Campana - Italiani, Francesi, Provenzali 1 Italiani, Francesi

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Campana - Italiani, Francesi, Provenzali
ANDREA CAMPANA
Italiani, Francesi, Provenzali
I modelli della letteratura italiana delle origini, tra Francia e Provenza
L
e prime letterature volgari degne di questo nome si affermarono tra XI e XII sec. nella Francia
continentale e mediterranea, imponendosi a livello europeo fino a tutto il XIII. L’Italia risentì
invece di un forte ritardo: il primo testo solitamente citato come punto d’avvio della produzione
nostrana, il Cantico di Frate Sole di san Francesco d’Assisi (ca. 1182-1226), risale solo al 1224-’26,
durante il biennio che precede la morte del santo, quindi a duecento anni più tardi. Le letterature
cui facciamo riferimento sono quella del nord-ovest della Francia, esprimentesi in langue d’oïl (o
“antico francese”, o “oitanico”), e quella della Provenza e dell’Aquitania, esprimentesi in langue
d’oc (o “provenzale”, o “occitanico”, o, ancora, “linguadoca”). La letteratura in oitanico si concentrò
soprattutto sull’epica e produsse una enorme quantità di chansons de geste, “canzoni di gesta”,
poemi narrativi cavallereschi che celebravano per lo più le imprese di Carlo Magno e dei suoi
Paladini, eroi nazionali del Regno di Francia, contro i Saraceni invasori nell’VIII sec. della penisola
iberica; la canzone di gesta più famosa rimane senza dubbio la Chanson de Roland, composta da
Anonimo tra la fine dell’XI e la prima metà del XII sec. Alla produzione di impegnativi poemi
epico-cavallereschi a sfondo nazionalistico, sempre nel nord-ovest della Francia si affiancò ben
presto (prima metà del XII sec.) anche una produzione di romans, “romanzi”, chiamati spesso
“cortesi”, di immensa ed immediata fortuna nel panorama della cultura tardo-medievale, ovvero
narrazioni poetiche di minor respiro, che seguivano l’aventure, “avventura” in antico francese, di
un cavaliere singolo o di un ristretto gruppo di cavalieri in cerca quasi sempre di un oggetto magico
o sacro, come il Santo Graal, oppure di una dama scomparsa, rapita o in pericolo, da salvare e
riportare alla propria corte. I romans attingevano a cicli narrativi dei più vari, sia classici (quelli di
Alessandro Magno, di Tebe, di Troia) sia leggendari (come il ciclo di Artù e i cavalieri della Tavola
Rotonda). Maestro indiscusso di romans fu un poeta cortigiano di Marie de Champagne, Chrétien
de Troyes, vissuto nella seconda metà del XII sec.
Ben diversa era la produzione in linguadoca, che si innestava su di una humus politica e
culturale con peculiarità tutte proprie rispetto a quella nord-francese: la Provenza e l’Aquitania (o
Francia meridionale) erano infatti divise in piccole corti indipendenti, assai diverse dai grandi feudi
del Regno di Francia; in tale arcipelago di corti, tra la seconda metà dell’XI e il principio del XIII
sec. si sviluppò una poesia prevalentemente lirica, di vario argomento (amoroso, comico, politico,
guerresco), praticata da poeti di altrattanto disparate estrazioni sociali, sebbene, di norma, membri
della nobiltà: questi poeti presero il nome di trobadours, dal verbo provenzale trobar analogo al
greco poiéin, che significava “comporre con parole”. Solo per un rapido regesto, possiamo citare fra
i trovatori almeno il primo in ordine cronologico, ossia il duca Guglielmo IX d’Aquitania (10711127), Bernart de Ventadorn (1130-ca. 1200), fautore del trobar leu, “poetare semplice”, Arnaut
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Daniel (n. 1150), fautore invece del trobar clus, “difficile, ermetico”, e Bertran de Born (vivo
nell’ultimo quarto del XII sec.), cantore militare. I romans e le liriche trobadoriche a differenza
delle chansons de geste proponevano al pubblico dell’epoca i valori feudali servendosi soprattutto
del tema amoroso come medium; il rapporto uomo-donna, in altre parole, veniva descritto da
romanzieri e trovatori alla stregua del rapporto vassallatico: la donna amata, che veniva detta di
preferenza domna (dal lat. domina, “signora e padrona”) o midons (da meus dominus, “mio
signore”, masch. per il femm.), rappresentava nel “gioco delle parti” erotico il feudatario al quale
l’amante-vassallo doveva porgere omaggio e sottomissione. Il principale teorico di questo tipo di
rapporto, per il quale il filologo romanzo Gaston Paris a fine ’800 coniò la definizione «amor
cortese», fu Andrea Cappellano (1150-1220), un religioso francese che nella seconda metà del XII
sec. ne fissò i canoni in un suo famoso trattato appunto De amore.
La ricezione italiana dell’«amor cortese»: i siciliani
Il ritardo accusato dalla letteratura italiana rispetto alle letterature in oitanico e occitanico terminò
attorno al terzo decennio del Duecento con san Francesco da un lato e la scuola siciliana dall’altro,
anche se la nostra letteratura visse ancora per lungo tempo all’ombra di quella francese e
provenzale, dalle quali mutuò temi e forme in abbondanza. La penetrazione sul nostro suolo della
poesia trobadorica fu consentita dall’immigrazione massiccia di trovatori sfuggiti alle sanguinose
guerre di religione scatenatesi in Provenza all’inizio del XIII sec.: quella regione era la roccaforte
dei catari (dal gr. katharói, “puri”, detti anche «Albigesi» dalla città che fu la loro principale sede,
Albi), una setta eretica che, fra gli altri suoi obiettivi, aveva quello di fondare una gerarchia
ecclesiastica indipendente da Roma; proprio a causa di queste sue tendenze separatiste, il
catarismo provenzale, che ovviamente coinvolgeva tutti gli strati della società fino alle vette del
potere signorile, fu perseguitato ufficialmente da papa Innocenzo III, col supporto dei baroni del
nord della Francia, nel corso di una vera e propria crociata effettuata in terra europea (anno 1209),
la quale determinò la fuga in massa di molti trovatori nella vicina Italia settentrionale: i fuggitivi
portarono con sé il loro bagaglio poetico e lo travasarono qui da noi. Un ruolo importante ebbe, in
quest’opera di passaggio d’informazioni letterarie, il trovatore Raimbaut de Vaqueiras (1165-1207),
attivo tra Liguria e Lunigiana a cavallo tra XII e XIII sec., che ci ha lasciato un primo esempio di
italiano letterario prima di san Francesco, impiegato nello specifico in funzione comico-parodica,
nel contrasto Domna, tant vos ai preiada (1190?), un componimento in versi nel quale dialogano a
turno, con accenti di bisticcio, il poeta stesso, che usa il provenzale, ed una popolana genovese, che
usa invece il proprio idioma: il protagonista vuole indurre la popolana a piegarsi alle sue profferte
amorose; ella gli si nega ripetutamente, per poi cedere nel finale.
A dimostrazione di quanto il modello occitanico fosse cogente per la nostra letteratura
originaria, occorre segnalare che vi furono anche casi di autentici “trovatori italiani”, cioè di poeti
di nazionalità italiana che scelsero deliberatamente di scrivere in provenzale. È il caso, ad esempio,
di Sordello da Goito (ca. 1200-1269), molto stimato da Dante, il quale gli assegnò una parte non
secondaria nel suo Purgatorio (canti VI-VIII): pur veneto di natali, questi soggiornò in Provenza
presso il signore Blacatz, cui si legò di profonda stima e cui dedicò un celebre planh, un “compianto
per morte”, Planher vuelh en Blacatz en acuest leugier so (“Voglio piangere Blacatz in questa mia
melodia lieve”): in Provenza Sordello assorbì la tradizione trobadorica e al suo rientro fu autore di
importanti sirventes, in italiano antico “sirventesi”, o anche “serventesi”, canzoni dal vigoroso
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accento politico-civile. Per quanto riguarda la tradizione in langue d’oïl, bisogna dire che essa era
penetrata già da molto tempo in Italia meridionale (la Chanson de Roland almeno dal XII sec.) per
il tramite della dominazione normanna in Sicilia: si annoveravano, addirittura, poemi cavallereschi
in langue d’oïl ambientati nel nostro Meridione, come la curiosa e anonima Chanson d’Aspremont
(ca. 1190), la quale aveva per sfondo la Calabria.
Non si può tacere, inoltre, che nell’Italia nord-orientale si formò prontamente una letteratura in
lingua ibrida franco-veneta, dedita per tutto il Due-Trecento soprattutto all’epica e assai
importante per gli sviluppi successivi del romanzo cavalleresco padano: presso gli Estensi, a
Ferrara, operava ad esempio già nel primo Trecento Niccolò da Verona, un poeta che scriveva, per
il pubblico della corte, una Prise de Pampalune, “Presa di Pamplona”, farcita di tutti i principali
tratti delle chansons de geste antico-francesi, la quale funse da apripista in un ambiente, come
quello ferrarese, molto sensibile alla poesia narrativa cavalleresca.
La nostra penisola era soggetta, per così dire, ad una tripartizione politica, con il Regno di
Sicilia al sud, lo Stato della chiesa al centro e i Comuni al centro-nord, spartiti fra le due ‘fazioni’
principali dei guelfi e dei ghibellini; ma anche, in conseguenza, ad una accentuata frantumazione
linguistica: una enorme varietà di idiomi coesisteva infatti nella compagine geografica dell’Italia di
allora, sprovvista dei sistemi linguistici coesi e stabili di altre nazioni europee: si pensi, oltre alla
Francia, a Spagna, Inghilterra e Germania. Fa fede di questa varietà la “carta dei dialetti”
approntata da Dante nel De vulgari eloquentia (I, 10), nella quale vengono distinte dal poeta, sul
suolo italiano, quindici parlate dominanti; partendo dal sud: siciliano, apulo centrale, apulo
orientale, sardo, romano, spoletino, anconetano, toscano, romagnolo, genovese, lombardo,
veneziano, trevisano, friulano, istriano.
Nel sud Italia, a partire dagli anni Trenta, si insediava sul trono di Palermo Federico II di Svevia
(1194-1250), imperatore germanico nonché erede del Regno di Sicilia (i cui termini arrivavano fino
alla Campania) per parte di sua madre Costanza d’Altavilla. Tale imperatore geniale e lungimirante
non solo ebbe la forza di ridimensionare assai con ripetute campagne militari il potere dei papi con
i quali ebbe a scontrarsi (prima Gregorio IX, poi Innocenzo IV), ma avviò pure una politica
culturale libera e disinibita d’impronta fortemente laica, che incentivava la scienza, la filosofia e la
letteratura, che si riconduceva a modelli francesi, provenzali ed anche tedeschi: molte traduzioni di
testi antico-francesi e trobadorici, oltre che di testi dei Minnesänger tedeschi – il corrispettivo dei
trovatori provenzali, così chiamati dal vocabolo Minne, “pensiero amoroso” –, cominciarono
proprio allora a circolare per volontà espressa di Federico. Allo scopo di creare una nuova scuola
poetica volgare di alto prestigio, egli radunò attorno a sé uno sceltissimo corpo di poeti, tutti
funzionari, amministratori e giureconsulti imperiali, i quali aderirono in toto ai modelli imposti
loro dal sovrano, e diedero vita al primo movimento poetico della nostra storia; essi scrivevano in
siciliano “illustre”, vale a dire decantato di tutti i suoi aspetti più localistici e plebei, ed arricchito
copiosamente di provenzalismi. Oggi purtroppo possediamo una sola poesia nella sua veste
originaria siciliana, la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro messinese, poiché i
codici che ci hanno tramandato i testi della scuola di Federico II (il più importante dei quali è il
Vaticano Latino 3793, siglato in questo modo perché appartenente alla Biblioteca Apostolica
Vaticana) furono tutti esiti di una “toscanizzazione” linguistica avvenuta per opera di copisti
dell’Italia centrale. I nomi dei poeti-funzionari della corte fredericiana sono noti: lo stesso Federico
II, suo figlio Re Enzo (1220-1272), il notaio Giacomo da Lentini (m. prima del 1250) ricordato da
Dante in Purg. XXIV 56, il giudice Guido delle Colonne di Messina (ca. 1210-ca. 1287), Rinaldo
d’Aquino, forse il più perfetto imitatore delle movenze liriche trobadoriche, e infine Giacomino
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Pugliese. I siciliani presero dai trovatori, oltre a tutte le principali forme metriche (ad es. la canzone
e la ballata: non il sonetto, che fu invenzione originale della scuola), anche tutti i principali
Leitmotive dell’«amor cortese»; essi misero inoltre a punto il verso-cardine della nostra letteratura
poetica, l’endecasillabo, un adattamento del décasyllabe francese e provenzale usato fin da subito
in alternanza con le sue sottomisure, il settenario e il quinario. Rispetto ai provenzali, però, i
siciliani abbandonarono – causa l’assolutismo imperiale – ogni tema politico.
I poeti pre-stilnovistici siculo-toscani
La scuola siciliana si disgregò con l’eclissarsi del suo ispiratore, Federico II, che morì esattamente a
metà del secolo (nel 1250), lasciando il Regno meridionale in preda ad una ennesima feroce guerra
contro il nuovo papa, Clemente IV, coalizzato col francese Carlo I d’Angiò. Il luogo del trapianto
della poesia sostenuta da Federico II nel suo ambizioso ma oramai tramontante progetto politico
divenne dunque l’Italia centrale. All’incirca tra il 1250 e il 1270 si ebbe infatti, in Toscana, quella
transcodificazione linguistica dei canzonieri siciliani della quale dicevamo sopra, in concomitanza
con la nascita di una nuova corrente di poeti che fece proprie le novità tecniche e contenutistiche
della scuola fredericiana, adattandole però al mutato contesto dell’Italia comunale: si ebbe prima di
tutto, da parte di tali poeti, un allargamento tematico che riportò in auge la materia politico-civile e
moralistica. La lingua dei rimatori comunali, al contrario di quella dei siciliani, che era stata
intonata programmaticamente su di un dialetto ‘illustre’ assai provenzalizzato, come poc’anzi
spiegavamo, non conobbe alcun principio unificatore: Guittone d’Arezzo (ca. 1235-1294), il capofila
di questi comunali, detti sovente “guittoniani” proprio in onore di tale riconosciuto maestro, ma
anche più genericamente “comunali” o “siculo-toscani”, si esprimeva nel proprio volgare aretino;
Bonagiunta Orbicciani, di Lucca (ca. 1220-1290), in quello lucchese; Chiaro Davanzati, di Firenze,
in quello fiorentino, e così via. Guittone, che apparteneva al partito dei guelfi, fu l’artefice più
convincente del gruppo siculo-toscano, che non si può affatto considerare alla stregua di una scuola
organizzata come quella siciliana. Egli fu artefice di dense rime civili composte secondo il gusto del
trobar clus di arnautiana memoria: un modello del genere “canzone civile”, dal valore a dir poco
fondativo in Italia, fu senza dubbio la sua Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, amara riflessione
sulla disfatta guelfa di Montaperti avvenuta nel 1260. Guittone contribuì a rinsaldare anche la
prosa italiana delle origini, con raffinatissime Lettere, altro antecedente di non poco conto per gli
scrittori successivi. Lo stile guittoniano – ma quanto qui osservato poteva valere anche per gli altri
poeti municipali coevi – si presentava sovraccarico, difficile, ai limiti dell’astrusità e del gratuito
scherzo verbale; il suo linguaggio era artificioso in modo perfino ostentato e virtuosistico: irto
com’era di plebeismi e idiotismi, esso si risolveva in un misto lessicale alto-basso non trascurabile
nemmeno per il Dante “infernale”, sebbene nella lirica italiana di fine Duecento una “svolta”
rispetto alla maniera guittoniana fosse stata compiuta proprio da Dante e da quei poeti che egli
ricomprese, con piena consapevolezza, sotto la denominazione di «dolce stil novo» per distinguerli
dagli immediati predecessori (sullo Stilnovo si veda però il cap. xxx di Giuseppe Ledda).
Negli stessi anni e negli stessi luoghi in cui operarono Guittone, Bonagiunta e Chiaro, si
manifestò anche una poesia di genere “comico” già pienamente consapevole di sé, il cui maggior
esponente si rivelò essere un altro fiorentino, Rustico Filippi (ca. 1230-1300). Un precedente di
poesia comica in volgare italiano, di assai problematica valutazione, era stato negli anni
immediatamente precedenti Rustico il contrasto Rosa fresca aulentissima, attribuibile a tal Cielo
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d’Alcamo (in area siciliana, quindi), che metteva in scena con intento parodico l’amor cortese della
lirica aulica. La tradizione comica toscana conobbe poi, nell’ultimo quarto del XIII sec., un
interprete di primo spessore quale il controverso Cecco Angiolieri (m. 1311/1313), senese,
scambiato da qualche critico moderno – ma a torto – per un maudit avanti la lettera per via degli
accenti caustici da lui profusi contro i valori sociali più consolidati (la famiglia, il matrimonio, la
religione, ecc.) e dei toni malinconici spesso esibiti dalla sua poesia: «malinconia» era però
propriamente, per Cecco, una continua insoddisfazione originata da una mai sazia brama di
eccesso e di consumo dei piaceri, e il “maledettismo” un semplice divertissement letterario legato
alla prassi del registro comico. L’Angiolieri, nei suoi sonetti, oltre a glorificare il denaro, il gioco
d’azzardo e la crapula (ad es. nel sonetto Tre cose solamente m’ènno in grado), dichiara al mondo
il suo odio feroce per il padre, alla morte del quale si rallegra ingiuriosamente, e si scaglia contro le
pose più manierate dello stilnovismo, ribaltandone l’ideale femminino nella ambigua figura di
Becchina, palese “doppio” parodico della Beatrice dantesca o di altre donne-angelo consimili,
dotata dal poeta, in Sed i’ avess’un sacco di fiorini, della capacità “miracolosa” di far tornare
«garzone» (“giovincello”) «chi la sguarda ’n viso / sed egli è vecchio» (vv. 13-14), ovvero – fuori dal
doppiosenso osceno – di restituire con lo sguardo, ad ogni anziano, la propria virilità sessuale.
La poesia e la prosa d’argomento sacro
Sempre nel Duecento si verificò in Italia il consolidamento di una letteratura sacra, da ricondursi
soprattutto al profondo fermento religioso che attraversò la penisola, da sud a nord, lungo tutto
l’arco del secolo. Molti furono i movimenti spirituali che si affermarono: alcuni di essi, sconfinanti
spess, nell’eresia, incassarono gli attacchi dell’Inquisizione cattolica, il cui famigerato Tribunale
venne aperto da Innocenzo III nel 1233; altri invece ottennero appoggio e sostegno da parte delle
autorità ecclesiastiche. Il Duecento è, in maniera particolare, il secolo in cui si affermano i due
ordini mendicanti dei Domenicani (dal nome di san Domenico di Guzmán, ca. 1170-1221, loro
fondatore) e dei Francescani. I primi, concentrati specialmente sulla predicazione e dottissimi in
fatto di teologia, divennero in pochi decenni i difensori ufficiali dell’ortodossia cattolica; i secondi,
detti anche Frati minori, propendettero invece in misura maggiore per la prassi, spesso in servizio
dei poveri e dei malati, mescolandosi insomma tra la gente comune, nei luoghi della più umile
quotidianità. Proprio il fondatore dei Frati minori, san Francesco, ci ha lasciato quel Cantico di
Frate Sole in lode della divina Creazione, conosciuto anche come Laudes creaturarum, che
abbiamo detto essere il primo vero testo dotato di un’alta ispirazione letteraria (e pervenutoci
completo) della nostra tradizione. Con il suo Cantico, dove quasi ogni strofetta iniziava con
l’anafora «Laudato si’, mi’ Signore…», il santo intendeva suggerire ai confratelli e alla civiltà
cristiana nel suo complesso una nuova forma di spiritualità e di preghiera, la “lauda” (dal lat. laus, dis; perciò al plur. “laude”, da laudes), un inno di lode e ringraziamento gratuito, rivolto a Dio o a
qualche santo o personaggio biblico (ma con più frequenza a Cristo e alla Madonna).
La lauda si impose presto specie nell’Italia centrale, fra Toscana e Umbria, in concomitanza con
l’istituzione di numerose confraternite di “laudesi”, gruppi di devoti laici o ecclesiastici che si
ritrovavano ad intonare canti devozionali, trascritti solo in un secondo momento su “laudari”,
passando così dall’oralità alla pagina. L’unico laudario collettivo duecentesco superstite fino a noi è
quello cortonese, anteriore al 1270: tutti gli altri risalgono ai secc. XIV-XV. Un laudario fra tutti,
però, spiccava nel Duecento italiano per originalità e autonomia espressive: quello di Jacopone da
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Todi (ca. 1230/1236-1306), un frate francescano convertitosi, secondo una leggenda vulgata dopo
la tragica morte della moglie, all’ala più intransigente del francescanesimo, quella degli “spirituali”,
in polemica, appena dopo la scomparsa dell’assisiate, estensore della Regula alla base dell’ordine,
coi francescani moderati, i “conventuali”. Il laudario jacoponico era un catalogo di tutti i motivi
ricorrenti della polemica spirituale ed aveva perciò un immenso valore storico, oltre che artistico.
Jacopone estremizzava a tal punto la ricerca francescana di povertà e umiliazione di sé davanti a
Dio da rovesciare completamente i connotati della religiosità gioiosa e vitalistica, aperta al mondo e
alla speranza, promossa in origine da san Francesco, che amava definire se stesso ioculator
Domini, “giullare del Signore”: nelle sue laude, invece, Jacopone bollava tutto quanto appartiene
alla sfera del mondano come negativo e corrotto, pertanto da rigettare con il più aspro rifiuto e con
la più rigida ascesi. I rapporti umani, prodotto anch’essi del mondo e delle sue convenienze,
apparivano a Jacopone viziati sin nelle fondamenta e dominati dalla falsità e dalla sopraffazione
reciproca: la vita, per questo singolarissimo laudista, era «penosa» e «continua bataglia», come
recitava l’incipit di una delle sue poesie più rappresentative. Ciò che più l’uomo cristiano doveva
anelare era il dolore, in quanto strumento di mortificazione e purificazione della carne: ecco allora
che, in un altro testo rimasto famoso (O Segnor, per cortesia), Jacopone pregava Dio affinché gli
inviasse i più crudi malanni. Lo stesso amore verso il divino era per lui tutt’altro che “giocondo”:
era un’esperienza segnata dalla «desmesuranza», da un eccesso psichico che provocava nel
soggetto addirittura l’impazzimento e la farneticazione, la glossolalia (come appariva in O iubelo
del core). Un’ampia parte del laudario di Jacopone era inoltre occupata da testi che contenevano
dure rampogne contro la Chiesa di fine Duecento-inizio Trecento, soprattutto contro le detestate
persone di papa Bonifacio VIII (si legga almeno, a tal proposito, la sconcertante lauda O papa
Bonifazio, molt’hai iocato al monno) e di Pier da Morrone, un eremita che Jacopone rimproverava,
all’opposto di quanto avrebbe in seguito fatto Dante nel canto III dell’Inferno, di aver accettato
l’elezione al soglio pontificio col nome di Celestino V (si veda la sua Que farai, Pier da Morrone?).
Ma Jacopone da Todi fu anche un notevole sperimentatore: in campo linguistico, come
sostenne Gianfranco Contini, avvalendosi del suo dialetto nativo e munendolo di una robusta
carica deformante egli procurò alla nostra tradizione un primo ma già assai maturo esempio di
espressionismo; in campo metrico, inventò forme affatto nuove, quali la “lauda drammatica”, agita
cioè da attori dialoganti e precorritrice della sacra rappresentazione tre-quattrocentesca: di questa
singolare forma offrì uno splendido prototipo con Donna de Paradiso, dove il frate-poeta metteva
in scena, in uno scambio concitato e straziante di battute tra Maria Vergine e altri figuranti
evangelici, gli ultimi momenti della Passione di Gesù.
La prosa d’argomento profano
Anche la prosa profana del Duecento in lingua volgare si nutrì fin da subito, e in modo vorace,
come la poesia lirica, dei repertori dalla terra francese. Possiamo dire che i principali capolavori
prosastici del Duecento in Italia furono intrinsecamente legati, soprattutto, alla lingua ed alla
letteratura in oitanico. La langue d’oïl era infatti uno strumento comunicativo talmente prestigioso
nel XIII sec. che gli scrittori i quali desideravano imporsi ad un pubblico più vasto di quello
municipale dovevano giocoforza servirsene. Brunetto Latini (ca. 1220-1294), intellettuale
fiorentino di grande rilievo, notaio per professione al servizio del Comune, maestro di retorica e
partigiano guelfo, quando tra il 1260 e il 1266 dopo la rotta di Montaperti fu costretto dai
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maggiorenti ghibellini all’esilio in Francia, ebbe l’intenzione di affacciarsi alla comunità scientifica
internazionale con un’enciclopedia che contenesse tutto lo scibile dell’epoca (dalla teologia alla
storia naturale all’etica), un’impresa mai tentata prima, si servì proprio dell’antico francese: stiamo
parlando dei tre libri in prosa del Tresor o Livres dou tresor, dove il vocabolo “tesoro” ha il
significato precipuo di “patrimonio di informazioni, di notizie”. Brunetto doveva tenere moltissimo
a tale opera, se il suo discepolo più illustre Dante, che ne conosceva verosimilmente bene le
opinioni, nel canto XV dell’Inferno gli fece dire: «sieti raccomandato il mio Tesoro / nel qual io
vivo ancora, e più non chieggio» (vv. 119-120). Sempre durante l’esilio francese cominciò, senza
portarla a termine, la traduzione in volgare toscano, con ampio commento, del De inventione di
Cicerone, libro ritenuto dal Latini imprescindibile per una conveniente formazione civile del
letterato: la incompiuta traduzione (che si diffuse col titolo di Rettorica), interrotta al capitolo XVII
24 del De inventione, avrebbe dovuto comprendere, negli auspici dell’autore, anche la Rhetorica ad
Herennium, che egli credeva trattato ciceroniano quanto l’altro. Brunetto Latini dimostrò con
questo lavoro di considerare inseparabile la prassi intellettuale da quella politica e di individuare
nella ars oratoria l’anello di giunzione tra le due. Meno certo, seppure assai probabile, che anche il
Tesoretto appartenga agli anni d’esilio: incompiuto (ne rimangono 2944 vv., tutti settenati a rima
baciata, suddivisi in ventidue canti), esso doveva corrispondere ad un progetto altrettanto
ambizioso rispetto al Tresor, cioè racchiudere in compendio tutto il sapere umano in un unico
poema allegorico-morale, racconto di alcune “visioni” incontrate dal poeta stesso nella Francia
meridionale, in linea con una solida tradizione mediolatina rappresentata tra gli altri da Bernardo
Silvestre o Alano di Lilla, entrambi del XII sec., alla quale fu sensibile anche Dante nella ideazione
della Commedia.
Un altro caso estremamente significativo dell’influsso della letteratura antica francese sulla
nostra era dato dal Milione del veneziano Marco Polo (1254-1324), dettato durante una
permanenza in carcere collocabile tra il 1295 e il 1299 a Rustichello da Pisa, che lo trascrisse in
langue d’oïl e vi appose il titolo Le divisament du monde, “La descrizione del mondo”, assai più
fedele di quello diffusosi in seguito (che faceva riferimento al soprannome usato per i Polo,
«Emilione») alle intenzioni divulgative originarie del resoconto: la redazione originaria finì però
perduta e si conobbe solo per via indiretta, tuttavia dimostrava chiaramente che Marco e
Rustichello, accingendosi alla stesura, dovettero convenire che il francese antico, infinitamente più
diffuso dell’italiano – il quale stricto sensu neppure esisteva –, sarebbe stato più atto a far
conoscere agli Europei le meraviglie dei viaggi compiuti dal veneziano nell’Estremo Oriente, una
porzione dell’orbe terracquo allora misconosciuta.
Per concludere, anche nel Novellino, una raccolta di cento brevi apologhi in volgare fiorentino
anonima, assegnabile circa alla fine del XIII sec., si deve riscontrare l’ascendente decisivo della
letteratura in antico francese: la raccolta, infatti, editata per la prima volta molto tardi, per
l’esattezza nel 1525, per interessamento di monsignor Giovanni Della Casa, dal quale trasse
l’intitolazione in diminutivo (nella versione manoscritta circolava invece al suo tempo col titolo
Libro di novelle e di bel parlar gentile), oltre a trattare temi cortesi tipici (l’amore, la cavalleria,
ecc.), doveva molto alle collezioni di fabliaux, brevi racconti in versi, diffusi tra XII e XIII sec. in
Francia, molto licenziosi e incentrati su motti di spirito e situazioni comiche del più svariato
genere.
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Bibliografia:
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Anonimo, Il novellino, a cura di V. Mouchet, Rizzoli («BUR - Classici»), Milano 2008.
I poeti della scuola siciliana, edizione promossa dal Centro di studi filologici e linguistici
siciliani, 3 tomi (I. Giacomo da Lentini, edizione critica con commento a cura di Roberto Antonelli;
II. Poeti della corte di Federico II, edizione critica con commento diretta da Costanzo Di Girolamo;
III. Poeti siculo-toscani, edizione critica con commento diretta da Rosario Coluccia), Mondadori
(«Meridiani»), Milano 2008.
M. Polo, Milione, a cura di E. Mazzali, Garzanti («Grandi libri»), Milano 2009.
M. Berisso (a cura di), Poesia comica del Medioevo italiano, Rizzoli («BUR - Classici»), Milano,
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E. Malato (diretta da), Storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini a Dante (solo la sez.
I. Problemi delle origini: con contributi di Girolamo Arnaldi e Federico Marazzi, Claudio Leonardi,
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contributi di Andrea Fassò, Furio Brugnolo, Lino Leonardi e Francesco Santi, Corrado Bologna,
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