ambrogio sparagna orchestra popolare italiana

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e culture
nelnelmondo
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e culture
mondo
GRATUITO
inverno 2009
06
www.mondomix.com
AMBROGIO SPARAGNA
ORCHESTRA POPOLARE ITALIANA
ALI FARKA TOURE • ELENA LEDDA • SQUILIBRI • BRASILE IN MUSICA
Sommario
Mondomix Italia — n°6 inverno 2009
04 Editoriale
06 Attualità
08 Ricordiamoli
15 / 31 Musica
10 Peppe Barra
11 Elena Ledda
12 Gattamolesta
14 Mamadou Barry
32 / 39
Nuovi arrivi
In primo piano
15 Brasile
18 Chitarre africane
21 15 anni di Talking Timbuctu
22 Suoni dal deserto asiatico
26 Taranta d’amore
28 Squilibri editore
360°
32 In marcia con Andrea
34 Grammy Italiani
35 Fez, musiche sacre d’oggi
38 Etiopia, 1000 stelle nel cielo
40 / 50 Recensioni
40 Africa
42 Europa
45 Asia
46 Americhe
48 Etno Jazz
59 Colonne sonore
50 Global sound
Periodico gratuito
Editore FM2
Direttore responsabile Luca Rastello
Redazione Elisabetta Sermenghi, Renzo Pognant, David Valderrama, Luca Vergano
[email protected]
Hanno collaborato Akenataa Hammagaadji, Antonello Lamanna, Benjamin MiNiMuM,
Bruno Tecci, Ciro De Rosa, Eddy Cilia, Emanuele Enria, Enrico Verra, Felice Liperi,
Gian Franco Grilli, Giovanni De Zorzi, Giulio Cancelliere, Guido Gaito, Luca Morino,
Luca Vitali, Mauro Zanda, Max De Tomassi, Paolo Ferrari, Patrick Labesse, Piercarlo
Poggio, Renata Tomassella, Saba Anglana
Pubblicità [email protected]
Impaginazione Chiara Tappero / Volumina [email protected]
Redazione Via Martiri della Libertà 19, 10131 Torino
Stampa Ages Arti Grafiche Corso Traiano 124, 10127 Torino
11
Elena Ledda
14
Mamadou Barry
38
Etiopia
40
BassekouKouyate
43
Varttina
Registrazione al tribunale di Torino n° 49 del 9 luglio 2008 (periodico culturale)
Il logo e il marchio Mondomix sono registrati e di esclusiva proprietà di Mondomix Media SAS. Il
logo e il marchio Mondomix in Italia sono licenziati in esclusiva a FM2.
Solo Mondomix Media SAS e i suoi licenziatari possono utilizzare il logo Mondomix in pubblicazioni,
pubblicità e materiali promozionali.
44
Jim Moray & Jackie Oates
4 Mondomix.com
Editoriale
Molti significativi cambiamenti sono avvenuti durante l'estate nella redazione dell'edizione italiana di Mondomix.
Federico Scoppio e Andrea Scaccia che avevano curato i primi cinque numeri della rivista hanno scelto di continuare le
loro attività in altri ambiti musicali. Li ringraziamo per tutto quello che hanno fatto perchè Mondomix avesse una propria
identità ed auguriamo loro il meglio.
Luca Rastello, scrittore (e giornalista) è il nostro nuovo direttore. Lo ringraziamo per aver voluto accompagnarci in
questa nostra avventura. Le sue conoscenze ed esperienze nel campo della politica internazionale non potranno che
essere una preziosa guida nel nostro cammino.
Il giornale nel futuro sarà coordinato da una redazione collettiva.
Un altro importante cambiamento non sarà sfuggito ai nostri affezionati lettori. Le pagine sono quasi raddoppiate
passando da 36 a 52. In questo tempo di crisi abbiamo cercato di dare un segnale di fiducia nella rapida ripresa del
nostro settore di attività. In un momento in cui molti nostri colleghi sono costretti a ridurre gli impegni questo aumento
di pagine e contenuti ci è sembrato un segno concreto e tangibile.
Abbiamo anche modificato l'impostazione del giornale e i nostri cugini francesi ci fungono da maestri in questo senso.
Il giornale è suddiviso in sezioni omogenee, più facilmente consultabili e si arricchisce di nuove rubriche. Speriamo così
di renderlo più scorrevole ed accessibile.
Ringraziamo ancora una volta tutti coloro che ci hanno sostenuto fino ad oggi. In primo luogo i nostri inserzionisti che
ci permettono di andare in stampa ancora una volta. In un giornale gratuito sono loro a fornire in toto i mezzi necessari
per trasformare un'idea in fatto concreto. In secondo luogo ringraziamo tutti i lettori che ci hanno seguito fino ad
oggi sperando che vogliano continuare a farlo. Infine tutti i collaboratori che malgrado i cambiamenti, a tratti anche
repentini, continuano ad essere al nostro fianco. E naturalmente last but not least gli artisti che con la loro musica
danno un significato al nostro lavoro.
Tra le tante novità avrete già potuto notare che, in questo numero, compare in copertina un musicista italiano. E' la
nostra prima volta. Abbiamo scelto Ambrogio Sparagna e la sua Orchestra Popolare Italiana. Ambrogio è da qualche
decennio uno degli alfieri della tradizione musicale popolare che ha fatto conoscere e diffuso sia in Italia che all'estero.
La sua presenza al Womex (Esposizione Mondiale della Musica World), a Copenhagen, dove ha ottenuto positivi
consensi ne è un'ulteriore conferma.
Per tutte le altre novità vi rimandiamo alla vostra esplorazione di questo numero sperando vogliate perdonarci per gli
eventuali errori. In fondo siamo giovani...
La redazione
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06 Inverno 2009
5 Mondomix.com
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Attualità
Il cantu in paghjella corso, il radif iraniano, il tango
dell’Uruguay ed Argentina, la maloya delle Reunion, il
canto ca trù vietnamita, l’arte degli Ašik azeri o la musica
Hua’er della Cina settentrionale fanno parte delle 88
tradizioni artistiche, artigianali o rituali inserite dall’Unesco
nella lista del Patrimonio Immateriale dell’umanità.
Questa agevola la ricerca di mezzi materiali e finanziari
per la loro conservazione, insegnamento e divulgazione.
online
http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?pg=home
Mentre andiamo in stampa ci arriva la triste
notizia della morte di Claude Lévi-Strauss
all’età di 101 anni (li avrebbe compiuti alla fine
di novembre). Benché non si sia occupato in
modo specifico di musica se questa nostra
rivista esiste, se esiste gran parte della
musica meticcia che ascoltiamo ogni giorno
lo dobbiamo anche a lui, che ci ha fatto capire
la grandezza e complessità delle culture extra-europee, fino a
pochi decenni fa considerate alla stregua di residui di epoche
preistoriche e prive di valore. Sono stati studiosi come LéviStrauss a farci prendere coscienza delle diversità dei saperi
del mondo, della loro bellezza ed affascinante mistero. Un
grazie per averci aperto gli occhi.
coreografo Bii T Jones. Le musiche di scena sono arrangiate
da Aaron Johnson del gruppo di Afro Beat Aitibalas.
Il nuovo CD di Shantel – Planet Paprika
(Crammed Disc / Materiali Sonori) ha
esordito in modo lusinghiero piazzandosi
in buona posizione nelle classifiche di
vendita generali di alcuni paesi europei:
Posizione 1 nelle World Music Charts francesi
Posizione 55 in Austria
Posizione 87 in Belgio
Posizione 71 in Germania
Posizione 74 in Svizzera
Posizione 134 in Olanda
Non ci resta che sperare che lo stesso accada anche nel
nostro paese. Il CD sicuramente lo merita.
Artisti africani come altri in diverse parti del mondo
continuano ad essere vittime di censure per ragioni morali
o ideologiche. Il Giudice Supremo della regione di Kano,
in Nigeria, ha proibito 11 canzoni che ritiene abbiamo
il potere di corrompere la morale pubblica. E’ proibita
la vendita, l’esecuzione e lo scaricamento di digitale di
queste canzoni. Non è chiaro se è anche vietato l’ascolto
in casa ed il fischiettarle durante la doccia.
In Somalia, gli Al-Shabaab, fondamentalisti che
controllano il sud del paese, per paura di sbagliare, hanno
fatto che proibire la musica tout cour. Chi trasgredisce è
passibile di pena di morte. Sempre loro hanno introdotto la
fustigazione per le donne che indossano il reggiseno.
Staff Benda Bilili
Il premio istituito recentemente dalla prestigiosa rivista
inglese Songlines per l’artista più significativo dell’anno
è andato al gruppo congolese degli Staff Benda Bilili
(Crammed Disc – Materiali Sonori). Il premio è stato
consegnato al gruppo durante il recente Womex tenutosi
a Copenhagen.
Nella stessa occasione il premio per l’Eccellenza
Professionale (Professional Excellence) del Womex è stato
assegnato a Christian Mousset a cui si deve la fondazione
di importanti festival musicali in Francia, nonché la nascita
dell’etichetta Label Bleu, che ha tra gli altri lanciato
la cantante Rokia Traoré, e Marabi. Mai premio fu più
giustamente assegnato e ci complimentiamo con Christian
per i successi fin qui ottenuti.
Fela Anikulapo Kuti
La vita e la musica del musicista
ed
icona
nigeriana
Fela
Anikulapo Kuti è diventato
un musical - Fela! - che sarà
presentato al Eugene O’Neill
Theater di Broadway, NY, fino
all’aprile 2010. Il protagonista
è portato sulla scena da Sahr
Ngaujah sotto la direzione del
Omara Portuondo
Per un divieto che entra in vigore
un divieto che cade. Una buona
notizia arriva da Cuba. Le autorità
americane hanno concesso il visto
di ingresso ad Omara Portuondo
che potrà così esibirsi negli Stati
Uniti. é la prima negli ultimi sei anni
che questo visto viene concesso ad
un artista cubano. Grazie ai buoni
uffici dell’Amministrazione Obama
alcuni delle più grossolane e stupide
iniziative dell’Amministrazione Bush
cominciano a cadere.
Tony Gatlif, regista
che da anni si batte
per il riconoscimento
dei diritti dei gitani, ha
terminato il suo nuovo
film, Liberté, la cui
uscita è prevista per
la primavera 2010.
E’ in uscita Africa Rising di Paula Heredia, documentario di
60 minuti incentrato sull’attività delle donne che in cinque
stati africani lottano per sradicare la pratica della mutilazione
genitale femminile. Il film racconta la grande e faticosa lotta
che queste donne stanno combattendo con la speranza che
il movimento guadagni terreno ogni giorno di più.
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06 Inverno 2009
Ricordiamoli
8 Mondomix.com
Ali Akbar Khan
Per tutti noi, come famiglia, la musica è come il
cibo. Quando tu ne hai bisogno non devi spiegare
il perchè, è essenziale per la vita.
Ustad Ali Akbar Khan
Ustad Ali Akbar Khansahib è morto nella sua casa
di San Anselmo, California dopo una lunga malattia
renale lo scorso 19 giugno 2009. Considerato uno dei
più grandi musicisti classici dell’India del Nord, Ustad
Ali Akbar Khansahib è stato riconosciuto come Living
National Treasure (Tesoro Nazionale Vivente) in India, con
ammiratori sia fra musicisti orientali che occidentali per le
sue brillanti composizioni e l’abilità nel suonare il sarod.
Nato nel Bengala
Orientale nel 1922
(attuale Bangladesh),
figlio di Acharya
Allauddin Khansaheb
grandissimo
musiciata e maestro,
Ali Akbar Khansahib
iniziò i suoi studi
musicali all’età di tre
anni. Ha studiato canto
con suo padre e suo
zio, Fakir Aftabuddin.
Acharya Allauddin Khansaheb e sua figlia
Annapurna Devi
Suo padre lo iniziò
anche alla musica strumentale introducendolo a molti
strumenti fra i quali decise di scegliere il sarod. Per oltre
vent’anni ha studiato e praticato lo strumento per 18
ore al giorno.
Ali Akbar Khan visitò gli Stati Uniti la prima volta nel 1955,
su invito di Lord Yehudi Menuhin e si esibì in un concerto
eccezionale al Museum of Modern Art di New York. In
tale occasione incise il primo LP di Musica Classica
Indiana in occidente. Partecipò anche a trasmissioni
televisive, gettando le basi per quell’ondata di popolarità
che questa musica avrebbe avuto nei successivi anni 60.
Durante quel decennio, e nei seguenti, si esibì spesso
con Pandit Ravi Shankar e Ustad Alla Rakkha suonando
fra gli altri al Festival di Monterey.
Nel 1956 Khansahib fondò il Ali Akbar College of Music
a Calcutta, India e nel 1965 iniziò ad insegnare anche in
America. Nel 1967 fondò il Ali Akbar College of Music a
Berkeley (USA) stabilendosi definivamente nella Marin
County l’anno seguente.
Khansahib ha composto e registrato musica per film
durante tutta la sua carriera. Ancora in India iniziò a
comporre per il cinema, scrivendo per il film Aandhiyan
di Chetan Anand (1953), per continuare con la musica
di House Holder (1963) il primo film firmato dalla coppia
Ivory / Merchant, Khudita Pashan (1960) con cui vinse il
premio di Musicista dell’Anno, Devi di Satyajit Ray, ed in
America Little Buddha (Il Piccolo Buddha) di Bernardo
Bertolucci. Nel 1997 Khansahib fu il secondo indiano a
ricevere il premio Asian Paints Shiromani Award - Hall
of Fame, dopo il regista Satyajit Ray. Ustad Ali Akbar
Khan ha anche ricevuto il prestigioso National Heritage
Fellowship dal National Endowment for the Arts (USA),
premio consegnatogli alla Casa Bianca personalmente
dalla moglie dell’allora presidente americano, Mrs.
Hillary Clinton.
In India Khansahib ha ricevuto le più alte onorificenze
civili Padma Vibhushan e Padma Bhushan per il suo
contributo alla Musica Classica indiana.
Online www.ammp.com
Alcuni suoi CD
Peerless - Navras
Ragas con Ravi Shankar - Fantasy
Legacy con Asha Bhosle - Alamp Madina
Può qualcuno adorare l’Onnipotente senza la musica?
Acharya Allauddin Khansaheb
Gangubai Hangal
Due delle più importanti voci femminili
della musica classica indiana si sono
spente la scorsa estate.
Gangubai Hangal nata nella casta suddha (la più bassa
del sistema castale Hindù) ha speso la sua vita lottando
per superare i pregiudizi del suo tempo fino a diventare
una delle più importanti esponenti della Kirana Gharana
(scuola) e lasciandoci un’eredità che supera i puri aspetti
artistici.
DK Pattammal
A Chennai si è spenta Damal
Krishnaswamy Pattammal all’età di 90
anni. Insieme a MS Subbhulakshmi e ML
Vasanthakumari ha formato la famosa Trinità di Madras che
ha regnato sulla musica vocale carnatica al femminile per
oltre 50 anni. Nata da una famgilia di Brahmini DK ha dovuto
lottare duramente per avere il permesso dalla famiglia ad
esibirsi in pubblico, cosa ritenuta non onorevole per una
donna di casta elevata. La sua splendida voce e tenacia
hanno avuto ragione di questi pregiudizi permettendole di
esibirsi in varie parti del mondo.
06 Inverno 2009
Ricordiamoli
9 Mondomix.com
Mercedes Sosa
La Negra argentina
Gracias, Mercedes, “que nos ha dado tanto”!
di Bruno Tecci
Così termina il messaggio inviato dal Presidente brasiliano
Lula da Silva, per mano del suo Ministro della Cultura, il
giorno dei funerali della Sosa; il cinque ottobre scorso
a Buenos Aires. Funerali ai quali partecipano migliaia di
persone, decine di artisti e personalità istituzionali.
Con la sua chiosa il Presidente Lula vuole far riferimento
a una delle interpretazioni più celebri dell’artista: la sua
versione di “Gracias a la vida” della cilena Violeta Parra;
incisa per la prima volta nel 1969.
E vuole sottolineare che “la Negra” (questo uno dei
soprannomi della cantante dovuto alle sue origini indie)
ha lasciato un’eredità importante non solo per l’Argentina;
non solo per i Paesi ispanici, ma per il Sudamerica tutto.
Perché quella di Mercedes Sosa è considerata
la voce del Continente latino: “La Voz de
América”, infatti, è un altro dei suoi appellativi.
E allora ecco che il Perù, il giorno della sua scomparsa,
decide di issare la propria bandiera a mezz’asta
e proclamare lutto nazionale per colei che è stata
l’espressione degli umili.
Michelle Bachelet, Presidentessa cilena, le dedica un
lungo applauso di ringraziamento proprio durante la
commemorazione del trionfo del “No” con cui i cileni
misero fine alla dittatura di Pinochet nel 1988.
Il Presidente venezuelano Hugo Chávez fa pubblicare,
su un giornale argentino, una calorosa lettera di
condoglianze; la medesima che invia alla Presidentessa
argentina Cristina Fernández de Kirchner.
Altro messaggio viene inviato da Fernando Lugo,
Presidente del Paraguay; e un altro ancora persino dalla
Francia, Paese che ospitò la Sosa nel 1979 durante il
suo esilio europeo durato due anni.
Infine, l’Argentina, Paese natale di Mercedes Sosa,
adotta un decreto governativo che rende omaggio ed
esalta l’impegno sociale, solidale e artistico; così come
lo spirito combattivo col quale la Cantora ha sempre
difeso le cause giuste, i diritti umani e civili.
Luigi Ivan Della Mea
era nato vicino a Lucca nel 1940. La vita
gli ha dato molti schiaffi (da cui il titolo
del suo ultimo romanzo) a cominciare
dall’infanzia che Charles Dickens non
avrebbe saputo immaginare più tragica
e lacrimosa. Eppure a quegli schiaffi, Ivan ha sempre
reagito con una produzione di canzoni e scritti letterari e
giornalistici che è diventata occasione di militanza politica
per il riscatto di tutti gli schiaffeggiati del mondo. Aveva
una voce potente ma non “bella”: ostentava un difetto
di pronuncia, una “esse” umida e fastidiosa ancor prima
che Guccini imperversasse con la sua erre arrotolata o
Jovanotti inciampasse nella sua zeppola. La chitarra la
suonava rozzamente e capitava a volte che suonasse in
Re e cantasse in Do. Speciale per calare di un quarto
di tono (e questo è stato scritto anche sulle copertine
dei suoi dischi) ha dimostrato però che tutti possono e
devono cantare se il canto è necessario per liberarci dai
tiranni e dagli oppressori. Aveva un’attenzione particolare
06 Inverno 2009
La vita
Perónista, membro del Partito Comunista e sostenitrice
di molte cause della sinistra politica, Mercedes Sosa fu
subito inserita nella lista nera del Regime Militare dopo il
colpo di stato del 1976 in Argentina. I suoi dischi furono
subito proibiti. Un paio d’anni prima era già stata diffidata
dal regime cileno.
Nel ’78, in occasione di un concerto a La Plata, viene
perquisita e detenuta, mentre il suo pubblico arrestato. È
l’ultimo atto prima dell’esilio europeo di due anni: prima
a Parigi e poi a Madrid. La sua è una voce scomoda,
da sempre schierata dalla parte della libertà e dei più
deboli.
Col suo rientro in Patria, nel 1982, giusto alla vigilia della
caduta della dittatura, viene consacrata come artista
continentale, come la voce di interi Paesi che sono stati
capaci di rialzare la testa. Da allora si batterà a tempo
pieno per la tutela dei diritti umani.
Online www. mercedessosa.com.ar
Alcuni suoi CD
Yo no canto por cantar (1966)
Homenaje a Violeta Parra (1971)
Traigo un pueblo en mi voz (1973)
Mercedes Sosa, la Mamancy (1976)
Mercedes Sosa en Argentina (1982)
Mercedes Sosa, 30 años (1993)
Cantor (2009)
per il Potere che considerava il male assoluto sopratutto
all’interno delle organizzazioni della sinistra e nei rapporti
interpersonali. Questo non gli ha impedito di dirigere per
anni l’Arci Corvetto a Milano e poi «l’Istituto Ernesto De
Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa
del mondo popolare e proletario» a Sesto Fiorentino.
Ivan ci ha lasciati il 14 giugno 2009.
Gianpiero Gallina
Direttore artistico di Musica 90 a Torino,
con la sua passione ha difeso con
coerenza e talento una visione eclettica
e senza frontiere della musica. La sua
ambizione era di proporre grazie a Musica
90 una riflessione sulle Nuove Musiche ed il Suono del
Mondo. Tra gli iniziatori del progetto italiano di Mondomix
Gianpiero ci ha lasciato prima dell’estate ma resterà
ancora a lungo nella nostra memoria.
10 Mondomix.com
Peppe Barra
Tutta la Vita in un Attimo
ALBUM
di Guido Gaito
Dopo un lungo periodo di pausa,
torna sulla scena musicale il
grande maetro napoletano.
Accompagnato come sempre dai
fedelissimi compagni di viaggio,
James Senese, Paolo del Vecchio
e Ivan Lacagnina, Peppe Barra ci
racconta la genesi di n'Attimo,
il suo ultimo lavoro musicale.
Un disco denso di racconti e
di storia, totalmente rivestito
dalla polvere di stelle che solo
un artista come lui riesce a
produrre. A coronamento di una
carriera passata interamente sul
palcoscenico Barra ci regala il
suo sigillo, o meglio, come lui
ama definirlo, il suo documento
spirituale.
Lei torna sulla scena musicale dopo
una pausa di tre anni, cosa ha fatto
in questo tempo?
Le pause servono sempre a ponderare,
a stare attenti a non fare sbagli. I miei
lavori, infatti, sono sempre stati molto
attenti. Questa volta ci ho messo
più attenzione, perché mi sembrava
giunto il momento di cambiare il mio
modo di rappresentarmi, sia come
cantante che come interprete.
In questi anni sono stato ben
consigliato e ho avuto la fortuna di
fare bellissimi incontri con giovani
poeti che mi hanno proposto dei
brani che io poi ho scelto. Ho voluto
cantare Sofrimento, di Valdemar
Bastos, che è un grido di dolore della
sua Angola; lavorando poi sul testo ho
potuto dire delle cose sulla mia città
e sulla mia terra che sta morendo. Poi
c'è un brano di Santa Cruz che è un
omaggio di ritmo e di allegria e infine
ci sono pezzi come n'Attimo che io
preferisco.
N'Attimo è una canzone che parla
anche d'amore...
Insieme al Il mondo dei sogni è un
po' autobriografica. È una canzone
d'amore ma è anche un modo
di rifletere sul tempo che passa.
Si parla anche del mio mondo, il
palcoscenico.
Nella canzone Il mondo dei sogni
spiega in due parole cos'è il teatro,
ce lo vuole dire almeno con tre?
È il mondo dei sogni appunto, però
bisogna saper sognare con verità.
Nel teatro non bisogna mai barare,
altrimenti il sogno può essere anche
negativo, un incubo, diventa un'arma
a doppio taglio.
Il suo sguardo nei confronti della sua
terra e della sua città è sottolineato
sempre da una vena di malinconia
e dolore. Come immagina Napoli
nel futuro?
Io ho molto fiducia nei giovani, sono
loro che devono cambiarla. In questi
ultmi anni mi sono reso conto che ci
sono molti napoletani che non amano
la loro città; c'è chi la distrugge e la
umilia. Un antico proverbio rivolto ai
politici dice che Napoli è come una
caramella: ognuno viene, allicc' e se
ne va.
Lei ha viaggiato tanto, ha vissuto e
vive intensamente. Concerti, tour
internazionali, perché ci tiene tanto
a voler descrivere l'attimo?
Questo è avvenuto perché tre anni fa
sono stato a un attimo dalla morte. In
quel momento mi è balenata subito
l'idea di avere un mio documento
spirituale.
Molto spesso la vita è veramente un
attimo. Io non ho assolutamente paura
della morte ma chi sfiora quell'attimo
diventa più ponderato verso la vita e
cerca la gioia di vivere in tutto quello
che può gratificarti.
Mi dica qualcosa che ancora non è
riuscito a fare?
Non c'è niente che io desideri. La mia
vita è stata sì logorante e faticosa
ma allo stesso modo sono talmente
contento e gratificato dalla vita che
tutto quello che arriverà mi troverà
pronto.
Un'ultima curiosità: è vero che lei
è nato a Roma, nel cuore principe
della città?
Sono nato a Roma, a Piazzetta dei
Crociferi. La mia famiglia lavorava
in teatro e rimase bloccata a Roma
per la guerra. Mia madre mi partorì
lì, davanti a Fontana di Trevi, per
strada. Come vede la mia vita è nata
pubblica!
Peppe e Barra
(1983)
Peppe e Concetta
Barra n.1 (1988)
Mo vene (1992)
M’ aggia cura’ (1995)
Il Borghese
Gentiluomo (2001)
Guerra (2001)
Peppe Barra in
Concerto (2003)
La Cantata dei
pastori (2004)
Matina (2005)
Titolo
N’Attimo
Etichetta
Marocco Music /AudioGlobe
Online
http://www.peppebarra.altervista.org
Decamerone
(2006)
Nuovi Arrivi
11 Mondomix.com
Elena
Ledda
Nel nuovo CD Cantendi a Deus esplora
il mondo sacro della Sardegna
Una ricerca tra tradizione e
contemporaneità
di Antonello Lamanna
Quando si parla di Elena Ledda, cantante e ricercatrice,
nota in tutto il mondo come l’espressione per eccellenza
della tradizione musicale e linguistica sarda, si pensa
subito alla sua austera e vigorosa voce, fatta d’impasti
e grane esoteriche e arcane allo stesso tempo. Con la
sua voce capace di essere travolgente e struggente,
disperata e addolorata come i canti della sua terra, Elena
Ledda è diventata una delle artiste più apprezzate a livello
internazionale, grazie a un repertorio incentrato sulla
conservazione della memoria del canto tradizionale, che
ha più volte sperimentato con il contributo di jazzisti e
virtuosi di musica antica.
Giunta al suo undicesimo lavoro discografico che segna
esattamente 30 anni di carriera, se consideriamo il suo
esordio con l’album Ammentos del 1979, la cantante di
Selargius dedica tutte le sue forze al nuovo disco Cantendi
a Deus, (S’Ard Music), dedicato interamente ai canti sacri
della tradizione sarda. Nel progetto, nato da rivisitazioni,
ricostruzioni e nuove composizioni di brani tradizionali,
propone una interpretazione personale del canto liturgico.
Cantendi a Deus è un lavoro che volevo fare da molto
tempo – ci spiega Elena Ledda - è stato rimandato più
volte per diversi motivi. Si stava per fare un altro disco,
ma alla fine ho scelto questo tema. Lavoro sulla musica
sacra da molti anni, e a questo proposito la Sardegna offre
molti spunti, è una regione con una ricchezza straordinaria
rispetto ad altre regioni d’Italia e d’Europa. E ancora ci
sarebbe molto da fare. Insomma, questo progetto nasce
da una passione personale.
In un repertorio così complesso, come quello sacro
qualsiasi tentativo e operazione di rielaborazione sarebbe
risultato molto difficile e complicato, ma non per Elena
Ledda che ha una preparazione classica e da molto tempo
si è occupata di musica antica, medievale e rinascimentale:
«per me –sottolinea l’artista sarda - è stato naturale andare
direttamente alla fonte di certi documenti, sia perché la
Sardegna è ricca di materiali e sia per la mia curiosità di
ricercatrice e amante della musica antica, che mi ha portato
a consultare gli archivi in maniera mirata. Sono andata
a cercare i manoscritti e su questi ho preferito lavorare
piuttosto che sui materiali tradizionali che già esistevano in
Sardegna. Sono andata alla fonte vera, autentica».
Il disco si apre con il brano che dà il titolo all’album
Cantendi a Deus. A seguire sonorità ispirate alla tradizione
di cui si erano perse le tracce, come S’incominzu ispirato al
quattrocentesco «Canto della Sibilla» e Ave Maria, entrambi
di derivazione catalana; Orus a su sperevundu (Dies
Irae) e Mamma nosta (Ave Maris Stella), di provenienza
gregoriana.
Per Ledda «Il lavoro di ricerca è una cosa differente
da quello fatto per l’allestimento di uno spettacolo o da
quello per la preparazione di un disco. E’ un momento
straordinario, come una nascita di un bambino, tutto da
esplorare. Mi è piaciuto metterci mano, adattare, scrivere
i testi, grazie anche a mia sorella Gabriella. E’ un lavoro
che mi ha dato molto, soprattutto per alcuni brani che si
erano persi nella memoria». Nel corposo lavoro di ricerca
vengono inoltre proposti rosari, preghiere, canti dedicati
al periodo natalizio: Gocius de su nascimentu, Celesti
Tesoru e A su nàschere de Gesus, ma anche brani tratti
dall’opera del XVII sec. Comedia de la passion de Nuestro
Señor Jesu Christo di Antonio Maria da Esterzili, e Sa
pregadoria, composizione ispirata al modulo della poesia
estemporanea campidanese, su testo del poeta sardo
Chicheddu Depilano, noto con il nome di «Olata».
Online www.elenaledda.com
Cosa Elena Ledda – Cantendi a Deus – S’Ard / Egea
06 Inverno 2009
12 Mondomix.com
You Spin Me Round
Like A Gattamolesta
intervista di Piercarlo Poggio
Tra le bonus tracks del loro nuovo lavoro i Gattamolesta
da Forlì hanno inserito pure il classico dei Dead
or Alive, anno di grazia 1984. Una provocazione?
Forse, ma nell’ambito di un disco bizzarro, audace
e pungente come si rivela essere Czeleste, del tutto
appropriata. Venuti al mondo nel 2006 hanno già al
loro attivo l’ep I pesci, i pani e gli esemplar e l’album
Alla festa del brigante, e soprattutto un’intensa attività
concertistica porta a porta che li ha fatti conoscere
ben presto anche all’uomo della strada. Il loro folk
con il turbo parla italiano e guarda a Est privo di
preoccupazioni esistenzialistiche, impegnato com’è
a scuotere senza sosta menti e corpi. La formazione
è un quartetto trascinato dal cantante e chitarrista
Andrea Gatta (il nostro interlocutore) e completato
da Nicolò Fiori al contrabbasso, Jader Nonni alla
batteria e Luigi Flocco alla fisarmonica.
Czeleste è disco dal carattere professionale: un nuovo
punto di partenza o la fine dell’età dell’innocenza?
Czeleste è un punto importante del nostro percorso
artistico, in quanto all’inizio abbiamo cominciato a
suonare per strada senza troppe pretese, poi divertendoci
e riscontrando approvazione abbiamo ricevuto i primi
ingaggi e siamo diventati una live band. Da qui è partita
l’esigenza di sperimentarci nella realizzazione del primo
disco che però non aveva il carattere, la forza espressiva e
la qualità di registrazione presenti in Czeleste. Ora questo
disco è volto ad aprire nuove prospettive per idee future
e rinnovare la creatività, cosi che il percorso resti ricco di
nuovi stimoli e freschezza... e, perché no, innocenza!
Siete nati in strada per scelta o per necessità?
Per entrambe le cose: c’era la necessità di esprimersi
e scegliemmo la strada, il primo palco che si rendeva
disponibile, così come è sempre stato, immediato e poetico,
visto che era ancora lontana la prospettiva di potersi esibire
e lavorare come e quanto lo facciamo oggi.
Perché tra le tante possibili sono le musiche dell’Est
quelle su cui costruite la maggior parte dei brani?
Diciamo che le più evidenti influenze sono quelle che
rimandano all’est, ma non sono le sole: consideriamo il
sound di Czeleste, come si dice in gergo, una patchanka
di vari stili mescolati e a loro volta contaminati secondo il
nostro gusto; senza la pretesa che debba necessariamente
essere etichettato quale balcanico, semmai affine o
riconducibile a esso per quanto riguarda l’aspetto
trascinante e il ritmo frenetico delle nostre esibizioni. Infatti
il fascino che queste musiche hanno esercitato su di noi si
è inevitabilmente espresso nel gusto di un’estetica gitana
che fin dal principio ha caratterizzato il nostro modo di
porci soprattutto di fronte al pubblico.
Nuovi Arrivi
Con la scuola dei cantautori e con il melodico
all’italiana in che rapporti state?
Per un certo tipo di cantautorato poetico e di contenuto
c’è ammirazione, perché costituisce una forma musicoespressiva di valore nel panorama italiano, nel quale
emerge spesso soltanto il pop facile veicolato dai media
di maggiore diffusione. Alcuni cantautori sono grandi
artisti, hanno il pregio di possedere un’alta ispirazione
letteraria legata a un proprio stile spesso fatto di grande
gusto e ricerca, altri invece… meritano davvero di essere
travolti e superati!
I vostri testi al primo approccio paiono piuttosto
scentrati e surreali, ma letti in trasparenza denunciano
la loro fonte di ispirazione: le banalità della realtà
italiana di questi anni. Come si trova un equilibrio tra
realtà e fantasia quando si scrive un testo?
Ci sono tre piani in cui l’equilibrio trova forma: c’è l’ispirazione,
che ha un equilibrio interno difficilmente spiegabile; c’è la
linea visionaria che collega il gioco espressivo di parole
dell’autore con la percezione emotiva dell’ascoltatore;
infine, come nei testi di Czeleste, c’è questo vortice che
ruota al ritmo della musica, in cui realtà e fantasia si
rincorrono vicendevolmente, senza mai raggiungersi né
perdersi, in un equilibrio che definirei essenziale.
Titolo Czeleste
Etichetta Felmay Records
Online www.gattamolesta.com
MySpace www.myspace.com/bandgattamolesta
06 Inverno 2009
14 Mondomix.com
Mamadou
Barry
Il sessantenne debuttante
di Akenataa Hammagaadji
Quando nel mondo della musica si parla di una nuova
rivelazione viene spontaneo pensare a qualche teenager,
o a qualcuno di età poco superiore, magari ad una band
di lolite ammiccanti oppure a un gruppo di ragazzini
dalle facce imberbi pieni di talento e privi di esperienza.
Sembrerebbe, questa, una definizione decisamente
poco calzante per una persona di 63 anni che solo oggi
realizza il proprio album d’esordio debuttando sulla scena
internazionale.
Eppure, dopo l’uscita di Niyo questa definizione, esordiente,
anche se solo parzialmente corretta, è stata effettivamente
la più adatta per definire Mamadou Barry nonostante
alle sue spalle ci sia una storia lunga decenni di proficue
produzioni e collaborazioni musicali di indiscutibile valore.
Per capire come il Maitre Barry (come viene rispettosamente
definito) sia giunto oggi a questo punto della sua carriera
bisogna fare un passo indietro, quel tanto che ci permetta
di conoscere la sua storia.
Mamadou Aliou Barry è nato nel 1947, una decina di anni
prima che la Guinea diventasse indipendente. Suo padre
era musicista nell’orchestra Le Pavillion Bleu de Kindia
dove suonava la fisarmonica e le percussioni.
E’ da lui infatti che il giovane Mamadou apprende i primi
rudimenti musicali anche se nonostante questo egli non
era evidentemente predestinato a consacrare la sua
vita alla musica. In effetti sentendosi molto più attratto
dall’insegnamento il maestro intraprende gli studi presso la
High School for Teacher Education determinato a diventare
un buon insegnante.
Nel tempo libero, naturalmente, Mamadou continuava a
suonare ma ciò unicamente come forma di svago fino al
giorno in cui il suo talento venne ufficialmente riconosciuto
ed incoraggiato.
L’indipendenza della Guinea dalla Francia avviene nel
1958 e nei primi anni di regime post-coloniale il presidente
Sékou Touré cerca di instillare nella popolazione un
maggior senso di appartenenza alla nazione favorendo
ogni iniziativa volta alla sensibilizzazione del popolo verso
le proprie radici culturali. Barry aderisce immediatamente
alla crescita di questo nuovo movimento culturale che
fra l’altro era sostenuto economicamente da fondi statali.
Suona quindi come percussionista nel Ballet de Conakry
e successivamente diviene direttore della Kaloum Star di
Conakry assumendo una posizione di spicco in quell’epoca
rivoluzionaria.
Le capacità e conoscenze musicali lo portano oltremare
fino alla Corea del Nord (dove studia teoria musicale) e a
Cuba. La sua produzione musicale, arricchita da queste
esperienze, ne rimarrà fortemente influenzata. La sua
apertura mentale e la sua generosità lo porteranno ad
esibirsi con molti artisti guineani quali Sekouba Bambino
Diabaté, Missia Saran, Bembeya Jazz e Kélétigui et ses
Tambourins senza tralasciare ovviamente Momo Wandel
Soumah, il re del West African jazz, che lo soprannominò
maestro per via dei suoi trascorsi da insegnante.
Dal 1983, il Maitre Barry è stato direttore ed arrangiatore
delle Amazones de Guinée, un prestigioso ensemble
composto da donne soldato.
Quarant’anni di lavoro più che prolifico dunque e solo
oggi Barry riesce a realizzare il suo album d’esordio
internazionale, Niyo, che contiene nove bravi davvero
intriganti. Barry ha insistito perché la registrazione
dell’album avvenisse a Conakry e ne ha curato
personalmente la produzione artistica invitando i migliori
musicisti della Guinea, uomini e donne, di etnie diverse e
di generazioni diverse. Il risultato è un affascinante mix di
stili jazz (Barry Swing) funk (Niyo) e Latin swing (Sédy) fusi
a ritmi e melodie Fulani e Mandinghe.
Non manca un’accattivante ed originale cover di Take
Five di Dave Brubeck, in una versione, da lui reintitolata
Africa Five, che non si discosta molto dalla melodia di
base anche se si respira un forte sapore d’Africa grazie al
djembé di Papa Kouyatè. Il brano che dà il nome al CD è
un pezzo di derivazione funk arricchito dai colori del tama.
Il ritmo sottolineato dal karignan (percussione dell’Africa
occidentale costituita da un tubo metallico sfregato) in
Sodia è ben supportato dalle voci delle cantanti Sény
Malomou e Missia Saran, mentre altre poliritmie intriganti
suonate con un brio trascinante sostengono la struttura
del brano.
In Tala le improvvisazioni di Barry scintillano sulla
delicata atmosfera di origine Susu. Biké Magnin beneficia
soprattutto della sanguigna voce di Missia Saran mentre
i fiati del leader rimangono in sottofondo. Il flauto in Sédy
riflette le influenze dell’esperienza cubana ma in Néne,
riesce a raggiungere le dinamicità tipiche del flauto Fulani
suonato dai grandi virtuosi.
Ci auguriamo che presto un nuovo album faccia seguito
a questo super atteso album di debutto e se nel frattempo
i cultori di Maitre Barry vogliono conoscere altre cose sul
genere Felenko possono cercare in rete il CD di Kaloum Star.
Online www.worldvillagemusic.com
CD Mamadou Barry – Niyo – World Village / Egea
06 Inverno 2009
Brasile
un tour musicale
di Max De Tomassi
L’universo brasiliano è particolarmente vasto e ricco. Dai
primi anni del secolo scorso ad oggi sono davvero tanti
i momenti storici e soprattutto gli artisti da tener presenti
per comporre un ipotetico albero genealogico con tutti i
suoi rami più importanti ben presenti, completi di foglie e
frutti.
Su questa base la musica popolare brasiliana si è
sviluppata nel tempo crescendo dal punto di vista
qualitativo e quantitativo, aumentando il suo potere
seduttivo all’interno del territorio e anche all’estero, grazie
ad artisti come Carmen Miranda e Dorival Caymmi, a
movimenti come la bossanova, uno dei primi esempi di
globalizzazione artistica, guidata dalla triade Joao Gilberto
/ Tom Jobim / Vinicius de Moraes, e alla rivoluzionaria
MPB (Música Popular Brasileira) dei primi anni 70. Le
tematiche di questo movimento, sia di contestazione alla
dittatura o più disimpegnate, avevano spesso in comune
l’utilizzo di ritmiche fortemente legate alla tradizione,
quasi sempre negra, delle prime espressioni musicali
tipicamente brasiliane, nate su questo territorio grazie
all’avvento degli schiavi arrivati dalle coste dell’ovest
africano. Con questo background denso e profondo che
si perde nel tempo, non è difficile capire perché la musica
brasiliana contemporanea è considerata la più ricca e
fertile al mondo. Il segreto si riassume in due azioni sociali
e culturali: rispetto del passato e contaminazione. Due
concetti che vanno al di là del semplice utilizzo in campo
musicale e che si intersecano con la vita quotidiana dello
stesso paese.
Il passato musicale del Brasile è caratterizzato dal flusso
etnico che ha composto e strutturato la razza brasileira.
06 Inverno 2009
Gli Indios erano già qui, pacifici ed innocenti, a custodire
questa terra da millenni; poi sono arrivati i conquistatori
portoghesi e insieme a loro gli schiavi negri presi in
Angola, Congo, Benguela, e in altre regioni africane. Poi
gli italiani, i giapponesi, arabi, e in minor parte tedeschi,
olandesi, polacchi e tanta altra gente arrivata in Brasile
per fuggire alla mancanza di terre da coltivare nel proprio
paese, a persecuzioni etniche o a guerre, accolta in un
territorio pacifico dove la musica e la danza hanno sempre
rappresentato, al di là delle incongruenze sociali più
recenti, la serenità e l’allegria di questo popolo.
E’ su questa premessa che si realizza l’ultima affermazione
della cultura musicale pop brasiliana nel resto del mondo:
è da qui che arrivano le più interessanti alternative alle
creazioni plastificate del pop delle multinazionali. E’ quasi
sempre di Brasile che si sente parlare quando si cerca
qualcosa di nuovo da ascoltare, quando il nostro orecchio
cerca suoni che riescano a coniugare armoniosamente il
passato, la tradizione con le più geniali innovazioni della
tecnologia. Sono loro, i brasiliani, che ci insegnano ad
accostare, senza attriti, il melodioso suono di una chitarra
acustica o il tono monocorde di un berimbau con le più
impensabili campionature del patrimonio pop occidentale
o queste stesse con il samba più antico, senza disorientare
nessun punto d’ascolto.
Loro sono maestri nel mescolare e fondere ritmi e suoni, è
il loro percorso antropologico che gli ha insegnato questo.
A Sao Paulo ad esempio, metropoli di più di 20 milioni
di abitanti, ebrei e mussulmani convivono pacificamente
da sempre negli stessi quartieri e, insieme a loro, vivono
italiani, giapponesi, negri e portoghesi, tutti a parlare la
16 Mondomix.com
ALBUM
Céu
Vagarosa
Celso Fonseca
Juventude/Slow
Motion Bossa Nova
Seu Jorge
Cru
Gal Costa
Hoje
Carlinhos Brown
Alfagamabetízado
Bossacucanova
Ao vivo
Vanessa da Mata
Sim
stessa lingua nel rispetto delle tradizioni
di ognuna di queste etnie, uniti nel
sorseggiare una birra gelata, mangiando
copiose dosi di feijoada, il piatto
nazionale a base di carne di maiale e
fagioli, inventato dagli schiavi più di 100
anni fa.
Basandosi sull’insegnamento dei vari
Pixingunha, Noel Rosa, e Dorival
Caymmi, sono arrivati Jobim, Gilberto e
Vinicius, che a loro volta hanno seguito i
primi passi di Caetano Veloso, Gilberto
Gil, Jorge Ben, Milton Nascimento,
Ivan Lins e tanti altri. Con l’avvicinarsi
del nuovo millennio il mercato locale,
arrivato ad un grande boom agli inizi
degli anni novanta (quarto mondiale in
assoluto), si frammenta a livello regionale
con la riscoperta della musica country
brasiliana, il lancio di quella baiana (l’Axè),
pur mantenendo sempre molto attivo il
ricambio generazionale nel piatto forte
della cultura musicale di questo paese, la
MPB, attiva soprattutto nel triangolo Rio
de Janeiro-Sao Paulo-Belo Horizonte. Un
acronimo che significa Musica Popular
Brasileira, in cui l’aggettivo popolare
è senz’altro qualificativo. All’interno di
questa sfaccettata realtà nasce sempre
qualche novità, un artista, un movimento,
una tendenza che seguiamo da anni con
passione, senza stancarci. Due sono i
punti cardine di ogni nuovo elemento
che si aggiunge a questo universo:
lo spessore poetico e l’innovazione
musicale e ritmica attraverso forti
elementi della tradizione. I nuovi nomi
della MPB raccolgono i loro consensi
internazionali rispettando sempre questi
requisiti.
Lenine ad esempio: tra gli elementi
della nuova generazione è quello di
certo più affermato e stimato a livello
internazionale.
Nella
sua
musica
convivono elementi del rock occidentale
con influenze regionali nordestine.
La poetica che interpreta è scarna ed
essenziale, scegliendola spesso tra le
composizioni di giovani autori di poesia
contemporanea.
Pochi
di
loro
raggiungono
il
successo internazionale conquistato
periodicamente da quelli che possiamo
considerare veri e propri fenomeni
di massa, come Jà sei namorar dei
Tribalistas o il rilancio di un classico,
Mas que nada, da parte di Sergio
Mendes. La musica brasiliana è più
che altro un segmento di mercato il cui
prodotto si rinnova sempre, che esce dal
clichè musica di moda caduto sulla testa
della musica afro, di quella cubana e
caraibica in generale, ma che allo stesso
tempo gode di certi boom stagionali
che possono sembrarci studiati piani
di marketing pensati per rinnovare
l’attenzione su questo genere specifico.
Ma il discorso è molto più ampio, e non
mi sembra questo il momento di trattarlo.
Fra queste novità potrei segnalarvi
decine di nomi sconosciuti,ai quali
potrebbero aggiungersene altre decine
suggeriti da chi mi legge: oggi giorno la
rete ci offre quotidianamente spunti ed
informazioni che aumentano la nostra
conoscenza e contribuiscono anche ad
una certa confusione. Non è una corsa
a chi è più attualizzato o a chi mette in
fila più nomi. Alla fine, chi viene fuori da
tutto questo gigantesco flusso di suoni
e canzoni sono artisti che sicuramente
faranno parte della storia della MPB
contemporanea: Celso Fonseca, ad
esempio, eccellente musicista, per anni
al fianco di Gilberto Gil, è da anni abile ad
una carriera solista. Il suo stile mescola
la bossanova con il pop contemporaneo,
le sue composizioni sembrano prepararsi
a diventare degli standards, interpretate
Marisa Monte
Infinito Particular
Wilson
Simoninha
Volume 2
Marcelo D2
A Procura da
Batida Perfeita
06 Inverno 2009
17 Mondomix.com
da Gal Costa, da Mart’nalia (la nuova
diva del Samba carioca) o dallo stesso
autore.
Parlando di donne invece, vedo Ceu,
una bellissima ragazza di Sao Paulo,
vera grande promessa nel campo
interpretativo, così come Ana Costa, di
Rio de Janeiro, anche lei pronta a seguire
i passi delle grandi cantanti di samba,
come Beth Carvalho o Alcyone.
Il vero e proprio genio del momento, in
campo maschile, è invece Seu Jorge, un
personaggio: attore, autore e interprete,
arriva nel mondo dell’arte dopo una
travagliata e commovente esistenza nella
marginalità. Debutta nel cinema (City of
God-4 nominations all’Oscar) e tutti ne
parlano; esce il suo primo album per una
multinazionale (America Brasil O disco),
dopo tre tentativi di eccellente qualità
ma mal distribuiti, ed è un trionfo. Scrive
come pochi autori contemporanei, i suoi
punti fermi sono, nel passato, Chico
Buarque e Jorge Ben. Un parallelismo,
dal punto di vista poetico, nel presente,
si può fare con Carlinhos Brown che,
come Seu Jorge, utilizza un vocabolario
tutto suo, pieno di neologismi e parole
nonsense ma piene di musicalità.
Sempre a Rio de Janeiro, città che vide
nascere la bossa nova, molti sono gli
interpreti e gli artisti che rifacendosi a
questo glorioso passato, gettano le radici
per il loro futuro. Paula Morelenbaum,
per esempio, dopo una lunga carriera
accanto al maestro Tom Jobim, come
voce solista della sua Banda Nova, si
affaccia sul mercato internazionale grazie
alla collaborazione con Sakamoto e al
marito Jaques Morelenbaum, eccellente
violoncellista, stretto collaboratore di
Veloso. Paula da un po’ di anni, nella
realizzazione dei suoi albums, cerca di
rivalutare alcune composizioni meno
famose ma altrettanto intense, del
patrimonio bossanova e samba cançao
classico, con ottimi risultati. Così come
fanno, rileggendo la bossa nova in
chiave molto più pop-drum n’ bass i
ragazzi di Bossacucanova, figli d’arte
e leaders nella modernizzazione di certa
tradizione per noi europei intoccabile.
Un’altra bella voce femminile è senz’altro
Roberta Sà, norderstina, con un gran
gusto musicale, attenta alle composizioni
dei giovani autori contemporanei. Così
come hanno fatto prima di lei Vanessa
da Mata e la più grande interprete
brasiliana
contemporanea,
Marisa
Monte. Roberta, con la sua voce e la
sua estetica di classe, enfatizza la nuova
canzone popolare, quella che si ascolta
nei teatri delle grandi città brasiliane e
che fa da colonna sonora alle telenovelas
più cheap.
Un ultimo sguardo al rap brasiliano,
che apparentemente potrebbe essere
accusato di scopiazzare i miti americani
del genere. Nulla di più falso.
Anche qui, come in altre parti del mondo
e forse prima di quello che è successo
negli USA, alcuni artisti già interpretavano
le loro canzoni semplicemente parlando
su una base ritmica. Lo faceva il grande
interprete Wilson Simonal, purtroppo
prematuramente scomparso. Lo fa
adesso suo figlio Simoninha, buon MC
nel rivalutare il samba paulista; ma è
soprattutto è Marcelo D2 che unendo
il samba delle favelas al rap ha creato
un fenomeno nazionale che abbina
testi di evidente protesta sociale a
musiche di immediato impatto popolare,
inneschi che fanno esplodere in ogni
città brasiliana e anche all’estero, una
passione che ci contamina anno dopo
anno, canzone dopo canzone.
ALBUM
Joao Gilberto
Amoroso
Tom Jobim
Terra Brasilis
Vinícius de Moraes
Favourites
Caetano Veloso
Estrangeiro
Gilberto Gil
Quanta
Milton Nascimento
Pietà
Jorge Ben
10 Anos Depois
Tribalistas
Tribalistas
Lenine
Labiata
Sergio Mendes
Brasileiro
06 Inverno 2009
Una guida minima ai chitarristi africani
Continente musicale per eccellenza l’Africa oltre a valenti virtuosi di strumenti
tradizionali ha prodotto anche grandi esponenti di quello che è lo strumento più
diffuso, conosciuto e praticato in Occidente: la chitarra. Scopriamo alcuni di questi
maestri attraverso gli album più significativi.
di Eddy Cilìa
Ce lo diciamo da soli prima che provvedano altri:
naturalmente a nessuno sarebbe mai venuto in mente
di scrivere un articolo sui chitarristi europei, collocando
sotto il medesimo tetto – per dire – Jimmy Page e Paco
de Lucia, Kevin Shields e Richard Thompson. È il vecchio
equivoco che da sempre circonda la world music, quello
che fa sì che non ci sembri strano che i dischi di Caetano
Veloso nei nostri negozi si trovino in quello scaffale e ci
paia invece assurdo che negli Stati Uniti tocchi a Battisti
venire così incasellato. Vecchio equivoco dal quale non
si esce, sia perché derivante da una visione del mondo
eurocentrica che perché si sistemano sotto la stessa
voce mille generi riconducibili ad almeno due metageneri,
nettamente distinti e distinguibili, quali folk e pop. Ma
non è questo l’ambito per discutere di massimi sistemi
e, visti spazio e intenti della rubrica, nemmeno di minimi:
perdendosi, tanto per cominciare, nel racconto pieno di
zone d’ombra di come fu che la chitarra sbarcò in Africa e
di come si pose in rapporto con gli strumenti a corda locali.
Si sostiene da più parti che furono i Portoghesi a introdurla
all’epoca delle grandi esplorazioni ma, se così fu, era
uno strumento piuttosto dissimile da quello che riceverà
una codificazione definitiva solo in pieno Ottocento. Né
sfuggirà al lettore che, in un continente nel quale tuttora
una percentuale rilevante di popolazione deve fare a meno
dell’elettricità, una Fender Stratocaster (se ne individua più
d’una nelle copertine qui attorno) rappresenti un qualcosa
oltre il lusso. Ancora massimi sistemi: impossibile dire in
quale misura il blues arrivi dall’Africa e se già vi allignasse
prima della diaspora degli schiavi. Noi in Ali Farka Touré
sentiamo John Lee Hooker, ma la prima volta che Ali Farka
Touré ascoltò John Lee Hooker ne trasse la convinzione
assoluta che fosse pur’egli maliano.
Molto afroblues in questa lista di venti titoli nella quale il
Mali, piazzandone sette, fa la parte del leone. Non poteva
essere altrimenti, trattandosi della più eminentemente
chitarristica fra le musiche africane. Che diversi dei dischi
in questione siano acustici ci fa ricordare che tanto è ricco
di talenti il paese che ci ha regalato Ali e Vieux Farka
Touré, Boubacar e Rokia Traoré, Djelimady Tounkara,
Afel Bocoum e Habib Koité, quanto è desolatamente
povero di qualsiasi altra cosa. Tanto Congo anche (o Zaire,
come si è chiamato per un quarto di secolo), con a dare
man forte al divino Franco predecessori e succedanei fra
rhumba e soukous quali Henri Bowane, Docteur Nico,
Remmy Ongala e Diblo Dibala, e un tot di Nigeria, che
non è stata e non è solo il funk secondo Fela ma pure
juju e highlife ed ecco King Sunny Adé, Ebenezer Obey,
Prince Nico Mbarga. Presenze testimoniali, infine, per il
Senegal con Ismäel Lô, la Sierra Leone con Sooliman
E. Rogie, l’Uganda con Geoffrey Oryema, lo Zimbabwe
con Oliver Mtukudzi e Capo Verde con Teofilo Chantre:
se è vero che furono i Portoghesi a portare lo strumento
nel Continente Nero, quest’ultimo vale come chiusura di
cerchio, siccome canta in quell’idioma e reminiscenze
lusitane sono in lui evidenti.
Due fondamentali avvertenze… La prima, a parte che
il concetto di “virtuosismo” è molto europeo, è che
parecchi dei più dotati fra i chitarristi africani hanno agito
storicamente in prevalenza, quando non esclusivamente,
all’interno di gruppi: Barthelemy Atisso con l’Orchestra
Baobab e Sekou Diabaté con Bembeya Jazz, Shiko
Mawatu e Lokassa Ya Mbongo con Soukous Stars
piuttosto che Jonah Sithole a fianco di Thomas Mapfumo.
A complessi e orchestre sarà dedicata un’altra trattazione,
laddove qui, al di là delle capacità tecniche, si sono
privilegiati artisti nella cui opera la chitarra ha un peso
decisivo ma ai quali non necessariamente si pensa in prima
battuta come a dei chitarristi. La seconda rientra nell’ovvio
e tuttavia le ovvietà talvolta è meglio sottolinearle: in
Occidente conosciamo abbastanza la musica di alcuni
paesi e poco quella di altri. Su ogni elenco che stiliamo,
l’ignoranza pesa quanto il sapere.
Chitarre africane
19 Mondomix.com
KING SUNNY ADÉ & HIS AFRICAN
BEATS
Juju Music
Island, 1982
Colossale l’equivoco nel quale
incorreva la Island scambiando King
Sunny Adé per un secondo Marley.
Sarà presto chiaro che il Nostro non
ha quel carisma e che benché seducente – una collisione
di fitte linee chitarristiche e densi profluvi percussivi
sviluppatasi da una miscela di influenze yoruba, brasiliane
e della Sierra Leone – la juju music non ha l’immediatezza
e l’universalità del reggae. Sia comunque benedetto
quell’equivoco: certi dischi non li avremmo se no ascoltati.
FRANCO
20ème anniversaire Vol.1
Sonodisc, 1989
A due decenni dalla morte che
lo coglieva cinquantunenne (lo
uccideva l’AIDS, contro cui fu un
testimonial formidabile) Franco
è presenza più che mai cruciale
un po’ in tutta l’Africa subsahariana. Sulla sua valenza di
strumentista la dice lunga il soprannome che si portava
appresso: lo Stregone della Chitarra. Sulla statura d’autore
un repertorio in tutti i sensi immenso, fresco fra l’altro di
parzialissima quanto splendida rivisitazione da parte di un
emulo magistrale quale Syran Mbenza.
ISMÄEL LÔ
Ismäel Lô
Mango, 1991
Chitarrista principe in un ambito,
quello della cosiddetta mbalax, in
cui sono soprattutto le percussioni
a menare (letteralmente) le danze,
Ismäel Lô cresce ascoltando alla
radio Otis Redding e Wilson Pickett e arriva a fare della
musica una professione per caso, partecipando solo per
l’insistenza di uno dei tanti fratelli a uno spettacolo in TV. In
quella che fu la prima uscita europea il folk nordamericano
e quello mandingo trovano una comunione egualmente
sobria e densa di suggestioni.
PRINCE NICO MBARGA
Aki Special
Rounder, 1987
La canzone africana più venduta
di sempre? Non Soul Makossa ma
Sweet Mother. Tredici milioni di
copie. È il pezzo forte di un CD che
raccoglie due LP rispettivamente del
’76 e dell’82, Sweet Mother per l’appunto e Free Education.
Siamo al perfetto incrocio fra soukous, una miscela
di elementi zairesi, centroamericani e country, e la più
prettamente nigeriana highlife, in pari misura chitarristica e
fiatistica nell’accezione urbana e tutta chitarristica in quella
(non meno ballerina) rurale.
REMMY ONGALA & ORCHESTRE
SUPERMATIMILA
Mambo
Real World, 1992
Congolese di nascita ma residente
in Tanzania, Ongala debutta
internazionalmente per l’etichetta
di Peter Gabriel con un disco dal
titolo fuorviante. Nulla a che fare con la celeberrima danza
cubana, essendo il “mambo” che lo battezza parola swahili
che si può rendere, all’incirca, come “osservazioni sulle
cose che accadono”. Il che svela la natura politica di nove
brani in apparenza spensierati e di somma danzabilità,
meticciamente fra rhumba (un filo diretto con i Caraibi c’è
dunque in ogni caso) e soukous.
SOOLIMAN E. ROGIE
Dead Men Don’t Smoke Marijuana
Real World, 1994
Sfortunatamente quando questo
suo esordio internazionale vede
la luce l’autore canne non se ne
può più fare, essendo scomparso,
sessantottenne, pochi mesi prima. Di
indicibile godibilità un testamento che sciorina rilassatissimo
folk-blues il cui (per noi) possibile referente non è il solito
John Lee Hooker, bensì Joseph Spence. Le Bahamas invece
del Mississippi insomma, con un ulteriore colpo da maestro
in una traccia bellissima, A Time In My Life, che ascoltare e
immaginarsela da Johnny Cash è un tutt’uno.
DJELIMADY TOUNKARA
Sigui
Indigo, 2002
Leader e chitarra portante dai
primi ’70 della Super Rail Band e in
seguito componente di Bajourou,
Tounkara debutta da solista con
un lavoro clamoroso, sotto tutti i
punti di vista all’altezza del miglior
Ali Farka Toure. Rispetto a quelli del connazionale, i suoi
spartiti paiono meno austeri, con un più pronunciato gusto
per lo swing e la festa. Sembrerebbe avere inoltre subito
un certo influsso cubano: fatto è che nelle corde ha un
sentimento di latinità che ce lo avvicina vieppiù.
ALI FARKA TOURÉ
Ali Farka Touré
World Circuit, 1988
Apparso da subito incolmabile il
vuoto causato dalla sua scomparsa
nel 2006, ci consola il gruzzolo di
dischi lasciatici da colui che più di
chiunque ha fatto per riportare il
blues a casa. Diceva che “quando
ascolto John Lee Hooker, James Brown, Ray Charles, per
quel che mi riguarda è musica del Mali adattata a un altro
paese”. Grazie a lui, dopo di lui, vale per noi un idem sentire.
In una produzione di livello uniformemente stellare, abbiamo
scelto per affetto il lavoro che ce lo fece conoscere.
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20 Mondomix.com
BOUBACAR TRAORÉ
Kar Kar
Stern’s, 1992
Contrazione di “kari kari”, termine con
il quale nel suo paese si denomina
la nobile arte del dribbling, Kar Kar
diventa il soprannome di Boubacar
Traoré e il titolo del suo primo album.
Tanto era estroso da calciatore, tanto da cantante e chitarrista
va dritto al punto, con uno stile scarno e schietto ai limiti
dell’asprezza. Oltre che nella musica, ricorda taluni grandi
bluesmen anche nella vicenda personale: riscoperto in età
tarda quando qualcuno addirittura ipotizzava fosse morto.
ROKIA TRAORÉ
Wanita
Indigo, 2000
Incantesimo di corde e percussioni
fittamente intrecciate e voci che
scappano da tutte le parti ma si
ricongiungono poi, come affluenti in un
fiume. Fortemente localizzata e poco
sensibile agli influssi esterni, la musica
della Traoré esibisce nondimeno fascino universale, tanto da
farle percorrere un tragitto inverso rispetto alla maggior parte
dei musicisti del Continente Nero: profetessa prima e di più in
Europa, sin dal già maturo esordio del ’97 Mouneïssa, che non
nel Mali.
E non vi fossero bastati…
AFEL BOCOUM
Alkibar
World Circuit, 1999
Dopo una vita vissuta all’ombra di Ali Farka Touré,
il Primo Ministro del Re dell’Afroblues si prende il
centro della ribalta da solo e sono ovazioni.
HENRY BOWANE
Double Take – Tala Kaka
Retro Afrique, 1997
Sono i ’50 l’età aurea di un uomo cui dobbiamo
sia la prima rhumba africana che i primi incroci fra
le melodie chitarristiche del soukous e i poliritmi
della highlife. Oltre che la scoperta di Franco.
TEOFILO CHANTRE
Azulando
Lusafrica, 2004
Se Césaria Évora è la voce di Capo Verde,
Teofilo Chantre ne è la chitarra. Perennemente
incerta fra la malinconia della morna e lo
spumeggiare del samba.
DIBLO DIBALA
Super Soukous
Shanachie, 1989
Il chitarrista più veloce d’Africa (lo chiamano
Machine Gun) assurge alla fama da
fiancheggiatore di un campione di vendite quale
Kanda Bongo Man (in area soukous più di costui
giusto Franco) e poi proclama l’indipendenza.
DOCTEUR NICO & ORCHESTRE AFRICAN
FIESTA
1963-1965
African, 1985
È davvero qui la fiesta, giacché Mai Dottore fu
più Feelgood di Nicolas Kasanda. Un irresistibile
anticipatore tanto di Franco che di Dibala.
HABIB KOITÉ & BAMADA
Ma Ya
Putumayo, 1999
“Un viaggio in dodici canzoni attraverso il
Mali durante il quale mi sono concesso la
libertà di muovermi da un ritmo all’altro”:
così Ma Ya nelle parole dell’artefice, misurato
modernizzatore delle tradizioni locali.
OLIVER “TUKU” MTUKUDZI
Greatest Hits: The Tuku Years
1998-2002
Sheer Sound, 2003
Secondo al solo Mapfumo nel regalare
visibilità globale alla musica dello Zimbabwe.
Un abbonato ai vertici delle classifiche world.
CHIEF COMMANDER EBENEZER OBEY
& HIS INTER REFORMERS BAND
Juju Jubilee
Shanachie, 1985
Sunny Adé è il Re – autoproclamato ma
unanimemente riconosciuto – della juju
music? Obey ne è il Comandante in Capo,
galloni guadagnati declinandone una
versione marcatamente più funk.
GEOFFREY ORYEMA
Exile
Real World, 1990
In esilio Oryema ci va nel 1977 quando,
ventiquattrenne, vede il padre assassinato
dagli sgherri di Idi Amin. Tutta europea una
carriera che lo vede esordire con questo Exile
– quindi tardivamente – ma volando subito
altissimo, Gabriel mentore, Eno in regia.
VIEUX FARKA TOURÉ
Fondo
Six Degrees, 2009
Tagliente come quasi mai quello di chi sapete,
l’afroblues del Vecchio ma Giovane Farka
Touré. Funky nelle pulsioni e rock nell’essenza.
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Chitarre africane
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15 anni di Talking Timbuktu
Il disco che ha cambiato le nostre
prospettive musicali
di Mauro Zanda
«Il nome è un presagio» affermavano profetici i nostri padri.
Difficile allora immaginare un nome più intrinsecamente
leggendario, Talking Timbuktu. In quel incipit c’era
già un intero universo, la capacità d’evocare un luogo
dell’anima a lungo inseguito alla stregua di una chimera.
Toumbouctou, come la chiamano i francesi. Anche se qui
preferiamo mantenere l’originale dicitura tamasheq, quel
Tin-Buktu che, letteralmente, stava ad indicare una «città
posta alla fine del mondo». Timbuktu la perla del deserto,
Timbuktu città dell’oro e dei 333 santi, crocevia mistico di
sabbia, fango e mistero. Che poi, fine ultimo o ombelico
del mondo, è solo questione di prospettive. Lo stesso
Ali, nel libretto del disco, contestava questa idea eurocentrica, rivendicandone invece con orgoglio l’assoluta
centralità spirituale. Quasi avesse voluto dirci: «Timbuktu
e le antiche pentatoniche del deserto sono il cuore della
faccenda. Non quello che vi ostinate a chiamare blues
afroamericano.» Ecco in nuce il segreto di un disco
certamente straordinario, ma non il migliore della sua
discografia. Un disco che - consapevolmente o meno,
poco importa - è stato capace d’utilizzare l’universalità del
linguaggio blues come passepartout per le radici westafrican nel mondo occidentale. Attenzione: radici è la parola
chiave. Perché dopo la sbornia della World Music, Talking
Timbuktu dimostra che esiste un pubblico vasto e ricettivo
anche riguardo la musica fatta dagli africani per gli africani.
Local music from out there la chiama il mensile britannico
fRoots; Musique et cultures dans le monde per restare
ai nostri cugini d’oltralpe di Mondomix. Talking Timbuktu
però, fu solo un pretesto. Per quanto infatti Cooder
giochi scientemente il ruolo del discreto comprimario,
resta un progetto di fusione programmatica. Ma è l’idea
che trasmette quel che più conta; quella di un disco di
autentico blues africano, che vuole dimostrare anche
all’occidente come quei suoni abbiano genesi e processi
ben più antichi e lontani. Non che prima d’allora non
fossero venuti alla luce, anche grazie allo stesso Ali, dischi
di siffatta specie. Solo che, appunto, questo faceva leva
su corde emotive particolarmente care agli appassionati
dell’emisfero Nord. Scoprire d’un tratto - grazie ad una
pubblicistica che metteva assieme il rinomato etnomusicologo americano ed un misconosciuto depositario
delle tradizioni maliane – che esiste una forma ancestrale
di blues africano, in evidente linea di continuità con il
suono del Delta, fu un detonatore irresistibile, il secondo
capitolo di un viaggio a ritroso verso le origini di un suono
che sta alla base esatta di tutte le musiche popolari del
Nuovo Mondo. Basti pensare alla febbre che contagiò i
musicisti inglesi negli anni ’60, il cosiddetto blues revival:
giovani musicisti pervasi dall’urgenza di riconnettersi con
le autentiche radici di tutto ciò di cui si era cibata la civiltà
occidentale nel secolo XX. Un’esigenza profonda che, in
fondo, coincide con le domande universali dell’uomo: «Chi
sono, da dove vengo, dove sto andando». Talking Timbuktu
rappresenta in qualche misura la logica conseguenza di
quella domanda, una smania esplorativa che attraversa
soprattutto le società secolarizzate, e che di lì a qualche
anno sarebbe culminata (almeno riguardo al blues) nel
documentario di Martin Scorsese From Mali To Mississippii.
Talking Timbuktu ha avuto il merito di fare breccia prima
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degli altri, meglio degli altri, in quella voragine identitaria.
Per quanto splendido, fu semplicemente il disco giusto al
momento giusto. Per altro corroborato dallo straordinario
orgoglio da primogenitore rivendicato dallo stesso Toure.
Lo incontrai nel 2000. Era già provato dalla malattia. Era
stanco ma indomito il somaro, e quando sentiva accostare
la sua musica a quella di un John Lee Hooker qualsiasi,
sapeva fulminarti con occhi vividi e metafore sublimi: «Non
esiste il blues americano. A John Lee Hooker dico questo:
lui non ha che le foglie ed i rami, io ho il tronco e le radici.»
Online
www.myspace.com/
alifarkatoureofficial
CD
Ry Cooder / Ali Farka Toure
Talking Timbuctu
World Circuit / IRD
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Le Tradizioni Musicali degli Uiguri:
Appunti per un Paesaggio Sonoro
di Giovanni De Zorzi
Mappa attuale della regione autonoma
dello Xinjang-Uygur
Ultimamente i giornali hanno portato all’attenzione dei
lettori il caso degli uiguri in occasione degli scontri avvenuti
nell’attuale Xinjang cinese. Tenendoci lontani dalle vicende
politiche, ci si concentrerà qui su quello che è considerato
il fiore della cultura uigura, la musica, inscindibile dalla
poesia e dalla danza. Gli uiguri sono un gruppo di genti
turche dal remoto passato: il termine On Oghur, compare
per la prima volta nell’iscrizione di Orkhon del 460 d.C.
che “censisce” i principali gruppi turchi esistenti da tempi
immemorabili, distinguendo Oguz, Uigur e Kirgyz. Prima di
tale data, sembra che gli uiguri fossero una confederazione
di clan provenienti dal bacino del fiume Selenga, nell’attuale
Mongolia settentrionale. Tra il 745 e l’840 d.C. in questa
stessa area essi fondarono un impero che fu in buoni
rapporti con la dinastia cinese Tang ma che si dissolse agli
inizi del IX secolo sotto gli attacchi dei Kirgyz.
Prima di tale data, sembra che gli Uiguri fossero una
confederazione di clan provenienti dal bacino del fiume
Selenga, nell’attuale Mongolia settentrionale. Tra il 745 e
l’840 d.C. in questa stessa area essi fondarono un impero
che fu in buoni rapporti con la dinastia cinese Tang ma che
si dissolse agli inizi del IX secolo sotto gli attacchi dei
Kirgyz. Per sfuggire a questi attacchi, gli Uiguri si divisero
in due: una parte verso i territori dell’attuale provincia
cinese del Gansu, e un’altra parte verso i territori dell’attuale
Repubblica autonoma dello Xinjang-Uygur (Xinjang-Uygur
Zizhiqu), l’area in cui vissero per secoli. Come accade
anche oggi, laddove essi sono “minoranza” islamica nel
mare della Cina, la spiritualità degli uiguri li distinse sempre
dai propri vicini: essi furono innanzitutto buddhisti, in un
contesto di genti sciamaniche; più tardi si diffusero lo
Zoroastrismo, il Cristianesimo nestoriano e il Manicheismo
divenne la loro religione ufficiale, soppiantata
definitivamente solo nel X secolo d.C. dall’Islam sunnita di
scuola giuridica hanafita. Geograficamente, l’area nella
quale vivono gli uiguri è tra le più radicali del pianeta: essa
assomiglia ad una immensa coppa di sabbia composta dal
deserto del Taklamakan e dalla depressione del Lop Nor,
coppa delimitata su tre lati dalle catene dell’Himalaya, del
K’un-lun Shan e del Tian Shan mentre rimane aperta ad
oriente verso il Gansu. In termini politici, lo Xinjang-Uygur
è incuneato oggi tra la Mongolia, a Nord; il Kazakhstan e il
Kyrgyzstan a Nord Ovest; l’Uzbekistan e il Tajikistan ad
Ovest; il Pakistan, l’India e il Tibet a Sud e la Repubblica
Cinese ad Est. Per lunghi secoli per designare questi
territori sconfinati si adoperò il termine “Turkestân
orientale”. Solo nel 1768 il termine venne – sintomaticamente
– sostituito dal termine cinese Hsin-Chiang, “Nuovi
territori”: a quella data risalgono le tensioni attuali. Per
ripararsi dall’occupazione e dalla repressione cinese, gli
uiguri si rifugiarono nell’Uzbekistan orientale, nel
Kyrgyzstan, nei territori del Kazakhstan sudorientale e, più
di recente, negli USA. La geografia dell’area condizionò i
principali stili di vita degli uiguri, seminomadi ai margini dei
deserti, sedentari lungo i fiumi. Dalle vette delle principali
catene montuose, infatti, scendono degli affluenti che
tenderebbero a collegarsi con il fiume principale, il Tarim
(l’area per secoli è stata detta anche Tarim Pendı, “Bacino
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Luca Baraldo
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La grazia ineffabile di Dilshat Iminov
L’area degli uiguri nel contesto storico della Via della Seta
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del Tarim”) ma che, in realtà, dopo pochi chilometri
finiscono per perdersi tra le sabbie. Grazie alla presenza
d’acqua, in alcune aree della regione si poté praticare
l’agricoltura e poterono sorgere dei centri urbani detti
“città-oasi” che costituirono la rete delle “Sei città”
(altıshahr), snodi commerciali e culturali di importanza
fondamentale ai bordi del deserto lungo la “Via della Seta”
e, più tardi, lungo la “Via della Giada”. Questa rete di centri
urbani fu nota per secoli anche con il nome di Kashgaria e
fu strettamente connessa con il mondo culturale
centroasiatico, iranico e indiano. Verso il X secolo,
islamizzati, gli uiguri si organizzarono in khânati, i più
importanti dei quali furono quelli delle città-oasi di Kashgar,
Yarkand e Khotan. Come accadde in Asia Centrale, la
differenza tra stili di vita nomadi e sedentari influì
direttamente sulla musica: con l’etnomusicologo Jean
During possiamo notare come la musica tradizionale dei
nomadi sia prevalentemente solistica, di ritmo libero, e
come l’ambitus melodico si limiti ad un intervallo di sesta o
di ottava. Nelle musiche delle genti sedentarie, invece, vi è
sempre un ritmo regolare, scandito su di uno strumento a
percussione; la linea melodica parte dal grave e s’innalza
di una o due ottave per gradi successivi giungendo ad un
apice detto awj (ôj), per ridiscendere, ed eventualmente
risalire ancora, in brani che abbiano più awj. Tra gli uiguri
sedentari si è sviluppata una tradizione classica detta
onikki muqam, (“dodici muqam”): come altrove in area
centroasiatica, anche per gli uiguri con il termine muqam si
intende un dato modo musicale e, allo stesso tempo,
l’ordinamento di diversi brani di ritmo differente in ampie
suites che presentano una coerenza modale interna,
perché raggruppate secondo un unico modo (muqam) di
riferimento. I dodici modi (muqamat) principali sono: rak,
chäbbiyat, mushaviräk, charigah, pänjigah, özhal, äjäm,
oshaq, bayat, nava, segah, iraq. Ogni suite viene suddivisa
formalmente in tre sezioni principali: dopo il muqam bashı
(letteralmente“testa, inizio del muqam”), preludio che serve
al solista per delineare ed esplorare il muqam prescelto, la
tripartizione di una suite generalmente segue lo schema: 1
chong naghme (“grandi canti”); 2 dâstân naghme, “arie
narrative”; 3 mashrap (“festa, banchetto”). L’onikki muqam
varia, però, radicalmente da regione a regione: i centri
classici di propagazione, dal corpus monumentale, sono
considerati Kashgâr e Yarkand; qui ogni suite dura circa
due ore e i musicisti in una performance si limitano a
proporne una selezione. Al Nord, invece, nella regione del
fiume Ili (Ili Kuljia) l’onikki muqam esiste in una versione più
breve e prende una maggior importanza il genere vocale
paragonabile alla “canzone” detto nakhshe (letteralmente
“decorazione, disegno”) e la breve suite (15-30 minuti) di
canzoni detta Ili nakhsesı, suddivisa in 5/12 parti ma
introdotta anch’essa, come nelle tradizioni della Kashgaria,
da un preludio a tempo libero, non misurato. Tra gli
strumenti degli uiguri, da considerare come elaborazioni
particolarissime degli strumenti diffusi in area mediorientale
e centroasiatica di cultura islamica, vanno ricordati i liuti a
manico lungo dutâr, tämbur, rawap; il tamburo a cornice
dap e i piccoli timpani naghra, spesso in coppia con l’oboe
sunay; il flauto nai, traverso e in legno come in area
centroasiatica; la cetra su tavola pizzicata qalun; la cetra
su tavola percossa chang; le vielle satâr, ghijek, khushtar.
Ovunque, a prescindere dalla regione, i testi cantati
appartengono al genere che la critica definisce amoroso/
mistico, profondamente influenzato dal sufismo (tasawwuf).
Essi provengono sia dai poeti classici d’area centroasiatica
dei secoli XV-XVII come Jâmi, Navâ‘i, Fûzulî, che dagli
uiguri Luppî e Saqqâki. Un caso a sé è dato dal canto delle
liriche di carattere mistico di Ahmad Yasawi (m. 1166) così
come dei poemi dei suo seguaci, ad esempio Bâbârahim
Mâshrâb (1640-1711) che hanno un particolare rilievo in
Suoni dal deserto asiatico
ambiente sufi. Radicalmente diverso nel panorama
musicale uiguro è il caso dell’etnia Dolan: seminomadi,
discendenti da un clan mongolo, essi vivono ai margini del
deserto del Taklamakan e ribadiscono l’autonomia della
loro tradizione culturale e musicale che chiamano muqam
dolan, oppure, più popolarmente, bayawan (“deserto”). Il
muqam dolan è interamente danzato; utilizza nove soli
modi musicali, invece di dodici; non è eptatonico, ma
esatonale o pentatonico; ogni suite è molto più corta
(massimo 10 minuti) di quella del muqam uiguro;
l’interpretazione è assai libera e ogni interprete intona la
melodia a suo modo: ne risulta un’eterofonia spiazzante,
libera, molto vicina ad un free jazz lirico, spaesato e dai
suoni delicati. Tra i dolan, ma più in generale ovunque ci si
trovi tra gli uiguri, il contesto privilegiato per far musica è il
mashrap, (“convivio”), momento di riunione che nel nome
stesso si richiama alla tradizione sufi, ma che è anche
gioioso ritrovo d’amici dove ci si sazia di cibo, di musica e
nel quale uomini e donne danzano liberamente. Il mashrap
è analogo al toy in area centroasiatica, un ciclo di feste
date in occasione di differenti momenti di passaggio della
vita umana che riunisce diverse centinaia di persone. Tra
gli uiguri il mashrap è più intimo, meno numeroso, ma
rappresenta tuttora il luogo ideale dove si ascolta musica e
dove gli artisti possono esprimersi in costante interazione
con il pubblico. Giunti sin qui si può solo accennare ad
alcuni generi più recenti, che vanno dagli ottocenteschi
poemi sinfonici dai tratti esotizzanti su motivi “foklorici”
composti da autori locali formatisi sul modello russoeuropeo-cinese; alle attuali versioni del pop occidentale
speziate da elementi autoctoni, che in un mix di strumenti
elettrici e tradizionali fanno scoppiare le autoradio,
esattamente come accade per le tarôna d’Asia centrale; ai
vari generi cinesi, sia “leggeri” che “classici”, arrivati al
seguito dell’invadente etnia Han.
Sanam Uyghur Ensemble
Discografia selezionata
Asie Centrale. Musique des Ouïgours. Traditions d’Ili et de
Kachgar - Inédit
Bu Dunya-This World. Songs and Melodies of the Uyghurs
- PAN Records / Felmay
Chine, Turkestan Chinoise/Xinjang. Musiques Ouïgures,
Ocora / Egea
Turkestan chinois, Le muqam des Dolan. Musique des
Ouïgours du désert de Takla-Makan, Inédit
The Silk Road: a musical caravan Smithsonian Folkways /
Egea
The Uyghur Musicians from Xinjiang: Music from the Oasis
Towns of Central Asia, Globestyle / IRD
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Ambrogio Sparagna ricostruisce il canone dei canti italiani. Il maestro di
Maranola, pioniere dell’organetto diatonico e infaticabile sostenitore del
nuovo folk revival, registra il suo primo disco con l’Orchestra Popolare
Italiana, complesso folk residente dell’Auditorium Parco della Musica
di Roma. Un disco che raccoglie una selezione di 14 canti provenienti
dal mondo della tradizione orale dell’Italia centro-meridionale ma con
ampie incursioni anche nella realtà del nord, ispirati alle forme e ai modi
della tarantella e poi rielaborate da Ambrogio Sparagna per l’Orchestra
Popolare Italiana, il complesso con cui il musicista e ricercatore
prosegue il suo personale percorso di studio e attenzione verso le
tradizioni, avviato con il rilancio dell’organetto, strumento tradizionale,
radicatissimo in tutto il territorio nazionale, ma scomparso fra gli anni
‘70 e ‘90 dall’uso comune. Poi via via con l’impegno discografico,
l’organizzazione di manifestazioni e rassegne – di particolare importanza
quella dedicata alla zampogna che ha contribuito a rilanciare l’attenzione
su questo mitico strumento della tradizione agro/pastorale - e il lavoro
al Festival La Notte della Taranta. Nel disco Taranta d’amore Sparagna
esplora come la tarantella, con il suo vorticoso ritmo ternario, abbia
influenzato il repertorio dei canti popolari italiani, in particolare della
fascia appenninica. Sparagna riscopre e reinventa questi ritmi mediante
un orchestra comprendente molteplici strumenti della tradizione
popolare suonati da valenti strumentisti: Federico e Riccardo Laganà
(tamburello), Ottavio Saviano (percussioni), Cristiano Califano (chitarra
battente), Redi Hasa (violoncello), Sambu Gruia (contrabbasso),
Emanuele Coluccia (sax), Marco Tomassi (zampogna gigante), Antonio
Vasta (zampogna), Erasmo Treglia (violino e ciaramella), Giuseppe
Grassi (mandoloncello) e le voci di Mario Incudine, Raffaello Simeoni,
Alessia Tondo, Gianni Aversano, Eleonora Bordonaro, poi Mimmo Epifani
(voce e mandolino). Francesco Filosa (organetto), Monica Neri (lira e
organetto). Un complesso poderoso per un progetto discografico che
potrebbe rivelarsi una svolta nella lettura delle nostre tradizioni musicali
da sempre considerate disomogenee nello stile dell’esecuzione. Taranta
d’amore è forse il primo passo di questa rivoluzione critica del nuovo
folk italiano ragione che ci ha spinto ad incontrare Sparagna per farcene
raccontare genesi e realizzazione.
La Taranta d’amore di
di Felice Liperi
Cosa rappresenta nel percorso del musicista questo
nuovo progetto? Come si inserisce nel suo lavoro di
ricerca?
Per realizzare questo nuovo disco sono partito dal
presupposto che la tarantella accomuna il paese, l’Italia
delle tradizioni popolari e nei suoi aspetti più arcaici. Una
centralità rafforzata dalla diffusione dell’organetto diatonico,
usato di luogo in luogo, con specificità peculiari e differenti
fra loro, ma omogeneizzate dal suo stile inconfondibile che
unisce tutto il paese, come accade al Blues, nel Sud degli
Stati Uniti, e con il flamenco in Andalusia.
Un assunto inedito però perché l’Italia è sempre
stata considerata un paese disomogeneo in quanto
a tradizioni, soprattutto fra Nord e Sud, come hanno
studiosi fondamentali come Roberto Leydi e Michele
Straniero. In che modo ha sviluppato questo nuovo
punto di vista?
Attraverso la costruzione di un’antologia di brani uniti dalla
taranta, un compito ora più facile dalla enorme popolarità
conquistata dalla pizzica soprattutto dopo il boom
salentino. Questo ci ha permesso di constatare che esiste
un repertorio che accomuna tutta l’area appenninica.
Brani legati a mondi musicali diversi, come l’area laziale
marchigiana fino al territorio siciliano. Questa ricerca dei
brani ci ha poi portato a trovare un altro elemento unificante
del patrimonio popolare nell’utilizzo dell’endecasillabo che
viene utilizzato in tutto il paese. Questo ci ha permesso di
rafforzare la dimensione poetica del repertorio tradizionale
e di recuperare un gran numero di strambotti laziali e
salentini - questi ultimi in particolare grazie al lavoro dei
fratelli Fuortes - proponendo la forma dello strambotto
come vera spina dorsale di tutta la fascia italiana. Una
novità perché finora si considerava lo strambotto come la
poesia della Toscana, con radici colte, cortesi, strettamente
legate alla nascita della lingua italiana.
Si può datare questo cambiamento di prospettiva?
Alla fine dell’800 quando si comincia a trasformare la
fisionomia di questo stereotipo falso che mette la Toscana
al centro delle lingue letterarie e musicali italiane. In quel
momento tarantella e strambotto cominciano a configurarsi
come forma alta di poesia cantata.
Dove avete tratto le fonti per questo nuovo
repertorio?
Nel lavoro prezioso di Costantino Nigra che in veste di
responsabile culturale del Governo Cavour alla fine dell’800
lanciò il primo gruppo di ricerca e studio sulla poesia
popolare fondamentale per il reperimento dei materiali, in
forma musicale e poetica via via circostanziati. Poi i fratelli
Gioacchino e Tarquinio Fuortes per i materiali del Salento
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i Ambrogio Sparagna
e Zanazzo del centro Italia e del Lazio in particolare. Poi
però il lavoro con l’Orchestra, e quindi nel disco Taranta
d’amore, diventa quello di rielaborazione musicale che a
me pare fondamentale per far conoscere i materiali ad un
pubblico più ampio.
Quindi il canto e il testo rimangono centrali per il
lavoro dell’Orchestra e per riprendere il lavoro di
ricerca che lei avviò molti anni fa dopo gli studi con
Diego Carpitella?
Direi proprio che ho ripreso la ricerca attraverso la
trattazione dei canti perché credo che la poesia e il canto
siano alla base della tradizione popolare. Anche la danza
è segnata dalla poesia, non esiste il concetto della musica
strumentale perché l’obiettivo è il rito, solo ricostruendo
una letteratura musicale si può fare un lavoro nuovo. Ecco
perché tutti i brani del disco sono cantati, l’obiettivo era
quello di rinsaldare il rapporto fra parola e musica.
In che modo questo lavoro mantiene coerenza con la
filologia dell’ etnomusicologo?
La differenza sta nel tentativo fondamentale di rilanciare,
reinventare quasi, la tradizione. Un’operazione per la
quale è fondamentale il ruolo della voce, infatti ho voluto
che tutti i componenti dell’Orchestra Popolare Italiana
fossero cantanti prima di tutto in grado di esprimersi nella
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loro cultura. Come nel caso del griko con cui si esprime
il canto di Alessia Tondo giovanissima interprete del
canto salentino. Però anche nel suo caso si tratta di uno
strambotto (Ilie-mu) proveniente dalla Grecìa Salentina.
Ecco un altro esempio di elemento unificante fra le
tradizioni popolari italiane: lo strambotto, come pure i
dialetti e la poesia cantata che si esaltano nella vocalità
che diventa portatrice di un messaggio universale. Qui
credo stia la ragione del successo della taranta in tutto il
mondo, dall’ultima edizione del WOMEX, dove l’Orchestra
è stata accolta molto calorosamente, alla Cina dove
abbiamo avuto un grande successo.
Ha accennato alla fondamentale forza del canto
popolare e del testo ma quali sono gli altri contesti in
cui questo messaggio si esprime con maggior forza?
Sicuramente anche in Sicilia dove il cunto dei cantastorie
si presenta come una vera e propria poesia cantata. Poi il
grande successo della Notte della Taranta, normalmente
identificato con la dimensione ritmica del ballo salentino,
invece credo stia nei brani cantati dove l’identità popolare
si manifesta con grande forza perché funzionale al contesto
in cui si esprime.
Recensione CD pagina 42
L’Oralità ha una Casa: Squilibri.
Un catalogo di musiche tradizionali: dalla Sicilia all’Umbria fino alla Lombardia
di Antonello Lamanna
Si chiama Squilibri e sarebbe davvero inadeguato
definirla una piccola casa editrice dopo aver curiosato
nel suo ricco catalogo, che vanta ormai moltissimi
titoli, dai libri con dischi, ai documentari sul patrimonio
della culturale orale italiana senza contare le firme dei
più accreditati studiosi e appassionati del settore.
Dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la Calabria,
la Puglia e l’Umbria, quei saperi tramandati oralmente
sono finalmente salvati e pubblicati grazie alla geniale
intuizione del direttore editoriale Domenico Ferraro,
che in pochi anni è riuscito a far diventare la casa
editrice un punto di riferimento per studiosi e musicisti
di tutt’Italia. Ne discutiamo con l’amministratore e
titolare del marchio Squilibri, Elena Salvatorelli
Musica tradizionale, oralità e tradizioni popolari d’ogni
parte d’Italia, com’è nata l’idea di una casa editrice
altamente specializzata?
In maniera abbastanza casuale, nel 2001, su sollecitazione
di alcune associazioni culturali legate al mondo tradizionale
che avvertivano l’esigenza di uno strumento operativo più
rispondente alle loro esigenze. Questo spiega l’avvio,
per così dire, timido delle attività: dovevamo verificare
l’effettiva esistenza di un mercato per questi prodotti e
il carattere eterogeneo delle primissime pubblicazioni,
essendo ancora noi alla ricerca di un identità. Una sorta
di banco di prova, durato due anni, fino al 2004, quando
abbiamo deciso di dedicarci pressoché esclusivamente
alle musiche di tradizione in tutte le loro possibili
declinazioni.
Quali sono le linee lungo le quali vi muovete?
Principalmente tre, vale a dire materiali sonori di rilevante
interesse storico, materiali sonori altrettanto interessanti
ma riguardanti il presente e, infine, le disparate possibilità
di riuso dei materiali della tradizione.
Nel primo ambito rientra la collana AEM-Archivi di
Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa
Cecilia, con la pubblicazione delle registrazioni dei padri
dell’etnomusicologia italiana, da Nataletti a De Martino,
da Carpitella a Cirese, da Collaer a Liberovici, per limitarci
ai volumi già editi, ma anche la pubblicazione di opere
monumentali di singoli ricercatori come Roberto De
Simone per la Campania – uscirà a breve un volume con
7 cd allegati- e Valentino Paparelli per l’Umbria. In questo
ambito rientra anche la collana AESS, appena inaugurata
con il volume Patrimoni Sonori della Lombardia, sui
materiali, anche audiovisivi, raccolti e conservati
dall’Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione
Lombardia, tra le più significative esperienze di ricerca
e valorizzazione delle culture orali in Italia, fondata da
Roberto Leydi nel 1972 e tuttora molto attiva.
Nel secondo gruppo, rientra la collana ATM - Archivio
Tradizioni Musicali (U sonu, Le voci dell’Anio, Per voce
sola etc...) ma anche Sinestesie (La capra che suona e
Nel paese dei cupa cupa), vale a dire ricerche, in un caso
settoriali, nell’altro estese a ambiti regionali, sullo stato
attuale della musica popolare, stato di ottima salute direi
malgrado le troppe frettolose dichiarazioni di morte della
tradizione.
Nel terzo gruppo possiamo per brevità collocare tutto
il resto, vale a dire la collana discografica (con progetti
artistici segnati da un richiamo alle tradizioni), A viva voce,
su esponenti di spicco del cosiddetto folk revival come
Otello Profazio, o anche operazioni di confine, come
l’Omaggio in musica a Rocco Scotellaro o a Eugenio
Cirese, vale a dire progetti artistici originali carichi di
suggestioni mutuate dalla tradizione.
Riesplode il gusto per la musica popolare, ma anche
per i libri e i dischi : è una moda del momento o è
una specie di affermazione della propria identità
culturale?
Ho un’istintiva diffidenza verso i ricorrenti discorsi attorno
al recupero della tradizione come veicolo di affermazione
della propria identità, se non altro per le pericolose
implicazioni che presentano, emerse di recente in alcune
strumentali prese di posizione a favore dei dialetti. Più che
una moda, mi sembra un delirio collettivo, destinato a durare
ancora a lungo e, dunque, ad aumentare la confusione del
momento, segnata da un’unità indifferenziata tra fenomeni
profondamente diversi, per quanto allo stesso modo
interessanti e degni di attenzione. Insomma, un conto sono
le testimonianze attorno a antiche e, nella maggior parte dei
casi, ormai dismesse forme di espressività popolare, che è
dunque particolarmente urgente recuperare e valorizzare
alla stregua di qualsiasi altro documento storico, un altro
le rielaborazioni personali di cui bisognerebbe semmai
esaltare l’originalità senza contrabbandarle come frutto
di una tradizione mal compresa e, dunque, nella maggior
parte dei casi assai bistrattata.
Rischi, passioni e investimenti, tre
direzioni obbligatorie?
Alla base di un lavoro come il nostro c’è,
ovviamente, una componente sentimentale,
vale a dire un’adesione istintiva e profonda,
come solo la passione può suscitare, verso un
mondo e le sue espressioni. Per reggere però
i rischi che comporta un progetto obbligato a
declinarsi anche in termini imprenditoriali, c’è
bisogno di strutturare quella stessa passione
in una visione coerente, in un progetto anche
intellettuale attorno alle modalità e procedure
più appropriate di intervento. Quali che siano
i risultati raggiunti, non tocca certo a me dirlo,
non avremmo potuto raggiungerli senza il
conforto dei nostri ormai non pochi autori, le
loro competenze e i loro saperi.
A. Ricci
Un settore editoriale che fino a qualche anno fa era
destinato solo ad una piccola nicchia di lettori, ora
qualcosa sta cambiando?
Il grande fermento attuale sulla musica popolare mi sembra
che riguardi per lo più la sua spettacolarizzazione, mentre
in quei lettori disposti ad approfondirne la conoscenza è
aumentata, per nostra fortuna, la determinazione a dotarsi
di strumenti più adeguati di comprensione, vale a dire studi
rigorosi e ricerche dettagliate sul campo che possano
attestare forza , persistenze e modifiche di determinate
tradizioni, al di là delle vaghe ed enfatiche celebrazioni del
momento.
Sant’Arcangelo, mattina del Venerdì Santo
La Madonna in pellegrinaggio
Turuzzu Cariati con il padre Basile
in un canto con chitarra battente
Distribuire il libro è diventato ormai un compito
complicato e sempre più difficile, come si articola
questo settore?
La grande distribuzione non è interessata a prodotti come
i nostri e, credo, a ragion veduta, almeno dal loro punto di
vista. La rincorsa ossessiva alla novità, determinata dalla
necessità di raggiungere sull’immediato grandi numeri
di vendita, mal si concilia con un’attività editoriale che,
puntando invece su volumi destinati a durare nel tempo
perché non legati all’attualità, si gioca le proprie possibilità
nel medio e lungo periodo: d’altronde, che senso ha ritirare
dalle librerie, dopo tre mesi di permanenza, le registrazioni
salentine di De Martino e Carpitella per far posto alle
novità? Allo stesso modo, però, abbiamo già verificato
come il fare tutto in proprio, puntando a un rapporto diretto
con le librerie, comporta una fatica immane che rischia di
distoglierci dal resto. In ogni caso, con problemi ancora
non risolti, non possiamo lamentarci essendo in molti casi
giunti ormai alla terza ristampa di volumi che, per la grande
distribuzione, non hanno mercato.
Squilibri, è ora un punto di riferimento nazionale
per studiosi, appassionati, musicisti e curiosi, sta
pensando ad altri target?
Per una squadra alquanto esile come la nostra, mi pare
già molto impegnativo mantenere questo risultato: nessun
cambiamento all’orizzonte, dunque, anche perché non
siamo interessati a fare altro se non quello che stiamo già
facendo.
Nel panorama musicale italiano si avverte un certo
ritorno a tutto quello che è tradizionale e che una
volta apparteneva a un genere politicizzato per pochi,
è ancora così?
A mia volta sono giovane e, dunque, priva di una memoria
personale sugli anni ’70, un periodo in cui particolarmente
vivo era in Italia l’interesse per le culture orali. Forse
anche per questo, non mi hanno mai entusiasmato alcune
esaltazioni ideologiche che, a mio parere, rischiavano
di immiserire il valore e la portata di quelle espressioni
musicali, la cui intrinseca connotazione politica era già
fin troppo evidente e, dunque, non aveva - né mi sembra
abbia ora- alcuna necessità di essere esasperata. In ogni
caso, oggi mi sembrano prevalere, in chi si accosta alla
musica popolare, le motivazioni di ordine culturale ed
estetico.
Che sta preparando per il nuovo anno?
Senza far torto ai numerosi progetti in via di definizione,
credo che l’operazione di gran lunga più interessante
sia l’avvio della pubblicazione della raccolta LomaxCarpitella, a partire dalla sezione pugliese a cura di
Maurizio Agamennone.
online www.squilibri.it
Quali sono i libri più venduti del suo catalogo?
Contrariamente alle nostre stesse aspettative, quelli in
linea di principio più impegnativi, come le registrazioni di
Carpitella e De Martino, non solo in Salento ma anche
in Calabria, o le visioni d’insieme sulla musica popolare
di regioni come la Calabria e la Basilicata: in effetti i
volumi che riguardano il meridione sembrano avere una
forza d’attrazione e un appeal maggiore sul pubblico,
per quanto stia andando bene anche il volume Patrimoni
sonori della Lombardia.
E’ la musica o l’accademia che avvicina i giovani a
occuparsi di queste tematiche?
Non saprei rispondere con precisione, ignorando le vie
per cui molti giovani oggi mostrano interesse, anche nelle
forme più disparate, per tutto ciò che riguarda la musica
popolare. Molto dipende anche dal suo essere attualmente
molto in voga, il che non li aiuta a un approccio corretto
a questo mondo: l’accademia potrebbe e dovrebbe
esercitare al riguardo un ruolo decisivo.
M. Agamennone
Oltre ai libri, Squilibri prende parte a grandi eventi
culturali, come mostre, concerti, rassegne musicali, di
che si tratta?
In questo paghiamo il nostro peccato d’origine, l’esser
cioè nati come per filiazione da un’associazione culturale,
Altrosud, con la quale continuiamo ad avere rapporti di
collaborazione molto stretti su alcuni progetti mirati, come
ad esempio quello dell’Archivio Sonoro della Puglia. Più in
generale, forse anche per questo siamo molto sensibili alle
attività di animazione attorno ai libri e a ciò che indicano
e rappresentano, facilitati anche dal fatto che quasi tutti
i nostri volumi hanno in allegato uno o più cd, con un
rimando diretto dunque alle possibilità di repliche dal vivo.
Intercettando in questo modo l’attenzione di un pubblico
più vasto dei lettori militanti, non solo irrobustiamo il
progetto culturale generale ma facilitiamo anche la vita e
la diffusione degli stessi volumi, compensando in qualche
modo le non poche difficoltà di distribuzione.
Un bambino confratello di Agnone
06 Inverno 2009
32 Mondomix.com
Il Cammino della Musica
Intervista a Andrea Zuin
di Renata Tomasella
Musicista,
trevisano,
diplomato
in
chitarra
classica e laureato in
“Lettere
ad
indirizzo
musicale” all’Università Ca’
Foscari di Venezia. E’ partito
da Treviso nel febbraio 2009,
a bordo di un camper.
Obiettivo?
Attraversare
tutta l’Italia da Nord a Sud,
isole comprese, entrando in
contatto e documentando
le realtà musicali autoctone
più rappresentative delle
regioni e delle città visitate.
Come è nata l’idea de Il cammino
della musica?
Il progetto è nato dal desiderio di
abbinare le mie due grandi passioni: la
musica e il viaggio.
Credo che viaggiare seguendo il filo
conduttore della musica tradizionale
possa essere un modalità interessante
per conoscere un paese, i suoi abitanti,
chi fa musica, e soprattutto per capire
la funzione sociale che la musica riveste
in qualsiasi comunità.
La prima edizione del tuo Cammino
si è svolta in America Latina: come
mai?
Il Sudamerica è stata sempre una delle
mie mete più ambite; durante un viaggio
da turista in Paraguay sono rimasto
affascinato dalle musiche eseguite
da una comunità indigena. Questa
esperienza mi ha portato ad organizzare
la prima edizione del progetto Dal
Tango alla Musica caraibica: 8 mesi (da
aprile 2007) di reportage multimediale
on the road tra Argentina, Paraguay,
Brasile e Venezuela alla scoperta delle
varietà musicali latino-americane e
delle tradizioni italiane mantenute dai
nostri migranti.
Che cosa ti ha colpito tra le comunità
italiane in America Latina?
Nelle comunità che ho incontrato, in
particolare di veneti, il mantenimento
delle
tradizioni
è
direttamente
proporzionale alla nostalgia per l’Italia;
anche le nuove generazioni hanno la
curiosità di conoscere e di mantenere
inalterati gli usi, i costumi e la musica
dei paesi di origine dei nonni. Il risultato
è una sorta di fotografia delle tradizioni
italiane che rimangono cristallizzate, in
quanto mancano i presupposti per una
loro evoluzione.
Veniamo
al
progetto
attuale
chiamato Io suono italiano? Perchè
questo titolo?
Ho impiegato molto tempo per
trovare un titolo funzionale a questo
progetto. La scorsa edizione si
chiamava Il Cammino della Musica Dal Tango alla Musica Caraibica un
titolo accattivante, musicale e che
fornisce immediatamente due precise
coordinate geografiche e dà quindi
l’idea di movimento. Per l’edizione
italiana però non calzava un sistema
corrispondente. Così ho pensato
a questo titolo che è ugualmente
polifunzionale: per un verso vuole
essere una provocazione o una presa
di coscienza: ma io, sto suonando
italiano? oppure un gioco di parole: io
suono italiano secondo me è un modo
alternativo per dire io sono italiano. E’
infine un invito: le comunità di immigrati
qui in Italia stanno suonando italiano?
Dopo otto mesi di viaggio sono pronto
a cambiare quel punto di domanda con
un punto esclamativo.
Come viene finanziato il progetto?
Purtroppo il mio viaggio italiano è
iniziato proprio in questi mesi di
profonda crisi economica! Alcuni
finanziamenti, inizialmente promessi,
mi sono poi stati negati.
Ho deciso quindi di giocarmi la carta
del Video Show: uno spettacolo in
cui racconto, con parole, musica e
immagini, il mio viaggio in America
Latina. Ho inserito nel mio spettacolo
anche alcuni elementi del viaggio
italiano: ne risulta così un work in
progress che fa da vaso comunicante
tra le due esperienze. In ogni tappa che
faccio propongo il mio Video Show,
che viene spesso acquistato.
L’introito di queste esibizioni mi
garantisce di mandare avanti la
carovana. Il camper che utilizzo mi
è stato fornito dall’ Associazione
camperisti Marca Trevigiana e Museo
della Moto di Treviso, e mi avvalgo di
una serie di attrezzature (videocamera,
registratore,
computer,
cellulare,
etc.) messe a disposizione da alcune
aziende private. Inoltre collaboro con
radio e tv (anche sudamericane) che
stanno seguendo con molta attenzione
il cammino della musica.
Ho visto sul tuo sito molti video che
documentano feste, riti, balli e canti,
e solo un paio relativi ai costruttori di
strumenti. Come mai?
06 Inverno 2009
33 Mondomix.com
Premetto che l’ obiettivo del mio progetto
è far conoscere e divulgare la bellezza
e il valore musicale delle tradizioni del
nostro paese e la funzione sociale di
queste musiche. La documentazione
che io raccolgo non è destinata agli
addetti ai lavori, per cui non vuole essere
una ricerca metodologicamente corretta
che esamina gli aspetti tecnici, estetici
o esecutivi dei patrimoni musicali che
incontro.
Ciò non toglie che io, per curiosità
personale, stia toccando con mano la
complessità del linguaggio musicale
tradizionale, che oggi può sopravvivere
ed esprimersi
a certi livelli anche
grazie all’evoluzione sapiente che si è
avuta nella costruzione degli strumenti
musicali, grazie all’utilizzo di tecnologie
avanzate e alla ricerca sui materiali.
La funzione sociale della musica
è legata soprattutto ai riti. Quali
analogie hai trovato con l’esperienza
latinoamericana?
L’aspetto che lega il sacro al profano è
molto forte sia in Italia che in America
Latina.
Sono reduce da una festa a Polsi (RC)
che si celebra ballando la tarantella
calabrese ed eseguendo canti dai testi
trasgressivi di fronte al santuario della
Madonna: le preghiere fatte all’interno
della chiesa vengono amplificate
all’esterno, mentre la rota di ballerini,
con al centro i musicisti, continua la
sua danza (che una volta poteva essere
eseguita in chiesa); sono arrivato alle
6 di sera e alle 6 del mattino seguente
si stava ancora ballando (con gli stessi
suonatori!). Alla mia domanda come
riuscite a suonare così a lungo? la
risposta è stata la stessa che ho ricevuto
in una situazione simile in Brasile: per
amore dei Santi! Ho trovato in molte
feste tradizionali questa commistione
tra sacro e profano che la Chiesa ha
tollerato per secoli e che oggi tende a
disconoscere e a reprimere.
Quali
sono
gli
elementi
che
accomunano tutte le manifestazioni
musicali che hai documentato?
Uno sicuramente è la voce: lo strumento
presente in qualsiasi tradizione!
Ricordo in modo particolare la voce di
Giannina: per 40 anni, insieme al marito,
ha girato le province di Teramo e Ascoli
Piceno cantando storie, soprattutto
storie di santi tratte dai santini venduti
sui mercati, oppure cantando diesille le
preghiere per i cari morti.
La sua voce tagliente mi ha spezzato il
cuore! Quando canta pare trasformarsi
in un altro essere e nella drammaticità
della sua voce puoi cogliere tutte le
esperienze del suo vissuto. Lo considero
uno dei momenti più commoventi del
mio viaggio.
06 Inverno 2009
Un altro elemento presente in ogni
tradizione è la festa: la più bella a cui ho
partecipato è stata quella organizzata in
una tendopoli in provincia dell’Aquila e
trasmessa in diretta su Rai Radio 2. Ho
potuto constatare quanto sia importante
riuscire a fare festa anche in situazioni
difficili: i sentimenti e le emozioni
negative degli sfollati presenti si sono
ben presto trasformati in una grande
carica di energia positiva, e tutto questo
grazie alla musica e al canto!
Le prossime tappe del tuo cammino?
Proprio oggi (29 settembre) attraverserò
lo stretto di Messina e dedicherò tutto
ottobre alle tradizioni siciliane. Il mio
viaggio di ritorno durerà fino a Natale
e sarà scandito da molte tappe: voglio
tornare a trovare alcune delle persone e
delle situazioni musicali che sono stati i
veri protagonisti del cammino!
Che sviluppi immagini alla fine del
viaggio?
Sicuramente costruirò uno spettacolo:
è la forma più diretta ed efficace
per divulgare la mia esperienza. Sto
scrivendo il racconto dell’esperienza
latino americana e scriverò anche quello
sul cammino italiano. Verranno richiesti
interventi nelle scuole, in trasmissioni
radiofoniche e televisive, etc...me lo
auguro!
Le tue considerazioni finali?
La musica di tradizione è viva, e gode di
buona salute: soprattutto nelle situazioni
in cui la trasmissione della conoscenza
avviene direttamente dagli anziani ai
giovani.
Ci sarà un Cammino della musica 3?
Spero proprio di si! Il mio nuovo progetto
è un cammino nei paesi intorno all’Italia,
in particolare quelli con cui condividiamo
il mar Mediterraneo.
Gli incontri e le esperienze di Andrea sono documentati da filmati,
registrazioni, fotografie e commenti che vengono quotidianamente pubblicati
sul sito www.ilcamminodellamusica.it
Sullo stesso sito si trova anche tutta la documentazione relativa all'esperienza
latinoamericana.
Chi vuole condividere (e magari
finanziare!) il progetto di Andrea, oppure
desidera il suo spettacolo Video Show,
può contattarlo direttamente:
[email protected]
L'intervista con Andrea Zuin è stata
realizzata il 29 settembre 2009 da
Renata Tomasella, cantante, suonatrice
di piffero-ocarine-flauti e... giornalista
per un giorno!
34 Mondomix.com
Grammy Made in Italy
Assegnato il Premio Nazionale Città di Loano per la
Musica Tradizionale Italiana. Trionfano Carlo Muratori,
Giovanna Marini e la Scuola Popolare di Musica di
Testaccio in Roma
di Ciro De Rosa
Al giro di boa dei cinque anni la manifestazione, organizzata
dalla Compagnia dei Curiosi con il contributo delle
istituzioni locali e la direzione artistica di John Vignola,
si rafforza con una programmazione di tutto rispetto.
Cresce la sezione laterale de “il Premio incontra,” che
propone riflessioni di musicisti, discografici, giornalisti,
ma anche eventi spettacolari, come gli appuntamenti con
un irresistibile Peppe Barra e con la torinese Orchestra
di Porta Palazzo.
I palchi serali accolgono alcuni degli artisti più votati nel corso
dei mesi precedenti dall’autorevole giuria del Premio. Diverte
il folto pubblico l’accattivante spettacolo degli Acquaragia
Drom, splende l’astro vocale di Anna Cinzia Villani, ugola
straordinaria che vola con naturalezza verso le vette del canto
salentino, con sobrietà ed eleganza di scena. In quartetto
presenta materiali tratti dal suo album Ninnamorella, tra i
più votati dalla giuria del Premio che quest’anno ha eletto
La padrona del giardino, di Carlo Muratori, disco dell’anno
per la musica (neo)tradizionale italiana. Riconoscimento
più che appropriato per un artista dal piglio folk-rock, che
come pochi sa riflettere – come ha fatto nel suo bel set
loanese – su passato e presente della Sicilia. Protagoniste
anche le Faraualla, quartetto dal portamento ieratico e dalla
Carlo Muratori
miglior disco dell'anno
riconosciuta destrezza vocale, felice nella costruzione di brani
che sommano forme antiche, stilemi popolari ma anche moduli
contemporanei, senza mancare di spunti ironici. Il premio alla
realtà culturale è stato assegnato dalla direzione artistica alla
Scuola Popolare di Musica di Testaccio in Roma, dal 1975
impegnata in una tenace attività didattica di altissimo profilo.
Sulla stessa linea il premio alla carriera, conferito nel corso
di un’anteprima della manifestazione a giugno, a Giovanna
Marini, che della Testaccio è una delle colonne.
Picco finale del festival ligure Storie di Faber. Tradizione
e folklore nella musica di De Andrè, produzione originale,
in omaggio di un poeta e musicista che ha incarnato nella
musica e nei testi la dialettica tra antico e moderno, con
persistenti rimandi all’universo popolare nelle uso delle
forme poetiche e nei temi. Hanno dato vita ad un serata
soddisfacente e perfino toccante, animata da una platea
gremita, Carlo Aonzo e il suo ensemble Mandolin Cocktail,
Peppe Voltarelli, Lou Dalfin, Davide Van de Sfroos,
ma soprattutto Nando Citarella con i suoi Tamburi del
Vesuvio e La Macina di Gastone Pietrucci. Questi ultimi
due gruppi si sono fatti portatori di una rilettura personale
quanto profonda dei materiali deandreani, sposata
sapientemente a canti della tradizione rispettivamente
siciliana e marchigiana.
In definitiva, ancora una volta il Premio di Loano
Carlo Muratori
una conferma
Anna Cinzia Villani
una voce straordinaria ed elegante
propone felicemente un progetto che esplora i passaggi
prossimi tra musica tradizionale e canzone d’autore.
Tuttavia, la speranza è che in futuro conservi la centralità
dell’espressività popolare nelle tante declinazioni della
Penisola, per non rischiare una sovrapposizione della
manifestazione, unica nel suo genere per aver scelto di
dare visibilità alla musica popolare, con altri eventi che
riservano costante attenzione alla canzone d’autore.
Cosa
Premio Nazionale per la Musica Tradizionale Italiana
Dove Loano, SV
Quando Luglio 2010
Online www.myspace.com/suonidellatradizione
06 Inverno 2009
35 Mondomix.com
Ascoltando musica
sotto l’albero della vita
Una settimana al Festival di Musiche Sacre del Mondo a Fez
di Emanuele Enria
Il progetto Melos diretto da Keyvan Chemirani che porta
avanti da diversi anni una ricerca sulle sonorità dell’Oriente,
dell’Africa e del Mediterraneo, lo straordinario Oratorio del
compositore siriano Abed Azrie, le danze dei Dervisci
della confraternita di Konya in Turchia, rivisitate nella
seconda parte dal danzatore contemporaneo Ziya Azazi
nel suo programma Icons, su base di musica elettronica
con un solo suonatore di tromba in scena insieme a lui e a
un’altra danzatrice. Bellissimo momento di confronto tra
tradizione e contemporaneità, e altrettanto interessante
osservare le diverse reazioni del pubblico (con alcune
donne che se ne vanno dopo qualche minuto ed altri
che rimangono assolutamente incantati). Ma anche le
danze indiane kuchipudi di Shantala Shivalingappa,
Shantala Shivalingappa
Ci sono luoghi dove la musica genera pensieri, oltre che
emozioni. Potremmo dire che il rapporto tra un luogo e
la musica che vi viene suonata contenga un elemento
potenzialmente magico, se scelto a dovere: abitare giorni
dove un pensiero introduce ad una musica, la musica nel
suk di una città, e così via fino a notte, in un gioco di
rimandi che si completano. Immagino siano stati proprio
questi gli ingredienti che hanno portato la bellissima città
di Fez, in Marocco, a ospitare da ormai 15 anni, nella
settimana tra maggio e giugno, il Festival di Musiche
Sacre del Mondo. Il festival contiene al suo interno varie
sezioni distribuite nell’arco di ciascuna giornata. Si inizia
al mattino con i Rencontres de Fez, momento filosofico
per eccellenza dove scrittori, scienziati, pensatori e artisti
discutono sui grandi temi della vita, per proseguire nel
pomeriggio e nella sera con i concerti del programma
Musiques Sacrées che, quest’anno, vantava tra gli ospiti
le melodie del libanese Marcel Khalife e l’Al Mayadine
Ensemble. Khalife ha aperto la prima serata (alla presenza
della regina del Marocco) nella cornice della piazza Bâb Al
Makina, con un omaggio al poeta palestinese Mahmoud
Darwiche, scomparso recentemente, di cui ha messo in
musica alcune delle più celebri composizioni come Ma
Mère o Rita et le Fusil. Quasi tre ore di concerto, sempre
accompagnando la sua voce con l’oud, liuto a manico
corto, alternando poemi e sonorità arabe a brani che
risentono dell’influsso dei chansonniers francesi e persino
del tango.
Bab Al Makina Ziya Azazi - Les Derviches tourneurs de Konya
Bab Al Makina Ziya Azazi - Les Derviches tourneurs de Konya
Ziya Azazi
Marcel Khalifé e l’Al Mayadine Ensemble
06 Inverno 2009
grande interprete di questo stile anche attraverso
collaborazioni con la compagnia di Pina Bausch e
Maurice Bejart; le musiche di tradizione Giudeo, Arabo
Andalusa dell’ensemble americano Yuval Ron Ensemble
& Najwa Gibran, lo Zabit Nabizadé Trio dell’Azerbaidjan
con il repertorio mugham che riunisce nelle sonorità di
una voce accompagnata da strumenti a corde elementi
del maqam iraniano, del radif della Persia e del makam
Notti Sacre
36 Mondomix.com
turco; le polifonie corse dei sempiterni Muvrini, la
deliziosa cantante franco – algerina Souad Massi,
il jazz di Didier Lockwood nel suo progetto Corde e
Anima che si contamina con la musica araba e i canti
ispirati ai poemi del mistico andaluso Ibn Arabi (figura
immensa nel panorama della Spagna del XIII secolo) di
cui sono tra l’altro stati affrontati il pensiero e le opere
proprio durante i Rencontres del mattino. Fino alle
magiche notti sufi, ogni sera alle 23, uno dei momenti
più belli del Festival, quando nella piccola piazza
di Dar Tazi, dentro la Medina di Fez, la gente siede
sui tappeti (e quanto ci sarebbe da dire sui tappeti e
su come i berberi vi tessono sopra il loro alfabeto di
segni!) e ascolta gioiosamente questi canti sacri delle
diverse confraternite sufi. Un amalgama di voci acute e
stridenti accompagnate da tamburi e percussioni, dove
talvolta la sola pronuncia di una parola, il nome stesso
di Allah ripetuto, si fa melodia polifonica. Tra questi,
per esempio, la Confraternita di Issawiya, fondata
a Meknès da Muhammad Ben Aïssấ (1465 – 1526),
presente ormai in Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto; la
Confraternita Hamdouchiya il cui santo patrono è Ali
Ben Hamdouch, vissuto nel XVII secolo sotto il regno
del sovrano del Marocco Moulay Ismaïl, rappresenta un
rituale di preghiera in cui le lodi al Signore vanno via
via crescendo in canto fino ad esplodere in una danza
circolare, liberatoria, estatica. L’Ahl Tourat Soufi, che
riunisce i maggiori rappresentanti della musica popolare
sufi di Fez, ma anche i deba delle donne di Mayotte
(premio France Musique des Musiques du Monde 2009),
le isole situate tra la costa africana e il Madagascar.
Il deba è una pratica cultuale che mescola musica e
danza, dove le melodie sono estratte da parole dei Testi
Sacri cantati in arabo, e la danza, di sole donne, è fatta
di movimenti essenziali delle mani, delle braccia e della
testa, una sorta di invocazione danzata.
Ogni edizione del festival sceglie un simbolo, sotto il
quale vengono posti i Rencontres del mattino. L’edizione
del 2009 ha scelto quello dell’Albero della Vita, simbolo
contenuto in quasi tutte le tradizioni e che i Rencontres
hanno affrontato da diverse angolature, partendo
dall’origine del mondo (dal Bing Bang alle interpretazioni
che ne danno le religioni) toccando creazionismo ed
evoluzionisimo, diritto alla vita e alla morte, e simboli
femminili nei testi sacri.
EnsembleRazbar
Souad Massi
06 Inverno 2009
Notti Sacre
Così, ogni mattina, nella meravigliosa cornice del
Museo Batha, costruito da Moulay Hassan alla fine del
XIX secolo con la funzione di residenza estiva del Re
durante le udienze, ed oggi sede del museo delle Arti
e della Tradizione, proprio sotto una quercia secolare
che simbolicamente protegge con le sue fronde le
mura interne del cortile, ci si sedeva ad ascoltare
la teoria del Big Bang raccontata dall’astrofisico
vietnamita Trin Xuan Thuan, per scoprire che siamo
tutti nati dalla polvere delle stelle, concetto fisico ma
anche intrinsecamente poetico, e che il vuoto che
tanto terrorizza tutti i sistemi filosofici occidentali,
ha una valenza positiva nel Buddismo, dove tutto
è interdipendente. Per questo, ha raccontato Xuan
Thuan, è per lui assolutamente normale essere un fisico
che studia e crede nella teoria del Big Bang e, nello
stesso tempo, rimane profondamente buddista nella
visione del mondo. Bisognerebbe aggiungere ancora
qualcosa sull’importanza dei luoghi, a Fez soprattutto,
dove sedere nei cortili interni tra alberi di aranci e fiori,
rimanda alla tradizione persiana e la sua arte di ricreare
un giardino dentro le case, giardino che la stessa parola
Paradiso, di origine persiana, denota proprio come il
Giardino primordiale. Altrettanto coinvolgente ascoltare
uno psicanalista come Fethi Benslama analizzare
gli effetti della psicanalisi sulla cultura musulmana,
coglierne i cambiamenti e le reazioni davanti alle nuove
scoperte della scienza, della psicanalisi stessa, delle
scienze sociali. Personaggi come Mohammed Arkoun,
Victor Malka, Marc Fumaroli, Laura Bossi, Abdelwahab
Meddeb, insieme a molti altri, hanno tracciato linee di
pensiero, spunti e approfondimenti sul mondo arabo,
indiano (come nell’intervento tenuto da Amina Okada,
direttrice del museo di Arti Asiatiche – Guimet di Parigi),
persiano (come nella lezione magistrale tenuta da
Michel Barry, direttore del Dipartimento di Arti Islamiche
al Metropolitan Museum di New York), o un itinerario
sul modo di rappresentare la Pietà nell’arte occidentale
tenuta dal grande critico d’arte Jean Clair.
Si ritorna certamente arricchiti da questa settimana
a Fez, più curiosi verso mondi e realtà che poco
conoscevamo, con il sano proposito di approfondire
le nostre limitate informazioni su altre culture e con
una gran voglia di avere in macchina o a casa qualche
musica ascoltata, in attesa del prossimo appuntamento
nel maggio 2010.
Cosa Musiques sacrées du monde
Dove Fez, Marocco
Quando Maggio, 2010
Online www.fesfestival.com
Musée Batha I Muvrini
06 Inverno 2009
37 Mondomix.com
1000 stelle nel Cielo dell'Etiopia
Rivivendo l'edizione del 2008 in attesa di quella del prossimo dicembre
di Saba Anglana
Avvicinarsi lentamente ad Arba Minch lasciandosi
Addis Abeba alle spalle è un’esperienza esaltante. 220
miglia in jeep, dove avremmo creduto di perderci nel
diradarsi dei villaggi, delle anime. Invece, nelle 9 ore
39 Mondomix.com
di percorso, una continua teoria di uomini, donne, bambini
ed animali accompagnano festosamente i nostri occhi
spalancati sulla pancia viva d’Etiopia.
Scesi lentamente dall’Acrocoro, e giunti finalmente nella
città delle quaranta sorgenti, una sera caldissima ci
accoglie in pieno contrasto con l’esplosione colorata delle
stelle di Natale; ebbene sì, interi alberi dei familiari fiori
rossi a ricordarci che è quasi il tempo delle feste cristiane.
Come ogni anno per quattro giorni a metà dicembre,
questa cittadina, capitale della regione Gamu-Gofa, è
teatro di un evento straordinario di musica e danza: il
1000 Stars Music Festival, organizzato dalla Gughe
Indigenous Art and Music Association (GIAMA).
Quattro giorni in cui si esibiscono le numerose tribù del
sud dell’Etiopia, in linea con le strategie governative di
pacificazione interna e propaganda per una nazione
madre di tutte le popolazioni all’interno dei suoi confini.
Immaginate la notte più buia che abbiate mai visto. Non ci
sono molte luci artificiali ad Arba Minch.
A piedi, diretti all’arena, il cielo sembra quasi rovesciare
tutta la sua profondità sulle nostre teste, mentre sempre più
forte il suono ritmico di mani, piedi, voci, fiati e percussioni,
rompe la nostra emozionata attesa: arrivavano via via le
tribù per il raduno notturno della vigilia, riempiendo l’aria
d’autentica eccitazione.
Sentirli in avvicinamento nella notte, ancor prima di
vederli, con la pura forza evocatrice della loro musica,
è un’esperienza che spazza via ogni facile suggestione
esotica legata solo all’aspetto affascinante di questa
gente. Gli occhi hanno poi la loro parte il mattino
seguente, quando, alla luce limpida e fermissima di un
sole equatoriale, la sfilata di circa una cinquantina di
gruppi folkloristici del sud d’Etiopia ci regala una festa
piena di colori, celebrazione della cultura e della diversità
biologica della Rift Valley.
Il luogo della manifestazione è un grande campo coronato
da spalti traboccanti di folla. Entriamo seguendo
l’incredibile corteo dei gruppi abbigliati con costumi
tradizionali, una babele di suoni e canti, pantomime e
danze, in fila verso il centro della rappresentazione: un
palco semplicissimo, fatto di bambù e legno d’eucalipto.
Vedere ed ascoltare da così vicino decine e decine di tribù
tutte insieme, nello stesso luogo e al massimo della loro
autorappresentazione, è qualcosa di veramente unico:
ci sarebbero volute diverse settimane, se non mesi, per
visitare tutti i loro villaggi, per incontrare le loro culture.
Sotto il cielo stellato d’Etiopia
Il Festival è soprattutto questo: un convenire nel senso
etimologico del termine, un attestare la propria esistenza,
uno spontaneo censimento di gruppi di esseri umani
diversissimi, tra di loro e da noi, uomini e donne (un
migliaio in tutto, appunto) che spesso viaggiano giorni
interi da luoghi remoti per esserci, per offrire l’immagine
più autentica di sé... in musica e danza. Sembra quasi
irreale vedere cantare ad un metro da noi i Mursi con i
loro piattelli incastrati nelle labbra, gli Arbore nudi, saltare
con la loro pelle che racconta come un dipinto astratto,
i Gamo avvolti dagli inconfondibili tessuti vivaci che con
lance e coreografie simulano la guerra.
Persa con gli occhi e con le orecchie in quello spettacolo
mai visto, in quella alterità così marcata nel suo valore
estetico e di contenuto, mi dimentico quasi di me stessa,
di quanto anche noi con il nostro arredo occidentale
possiamo sembrare così strani ai loro occhi. E’ una
bambina a ricordarmelo, una piccola di Arba Minch che in
quel trambusto si avvicina e mi tocca emozionata i capelli,
quasi ad esplorare la mia di diversità. Il Festival è il luogo
dell’incontro con l’altro per eccellenza.
Dieci minuti sul palco per ciascun gruppo. Dieci minuti in
cui l’eccitata esibizione iniziata nel corteo, raggiunge lì il
suo culmine. La folla di migliaia di spettatori applaude,
canta, ride, partecipa. I fortunati hanno conquistato il
loro posto all’ombra delle acacie e ci sorprende il numero
esiguo dei turisti stranieri, tra cui naturalmente incontriamo
Francis Falceto, colui che con le sue pubblicazioni ha
fatto conoscere al mondo parte della musica tradizionale
etiopica.
Sotto i nostri occhi, un’umanità commovente. La
sensazione è che non ci sia separazione tra essere ed
apparire, tra vita quotidiana e rappresentazione. Tutto è
profondamente intrecciato, la musica, il canto, il corpo
che si muove ritmicamente, addobbato di monili, di
costumi indossati come bandiere ancestrali, dense di
una storia che i libri non sanno raccontare. Ecco, perchè
essere stati ad Arba Minch ed aver visto quel patrimonio
che la modernità potrebbe mangiarsi da un momento
all’altro con i suoi veloci passi distruttivi è una delle cose
che valeva la pena di fare prima di abbandonare una terra
ricca come l’Etiopia, cuore sonoro antichissimo d’Africa.
Cosa The Thousand Stars Festival of Music and Dance
Dove Arba Minch, Etiopia sud-occidentale
Quando 12 – 14 Dicembre, 2009
Online www.gughe.org
06 Inverno 2009
Recensioni
Africa
(la rumba congolese) si amalgama in modo più naturale e
con un tono meno uniforme. che in precedenza.
Ci sono pezzi con richiami più spiccatamente tradizionali
come Electrochoc e pezzi più hip hop, come Bon
Voyage. Ma ci sono anche sfumature reggae, complice
la partecipazione di Sizzla in Méme Combat, e umori
dell’Africa del Nord portati da Khaled in Avec Le Sourire. E
il risultato è un disco divertente e solare, in cui ogni traccia
racconta una storia di collaborazione.
Luca Vergano
Pax Nicholas And The
Nettey Family
Na Teef Know De Road Of Teef
Daptone / Goodfellas
musiques et cultures dans le monde
I Speak Fula
MIX
MON DO ma
Mi a
Out / Here / Goodfellas
Scoppia di salute il musicista del Mali, che porta un
passo più in là la sua intuizione di porre uno strumento
d’accompagnamento, lo ngoni, al centro di un progetto
orchestrale. L’effetto sorpresa di cui godette due anni fa il
disco di debutto “Segu Blue” è cessato; ciononostante le
novità non mancano e la freschezza suona intatta. Laddove
l’opera prima rivelava al mondo le possibilità espressive
dello strumento e rodava a suon di blues desertico
l’innovativa orchestra, ora il controllo della materia è tale
da concedere fughe in avanti verso beat spesso assai più
serrati. È successo che il menestrello di Garana si è reso
conto di avere tra le mani un potenziale smisurato, esploso
dal vivo in questi due anni di show in mezzo mondo. Così
il tono di I Speak Fula, internazionale e orgoglioso fin dal
titolo, scommette sulla possibilità di applicare in studio
almeno parte della carica che la band di soli ngoni esprime
in concerto. Scommessa riuscita, tra il rock’n’roll a tutta
Bamako di Musow e il superbo languore di Bambugu
Blues, nei meandri a bassa fedeltà di Moustapha come
sotto il sole di una Jamana Be Diya illuminata dalla voce
di Kasse Mady. Uno degli ospiti preziosi collocati con
sapienza nelle undici tracce dell’album: con Toumani
Diabate, Veiux Farka Touré e Harouna Samake guida la
lista di coloro che hanno lavorato con passione sotto la
regia di Lucy Duran e Jerry Boys allo studio Bogolan.
Paolo Ferrari
Bisso Na Bisso
Africa
Phantom Sound & Vision
Ci sono voluti più di dieci anni perchè
il gruppo franco-congolese desse
un seguito al disco Racines. Dopo
aver ricevuto nel 1999 il più importante riconoscimento
musicale africano, il gruppo ha dato la precedenza agli
impegni individuali dei sette componenti prima di riunirsi
per questo lavoro. Il tempo però non è passato invano: il
mélange di hip hop marcatamente francese e di Soukous
Samba Touré
Laurence Philippon
Bassekou Kouyate &
Ngoni Ba
L’etichetta di Brooklyn rimette in
circolazione uno dei due album che Nicholas Addo – Nettey
incise nel periodo in cui faceva parte degli Africa 70 di Fela
Kuti. Questo era il secondo, inciso nel 1973 a Lagos negli
studi di Ginger Baker. Batterista e cantante, Mister Pax era
arrivato alla corte di Fela da Accra, subito assunto come
batterista e cantante. Le quattro tracce del vinile originale
piovono tali e quali in questa riedizione su cd, a partire dal
brano che dà il titolo all’opera intera, oltre 11’ di ossessione
afro beat a tinte funk psichedeliche. “Na Six Feet” mette in
mostra qualche sfumatura memore del Ghana d’origine e del
suo highlife. L’uomo è vivo, attivo, sta a Berlino e guida la sua
band Ridimtaski.
Paolo Ferrari
Syran Mbenza & Ensemble
Rumba Kongo
Immortal Franco: Africa’s
Unrivalled Guitar Legend
Riverboat / Egea
Samba Touré
Songhai Blues: Homage to
Ali Farka Touré
Riverboat / Egea
A vent’anni dalla morte Franco seguita a essere e non solo
nel titolo del bell’omaggio che gli dedica il più plausibile
fra gli eredi… immortale: lo dicono forte e chiaro dodici
brani irresistibili, muscolari e spumeggianti, elastici e
festosamente implacabili. A tre dalla scomparsa, Ali
Farka Touré davvero non sembra ancora sia andato via
e auspicabilmente non se ne andrà mai, siccome dopo
di lui è per noi impossibile tornare ad ascoltare con le
orecchie di prima il blues. Senza pretendere di succedergli
Samba Touré, dopo esserne stato un protetto, è oggi un
emulo garbato e ispirato quanto basta. Sono due dischi
di rimarchevole piacevolezza, ideale complemento a quei
venti di altri chitarristi africani di cui avete potuto leggere
qualche pagina fa.
Eddy Cilia
Cesaria Evora
Nha sentimento
Una malinconia indicibile e uno
struggimento irresistibile che a tratti
ti avvolge in una grande tristezza e
a tratti ti trascina nella sua scia di profumo fruttato… C’è
tutto questo, e contemporaneamente, nelle canzoni e nella
musica dei brani interpretati da Cesaria Evora, la voce più
celebre di Capo Verde. Le canzoni di oggi come quelle di ieri:
non se ne ha mai abbastanza. Come sempre seducente, la
sua voce questa volta sembra quasi assumere toni ambrati,
dolcemente danzante o cullante come il rumore delle onde
che vengono a morire sulla spiaggia. Questo album, cui i
violini registrati al Cairo sotto la direzione di Fathi Salama
danno un sorprendente tocco orientale, diventa quasi
un omaggio postumo a Manuel de Novas, uno dei fedeli
autori-compositori di Cesaria Evora deceduto lo scorso
27 settembre all’ospedale di Mindelo, sull’isola di São
Vicente, che ha composto ben sei brani dell’album. Il resto
è frutto del lavoro sapiente di Teofilo Chantre, un altro dei
compositori preferiti dalla Signora di Capo Verde.
Patrick Labesse
Sara Tavares
Sara Tavares
Xinti
World Connection / Egea
A oltre vent’anni dalla rivelazione
internazionale Cesária Évora il piccolo
arcipelago di Capo Verde continua a
essere una fucina di artisti di successo. Fra i nuovi talenti
sicuramente Sara Tavares (che a dire il vero di Capo Verde
ha solo le origini) sembra essere quella che ha saputo
raccogliere meglio il testimone della diva a piedi nudi. Un
successo dovuto soprattutto all’album Balancé uscito
nel 2005 e svettato ben presto in cima alle classifiche
portoghesi, tanto da essersi aggiudicato il disco di platino.
Adesso è in arrivo per World Connection, Xinti (Sentilo).
Il disco sembra a tutti gli effetti voler seguire la traiettoria
del precedente e in diversi passaggi potrebbe anche
meritarselo. Si tratta di quattordici canzoni accomunate
da un soul raggiante e morbido che con delicatezza
affrontano temi pieni di sentimento quasi si trattasse della
trasposizione musicale del diario segreto della sua autrice.
Su uno sfondo pop arricchito di elementi africani, caraibici
e brasiliani la Tavares si abbandona ad argomenti amorosi,
idealisti, poetici. Una musica e una voce avvolgente,
soave e suadente con un risultato più solido rispetto al
precedente album grazie sia a testi più elaborati sia a una
musica più strutturata che riscopre elementi del gospel
che ci introducono con allegria alla personale spiritualità
della Tavares. La sua pecca principale sta nell’assenza
di quella genuina originalità che caratterizzava Balancé.
Forse un po’ più di audacia non avrebbe guastato anche
se questo non ci impedisce di apprezzare lo splendido
collante musicale in cui si inserisce la cristallina voce di
Sara. A supporto della cantante troviamo infatti un nutrito
gruppo di musicisti tra cui risalta la presenza dell’affermato
batterista jazz José Salgueiro, del percussionista
capoverdiano Mirica Paris e del suonatore di ukelele,
Richard Dumas
Lusafrica
Salif Keita
La Différence
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Emarcy / Universal
La “differenza” , come recita il titolo del nuovo album
dell’usignolo del Mali, è proprio quella che ha caratterizzato
tutta la sua vita. Nato albino in un paese dove questa
bizzarria viene spesso considerata un segno di sventura,
Salif Keita si è battuto incessantemente contro i pregiudizi
e le superstizioni legate a questa anomalia genetica.
Non l’ha affatto coltivata, questa differenza, ci si è adattato
ed ha imparato ad amarla. Canta: “Sono nero ma la mia
pelle è bianca e questo mi piace. E’ la differenza che è
bella. Sono un bianco dal sangue nero e questo mi piace”.
Con l’occasione ne approfitta per attirare l’attenzione sulla
fondazione che ha creato nel 2001 allo scopo di aiutare
gli albini d’Africa. E non disdegna neppure, in seconda
istanza, un appello ecologista nella spumeggiante Ekolo
d’amour. Con questo terzo ultimo album Salif Keita chiude
con eleganza una trilogia iniziata nel 2002 con Moffou cui
fece seguito nel 2005 M’Bemba.
Con la partecipazione di Kélétigui Diabaté al balafon, di
Mamadou Koné alle percussioni e con le chitarre di Kanté
Manfila e di Ousmane Kouyaté, ecco l’arte musicale
mandinga nella sua massima espressione appena
modificata dagli arrangiamenti di taglio più occidentale con
echi di archi orientali. Contribuiscono ad arricchire questo
album le partecipazioni di Vincent Segal al violoncello,
Ibrahim Maalouf alla tromba, Seb Martel e Bill Frisell alle
chitarre. Circondato da questa atmosfera più che familiare
Salif dona in questo lavoro il meglio di se stesso. Un canto
che esprime potenza e grande carica emotiva, delle nuove
composizioni interessanti alle quali il cantante aggiunge
reinterpretazioni di vecchi brani come Seydou, che risale ai
tempi del suo esordio negli Ambassadeurs du Motel, e le
commoventi Folon (1995) e Papa (1999) che qui trovano,
senza dubbio, una loro versione definitiva.
Questo album, la cui uscita è stata più volte annunciata e
rinviata negli ultimi due anni, sarà un regalo prezioso per
coloro che già amano ed apprezzano Salif Keita e forse
riuscirà ad aprire una breccia nel cuore di qualche nuovo
ammiratore.
Benjamin MiNiMuM
anch’egli capoverdiano, Jon Luz. A questi aggiungasi
l’uso di strumenti come il flauto di bambù, il vibrafono o la
fisarmonica che arricchiscono e colorano l’intero disco. Un
album che va ascoltato dall’inizio alla fine senza soluzione
di continuità perché la sua struttura lineare lo rende leggero
e incantevole.
David Valderrama
Europa
Ambrogio Sparagna
Orchestra Popolare Italiana
Taranta d’amore
Auditorium / Finisterre
Shantel
musiques et cultures dans le monde
Planet Paprika
MIX
MON DO ma
Mi a
Crammed / Materiali Sonori
Se a quel furbone di Goran Bregovic, che ha simpaticamente
saccheggiato a piene mani il repertorio tradizionale
balcanico spacciandolo per opera del proprio ingegno,
riconosciamo il merito di aver traghettato una musica che
difficilmente sarebbe uscita dal proprio contesto folklorico
verso il mondo della world music europea, non possiamo
non prendere atto che questa rivoluzione di suoni vede
oggi uno dei suoi principali artefici in Shantel. Nato a
Francoforte nel 1968, Shantel inizia la carriera come dj
nel suo Bucovina Club (dedicato alla terra d’origine della
madre profuga), dove insieme a vere brass band gitane si
esibiva con interventi elettronici dal vivo. Fanfare Ciocărlia,
Boban Marković, Kočani Orchestar e Taraf de Haïdouks
sono alcune delle formazioni gitane da lui rimixate con
successo. Talmente clamoroso da indurlo a fondare una
propria etichetta, la Essay Recordings, e a pubblicare una
serie di raccolte da lui assemblate. La sua grande abilità
nel miscelare i suoni tradizionali col beat techno elettronico
lo porterà a vincere nel 2007, con Disko Partizani, il Club
Global award per la BBC e a salire al primo posto nelle
classifiche world in Turchia. Planet Paprika, il suo nuovo
lavoro prosegue con successo nella medesima direzione
del disco precedente: impossibile resistere all’ascolto
senza cominciare a saltellare!
Elisabetta Sermenghi
Mafalda
La compagnia del maestro organettista raduna uno stuolo
di solisti del nuovo folk centro-meridionale, creando un
organico di voci e strumenti popolari, prassi opposta
rispetto a chi pensa di nobilitare la tradizione orale
avvalendosi di un’orchestra di matrice euro-colta. Spazio a
organetto, tamburelli, percussioni, zampogna, ciaramella,
plettri, flauti, violino, ghironda, lira calabrese, ma anche
al violoncello di Redi Hasa e al contrabbasso di Samdu
Gruia, e ad ugole di tutto rispetto: Raffaello Simeoni, Mario
Incudine, Gianni Aversano, il talento salentino Alessia
Tondo. Scelta ammiccante quella di partire dal ritmo
della tarantella per erigere un repertorio che si muove tra
brani tradizionali laziali e salentini e composizioni siglate
dallo stesso Sparagna, attingendo a moduli linguistici
e strumentali di tradizione orale. “Suspiri d’amore” è
l’apripista nel più classico stile compositivo sparagnano;
vertici con il “cunto” di San Paolo, gli strambotti in griko
di “Ìlie-mu” e quelli romaneschi intonati da Simeoni, la cui
vocalità è carica di pathos anche in “Quanno so’ morto”.
Non potevano mancare le diverse articolazioni della
pizzica, tra le quali brilla quella di San Vito: primo attore
Mimmo Epifani.
Ciro De Rosa
Ambrogio Sparagna Orchestra Popolare Italiana
Mafalda Arnauth
Flor de Fado
Magic Music / Egea
Dopo il successo di Diario, pubblicato
nel 2005, ecco in arrivo il quinto disco
della giovane fadista Mafalda Arnauth:
Flor de fado. Si tratta, curiosamente, del primo cd che porta
la parola fado nel titolo ma, a differenza dei precedenti, è
quello che si allontana di più da questo genere musicale.
Un allontanamento soltanto parziale, naturalmente, che
però consente alla Arnauth di raggiungere territori di
“frontiera” grazie alla preponderanza delle viole e della
chitarra classica (a scapito di quella portoghese) e a
una voce che ricorre spesso a espedienti drammatici
tipicamente sudamericani. Particolarmente riuscita la
canzone in omaggio a Maria Bethânia, Entre a voz e o
oceano e cantata in duo con Olívia Byington. Certo, sia
in questo brano quanto in O mar fala de ti o Flor do verde
pinho il distacco dal fado è tale da regalarci una voce
nuova, completamente diversa dall’austera e malinconica
tonalità a cui la Arnauth ci aveva abituati. Va però detto
che la disinvoltura con la quale sprigiona la sua voce in
brani marcatamente fadisti è il vero segreto della sua arte.
Particolarmente apprezzabili sono l’incrocio tra fado e
madrigal di Quanto mais amor o l’evocazione di antichi
ricordi di Quem me desata. Insieme al cd dal packaging
impeccabile troviamo un dvd, un po’ asettico per la verità,
contenente cinque canzoni registrate il 16 dicembre 2007
al teatro da Trinidade di Lisbona. Oltre a tre brani presenti
nel cd vi sono le canzoni So corre quem ama e Para Maria
del disco precedente.
David Valderrama
La Musgaña
Idas y Venidas
Karonte / Egea
A cinque anni dalla tragica scomparsa
del fondatore della band Quique
Almendros,
i
componenti
della
Musgaña tornano nelle sale d’incisione con un nuovo
album ricco di suggestive composizioni in salsa iberica.
Idas y Venidas, questo il titolo del nuovo disco, è un
interessante collante musicale composto da seguidillas,
jotas, charradas, charros, pasodobles e dianas frutto
di una intensa ricerca storico musicale nel folklore della
Catiglia y Leon. Ispirandosi allo stile tracciato da due
grandi musicisti del passato spagnolo come Federico
Olmeda e Antonio José, il disco presenta quindici tracce
prevalentemente tratte dalla tradizione castigliana del XIX
secolo e qui riproposte con arrangiamenti nuovi ma con un
rigoroso uso di strumenti tradizionali. Dopo la scomparsa
di Almendros, infatti, ai veterani Jaime Muñoz (flauto,
cornamusa, tamburello, clarinetto) e Carlos Beceiro (chitarra
e ghironda) si sono ora aggiunti il violinista Diego Galaz e
il fisarmonicista Jorge Arribas. Il disco, pur non essendo
probabilmente il migliore della loro produzione, ci presenta
una band affiatata e dallo stile maturo e ben affinato. La
loro musica sembra voler prendere la tradizione popolare
castigliana e innalzarla a un livello più alto, quasi classico e
per farlo si avvale della registrazione a presa diretta affinché
il suono sembri tratto direttamente da un concerto del
passato. A questo aggiungasi l’uso di strumenti a fiato e a
corde come il clarinetto e il violino, un tempo appannaggio
esclusivo della musica colta. Il carattere energico, ottimista
e intenso della più parte delle composizioni rimarca invece
lo stile tipico di Burgos, cittadina un tempo capitale del
regno di Castiglia. Bibbia principale dell’intero album
è il canzoniere di Olmeda, dalla quale sono tratti alcuni
brani, mentre troviamo una sola composizione originale, il
Pasodoble de El Pastillas, scritta da Diego Galaz e dedicata
all’omonima taverna di Burgos. Particolarmente suggestivo
infine il brano El Buey, che per vent’anni la Musgaña aveva
suonato in concerti senza mai trasporlo su disco, e che
qui interpreta in forma minimalista a efficace chiusura
del disco. Grazie a Idas y Venidas, il gruppo sembra aver
saputo superare il trauma derivato dalla scomparsa dello
storico leader (a cui per altro è dedicato l’album), rimanendo
saldamente ancorato allo stile che l’ha caratterizzato nei
suoi primi vent’anni di carriera.
David Valderrama
Bregada Berard
Bòn Nadal Occitania
Felmay
Lo spiega bene il libretto: lungi
dall’essere
come
altrove
mera
oleografia con fini consumistici, per il popolo occitano
la musica legata alle festività natalizie e ispirata dal
mistero che le sottende resta cosa viva, carne e sangue
di un’identità che rifiuta orgogliosamente di scomparire
nel tessuto globalista. Deus ex machina dei Lou Dalfin,
Sergio Berardo accantona per l’occasione (con la
squisita quanto parziale eccezione di alcune marce) la
ballabilità intimamente pagana delle musiche che declina
abitualmente con costoro, per arrendersi serenamente alla
dolcezza di brani che sanno di torba e neve, di racconti
attorno a un fuoco in una notte di ghiaccio.
Eddy Cilia
Värttinä
25
Westpark Records
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Dal villaggio di Rääkkylä nella
Carelia ai palcoscenici mondiali
con la partecipazione alla trasposizione teatrale de Il
Signore degli Anelli, dagli inizi come ampio coro femminile
al presente di ensemble compatto per doti canore e
afflato strumentale, aperto a stilemi rock e world. Un
quarto di secolo di attività da festeggiare con una bella
selezione che ripercorre la carriera della band simbolo
della rinascita della musica tradizionale in Finlandia,
del cui quartetto fondatore resta la sola Mari Kaasinen.
Fortunatamente, le suggestioni tolkieniane e il folk-pop
ammiccante restano fuori da questa retrospettiva sonora
che raccoglie 22 tracce, con l’inedito “Vipinäveet”. La
vocalità guizzante e aggressiva riprende stili canori ugrofinnici: dalle armonie per seconde e quarte dei Setu,
che richiamano le polifonie bulgare, al canto all’unisono
dell’Ingria e, naturalmente, all’antico canto runico finnico.
Apparato strumentale costituito dall’organetto dell’ottimo
Markku Lepistö, kantele, nyckelharpa, chitarra,
bouzouki, mandolino, sassofono, contrabbasso, batteria
e percussioni. Il disco si può dividere in due parti: una
prima con la rilettura di materiali tradizionali, la seconda
fatta di brani di nuova composizione, che corrispondono
agli avvicendamenti dei musicisti negli anni ma anche
all’accentuarsi di raffinatezza e ricercatezza dei suoni.
Ciro De Rosa
Mostar Sevdah Reunion &
Ljiljana Buttler
The legends of life
Snail Records / Egea
Sia Mostar Sevdah Reunion che Ljljana
Buttler hanno una caratura artistica di altissimo livello e
questo appare evidente fin dalle prime note dell’album. Il
mondo della sevdah e della tradizione è presente, ma non
è l’unico. Atmosfere più vellutate che sferzanti, divagazioni
jazz e svisate blues qua e là che a volte rendono il lavoro
leggermente sfuocato dove potrebbe invece essere ancora
più incisivo e originale. La voce della Buttler è quasi
mascolina, comunque sempre forte e decisa, assolutamente
convincente. La produzione è ottima, i suoni impidi e caldi.
In conclusione l’album è assai gradevole e conferma un
ensemble di musicisti affiatati e di altissimo livello. Da segnalare
la presenza di Naat Veliov (Kocani Orkestar) in Andro Verka e
la bellissima Rupuni, in duetto con Saban Bajramović.
Luca Morino
Europa
Mari Boine
Sterna Paradisea
Cuovgga áirras
Universal
Jackie Oates
Hyperboreans
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
One Little Indian / Goodfellas
Due i grandi co-protagonisti di
questo che per la venticinquenne
cantante e violinista britannica
è il terzo album: il fratello Jim Moray, grande quanto
controverso innovatore del filone folk-rock, che ne firma
la produzione; Alasdair Roberts, uno che partendo dal
“post-” ha finito per approdare alla murder ballad e ai suoi
arcani dintorni. Hyperboreans riesce nel piccolo miracolo
di collocare armoniosamente nella medesima cornice
una cover da urlo – raffinata e radiofonicissima - degli
Sugarcubes (Birthday) e una serie di tradizionali rivisitati
con estro pari al rispetto. Nell’ambito è una delle migliori
uscite da molto tempo in qua.
Eddy Cilia
Massimo Ferrante
Sterna Paradisea è parte di un viaggio musicale iniziato
25 anni fa con Jaskatvuoda e approdato alla notorietà con
Gula Gula. Mari Boine, cantante Sami della Norvegia, sa
creare con il suo canto momenti unici e di un’emozione
profonda di difficile definizione perché va oltre il semplice
palpitare del cuore, ed evoca istinti e memorie primordiali.
Tecnica vocale straordinaria che si rifà alla tradizione
del suo popolo ma che pure si intesse di elementi di
modernità tipici del rock e del jazz, abbinati alla ricchezza
degli arrangiamenti di alcuni esponenti di spicco della
scena jazz norvegese. Sterna Paradisea mostra elementi
di continuità con il precedente Idjagieda” ma segna
anche un cambiamento importante, con l’apertura alle
sonorità del Sud Africa e di una delle sue esponenti più
rappresentative, Latozi Mpahleni (alias Madosini): un
sogno che si avvera visto che era ormai da molti anni che
Mari Boine desiderava introdurre nel suo lavoro musica
africana, da cui si sentiva influenzata, creando con ciò un
melting pot di straordinaria energia e originalità.
Luca Vitali
Jamu
Felmay Records
Nello spirito del musicista joggese la
riflessione su memoria e radici popolari
va di pari passo con la ricerca di
canti che parlino all’oggi, attraverso una rilettura che non
sia mero ricalco di stili popolari. Ecco che Jamu, il titolo
dell’album, diventa emblema di un’attitudine al movimento,
musicale ma non solo. La celeberrima lirica di Buttitta
Lingua e dialettu, impreziosita dalla sapiente scrittura
colto-popolaresca di Antonello Paliotti, apre e chiude il CD.
Ancora dall’arte del poeta bagherese proviene Lamentu pe
la morti di Turiddu Carnevali. Strina du Judeo è un corrosivo
canto augurale di Lugo, nel cosentino, uno dei motivi più
incisivi dell’album in virtù dell’intervento del chitarrista Lutte
Berg, produttore artistico e comprimario di questo lavoro.
La relazione forte con la lingua avita è ribadita con La piov
e la fai soulelh, canto della comunità franco-provenzale di
Guardia Piemontese; cadenze bandistiche orchestrate da
Enrico Del Gaudio rivoltano Ari cincu. Dai repertori locali
arrivano anche I fischi, che riceve un trattamento caribico,
e Ninnananna Joggese. «Me la cantava mia madre» – dice
Ferrante – « ....e ha continuato a cantarla ai miei nipoti....
magari qualcuno la canterà ai propri figli». La gustosa ‘U
monacu, storia di un monaco che va in bianco, è animata
da uno spiazzante fraseggio jazzato del calabro-svedese
Berg, mentre ha un andamento rock Tarantella Minore.
Scavi preziosi nella storia del canto politico riportano in
luce Ha detto De Gasperi a tutti i divoti, interpretato alla
maniera di un cantastorie, e Tu Compagno, dal repertorio
del Canzoniere delle Lame che parte come una tammurriata
per poi assumere tinte rock acide e rumoristiche. Disco che
si butta giù tutto d’un fiato, che diverte e fa pensare.
Ciro De Rosa
Radiodervish
Beyond the Sea
Princigalli / Il Manifesto
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Album più d’acqua che di terra
quello che per la settima volta porta la collaborazione
come Radiodervish fra il pugliese Michele Lobaccaro e il
palestinese Nabil Salameh a traversare il Mediterraneo da
un capo all’altro. Per farci notare una volta di più quanto
siano intimamente simili le genti che ne abitano le sponde.
Sicché pare normale – oltre che giusto, bello e suggestivo
– che il più europeo degli strumenti, il pianoforte, dialoghi
indifferentemente con un quartetto d’archi espressione
della medesima cultura e con i solisti di un’orchestra
araba. È un disco raccolto, contemplativo, di un’epicità
sommessa se è concesso l’ossimoro.
Eddy Cilia
Asia
Debashish
Bhattacharya
O Shakuntala
Riverboat / Egea
Ustad Ahmad Hussain Khan
Ustad Ahmad Hussain
Khan & Party
Serenity
Felmay
Protagonista di “Serenity” è lo shehnai
un aerofono ad ancia doppia considerato originario del
Nord, ma altrettanto presente nel Sud dell’India così che
risuona indifferentemente nella tradizione indostana o
carnatica. Comunemente si ritiene che lo shehnai “porti
fortuna” e forse per questo esso è molto attivo nei
matrimoni, così come accade per i suoi parenti di area
iranica e centroasiatica (surnay, sunay, zurna). Ustad Ali
Ahmad Hussain Khan (1939) proviene da una nota famiglia
di musicisti e con questo disco dimostra di essere oggi,
dopo la scomparsa nel 2006 del compianto Bismillah
Khan, il più riconosciuto esponente dello strumento con
il quale esplora qui raga poco comuni. Particolare la
formazione: il leader è affiancato da un ensemble di ben
otto musicisti.
Giovanni De Zorzi
Raghunath Manet
Veena Dreams
Iris Music / Egea
Raghunath Manet è allo stesso tempo
musicista ed esponente della danza
di stile Bharatha Natyam (si rinviano
gli interessati ai corsi che egli tiene a Venezia: www.cini.
it). Qui si ha l’occasione di ascoltare Manet alla vina,
una cordofono a pizzico che varia considerevolmente a
seconda dell’area, se carnatica (saraswati vina), come nel
disco, o indostana (vichitra vina, rudra vina, bin). L’opera
è tutta di composizioni originali suonate da Manet su vari
strumenti grazie al procedimento della sovraincisione.
Concepito forse per le proprie performances di danza, il
Cd non è consigliato per i puristi e può, invece, essere
inteso come una sperimentazione di là da stili e stilemi
tradizionali.
Giovanni De Zorzi
Lalgudi Vijayalakshmi,
Mala Chandrashekar,
Jaishree Jairai
Vadhya Sunadha Pravaham
Felmay
Tre donne, frutto di una tradizione musicale e familiare,
illustrano meravigliosamente lo stato attuale dello stile
carnatico tipico del sud dell’India: Lalgudi Vijayalakshmi
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Kalidasa, poeta e drammaturgo
di lingua sanscrita vissuto tra il
IV e il V secolo d.C., compose
diversi drammi amorosi e poemi epico lirici, tra i quali
Abhijñāna Sakuntala che, nella versione italiana di
Vincenzina Mazzarino, raccomandata all’ascoltatore
curioso, si intitola Il riconoscimento di Sakuntala (Milano,
Adelphi, 1993). A questo immortale poema si ispira
Debashish Bhattacharya (1963), virtuoso della chitarra
slide, strumento da lui progettato e in grado di rendere
i microtoni (shruti) della musica indiana: ottimamente
accompagnato da tre percussionisti: Charu Hariharan al
mridangam e alla ganjira, Subhasis Battacharjee alle tabla
e, caso raro o unico in India, la giovane Chitrangana Angle
Reshwan al pakhawaj. Bhattacharya mette in musica
varie scene tratte dall’opera, esplorandone delicatamente
gli stati d’animo. Il Cd convince assolutamente, per
la maestria e la sintonia di tutti gli interpreti ma anche
per la profondità del sentimento espresso, tratto talora
dimenticato dalle virtuosistiche nuove generazioni.
Giovanni De Zorzi
al violino, Mala Chandrashekar al flauto venu e
Jaishree Jairai al liuto saraswati vina, accompagnate
da Kallidaikurichi Sivakuma al mrudangam. Il disco si
ispira ad un progetto degli anni ‘60 diretto dal padre di
Vijayalakshmi, il violinista Lalgudi G. Jayaraman che,
con una identica formazione, aveva rivoluzionato la
tradizione carnatica. L’ascoltatore rimane incantato per
le qualità musicali dimostrate dalle interpreti: purezza di
suono, intonazione assoluta, unite a trasporto emotivo e
ritmico che rendono imperdibile il disco.
Giovanni De Zorzi
The Klezmatics
Wonder Wheel
Music & Words / Egea
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
C’è tutto lo spettro di colori della New York anni 30 e 40
in questo disco, in cui i Klezmatics musicano 16 testi
inediti di Woody Ghutrie, ricevuti in regalo dalla figlia Nora. Ci sono pezzi scuri Gonna Get Trough This World, Orange
Blossom Ring in cui lo spettro della Grande Depressione
evocato nei testi viene ripreso nelle melodie; pezzi ipnotici
e con sfumature mediorientali e balcaniche come Wheel Of
Life e pezzi in cui il gruppo newyorchese riesce a dare vita
a melodie semplici e definite anche sui ritmi più complessi,
come nell’apertura di Come When I Call You. E ci sono
tracce Heaven e Mermaid Avenue, con fiati quasi caraibici
così gioiose che se Woody vivesse ancora a Coney Island,
verrebbe da correre da Nathans, a comprarsi due hot dog
e a camminare sul lungo mare con lui per festeggiare la
fine della Seconda Guerra Mondiale.
Luca Vergano
AAVV
Sulle rive del Tango
Microcosmo Dischi / IRD
Sulla riva napoletana di un tango dal profumo
internazionale
L’attivissima Microcosmo dischi, con sede a Napoli, fa
uscire una nuova perla per gli estimatori del tango nuevo
tutta da ballare ma anche di godibilissimo ascolto per
coloro che ancora non osano cimentarsi nella danza che
forse più movimenta la vita notturna di queste nostre città
italiane. Ecco quindi il secondo capitolo della fortunata
raccolta Sulle rive del tango uscita un paio di anni fa. Nel
primo volume avevamo visto comparire brani di tango
dal sapore classico quali El mago pitico, La Negra, cui
si alternavano brani di tango elettronico, Otros Aires,
passando per il tango cubano di Dos gardenias, Ache
Tango, e il tango Jazz di Kiss of Fire di Louis Armstrong,
sfociando nella deliziosa Time, brano di derivazione
klezmer dei polacchi Kroke. Questo secondo Sulle rive
del tango (L’incontro) propone nuove selezioni sempre
molto curate e brani che, anche se nati in forme musicali
diverse, diventano sicuramente tangabili a volte per
le affinità ritmiche e a volte per l’intenzione musicale.
Andy Narell and
Relator
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
University of Calypso
Heads Up / Egea
It’s fantastic in every sense / The music that you get
from these instruments canta Relator in Steelband Music
(brano 6), composizione del grande calypsoniano Lord
Kitchener in onore di leader storici delle steelband come
Ellie Mannette o Nevis Jules e al re degli strumenti di
Trinidad: lo steel drum o pan, metallofono nato da fusti
di greggio. E questi melodiosi tamburi d’acciaio - con
timbriche dolci e suggestive – suonati dallo statunitense
Andy Narell e la voce del già citato crooner trinidadiano
Relator sono i protagonisti indiscussi di University of
Calypso, un omaggio agli anni d’oro del calypso e agli abili
improvvisatori in rima. Della partita, anche i cubani Paquito
D’Rivera, Pedro Martinez e l’argentino Dario Eskenazi. Il
sapiente mix di sound afrocaraibici, sudamericani, liriche
del calypso e sintassi jazzistica che unisce le 15 tracce del
cd è fantastico.
Gian Franco Grilli
L’intento è di far incontrare due persone unendole in un
passo di danza anche solo per la durata di un brano.
Questo incontro si consuma in giro per le strade del
mondo e l’abbraccio si lascia sedurre dalla voce soul
mediorientale dell’anglo egiziana Natacha Atlas come
dai suoni ora struggenti e ora elettronici di Oblivion
nell’esecuzione della Istanbul Accademia Project.
Nell’aria volteggiano note ed atmosfere francesi come De
l’autre coté, Ginkobiloba, o la poesia di Querer dei Cirque
du Soleil senza dimenticare la voce di Vinicio Capossela
nella romantica e disperata Scivola vai via. Non potendo
in questa sede indicare tutte le importanti selezioni di
questa deliziosa raccolta non mi rimane che consigliarne
caldamente l’ascolto a chi non teme l’abbraccio di una
musica che danza da sola.
Elisabetta Sermenghi
AAVV
Sulle rive del Tango
- L’incontro
Microcosmo Dischi / IRD
Americhe
Pink Martini
Pink Martini
Kantango
Splendor in the Grass
De ida y vuelta
Naïve / Self
Dodici anni dopo l’uscita di Sympatique
che li ha rivelati al mondo intero, esce
oggi il quarto album della piccola orchestra di Portland,
Splendor in the Grass. Nati quasi per gioco da un’idea di
Thomas M. Lauderdale quali supporter – intrattenitori durante
le battaglie politiche per la parità dei diritti civili della comunità
gay di Portland, Il progetto Pink Martini trae ispirazione dal
repertorio anni cinquanta e sessanta di tutto il mondo spesso
mescolando generi musicali diversi quali jazz e musica latina
a certi arrangiamenti classici. Il tutto ovviamente condito dalla
bella voce di China Forbes (l’altra anima fondatrice dei PM)
che canta in inglese, francese, spagnolo, italiano, portoghese
e giapponese. Il primo album, ricco di cover, aveva una
personalissima carica interpretativa così accattivante da
essere entrato nell’immaginario collettivo anche delle nostre
città di fine anni novanta protese verso gli anni duemila
ma forse non ancora pronte a lasciarsi alle spalle gli ultimi
cinquant’anni. Diventati gruppo lounge per eccellenza i Pink
Martini hanno continuato negli album successivi con questa
azione di ripescaggio di brani di passata notorietà con
risultati gradevoli e costanti. E così fanno anche nell’ultimo
album Splendor in the grass nel quale, come sempre, gli
arrangiamenti e le atmosfere sono ineccepibili. Canzoni e
canzonette sempre piacevoli all’ascolto anche se forse la
formula rivelatasi vincente agli esordi sembra avere perso un
po’ della magia iniziale ed avrebbe bisogno di nuova energia.
Microcosmo Dischi / IRD
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Un viaggio di andata e ritorno, Ida y
Vuelta, così recita il titolo del nuovo
album di Kantango. Scoperti e prodotti da Joe Barbieri,
brillante musicista napoletano e fondatore dell’etichetta
Microcosmo, Kantango è un quartetto di virtuosi che
già diede alla luce nel 2006 un ottimo album di esordio,
Màsidiomàs, accolto da larghi consensi. Kantango oggi
torna a proporci la rivisitazione di un tango senza confini,
fedele nel suoni ma innovativo negli arrangiamenti. La
trasformazione di brani di autori come Ryuichi Sakamoto
e Jacques Brel in tanghi affascinanti o accompagnando,
sullo sfondo di darbuka e bouzuki, la nenia araba cantata
da Marzouk Mejiri con ritmi serrati di violino e fisarmonica
che immediatamente ci trascinano altrove. Arie come da un
immaginario film in bianco e nero la cui pellicola si srotola
innanzi allo spettatore che rapito si lascia trasportare dal
proprio pensiero che danza in una balera immaginaria.
Questo album, grazie anche alle prestigiose collaborazioni
di Richard Galliano, Rupa, Susanna Baca e Lura colloca i
Kantango sulla scena internazionale della world music ad
un livello di tutto rispetto.
Elisabetta Sermenghi
Elisabetta Sermenghi
Vanessa Da Mata
Ao Vivo (Live in Brazil)
Discograph / Self
Prematuro dopo soli tre album in studio
uscirsene con uno dal vivo? Forse
sì e nondimeno è sempre una valida alternativa a un
banale Best Of per lanciare definitivamente nel resto del
mondo un’artista in patria già enorme. Naturalmente non
faranno un soldo di danno le ospitate della più celebre
delle sezioni ritmiche in levare, ossia Sly & Robbie (da
sempre stretto il rapporto di Vanessa, che per un breve
periodo fu addirittura la cantante dei Black Uhuru, con il
reggae), e di Ben Harper. Tanto jazz e un sacco di funk nei
risvolti di una musica che del Brasile preferisce il versante
carnascialesco e sexy a quello della saudade.
Eddy Cilia
Vanesa Da Mata
Alexander Zucrow
Etno Jazz
Egberto Gismonti
Saudações
ECM / Ducale
Questo doppio album, “Saudações”
(saluti), segna il ritorno di Egberto Gismonti
a ECM dopo una assenza durata 14 anni. Il primo disco mette
a fuoco il Gismonti compositore per orchestra degli ultimi anni,
un viaggio di 70 minuti attraverso il suo Brasile che abbraccia
vari aspetti della cultura e della storia del paese. Esecuzione
convincente registrata all’Avana da un’orchestra di sole donne,
Camerata Romeu, diretta da Zenaida Romeu. Il secondo è un
quadro composito fatto di assoli e duetti con il figlio Alexandre:
registrato a Rio de Janeiro, comprende alcuni tra i brani
preferiti da Gismonti, Lundú, ZigZag e Dança dos Escravos…
La suite illustra il genio particolare del musicista, denso di
punti di riferimento musicali ma sempre inequivocabilmente
se stesso, mentre i duetti e gli assoli di chitarra lo confermano
musicista straordinario mettendo al tempo stesso in luce il
giovane figlio.
Luca Vitali
Bebo Ferra
Luar
Egea
È interessante e significativo che i
primi due pezzi del disco si dipanino
su un tempo ternario, due valzer che evocano leggerezze,
fruscii, brezze, suoni molto vicini al silenzio, quella voce
della Luna alla quale l’album è dedicato,che, ci ricordava
il maestro Fellini, si può ascoltare quando tutti finalmente
stanno zitti. Luar ruota tuttattorno alla ricerca della pace,
anche quando ne L’Alba di Yousif il discorso si fa lungo
e concitato sino a spegnersi in un balbettìo o in Io Ti
Salverò affiora una tormentata malinconia. Il clima sonoro
latinoamericano disegnato dal chitarrista sardo con Rita
Marcotulli, Marco Decimo e Lello Pareti, non va visto
come una limitazione, ma un abbraccio tra i continenti
sotto lo sguardo luminoso, silente e comprensivo del
pallido satellite.
Giulio Cancelliere
Nguyên Lê
Saiyuki
ACT / Egea
Continua il viaggio tra est e ovest del
chitarrista-filosofo vietnamita, che,
da tempo, ha assunto anche la veste di produttore,
consentendosi di sperimentare ad ampio spettro e prendersi
il tempo che occorre per dar forma all’ispirazione. Saiyuki,
titolo giapponese che significa «Viaggio verso occidente»,
punta prevalentemente verso l’India, culla del buddhismo
al quale Lê fa spesso riferimento, coadiuvato dal tablista
Prabhu Edouard e dal grandissimo Hariprasad Chaurasia
al bansuri (flauto indiano), le cui sonorità pervadono l’intero
album. Se, per certi versi, le sperimentazioni del leader
possono ricordare alcuni percorsi elettrici già intrapresi da
John McLaughlin, Nguyên Lê, a differenza del chitarrista
inglese di estrazione rock-blues, proviene da quella cultura
orientale e ne incarna profondamente l’essenza, anche se
mediata dagli strumenti occidentali. Una menzione merita
il koto di Mieko Miyazaki, che ci collega e riporta al punto
di partenza.
Giulio Cancelliere
musiques et cultures dans le monde
Anouar Brahem
MIX
MON DO ma
Mi a
The Astounding Eyes
of Rita
ECM / Ducale
Lavoro decisamente meno cameristico dei precedenti
Le voyage de Sahar e Le Pas du Chat Noir, ritmo più
definito e tradizionalismo mediorientale vivido, ma anche
elementi di modernità, in cui la linearità del Medio Oriente
e l’armonia occidentale si incontrano per dar vita a un
melange di grande sensibilità e apertura. Album ispirato
e dedicato a una figura molto influente nel mondo arabo,
lo scrittore e poeta palestinese Mahmoud Darwish,
scomparso nel 2008. Ensemble internazionale nato da
alcuni suggerimenti di Manfred Eicher, che unisce il
clarinettista Klaus Gesing - figura di spicco dell’ultimo
lavoro di Norma Winstone, Long Distance - e il bassista
elettrico Björn Meyer dei Ronin di Nik Bartsch. Completa
la formazione il percussionista libanese Khaled Yassine
che, venendo dal mondo della danza, conferisce grande
leggerezza alle strutture: elementi differenti che sanno
fondersi al meglio dando prova di grande sensibilità e
interazione. L’asse portante è costituito da Brahem e
Gesing che in Italia, a Cavalicchio, nello studio di Stefano
Amerio, decisero di realizzare questo bel progetto.Il tocco
all’oud di Brahem è più leggero del solito e il timbro più
sfumato, mentre Gesing al clarinetto basso ha un suono
oscuro e vibrante, pieno di tensione. Il risultato si traduce
in otto brani legati da un filo narrativo coerente costituito
in gran parte da melodie forti e fluttuanti che emergono
da un fondale groove lento e dal registro spesso basso.
Lavoro che sembra guardare al passato e alla tradizione,
ma con elementi di modernità del tutto nuovi, in cui la linea
di confine tra forma e libertà si fa sempre più indefinita per
un risultato di vibrante emozione.
Luca Vitali
Bebo Ferra Quartet
OGNI MESE
IN EDICOLA
O.S.T.
El ultimo aplauso
Enja / Egea
musiques et cultures dans le monde
MIX
MON DO ma
Mi a
Se la nostalgia è un paese, il tango è la sua capitale
R.F.Thompson
El ultimo aplauso è la colonna sonora dell’omonimo film
girato dal regista tedesco German Kral a Buenos Aires
tra il 2001 ed il 2008, sulle tracce dei vecchi cantanti
del mitico Bar El Chino .Un viaggio nella memoria di ciò
che il Tango tradizionale ha rappresentato ed ancor oggi
continua a rappresentare per la Città e la sua Gente.
«L’essenza del Tango - scriveva Adriana Varela, cantante
di Tango - sta nel suo carattere di musica di quartiere,
di marginalità. Il tango lo canta sempre un poeta
impegnato. Anche se i tanghi non hanno un contenuto
esplicitamente politico, tutti i tanghi sono impegnati
perchè sono politicamente scorretti. E lo sono ancora
di più, in questi tempi dove la sconfitta, la povertà e
l’emarginazione mostrano il loro essere effetto politico. Il
tango è scorretto, trasgressivo, e per questo è tornato...»
Ed ecco, idealmente in continuità con tale pensiero, questo
documentario illuminare la vita di una manciata di cantanti
dimenticati, la loro lotta per guadagnarsi da vivere dopo la
chiusura del bar durante la crisi economica più grande del
paese, e il loro sogno di cantare una volta ancora, forse
l’ultima, davanti ad un pubblico. Si chiamano Cristina De
Los Angeles, Inés Arce, Julio César Fernàn, Friàs Abel.
Grazie al musicista e produttore Luis Borda, una delle figure
più rappresentative del nuovo corso del tango argentino, il
sogno si realizza, e ne esce una splendida colonna sonora nella
quale le voci roche o melodiche, ma sempre appassionate al
limite della commozione, sono accompagnate dalla giovane
Orquestra Tipica Imperial in alcune sessioni di registrazione
in studio e in un concerto dal vivo. 18 brani che spaziano
dai tanghi più tradizionali di Gardel o Troilo ad alcuni tanghi
moderni, strumentali, di Piazzolla e Blazquez fino ad un
suggestivo A Salvador Allende di G.M.Argibay, pianista dell’
Orchestra. Fin dal primo ascolto si impone in questo lavoro,
a marcare un incessante 4/4, la forza dei tre bandoneon,
quattro violini, piano, violoncello e contrabbasso.
Ma il tango è anche e soprattutto linguaggio della corporeità,
musica da ballare innanzitutto, dove le emozioni si
traducono in movimento, energia che dal centro si trasmette
alla periferia connettendole in un Unico. Sarà un ascolto del
corpo quello che ci darà la misura della densità di questo
disco. Indossate le vostre scarpe da tango dunque, e lasciate
i vostri piedi raccontarvi, pivot giros e boleos i loro sostantivi,
una storia di Perdita, di Passione, di Amore, di Nostalgia.
Vi scoprirete a tornare ancora ed ancora a Desencuentro,
Niebla del Riachuelo, Ventarròn, al vals Romance de Barrio...
per fermarvi, ne sono certa, al rapimento della voce straziata
di Inés Arce in un’indimenticabile live, Duelo Criollo. Per el
ultimo aplauso dalla sua gente, la Gente del Tango.
Mariangela Spinazzè
Colonne Sonore
Avanguardia, Blues, Country, Etno, Exotica, Folk,
Free, Funk, Glitch, Hip Hop, House,
Improvvisata, Indie Rock, Industrial, Jazz,
Lounge, New Wave, Pop, Post Rock,
Progressive, Psichedelia, Rhythm’n’Blues,
Rock’n’Roll, Soul, Sperimentale, Techno...
www.blowupmagazine.com
Alexander Zucrow
Global sound
Ibrahim Maalouf
Ibrahim Maalouf
Diasporas
Ponderosa
lIn occasione dell’imminente uscita
sul mercato italiano del nuovo cd
di Ibrahim Maalouf Diachronism (al
momento non ancora disponibile), ci sembra doveroso
ripescare e segnalare il suo lavoro precedente Diasporas
che non ha avuto nel nostro paese l’attenzione che
avrebbe meritato. Nato a Beirut, nel 1980, Ibrahim Maalouf
poco dopo la nascita viene portato in Europa dalla sua
famiglia che fugge dal Libano orrendamente devastato
dalla guerra civile e si stabilisce in Francia. Seguendo le
orme del padre, anch’egli trombettista (fra l’altro il primo
trombettista arabo a suonare musica occidentale), Ibrahim
comincia a studiare musica in tenera età e a seguire, verso
i nove anni, il padre nei concerti. La sua grande attitudine
allo strumento lo porta a ricevere, ormai ventitreenne,
importanti
riconoscimenti
internazionali.
Seguono
svariate collaborazioni con artisti del calibro di Amadou
& Mariam, Archie Shepp, Vincent Segal, Vanessa Paradis
e la partecipazione all’Opera Rock di Sting. Ultimamente
ha contribuito alla produzione del nuovo album di Salif
Keita La différence. Lo studio e la passione per la musica
classica occidentale, per la musica della tradizione araba
come pure per il jazz, il rock ed il soul hanno prodotto in
questo talentuoso musicista la capacità di miscelare suoni
e culture con grande misura. Omaggiando ora l’uno ora
l’altro i vari generi musicali, sulle le note vibranti della sua
tromba ci accompagna in mondi diversi e ci mostra visioni
lontane. Il suono dinamico e multiforme di una diaspora.
La guerra che uccide e che divide, la nostalgia di chi cura
il ricordo delle proprie radici abbandonate inseguendo il
sogno di un futuro altrimenti incerto o negato.
Elisabetta Sermenghi
Kronos Quartet
Floodplain
Nonesuch / Warner
MIX
MON DO ma
Mi a
Sembra che sia cominciato
tutto dieci anni fa quando David
Harrington in un mercato di Beirut
ha sentito la voce di Fairuz che cantava Wa Habibi. Dopo
aver chiesto a uno dei suoi collaboratori di farne un
arrangiamento, il pezzo è entrato stabilmente nelle scalette
dei concerti.
Lì è cominciato il viaggio del Kronos per esplorare
le tradizioni musicali più diverse e lontane. Come in
ogni viaggio il gruppo ha incontrato delle persone. Il
collettivo elettronico palestinese Ramallah Undeground,
la compositrice serba Aleksandra Vrebalos o Lev Ljova
Zurbin, autore russo residente a New York, tra gli altri.
E come in ogni viaggio, le atmosfere si susseguono:
dall’orecchiabile Ya Habibi, Ta’ala, con contrappunti leggeri
che ricordano l’orchestra di Oum Kaltsoum, all’elettronica
cupa di Tashweesh, fino agli intensi 12 minuti di Getme
Getme con la partecipazione del duo mughal azero di Alim
e Fargana Qasimov.
Quando a 12 anni ho cominciato a suonare in quartetto
– racconta Harrington – mi sono reso conto che tutta
la musica che suonavo veniva da Vienna o giù di lì. Poi
guardavo sul mappamondo Africa e Asia e mi chiedevo
come fosse la musica di zone così lontane.
Il risultato di questa curiosità è un disco coraggioso,
sempre complesso ma mai ostico, in cui il Kronos mi ha
ricordato come la musica classica sia sempre stata, in
origine, musica popolare.
Luca Vergano
Hugh Masekela
Phola
Times Square / Egea
Settant’anni (compiuti lo scorso 4
aprile) di cui cinquanta trascorsi fra
palcoscenici e studi di registrazione
a forgiare una musica che era “del
mondo” decenni prima che si cominciasse a parlare di
world: musica senza confini quella di Hugh Masekela,
radicata nel natio Sudafrica e profumata di pop occidentale,
intrisa di jazz, disposta ad arrendersi al funk, non digiuna
di rock (qualcuno lo ricorda? il trombettista era presente
a quel festival di Monterey che nel ’67 inaugurava l’epoca
dei grandi raduni giovanili). Phola è, sebbene con qualche
levigatezza di troppo, perfettamente nel solco di una storia
coerentissima nella sua inesausta voglia di meticciato.
Eddy Cilia
musiques et cultures dans le monde
Hugh Masekela
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è l’etichetta discografica della
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