situazione e non bisogna stupirsi che la metafora assilli pericolosamente i loro progetti. Le discussioni sull’adattamento al contesto sono davvero artificiali, nel momento in cui ogni contesto locale si vuole anche globale e la firma dell’architetto simboleggia questo cambiamento di scala. Locale o globale, alla fine il contesto non è che un pretesto per la metafora, una metafora senza un altro referente se non l’architettura stessa: «Fuck the context!» («Al diavolo il contesto!») ha esclamato l’architetto olandese Rem Koolhas. Di fatto, nel momento stesso in cui il mondo diventa un’immensa città, in cui la forma del pianeta cambia insieme a quella della città, il potere demiurgico dell’architetto è un segno dei tempi. Egli risponde all’ “ordinazione”, certamente, ma questa obbedienza costituisce tanto la sua forza quanto la sua debolezza. La sua retorica, poiché si ostenta in risposte che hanno come scopo quello di conquistare mercati, assomiglia spesso a un plagio dell’ideologia degli imprenditori, ma con questo essa stessa esprime la storia in cammino e ne è anche l’espressione più spettacolare e talvolta più sontuosa. Domandarsi dove vada la storia in cammino è chiaramente un’altra questione. La questione della casa riassume da sola i disagi e i problemi dell’epoca. Torniamo così all’inizio del nostro intervento: abbiamo visto apparire in Europa, e specialmente in Francia, la categoria dei senza fissa dimora, che supera quella dei disoccupati, dei “senza lavoro”, perché giustamente tra i senza fissa dimora ci sono persone che hanno un lavoro, ma un reddito insufficiente per trovare casa. Quanto a coloro che hanno un alloggio e un lavoro, devono adattarsi a una forma di crescita urbana che li condanna spesso a ore di trasporto quotidiano in una città che sembra aver abbandonato il senso dell’urbanistica. Quando da qualche parte si verifica una catastrofe naturale, si attivano unità di crisi per fornire un riparo provvisorio alle vittime. La maggior parte degli stranieri senza documenti in Europa, e molti degli stranieri in regola, sono alloggiati in condizioni deprecabili; in Francia si sono verificati incidenti in palazzi o edifici che non soddisfacevano le condizioni minime di sicurezza. Nel momento in cui scoppia un conflitto sul pianeta, la televisione ci mette sotto gli occhi le case in rovina, gli esodi di massa e i campi dei rifugiati. Vediamo bene, infine, che in tutte le grandi città del mondo la divisione tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri si mostra in termini geografici e architettonici. La discriminazione è prima di tutto economica e, in secondo luogo, sociale o 782 Marc Augé punti di vista anche etnica. Le bidonville che si era creduto di eliminare negli anni ’60 stanno risorgendo. La metafora della giungla compare nell’attualità senza che nessuno se ne preoccupi seriamente. D’altra parte, una foga di costruire si manifesta un po’ dappertutto, particolarmente nei Paesi emergenti: edifici giganteschi non smettono di sbucare dal suolo in Cina, ma l’architettura fatica a sostenere il ritmo sfrenato dell’urbanizzazione e della demografia, come evocano le immagini magnifiche e terrificanti del bel film di Gianni Amelio La stella che non c’ è. Ci si può anche interrogare sulla compatibilità tra la dismisura architettonica e la preoccupazione – che oggi si manifesta in modo ufficiale – di risparmiare energia. Basta frequentare gli edifici climatizzati delle grandi città americane, dove in ogni stagione regna un freddo polare, per nutrire qualche dubbio a questo riguardo. Anche se la preoccupazione ecologica è ufficialmente nel manifesto dei progetti architettonici, talvolta si ha la tentazione di chiedersi se non si tratti di una guerra già perduta. Possiamo anche avere la strana sensazione che l’architettura sia il mestiere umano che riguarda maggiormente i problemi del mondo, ma che questi la superino; che essa corra loro appresso senza essere mai in grado di dominarli, che i grandi architetti siano più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi importanti del pianeta (chi potrebbe rimproverare questa ambizione?) che di affrontare i problemi tecnici e sociali posti dall’urbanizzazione del mondo. Tuttavia sarebbero nella migliore posizione per valutare la posta in gioco nell’urbanistica contemporanea. Si potrebbe immaginare che essi rifiutino di essere condannati a presentare progetti di cui non sono che ideatori di seconda mano; che abbiano il loro discorso da fare e osino pronunciarlo; che si impadroniscano della parola; che i più celebri tra loro non si accontentino di fare l’esegesi delle proprie opere, ma che facciano proposte sull’abitare in città, sul modo di affrontare l’urgenza senza dimenticare il lungo periodo; in breve, che siano loquaci quanto un gran numero di intellettuali che su questi temi hanno più parole che esperienza. Più li si ammira, più ci si augura che gli architetti riescano ad affrancarsi dalla “cultura del progetto”, questa forma di pensiero “colpo su colpo” imposta dall’ideologia del consumismo, per ridiventare dei visionari del mondo. Traduzione dall’originale francese di Michele Ambrosini; neretti e riquadri a cura della Redazione. Al centro della città 783