“I migliori derby della nostra vita” di Massimo Gramellini (editore

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“I migliori derby della nostra vita” di Massimo Gramellini (editore
“I migliori derby della nostra vita” di Massimo Gramellini (editore Priuli & Verlucca,
costo 7,90 euro, in edicola con La Stampa da domenica 23 settembre) è il romanzo di
un’affettuosa inimicizia fra Granata Da Legare e il suo vicino di casa Riccardo, lo
juventino perfetto, che si snoda lungo quarant’anni e dodici stracittadine trionfali.
Ecco i titoli di alcuni capitoli: “La volta che Meroni segnò due gol ai pigiami ed era
morto”, “La volta che Pulici soffiò sulla palla e divenne Ciclone”, “La volta che
Magath scoprì di avere una nonna granata”, “La volta che Rizzitelli punse nostra
Signora e la sgonfiò”, “La volta che Maspero affossò El Matador”.
Pubblichiamo il capitolo “La volta che Junior lanciò un aquilone nell’area Serena”.
LA VOLTA CHE JUNIOR LANCIÒ
UN AQUILONE NELL’AREA SERENA
L’estate del 1984 mi fu meno arcigna di quanto avesse immaginato George Orwell nel romanzo omonimo.
Quel grand’uomo non poteva certo sapere che Junior e Serena sarebbero approdati al Toro, né che la notte di Ferragosto
io avrei dormito con Raimonda la Seria sulla spiaggia di Alassio, fra fuochi, chitarre e sacchi a pelo.
Poi arrivò l’autunno e la squadra cresceva a meraviglia sotto lo sguardo ritrovato di Radice. Anche il mio amore
guizzava verso stelle lontanissime, nonostante le amiche di Raimonda mi avessero messo in guardia, sostenendo che
sulla sua storia precedente non erano ancora scesi i titoli di coda. Si era lasciata da poco con il ragazzo, che in realtà era
un vecchio di trentacinque anni.
Ma noi del Toro siamo fatti così: quando partiamo alla carica, ci dimentichiamo volentieri di curare la difesa. Mi
innamorai come una pera cotta e sciroppata.
Provavo la netta sensazione di avere incrociato la donna definitiva. I suoi occhi verdi avevano letto tutti i libri del
mondo e le gocce di saggezza che distillava dalle labbra carnose facevano di lei la mia filosofa di riferimento. Di sicuro
l’unica a poter vantare un tale concentrato di arguzia e due seni che avevo ribattezzato Aubisque e Tourmalet, in
omaggio alle salite più impervie del Tour.
La chiamavano la Seria, eppure con me non smetteva mai di ridere. Nemmeno io. Viveva nella mia città, ma la sua
famiglia era originaria della Corsica e l’ex fidanzato abitava a Bastia, un nome che a lei evocava scenari incontaminati e
a me una mai digerita eliminazione dalla Coppa Uefa.
Amava a tal punto la sua isola che aveva deciso di trasferirsi laggiù dopo la laurea. Ma la domenica prima del derby
successero tre eventi memorabili. Il Toro sconfisse il Milan con una punizione di Junior che piovve in rete come una
lacrima di felicità. Raimonda telefonò al suo ex per dirgli che si era messa con un altro. E i pigiami tornarono da San
Siro con quattro ciliegine interiste sul groppone.
Sarà stato un caso, ma nel primo e unico campionato col sorteggio integrale degli arbitri Riccardo e soci erano adagiati
sul fondale della classifica, a boccheggiare fra il Como e l’Avellino. Noi invece contendevamo al Verona la conquista
degli spazi siderali. Una vittoria contro le strisce in disarmo ci avrebbe permesso di formulare un pensierino sullo
scudetto. Non accadeva dai tempi di Pupi.
La sera della vigilia fu tesa come al solito, ma stavolta non dipendeva dalla paura di Platini, che mi aveva rovinato gli
ultimi derby con dei gol bellissimi e crudeli.
È che all’improvviso Raimonda era cambiata e, pur di non farmi andare a casa sua, si era esibita in una serie di scuse
incredibili: aveva detto di avere la febbre, poi che l’avevano sua madre e suo fratello. Pareva che quella casa fosse
diventata il focolaio di un’epidemia mondiale.
Stava anche peggio la mattina dopo, quando richiamò. La sua voce era allegra come la faccia di Riccardo ogni volta che
entrava nella mia stanza e ci trovava il poster di Magath.
Disse che aveva bisogno di parlarmi. Le risposi che sarei passato a prenderla non appena sbrigata la pratica del derby.
Insistette: doveva vedermi prima. E poiché il mio «prima» era occupato interamente dalla partita, si offrì di venire in
Maratona con me, anche se faticava a distinguere un pallone da un melone.
In giro non si trovava più l’ombra di un biglietto, ma Gusto comprese l’emergenza e mi regalò il suo, riducendosi a
soffrire in solitudine davanti alla radiolina. Sapeva che avrei fatto lo stesso per lui, se solo si fosse deciso a dimenticare
Anna Carla, la serpentessa a strisce che gli aveva avvelenato il cuore, e a portare in curva una fanciulla perbene.
Quel pomeriggio Raimonda aveva le borse sotto gli occhi e la bocca ammainata, ma io ero così innamorato che la trovai
bellissima.
Per la prima volta mi recavo allo stadio con una persona estranea al rito. Provai a osservarlo attraverso il suo sguardo e
ne colsi il lato assurdo. Migliaia di persone pigiate una sull’altra, a soffrire, urlare e lanciarsi insulti, avevano speso un
mucchio di soldi per assistere all’unico spettacolo che quando ti soddisfa (perché lo stai vincendo) non vedi l’ora che
finisca. Una pattumiera degli istinti più bassi, ecco cos’era il tifo.
Quando i giocatori del Toro entrarono in campo per gli esercizi di riscaldamento, dalla Maratona si alzò il grido di
battaglia.
«Uc-ci-de-te-li! Uc-ci-de-te-li!».
Raimonda mi chiese da quale gabbia sarebbero comparsi i leoni e io concordai con lei sulla follia della folla, due parole
separate da una sola «i». Ma appena la filosofa si piegò ad allacciarsi una scarpa, scaraventai la mia voce in mezzo alle
altre.
«Uc-ci-de-te-li! Uc-ci-de-te-li!».
La nostra curva era il solito carnevale di bandiere e cartelli strafottenti. Uno ricordava la recente impresa dei pigiami a
San Siro: «Minime al nord: meno 4». Dalla domenica successiva lo copiarono tutti, al punto che oggi è diventato una
banalità. Ma nessuno mai sarebbe riuscito a imitare l’immenso lenzuolo che un complesso sistema di argani calò all’ora
X sulla testa della Maratona, fino a fasciarla come un monumento, un altare, una reliquia.
Il cielo sopra di noi divenne un mare di stoffa granata e l’unico rammarico era di non poter vedere l’impatto maestoso
della scenografia, anche se ne coglievamo l’eco negli applausi della tribuna e nel silenzio spettrale dell’altra curva.
Guardai Raimonda fluttuare sotto quel manto di sangue e mi sentii felice. Come quando da piccolo, a letto, mi
nascondevo negli abissi delle lenzuola e fingevo di essere a bordo del sottomarino di Jules Verne. Un ripasso delle
emozioni dell’infanzia, ecco cos’era il tifo, altroché.
Baciai Raimonda sul collo e sulla bocca. Al suo posto un merluzzo sarebbe stato più cordiale.
– Che succede, Rai?
– Ti devo parlare.
– Forse meglio dopo, non credi?
L’altoparlante aveva cominciato a scandire la formazione della Juve e la Maratona era un fischio di quindicimila labbra
che divenne boato all’annuncio di quella del Toro, gorgoglio di orda all’ingresso delle squadre e urlo belluino quando
all’ottavo minuto Tardelli tentò uno sgambetto maligno su Dossena, innescando un parapiglia interrotto dall’arbitro con
l’ammonizione indovina di chi: ma di Dossena, naturalmente.
A gettare una lastra di ghiaccio sui nostri bollori fu il solito Platini, che scassinò la porta di Martina con un piede di
porco pesantissimo.
1 a 0 per lui.
Nel silenzio della metà granata dello stadio, si levarono due soli suoni: il grugnito di goduria degli juventini e la voce
secca di Raimonda.
– Stasera parto e vado in Corsica. Per sempre.
Anche il dolore ha le sue precedenze. Prima di dedicarmi a questa nuova pugnalata dovetti medicare quella appena
infertami da Platini. Ci volle un accenno di reazione del Toro perché io recuperassi un po’ di ottimismo da rovesciare
addosso alla disgrazia che incombeva.
– Vuoi che venga con te?
– Voglio che non ci vediamo mai più.
Ci sono frasi che ti strapperebbero la pancia in qualsiasi situazione. Ma ascoltarle nel bel mezzo di un derby che stai
perdendo 1 a 0, mentre ti immagini la faccia di Riccardo gonfia di boria come una rana a strisce, produce sconquassi
difficilmente curabili nel corso di una sola vita.
Urgevano spiegazioni da parte di Raimonda. E contromisure immediate sul suo connazionale Platini. Il quale,
chiaramente avvantaggiato dal mio calo di concentrazione, si era appena bevuto in dribbling tutta la difesa e soltanto il
soffio di sgomento che mi scappò dalla bocca riuscì a far finire il suo tiro un millimetro oltre i pali della nostra porta.
– Lui è venuto a trovarmi – mi rovesciò Raimonda nell’orecchio, e da lì direttamente nella bile.
Lui era chiaramente «lui», il dannatissimo tifoso trentacinquenne del Bastia. – Mi ha detto che si è reso conto di quanto
sono importante. Che è disposto a vivere con me, a sposarsi, a darmi un figlio. Tutte le cose che gli avevo chiesto
inutilmente per anni.
– È più opportunista di Platini, questo signore. Ti tiene a stecchetto da una vita. E poi, appena capisce che hai un altro e
che sta perdendo il controllo su di te, eccolo rispuntare a galla: innamorato e pentito. Ma come fai a cascarci così?
– Tu non sai quanto ho lottato e pianto per poter ascoltare le parole che mi ha detto ieri. Lo avevo lasciato perché avevo
esaurito la speranza che me le dicesse. Ma ora è stato qui, mi ha chiesto di sposarlo e di andare a vivere con lui nella sua
isola… La nostra isola… Non capisci…
Serena addomesticò un pallone scagliatogli da Dossena e lo scodellò sulla scarpa incombente del vecchio Zac. Era più
facile metterlo dentro che sbagliarlo. Ma Zac decise di fare il difficile e lo sbagliò.
– Ah, sono io che non capisco? Io? – ululai con una rabbia raddoppiata dalla nefandezza che avevo appena visto
compiersi in campo. – Sei tu, piuttosto, che preferisci uccidere un amore in fasce pur di restaurare un cadavere. Non sei
più innamorata di lui. Sei innamorata di te, del tuo desiderio di andare a vivere in Corsica, del senso di vittoria che ti
produce l’averlo visto finalmente crollare ai tuoi piedi… Ma non si puòòòòòòòò!
Le ultime parole erano dedicate in realtà ad altri piedi. Quelli di Schachner, che nel tentativo di stoppare un pallone al
limite dell’area, lo avevano spedito a sedici chilometri di distanza, più o meno fra Carignano e Carmagnola.
L’intervallo trascorse in una rimasticatura sterile di ciò che ormai era chiarissimo a entrambi. Per Raimonda io non ero
ancora un sogno abbastanza grande da oscurare quello che la retromarcia del Corso le aveva spalancato davanti agli
occhi, proprio quando lei, dopo anni di accanimento a senso unico, aveva deciso di seppellirlo.
Ricominciò la partita e, su un traversone interminabile di Galbiati, Schachner dimenticò i piedi e usò finalmente la testa,
trasformandola nella sponda di un flipper. La palla si infranse contro una caviglia di Francini, difensore granata in
missione speciale fra le linee nemiche. Ne uscì un proiettile dal basso verso l’alto, secco ed esagerato, che penetrò le
carni della porta di Tacconi, gonfiando la rete come se l’avesse investita uno squalo.
Uno a uno per noi!
Era il solito Toro, che veniva in mio soccorso quando tutto era perduto, fuorché la speranza di una rimonta. Mi volsi
verso Raimonda con uno sguardo vergine e la baciai. Lei mi ricambiò a lungo, e a fondo. Poi scoppiò a piangere.
– Non facciamoci del male, ti prego. Ho preso la mia decisione e non riuscirai a farmela cambiare con tutti i baci del
mondo. Mi stavo innamorando di te, sul serio. Ma non posso…
– Cos’ha lui più di me? Oltre ad avere appena compiuto cento anni, a essere un tifoso del Bastia e, permettimi di dirtelo,
un pigiama potenziale.
– Ma non puoi essere geloso di uno che era parte della mia vita molto prima di te! – si difese. – Fino a sei mesi fa io e
lui stavamo insieme…
– Appunto, sei mesi fa. Poi stop, basta, pietà, voltiamo pagina e guardiamo avanti. Io li abolirei tutti per principio, gli
ex. Tornano sempre su, peggio della peperonata. Nel calcio ti fanno gol e in amore ti rovinano. Servirebbe una
quarantena, come per le malattie infettive. Vietato vedersi per dieci anni e poi, forse, si può provare a diventare amici.
– Anche tu adesso sei un mio ex. Ma io non voglio diventare tua amica. Neanche fra dieci anni. Non sopporterei di
saperti con un’altra. E poi rivederti mi confonderebbe, sempre.
A suo modo era una dichiarazione d’amore, ma non riuscii ad apprezzarla. Anche perché Dossena esplose il tiro più
bello del mondo, ma strapazzò la rete dal lato esterno, dandoci solo l’illusione del gol.
Un dolore aspro di tenaglia che morde le viscere mi era calato addosso, ergendosi a corazza contro tutte le emozioni.
Almeno così credevo.
– Rai, io ti amo.
Ecco, mi ero già squagliato. Più patetico del dribbling con cui Briaschi aveva tentato di saltare Junior: al nostro
brasiliano era bastato sollevare una scarpa per soffiargli il giocattolino prediletto.
– Smetti di pensare a me e concentrati su te stesso. Non sogni da una vita il mestiere di Brera e Montanelli? Comincia a
sbatterti, allora. Trova un piccolo giornale che ti faccia scrivere, magari sul Toro. È il tuo sogno, quello. La tua Corsica.
E ce la farai a raggiungerla, io lo so. Allora ti innamorerai della donna veramente destinata a te. Anche se io non lo
vorrò sapere…
Era l’ultimo minuto, e mica solo del derby. Junior venne alla bandierina sotto di noi a battere un corner, ma io avevo gli
occhi troppo appannati per metterlo a fuoco. Vidi solo che sistemava la palla sull’erba e la trasformava un po’ alla volta
in un aquilone. Quando fu soddisfatto del suo lavoro, lo lasciò volteggiare nel cielo dei pigiami con un colpo leggero.
L’aquilone si impennò davanti al primo palo della porta di Tacconi. Sarebbe rimasto lì per molto tempo, credo, se
Serena non avesse deciso di scendere a prenderlo.
Era saltato un’ora prima, galleggiando nell’atmosfera come un astronauta. A contatto con la sua crapa, l’aquilone tornò
ad assomigliare a una palla e terminò il suo viaggio incantato in fondo alla rete.
– Sììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììììì.
Un derby vinto alla fine del derby: la famosa zona Cesarini, che manco a dirlo era uno juventino.
Per un attimo il dolore mi uscì dalla pancia. Sapevo che sarebbe tornato più forte la mattina dopo, e poi tante altre
mattine e sere e notti insonni. Però adesso la vita mi concedeva una pausa per fare il pieno di felicità.
Mi voltai verso Raimonda, ma era volata via. Avrei dovuto costruirmi un nuovo aquilone. L’impresa sembrava
impossibile, eppure bisognava immaginare che non lo fosse.
Junior e Serena mi avevano appena insegnato come fare.