dispensa generale ottica oftalmica
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dispensa generale ottica oftalmica
OTTICA OTTICA GEOMETRICA. Il mondo che ci circonda e nel quale viviamo è pervaso da energia elettromagnetica che sottoforma di onde si propaga in tutte le direzioni. L’energia elettromagnetica si differenzia in base alla lunghezza dell’onda di propagazione “λ” e alla frequenza di vibrazione “ν”; ad esempio l’energia che si muove con un’onda di 10-2 metri è utilizzata dai radar, mentre i raggi X usati dalla diagnostica vibrano con una lunghezza di 10-12 metri ecc. Una piccolissima porzione di onde elettromagnetiche, quelle comprese tra λ10-8 e 10-6 metri hanno la caratteristica, se captate dall’occhio, di eccitare i ricettori della retina e provocare la sensazione luminosa che si traduce in effetto visivo. Per questo fatto tali radiazioni vengono chiamate onde luminose o più brevemente: “luce”, ed il loro insieme costituisce quella porzione di spettro elettromagnetico denominato spettro visivo. Furono le intuizioni di padre Grimaldi (1665) e gli esperimenti di Newton poi che dimostrarono che lo spettro visibile, o luce bianca, è scomponibile in una serie di colori detti colori dell’iride: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Solo nel 1827 si poterono effettuare vere e proprie misure delle lunghezze d’onda dello spettro visibile e si potette associare la percezione visiva dei vari colori a specifiche lunghezza d’onda e fu possibile definire la seguente corrispondenza: E. Bottegal – Ottica oftalmica 1 Parallelamente allo studio sulla natura della luce, anche quello sulla sua velocità propagazione ha impegnato gli scienziati per oltre tre secoli. Infatti essendo essa molto elevata solo in tempi moderni, e con sofisticate tecnologie è stato possibile definirne con precisione i valori e come essi mutino al mutare del mezzo ove avviene la propagazione. Si stabilì, infatti, che nel vuoto, ove non esistono attriti, la radiazione raggiunge la sua massima velocità (c = 299.793 Km/s), mentre rallenta quando attraversa sostanze trasparenti, ma più dense; ad esempio in acqua essa cala a 225.056 Km/s, nel vetro oftalmico è 196.980 Km/s e così via. La visione. Per effetto della riflessione della luce i corpi rimandano in tutte le direzioni i raggi luminosi che li colpiscono, provenienti da sorgenti autonome (sole, lampadine ecc.) Se nel percorso di questi raggi si viene a trovare un occhio umano essi entrano dalla pupilla e vanno a stimolare la retina che a sua volta trasmette al cervello (attraverso il nervo ottico) la sensazione luminosa raccolta. Il cervello elabora il segnale e ne ricostruisce forma, colore, dimensione. Quindi proietta davanti a se l’immagine, così costruita, dell’oggetto e mediante un processo di triangolazione la colloca in un preciso punto dello spazio reale. La visione è quindi un fenomeno psichico che può essere influenzato da fattori esterni che modifichino la qualità, la direzione e l’intensità dei raggi luminosi che colpiscono la retina. Ciò accade, per esempio, quando la luce, prima di arrivare all’occhio, attraversa altri corpi trasparenti, che pur lasciandola passare ne alterano la direzione. Il più classico degli esempi di questo tipo è l’errore di collocazione degli oggetti visti attraverso una massa d’acqua. La rifrazione. Il fenomeno appena descritto è spiegato scientificamente dalla rifrazione della luce. Un raggio luminoso si propaga all’infinito senza mai cambiare direzione fin tanto che il mezzo nel quale avviene la propagazione rimane costante. Se invece il mezzo muta in consistenza o trasparenza il raggio modifica la sua velocità di propagazione e di conseguenza la sua direzione. Se consideriamo che il primo mezzo di propagazione sia il vuoto e il secondo una qualsiasi altra sostanza trasparente più densa, possiamo fare il rapporto tra le due velocità: esempio: vvuoto / vvetro = n 2 Il valore assunto da “n” in questo rapporto viene chiamato indice di rifrazione di quella sostanza rispetto al vuoto. Alla diminuzione di velocità corrisponde anche una variazione di direzione di propagazione. Si possono infatti identificare l’angolo con cui la luce incide il mezzo più denso (angolo d’incidenza) e l’angolo con cui prosegue più lenta dentro detto mezzo (angolo di rifrazione) e si nota che il rapporto tra questi due angoli è ancora uguale ad “n” Quindi l’indice di rifrazione (n) può essere calcolato e definito da questo rapporto angolare. (fig.1) î / řD = n Figura 1 La Dispersione. Come abbiamo visto la luce bianca è composta da una serie lunghezze d’onda diverse a cui associamo diverse percezioni cromatiche. In effetti non esiste un unico indice di rifrazione delle varie sostanze trasparenti, ma bensì diversi indici quante sono le differenti lunghezze d’onda che compongono lo spettro. Pertanto quando un raggio di luce bianca penetra in una sostanza più densa si scompone in un pennello di raggi corrispondenti alle diverse lunghezze d’onda. Si genera il così detto effetto arcobaleno. Questo fenomeno si chiama “dispersione”, essa può essere maggiore o minore a seconda delle caratteristiche del mezzo che l’ha generata. La dispersione può essere misurata e il suo valore si esprime con il numero di Abbe. E. Bottegal – Ottica oftalmica 3 La Vergenza. Consideriamo uno schermo opaco con al centro un foro circolare (diaframma) e un punto raggiante posto sull’asse del diaframma ad una distanza finita dallo schermo stesso (fig. 2). I raggi luminosi che riusciranno a passare attraverso il diaframma vanno a costituire un cono luminoso che ha il vertice sul punto raggiante e come base l’apertura del diaframma. Figura 2 I raggi che costituiscono il cono hanno una certa divergenza che aumenta e diminuisce a seconda della distanza del punto raggiante dal centro del diaframma (fig.3). Più precisamente essa aumenta col diminuire della distanza e diminuisce col crescere della stessa. Figura 3 In ottica oftalmica ha molta importanza poter misurare il valore di divergenza o convergenza (vergenza positiva o negativa) che i raggi possono assumere rispetto all’occhio che li raccoglie o rispetto ad una lente che li deve modificare. 4 Come si è visto la maggiore o minore vergenza dei raggi è strettamente legata alla distanza del punto raggiante dal centro del diaframma; anzi possiamo definire che il suo valore è inversamente proporzionale ad essa. Quindi per calcolare la vergenza dei raggi rispetto ad un sistema di riferimento (nel ns. esempio il centro del diaframma) basta fare l’inverso della distanza che stiamo prendendo in esame (ad es. la distanza tra il punto raggiante e il centro del diaframma). Come noto, inverso di un numero è il quoziente ottenuto divedendo 1 per quel numero Per continuare col nostro esempio, se il punto raggiante si trova a 1 metro dal diaframma la vergenza dei raggi luminosi sarà: 1:1 = 1 se la distanza è di 0,50 metri la vergenza sarà: 1:0,5 = 2 per una distanza di 0,25 metri: 1:0,25 = 4 ecc. Ogni qualvolta la distanza viene espressa in metri la vergenza che ne risulta è espressa in diottrie. Fuoco. Per effetto della rifrazione, la luce muta il suo percorso quando attraversa corpi trasparenti di densità diversa. Consideriamo alcuni esempi. Se ad un fascio luminoso che proviene dall’infinito (vergenza 0) anteponiamo una lamina pianoparallela in vetro i raggi non subiranno alcuna deviazione (angolo di incidenza = 0°). Se gli stessi raggi colpiscono la lamina con un angolo diverso da zero essi vengono rifratti all’interno della lamina ed emergono dalla parte opposta, spostati rispetto al cammino originario, ma sempre con vergenza 0 (fig.4). E. Bottegal – Ottica oftalmica 5 Figura 4 Se, invece, anteponiamo al cammino degli stessi raggi un blocco di vetro che presenti verso i raggi incidenti una superficie convessa di tipo sferico si noterà che del fascio luminoso che proviene dall’infinito solo il raggio centrale colpirà la calotta sferica con un angolo d’incidenza (î) uguale a zero e quindi non verrà deviato; tutti gli altri formeranno angoli di incidenza sempre maggiori man mano che si allontanano dal centro e di conseguenza verranno deviati in misura diversa. Il fascio di raggi paralleli proveniente dall’infinito, una volta entrato nel vetro si trasforma in un fascio di raggi convergenti che proseguendo per il loro cammino vanno tutti ad incontrarsi in un unico punto ad una certa distanza dall’apice della calotta sferica che li ha deviati. Ora se ponessimo in questo punto uno schermo opaco, su di esso potremmo vedere la perfetta immagine dell’oggetto che all’infinito ha creato il fascio di raggi. (fig.5) Figura 5 E. Bottegal – Ottica oftalmica 6 Il punto ove si raccolgono i raggi e si forma l’immagine prende nome di fuoco. La distanza del fuoco dall’apice della calotta sferica dipende da due fattori: 1. l’indice di rifrazione del vetro 2. il raggio di curvatura della calotta infatti se la curvatura della calotta aumenta, essa tende a far aumentare l’angolo di incidenza dei raggi e di conseguenza aumenta anche l’angolo di deviazione (rifrazione) degli stessi. Una volta determinata la posizione del fuoco rispetto alla calotta che l’ha generato si può agevolmente misurare la distanza che lo separa dall’apice della stessa. Quindi operando l’inverso di tale distanza otterremo il valore in diottrie della vergenza positiva (convergenza) di quei raggi. Ne consegue che volendo dare un valore alla capacità di diverse calotte sferiche di far convergere i raggi luminosi non sarà più necessario riferirsi al loro raggio di curvatura, ma bensì alle diottrie di vergenza che sono in grado di esprimere. Ora immaginiamo di anteporre alla radiazione che proviene dall’infinito (vergenza 0) la superficie concava di una calotta sferica di vetro. La rifrazione avviene, ovviamente, secondo le regole consuete (i raggi rifratti piegano e si avvicinano alla normale), Il fascio di raggi paralleli proveniente dall’infinito, una volta entrato nel vetro si trasforma in un fascio di raggi divergenti che, allontanandosi sempre di più tra di loro, non s’incontreranno mai in alcun punto dello spazio reale. Viene pertanto a mancare il punto di fuoco che, come si è visto, serve a calcolare la vergenza della superficie rifrangente. Per ottenere comunque tale valore si prolungano artificiosamente all’indietro i raggi emergenti fino ad ottenere il loro congiungimento in un punto dell’asse (raggio centrale che non viene deviato) determinando così un fuoco virtuale. E. Bottegal – Ottica oftalmica 7 Diventa ora semplice misurare la distanza di tale fuoco virtuale dall’apice della superficie rifrangente e calcolare la vergenza che in questo caso sarà indicata con segno negativo (vergenza negativa). Finora abbiamo sempre considerato che il punto raggiante sia posto all’infinito in modo tale che la superficie rifrangente venga investita da un fascio di raggi a vergenza 0 (paralleli). Quando la sorgente luminosa viene spostata dall’infinito verso la superficie rifrangente, i raggi che andranno a colpire il diottro avranno un percorso divergente. Essendo la capacità rifrangente del diottro costante, si genererà un allontanamento, rispetto al fuoco, del punto in cui si forma l’immagine nel caso di diottro convergente e un avvicinamento nel caso di diottro divergente. OTTICA FISIOLOGICA. Anatomia del sistema visivo. Per meglio comprendere il funzionamento dell’occhio umano dal punto di vista della sua rifrangenza è opportuno conoscere alcuni elementi della sua anatomia. Come si osserva nella sezione in fig. 6, nella parte anteriore l’occhio presenta una calotta trasparente detta Cornea che rappresenta il più importante mezzo rifrattivo di tutto il sistema visivo; la cornea in periferia si congiunge con una membrana opaca, fibrosa e di colore bianco, la sclera, la quale, estendendosi all’indietro, forma un guscio sferico che chiude completamente l’occhio. Procedendo verso l’interno, oltre la cornea, si trova uno spazio vuoto, riempito da un fluido detto umor acqueo, delimitato posteriormente da una sottile membrana, mobile e pigmentata: l’iride, al cui centro si apre, con diametro variabile, un foro: la pupilla. Subito dietro la pupilla è posizionato il cristallino; un corpo, anch’esso perfettamente trasparente, a forma di lente biconvessa, che per effetto di un meccanismo chiamato accomodazione è in grado di mutare la curva delle proprie superfici e quindi il suo potere rifrattivo. Il cristallino è tenuto sospeso in perfetta posizione da un serie di filamenti detti zonula di Zinn che si inseriscono nelle pliche (processi ciliari) del muscolo ciliare. Oltre il cristallino l’occhio presenta una cavità le cui pareti sono quasi interamente tappezzate dai terminali dalle fibre nervose provenienti dal nervo ottico che penetrano all’interno da un forame posizionato in prossimità del polo posteriore dalla parte nasale. Tali terminali sono costituti dai fotorecettori che sono le cellule sensibili alla luce. Esse, una volta sensibilizzate, trasformano lo 8 stimolo luminoso in un segnale elettrico che percorrendo a ritroso il nervo ottico va a stimolare l’area della corteccia cerebrale deputata alla visione. Questo tappeto di recettori, che prende il nome di retina, non presenta una qualità costante lungo tutta la sua estensione. Esso ha un’elevatissima raffinatezza e specializzazione solo in una piccolissima area (fovea) di 4mm di diametro posta vicino al polo posteriore. Man mano che ci si allontana dalla fovea la retina perde in raffinatezza fino a diventare, nelle zone molto periferiche, alquanto grossolana. È quindi la fovea che determina la direzione visiva, perché è solo con essa che l’occhio è in grado di fornire la visione nitida e particolareggiata degli oggetti fissati. Tutto il rimanente tessuto retinico ha la funzione di fornire il riempimento del campo visivo proponendo degli oggetti soltanto forma e colore. Figura 6 L’occhio come sistema rifrangente. Se, al posto delle superfici di vetro, poniamo a fronte della radiazione luminosa un occhio umano, completo di tutte le sue strutture e assente da qualsiasi difetto anatomico-funzionale, potremmo vedere che esso si comporta come un sistema convergente (vergenza positiva) con il fuoco posto in corrispondenza della retina centrale. Quando tale condizione è soddisfatta si innesca il fenomeno della visione come descritto all’inizio. A causa di uno sviluppo anomalo del bulbo oculare o di alcune sue membrane è possibile che questa condizione non si verifichi, cioè che il fuoco del sistema convergente dell’occhio non vada a 9 cadere sulla retina centrale (fovea) ma bensì fuori di essa; in questo caso le immagini che vengono trasmesse al cervello saranno poco nitide, prive di particolari salienti, e la loro ricostruzione (proiezione) psichica lo sarà altrettanto. Tali alterazioni del sistema diottrico dell’occhio prendono il nome di ametropie visive. Esse sono di tre tipi: 1. miopia 2. ipermetropia 3. astigmatismo Quello miope è un occhio che possiede un eccesso di vergenza positiva (convergenza) rispetto alla posizione della sua retina. Infatti in esso il fuoco dei raggi provenienti dall’infinito si forma prima della retina ad una distanza relativa all’entità del difetto (fig.7). In questo caso, per risolvere il problema basterà anteporre all’occhio una lente a vergenza negativa (divergente) opportunamente calcolata in modo che i raggi provenienti dall’infinito entrino dentro l’occhio non più paralleli ma divergenti al punto tale da compensare esattamente l’eccesso di convergenza originario. Ciò fatto, il fuoco si sposterà sulla retina centrale consentendo il ripristino della visione nitida. Figura 7 Nell’occhio ipermetrope si presenta il problema opposto, esso infatti ha un deficit di convergenza tale che, se ciò fosse possibile, il fuoco dei raggi provenienti dall’infinito andrebbe a formarsi oltre la retina, fuori dall’occhio stesso. L’apposizione di una lente a vergenza positiva (convergente), opportunamente calcolata, farà si che i raggi, prima di penetrare l’occhio, possano acquistare quel tanto di convergenza sufficiente a riportarne il fuoco sulla retina. (fig.8) E. Bottegal – Ottica oftalmica 10 Figura 8 L’astigmatismo è un difetto che dipende dalla curvatura della membrana più esterna dell’occhio (cornea). Essa dovrebbe essere sferica, avere cioè un unico raggio di curvatura, ma alcune volte, per cause anatomiche, può assumere la forma torica, presentando pertanto due raggi di curvatura ben distinti. In questo caso il sistema rifrattivo dell’occhio presenta non uno ma due fuochi che corrispondono ai due raggi di curvatura corneali. Questi due fuochi, poi, risentono delle stesse problematiche dell’occhio miope o ipermetrope; possono così formarsi entrambi prima della retina (astigmatismo miopico) ovvero virtualmente oltre la retina (astigmatismo ipermetropico), in alcuni casi più rari un fuoco può formarsi prima della retina(condizione miopica) e l’altro oltre la retina (condizione ipermetropica) si parla allora di astigmatismo misto (fig.8A). Figura 8A: L’occhio astigmatico Anche in questi casi saranno necessarie delle lenti che aumentino o diminuiscano la vergenza dei raggi in entrata ma che al contempo operino una azione differenziata, spostando in maniera 11 maggiore quello dei due fuochi più lontano dalla retina e in misura minore quello più vicino, in modo tale che il risultato finale sia di avere entrambi i fuochi riuniti in uno solo e posizionato perfettamente sulla retina. L’accomodazione Finora abbiamo valutato la rifrangenza dell’occhio assumendo come costante che la vergenza dei raggi incidenti fosse uguale a zero (punto raggiante posto all’infinito). Quando il punto raggiante dall’infinito si avvicina e si posiziona nello spazio finito, l’occhio non viene più investito da una fascio di raggi paralleli, ma da una cono di raggi divergenti. E come abbiamo visto all’inizio la vergenza negativa di tali raggi aumenta al diminuire della distanza del punto raggiante dal sistema di riferimento (nel nostro caso l’occhio). Se consideriamo l’occhio come un sistema rifrangente di tipo statico e applichiamo le regole dell’ottica geometrica ci accorgiamo che, se non sono presenti difetti visivi, nessun oggetto o punto raggiante posto a distanza finita può essere visto nitido, in quanto la retina centrale coincide con il fuoco del sistema solo in presenza di radiazione parallela. Mentre con radiazione divergente il fuoco si posiziona ipoteticamente oltre ad essa, mimando la condizione di ipermetropia. Tutti noi, specialmente se la natura ci ha fornito di occhi buoni, sappiamo che ciò non è vero. Infatti, il soggetto emmetrope è normalmente in grado di avere visione nitida sia degli oggetti lontani (infinito) sia di quelli più o meno vicini (finito). Se ciò accade è perché il sistema rifrattivo dell’occhio non è di tipo statico, ma bensì dinamico. Dinamico significa che il sistema possiede la possibilità di mutare la sua capacità rifrattiva e di adattarla al variare della vergenza (solo in senso negativo) dei raggi che lo investono. In modo che il fuoco venga sempre mantenuto corrispondente alla retina centrale. Tale meccanismo insito nell’occhio umano è rappresentato dall’accomodazione. (fig.9) L’attività di accomodazione è sostenuta dall’elasticità della massa cristallinica. Per stimolazione neuro-muscolare il cristallino non degradato è in grado di aumentare opportunamente la curvatura delle sue superfici (maggiormente quella anteriore) in modo tale da compensare esattamente l’aumento di divergenza (vergenza negativa) assunto dalla radiazione proveniente dallo spazio finito. Tale capacità di adattamento consente ad un soggetto giovane di tenere a fuoco tutto lo spazio visivo posto tra l’infinito e una distanza minima di +/- 10 cm. E. Bottegal – Ottica oftalmica 12 Fig.9: L’accomodazione Si è parlato di un soggetto giovane in quanto l’elasticità cristallinica tende a ridursi con il progredire dell’età. Il progressivo invecchiamento biologico comporta un allungamento della distanza minima di capacità di messa a fuoco. È evidente che quanto tale distanza minima supera quella che è considerata la normale distanza per il lavoro vicino il soggetto dovrà ricorrere all’uso di lenti convergenti che sopperiscano alla mancanza di accomodazione (presbiopia). L’attività accomodativa dell’occhio, oltre a permettere la visione nitida alle distanze prossimali, è un mezzo a disposizione del sistema visivo per compensare anche alcune forme ametropiche. Come si è visto ipermetropia e astigmatismo ipermetropico sono condizioni in cui l’occhio soffre di insufficienza di convergenza, quando questa non sia di valore eccessivo, l’attività accomodativa esercitata anche per la visione lontana consente il ripristino della focalizzazione sulla retina senza il ricorso all’uso di lenti convergenti (positive). Naturalmente tale attività, mantenuta dalla continua contrazione del muscolo ciliare, è fonte di forme di affaticamento. Quando poi se, in questa situazione, si è costretti ad esercitare anche un prolungato lavoro da vicino, lo sforzo accomodativo totale può risultare di tale valore da non essere possibile sostenerlo se non per tempi brevi. Il ricorso ad occhiali con lenti convergenti da usare almeno durante il lavoro diventa necessario. Nessun aiuto dall’ accomodazione può venire nei casi di ametropia miopica, anzi in questo caso, un eventuale atto accomodativo peggiorerebbe la condizione rifrattiva. Il miope è sempre uno scarso utilizzatore dell’accomodazione. Infatti, quando il punto di fissazione si trova ad una distanza uguale all’inverso della vergenza del valore della miopia presente, esso viene visto nitido senza che venga esercitata alcuna accomodazione. Questo ci spiega come sia possibile che un miope di medio livello (da –2.00 a –4.00 dt.) giunto all’età della presbiopia possa tranquillamente leggere uno scritto posto a circa 40 cm semplicemente togliendo l’occhiale in uso da lontano. E. Bottegal – Ottica oftalmica 13 L’OCCHIALE GENARALITA’ L’occhiale correttivo (da vista) è il risultato della combinazione di due prodotti diversi: 1. Lenti oftalmiche 2. Montatura La soddisfazione dell’acquirente sarà garantita se lo si saprà indirizzare in una scelta che possa esprimere: 1. comfort visivo 2. comfort fisico 3. soddisfazione estetica 4. sicurezza 5. spesa adeguata Ognuna delle due componenti dell’occhiale (lenti e montatura) giocano un ruolo importante su tutti e cinque i punti che garantiscono la soddisfazione del cliente. Infatti la scelta giusta delle lenti oftalmiche non ha a che vedere solo con il comfort visivo, ma esse • dovranno avere caratteristiche di giusta leggerezza per non influenzare eccessivamente il peso finale dell’occhiale (comfort fisico); • il loro spessore, una volta sagomate dovrà essere contenuto nei termini di un buon risultato estetico; • dovranno, finché possibile, garantire sicurezza d’uso contro urti o traumi, • ed infine avere un costo adeguato alle aspettative d’uso del cliente. Ugualmente si può dire della montatura. • Essa dovrà calzare perfettamente sul naso e sulle orecchie, affinché il peso totale dell’occhiale sia il più possibile ben distribuito(comfort fisico); • la dimensione e la forma della dima deve tendere ad un buon centraggio dell’occhio al fine di ridurre le fastidiose aberrazioni delle lenti molto decentrate (comfort visivo); 14 • forma, colore e dimensione è bene che corrispondano all’anatomia del viso e alla carnagione (soddisfazione estetica); • la robustezza e l’assenza di parti contundenti (viti o perni sporgenti) sono necessarie per una buona sicurezza d’uso anche in condizioni estreme. LE LENTI OFTALMICHE Tecnologia I materiali utilizzati per la costruzione di lenti oftalmiche devono avere principalmente la caratteristica di essere il più possibile trasparenti, affinché l’energia raggiante che li attraversa mantenga il più possibile integre tutte le sue caratteristiche. Solo così il segnale trasmesso dalla retina alla corteccia visiva sarà puro e l’immagine elaborata conterrà tutti i particolari dell’oggetto che ha generato l’emissione luminosa. Pertanto il materiale deve avere le caratteristiche di Omogeneità: quando non contiene sostanze chimico-fisiche diverse Isotropia: quando le caratteristiche fisiche del mezzo rimangono costanti in ogni loro punto. Gli elementi fisico-chimici che contraddistinguono i mezzi ottici (nel nostro caso le lenti oftalmiche) e che sono di diretta derivazione dal tipo di materiale utilizzato sono: L’indice di rifrazione (n). Definisce la capacità del mezzo ottico di far rallentare la velocità di propagazione della radiazione che su di esso incide e lo attraversa. Il suo valore viene usualmente associato allo spessore delle lenti necessarie a correggere l’ametropia. Più l’indice è alto più la lente finita è sottile. Il numero di Abbe (ν). Chiamato anche Costrigenza o Coefficiente di dispersione, definisce la qualità ottica del materiale, in termini di purezza della radiazione trasmessa. La densità (d). Espressa in grammi/cm3, viene messa in diretta relazione con il peso. Più aumenta la densità tanto maggiore sarà il peso specifico del materiale. Quando è possibile, sono preferibili lenti oftalmiche costruite con bassi valori di densità, per migliorare il comfort fisico dell’occhiale finito. L’indice percentuale di trasmittanza. È definito dal rapporto tra la quantità di energia raggiante che investe la superficie anteriore della lente e la quantità che emerge dalla faccia posteriore; è pertanto indicatore della trasparenza del materiale utilizzato. 15 I materiali oftalmici dal punto di vista chimico appartengono a due famiglie: Minerale. Tutti i tipi di vetro ottico. Organica. Costituita dal gruppo di resine normalmente derivate dalla lavorazione degli idrocarburi. Il vetro La scoperta del vetro è uno dei tanti traguardi del progresso dei quali il genere umano non ha conservato memoria. L’utilizzo di oggetti di vetro sia per scopi pratici che ornamentali risale almeno a 1500 anni prima di Cristo. Solo alla fine del XIII secolo esso fu utilizzato per produrre le prime lenti oftalmiche destinate a modificare il mondo della visione. Al di la, comunque, di chi ne sia stato l’inventore, Il vetro ha rappresentato per circa 8 secoli l’unico materiale utilizzato per la costruzione delle lenti oftalmiche. Il vetro è composto fondamentalmente di silice (SiO2-biossido di silicio), a cui vengono poi addizionate varie sostanze che ne abbassano la temperatura di fusione e ne modificano alcune proprietà fisiche, come ad esempio l’aumento della stabilità. Tra le più importanti sono il Calcio (Ca2O), il Sodio (Na2O), il Potassio (K2O), il Magnesio (MgO). Il processo di produzione inizia dalla selezione delle sabbie silicee e la loro purificazione da sostanze estranee che ne comprometterebbero l’isotropia. Quindi avviene il processo di macinatura e di mescola con gli additivi previsti dalla formula costruttiva. Il tutto viene posto nel classico crogiolo di caolino per l’infornatura. La temperatura di fusione si aggira tra i 1200° e i 1400° che per la corretta amalgama delle sostanze deve permanere per oltre 3 ore. Per eliminare eventuali bollosità è quindi necessario ulteriormente aumentare la temperatura a 1600°. Il successivo raffreddamento deve essere molto lento e progressivo (10-15 giorni), periodo nel quale la miscela in via di solidificazione viene continuamente mescolata. Il controllo delle temperature di raffreddamento deve essere accurato: eccessi di velocità o di lentezza possono produrre la perdita del carattere amorfo della sostanza con conseguente compromissione dell’isotropia. Prima della completa solidificazione la pasta vetrosa viene plasmata entro cassette refrattarie è riportata alla temperatura di 600° e quindi nuovamente raffreddata. Ora il materiale può essere diviso in blocchi che vengono molati, spianati e lucidati. La fabbricazione delle lenti oftalmiche passa attraverso varie fasi. La prima di esse consiste nel produrre un semilavorato, detto comunemente sbozzo, che ha già la forma della lente. In una seconda fase lo sbozzo viene trattato con sostanze abrasive al fine di eliminare il materiale in 16 eccesso e di attribuire al prodotto i valori di curvatura richiesti ad ottenere il corretto potere della lente. Seguono quindi delle operazioni di Pulitura e Lucidatura. I tipi di vetro più comunemente usati in occhialeria sono: Crown. È il più diffuso vetro del settore oftalmico perché presenta il miglior rapporto tra gli elementi identificativi della qualità. È apprezzato soprattutto per la sua durezza, omogeneità e facilità di taglio. Presenta le seguenti caratteristiche di base: trasmittanza 91,4%, n 1,523, ν 58,60, d 2,54 g/cm3. I punti di debolezza sono la fragilità (si rompe in grossi pezzi), peso e spessore sono notevoli negli alti poteri. Per ovviare all’eccesso di peso si può aggiungere alla miscela originaria il borace o l’anidride borica che, fluidificando la massa vetrosa, ne fanno diminuire la densità. Per migliorare l’indice di rifrazione si addiziona in quota consistente (30%) l’ossido di bario che è in grado di portare l’indice a 1,6, senza modificare il coefficiente di dispersione che è una delle migliori qualità del crown. Ne risulta però aggravata la densità con un sensibile aumento del peso. Esiste la possibilità di utilizzare altri tipi di bario che non alterano la densità, ma penalizzano il coefficiente di dispersione deprimendolo a valori intorno a 42. Flint. Sono vetri quasi ormai abbandonati dall’occhialeria, mentre mantengono un grande appeal nell’industria delle cristallerie. Sono ottenuti con l’addizione in mescola di ossidi di piombo che sono in grado di aumentare l’indice di rifrazione fino a 1,8. Da questo punto di vista risultano adatti alla correzione di alte ametropie miopiche, ma contemporaneamente procurano un crollo nel valore della dispersione (il numero di Abbe si abbassa a 26), la densità è elevatissima (4,8 g/cm3), rendendo il peso dell’occhiale a volte insopportabile. Vetri al Titanio. In tempi relativamente recenti si è sostituito il bario e il piombo con l’ossido di titanio. Così si ottiene un indice di rifrazione 1,7, mantenendo una densità molto vicina al crown tradizionale (3 g/cm3), evitando pertanto l’aggravio sensibile di peso. Il coefficiente di dispersione peggiora, ma non ai livelli del flint. (35-40). Non ultimo il titanio permette una più che buona protezione dall’ultrvioletto. Condizione imprescindibile con questi vetri è l’utilizzo del trattamento antiriflesso. Infatti la riflessione sulle due superfici della lente supera il 15% Le terre rare. Per la correzione delle elevate ametropie miopiche, si è creata una nuova famiglia di vetri nella quale la presenza silicea viene quasi sostituita dalle cosiddette terre rare quali il lantanio, niobio e tantalio. Si ottengono indici di rifrazioni compresi tra 1,8 e 1,9 ove l’inevitabile scadimento della dispersione e della densità sono relativamente contenute. I dati del lantanio sono: n 1,804, ν 36, d 3,62 g/cm3. Con l’utilizzo in mescola di 17 tutte e tre le sostanze indicate (lantanio, niobio e tantalio) si ottengono le seguenti caratteristiche: n 1,878, ν 38, d 4,75 gcm3. Le resine organiche Il mondo delle plastiche è storia relativamente recente. Esso nasce con lo sviluppo della chimica del petrolio, quindi databile dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Uno dei primi materiali che vennero sperimentati per sostituire il vetro in alcune applicazioni particolarmente soggette a traumi fu il polimetilmetacrilato (PMMA), normalmente conosciuto come Plexiglas o Perspex. Esso ha la grande qualità di essere assolutamente infrangibile anche in presenza di sollecitazioni meccaniche molto marcate, ma al contempo presenta una bassa resistenza all’abrasione. Questa sua caratteristica di graffiarsi con estrema facilità ne ha presto limitato la possibilità d’uso in ottica oftalmica. Ebbe molto più successo un altro materiale la cui progettazione fu commissionata dal governo americano alla Columbia Southern Division della Pittsburgh Plate Glass Indusrtries al fine di poter realizzare i parabrezza degli aerei militari. Furono progettati circa 170 monomeri termoindurenti, tra i quali fu scelto il composto numero 39: il glicocarbonato di allile, meglio conosciuto come Columbia resin 39 o CR39. A guerra finita, nel 1947 un optometrista, Robert Graham, intuì le potenzialità che il CR39 poteva avere anche nella produzione di lenti oftalmiche. Fondò la Armolite Lenses Co. È cominciò la produzione e la vendita agli ottici di lenti in CR39, leggere, infrangibili, e meglio resistenti ai graffi del plexiglass. Fabbricazione delle lenti in CR39 Come consueto per le materie plastiche termoindurenti, il processo produttivo delle lenti in CR39 si avvale della tecnica della fusione. In pratica il monomero viene fuso (polimerizzato) all’interno di stampi di vetro che riproducono le caratteristiche geometriche della lente che si vuol produrre. Le fasi salienti del processo sono: Preparazione del monomero. Il monomero deve essere raffinato, pulito e addizionato dei catalizzatori atti ad attivare la reazione termoindurente. In questa fase bisogna evitare che inizi prematuramente la polimerizzazione. A questo scopo si utilizzano sostanze capaci di inibirla a basse temperature. Riempimento. Lo stampo viene riempito di monomero liquido e quindi accuratamente sigillato. 18 Polimerizzazione. Gli stampi vengono posti in forni per molte ore. La temperatura deve essere accuratamente controllata durante tutto il processo e deve essere garantita l’assenza di aria all’interno degli stampi che provocherebbe la formazione di bolle nel corpo delle lenti. Condizionamento. Il ritorno alla temperatura normale del polimero finito avviene con gradualità al fine di evitare la formazione di tensioni all’interno delle lenti. Allo scopo gli stampi vengono posti per un periodo di circa 6 ore all’interno di forni che mantengono la temperatura a 80°. Trattamenti. Avvenuta la stabilizzazione termica, le lenti ottenute possono essere trattate con gli usuali rivestimenti di tipo indurente e antiriflesso. È da sottolineare che solo i trattamenti effettuati in questo momento si integrano in modo intimo con la struttura del polimero, garantendo durata e stabilità. Osservando le caratteristiche chimico-fisiche del CR39 si comprende il grande successo che questo materiale ha avuto nell’ambito dell’occhialeria, tale da rappresentare il successore del vetro crown nella maggioranza delle realizzazioni oftalmiche. Vetro Crown CR39 2,54 g/cm3 1,32 g/cm3 1,523 1,498 Numero di Abbe 58,60 57,8 Trasmittanza 91,4% 93% Densità Indice di rifrazione Cr39 vs Crown La lente finita pesa la metà della sorella in crown La differenza di spessore di una lente, anche di potere elevato, rimane inferiore a 0,05 mm Omogeneità e isotropia rimangono garantite ad alti livelli. La minor riflettanza permette di migliorare la trasparenza. Il punto debole del CR39, come del resto di tutte le materie plastiche, rimane la durezza, che nel vetro crown rappresenta un elemento di grande pregio. L’utilizzo, ormai quasi universale, dei trattamenti indurenti delle superfici delle lenti finite ha, almeno in parte, risolto il problema. Volendo confrontare, in termini statistici, la durata di utilizzo di una lente in crown con una in CR39 si può notare che le differenze, pur a favore del vetro, non sono così marcate, in quanto la minor durezza del CR39 è in parte compensata dalla notevole fragilità del vetro. Il successo commerciale mondiale delle lenti organiche ha spinto la ricerca a realizzare dei nuovi polimeri, di derivazione dal CR39, che potessero controbattere l’uso del vetro anche nelle 19 correzioni di alte ametropie. Oggi, realizzate in materiale plastico, sono presenti sul mercato lenti di indice di rifrazione 1, 6, 1,67,1,74. Policarbonato (PC). È un materiale termoplastico che ricorda il PMMA. Come tutte queste plastiche viene lavorato per stampaggio. Ha la caratteristica importante di mantenere bassissima la soglia di cristallizzazione e quindi di esprimere una resistenza all’impatto notevolmente superiore a tutti gli altri materiali (50 volte maggiore del CR39 e 500 volte rispetto al vetro) la densità si mantiene molto bassa (1,20 g/cm3), garanzia di grande leggerezza. L’indice di rifrazione è 1,59, migliorativo sia rispetto al crown che al CR39. I punti di debolezza del PC sono però altrettanto importanti: Il numero di Abbe è decisamente basso (ν 30). Pertanto la qualità ottica è tra le più basse della sua categoria. La sua durezza è molto inferiore alle plastiche termoindurenti (CR39). Tanto da non poter essere commercializzato privo di trattamento indurente delle superfici, che ne riduce la resistenza all’impatto. La sagomatura finale della lente in PC non può essere effettuata con le usuali attrezzature con cui si lavora il vetro o il CR39, ma solo con particolari mole a secco che utilizzano abrasivi di elevato diametro. In funzione di queste limitazioni, le lenti in policarbonato vengono utilizzate quasi esclusivamente nei casi ove sia necessario garantire la massima sicurezza contro i traumi. La forma delle superfici attive I primi costruttori producevano lenti con una sola superficie attiva: quella anteriore per le positive e quella posteriore per le negative, mentre la seconda superficie veniva mantenuta piana. Tali lenti prendevano nome di “pianoconvesse” e “pianoconcave”. Quando si iniziò a voler produrre lenti di potere molto elevato ci si scontrò con un notevole aumento della curvatura della superficie attiva che conduceva a eccessivi spessori. Si pensò, allora, di coinvolgere nella rifrazione anche la superficie sino allora mantenuta piana in modo da sommare l’effetto rifrattivo di entrambe; nacquero così le lenti “biconvesse” e “biconcave”. Con esse gli spessori si ridussero in modo considerevole. E. Bottegal – Ottica oftalmica 20 Studi successivi dimostrarono però che tali lenti mantenevano un’adeguata purezza d’immagine solo in una limitata zona centrale, mentre verso i bordi si formavano forti distorsioni dovute alle aberrazioni extrassiali (distorsione, astigmatismo dei fasci obliqui, coma ecc.). Alcuni ricercatori (Wollaston, Ostwalt, Tscherning) si applicarono per definire quale doveva essere la forma migliore, non dal punto di vista estetico ma da quello della qualità ottica, da dare alle lenti oftalmiche per superare i problemi indotti dalle aberrazioni. Ne risultò che la lente in grado di restituire all’occhio la miglior immagine puntuale anche quando esso ne utilizzava aree periferiche era una lente con la superficie esterna convergente e quella interna divergente; tale forma venne chiamata “menisco”. Le lenti a menisco sono quelle che ancor oggi utilizziamo. La forma a menisco introdotta sul mercato nei primi decenni del secolo scorso ebbe rapido successo e nonostante un costo decisamente superiore, strappò il mercato alle lenti “bi” che lo detenevano da oltre 6 secoli. Il punto debole delle lenti menisco sta nei poteri positivi medio-alti e alti. Già con valori superiori a +4.00 dt. la qualità d’immagine, nella visione periferica, cala sensibilmente; con poteri oltre +7.00 dt. si torna ai risultati delle vecchie biconvesse. E. Bottegal – Ottica oftalmica 21 Il diagramma di Tscherning Il problema può essere risolto dando a una delle due superfici attive una particolare forma non sferica. Le lenti così costruite prendono il nome di lenti Asferiche. Questa lavorazione rende meno curva la porzione periferica della lente che modera l’effetto delle aberrazioni extrassiali, ma al contempo migliora anche l’effetto estetico in quanto si ottiene una notevole riduzione dello spessore e del peso. Proprio per questo effetto estetico, più che per le qualità ottiche, le lenti asferiche stanno conoscendo in questi ultimi anni un successo notevole. Vengono spesso utilizzate anche nelle basse correzioni positive e sempre più spesso in quelle negative, ove non svolgono particolari funzioni ottiche, ma danno una mano all’indice di rifrazione nella riduzione degli spessori. Figura 6 E. Bottegal – Ottica oftalmica 22 La qualità delle superfici attive. Se lo scopo principale di una lente oftalmica è di correggere i difetti visivi, oggi più di un tempo chi è costretto ad utilizzare occhiali da vista pretende che la loro funzionalità si mantenga costante nel tempo e in tutte le situazioni. Si pretende che le lenti siano resistenti ai graffi, che non si sporchino facilmente, che migliorino la visione notturna, che proteggano dalla luce diurna più nociva, quale l’Ultravioletto. Per aderire a tali esigenze, l’industria oftalmica ha così elaborato intorno alla lente per occhiali una raffinata tecnologia di rivestimento delle superfici che si concretizza nei seguenti interventi: Trattamenti che migliorano la funzionalità ottica della lente: • Trattamento antiriflesso • Trattamento antimbrattamento Trattamenti che migliorano la qualità del materiale: • Trattamenti antigraffio • Trattamenti di tempra Il Trattamento indurente È caratterizzato dalle deposizione sulla lente di un sottile strato di materiale a base di silicio o di quarzo, materiali che hanno caratteristica di elevata durezza e conferiscono alla lente qualità antigraffio abbastanza evidenti. Esistono almeno due tecniche per la realizzazione di tale trattamento: • Per verniciatura • Per precipitazione sottovuoto La verniciatura è il sistema più datato ed anche più economico. La precipitazione sottovuoto è più efficace come risultato in quanto si possono usare materiali più duri, ma al contempo il trattamento è più fragile di quello prodotto per verniciatura, può, infatti, fessurarsi o staccarsi. Quando, durante la vendita, si prospetta al cliente l’opportunità di dotare le lenti di questi trattamenti è bene essere molto chiari e precisi nelle informazioni da fornire, per evitare che un’errata comprensione possa creare un’aspettativa di funzionamento oltre le oggettive possibilità e di conseguenza una serie di reclami ingiustificati, tanto più che ciò per cui stiamo chiedendo un aumento del prezzo è cosa assolutamente invisibile. 23 Quindi è necessario spiegare che un trattamento antigraffio è adatto a prevenire le abrasioni derivanti dal normale uso quotidiano dell’occhiale e non da abrasioni profonde legate ad uso inadeguato o poco attento. Il trattamento antiriflesso Le lenti per occhiali, come del resto tutti i corpi trasparenti, non lasciano passare tutta la luce che le colpisce, perché una certa parte viene riflessa dalle superfici attive. La porzione di luce riflessa è energia che va sprecata perché non raggiunge l’occhio e quindi non può entrare nel processo visivo. Inoltre, la riflessione non si limita a creare una diminuzione di luminosità dello spazio visivo, ma contribuisce a disturbarlo proponendo immagini sbiadite e diafane che si sovrappongono a ciò che si sta guardando. Per avere un esempio basta pensare a un bel paesaggio notturno osservato da una stanza attraverso un vetro di finestra; fin tanto che la stanza rimane buia l’osservazione è perfetta, quasi il vetro non esistesse, ma appena si accende una luce sul vetro si forma il riflesso di tutto ciò che si trova nella stanza, tanto da nascondere il paesaggio prospiciente. In maniera simile un occhiale che funziona perfettamente di giorno, di notte, specie durante la guida, può presentare fastidiosi riflessi tali da rendere insicura la conduzione del veicolo. Questa ed altre ragioni conducono alle necessità di dotare le lenti per occhiali di un trattamento che limiti al massimo tali disturbi soprattutto per chi faccia vita lavorativa in ambienti sovente illuminati da luce artificiale, o che utilizzi spesso la guida notturna. Il coefficiente di riflessione Il coefficiente di riflessione, quando la lente è immersa in aria, è definito dalla seguente: 2 ( n − 1) ) R= , quindi il valore di R cresce all’aumentare dell’indice di rifrazione. (n + 1)2 Indice di rifrazione del materiale Riflettanza percentuale 1,525 4,3% 1,604 5,3% 1,706 6,7% 1,8 8,2% I valori riportati in tabella si riferiscono al materiale, ma quando con il materiale viene costruita una lente oftalmica la radiazione non si limita a riflettersi sulla faccia anteriore, ma parte dell’energia trasmessa dalla prima faccia si riflette sulla faccia posteriore interna della lente, dando così un 24 ulteriore aumento alla riflettanza. Il processo continua all’infinito, ma è dimostrato che sono solo le due prime riflessioni a determinare quasi la totalità della riflettanza, tutte le altre sono infatti di valore trascurabile. In ragione di ciò la riflettanza espressa da una lente è definita dalla seguente: RT = 2R (1 + R) Questo è il motivo per il quale i costruttori di lenti consigliano l’utilizzo del trattamento antiriflesso quasi obbligatorio nelle lenti ad alto indice. L’effettiva validità di tale trattamento è dimostrata dal fatto che il 90% di coloro che lo hanno realizzato una prima volta, lo richiedono nuovamente nel momento dell’acquisto di un occhiale successivo. Principio di eliminazione dei riflessi La riduzione dei riflessi sulle superfici di una lente si basa sul principio dell’interferenza distruttiva. Deponendo uno strato trasparente sulla superficie della lente accade che la radiazione incidente si riflette una prima volta sulla superficie anteriore dello strato e una seconda volta sulla prima superficie della lente sottostante. Affinché si generi l’eliminazione totale dell’onda riflessa è necessario che si verifichino le seguenti condizioni: 1. l’intensità (ampiezza d’onda) dei due raggi riflessi deve essere uguale. Ciò può accadere solo se lo strato antiriflesso è costituito da un materiale di indice uguale alla radice quadrata dell’indice del materiale di cui è fatta la lente. nar = nlente 25 2. il cammino ottico dei due raggi riflessi deve essere in opposizione di fase, cioè che il ritardo dell’uno sull’altro sia uguale a λ 2 . Ciò si verifica quando lo spessore dello strato antiriflesso è uguale a λ 4 della radiazione n è l’indice del materiale della lente n1 è l’indice dello strato antiriflesso 1 è l’indice dell’aria incidente. Analizzando le due precedenti condizioni si possono fare delle considerazioni di tipo tecnologico: I Considerazione: si impone che lo strato antiriflesso venga costruito di un materiale avente indice di rifrazione molto basso, ma al tempo stesso esso deve avere delle caratteristiche molto importanti: a. essere perfettamente trasparente b. avere buona capacità di adesione c. avere buona durezza per non essere facilmente alterabile dagli insulti meccanici d. poter essere steso in spessori molto bassi e. avere un coefficiente di dilatazione termica simile al materiale della lente, per evitare (specie nelle lenti organiche) che un forte shock termico ne provochi la rottura. II Considerazione: l’opposizione di fase è calcolata sulla lunghezza d’onda della luce incidente. Ma la luce incidente è bianca, quindi composta da una gamma di λ diverse. Pertanto lo spessore dello strato non potrà certo soddisfare tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile. Diventa necessario scegliere su quali operare (ad es. quelle centrali: giallo-verde), sacrificando tutte le altre. Di conseguenza sarà sempre presente un riflesso residuo, che avrà la tonalità di colore delle lunghezze d’onda più distanti da quelle considerate. Materiali per l’antiriflesso. Una delle condizioni più difficili da realizzare nella produzione di un antiriflesso è il valore basso di indice di rifrazione della sostanza antiriflettente usata. Nelle lenti in vetro minerale il materiale che presenta le migliori caratteristiche antiriflettenti è il fluoruro di magnesio, che fortunatamente non presenta un n alto (1,38). Comunque anche con questo materiale, se si applica la formula: nar = nlente si nota, dalla tabella seguente, che esso riesce ad ottenere l’abbattimento totale del riflesso solo per vetri di indice elevato. 26 Indice di rifrazione della lente Riflettanza 1,525 1,31% 1,604 0,86% 1,706 0,39% Dovendo lavorare con lenti in resina organica, la questione si complica. Infatti i materiali antiriflettente a basso indice non hanno una buona capacità di adesione sul materiale della lente. Si è costretti ad utilizzare prodotti diversi come il quarzo che ha un indice (1,46) assolutamente improponibile. Per ovviare al problema si applica sulla lente uno strato di materiale ad altissimo indice, 2,0/2,3, (ossidi di zirconio o di titanio) e su di esso si fa aderire il quarzo antiriflesso Se si vuole allargare il ventaglio delle lunghezze d’onda interessate dall’antiriflesso e al tempo stesso creare trattamenti più duraturi nel tempo si deve procedere alla deposizione sovrapposta di più strati di materiale antiriflettente. All’inizio si passò dai canonici due (strato di adesione + strato antiriflesso) a tre, poi a cinque, a sette e così via. Oggi i trattamenti più sofisticati sono realizzati con 9 o 10 deposizioni, di cui alcune dedicate a rendere compatibili e adesivi tra di loro gli altri strati antiriflettenti. Dato il costo elevato di questi trattamenti, il cui valore di vendita a volte supera quello della lente stessa, si usa aggiungere all’esterno uno strato antigraffio e idrorepellente per migliorarne la funzionalità, garantendo una maggiore durata. Alla luce delle precedenti considerazioni si può sicuramente affermare che: a. ancora molta strada deve essere fatta per arrivare a soddisfare le condizioni richieste. b. Proprio per l’attuale precarietà, la tecnologia impiegata nella produzione degli antiriflessi deve essere di assoluta primaria qualità. Produzione dell’antiriflesso. La produzione del trattamento AR avviene per sublimazione sotto vuoto delle sostanze antiriflettenti che una volta raggiunto lo stato gassoso, naturalmente si depositano sulla superfici delle lenti. Come in tutti i trattamenti di vaporizzazione anche quello dell’antiriflesso si avvale di camere sotto vuoto sigillate, al cui interno, su delle apposite calotte a forma di ombrello vengono depositate le lenti da trattare. Le sostanze antiriflettenti vengono a loro volta raccolte, all’interno della camera, in un contenitore chiamato crogiolo, ove, mediante bombardamento elettronico o per effetto elettrico, 27 vengono portate alla temperatura di sublimazione. Il controllo degli spessori dei singoli strati viene effettuato, durante al fase di lavorazione, sfruttando la capacità di vibrazione del quarzo. Il quarzo è un minerale la cui frequenza di vibrazione è costante sotto particolari condizioni, ma varia se sulla sua superficie viene applicato un rivestimento. Pertanto si pone un cristallo di quarzo, di cui sia conosciuta la frequenza, all’interno dalla camera sotto vuoto assieme al plateau delle lenti. Durante il processo lo strato di materiale antiriflettente si deposita anche sul cristallo di quarzo. Un sistema elettronico è in grado di fornire le variazioni di frequenza emesse dal quarzo e tradurle in valore di spessore depositato Nel caso del vetro l’adesione risulta molto efficace e difficile da asportare. Con le lenti in resina i problemi sono maggiori. Infatti molte sostanze antiriflettenti devono essere riscaldate a circa 200° per poter aderire efficacemente, mentre la resina oftalmica per non alterarsi deve rimanere al di sotto dei 100°. Un altro problema è determinato dalla facilità di sfogliatura dei trattamenti AR. Esso è determinato dal fatto che la resina organica ha un indice di dilatazione 20 volte superiore a quello di molti rivestimenti AR; pertanto in caso di surriscaldamento dell’occhiale, la lente tende a dilatarsi molto di più del trattamento che la ricopre che tenderà a fessurarsi e creparsi per l’effetto della trazione. È, quindi, importante richiamare i clienti utilizzatori di lenti organiche trattate AR di non esporre l’occhiale a fonti di calore. Il trattamento antimbrattamento. Se si osserva al microscopio la superficie di un trattamento antiriflesso si può notare che essa è notevolmente porosa, quindi è facile ricettacolo di sostanze grasse che incrostandosi sono difficili da rimuovere. Per ovviare a ciò si usa far depositare sulla superficie dell’antiriflesso una sostanza con caratteristiche idrofobe e antimbrattanti che è in grado di risolvere il problema senza per questo ridurre il benefico effetto del trattamento antiriflesso. Il trattamento di tempra L’utilizzo di occhiali con lenti in vetro sottopone l’utilizzatore ad un evidente rischio di danni oculari nel momento in cui, con occhiale indossato e per cause traumatiche, le lenti dovessero rompersi. Tale rischio ha indotto i paesi anglosassoni ad introdurre nella propria legislazione una norma che obbliga i produttori di lenti a mettere in commercio lenti in vetro solo se temperate. La tempra, quindi, è un procedimento che aumenta la resistenza agli urti del materiale vetroso. 28 Essa può avvenire con i sistemi tradizionali usati anche per altri materiali consistenti in un preriscaldamento del materiale ed un veloce raffreddamento. Per i vetri risulta essere più efficace il sistema chimico che consiste nell’immergere la lente in una soluzione di cloruro di potassio preriscaldata a 400°. In tale maniera si crea uno scambio tra superfici della lente e soluzione di ioni sodio e potassio che genera un rivestimento di circa 100 micron notevolmente resistente. L’elevato costo produttivo e l’avvento delle lenti in resina organica hanno praticamente reso quasi obsoleto questo trattamento. La funzionalità correttiva A seconda della funzione esercitata le lenti oftalmiche si possono dividere in: • • Monofocali Plurifocali Lenti Monofocali. Le lenti monofocali sono quelle che in ogni parte della loro superficie esprimono un unico potere. Vengono utilizzate per la correzione di tutti i difetti visivi e per la presbiopia. Il fatto che in molti casi l’utilizzatore possa, indossando lenti monofocali, avere visione nitida e confortevole a tutte le distanze dipende, non certo da qualche proprietà delle lenti, ma da modificazioni ed aggiustamenti appropriati che l’occhio riesce ad attuare. Tali aggiustamenti sono legati all’attività neuro-muscolare del sistema visivo (occhio-encefalo) che, come molte funzioni corporee, si mantiene efficiente solo per una certa porzione di vita. Lenti Multifocali. In questa categoria si classificano: 1. lenti Bifocali 2. lenti multifocali o progressive Per affrontare adeguatamente il tema delle lenti oftalmiche multifocali è opportuno richiamare alcuni concetti relativi all’ambito della deficienza visiva alla quale sono destinate: la presbiopia. E. Bottegal – Ottica oftalmica 29 La Presbiopia La prima osservazione da farsi è che la presbiopia non è un’ametropia, bensì una caratteristica fisiologicamente normale conseguente al processo di invecchiamento dell’occhio. Più precisamente legata al progressivo ridursi dell’ampiezza accomodativa dovuta alla sclerosi lenticolare, in altre parole l’indurimento della massa cristallinica. Tra i molti studi che si sono occupati della variazione dell’ampiezza accomodativa in funzione dell’età, quello che ha avuto maggiori riscontri è riassunto nella tabella di Donders Età 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 Dt 14 12 10 8,5 7,0 5,5 4,5 3,5 2,5 1,75 1,00 0,50 0,25 Una definizione esatta ed esaustiva del termine “presbiopia”, che ne rilevi tutti gli aspetti clinici, ottici, psicologici non è così frequente da trovare nella letteratura specializzata. Ad esempio riportiamo alcune definizioni, lasciando che ciascuno si scelga quella che più piace. Approccio fisio\matematico: “Quando, per effetto della sclerosi del cristallino, l’ampiezza accomodativa disponibile scende al disotto delle 4 dt., il soggetto in questione può essere definito presbite.” Approccio clinico scientifico: “La presbiopia è un problema rilevante che riguarda l’occhio e la visione, diffuso in ogni parte del mondo e legato all’età, caratterizzato da: • Un’insorgenza lenta e non precisabile; • Una probabile eziologia multifattoriale; • Irreversibilità” Approccio comportamentale: “La Presbiopia è un fattore sociale, vissuto da ognuno in chiave personale” Presbiopia: oggi e domani Interessante, ai fini di comprenderne il potenziale sviluppo, è rifarsi alle statistiche e alle proiezioni della popolazione dei presbiti: E. Bottegal – Ottica oftalmica 30 • 1988 38% • 1998 42% • 2008 47% L’Italia è +5% rispetto al resto d’Europa Tra il 1990 e il 2050 la popolazione mondiale crescerà dell’ 1% mentre quella con oltre 50 anni avrà un incremento del 75%. Saremo presbiti per più della metà della nostra vita! L’approccio alla presbiopia Indipendentemente dalle diatribe accademiche relative alle definizioni possibili, il diventare presbiti rappresenta per ognuno un’esperienza rilevante e non certo positiva, che induce a comportamenti così frequentemente simili da poter essere catalogati. Nonostante il fenomeno presbiopia sia universalmente conosciuto, e faccia parte del bagaglio culturale di ognuno di noi (tutti sappiamo che prima o poi dovremo usare occhiali per leggere), al momento del presentarsi dell’evento la reazione è quella di: Minimizzare il problema: nell’analisi delle cause: • “in questo periodo sono particolarmente stanco” • “ho bisogno di vacanza, mi sento molto stressato” nell’utilizzo di tecniche compensative: • aumento della distanza di lettura, • aumento dell’illuminazione, • quando possibile, riduzione delle attività prossimali. conseguenza: • approccio sempre ritardato alla correzione del problema • maggiori difficoltà nell’accettare da subito addizioni medio/alte Gli stadi della presbiopia Come clinicamente consueto, nella presbiopia si possono riconoscere: • una fase incipiente, in cui, più che perdita di visione nitida, l’individuo risente di stati d’astenopia in occasione d’impegni particolarmente gravosi e prolungati a distanza vicina. 31 • Una fase conclamata, in cui la perdita di capacità accomodativa ha raggiunto livelli elevati, tali da non consentire più la corretta messa a fuoco degli oggetti vicini se non con l’uso di ausili appropriati. Spesso viene inserita una terza fase, la presbiopia precoce, sulla quale è bene fare chiarezza. Tale concetto si basa sul fatto che l’età d’insorgenza del fenomeno presbiopia è non poco diversa se ci si sposta tra le varie aree geografiche del pianeta. É riconosciuto, infatti, che il diventare presbiti sia correlato alla qualità della vita. La presbiopia si manifesta più precocemente tra le popolazioni a basso tenore di vita, cui si riconduca un’alimentazione scadente nelle componenti nutrizionali fondamentali, e una scarsa igiene del corpo. Altri fattori predisponenti sono l’elevata esposizione alla radiazione UV e l’elevate temperature ambientali. Rimane comunque importante stabilire che un ambiente sociale omogeneo rende, ugualmente, abbastanza omogenea l’età di insorgenza del fenomeno presbiopia. Il dato di fatto è la correlazione tra l’insorgenza della presbiopia e la riserva accomodativa disponile. La riserva accomodativa per fare cosa? Non può essere corretto ritenere che esista una soglia precisa, uguale per tutti, per definire l’insorgenza del fenomeno presbiopia. Benché sia da notare che la diminuita efficienza visiva è fattore del normale invecchiamento dell’occhio, essa può aumentare i suoi effetti se le prestazioni richieste diventano più impegnative. Quindi tenendo conto dell’evoluzione che da tempo si sta verificando nel mondo, specie in quello del lavoro, si possono catalogare un serie di cause che possono accelerare l’insorgenza della presbiopia e che possono essere classificate come: cause esterne: • La stampa utilizza caratteri sempre più piccoli, • La posizione dei monitor dei VT è spesso incongruente • L’illuminazione del posto-lavoro è scorretta, • I tempi di applicazione si protraggono sempre di più • ...................... cause interne: • La capacità di trasmissione del cristallino, 32 • Il sesso, le donne sembra richiedano compensazioni per vicino mediamente tra 1 e 4 anni prima dei maschi, • La statura medio-bassa, (distanza di Harmond) • Il vizio di refrazione, quando è causa di pigrizia accomodativa (miope), • Lo stress Una disquisizione a parte merita lo “Stress”. “Stress” è un termine utilizzato per definire tutte quelle situazioni che tendono a modificare il nostro stato di equilibrio. Lo stress è un processo innato che ci caratterizza sin dalla nascita. È anche, e in molta parte, un prodotto acquisito dall’era moderna e tecnologica. Si calcola che un uomo dei nostri giorni sia colpito quotidianamente da 65mila stimoli stressogeni in più rispetto ad un suo simile che viveva un secolo fa. Quando esiste una forma di stress l’organismo, inconsciamente, restringe anche il proprio campo percettivo, quasi per economizzare le risorse. Lo stress visivo rappresenta una delle maggiori componenti nella totalità delle condizioni stressogene, sicuramente la più diffusa nella popolazione. Esso è dovuto alla brusca variazione di abitudini visive che ha caratterizzato l’uomo moderno. Per millenni gli esseri umani sono stati prevalentemente impegnati in attività visive a lunga distanza (uomo cacciatore, uomo guerriero). Durante l’ultimo secolo, o meglio durante gli ultimi 50 anni, si sono verificati enormi progressi nel campo tecnico scientifico. Tali rivoluzioni si sono portate appresso la sconfitta dell’analfabetismo, l’aumento della scolarizzazione e, di conseguenza, la necessità di aumento esponenziale di ore quotidianamente spese nell’uso della visione vicina. La variazione di abitudini visive è stata enormemente più veloce e più drastica di quanto non sia stato l’adattamento funzionale del sistema visivo. Il sistema visivo non ha avuto il tempo sufficiente per introdurre le necessarie mutazioni atte ad inibire lo “stress visivo la punto prossimo”. Il passaggio da “uomo cacciatore” a “uomo tecnologico” è sicuramente in atto (aumento dei soggetti miopi), ma non si è ancora compiuto. Lo stress è pertanto uno degli elementi fondamentali nell’insorgenza della presbiopia, in quanto, aumentando sempre più le richieste di alta performance al punto prossimo, il nostro sistema visivo, non ancora modificatosi per tale esigenza, richiede precocemente aiuti esterni che gli consentano il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Si può ben dire che la nostra moderna civiltà ha tolto la fatica dalla schiena dell’uomo e l’ha portata ai suoi occhi. 33 Resta comunque inteso che con il termine “presbiopia” sia da intendere una rottura avvenuta nel sistema visivo, considerato come spazio di visione nitida e confortevole estesa tra il punto remoto e il punto prossimo. Quando la visione al punto remoto rimane buona e non altrettanto al punto prossimo allora possiamo parlare di necessità di addizione per vicino. Tutti i sussidi ottici che vengono proposti a soggetti giovani per migliorare la loro performance al punto prossimo sono qualcosa di diverso dalla correzione della presbiopia. Non esistono, se non per cause patologiche, presbiti di 30 anni. Le fasi della presbiopia 1. Presa di coscienza (40\50 anni) 2. Presbiopia instabile (50\58 anni) 3. Presbiopia stabile (over 58) I presbiti del terzo millennio L’idea del presbite, che ha accompagnato gli operatori del settore ottico per buona parte del secolo scorso, come persona giunta a compimento della fase pubblica ed operativa della vita che, nulla aspettandosi dal futuro, adagia le sue scelte su concetti minimali, non corrisponde più al vero. Oggi i “maturi” sono consumatori dalla mente aperta, esigenti e attenti, sia alla moda che alle innovazioni. Essi sono sempre più alla ricerca di uno “stile” che consenta loro di affrontare con serenità ed impegno la propria vita come attori protagonisti piuttosto che da passivi spettatori. Oltretutto, come si è detto, il fenomeno presbiopia fa sentire i suoi effetti sempre più in età giovanile. Diviene quindi indispensabile essere attenti alle mutate situazioni, comprendere le modifiche richieste ed essere pronti soddisfare le nuove esigenze. La correzione ottimale che l’ottico propone deve essere sempre più individualizzata, cucita addosso al cliente presbite, rispecchiare appieno le sue esigenze, il suo lavoro, i suoi problemi. Ma soprattutto deve dare risposta alle sue richieste e soddisfare le sue attese. Naturalmente questo modo di procedere ci conduce a formulare moltissime caratterizzazioni del soggetto presbite: il pigro, il dinamico, il pratico, l’esteta, etc…Rimane, comunque essenziale dividere la categoria in: Giovane presbite Presbite Consolidato Il giovane presbite è un quarantenne spesso brillante e dinamico che sta raggiungendo i vertici della carriera professionale. Pertanto la sua esigenza primaria è quella di continuare a far fronte ai suoi impegni con velocità, ma soprattutto con la precisione che gli è consueta. Non può permettersi di far dipendere le sue performance da una visione prossimale difficoltosa ed insicura, 34 ma al tempo stesso non è disponibile a mettere in conto disturbi collaterali di alcun genere. Cerca fondamentalmente praticità, ma ancor di più, anche se restio ad ammetterlo, esteticità. Si sta accorgendo, giorno dopo giorno, che molte cose stanno cambiando nell’immagine che lo specchio gli restituisce ogni mattina. La sua cura per i particolari diventa più attenta e selettiva. Un nuovo oggetto, quale un occhiale correttivo, non potrà essere uno qualsiasi, ma qualcosa di indispensabile che non suoni come una nota stonata, ma entri nella piena armonia di un’apparire sapientemente studiato. Dal punto di vista della funzionalità visiva, la sua capacità accomodativa è ancora rilevante, le medie distanze sono ancora alla sua naturale portata, soltanto la lettura prossimale (40 cm) risulta difficile o fastidiosa. D’altra parte le sue necessità relazionali sono ancora molto intense e un sussidio che lo costringa ad “un mettere e togliere” in continuazione può essere un’evidente ostacolo. Il presbite consolidato è quasi sempre portatore di un’ametropia già presente in gioventù o sviluppatasi nel decorso iniziale della presbiopia. Sicuramente ha già sperimentato vari tipi di correzioni ed acquisito abitudini che facilmente si sono radicate. Tutto ciò lo rende, contrariamente a quanto si è portati a pensare, un cliente difficoltoso da trattare con soluzioni innovative, sicuramente molto di più del giovane presbite, che essendo alla prima esperienza è aperto a tutte le proposte possibili. Il presbite consolidato ha ormai raggiunto la massima inefficienza accomodativa, per tanto necessita di essere corretto per le mezze distanze. Risulta essere in definitiva il miglior cliente a cui proporre la correzione con lenti multifocali progressive. La correzione oftalmica della presbiopia Il principio fondante nella correzione oftalmica della presbiopia consiste nell’ identificare la lente positiva più debole, che sommata algebricamente alla correzione dell’ametropia da lontano, sia in grado di fornire visione confortevole alla personale distanza di lavoro. La compensazione con lenti monofocali La compensazione della presbiopia con l’occhiale monofocale prevede due possibilità di realizzo con caratteristiche di utilizzo abbastanza diverse: L’occhiale di normali dimensioni Il mezzocchiale 35 La prima soluzione è sicuramente la meno pratica. La montatura di dimensioni normali occupa tutto lo spazio visivo davanti agli occhi e pertanto ogni qualvolta il soggetto sposta l’attenzione su punti oggetto posti a distanze diverse (di solito maggiori) da quella di utilizzo, per la quale è stata calcolata l’addizione, il mondo appare sfuocato al punto da costringerlo a togliere gli occhiali, per poi di nuovi rimetterli quando vorrà tornare a lavorare alla sua distanza abituale. Tutto questo “mettere e togliere” risulta talmente difficile da sostenere che prima o poi indurrà il soggetto ad utilizzare l’occhiale anche a distanze scorrette, introducendo anomali utilizzi dell’accomodazione, con il risultato di accelerare la progressione della presbiopia o l’instaurarsi, troppo precoce, di forme di ipermetropia senile. È chiaro che questa soluzione di compensazione della presbiopia non è adatta a nessuno. È pertanto opportuno che l’ottico rifugga il più possibile dal proporla a qualsivoglia cliente. Il mezzo occhiale rappresenta il tentativo di risolvere, almeno in parte, i problemi legati alla soluzione precedente. L’utilizzo di una montatura tagliata nella parte superiore consente di passare dalla visione vicina attraverso lenti monofocali alla visione lontana senza nulla davanti agli occhi. Questa soluzione non è assente da problemi: 1) Eventuali ametropie da lontano rimangono totalmente non corrette, pertanto, in questi casi, l’osservazione dell’infinito sopra l’occhiale non sarà per niente nitida o quantomeno confortevole. 2) Se utilizzato da un presbite consolidato, distanze appena maggiori di quella calcolata per l’addizione saranno percepite sfuocate, provocando nell’utilizzatore strane modifiche della postura. Come si usa dire, vengono a mancare le mezze distanze. Questa soluzione, dal punto di vista tecnico può soddisfare soltanto i giovani presbiti emmetropi , ma è talmente penalizzante dal punto di vista estetico, da dover essere anch’essa scartata dalla rosa delle possibili proposte da fare al presbite. E. Bottegal – Ottica oftalmica 36 La compensazione con lenti bifocali Benjamin Franklin (17 gennaio 1706 - 17 aprile 1790) fu giornalista, pubblicista, autore, filantropo, abolizionista, scienziato, diplomatico e inventore statunitense, nonché uno dei protagonisti della Rivoluzione americana. Affetto da una marcata miopia, trova intollerabile l’avvento della presbiopia, che lo costringe, per lavorare, ad un continuo cambio di occhiali. Da uomo geniale, quale egli era, tagliò a metà due lenti: una da lontano e un’altra da vicino; quindi le incollò tra loro, usando il balsamo del canadà, un collante che presenta lo stesso indice di rifrazione del vetro. Inserì in una montatura la nuova coppia di lenti, tenendo nella parte superiore la porzione per lontano. Inforcato, l’occhiale permetteva al suo geniale inventore di vedere bene sia da lontano che da vicino. Era nato l’occhiale bifocale. La lente bifocale ha avuto da allora un’evoluzione continua e sono stati proposti diversi metodi di costruzione e varie forme dei segmenti da vicino. Per definizione, la lente bifocale possiede due focali. Una per la parte del lontano e una per la parte del vicino. Le due focali corrispondono ai due poteri omologhi. Dall’ottica geometrica sappiamo che il potere diottrico di una superficie è definito da: ϕ= n −1 R Volendo nella stessa lente ottenere due zone con poteri diversi, si potrà far variare l’indice di rifrazione del materiale nel passaggio da una zona all’altra, ovvero mantenere costante su tutta la lente l’indice del materiale e nel punto di passaggio tra le due zone variare il raggio di curvatura. Lenti bifocali a variazione di indice Le lenti che sfruttano la variazione dell’indice di rifrazione tra le due zone, a causa della forma assunta da quella da vicino, prendono il nome di bifocali a disco fuso. E. Bottegal – Ottica oftalmica 37 Il sistema di produzione consiste nel costruire una lente portante sulla cui superficie anteriore viene ricavata una fossetta, entro la quale verrà fuso un disco di materiale di indice di rifrazione maggiore. Il potere della zona per vicino PV è dato dalla somma algebrica : PV = P2 + P3 + P4 . Qualora la prescrizione per lontano sia astigmatica, il valore cilindrico deve essere mantenuto anche nella zona del vicino. Allo scopo, la correzione cilindrica viene costruita sulla faccia opposta a quella ove è ricavata la fossetta. Per realizzare la lente fotocromatica è preferibile l’utilizzo del sistema a placca, che permette una maggiore uniformità di colorazione, in quanto, usando vetro fotocromatico sia per la lente di base che per la pasticca fusa, si genera quasi sempre una maggior intensità di colorazione nella zona dedicata alla visione vicina. Le forme normalmente prodotte a disco fuso sono: a. Circoletto b. Disco ¾ c. Pantoscopica Lenti bifocali a variazione di curvatura 38 Vengono usualmente denominate “monoblocco”. Il materiale ottico usato può essere sia vetroso che resinoso e non esistono limitazioni di indice. L’addizione è ottenuta modificando il raggio di curvatura nella zona deputata alla visione vicina. Le forme costruttive possibili sono, oltre a quelle già viste per il disco fuso (circoletto, disco ¾ e pantoscopica) anche l’unghia visibile, invisibile e l’executive. Nelle forme a circoletto, disco ¾ e pantoscopica la variazione di curvatura. relativa alla zona del vicino è ricavata sulla superficie anteriore della lente, mediante un accorciamento del raggio Nelle forme a unghia visibile, invisibile ed executive le variazioni di curvatura sono ricavate sulla superficie interna della lente, mediante un allungamento del raggio Il salto d’immagine. Un problema per nulla trascurabile nasce nel momento in. cui l’asse visivo del portatore passa dalla parte del lontano a quella del vicino. In prossimità della zona di separazione si forma un duplice effetto prismatico determinato dalla distanza che separa i centri ottici, quello del lontano e quello del vicino, dalla linea di separazione. I due effetti prismatici si sommano quando i prismi sono accoppiati base/base e apice/apice In un unico caso i due effetti prismatici si sottraggono tra loro, propriamente quando si verifica l’accoppiamento base/vertice (lente negativa per lontano e positiva per vicino). In quest’ultima occasione, decentrando in maniera opportuna (più uno dell’altro) i due centri ottici, si può ottenere la stessa quantità di valore prismatico con l’effetto di annullare totalmente il salto d’immagine. In verità questa condizione è realizzabile solo con le lenti ad unghia visibile. Nelle lenti a circoletto e a disco ¾ la tecnica costruttiva impone regole che non permettono mai l’annullamento del salto d’immagine. Esso diventa massimo nelle bifocali ad unghia invisibile, a causa dello smusso dello scalino di separazione. E. Bottegal – Ottica oftalmica 39 Il salto d’immagine modifica la localizzazione degli oggetti nello spazio visivo. La differenza di effetti prismatici, introdotti dalle due zone della lente sulla linea di separazione, determina la formazione di una zona cieca tanto più ampia quanto maggiore è il salto d’immagine Lo spostamento apparente dell’immagine aumenta con: a. L’aumento dell’addizione b. L’aumento della distanza apice-lente c. L’aumento della distanza della linea di separazione dai centri ottici. Normalmente il sistema visivo riesce a compensare il salto d’immagine attraverso rapidi movimenti saccadici degli occhi, in funzione del fatto che il sistema corticale elimina le immagini percepite durante le saccadi ed elabora solo quelle percepite all’inizio e alla fine del movimento. La compensazione con lenti progressive “La lente progressiva è una lente che sfruttando le diverse posizioni assunte dagli assi visivi, nel passaggio dalla visione per lontano a quella per vicino, permette una percezione distinta degli oggetti posti in varie zone dello spazio”. Da tale definizione si comprende quanto sia importante individuare punto per punto quali sono le porzioni di lente che vengono intersecate dagli assi visivi quando passano dalla posizione primaria (assi paralleli) a quella secondaria di convergenza a 33cm. La congiunzione di tutti questi punti chiamasi “linea meridiana principale.” Partendo dalla semiparte superiore di questa linea, ove sarà posizionato il potere da lontano, man mano che ci si sposta verso il basso, il potere della lente dovrà aumentare senza soluzioni di continuità fino a raggiungere un massimo prestabilito nella semiparte inferiore. Come è ben conosciuto da chi sa di ottica geometrica, la potenza di una superficie rifrangente dipende dall’indice di rifrazione del materiale di cui è fatta e dal suo raggio di curvatura. Risulta evidente che, costruendo una lente progressiva, non è possibile agire sull’indice di rifrazione; e quindi la variazione di potere potrà essere ottenuta attraverso la costruzione di una superficie a raggio variabile. Una lente multifocale con la zona di progressione costruita attorno alla linea meridiana principale non dovrebbe teoricamente, ma solo teoricamente, creare alcun problema di adattamento. 40 Visto che ciò non è quasi mai vero, è necessario individuare da cosa dipenda la presenza di tutte le sgradevoli sensazioni visive che accompagnano l’individuo nei primi giorni d’uso del suo occhiale multifocale. Tali cause sono: • La standardizzazione della postura. • L’astigmatismo di superficie. La standardizzazione della postura. Progettare e costruire una lente con progressione di curvatura lungo una linea meridiana, significa stabilire a priori quali dovranno essere le posizioni degli occhi e conseguentemente del capo e del busto che consentano di sfruttare al meglio le potenzialità della lente a tutte le distanze. La molteplicità abitudini, delle delle professioni, conformazioni delle fisio- anatomiche, delle necessità visive in genere, ovviamente non consente di pensare che possa esistere un’unica postura ideale. Pertanto, nonostante gli sforzi dei progettisti, si giunge ad una condizione di compromesso. Sarà l’utente che dovrà imparare e modificare alcune sue abitudini posturali per eliminare le anomalie visive indotte dalle superfici progressive. Anche nella più comune attività visiva da vicino: la lettura in posizione seduta, l’utilizzo della lente progressiva impone una significativa variazione di postura sia nel campo verticale che in quello orizzontale. E. Bottegal – Ottica oftalmica 41 Nel campo verticale, infatti, l’inclinazione media del capo deve ridursi dagli abituali 45° a non più di 35°, di conseguenza l’infraduzione degli assi visivi dovrà aumentare di altrettanto. Orizzontalmente, l’ampiezza di campo normalmente richiesta è di circa 36°; una lente progressiva per soddisfare tale ampiezza dovrebbe avere una zona per vicino di circa 18mm di grandezza, cosa questa che nella maggior parte dei casi non avviene; l’utente è quindi costretto a ruotare continuamente il capo per seguire nitidamente lo scritto. I necessari adattamenti di postura non sono sempre facilmente assimilabili dai presbiti trattati con lenti multifocali. In molta parte dei casi trattasi di persone, che in ragione dell’età, non possiedono un’adeguata plasticità del sistema muscolo\scheletrico, e comunque poco disponibili a modificare abitudini consolidate da una vita. Nel proporre la correzione con lenti progressive, è opportuno che vengano anticipate tutte le possibili difficoltà derivanti dalla necessità di mutamento della postura, in modo che non siano una spiacevole scoperta, ma qualcosa di atteso e magari sopravvalutato. Se poi l’anamnesi avesse evidenziato particolari abitudini posturali (leggere a letto, guardare la Tv in posizione supina ecc.), è bene non esitare nel proporre, a fianco dell’occhiale progressivo, l’acquisto di un sussidio monofocale da usare in tali particolari condizioni postutali. L’astigmatismo di superficie. Nelle lenti progressive, usualmente, la superficie anteriore è costruita con curvatura variabile, mentre quella interna riporta le curvature necessarie per la compensazione dell’ametropia di base. L’aumento del raggio di curvatura della superficie esterna produce l’incremento di potenza richiesto (addizione). L’effetto, non voluto, ma che risulta impossibile eliminare totalmente, è che ad ogni variazione di curvatura, oltre a corrispondere la voluta variazione sferica del potere, si associa un’indesiderata componente cilindrica con un suo preciso orientamento (asse) che va aumentando di valore man mano che ci si allontana dalla linea mediana principale. 42 Questa componente cilindrica, detta astigmatismo di superficie, è più o meno presente su tutta la superficie della lente e, visto che dipende dai progressivi aumenti della curva anteriore, sarà proporzionatamente più elevata nelle addizioni maggiori dove si rendono necessari maggiori e più frequenti mutamenti del raggio di curvatura. Si è riscontrato che, dal punto di vista visuo\percettivo, viene agevolmente tollerata la presenza di astigmatismi di superficie fino a un massimo di 0,50 dt.: le aree della lente che rimangono entro tale valore sono definite aree funzionali (utilizzabili) e corrispondono normalmente alla zona relativa alla linea meridiana principale. Il resto della superficie, interessata da astigmatismi superiori, costituisce l’insieme delle così dette aree laterali, dove i valori cilindrici possono anche raggiungere le 3 dt. a. Distribuzione delle aree funzionali e non sulla superficie di una lente progressiva. b. Modifica del valore dell’addizione all’interno del canale di progressione A complicare ulteriormente la situazione si associa il fatto che tali componenti astigmatiche spesso presentano evidenti variazioni, tra punto e punto, della direzione dell’asse. Il risultato percettivo riscontrato dall’utilizzatore della lente sono le ben conosciute sensazioni di “mare mosso” (vertigine, ondulazione dello spazio laterale, ecc.). Riveste fondamentale importanza per l’ottico, che deve scegliere la lente più idonea, poter valutare la qualità costruttiva delle lenti a disposizione. Questa valutazione può svolgersi solo avendo a disposizione una serie di grafici che ogni azienda costruttrice dovrebbe fornire. I più usati sono: E. Bottegal – Ottica oftalmica 43 • Le matrici a punti. Viene fotografato un reticolo a cerchi attraverso la lente: la foto mostra le distorsioni introdotte nei vari punti, ma non fornisce nessuna informazione sulla quantità e direzione degli astigmatismi di superficie. • La mappa dei vettori. I segmenti indicati sulla mappa sono proporzionali all’astigmatismo presente e l’orientamento ne definisce l’asse. • La mappa isoastigmatica. Indica la distribuzione dell’astigmatismo di superficie mediante linee che congiungono i punti con uguale valore. Questa mappa consente definire bene la qualità dell’area del lontano, l’ampiezza e la posizione di quella del vicino, la configurazione del corridoio di progressione, l’ampiezza e la qualità delle aree laterali. 44 • I Plateaux spaziali. rappresentazione mappa Sono tridimensionale isoastigmatica senza, la della però, le indicazioni quantitative. Evoluzione delle lenti progressive A partire dal primo progetto di una superficie progressiva (Aves 1907) e ancor di più dopo il 1959, quando venne presentata sul mercato europeo Varilux , numerosi sono stati i successivi prototipi e realizzazioni sempre più raffinati di lente progressiva. Considerando le geometrie costruttive che man mano sono state proposte, è possibile fornire una classificazione tecnicotemporale della evoluzione della lente progressiva negli ultimi 50 anni. I Generazione. In questa fase le progressioni sono ottenute susseguirsi di superfici raccordate strettamente con sferiche in il , un’area centrale, che va a formare il corridoio di progressione ottica a basso astigmatismo di superficie, con una lunghezza variabile tra i 10 e i 16 mm. La presenza di variazioni di curva di tipo sferico produce un veloce incremento degli astigmatismi di superficie appena ci si distanzia dalla linea meridiana centrale. In tal modo l’aumento di addizione procura un rapido restringimento della canale utile alla visione. Questi lenti funzionano bene solo peri utilizzi statici, mentre l’utilizzo dinamico è caratterizzato da una evidente distorsione dello spazio tale da essere difficilmente tollerata. Influenza del valore di addizione nella ampiezza delle aree funzionali della lente 45 Inoltre la progressione è distribuita sulla superficie della lente in modo simmetrico. In pratica ogni lente può essere usata sia come destra che sinistra. Alfine di ottenere l’adeguato decentramento nasale della zona per vicino la lente viene ruotata nella fase di marcatura. Questa tecnica introduce un evidente disturbo della binocularità nelle lateroversioni, in quanto le aree nasali e tempiali della lente destra non presentano la stessa congruità d’immagine di quelle della lente sinistra. II Generazione Nelle lenti di seconda generazione, la necessità di ridurre gli astigmatismi di superficie portò alla progettazione di che avevano la curve caratteristica di diminuire il loro raggio man mano che procedevano verso la periferia (curve non sferiche). Le caratteristiche di queste curve sono tipiche di tutte le lenti asferiche. Derivano dalla famiglia delle coniche , sono infatti ottenute sezionando un cono con un piano non perpendicolare all’asse. Nel centro di riferimento da lontano corrisponde l’unica curva sferica (cerchio) che si modifica verso l’alto in elissi oblate e verso la zona del vicino prima in elissi prolate, quindi in parabole ed infine in iperboli Questa soluzione costruttiva ha il vantaggio, rispetto alla precedente di rendere molto più “dolci” le zone di raccordo, riservando maggiori spazi alle aree a basso valore di astigmatismo di superficie. Nella sezione verticale l’aumento del potere è perfettamente garantito nei termini dell’addizione richiesta; nella sezione orizzontale, al di sopra del punto di centraggio da lontano il potere aumenta verso la periferia. Al di sotto del centro per lontano, al contrario, procedendo verso i bordi della lente, il potere diminuisce. E. Bottegal – Ottica oftalmica 46 La variazione orizzontale di potenza Questa variazione di potenza nella sezione orizzontale va considerata con attenzione. Innanzi tutto è da dire che l’aumento di potere nella zona periferica del lontano è più modesta della variazione negativa della zona periferica del vicino. Comunque queste variazioni influiscono positivamente nell’utilizzo delle aree laterali della lente progressiva. Infatti l’osservazione di oggetti posti lateralmente necessita: Di una potenza maggiore nella visione di oggetti a distanza, data la posizione più vicina alla lente di quanto si osserva Di una potenza minore nella visione vicina, data la maggiore distanza dei punti osservati rispetto alla visione centrale. Questi aspetti visivi positivi possono diventare disagi in presenza di una scorretta prescrizione optometrica. In effetti, il concetto che più bassi sono i valori di addizione più confortevole è l’uso di lenti progressive induce molti prescrittori a sottocorregere la miopia e a sovracorregere l’ipermetropia. Alla luce di quello che si è detto riguardo alla variazione orizzontale dei poteri, nulla potrebbe essere più sbagliato. Infatti un miope sottocorretto da lontano, oltre a non avere una perfetta visione nella zona centrale della lente, ne avrà una ancor peggiore nelle zone laterali. L’ipermetrope sovracorretto da lontano sarà continuamente invogliato ad usare le aree laterali per la visione in distanza. e quindi indotto ad assumere strane posture del capo Per quanto riguarda la visione da vicino, visto che il potere positivo dell’addizione tende lateralmente a diminuire si è diffusa l’idea che nei soggetti che utilizzano le lenti prevalentemente da vicino sia meglio aumentare lievemente, ma comunque oltre il giusto, il valore dell’addizione. Per costoro è bene ricordare che un eccesso di addizione provoca: Un aumento dell’astigmatismo di superficie su tutta la lente Un restringimento del canale di progressione Una perdita di profondità di fuoco nella zone del vicino Riassumendo, gli effetti immediati che furono resi disponibili con l’introduzione delle curve asferiche sono: • Maggior controllo degli astigmatismi laterali • Aumento dell’ampiezza del canale di progressione 47 • Leggero aumento del potere periferico della zona del lontano • Leggera diminuzione del potere periferico della zona del vicino Tipologie La possibilità di controllare la distribuzione degli astigmatismi di superficie nelle zone laterali attraverso gli incrementi negativi più o meno accentuati delle curve di progressione permise di produrre lenti con diverse concezioni di utilizzo. Le tipologie che si affermarono maggiormente furono due: • Lente Hard • Lente Soft Il tipo Hard è una lente che privilegia le due zone funzionali principali: quella del lontano e quella del vicino. Comprimendo molto nelle zone non funzionali gli astigmatismi di superficie si ottiene, infatti, un significativo aumento di ampiezza (facilità di utilizzo) delle due zone principali a scapito, però, del corridoio di progressione che risulta particolarmente breve e stretto. La funzionalità di questo prodotto ricorda un po’ quella delle lenti bifocali; ad una buona qualità visiva del tutto lontano e del tutto vicino si affianca una difficoltosa gestione “dell’intermedio”. Durante la deambulazione l’effetto “mare mosso” è decisamente evidente. Il tipo Soft è una lente in cui il corridoio di progressione ha una maggior lunghezza e ampiezza, le zone principali sono più sacrificate in ampiezza, l’astigmatismo di superficie è distribuito su aree più grandi e quindi il suo gradiente di variazione è molto debole. È una lente che si adatta molto al presbite con necessità visive nel vicino e nell’intermedio; risulta essere di facile adattamento e di buon confort. 48 Da questi due concetti costruttivi prendono le mosse i progetti di tutte le più moderne lenti progressive. Ogni costruttore, infatti, tenta di realizzare un prodotto che assommi le caratteristiche positive di entrambe le tipologie al fine di ottenere visione ottimale a tutte le distanze e basso impatto funzionale nella fase di adattamento. La costruzione asimmetrica Uno dei grandi passi avanti compiuti nelle lenti progressive di seconda generazione è stato il passaggio dalla vecchia costruzione simmetrica a quella asimmetrica. Si inizia a pensare le lenti progressive come lente destra e lente sinistra, ben identificate e non intercambiabili. La prima importante innovazione su questa strada fu la creazione di un decentramento dell’area del vicino rispetto a quella del lontano, in modo che non fosse più necessario ruotare la lente. Tale decentramento prende il nome di inset Il suo valore viene calcolato in base alla variazione che la distanza interpupillare monoculare da lontano subisce quando gli occhi convergono per la visione vicina. Come si ricorderà tale valore oscilla tra i 2 e i 2,5 mm. Le lenti progressive di seconda generazione cominciarono ad essere costruite con un inset fisso di 2,5 mm. L’equilibratura dello spessore In tutte le lenti progressive di I e II generazione la progressione è a carico della superficie esterna della lente, mentre il potere da lontano, sia sferico che cilindrico, è ottenuto lavorando la superficie interna. E. Bottegal – Ottica oftalmica 49 L’aumento della curvatura della superficie esterna produce ovviamente una diminuzione sensibile dello spessore al bordo nella zona bassa della lente in evidente contrasto con la parte superiore decisamente più spessa, introducendo problemi non solo di tipo estetico, ma anche di montaggio. Nella tabella seguente sono indicati gli spessori (in millimetri) che una lente progressiva con potere da lontano sf.+1.00 e Ø70 assume al variare dell’addizione Spessore al bordo Spessore al bordo alto basso 3,2 1,7 1,1 2.00 4,2 2,6 1,0 3.00 5,1 3,6 1,0 Valore dell’addizione Spessore al centro 1.00 Per ovviare a tale difformità si è pensato di costruire la superficie interna decentrata rispetto a quella esterna. Viene così eliminata una porzione di lente corrispondente ad un prisma a base alta. Ciò che residua è una lente a spessori ridotti e omogenei con la zona del lontano non più centrata per effetto della presenza di un prisma verticale a base bassa misurabile nel centro geometrico della lente (2mm sotto la croce di centratura) di valore di 0,4 – 0,7 dell’addizione (vedi tabella succ.). Questa lavorazione è oggi applicata di serie a tutte le lenti positive, mentre per le negative, visto che il guadagno nell’assorbimento dello spessore è minimo, molti costruttori lo prevedono solo come lavorazione speciale su richiesta. Add. 0,50-1,0 1,25 1,5-1,75 2,00 2,25-2,5 2,75 3,0-3,25 3,50 Prisma 0,50 0,75 1,00 1,27 1,50 1,75 2,00 2,25 La modifica dei valori di spessori (centrale e al bordo) che si ottengono con l’inserimento del prisma di bilanciamento sono esposti nella seguente tabella: E. Bottegal – Ottica oftalmica 50 Spessore al bordo Spessore al bordo alto basso 2,9 1,1 1,0 2.00 3,5 1,3 1,0 3.00 4,0 1,4 1,0 Valore dell’addizione Spessore al centro 1.00 Dal confronto della due tabelle si possono sintetizzare i vantaggi del prisma di alleggerimento Spessori ai bori equilibrati e ridotti Estetica della lente migliore Montaggio migliore Spessore al centro ridotto (per le positive) Peso ridotto III Generazione. La salvaguardia della binocularità Nel più recente periodo viene affrontata la necessità di salvaguardare al massimo la binocularità anche durante l’utilizzo della visione laterale. Rispetto alla visione centrale, l’osservazione di un punto laterale comporta una rotazione sempre maggiore dell’occhio opposto alla direzione di rotazione (es.: se si guarda a destra, l’occhio sinistro deve ruotare di più del destro). Pertanto gli assi visivi andranno ad incrociare la lente in zone poste a distanza diversa dalla linea mediana. A queste diverse zone delle due lenti devono essere associate caratteristiche congrue che consentano la corretta fusione delle immagini. Naturalmente anche gli effetti prismatici, naturalmente diversi perché diverso è il decentramento, dovranno essere equilibrati per evitare l’insorgenza di forie indotte difficilmente compensabili E. Bottegal – Ottica oftalmica 51 L’inset variabile. Nelle lenti progressive l’area del vicino è identificata dal circoletto, entro il quale è rilevabile strumentalmente il potere; contemporaneamente, però, quest’area non contiene il centro ottico, che rimane posizionato lungo la verticale passante per il centro da lontano. Quindi l’area del vicino nelle lenti progressive non è un’area centrata, ma bensì un’area prismatica orizzontale che assume orientamento a base esterna nelle lenti positive e a base interna in quelle negative, il cui valore dipende dalla potenza in gioco (lontano+addizione). La presenza del prisma costringe il portatore a variare la propria convergenza (in + o in – a seconda dell’orientamento della base) e quindi gli assi visivi andranno ad interessare una zona diversa da quella prevista ove è garantita sia l’assenza di distorsioni che la bontà del potere. Per ovviare a questo inconveniente, le aziende più all’avanguardia prevedono la costruzione della lente con la possibilità di variare l’inset, aumentandolo nelle lenti positive e diminuendolo in quella negative, con un range di variazione tra 2 e 5mm. L’inset variabile ha costituito un primo passo avanti nel concetto di “personalizzazione” della lente multifocale. Come si è potuto finora vedere, ogni costruttore di lenti progressive standardizza il suo prodotto su una serie di parametri che possano adattarsi alla maggioranza dei potenziali utilizzatori di tali lenti. Più parametri vengono inseriti (visione statica, visione dinamica, inset variabile ecc.) maggiormente la lente, così prodotta, ottiene il gradimento di una sempre maggiore fetta di utenza. L’adattarsi bene, con soddisfazione, all’occhiale progressivo dipende da quanto la costruzione delle lenti e il relativo montaggio si adattano allo stile di vita e di lavoro di ciascuno. La 52 scelta della montatura, nel suo adattarsi al volto del portatore, gioca un ruolo altrettanto fondamentale. Prendendo sempre più coscienza di questi aspetti, a partire dall’anno 2000 alcuni produttori hanno intrapreso una serrata ricerca per costruire lenti progressive sempre più personalizzate e quindi meno invasive per le abituali condizioni visive. La lente viene costruita a partire da una serie di misure e progettata in condizioni di reale utilizzo. La geometria interna e l’aumento della parametrizzazione. Tra le varie novità proposte nel recente periodo, una sicuramente significativa è stata quella di realizzare la progressione, non sulla faccia esterna della lente, bensì su quella interna, associandola all’eventuale correzione per lontano. I vantaggi ottenuti in termini di comfort di adattamento sono innegabili. La lavorazione progressiva interna, infatti, agendo su una curva di tipo negativo, dovrà produrre un allungamento, e non un accorciamento, dei raggi di curvatura, quindi i raccordi tra le curve risultano essere più “dolci” e il gradiente più basso. Il mantenere sferica monocurva la faccia esterna non produce fastidiose variazioni di ingrandimento e per finire, essendo la faccia interna più vicina all’occhio, si ottiene un pur lieve incremento del campo visivo. Questa scelta obbliga ad abbandonare la possibilità di costruire un’ampia gamma di superfici progressive partendo da un unico semilavorato (come avviene nelle progressioni su faccia esterna), bensì è necessario lavorare e costruire la lente in modo sempre diverso, partendo ogni volta dalle singole prescrizioni. Non essendo più vincolati ad un semilavorato e dovendo in ogni caso costruire, totalmente ogni volta, la lente, permette, a richiesta dell’ottico, di inserire nella costruzione tutta una serie di parametri personalizzati sia sulle caratteristiche del futuro utilizzatore sia sulla montatura selezionata. Le personalizzazioni più normalmente richiedibili sono: • La distanza interpupillare per un inset variabile. • La distanza apice corneale \ lente • La dimensione della montatura che determina la corretta posizione della lente davanti all’occhio • L’inclinazione pantoscopica • La piegatura del frontale • La distanza di lavoro. 53 A scapito di questo notevole processo di personalizzazione, c’è da dire che i costi di realizzazione di queste lenti sono talmente elevati da rappresentare, almeno oggi, un prodotto destinato ad un’elite di consumatori particolarmente esigenti, ma anche abbienti. Inoltre, il senso di una sempre più raffinata personalizzazione viene a perdersi se i valori parametrizzabili dal costruttore vengono rilevati in modo scorretto e poco affidabile. Progressioni a campo corto. Tra le lenti personalizzate, merita un accenno la progressiva a campo corto (OFFICE) che utilizza campi di visione nitida compresi tra i 40cm e i 2m. Tale prodotto è un’adeguata risposta al giovane presbite che richiede solo di poter lavorare in scrivania con serenità e agevolezza. La lente è costruita con le caratteristiche del disegno soft, con addizioni molto contenute (0,751,25). 54 Il risultato è un prodotto a bassissimo gradiente e con un massimo contenimento degli astigmatismi laterali. Non è pertanto richiesto al portatore alcun sforzo di adattamento. La progressiva a campo corto può senz’altro essere considerata, anche per il costo basso, un ottimo veicolo di introduzione all’uso futuro di lenti a progressione completa. Variazione della lunghezza del canale di progressione Fino a qualche tempo fa in qualsiasi lente progressiva la lunghezza della progressione oscillava intorno ai 17mm; la qual cosa richiedeva che la montatura scelta garantisse uno spazio verticale sufficiente a contenerne l’intero sviluppo, affinché la zona del vicino venisse totalmente sfruttata (min. 22 mm). Con l’avvento della moda delle montature verticalmente strette tale necessità non poteva più essere rispettata. Pertanto la maggior parte dei produttori ha inserito nella gamma delle loro lenti progressive la tipologia a “canale corto” che richiede una altezza di montaggio (croce-bordo inferiore) tra i 16 e 19 mm. È chiaro che le lenti a canale corto presentano degli standard di utilizzo sicuramente un po’ diversi dalle sorelle tradizionali e quindi è bene, per fare una scelta adeguata, valutare tutte le condizioni in gioco. Canale di progressione lungo: • Area del vicino più bassa, ma più larga • Ottima utilizzazione alle medie distanze • Maggiore influenza sulla postura abituale • Maggiore necessità di rotazione degli assi visivi Canale di progressione corto: • Maggiore rispetto della postura abituale • Rapidità di utilizzo delle zone principali (lontano e vicino) • Scarsa performance alle medie distanze Per fare una scelta ragionata dell’uno o dell’altro prodotto (ammesso che in questa professione esistano regole) può essere utile saper rispondere alle seguenti domande: 55 • Il cliente presenta motilità del capo e degli occhi normali? • L’utilizzo previsto dell’occhiale sarà statico o dinamico? • Quale è il grado di riserva accomodativa disponibile? Fatto ciò, le scelte potrebbero essere così articolate: Lente corta adatta: • Ai giovani presbiti e presbiti emmetropi. Costoro non abbisognano dell’utilizzo del canale di progressione in quanto possiedono ancora una discreta ampiezza accomodativa che permette loro di vedere agevolmente le mezze distanze con il potere da lontano. • A chi ha problemi di correzione della postura • Ai portatori di bifocali (montate bene). Sono soggetti già abituati alla mancanza dell’intermedio Lente lunga adatta: • Ai presbiti consolidati, già adattati a lenti progressive • A chi svolge prevalentemente lavori di scrivania La scelta della lente. Aver capito che le lenti progressive non sono tutte uguali implica operare, con il giusto discernimento, quale lente proporre e vendere nella varia casistica di presbiti che ci si possono presentare. Gli aspetti che è opportuno tenere in considerazione sono: • Attenta analisi del portatore • Se possibile, un buon controllo optometrico • Un’adeguata scelta della montatura • Una perfetto montaggio • Ampie informazioni e istruzioni al portatore • Assistenza postvendita L’analisi del portatore Il potenziale cliente di lenti progressive va valutato secondo due linee guida: a. L’analisi della prescrizione (il suo difetto visivo) b. L’analisi dell’individuo L’analisi della prescrizione L’individuo miope necessita di assoluta e precisa correzione del lontano. L’occhiale progressivo dovrà garantire al massimo questa funzione. La prescrizione del lontano dovrà essere il 56 più possibile totale e l’area deputata a questa visione dovrà essere la più ampia possibile e quindi assente da disturbi. La visione vicina riveste minore importanza, anche se non deve essere trascurata. Il miope di lieve e media entità normalmente utilizza l’occhiale progressivo per la vita di relazione, mentre il lavoro prossimale e ancor più la lettura di svago preferisce svolgerli senza occhiali, ponendo gli oggetti in prossimità del suo punto remoto. La geometria costruttiva che maggiormente si attaglia a tutte queste caratteristiche è quella hard L’ipermetrope generalmente giunge alla lente progressiva per risolvere eminentemente i suoi problemi da vicino e alle mezze distanze. Meno attenzione è posta alla visione lontana che normalmente è risolta dall’atto accomodativo. La lente ideale è pertanto quella che ottimizza il canale di progressione e la zona del vicino: la geometria Soft. L’emmetrope è il cliente più difficile. Abituato ad avere eccellente capacità visiva a tutte le distanze, soffre maggiormente l’avvento della presbiopia ed è meno incline di altri a soluzioni di compromesso che non lo riportino ad una visione totalmente confortevole. A costoro è opportuno consigliare in prima battuta la lente a campo corto (Office), che offre un gradiente di potere molto dolce e un eccellente contenimento degli astigmatismi laterali. Una volta utilizzato per un certo periodo questo tipo di correzione , il passaggio alla progressiva totale sarà accettato con notevole facilità. Le prescrizioni complesse. È opportuno stabilire subito che non esiste alcun supporto scientifico per definire alcuni difetti visivi incompatibili con l’uso di lenti progressive. Esiste, caso mai, il buon senso. Pertanto si può affermare che è meglio evitare l’utilizzo di lenti progressive nei casi • di elevato (oltre 3 dpt) astigmatismo contro regola • di elevata anisometropia • di elevata modifica dei valori correttivi L’analisi dell’individuo. L’occupazione e lo stile di vita sono elementi che se conosciuti possono risolvere con grande successo la vendita di un occhiale progressivo. Il soggetto che passa la maggior parte del suo tempo lavorando a scrivania e/o al videoterminale, che normalmente coltiva hobby di tipo statico e casalingo avrà grandi soddisfazioni utilizzando una geometria Soft. Mentre un lavoratore dinamico, poco frequentatore di scrivanie, oppure colui che il tempo libero lo impiega prevalentemente all’aria aperta privilegerà soprattutto la buona visione lontana e quindi adatta sarà una lente Hard o meglio ancora una geometria interna. 57 La scelta della montatura. Troppo spesso oggi accade che sia il cliente ad imporre la scelta della montatura, basandosi ovviamente solo su concetti di fashion. Occorre pertanto riaffermare il concetto che un occhiale multifocale è un prodotto ad alta tecnologia, la cui scelta deve seguire precise esigenze tecniche che non sempre si sposano con la moda. Ricordiamo, brevemente, gli aspetti più salienti della scelta: • La forma. In una lente progressiva i punti estremi di visione lontano-vicino distano tra di loro dai 13 ai 17mm con un decentramento orizzontale della zona per vicino variabile tra i 2 e i 4,5mm. È necessario quindi che la scelta della forma non penalizzi alcuna di queste caratteristiche, come potrebbe accadere adottando forme a goccia o particolarmente sfuggenti nella parte inferiore od ancora forme eccessivamente “corte” sull’asse che taglia la zona del vicno longitudinale. • La linea rossa indica la forma scosigliata Le dimensioni. La condizione ideale consiste nella scelta di una montatura il cui scartamento si avvicini il più possibile alla distanza interpupillare. Ciò consente di ridurre al minimo il diametro della lente con conseguente ottimizzazione degli spessori e dei decentramenti. • Adattabilità. La montatura, una volta calzata, deve avere la massima stabilità davanti agli occhi; un occhiale ballerino continua a proporre agli occhi porzioni di lente non congrue con la postura, con conseguente difficoltà di adattamento. Occorre inoltre controllare che la montatura indossata presenti un’inclinazione angolare del suo piano frontale di circa 8-12° verso l’interno, al fine di mantenere costante la distanza delle lenti dal centro di rotazione degli occhi quando si passa dal lontano al vicino. L’avvolgimento del frontale deve essere intorno ai 5°. A questo riguardo si considerino a rischio le montature in acetato prodotte da lastra di spessore inferiore ai 6mm. Tali prodotti infatti, con l’uso e anche con il semplice calore del viso tendono a perdere la curvatura inizialmente data dal costruttore. 58 Dopo aver scelto la montatura è necessario rilevare l’esatta altezza a cui dovranno essere montate le lenti. Per fare ciò è necessario fissare, con un pennarello, sulla lente di presentazione di ambo gli occhi il punto ove cadono gli assi visivi con lo sguardo in posizione primaria (sguardo all’infinito). Tale punto coincide con il centro pupillare. Per non commettere errori è necessario porsi perfettamente di fronte al cliente, in modo che dell’esaminato gli occhi e quelli dell’esaminatore siano alla stessa altezza. L’eventuale disparità di statura costituisce una facile fonte di errore che si può agevolmente evitare eseguendo l’operazione da seduti. Come si è detto, durante la marcatura, il cliente, con il capo in posizione eretta, dovrebbe guardare all’infinito, ciò non risulta possibile, in quanto il viso dell’esaminatore si trova perfettamente di fronte a quello 59 del cliente. Per ottenere ugualmente la posizione primaria degli occhi, durante l’operazione di marcatura, basta dire al cliente di fissare alternativamente l’occhio dell’esaminatore omolaterale a quello su cui si sta lavorando Una volta completata l’operazione, è bene controllare che i punti segnati siano alla stessa altezza dal bordo inferiore della montatura; se dovessero risultare differenze, si fa calzare di nuovo la montatura e si osserva quale delle due marcature è maggiormente centrata sulla pupilla del cliente e si registra questa misura come altezza definitiva di montaggio per ambo le lenti. Il montaggio. Una volta scelta opportunamente la montatura è necessario definire le dimensioni delle lenti da ordinare affinché siano centrabili con la distanza interpupillare dell’utilizzatore. Questa operazione può essere fatta con lo stesso sistema di calcolo che si usa per le monofocali, ma risulta più semplice e maggiormente a prova di errore utilizzare il regolo comparatore, che tutte le aziende produttrici di lenti forniscono. La montatura va appoggiata sul regolo in funzione del ponte. Si imposta in verticale la croce di centraggio in corrispondenza del rilevamento del centro da lontano, segnato sulla lente di presentazione. L’operazione deve essere svolta un occhio alla volta e consente di leggere il diametro minimo della lente, utilizzando i cerchi concentrici segnati sul regolo. Attraverso questa procedura è anche verificabile che l’area del vicino rimanga interamente e sufficientemente inserita nel cerchio della montatura. Se ciò non fosse, sarà necessario, se possibile, ridurre la lunghezza del canale ovvero indirizzare il cliente verso un’ulteriore scelta della montatura. 60 La centratura delle lenti è condizione basilare affinché l’occhiale progressivo possa essere ben tollerato. Quando se un utilizzatore dichiara di avere difficoltà ad adattarsi, la prima cosa da fare è controllare il centraggio delle lenti. Per fare ciò si deve essere in grado di ritracciare sulla superficie della lente i punti di centratura lontano e vicino. A questo scopo, esistono sulla lente ue marcature dell’addizione, poste nelle zone laterali e distanti tra loro 34 mm. Queste marcature facilmente visibili indelebili, anche a occhio nudo, devono essere messe in corrispondenza a quelle disegnate sul regolo. A questo punto si possono, con un pennarello, ricopiare per trasparenza sulla superficie della lente i punti di centraggio. La consegna dell’occhiale Alla consegna dell’occhiale devono essere ancora presenti sulle lenti le marcature originarie al fine di poter controllare la corretta posizione dei centri pupillari per lontano e per vicino secondo la procedura scelta per il montaggio. Va inoltre controllato il perfetto assetto della montatura indossata e fornite al cliente tutte le indicazioni per un uso corretto. È buona cosa far eseguire al cliente, con l’occhiale indossato, tutte le operazioni visive che abitualmente si fanno nella vita quotidiana: Guardare lontano Leggere uno scritto Camminare Evitare rotazioni repentine del capo Concludendo… Il successo di un occhiale progressivo è soprattutto legato all’attenzione che si è saputa porre nel valutare la persona alla quale lo abbiamo venduto. Se ne avremo valutato bene • l’occupazione, • lo stile di vita, 61 • le abitudini visive, • il suo modo di camminare, • la sua naturale postura nel leggere Se gli avremo trasmesso tutte le necessarie istruzioni come ad esempio: • corretta posizione dell’occhiale sul viso • evitare osservazioni laterali • postura corretta durante il lavoro da vicino e soprattutto se l’avremo preavvertito di tutti i possibili disagi che potrà provare nei primi giorni e di cui non si dovrà spaventare, perché destinati a scomparire, è possibile che gli insuccessi nelle vendite di occhiali progressivi rimangano solo un ricordo. E. Bottegal – Ottica oftalmica 62 LA MONTATURA Nomenclatura. Per montatura s’intende l’occhiale senza lenti. Nella lingua inglese vengono utilizzati due termini: mount per indicare le montature a giorno, prive di struttura portante, e frame per indicare la montatura tradizionale, completa in tutte le sue parti. Quando si parla di Occhiali si intende l’insieme della montatura e delle lenti che saranno utilizzate per rendere nitida la visione o per proteggere gli occhi dalle radiazioni dannose. È quindi scorretto, volendo parlare di occhiali protettivi, indicarli come montature da sole. La montatura è, a sua volta differenziabile in alcune parti e più precisamente: 1) Frontale: comprende i due cerchi, il ponte e i musetti 2) Cerchi: sono detti anche anelli o occhi. Sono la parte del frontale che circonda e blocca le lenti nella loro corretta posizione. 3) Ponte: è la parte del frontale che lega insieme i due cerchi, che normalmente sovrasta la sella nasale dell’utilizzatore. 4) Naselli: sono un prolungamento del ponte. Consentono un adeguato appoggio della montatura sul naso dell’utilizzaatore. 5) Stanghette: dette spesso anche aste. Sono dei sostegni collegati ai musetti per mezzo di cerniere che consentono l’appoggio della montatura sugli orecchi 6) Musetti: sono le due estremità laterali del frontale, su cui, per mezzo di cerniere, si fissano le aste. Dimensioni. La dimensione della montatura è definita dai suoi parametri costruttivi basilari che sono: • Il calibro (diametro orizzontale dell’ “occhio”) • Il ponte (distanza che separa i due occhi) Tali parametri sono obbligatoriamente indicati dal costruttore e riportati generalmente all’interno delle astine, più raramente all’interno del ponte. E. Bottegal – Ottica oftalmica 63 Risulta evidente che queste misure possono variare a seconda del modo in cui vengono rilevate. Si è pertanto reso necessario creare degli standard di misurazione a cui attenersi allo scopo di rendere omogenei i dati forniti dai vari costruttori. Esistono due sistemi: • Il sistema boxing • Il sistema datum line Il sistema boxing è sicuramente oggi il più diffuso tra i costruttori, tanto da essere considerato lo standard per eccellenza. Con esso l’occhio della montatura viene inscritto in un quadrato/rettangolo la cui lunghezza di lato rappresenta la misura; la distanza tra i due occhi è definita DBL ed è rilevata tra i punti più vicini dei due “occhi” Il sistema datum-line è il più vecchio dei due (risale agli anni ’30) ed è ancora il più utilizzato dagli ottici italiani nella loro pratica quotidiana. Il suo nome deriva dal fatto che viene individuata una linea sulla quale vengono prese tutte le misure. Tale linea si trova a metà altezza tra il punto più alto e quello più basso dell’ ”occhio” della montatura. Si identificano lungo di essa pertanto: • Il ponte • Il calibro • Lo scartamento (dCM) (distanza tra i centri di figura dei due “occhi”) Questo sistema offre maggior comodità di rilevamento dei dati necessari alla corretta centratura dell’occhiale, in quanto la linea mediana di riferimento è facilmente identificabile. E. Bottegal – Ottica oftalmica 64 Elementi identificativi e marcature. Gli elementi identificativi della montatura sono normalmente indicati nella parte interna delle stanghette e a volte all’interno del ponte. Essi sono: La dimensione lineare orizzontale del cerchio La dimensione lineare del ponte La lunghezza delle stanghette La ditta produttrice La linea che identifica il design Il codice modello Il codice colore Funzionalità. La montatura per assolvere a pieno il suo ruolo deve corrispondere ad alcuni caratteri di funzionalità: 1) Mantenere le lenti perfettamente allineate (secondo i criteri dell’ottica oftalmica) agli occhi del portatore 2) Creare il massimo comfort in termini di peso e pressione. 3) Soddisfare i comuni criteri di esteticità Per soddisfare la condizione (1) è necessario che gli appoggi della montatura sul viso siano saldi e precisi. Per soddisfare la condizione (2) è necessario che i punti di contatto con la cute del viso siano minori possibile. Dato l’evidente contrasto esistente tra queste due ultime condizioni, è necessario che il costruttore sappia trovare una adeguato compromesso tra le esigenze elencate. Ciò si ottiene mediante l’utilizzo di materiali che presentino: a) Un basso peso specifico b) Un elevato grado di plasiticità Il basso peso specifico consente di applicare nei punti di contatto un minor valore di pressione e di attrito, mentre la buona plasticità permette di modificare, entro certi limiti, i punti di appoggio e di contatto, personalizzandoli al viso del cliente. Un ruolo importante per ottenere il massimo gradimento dall’utilizzatore consiste nel disporre, nel proprio assortimento di vendita, di montature il più diversificate possibile in termine di dimensione. 65 La dimensione appropriata rispetto al viso dell’utilizzatore è infatti il parametro principale da selezionare per ottenere adeguati successi di vendita. La buona calzabilità della montatura (vestibilità) dipende, oltre dalla sua corretta dimensione, anche da: • Forma e dimensioni del ponte • Assetto e lunghezza delle astine • Angolo pantoscopico • Angolo di avvolgimento Il Ponte. Il centraggio cerchio/occhio deve avvenire non solo in senso orizzontale ma anche in verticale. In questo senso il ponte gioca un ruolo fondamentale. La sua dimensione deve adattarsi perfettamente al setto nasale del portatore. Nelle montature di metallo l’appoggio è garantito dalle alette laterali che contribuiscono a far si che la barra di unione tra i due occhi non si appoggi sul setto nasale. Se ciò non è rispettato si formeranno fastidiose abrasioni sulla sella nasale che si troverà a sopportare l’intero peso dell’occhiale. Nelle montature in acetato di cellulosa l’intero ponte deve appoggiare, quasi fasciare, il naso. Solo così si può ottenere la giusta stabilità. Le aste. Durante la prova della montatura è necessario fare attenzione alle aste. Esse devono avere la giusta lunghezza affinché possano essere modellate sul contorno dell’orecchio per almeno 3 cm. Aste troppo corte sono fonte di grande instabilità dell’occhiale. È necessario ricordare a questo proposito che l’occhiale finito ha molto spesso un peso decisamente superiore a quello avvertito provando solo la montatura. Le astine in posizione aperta devono avere la giusta divergenza corrispondente la dimensione della testa del portatore; se esse premono sulle tempie procureranno lo scivolamento dell’occhiale sulla punta del naso. L’angolo pantoscopico. Un altro aspetto importante da controllare per garantire un corretto posizionamento della montatura è l’angolo d’inclinazione con il piano facciale (angolo pantoscopico). Nella posizione 66 corretta la parte bassa della montatura deve avvicinarsi al viso rispetto alla parte alta. Il valore di tale inclinazione può variare a seconda dell’utilizzo a cui è destinato l’occhiale. L’occhiale usato solo da lontano necessità di un grado d’inclinazione modesto (3°/5°) Negli occhiali per vicino l’angolo può raggiungere anche i 15° Gli occhiali a permanenza si posizionano a mezza strada con un’inclinazione di circa 8° N.B.: L’angolo pantoscopico è determinato solo parzialmente dall’inclinazione d’ inserimento delle astine sul frontale della montatura in quanto esso è fortemente condizionato dalla posizione dell’orecchio rispetto al globo oculare. È pertanto necessario controllare la correttezza di questa misura solo ad occhiale indossato. Angolo di avvolgimento. La curvatura del frontale dovrebbe garantire il mantenimento della distanza occhio/lente lungo tutte le escursioni visive. Per ottenere questo risultato è necessario che a partire dal naso il cerchio si pieghi verso il viso di un valore idoneo a mantenere costante la suddetta distanza per un’escursione visiva (cioè senza rotazione del capo) di almeno di 20°/25°. Tale condizione è generalmente soddisfatta con un’angolatura (meniscatura) di circa 5°. Angoli di meniscatura scorretti inducono capacità correttive delle lenti oftalmiche diverse rispetto a quella prescritta. Inoltre, un frontale che rimane troppo discosto dal piano degli occhi (angolo di avvolgimento 0°) introduce un restringimento del campo visivo. N.B.: Esiste un forte adattamento soggettivo all’angolo di avvolgimento (anche scorretto) utilizzato per molto tempo. Il fenomeno sta alla base dei grossi disturbi denunciati dai portatori al momento di indossare un nuovo occhiale che utilizzi un angolo diverso anche se corretto. In questi casi può risultare arduo convincere il cliente ad adattarsi alla nuova condizione e quindi la strada migliore è quella di far assumere al nuovo occhiale lo stesso angolo di quello vecchio. E. Bottegal – Ottica oftalmica 67 Tipi di montature. Da alcuni anni a questa parte, le esigenze estetiche sempre più pressanti, l’evoluzione costante delle tecnologie costruttive e la selezione di materiali sempre più sofisticati hanno di gran lunga allargato il panorama dei tipi di montature disponibili. In estrema sintesi è possibile classificare i modelli oggi più comunemente utilizzati nel modo seguente: a) Montature intere a cerchio chiuso b) Montature intere a cerchio apribile c) Montature per mezzi occhiali d) Montatura a giorno e) Occhiali monopezzo Montature a cerchio chiuso. Fanno parte di questa categoria tutte le montature realizzate in materiale plastico. In esse infatti i cerchi porta lenti non presentano alcuna possibilità di apertura. Pertanto le lenti potranno essere inserite solo previa un sufficiente preriscaldamento del cerchio, che ne aumenta il grado di plasticità. Il riscaldamento naturalmente deve essere appena sufficiente a consentire, esercitando una leggera pressione, l’inserimento della lente presagomata. Normalmente, nella fase del successivo raffreddamento, il materiale ha la capacità di ritornare alla forma e alla dimensione originaria, bloccando in modo stabile la lente entro di se. Montature a cerchio apribile. Sono tutte le montature realizzate in metallo. Per l’inserimento della lente, non essendo ovviamente possibile pensare di riscaldarle fino alla temperatura di rammollimento, è ricavato, generalmente in prossimità del musetto, un punto di apertura comandato da una vite. Una volta montata la lente a cerchio aperto, viene inserita la vite assieme ad un leggero strato di vernice trasparente, cha ho la funzione di bloccarla entro il proprio alloggiamento per evitare che con l’uso possa anche minimante allentarsi. Montature per mezzi occhiali. Appartengono sia al primo che al secondo tipo, in funzione che siano realizzate in plastica o in metallo. Equivalgono ad una montatura i cui cerchi sono tagliati a metà, di cui venga utilizzata solo la parte inferiore. Il ponte rimane quello originario in modo che anche se calzati normalmente la parte di cerchio rimasta sia localizzata sotto il piano di sguardo primario (occhi che guardano lontano). Sono essenzialmente utilizzati per la visione vicina, da soggetti privi di difetti visivi da 68 lontano, che con questi occhiali riescono a gestire tutte le distanze senza il fastidioso mettere e togliere, obbligatorio con gli occhiali di normali dimensioni. Montature a giorno. In queste montature sono parzialmente o completamente spariti i cerchi che trattengono le lenti. Esse vengono mantenute nella loro posizione corretta da complessi sistemi di ancoraggio al ponte, ai musetti, o a quel che rimane dei cerchi. Appunto in funzione del modo in cui vengono trattenute le lenti, le montature a giorno si differenziano in: a. Nylor. In questi tipi, generalmente, viene mantenuta in essere la semiparte superiore del cerchio in cui è ancorato un sottile filo di nylon che incastrandosi in un apposito canale ricavato lungo tutto il bordo della lente la trattiene nella posizione desiderata b. Glasant. Non viene mantenuta nessuna porzione di cerchio. Le lenti sono totalmente esposte e forate in corrispondenza del ponte e del musetto. Dove mediante l’inserimento di viti o perni vengono ancorate. La totale esposizione rende le lenti suscettibili a subire sollecitazioni e traumi vari. In questi occhiali è necessario infatti utilizzare lenti costruite con materiali infrangibili ad alta densità. Una variante di grande successo della tecnica glasant è il sistema air. In esso i fori sulla lente assumono forma di asola e al posto delle viti vengono usate le stesse stanghette che nel punto di inserimento sull’asola della lente si arricciano in guisa di molla. Tutta la montatura è realizzata in un sottile tondino di acciaio o di lega di titanio che conferisce all’occhiale finito un bassissimo impatto estetico (appunto aeriforme) ed una elevata elasticità che protegge contro deformazioni e rotture. Salvo elevati spessori delle lenti (per cui tutti i glasant sono sconsigliati) il peso finale che l’utilizzatore porta sul viso non supera i 4-5 grammi. E. Bottegal – Ottica oftalmica 69 Un’altra interessante variante è rappresentata dal tipo eyemetrics. Questa tecnica consente di fabbricare di volta in volta gli occhiali partendo da una serie di rilevazioni computerizzate dell’anatomia del viso del futuro portatore. La parti della montatura (astine e ponte) sono realizzate in materiale plastico anallergico del peso di pochi grammi. Il sistema di montaggio delle lenti non utilizza viti ma perni inseriti nelle lenti. Se dal punto del confort e della leggerezza i vantaggi sono analoghi a quelli degli altri glasant, la stabilità sul viso risulta di gran lunga superiore. Materiali per le montature Per le varie finalità che si vogliono associare al prodotto occhiale, esistono delle qualità indispensabili per qualsiasi materiale si voglia usare per la costruzione: 1. Leggerezza 2. Resistenza meccanica 3. Stabilità dimensionale 4. Compatibilità con l’epidermide 5. Facile possibilità di inserimento delle lenti 6. Possibilità di trattamenti di superficie Leggerezza. In parte di questa caratteristica si è già precedentemente detto. L’elemento fondante è il peso specifico del materiale usato. Resistenza meccanica. Affinché questa si realizzi il materiale deve avere: Elevata resistenza all’urto Elevata resistenza alla flessione Elevata elasticità Memoria di forma Stabilità dimensionale. È una qualità strettamente derivata dalla resistenza meccanica. È opportuno che il nomale uso protratto nel tempo e i relativi insulti meccanici che inevitabilmente si presentano (es.: le variazioni di temperatura), non alterino l’assento iniziale dell’occhiale e quindi la corretta posizione delle lenti. 70 Compatibilità con l’epidermide. La montatura vive a contato con l’epidermide del viso ed interagisce con essa in modo continuo. È pertanto necessario che tra il materiale di cui è costituita e i tessuti interessati non si creino situazioni biologiche di conflitto. I casi di manifesta allergia ai componenti della montatura sono sicuramente più presenti nell’utilizzo di montature metalliche, ove le forme di allergia essenziale al nichel rappresenta l’aspetto più eclatante; tant’è che ormai da tempo i più importanti produttori di occhiali hanno totalmente eliminato questa sostanza da tutte le leghe metalliche usate ed hanno adattato in forma sempre più diffusa l’utilizzo del puro titanio che garantisce l’assoluta anallergicità. L’attenzione si è ora spostata verso i trattamenti di superficie dei materiali, quali laccature, verniciature e rivestimenti galvanici in genere per i quali deve essere ricercata la completa compatibilità epidermica. Per quel che riguarda i materiali plastici, il problema è praticamente inesistente, salvo nelle situazione di sudorazione particolarmente acida che in molti casi è in grado in tempi relativamente brevi di corrodere sia gli strati di rivestimento che il materiale stesso con possibili conseguenti forme di irritazione epidermica di origine meccanica. Facile inserimento delle lenti. Questa caratteristica è naturalmente diversa a seconda si tratti di una montatura in metallo ovvero in plastica. Nel caso del metallo, ove il cerchio è apribile, è sufficiente che la lega usata abbia sufficiente elasticità atta ad evitare facili deformazioni. Mentre nelle plastiche, ove l’inserimento avviene mediante riscaldamento del cerchio, è necessario che il materiale possegga un elevato coefficiente di dilatazione associato ad una immediata capacità di ritorno alla dimensione originaria in seguito ad improvviso raffreddamento. I trattamenti di superficie. Sono da tempo universalmente usati su qualsiasi tipo di montatura. Il loro scopo è duplice: Migliorare e/o salvaguardare le caratteristiche del materiale. Rendere la montatura esteticamente migliore. Nelle montature di plastica si tratta di laccature, verniciature e colorazioni di vario genere. In quelle di metallo sono placcature, laminature e trattamenti di colorazione galvanici. Naturalmente è fondamentale la presenza di compatibilità chimica tra i trattamenti e il materiale, affinché non sia necessario utilizzare dei pre-trattamenti di supporto, di solito troppo costosi. Il fine da raggiungere è che il trattamento, qualunque esso sia, non vada precocemente incontro ad esfoliazione o scollamento. Alla luce di quanto detto si possono ora esaminare i materiali utilizzati e le tecniche costruttive delle montature che li contraddistinguono. E. Bottegal – Ottica oftalmica 71 Le plastiche. Le doti di leggerezza, elasticità e indeformabilità hanno indirizzato la scelta verso la famiglia delle termoplastiche1 In anni recenti si sono affiancate anche altre sostanze plastiche con caratteristiche a volte contrastanti con alcune di quelle normalmente ritenute indispensabili, ma che possiedono capacità di portare a valori elevati solo alcune di esse (ad esempio ottenere un’elevatissima leggerezza a scapito di una scarsa elasticità). La famiglia delle termoplastiche :annovera le resine cellulosiche: Nitrato di cellulosa (celluloide) Acetato di cellulosa (rhodoid) Acetopropionato di cellulosa (propionato) La celluloide. È stato l’unico materiale utilizzato per tutta la storia delle montature in plastica fino al primo dopoguerra. Unici due inconvenienti sono: 1) nell’invecchiamento tende a far evaporare alcune sostanze plastificanti col risultato di perdere la sua elasticità la facile termodilatabilità; 2) enorme infiammabilità. Proprio questa ultima caratteristica ha condotto, a partire dagli anni ’60, al suo completo abbandono, per l’eccessiva pericolosità d’incendio a cui erano sottoposte le industrie dell’occhialeria. Acetato di cellulosa. È divenuto il naturale sostituto della celluloide. Ne esalta tute le caratteristiche positive e ne deprime le negative ( non è infiammabile). È considerato il materiale più pregiato per la costruzione di montature in plastica. Viene prodotto in lastre di spessore diverso, a seconda della montatura che si vuol costruire. Le lastre sono già colorate secondo infinite varianti, ottenute anche con inserimento di stoffe ed elementi decorativi. La montatura viene ottenuta mediante fresatura comandata da un pantografo che consente l’esatta riproduzione della forma voluta. 1 Le termoplastiche sono resine che possono essere ripetutamente modificate in seguito a riscaldamento e raffreddamento. Sono composte da lunghe catene di fibre libere di muoversi le une contro le altre. Si possono fondere, sciogliere e saldare. Sono notevolmente influenzate dai solventi che tendono a gonfiarle o a dissolverle. 72 Propionato di cellulosa e Acetobutirrato di cellulosa. Anche se oggi viene più volte usato per la costruzione di montature griffate, il prodotto che con queste materie si ottiene è sicuramente di minor pregio qualitativo rispetto a quelle in acetato. Il materiale viene portato a 205° che rappresenta la temperatura di fusione e quindi iniettato entro stampi che riproducono la sagoma della montatura finale. Le montature possono poi essere colorate con varie tecniche per ottenere la miglio somiglianza possibile con quelle di acetato. Il propinato in genere viene colorato per immersione; in questo modo la colorazione rimane in superficie mantenendo un’ottima trasparenza. Queste montature presentano buone performance di leggerezza e adattabilità, ma col tempo tendono essere carenti nella stabilità. Anche le stesse colorazioni possono rovinarsi se surriscaldate o trattate con prodotti alcolici. Tra i materiali lavorati per iniezione in stampi, va ricordato l’Optyl. Proposto dalla tecnologia tedesca nel 1964, ha conosciuto una grandissima fortuna per oltre un ventennio, dovuta la fatto che con essa sono state costruite tutte le collezioni di occhiali di una tra le più prestigiose griffe dell’epoca. Da un punto di vista tecnologico la novità proposta dall’optyl consiste nel fatto che appartiene alla famiglia delle plastiche termoindurenti2. Presenta infatti grande resistenza, elasticità e stabilità, con il non trascurabile vantaggio di essere il 30% più leggero dell’acetato di cellulosa. Per modificarne la forma è necessario il riscaldamento oltre gli 80° e le modifiche si fissano con un successivo rapido raffreddamento, ma, per effetto di una originale memoria del materiale, un nuovo riscaldamento oltre gli 80° fa riassumere alla montatura la sua forma originale. Per gli occhiali protettivi destinati alla sicurezza personale vengono utilizzati il nylon (soprattutto per occhiali sportivi) e il policarbonato (negli occhiali di protezione industriale). Entrambe questi materiali presentano ottime proprietà di resistenza meccanica e stabilità. Sono poco adatti ad essere usati nella normale produzione da vista non presentando affinità ad esser colorati. I metalli. La lavorazione degli occhiali metallici parte da un filo trafilato a forma di “u” di uno dei materiali base e successivamente piegato, saldato e lavorato fino ad ottenere la montatura finita. Le montature così ottenute vengono poi sottoposte a trattamenti di rivestimento e colorazione di vario tipo. Le principali leghe usate sono: Alpacca. (rame-zinco-nichel). È una lega particolarmente utilizzata per gli occhiali destinati ad essere rivestititi da materiali nobili quali oro,palladio, rodio ecc., medianti processi di laminatura o placcatura. Presenta buone capacita meccaniche e di stabilità, ma è alterabile dagli acidi organici. 2 Le termoindurenti sono plastiche che in funzione dello loro struttura molto intrecciata presentano una soglia termica di deformazione molto elevata e quindi possono esser modificate con maggiore difficoltà rispetto alla termplastiche. 73 Monel. (rame-nichel-ferro). Ha caratteristiche simili all’alpacca ed è utilizzato come suo sostituto nelle montature laminate. Acciaio. È sicuramente tra i materiali più resistenti e duraturi (nella versione inox). Presenta però scarsa propensione alla coloritura e ai trattamenti in genere. Nella produzione di occhiali viene utilizzato con i suoi colori naturali. In alcuni casi viene utilizzato come anima di base su cui viene ricavato un sottile rivestimento in plastica di diversi colori. Titanio. Straordinariamente leggero e inalterabile anche agli agenti atmosferici. Rimane la soluzione per tutti coloro che, volendo utilizzare occhiali di metallo, presentino forme di allergia ai metalli (specie nichel). Esso è infatti perfettamente anallergico. Si combina bene in lega con tutti i metalli nobili. Unico neo, non è saldabile, quindi in caso di rotture la montatura deve essere sostituita integralmente. Alluminio. È un materiale di recente utilizzo che per il basso peso specifico può sostituire il più costoso titanio. Si presta bene alle colorazioni galvaniche, alle laccature e rivestimenti. Ha un’elevata malleabilità, duttilità e resistenza alla corrosione. E. Bottegal – Ottica oftalmica 74 GLI OCCHIALI PROTETTIVI Premessa Con il termine “lenti protettive” si intende tutto il complesso dei mezzi ottici atti a proteggere la regione oculare da: a. Gli insulti meccanici provenienti da sostanze estranee, quali schegge metalliche e legnose, sostanze chimiche, anche gassose, di tipo causticante ecc. b. dalle componenti nocive della radiazione elettromagnetica in grado di raggiungere l’occhio. Nel presente lavoro ci si occuperà esclusivamente della seconda categoria che va sotto il nome di lenti filtranti. Lenti filtranti. La categoria dei filtri selettivi rimane uno degli argomenti maggiormente maltrattati dell’ottica oftalmica. Un’informazione confusa, lacunosa e comunque scientificamente carente ha contribuito a creare nell’ambiente degli ottici una cultura, sull’argomento, di basso profilo. I filtri selettivi sono nella maggior parte dei casi identificati nella famiglia delle lenti colorate, che nell’ambito dello spettro elettromagnetico sono in grado di selezionare parzialmente sia alcune componenti dell’invisibile che del visibile. È opportuno chiarire che non è detto che una lente, per il solo fatto di presentarsi più o meno colorata sia in grado di filtrare le componenti dell’invisibile (le più dannose). Altrettanto una lente bianca (priva di filtro per il visibile) può possedere un’ottima prevenzione dall’invisibile. Allora è sicuramente importante approfondire gli ambiti entro i quali le lenti filtranti sono chiamate ad essere efficaci. Lo spettro elettromagnetico È la porzione di tutta l’energia elettromagnetica, proveniente dal sole, che riesce a superare la barriera atmosferica e raggiungere la superficie terrestre. Le caratteristiche distintive di tale energia sono: La lunghezza d’onda λ La frequenza di vibrazione ν La quantità energetica trasportata E 75 La relazione che unisce tali caratteristiche è la seguente: E= ν λ I limiti dello spettro elettromagnetico sono compresi tra i raggi cosmici ad elevatissima energia che vibrano con λ = 10-14 m e le onde radio (λ =108 m). L’ottica è interessata da una piccola porzione dello spettro: quella compresa tra i 100 nm e 1 mm di lunghezza d’onda, comprendente: a. l’ultravioletto, b. la porzione visibile c. l’infrarosso. L’ultravioletto È la porzione a più corta lunghezza d’onda, quindi la più carica di energia. Occupa la zona iniziale dello spettro ottico e non è percepita dall’occhio. A seconda del suo contenuto energetico si divide in: 1. UV-C. (λ 100-280 nm area germicida.) rappresenta la componente più dannosa per i tessuti. Fortunatamente è quasi completamente assorbita dall’atmosfera 2. UV-B (λ 280-315 nm area dell’eritema). È la porzione più pericolosa per l’occhio. L’assorbimento è a carico del cristallino e del vitreo. Provoca opacizzazione prematura del cristallino, raggrinzimento del vitreo e degenerazioni retiniche. 3. UV-A (λ 315-390 area di pigmentazione) Nella suo porzione più lunga (380-390 nm) raggiunge la retina. Per il resto è completamente assorbito dal cristallino senza particolare pericolosità. Un aspetto saliente, da tener presente in funzione della protezione, è la caratteristica dei tessuti di cumulare nel tempo la radiazione assorbita. Pertanto il danno biochimico risulta essere la sommatoria di tante esposizioni protratte nel tempo. Risulta evidente che la prevenzione deve essere fatta in forma generalizzata sin da giovane età. In senso più ristretto, particolare attenzione protettiva deve essere posta da coloro che lavorano in ambienti ove si utilizzano lampade ad emissione di ultravioletto (saldatori, fotografi ecc.) E. Bottegal – Ottica oftalmica 76 Il visibile. Una piccolissima porzione di onde elettromagnetiche, quelle comprese tra 10-8 e 10-6 metri hanno la caratteristica, se captate dall’occhio, di eccitare i ricettori della retina e provocare la sensazione luminosa che si traduce in effetto visivo. Per questo fatto tali radiazioni vengono chiamate onde luminose o più brevemente: “luce”, ed il loro insieme costituisce quella porzione di spettro elettromagnetico denominato spettro visivo. Furono le intuizioni di padre Grimaldi (1665) e gli esperimenti di Newton poi che dimostrarono che lo spettro visibile, o luce bianca, è scomponibile in una serie di colori detti colori dell’iride: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Solo nel 1827 si potettero effettuare vere e proprie misure delle lunghezze d’onda dello spettro visibile e si potette associare la percezione visiva dei vari colori a specifiche lunghezza d’onda. La porzione del visibile è perfettamente tollerata dall’organo visivo. Solo in casi particolari elevata intensità possono presentarsi fenomeni reattivi, di carattere peraltro transitorio e facilmente risolvibile. L’infrarosso. Si differenzia in: 1. porzione corta (760-15000 nm). È assorbita in maggior parte deal cristallino (ove genera la cataratta efoliativa, legata all’effetto termico). Il problema è a carico di chi è costretto a fissare per lunghi periodi le fonti di emissione (lavoratori delle acciaierie, vetrai, saldatori ecc.). Particolare aspetto è la retinite solare proveniente da prolungata osservazione diretta del sole (eclissi). 2. porzione lunga (15000nm-1mm). Molto debole negli effetti dannosi, è completamente assorbita dal film lacrimale e dalla cornea. La protezione. Da quanto detto, risulta evidente la necessità per chiunque, in forma diversa, di utilizzare per un lungo periodo della propria vita degli occhiali per la protezione dalla radiazione. 77 Per meglio comprendere il mondo delle lenti filtranti è opportuno chiarire il meccanismo della filtratura e il significato di alcuni termini particolarmente ricorrenti in questo campo. Quando un fascio di luce investe una lente avvengono una serie di fenomeni: Una parte di radiazione viene riflessa dalle superfici attive; il rapporto tra la quantità di luce che ha colpito la lente (intensità incidente) e la porzione riflessa costituisce il coefficiente di riflessione, denominato riflettanza. Una parte viene trattenuta nel corpo della lente; il rapporto tra la quantità di luce che ha colpito la lente (intensità incidente) e la quantità assorbita dal corpo della lente costituisce il coefficiente di assorbimento, denominato assorbanza Infine una parte riesce a superare la barriera formata dalla lente ed emerge dal lato opposto; il rapporto tra la quantità di luce che emerge dalla lente (intensità emergente) e la quantità che l’ha colpita (intensità incidente) costituisce il coefficiente di trasmissione, denominato trasmittanza. Nella pratica il valore della riflettanza e dell’assorbanza vengono conglobati in uno unico chiamato assorbimento. Il comportamento protettivo di una lente filtrante viene definito graficamente mediante le curve di trasmittanza (τ), normalmente espressa in percentuale. La trasmittanza dipende da una serie di variabili indipendenti: la lunghezza d’onda della radiazione la natura fisica del materiale della lente il coefficiente di riflessione lo spessore della lente La diversa colorazione che le contraddistingue dipende dalla radiazione maggiormente trasmessa (meno assorbita), mentre l’intensità (più o meno scure) dipende dal valore dell’assorbimento: più alto è l’assorbimento minore è l’energia trasmessa e più scura apparirà la lente. Quando una lente presenta una trasmittanza costante a tutte le lunghezze d’onda del visibile viene detta colorimetricamente neutra; la sua tonalità è grigia, più o meno scura in funzione del valore dell’assorbimento. L’effetto filtrante viene modificato inserendo nel materiale fuso della lente degli ossidi metallici di diverso tipo (colorazione in pasta). L’inconveniente di questa tecnica consiste che la concentrazione delle sostanze filtranti risulta diversa a seconda della distribuzione degli spessori 78 sulla lente. Si generano quindi zone più chiare nei punti più sottili e più scure in quelle più spesse. Una soluzione è rappresentata incollando su una delle superfici della lente bianca una placca filtrante di spessore omogeneo, oppure facendo depositare, sotto vuoto, sulla superficie posteriore l’ossido prescelto. Di seguito vengono analizzate le curve di trasmittanza delle più comuni lenti filtranti presenti sul mercato Blu. Per l’effetto della aberrazione cromatica è ben accettata dall’ipermetrope. La filtratura dell’UV è però insignificante, vanificando così l’aspetto protettivo. Risulta valida solo per un aspetto estetico Verde. La trasmittanza massima a 550nm consente una buona adattabilità del soggetto ipermetrope. Trova ottima collocazione anche negli occhi afachici. La protezione dall’UV e dal IR è buona E. Bottegal – Ottica oftalmica 79 Grigio. Rappresenta una delle filtrature più diffuse. Al variare di λ l’assorbimento si mantiene costante, nel visibile, per cui la percezione cromatica è poco alterata. La protezione UV è buona nella zona B. Ha il . miglior utilizzo in luoghi molto illuminati, utilizzando un assorbimento elevato. Giallo. Filtra ottimamente la radiazione blu e l’UV anche nella zona C meno dannosa. Aumenta il contrasto anche in condizioni di scarsa luminanza. È adatto alla visione notturna perché esalta la λ per la quale la retina è maggiormente sensibile E. Bottegal – Ottica oftalmica 80 Marrone. Buona La filtratura dell’UV, scarsa quella dell’IR. Adatto ai soggetti miopi che ricavano ne visione maggiormente nitida. Come il giallo aumenta i contrasti e risolve bene in bassa luminanza. Rosa. Assorbe bene tutta l’area della radiazione molto energetica e l’UV sotto i 350 nm. È la miglior filtratura per gli occhiali da lavoro al videoterminale. Bianco (antiattinico). Assorbe la radiazione UV in modo totale senza variare la trasmittanza del visibile. È consigliato a tutti gli ametropi che svolgono attività in presenza di illuminazione artificiale (neon) Lenti fotocromatiche Il vetro fotocromatico presenta nella sua composizione la presenza di cristalli di alogenuro d’argento che dimostrano un’attività fotoattiva in funzione dell’intensità luminosa dell’ambiente. 81 Lenti realizzate con questo materiale hanno la capacità di modificare il loro valore di assorbimento a seconda del tempo di esposizione alla luce solare e di tornare allo stato iniziale chiaro al calare della stimolazione luminosa. Gli elementi in grado di influenzare la reazione fotocromatica sono: il tipo di radiazione elettromagnetica. Il fotocromatismo si attiva con radiazione ad elevata energia (355-420 nm), quindi nella regione dell’UV-A. lo schiarimento dipende al contrario dalla radiazione infrarossa gli aspetti termici. Il freddo favorisce lo scurimento, il calore lo inibisce. Al contrario lo schiarimento è favorito dal calore e inibito dal freddo. Lo spessore della lente. Spessori elevati favoriscono lo scurimento. Differenti valore di spessore nella stessa lente generano intensità di colorazioni diverse e sgradevoli. Il problema si supera applicando una lamina fotocromatica a spessore costante sulla superficie posteriore della lente. Il trattamento antiriflesso. La sua caratteristica è quella di eliminare dalla lente la radiazione ultravioletta, necessaria per lo scurimento. Pertanto è opportuno che venga effettuato solo sulla superficie interna lasciando entrare nel corpo della lente tutta l’energia presente. I materiali fotocromatici organici presentano una fenomenologia fotoattiva basata su variazione della struttura molecolare. L’elemento fotosensibile è la molecola di ISN, sulla quale la luce agisce trasformandola in un isomero a catena aperta, che presenta delle bande di assorbimento nel visibile (nell’area dei 600 nm) che sono responsabili del cambiamento di colore. Alcuni inconvenienti che questo tipo di resine organiche avevano nella loro prima generazione, quali: La forte dipendenza dalle temperature La tendenza col tempo ad esaurirsi Le colorazioni non perfettamente definite sembrano in buona via di risoluzione con le ultime novità introdotte dal materiale Transition Lenti polarizzate. Le radiazioni elettromagnetiche naturali presentano uguali proprietà su ogni piano passante per la direzione del fronte d’onda, il quale si propaga contemporaneamente in tutti i piani dello spazio. Si parla di polarizzazione quando la propagazione del fronte d’onda viene soppressa in una specifica direzione mediante l’uso di filtri detti appunto polarizzanti. 82 le superfici estese piane, come l’acqua l’asfalto ecc, hanno la caratteristica di riflettere la luce solare polarizzandola secondo un piano a loro parallelo. In tale condizioni l’elevata concentrazione di energia lungo il piano di polarizzazione procura all’osservatore un fastidioso abbagliamento. Utilizzando filtri che operino una selezione orizzontale del piano di vibrazione, viene eliminata la porzione di energia disturbante, senza un’eccessiva perdita di luminosità. Tra due lamine di vetro o di materiale organico si inserisce una pellicola di perioduro di solfato di chinina, i cui elementi cristallinici sono orientati in modo di consenti re solo il passaggio della luce che vibra solo su un certo piano, definito asse di polarizzazione. La lente così ottenuta può essere montata su di una montatura con l’accortezza di orientare l’asse di polarizzazione secondo il piano di riflessione che crea il disturbo visivo. In questo modo verrà eliminato il disturbo e la visione risulta pulita e confortevole (priva di riflessi). Il mercato degli occhiali polarizzanti conosce una fascia di utenti assai fidelizzata che una volta apprezzato il confort di questo tipo di visione faticano a distaccarsene. Comunque la produzione di occhiali protettivi con lenti polarizzanti rimane confinata ad un target di occhiali molto tecnici e usualmente svincolati da ogni influenza del fashion. E. Bottegal – Ottica oftalmica 83 LA RICETTA DI PRESCRIZIONE DELLE LENTI Formato Nella sua estensione più comune la ricetta con cui vengono prescritte le lenti correttrici presenta alcuni elementi fondamentali: 1. 2. 3. 4. 5. 6. le generalità e i titoli del prescrittore l’anagrafica dell’utente la data il grafico il corpo le note Le generalità del prescrittore identificano chi ha materialmente eseguito l’esame rifrattivo che, avendo l’esclusiva responsabilità di quanto prescritto, deve essere preventivamente consultato se dovessero sorgere difficoltà nell’esecuzione della prescrizione stessa tali da implicare qualsivoglia variazione. 84 Consultare il prescrittore è necessario anche ogni qualvolta si presentino delle difficoltà d’interpretazione dei dati prescritti, ogni iniziativa presa arbitrariamente dal confezionatore degli occhiali può stravolgere la filosofia prescrittiva. È quindi opportuno che ogni punto vendita di ottica tenga una rubrica dei professionisti che operano nella propria zona. Nome e cognome dell’utente sono ovviamente necessari per identificare la persona a cui la prescrizione si riferisce. Una ricetta che ometta tale indicazione non deve essere eseguita prima di aver accertato, presso il prescrittore, l’identità mancante. La data di emissione permette di collocare la prescrizione in una sequenza temporale esatta rispetto ad esami effettuati precedentemente o successivamente. Nel caso fosse mancante, è buona cosa che chi fornisce l’occhiale trascriva sul retro della prescrizione la data di tale fornitura allegando il timbro del punto vendita e la firma del responsabile. Nel corpo sono indicati i valori rifrattivi delle lenti che dovranno essere utilizzate nella confezione dell’occhiale. Il corpo è diviso in due parti: sul lato sinistro del foglio sono indicati i valori relativi all’occhio destro e sul lato destro quelli relativi all’occhio sinistro. In ogni parte sono presenti tre possibili ipotesi prescrittive: • • • Lontano Permanenza Vicino Tale distribuzione sta ad indicare la destinazione principale, a volte assoluta, della correzione prescritta. L’occhiale da lontano renderà nitida la visione oltre i 2 metri di distanza; potrebbe essere poco o nulla influente su quella da vicino e in alcuni casi potrebbe peggiorarla. L’occhiale prescritto da vicino renderà nitida, ma soprattutto, confortevole la lettura e il lavoro a tavolino, ma si rivelerà insufficiente e più spesso fastidioso se usato da lontano. La prescrizione a permanenza si riferisce a delle lenti che, almeno durante l’espletamento di alcune attività, è bene siano indossate per soddisfare la visione sia vicina che lontana. Le caselle corrispondenti alla prescrizione per permanenza vengono, alle volte, usate per consigliare l’uso di occhiali adatti alla visione nelle mezze distanze. Può essere necessario per l’utente avere visione nitida ad una distanza inferiore a i due metri, ma superiore al mezzo metro; in questo caso se chi prescrive ritiene inidoneo l’uso di lenti plurifocali, può ordinare l’utilizzo di un occhiale che soddisfi tale necessità, ma che si rivelerà inefficace o fastidioso se usato per distanze diverse. Ognuna di queste sezioni (lontano, permanenza, vicino) prevede tre caselle per l’inserimento dei dati: 1. Sfera (sfero) 2. Cilindro 3. Asse La prima (sfera) raccoglie valori positivi o negativi adatti a correggere difetti di miopia (-), ipermetropia (+) e presbiopia (+). 85 La seconda (Cil.) e la terza (Ax) vengono utilizzate quando sono da correggere difetti di astigmatismo. In questo caso i valori inseriti nella casella “Cil.”saranno positivi o negativi a seconda si tratti di astigmatismo ipermetropico o miopico. Nella casella dell’asse viene indicata in gradi sessagesimali la giusta rotazione da dare alla lente inserita nella montatura. Questo dato, quindi, interessa più chi dovrà montare le lenti piuttosto che il venditore. Alcuni esempi; OCCHIO DESTRO SF. CIL. - 4.00 Miopia semplice in ogni occhio OCCHIO DESTRO SF. CIL. +0.50 Ipermetropia semplice in ogni occhio AX OCCHIO SINISTRO SF. CIL. -3.50 AX AX OCCHIO SINISTRO SF. CIL. +1.00 AX OCCHIO DESTRO SF. CIL. AX -0.50 180° Astigmatismo miopico semplice in occhio destro Astigmatismo miopico composto in occhio sinistro OCCHIO SINISTRO SF. CIL. -0.50 -0.50 OCCHIO DESTRO OCCHIO SINISTRO SF. CIL. AX SF. CIL. +1.00 +1.00 +0.75 90° Astigmatismo ipermetropico composto in occhio destro Astigmatismo ipermetropico semplice in occhio sinistro OCCHIO DESTRO SF. CIL. -0.50 +1.00 Astigmatismo misto in OO OCCHIO SINISTRO SF. CIL. +1.00 -2.00 AX 110° AX 180° AX 100° AX 180° Il grafico, che generalmente è posto sopra il corpo, è costituito da due semicerchi, uno per occhio, che riportano lungo la semicirconferenza la scansione in gradi sessagesimali da 0° a 180°; su di essi viene riportata, in modo grafico, la direzione dell’asse di correzione dell’astigmatismo (se presente) indicata numericamente nel corpo. Anche se questa ulteriore indicazione può sembrare un eccesso di zelo, ciò non è, in quanto esistono 2 sistemi di calcolo della direzione dell’asse dell’astigmatismo: E. Bottegal – Ottica oftalmica 86 • • Sistema Tabo Sistema Internazionale La differenza tra i due sta nella posizione assegnata al punto 0° da cui si inizia a contare. Nel sistema Tabo gli zeri sono posti all’estremità destra di ogni grafico. Nel sistema Internazionale lo zero del grafico corrispondente all’occhio destro è posto a destra, mentre quello corrispondente all’occhio sinistro è posto a sinistra.(fig.9) Pertanto se non è preventivamente conosciuto il sistema usato dal prescrittore, solo l’indicazione grafica della direzione dell’asse dell’astigmatismo dell’occhio sinistro può essere stabilita con certezza. Nulla cambia invece per l’occhio destro. Lo spazio riservato alle note viene a volte utilizzato per indicare la Distanza Interpupillare alla quale devono essere montate le lenti. Altre volte lo spazio viene utilizzato per meglio specificare il tipo di lenti da usare (es. multifocali, bifocali, ecc.). Infine è bene ricordare che ogni prescrizione deve riportare la firma del prescrittore, indipendentemente dal fatto che l’intestazione ne riporti i dati anagrafici. Una ricetta senza firma non costituisce prescrizione, ma rappresenta una copia di quanto prescritto in passato. E. Bottegal – Ottica oftalmica 87 LABORATORIO OFTALMICO Premessa È opportuno ricordare che l’utilizzo di un sistema di compensazione dell’ametropia deve: Riportare sul piano dei ricettori retinici l’immagine dei punti oggetto osservati. Introdurre uno stato di comfort visivo Se si vuole definire tra questi due elementi una scala d’importanza, sicuramente il raggiungimento del comfort è preminente rispetto a quello della perfetta focalizzazione. Quando entrambi sono soddisfatti il risultato può essere considerato ottimale. Il centraggio delle lenti correttive Uno degli elementi procedurali fondamentali al fine di garantire il comfort è il corretto centraggio delle lenti correttive. Per centraggio si intende la coassialità tra asse ottico della lente e asse visivo dell’occhio, quando entrambi passano per il centro di rotazione dell’occhio. Per ottenere un corretto centraggio delle lenti è necessario raccogliere alcuni dati dal portatore, dalla montatura e metterli tra di loro in relazione. E. Bottegal – Ottica oftalmica 88 RELAZIONE MONTATURA PORTATORE Calibro Interpupillare da lontano Posizione centri pupillari orizzontale Interpupillare da vicino Posizione centri pupillare verticale Ponte Scartamento MONTATURA-PORTATORE Angolo pantoscopico Le misure della montatura La dimensione della montatura è definita dai suoi parametri costruttivi basilari che sono: • Il calibro (diametro orizzontale dell’ “occhio”) • Il ponte (distanza che separa i due occhi) Tali parametri sono obbligatoriamente indicati dal costruttore e riportati generalmente all’interno delle astine, più raramente all’interno del ponte. Risulta evidente che queste misure possono variare a seconda del modo in cui vengono rilevate. Si è pertanto reso necessario creare degli standard di misurazione a cui attenersi allo scopo di rendere omogenei i dati forniti dai vari costruttori. Esistono due sistemi: • Il sistema boxing • Il sistema datum line Il sistema boxing è sicuramente oggi il più diffuso tra i costruttori, tanto da essere considerato uno standard. Con esso l’occhio della montatura viene inscritto in un quadrato/rettangolo la cui lunghezza di lato rappresenta la misura; la distanza tra i due occhi è definita DBL ed è rilevata tra i punti più vicini dei due “occhi” Il sistema datum-line è il più vecchio dei due (risale agli anni ’30) ed è ancora il più utilizzato dagli ottici italiani nella loro pratica quotidiana. Il suo nome deriva dal fatto che viene individuata una linea sulla quale vengono prese tutte le misure. Tale linea si trova a metà altezza tra il punto più alto e quello più basso dell’ ”occhio” della montatura. Si identificano lungo di essa pertanto: • Il ponte • Il calibro 89 • Lo scartamento (dCM) (distanza tra i centri di figura dei due “occhi”) Questo sistema offre maggior comodità di rilevamento dei dati necessari alla corretta centratura dell’occhiale, in quanto la linea mediana di riferimento è facilmente identificabile. La distanza interpupillare (DI) Per misurare la dI è necessario individuare il centro di ogni pupilla. Compito non sempre facile specie in presenza di pupille irregolari o di iride particolarmente scura. È quindi opportuno fare riferimento ad altri punti più facilmente identificabili. Ad esempio: I margini pupillari esterno-interno Il limbus corneale interno-esterno Il canto interno e il canto esterno Volendo raffinare meglio la misurazione è opportuno fare riferimento ai due assi visivi. Infatti nella maggior parte dei casi l’asse visivo non coincide perfettamente con l’asse pupillare. Il punto di intersezione dell’asse visivo con la pupilla è spostato nasalmente rispetto al centro geometrico pupillare. L’asse pupillare e l’asse visivo formano tra loro un angolo, chiamato angolo alfa: E. Bottegal – Ottica oftalmica 90 L’angolo alfa ha ampiezza soggettiva. In soggetti non affetti da exotropia ma con angolo alfa particolarmente elevato la posizione degli occhi appare divergente. Quando, per misurare la dI si utilizzano gli interpupillometri digitali, ciò che si misura in realtà è la distanza tra gli assi visivi. Infatti i due piccoli punti luminosi che si formano sulle pupille sono dovute al riflesso della mira luminosa, contenuta nello strumento, che il soggetto esaminato sta osservando con i suoi assi visivi. Facendo attenzione si è in grado di rilevare che le due piccole riflessioni luminose non coincidono quasi mai con il centro geometrico della pupilla. La distanza interpupillare deve essere presa sia da lontano che da vicino. Nella usuale pratica, una volta rilevata quella per lontano, la correlata per vicino viene ricavata per calcolo (si sottrae 2 mm per occhio). Relazione montatura-portatore La dimensione della montatura deve essere consona alla distanza interpupillare della persona; la montatura calzata, infatti, dovrebbe posizionarsi in modo tale che i centri pupillari si posizionino il più possibile al centro degli “occhi” della montatura. La condizione ideale quindi è quella in cui lo scartamento della montatura è uguale alla distanza interpupillare. Ottenere questa condizione porta con se il fatto che la lente da montare avrà il minimo diametro possibile, in quanto esso sarà condizionato dalla sola grandezza dell’ “occhio” della montatura, il che produce una serie notevole di vantaggi: Estetici: • contenimento massimo degli spessori della lente • distribuzione omogenea lungo tutto il cerchio degli spessori Funzionali: • Riduzione massima del peso dell’occhiale finito • Maggior stabilità 91 • Notevole riduzione delle distorsioni visive nell’utilizzo delle zone periferiche della lente Scegliere montature molto grandi pensando di aumentare il campo di sguardo è un errore, perché quando l’escursione visiva supera i 20° viene fisiologicamente introdotta la rotazione del capo. Scegliere montature troppo corte in altezza significa uscire spesso con lo sguardo dal campo utile della lente, rendendo inutile la correzione. Dato che la coincidenza tra dI e dCM (distanza interpupillare e scartamento)è condizione abbastanza rara, ciò che più frequentemente accade è che il centro ottico della lente debba essere decentrato, rispetto al centro geometrico della montatura, sia orizzontalmente che verticalmente. Il decentramento orizzontale da lontano Normalmente, per un carattere eminentemente estetico, gli occhiali presentano uno scartamento sempre superiore alla distanza interpupillare. Pertanto il decentramento necessario dei centro ottici delle lenti, sul piano orizzontale, sarà sempre verso il naso. La quantità monoculare del decentramento è calcolata con la seguente Decentramento = DAV − dCM 2 Il decentramento verticale da lontano Il corretto decentramento verticale si ottiene tenendo conto di: La posizione dei centri pupillari dietro la montatura che verrà rilevato mediante marcatura sulla lente di presentazione. Il valore dell’angolo pantoscopico. E. Bottegal – Ottica oftalmica 92 L’angolo pantoscopico. Normalmente, il piano del frontale dell’occhiale indossato non è perpendicolare al piano orizzontale (pavimento), bensì è inclinato verso l’interno. L’angolo formato dalla perpendicolare al piano orizzontale e il frontale della montatura prende il nome di angolo pantoscopico e il suo valore oscilla tra i 5° e i 15°. La presenza dell’angolo pantoscopico nasce dalla necessità di compensare in qualche modo la staticità del piano delle lenti correttive in rapporto all’enorme motilità che gli occhi dimostrano dietro di esse. Se da un lato, la presenza dell’angolo pantoscopico consente una miglior percezione delle immagini, da un altro fa perdere la coassialità tra asse ottico della lente e asse visivo dell’occhio con il risultato che l’asse ottico della lente non passa più per il centro di rotazione dell’occhio. (condizione bene descritta nella fig. a). La fig.b mostra che per ripristinare l’allineamento dell’asse ottico della lente con il centro di curavatura dell’occhio è necessario abbassare il centro ottico della lente di una quantità che è direttamente proporzionale al valore dell’angolo pantoscopico. Il calcolo dell’abassamento può essere eseguito secondo la seguente: Abb. = s ⋅ tg.θ Dove s rappresenta la distanza tra il centro di rotazione e il piano dell’occhiale in assenza di angolo pantoscopico (normalmente considerata paria a 27mm), mentre θ è l’angolo formato dall’asse ottico della lente con l’asse visivo. Calcolato in questo modo si ottengono i dati contenuti nella tabella sottostante: 93 CENTRAGGIO VERTICALE IN PRESENZA DI ANGOLO PANTOSCOPICO ANGOLO PANTOSCOPICO ABASSAMENTO DEL CENTRO OTTICO 2,5° 1,2 mm 5° 2,4 mm 7,5° 3,6 mm 10° 4,8 mm 12,5° 6,0 mm 15° 7,2 mm Si osservi che il centro ottico si abbassa di circa 0,5 mm per ogni grado di angolo pantoscopico Il primo problema che l’ottico si trova ad affrontare quando vuole montare correttamente un occhiale è assegnare il corretto valore all’angolo pantoscopico della montatura, calzata sul viso del cliente. Per superare l’ostacolo si sono adottate, nel tempo, varie standardizzazioni dell’abbassamento del centro ottico. Viene normalmente presa come origine la linea del datum line. Alcuni usano posizionare il centro ottico della lente su questa linea, altri ritengono migliore alzarlo rispetto ad essa di 2 mm. Entrambe le soluzioni si basano sull’assunto (per la verità non sempre verificato) che i centri pupillari debbano cadere nella semiparte superiore della montatura a circa 58 mm dalla linea mediana. In tempi recenti l’introduzione sul mercato delle lenti progressive ha creato l’abitudine di rilevare, mediante una marcatura sulla lente di presentazione, la posizione dei centri pupillari dietro l’occhiale. Si è abbastanza diffusa la cultura del centrare tutte le lenti, anche le monofocali, come fossero delle progressive. In tal modo non si introduce alcun effetto prismatico, ma sarebbe opportuno che venisse azzerato l’eventuale angolo pantoscopico per mantenere la coassialità tra l’asse ottico della lente e il centro di rotazione dell’occhio. Evidente, agendo in questo modo, la perdita di qualità visiva durante la rotazione degli occhi dietro le lenti, particolarmente nelle infraduzioni. Più recenti considerazioni su effetti prismatici e confort hanno stabilito che le vergenze fusionali, normalmente presenti, sono più che sufficienti a mantenere in confort un abbassamento del centro ottico di 4 mm rispetto alla posizione del centro pupillare, il che, il più delle volte, equivale ad alzarlo, rispetto alla linea mediana, di una valore compreso tra 1 e 3 mm. Operando in tal modo, si giudica visivamente premiante l’allineamento dell’asse ottico con il centro di rotazione, piuttosto 94 che l’annullamento degli effetti prismatici, che come appena detto sono nella maggior parte dei casi ben tollerati. Esistono alcune condizioni rifrattive in cui l’abbassamento del centro ottico non può essere applicato, pena l’introduzione di possibili discomfort fusionali. Esse sono: La presenza di scarse riserve fusionali, ove la presenza anche di lievi valori prismatici può generare la diplopia. Ametropie elevate, ove a piccoli valori di decentramento corrisponde un marcato effetto prismatico base bassa negli ipermetropi e base alta nei miopi. In questi ultimi, oltretutto l’effetto prismatico crea uno schiacciamento dell’immagine che va a ridurre ulteriormente la dimensione dell’immagine sulla retina. Anisometropia, ove la differenza di potere diottrico tra i due occhi provoca, in caso di decentramento verticale delle lenti, differenti valori di prisma causa di anisoforia. Esiste per contro una condizione nella quale non è possibile trascurare il corretto abbassamento dei centri ottici in funzione dell’angolo pantoscopico. Infatti se utilizzando lenti a tradizionale geometria sferica, non far coincidere l’asse ottico con il centro di rotazione dell’occhio genera effetti negativi sulla performance visiva, ma tutto sommato abbastanza contenuti da poter essere sopportati, la stessa cosa non si può affermare quando si utilizzano lenti asferiche. Con quest’ultime il mancato decentramento verticale (abbassamento dei centri ottici) genera un deterioramento della qualità dell’immagine retinica molto fastidioso. Pertanto la realizzazione del decentramento con le tecniche sopra specificate rappresenta un’imprescindibile necessità. Procedura pratica Nella pratica quotidiana, l’elemento di maggiore difficoltà da definire, per operare un adeguato decentramento verticale secondo le regole sopra esposte, è la corretta definizione del valore dell’angolo pantoscopico, che a differenza di altre misure relative alla montatura, quali il calibro o il ponte, non può essere preventivamente stimato. Esso infatti non dipende solo dall’angolo di attaccatura delle aste sul frontale, ma in massima parte dalle caratteristiche anatomiche delle strutture del viso (naso e orecchie) dell’utilizzatore. Pertanto, il valore dell’angolo pantoscopico riveste un carattere estremamente soggettivo e va valutato ad occhiale calzato. La semplice osservazione, in assenza di strumenti adeguati, non consente di stimare con ragionevole approssimazione il valore dell’angolo. Un metodo che consente di pervenire ad un buon risultato è il seguente: Si fa calzare la montatura al cliente 95 Si segnano sulle lenti di presentazione le posizioni pupillari dietro gli occhiali, con gli occhi in posizione primaria. Si osserva lateralmente la presenza dell’angolo pantoscopico, quindi si invita il soggetto ad alzare lentamente e progressivamente il capo fintanto che l’angolo pantoscopico si annulla (frontale perpendicolare al piano orizzontale). Si ferma il soggetto in questa posizione e si torna a segnare la posizione delle pupille dietro le lenti. La distanza tra la seconda marcatura e la prima rappresenta il valore di abbassamento del centro ottico, dipendente dall’entità dell’angolo pantoscopico. Per comodità di montaggio, normalmente sulle buste di lavorazione è opportuno segnare di quanto il centro ottico deve essere alzato (o abassato) rispetto alla linea mediana della montatura. Per calcolare questo dato si misura la distanza (y) della seconda marcatura (quella presa ad angolo azzerato) dal bordo inferiore della montatura e ad essa si sottrae la metà dell’ampiezza verticale totale dell’”occhio” (b): ⎛b⎞ Dec.vert. = y − ⎜ ⎟ ⎝2⎠ Se il valore esce positivo il centro ottico si troverà alzato rispetto alla linea mediana, se esce negativo si troverà abbassato. Si è precedentemente rilevato che nei casi di anisometropia il decentramento verticale genera valori prismatici diversi tra i due occhi. Il diffrenziale tra i due valori genera la condizione di anisoforia. In questi casi, specie quando l’anisometropia supera le due diottrie, è opportuno sistemare il frontale in modo che l’angolo pantoscopico si azzeri, evitando così qualsiasi decentramento delle lenti. Altre soluzioni di compromesso sono sicuramente meno valide. Gli effetti prismatici. L’ottica geometrica assimila la variazione di vergenza, impressa da una lente alla radiazione incidente, alla deviazione generata da un prisma. Prentice definisce le lenti come un insieme infinito di prismi con angolo di rifrangenza crescente man mano che il punto di incidenza si allontana dal centro ottico. Il valore della deviazione è misurato dalla formula: 96 ∆ = h ⋅ϕ In questo modo la lente perde la sua connotazione d’insieme di due diottri, per assumere quella di accoppiamento di prismi. Nella lente positiva i prismi sono accoppiati per la base, in quella negativa per il vertice. Risulta evidente che se per qualsiasi ragione, i punti di centraggio non coincidono con centri ottici della lente (CO) dietro ad essa si genera un effetto prismatico , l’occhio riceve la radiazione come se provenisse da un punto eccentrico dello spazio visivo. Per ripristinare la coniugazione tra fovea e punto oggetto, il centro fusionale dovrà imprimere un movimento di vergenza compensatoria e di conseguenza commetterà un errore di localizzazione dell’immagine. Alle volte è la stessa prescrizione a richiedere oltre alla correzione dell’ametropia anche un effetto prismatico. In questi casi può essere fatta costruire una lente prismatica con l’opportuno valore di deviazione (δ). Lenti di questo tipo risultano spesso antiestetiche e appesantiscono l’occhiale. Inoltre l’immagine fornita dal prisma ha sempre un effetto di iridescenza dovuto alla marcata dispersione cromatica che esso introduce. Ugualmente si può ottenere l’effetto prismatico desiderato decentrando il centro ottico della lente rispetto ai centri pupillari, evitando gli inestetismi del prisma. La seconda soluzione, sicuramente vantaggiosa, trova però alcuni limiti di realizzabilità legati al fatto che l’entità del decentramento è inversamente proporzionale al potere della lente: h= ∆ ϕ Pertanto la possibilità di evitare il ricorso alla lente prismatica dipende da: L’entità del valore prismatico necessario Il potere diottrico della lente Il diametro massimo disponibile della lente La dimensione dell’occhio della montatura Per conoscere il meccanismo dell’effetto prismatico legato al decentramento è bene tener conto che a parità di valore e di direzione del decentramento: E. Bottegal – Ottica oftalmica 97 a) Con lenti positive il prisma introdotto ha base corrispondente alla direzione dello spostamento del centro ottico. (Esempio: se il centro ottico è spostato verso il naso il prisma equivalente ha la base nasale) b) Con lenti negative il prisma ha la base opposta alla direzione dello spostamento del centro ottico Inoltre, la formula di Prentice permette di calcolare la deviazione subita dai raggi quando attraversano un prisma.Questo valore prende il nome di effetto prismatico nominale (∆n). Però a causa della distanza tra lente e occhio, il valore della rotazione che gli assi visivi devono compiere per mantenere l’immagine sulla fovea non è proporzionale all’effetto prismatico nominale. Il valore della reale rotazione degli assi visivi prende il nome di effetto prismatico effettivo (∆e) Se indichiamo con: s: la distanza tra il centro di rotazione dell’occhio e la lente (27 mm) d: la distanza di fissazione l’effetto prismatico nominale è definito dalla seguente: ∆e = ∆n . ⎛s⎞ 1+⎜ ⎟ ⎝d ⎠ Le variazioni di ∆e non dipendono solo dalla distanza di fissazione, ma anche dal fatto che la deviazione sia generata da un prisma puro ovvero da una lente decentrata. Esercizio I: Calcolare l’effetto prismatico effettivo generato da un prisma di 7∆ sia nella visione all’infinito che in quella a 40 cm. Visione da lontano: ∆ e = Visione da vicino: ∆ e = ∆n 7 7 7 = = = = 7∆ ⎛s⎞ ⎛ 0,027 ⎞ 1 + 0 1 1+⎜ ⎟ 1+⎜ ⎟ ⎝d ⎠ ⎝ ∞ ⎠ ∆n 7 7 7 = = = 6,56 ∆ = ⎛s⎞ ⎛ 0,027 ⎞ 1 + 0,0675 1,0675 1+⎜ ⎟ 1+⎜ ⎟ ⎝d ⎠ ⎝ 0,4 ⎠ E. Bottegal – Ottica oftalmica 98 a) Visione da lontano ∆e = ∆n b) Visione da vicino ∆e < ∆n Quando l’effetto prismatico è ottenuto mediante decentramento di una lente oftalmica, deve per forza entrare nel calcolo anche il potere della lente. Dalla formula di Prentice sappiamo, infatti che l’effetto prismatico nominale è direttamente proporzionale ad esso. Inoltre non è da trascurare la variazione di potere effettivo che la lente produce in base alla sua distanza dal centro di rotazione dell’occhio. È noto infatti che l’allontanamento di una lente dall’occhio produce un effetto correttivo minore nelle lenti negative e maggiore in quelle positive. Nella formula di. Prentice, per il calcolo dell’effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n il potere della lente è quello nominale. Per calcolare l’effetto prismatico effettivo bisogna sostituire il potere nominale della lente con quello effettivo che deriva da: ϕ e = ∆e = h ⋅ϕ e → ∆e = h ⋅ ∆e = ∆e = ϕn 1 − (s ⋅ ϕ n ) = s 1 − (s ⋅ ϕ n ) + d 1 − (s ⋅ ϕ n ) quindi : h ⋅ϕ n ma h ⋅ ϕ n è uguale a ∆n Sostituendo si ottiene: 1 − (s ⋅ ϕ n ) ∆n nella visione lontana 1 − (s ⋅ϕ n ) ∆n ϕn nella visione vicina E. Bottegal – Ottica oftalmica 99 Esercizio II: Calcolare l’effetto prismatico effettivo, in visione all’infinito, generato da una lente sf.+12.00 e da una -12.00, quando siano entrambe decentrate tempialmente di 8mm. Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,8 ⋅ 12 = 9,6 ∆ Effetto prismatico effettivo con lente positiva: ∆ e = ∆n 9,6 9,6 = = = 14,20 ∆ 1 − ( s ⋅ ϕ n ) 1 − (0,027 ⋅ 12) 0,676 Effetto prismatico effettivo con lente negativa: ∆ e = ∆n 9,6 9,60 = = = 7,25 ∆ 1 − ( s ⋅ ϕ n ) 1 − (0,027 ⋅ −12) 1,324 a) Visione da lontano con lente positiva ∆e>∆n Base Tempiale b)Visione da lontano con lente negativa ∆e < ∆n Base Nasale Nella visione vicina entra nel calcolo la distanza lente-centro di rotazione (s) e la distanza di fissazione (d). Esercizio III. Calcolare l’effetto prismatico effettivo dato da una lente di potere +10.00 dt, decentrata verso il naso di 6 mm, quando venga fissato un oggetto a 33 cm. Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,6 ⋅ 10 = 6 ∆ Base Nasale Effetto Prismatico effettivo: ∆e = ∆n 1 − (s ⋅ ϕ n ) + s d 6 = 1 − (0,027 ⋅ 10) + 2,7 33 = 6 6 = = 7,39 ∆ Base Nasale 1 − (0,27) + 0,081 0,811 Esercizio IV: Calcolare l’effetto prismatico effettivo della stessa lente precedente, con lo stesso decentramento, quando il punto di fissazione sia a 10 cm: ∆e = ∆n 1 − (s ⋅ ϕ n ) + s d = 6 1 − (0,027 ⋅ 10 ) + 2,7 10 = 6 6 = = 6 ∆ Base Nasale 1 − (0 ,27 ) + 0,27 1 100 Esercizio V: Calcolare l’effetto prismatico effettivo della stessa lente precedente, con lo stesso decentramento, quando il punto di fissazione sia a 5 cm. ∆e = ∆n 1 − (s ⋅ ϕ n ) + s d 6 = 1 − (0,027 ⋅ 10 ) + 2,7 5 = 6 6 = = 4,72 ∆ Base Nasale 1 − (0, 27 ) + 0,54 1,27 Ora ripetiamo i tre esercizi precedenti con gli stessi dati ma considerando la lente negativa. Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,6 ⋅ 10 = 6 ∆ Base Tempiale Esercizio VI: Oggetto a 33 cm: ∆e = ∆n 1 − (s ⋅ ϕ n ) + s d = 6 1 − [0 ,027 ⋅ (−10 )] + 2,7 33 = 6 6 = = 4,42 ∆ .Base Temp. 1 − (−0,27 ) + 0,081 1, 351 = 6 6 = = 3,89 ∆ 1 − (−0, 27 ) + 0,27 1,54 = 6 6 = = 3,31 ∆ Base Tempiale 1 − (−0,27 ) + 0,54 1,81 EsercizioVII: Oggetto a 10 cm: ∆e = ∆n s 1 − (s ⋅ ϕ n ) + d = 6 2,7 1 − [0,027 ⋅ (−10 )] + 10 Base Tempiale Esercizio VIII: Oggetto a 5 cm ∆e = ∆n 1 − (s ⋅ ϕ n ) + s d = 6 1 − [0 ,027 ⋅ (−10 )] + 2,7 5 Osservando i risultati degli esercizi dell’effetto prismatico da vicino si possono fare alcune considerazioni: I° Considerazione: La lente considerata ha potere 10 dt, quindi la sua focale è 10 cm () II° Considerazione: Con la lente positiva, quando il punto di fissazione è posto ad una distanza maggiore della focale della lente ∆e è maggiore di ∆n. Quando il punto di fissazione è posto a distanza pari alla focale ∆e è uguale a ∆n.. Quando il punto di fissazione è posto a distanza inferiore alla focale della lente ∆e è minore di ∆n.. III° Considerazione: Con la lente negativa, qualunque sia la distanza del punto di fissazione ∆e è sempre inferiore a ∆n. E. Bottegal – Ottica oftalmica 101 A conclusione della trattazione degli effetti prismatici con prisma puro e lente sferica, riassumiamo il confronto tra effetto prismatico nominale ed effettivo con la seguente tabella: CONFRONTO TRA ∆e e ∆n Lontano Vicino Prisma puro ∆e = ∆n ∆e < ∆n Lente positiva decentrata ∆e > ∆n d>f: ∆e > ∆n d=f: ∆e = ∆n d<f: ∆e < ∆n Lente negativa decentrata ∆e < ∆n ∆e < ∆n il centraggio dell’occhiale da vicino. Il decentramento orizzontale Nei concetti nulla cambia rispetto a tutto quello che è stato detto per la centratura da lontano. Unica differenza sta nel valore della distanza interpupillare, e quindi dei centri ottici della lente, che deve essere ridotta mediamente di 2,5 mm per ciascun occhio. Ancora una volta è , però, necessario, fare un distinguo per le lenti asferiche. Quando il centro ottico della lente è posizionato per la distanza interpupillare da vicino ed il bulbo effettua la regolare convergenza per allineare la fovea con il punto di fissazione, affinchè l’asse ottico delle lenti continui a contenere il centro di rotazione dell’occhio è necessario che il piano delle lenti, e quindi della montatura, ruoti verso l’esterno di 1° per ogni 0,05 mm di decentramento orizzontale. Il normale decentramento di 2,5 mm per occhio corrisponde una rotazione del frontale della montatura di 5°. 102 Regolare decentramento del centro ottico Rotazione verso l’esterno del piano delle da vicino. L’asse ottico non contiene il lenti per riportare l’asse ottico a contenere centro di rotazione dell’occhio il centro di rotazione dell’occhio Osserviamo che: 1. La quantità di piegatura del frontale della montatura verso l’esterno dipende dall’entità del decentramento. Quindi se il decentramento è 0° anche l’angolo di piegatura sarà 0° 2. È otticamente improponibile utilizzare delle lenti asferiche se non si è in grado di far si che l’asse ottico contenga il centro di rotazione dell’occhio. 3. La soluzione di piegare verso l’esterno il piano delle lenti è altrettanto improponibile; sia per fattori estetici che di comfort fisico Ciò significa che le lenti asferiche, quando sono utilizzate per la visione vicina, vanno centrate sulla distanza interpupillare per lontano. Il decentramento verticale. Per tenere conto dell’infraduzione degli assi visivi nella visione vicina il centro ottico delle lenti deve essere ulteriormente decentrato verso il basso. L’entità del decentramento dipende dal tipo di appoggio nasale della montatura utilizzata.: ¾ Appoggio normale sulla radice del naso (montature tradizionali): si abbassa il centro di due millimetri rispetto alla linea mediana dell’occhio della montatura. ¾ Appoggio al centro della sella nasale (nezzocchiale): il centro. Ottico va posto sulla linea mediana dell’occhio della montatura. Effetti prismatici e binocularita’ La mancanza di coincidenza centro-ottico/asse-visuale, con conseguente effetto prismatico, può realizzarsi in due condizioni: 1. Errore di centraggio. 2. Utilizzo di zone extra-assiali della lente Gli errori di centraggio Sono di tipo involontario quando si commette un errore nella sagomatura delle lenti. Sono invece volontari nell’allineamento verticale, quando in presenza di angolo pantoscopico si abbassano volontariamente i centri ottici, rispetto alla reale posizione della pupilla dietro lenti, per far passare l’asse ottico sul centro di rotazione dell’occhio. E. Bottegal – Ottica oftalmica 103 L’utilizzo di zone extra-assiali Le lenti montate in un occhiale assumono rispetto agli occhi una posizione assolutamente statica. Pertanto ogni qualvolta l’utilizzatore decide di esplorare lo spazio con movimenti degli occhi e non del capo, risulta che gli assi visivi abbandonano il punto di centraggio originale, pur esatto, e vanno ad utilizzare zone di lente variamente parassiali, introducendo un’inevitabile effetto prismatico. Si può ben dire che durante tutto il tempo di utilizzo di un occhiale sono di gran lunga maggiori i momenti in cui la visione è interessata da effetti prismatici che non quando il sistema fusionale è in perfetto riposo. Diventa pertanto estremamente importante saper valutare l’impatto che tali effetti prismatici hanno sulla binocularità dell’utilizzatore. Essi saranno la risultante degli effetti monoculari. L’effetto prismatico complessivo risulta dalla somma degli errori di centratura definiti in ciascun occhio, strettamente dipendente dal potere delle lenti, ma anche dall’orientamento della base del prisma introdotto in ogni occhio. A questo riguardo si parla di: 1. Effetti prismatici simmetrici 2. Effetti prismatici asimmetrici Effetti simmetrici Il caso è ben visualizzabile nella figura accanto. L’effetto prismatico introdotto dalle lenti è base nasale nell’occhio destro e a base tempiale nell’occhio sinistro. In pratica i prismi introdotti hanno entrambe le basi verso sinistra. Si usa dire che i prismi hanno la base coniugata. Questo fenomeno può essere causato sia da un errore di montaggio delle lenti, sia da posizioni di sguardo laterali che vanno ad interessare zone extra-assiali coniugate delle lenti. Nel caso che i prismi simmetrici siano creati da un errore di montaggio, gli occhi, che in posizione primaria stanno osservando l’infinito, non hanno sulle rispettive fovee l’immagine dell’oggetto osservato e per ripristinare la corretta visione bifoveolare saranno costretti a ruotare entrambi verso l’apice del prisma (a destra nella figura) di un valore angolare pari a quello dell’effetto prismatico monoculare introdotto. In questo caso la fusione sensoriale non è impegnata, perché gli assi visivi possono continuare a mantenere il loro parallelismo. Si genera in pratica un 104 movimento binoculare di versione, che genera un errore di collocazione delle immagini degli oggetti osservati nello spazio. Gli effetti prismatici simmetrici monoculari, sommandosi, si annullano. Nel caso che l’effetto prismatico simmetrico sia creato dai movimenti volontari di versione dietro le lenti, ciò che si verifica è una modifica del valore dell’angolo di versione. Nel caso si tratti di lenti positive l’angolo di versione tende ad aumentare, nel caso di lenti negative l’angolo tende a diminuire. La possibilità di annullare il totale del valore prismatico introdotto da due effetti monoculari simmetrici è anche dipendente dal potere diottrico delle lenti. In presenza di anisometropia si genera anche, dal punto di vista prismatico, un’anisoforia che implica un diverso valore di versione a carico di ciascun occhio. Da ciò si comprende che l’utilizzo volontario di decentramenti verticali simmetrici, necessari in presenza di angolo pantoscopico dell’occhiale, devono essere valutati con molta attenzione in presenza di significative condizioni anisometropiche. Effetti asimmetrici Sono questi coinvolgono i le casi che capacità maggiormente fusionali. Infatti l’effetto prismatico asimmetrico fa perdere la fissazione bifoveolare, che si ripristina attraverso movimenti disgiunti degli occhi. Solo attraverso la modifica della vergenza degli assi visivi si riesce a mantenere la fusione delle immagini. Come si vede nell’immagine, la direzione delle basi degli effetti prismatici è tempiale in ambo gli occhi. L’asimmetria è definita dal fatto che le basi sono rivolte l’una a verso destra e l’altra verso sinistra. In questo modo i valori prismatici monoculari si sommano. Gli assi visivi, per mantenere la fusione, non possono più rimanere paralleli, ma devono compiere un movimento in convergenza, di ampiezza pari alla somma degli effetti monoculari. Le capacità fusionali sensoriali che sovrintendono ai movimenti di vergenza hanno carattere di soggettività, pertanto non è infrequente riscontrare una diversa risposta soggettiva in presenza di identici effetti prismatici asimmetrici. In linea generale le capacità di compensare tali effetti è maggiore per i movimenti in convergenza, minore per quelli in divergenza e scarsissima per le vergenze verticali. 105 106 LE LENTI A CONTATTO I Polimeri. La possibilità di correggere l’errore rifrattivo dell’occhio, modificando la potenza del suo diottro principale era conosciuta fin dai tempi di Leonardo da Vinci. Poterlo fare mediante sovrapposizione alla cornea di una calotta trasparente otticamente capace di riportare il sistema all’emmetropia è invece storia dei nostri giorni. Nel XX secolo la chimica organica e propriamente quella delle materie plastiche ha permesso di produrre nuove sostanze con caratteristiche di leggerezza, trasparenza, lavorabilità a bassi spessori, stabilità e biocompatibilità che si sono dimostrate perfettamente adatte alla costruzione di lenti a contatto. Queste sostanze fanno parte della grande famiglia dei polimeri. I polimeri sono composti costituiti da l’unione di numerose (molte migliaia) unità elementari chiamate monomeri. L’unione di monomeri tutti uguali tra di loro porta alla formazione di omopolimeri, mentre l’unione di monomeri di sostanze diverse viene chiamata copolimero. Il legame tra i vari monomeri che costituiscono il polimero può essere in forma: lineare ramificata crociata In base al loro comportamento al calore, sono suddivisi in: termoplastici termoindurenti. I polimeri termoplastici si ammorbidiscono con il calore e possono essere modellati più volte con relativa facilità; i termoindurenti non si ammorbidiscono facilmente e possono essere lavorati una sola volta. I polimeri lineari in genere hanno caratteristiche meno nobili, sono termoplastici, solubili, instabili, mentre quelli con legami crociati e trasversali sono inerti, stabili, insolubili nei più comuni solventi. Se il numero dei legami trasversali è relativamente basso, il materiale risulta morbido e con particolare attitudine ad assorbire la soluzione ove viene immerso. All’aumentare del numero dei legami crociati aumenta la rigidità del materiale e diminuisce la sua affinità ad assorbire liquidi. 107 È opportuno passare in rassegna quali debbono essere le principali caratteristiche affinchè un polimero possa essere selezionato per la costruzione di lenti a contatto. La permeabilità e la trasmissione di ossigeno. La cornea è un tessuto avascolare che acquisisce ossigeno, ad occhio aperto, dal film lacrimale, in cui si diffonde l’ossigeno atmosferico e in misura molto minore dall’umor acqueo e dal plesso vascolare perilimbare. Ad occhio chiuso dai vasi della congiuntiva tarsale. Qualsiasi lente a contatto applicata sulla cornea agisce come barriera all’utilizzo dell’ossigeno atmosferico. Una certa quantità d’ossigeno può comunque raggiungere la cornea attraverso: Il pompaggio di liquido lacrimale dietro la lente durante il suo movimento (significativo nelle lenti RGP) Attraverso il materiale della lente Questa seconda opportunità è fondamentale nelle lenti morbide, ove il grande diametro e lo scarso movimento non consentono adeguate forme di pompaggio. Il valore della permeabilità dell’ossigeno in un certo materiale è funzione della: • Velocità con cui le molecole di ossigeno riescono a passare attraverso il materiale (Diffusione) • Facilità con cui l’ossigeno si dissolve nel materiale (Solubilità) Il prodotto di questi due coefficienti: Diffusione (D) x Solubilità (k) è sempre un valore molto piccolo, tale che per comodità viene espresso come x10-11 . Il Dk (x10-11) è una caratteristica del materiale in quanto ne esprime la gaspermeabilità Quando con un dato materiale viene costruita una lente a contatto entra in gioco un altro fattore fondamentale: lo spessore della lente (t). Poiché, in questo caso, il valore di trasmissibilità di ossigeno viene ottenuto facendo il rapporto tra il Dk del materiale e lo spessore (t) della lente, viene usata l’espressione Dk/t che in valore è espressa da un numero x 10-9. Entro un certo limite di riduzione di apporto di ossigeno la cornea umana è in grado di rallentare i propri processi metabolici ed evitare alterazioni significative della sua deturgescenza; se Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 108 tale limite viene superato l’edema stromale travalica i confini fisiologici e la richiesta di ossigeno, per combattere l’anossia, si rivolge ai capillari del plesso perilimbare che aumentano di volume e si spingono fin oltre il limbus per conferire l’ossigeno richiesto dagli esausti tessuti corneali. Risultato: OCCHIO ROSSO. Nel 1984 Holden e Mertz stabilirono che l’ispessimento della cornea (edema) indotto dal porto di lenti a contatto non doveva superare il 4% e che i Dk/t utili a non superare tale limite sono: 24 x10-9 per il porto diurno 87x10-9 per il porto notturno Porto notturno 140 120 Dk/t 100 80 Serie1 60 40 20 0 0 5 10 15 20 25 30 Edema Corneale Fig.1- Distribuzione dell’edema cornele al variare del D k/ nel porto notturno (Holden e Mertz) La necessità di produrre lenti con alto Dk/t fu compreso dai costruttori come obiettivo da raggiungere ancora prima degli studi di Holden e Metz e l’attenzione fu subito posta al contenuto d’acqua raggiungibile dalla lente, requisito fondamentale per aumentare la gas-permeabiltà. Il rapporto acqua/polimero Gli idrogel sono polimeri che hanno un rapporto privilegiato con l’acqua, nel senso che, dopo la produzione allo stato secco, nel momento che vengono immersi in soluzione acquosa tendono ad assorbire una certa quantità di liquido, aumentando di peso e di volume. La variazione di peso dallo stato secco a quello idrato esprime il tasso d’idratazione del materiale. 109 In effetti però solo una parte del tasso di idratazione è costituita da acqua elettrostaticamente legata ai siti polari del materiale; un’altra parte, a volte anche rilevante, è determinata dall’effetto di riempimento dei pori del polimero stesso senza però legami chimici (acqua libera). Nel caso l’idrogel venga rimosso dallo stato di immersione e posizionato in ambiente secco l’acqua libera tende ad evaporare rapidamente mentre la porzione legata permane molto più a lungo all’interno del materiale. In modo analogo, si possono osservare stati di disidratazione di lenti idrofile quando siano applicate in occhi tendenzialmente secchi. Lo strato acquoso del film lacrimale evapora nell’intervallo di tempo compreso tra due ammiccamenti. Se il film è instabile si generano aree più o meno diffuse di secchezza che tendono ad essere risolte richiamando acqua dall’interno della lente applicata. Si genera, quindi, una disidratazione primariamente a carico dell’acqua libera presente nella lente che è tanto più veloce, quanto maggiore è la sua idrofilia. Gli effetti derivati dalla disidratazione sono: Diminuzione del BOZR Diminuzione del Dk/t Aumento dell’indice di rifrazione Diminuzione dello spessore Diminuzione del diametro totale (TD) Cambiamento del potere Risulta evidente che conoscere il rapporto esistente tra acqua libera e acqua legata consente di conoscere la velocità di disidratazione di una certa lente a contatto in condizioni di secchezza oculare. La carica elettrica Un’altra caratteristica di estrema importanza nella valutazione degli hydrogel è il tipo di carica elettrica di superficie in essi presente. Infatti per effetto della ionizzazione alcuni materiali possono presentare una carica di superficie negativa, mentre altri tendono alla neutralità. Tenendo conto che le mucoproteine del film lacrimale sono caricate positivamente in superficie, a seconda della carica presente nel materiale questo sarà più o meno predisposto alla formazione di depositi. In questo contesto gli hydrogel vengono distinti in: ionici (hanno carica negativa) 110 non-ionici (non hanno carica) La classificazione secondo l’FDA Riconoscendo come primarie le caratteristiche di idratazione e ionicità dei materiali per lenti a contatto in relazione al loro comportamento in vivo, l’FDA ha stabilito la seguente classificazione in quattro gruppi: GRUPPO 1 GRUPPO 2 H2O<50% non-ionico H2O>50% non-ionico GRUPPO 3 GRUPPO 4 H2O<50% ionico H2O>50% ionico Tefilcon (38%) Lidofilcon B (79%) Bufilcon (45%) Bufilcon A (55%) Tetrafilcon A (43%) Surfilcon (74%) Deltafilcon A (43%) Perfilcon (71%) Crofilcon A (38%) Lidofilcon A (70%) Droxifilcon A (47%) Etafilcon A (55%) Hefilcon AeB (45%) Netrafilcon A (65%) Phemfilcon A (38%) Focofilcon A (55%) Isofilcon (36%) Hefilcon C (57%) Ocufilcon (44%) Mafilcon (33%) Alfafilcon A (66%) Ocufilcon C (55%) Polymacon (38%) Omafilcon A (59%) Phemfilcon A (55%) Vasurfilcon A (74%) Methafilcon A (55%) Hioxifilcon (59%) Methafilcon B (55%) Ocufilcon B (53%) Vifilcon A (55%) Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 111 L’evoluzione dei materiali A seconda della famiglia di appartenenza del materiale, le lenti a contatto di dividono in: Lenti Rigide Lenti Morbide Materiali per Lenti rigide. Sono costruite con polimeri di tipo vetroso classificati in 4 gruppi in relazione al valore di Dk espresso. Gruppo 1: PMMA (poli-metilmetacrilato). Dk=0. È il primo materiale plastico utilizzato per la fabbricazione di lenti a contatto. Ha ottime caratteristiche di stabilità, riproducibilità, qualità ottica, facilità di lavorazione. Si noti nella struttura l’assenza di gruppi polari che ne impedisce l’assorbimento dell’acqua e di conseguenza la scarsa compatibilità con le strutture figurate del film lacrimale. Gruppo 2: CAB (Acetato Butirrato di cellulosa) Dk=4. E’ il primo materiale gas permeabile rigido utilizzato (1973) Deriva dall’eterificazione della cellulosa, che contiene numerosi gruppo OH. Nella produzione alcuni di questi ossidrili vengono rimpiazzati dall’acetato (acido acetico) e dal butirrile (acido butirrico derivato da gas naturali). I rimanenti gruppi OH conferiscono al materiale una buona bagnabilità e un’idrofilia del 2-3%. Nella sua versione originaria presenta alcuni inconvenienti quali la bassa resistenza all’abrasione e la ridotta stabilità dimensionale, in termini di costanza del BZOR. Maggior successo ha avuto la sua co-polimerizzazione con l’Etilene acetato di vinile (EVA), che ne migliora la bagnabilità e la stabilità. 112 Gruppo 3: Silossano-Metacrilato (pMMA+Silossano) Dk>6. Questi copolimeri sono frutto di miscele monometriche che contengono 4 componenti principali giocati i proporzioni differenti: Monomero di silossano metacrilato. non contiene in effetti silicone puro, ma derivati del metacrilato caratterizzati da legami silossanici (Silicone-Ossigeno Si-O-Si) nella struttura finale della catena. Siccome questi legami sono per loro natura ampi e flessibili consentono all’ossigeno di muoversi liberamente entro il materiale. p-MMA (Metilmetacrilato). Conferisce al materiale tutte le qualità del plexiglass: stabilità, lavorabilità, durezza. EGDMA (Etileneglicoldimetacrilato): connette le catene polimeriche e le rende più stabili (crosslincante) MAA (Acido metacrilico) Conferisce ottima bagnabilità (Umettante) I principali svantaggi legati a questi materiali sono: facilità a sviluppare depositi proteici derivati dal film lacrimale Fragilità Alta incidenza di colorazione corneale ore 3 e 9 Le più comuni denominazioni commerciali di questi materiali sono le seguenti: Materiale Dk Polycon II 12 Boston II 15 Paraperm O2 15 Boston IV 26,7 Dk43 43 Paraperm EW 56 Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 113 Gruppo 5: Fluoroacrilati Si ottengono addizionando dei componenti fluorati ai copolimeri di silossano-acrilato. I risultati: Notevole aumento della gas-permeabiltà Aumento della durezza che può arrivare ai livelli del p-MMA Riduzione del coefficiente di attrito (lente- palpebra) Aumento resistenza alla formazione di depositi Le più comuni denominazioni commerciali di questi materiali sono le seguenti: Materiale Dk Fluoroperm 30 30 Boston ES 31 Equalens 71 Fluoroperm 90 90 Quantum 92 Boston 7 73 Equalens 125 125 Fluoroperm 151 151 Optacryl F 160 Materiali per Lenti morbide Le prime lenti a contatto morbide nascono nel 1962 in Cecoslovacchia. Lim e Wichterle, due ricercatori dell’istituto di chimica macromolecolare di Praga, attraverso la polimerizzazione di monomeri di idrossietilmetacrilato legato in forma crociata con una bassa quantità (meno del 3%) di glicoletilenedimetacrilato (EGDMA) ottengono lenti a Polidrossietilmetacricato (p-HEMA) che presenta un contenuto d’acqua del 38%. 114 contatto in L’HEMA si dimostra subito un ottimo materiale per la costruzione di lenti a contatto per la buona stabilità, nessuna carica di superficie, robustezza. Unico neo il Dk pari a 9x10-11 . Ottenere un valore di trasmissione minimo sufficiente per un uso diurno (24x10-9) obbliga alla costruzione di spessori troppo bassi, non proponibili per la tecnologia dell’epoca. Per ovviare a questo inconveniente le prime lenti in HEMA commercializzate, a partire dai primi anni ’70, presentavano diametri estremamente piccoli (12,5 / 13,00) al fine di sfruttare per l’ossigenazione corneale anche l’effetto pompa sotto la lente durante l’ammiccamento. L’utilizzo di diametri piccoli richiede, in sede applicativa, una scelta accurata del r.b. e quindi la necessità di avere a disposizione una gamma molto vasta di tali parametri. Per standardizzare maggiormente la produzione riducendo significativamente il numero dei r.b. disponibili, era necessario costruire diametri più grandi (13,50, 14,00, 15,00) ma conseguentemente aumentare il Dk/t delle lenti attraverso l’aumento dell’idratazione del materiale. Tale risultato fu ottenuto attraverso la copolimerizzazione dell’HEMA con altri monomeri. I principali monomeri usati in questa fase sono l’acido metacrilico e l’Nvinilpirrolidone La copolimerizzazione con acido metacrilico (MAA) permise di ottenere un’idratazione variabile tra il 50% e il 65% a seconda della concentrazione acida. L’aggiunta di questo acido però modifica lo stato di neutralità superficiale dell’HEMA rendendolo elettrochimicamente negativo (materiale ionico) e quindi con grande affinità di legame, sia con le componenti figurate del film lacrimale, sia con i disinfettanti contenuti nelle soluzioni di manutenzione. L’utilizzo del Nvinilpirrolidone (NVP), per la presenza del lattato che va a sostituire il gruppo acido introdotto dall’uso del MAA, permette di ottenere idratazioni molto elevate (fino al 75%) e mantenere relativamente neutra la carica di superficie. 115 Con lo stesso scopo vennero introdotti sul mercato nuove copolimerizzazioni senza HEMA che, oltre ad aumentare il contenuto idrico, mantenessero la neutralità di carica. I più diffusi sono quelli a base di metilmetacrilato (MMA). Lo si trova copolimerizzato sia con Glicerolmetacrilato (GMA) sia con NVinilpirrolidone (NVP). La prima sintesi (MMA/GMA ) portò alla realizzazione e commercializzazione del Crofilcon A, un materiale che per la prima volta dimostrava un’efficacissima resistenza alla formazione di depositi, tale che fu acclamato come l’unico prodotto adatto ad ottenere un’effettiva prevenzione nei casi di congiuntivite papillare gigante. Nonostante le premesse il Crofilcon A non ebbe il successo che poteva meritare a causa del suo contenuto idrico (38%) che come Dk lo equipara al classico HEMA e quindi non lo rendeva idoneo all’uso prolungato se non addirittura permanente che già all’ora, come del resto oggi, rappresentava per i produttori di lenti il punto d’arrivo per la conquista del mercato. MMA/NVP ha avuto più successo del precedente, in quanto consente di ottenere hydrogel non-ionico ad elevato contenuto idrico (70%) quindi con Dk elevato che si accoppia ad una buona resistenza meccanica. Tutte queste nuove polimerizzazioni (sia quelle con HEMA che quelle senza) presentarono subito (al contrario di quelli ionici) una notevole rapidità di disidratazione e una relativa lentezza nel reidratarsi. Difatti il loro utilizzo in ambiente poco idratato (es. l’occhio secco) ne provoca una veloce perdita d’acqua con evidente modificazione dei parametri costruttivi (r.b., potere, ecc.) che in aggiunta alla loro particolare lentezza nel reidratarsi li rende relativamente poco sensibili all’uso di lacrime artificiali (necessità di frequenti instillazioni). La manifesta impossibilità all’ottenere il materiale ideale ( privo di carica di superficie, di idratazione medio alta, veloce ad idratarsi e lento a disidratarsi) spinse alcuni a pensare che le lente costruibile il più vicino possibile alle condizioni ideali dovesse avere un Dk/t sufficientemente elevato per il porto anche prolungato, ottenuto con una media idratazione accoppiata ad un basso spessore (max 0,08 mm), costruita in materiale ionico per garantire il mantenimento dell’idratazione anche i presenza di secchezza e che venisse sostituita prima che si verificasse la deneturazione dei depositi proteici. Nella seconda metà degli anni ‘80, un’azienda americana che i più conoscevano solo come produttrice di shampoo per capelli, per altro anche di dubbia qualità, si affaccia sul mercato della contattologia e propone ACUVUE la prima lente disposable. 116 Si può certo dire che da questo momento in poi il mondo della contattologia è radicalmente cambiato. Etafilcon A, copolimero HEMA/MAA, 58% d’idratazione, ionico, Dk 28, non è certamente nulla di nuovo, ma utilizzato per produrre lenti di basso spessore (0,07mm Dk/t 40x10-9) da usare per 7 gg a porto continuo o 15 gg ad uso giornaliero ha rappresentato la più grande idea commerciale nel mondo della contattologia moderna, con la quale ancor oggi è necessario continuamente confrontarsi. Come si è appena detto, da un punto di vista tecnico scientifico Acuvue non rappresenta certo una novità e tanto meno un progresso. Il materiale non ha nulla di innovativo. Il vero punto di forza fu il coraggio di proporre per primi al mondo un programma di sostituzione rapida assolutamente rivoluzionario per le abitudini dei consumatori e degli applicatori dell’epoca. La sostituzione frequente consente infatti di utilizzare spessori di lente molto bassi con relativo evidente aumento del Dk/t, atto a consentire un certo porto prolungato, e cosa non indifferente permette di sfruttare la deposizione proteica solo nel periodo di attività biologica positiva. Saks et altri hanno riportato che il lisozima legato a materiali ionici mantiene il 90 % della sua attività positiva, mentre quando si lega a materiali non-ionici diventa in gran parte inattivo. D’altro lato, lo spessore ridotto dimostrò un grosso limite. Infatti, Acuvue, se applicate su occhi dalle condizioni lacrimali precarie o se usate in ambienti poco idonei come ad es. aria condizionata o uso di VTC, in presenza di una pur lieve evaporazione, producono fenomeni di adesione corneale tali da obbligare l’abbandono dell’utilizzo. Inoltre, in uno studio del 1992 Natan Efron afferma che il 75% delle lenti Acuvue mai usate mostra difetti di costruzione che possono essere causa di microtraumi epiteliali. A metà degli anni 90 la ricerca si è indirizzata su materiali in grado di ridurre al minimo l’interferenza con il metabolismo corneale. I risultati hanno condotto a due classi di prodotti: 1.- I Biomimetici 2.- I Siliconici Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 117 I Materiali Biomimetici. La biomimesi s’indirizza al produrre materiali che mostrino grande affinità di superficie sia con i tessuti corneali sia con le strutture del film lacrimale. Il trattamento dell’idrogel con Fosforilcolina (PC) che è uno dei principali componenti delle membrane cellulari umane conferisce a questo nuovo materiale (Omafilcon A) una biocompatibilità uguale a queste cellule, una grande affinità con l’acqua con bassissimo tasso di disidratazione, e quindi una notevole resistenza alla formazione di depositi organici. La mimesi delle strutture del film lacrimale riprende gli studi degli anni 80 che avevano condotto alla produzione del Crofilcon A, che può considerarsi il padre di questi nuovi materiali. La mimesi è assicurata dalla presenza del glicerolo che è anche componente delle glicoproteine che costituiscono l’ossatura dello strato muco-proteico del film lacrimale. Si ricorderà che la funzionalità e la compattezza dello strato muco-proteico sono condizione essenziale sia della corretta bagnabilità dell’epitelio corneale sia della corretta integrazione tra lac e cornea. I materiali a base di glicerolo s’integrano in modo molto intimo con questo strato riuscendo anche a sopperire ad eventuali sue alterazioni. Il nuovo materiale si ottiene copolimerizzando l’HEMA con il Glicerol-matacrilato (GMA). Esso si distingue dal capostipite (Crofilcon A) proprio per la sostituzione del Metilmetacrilato (MMA) con l’idrossietilmetacrilato (HEMA); ciò consente di ottenere la presenza di 5 gruppi funzionali di legame con l’acqua (3 alcolici e 2 esterei) contro solo 4 del vecchio Crofilcon. L’aumento dell’idrofilia è consistente: si passa dal 38% al 58%. Il bilanciamento idrico presenta valori di disidratazione in vivo vicini allo 0%, la stabilità al variare del PH è migliore di qualsiasi altro concorrente. La resistenza alla formazione di depositi organici è elevatissima: in 2 settimane d’uso il GMA/HEMA raccoglie 2,8 microgrammi di proteine, un materiale ionico di pari idratazione (Etafilcon A) 338 microgrammi. I Materiali Siliconici. La possibilità di ottenere la correzione del proprio difetto visivo in modo permanente e non legato all’infilare od applicare quotidianamente il mezzo correttivo rappresenta da sempre il sogno di tutti gli ametropi. L’introduzione della chirurgia rifrattiva in un primo tempo ha fatto molto sperare, ma i risultati dei primi dieci anni di fotoablazioni hanno raffreddato molti entusiasmi e se non altro 118 hanno messo in chiaro i limiti di una terapia che era stata spacciata come “il grande miracolo” per tutti gli ametropi. Nuovo impulso ha quindi ottenuto la ricerca per la realizzazione di lenti a contatto ad altissimo Dk/t tale da consentire l’uso permanente. Durante tutti gli anni 70 il concetto di alto Dk è rimasto legato a quello di alta idrofilia con i limiti già precedentemente esposti: Elevata predisposizione all’accumulo di depositi organici (materiali ionici) Rapidità di disidratazione e lentezza nell’idratazione (materiali non ionici) Limite (pur elevato) del Dk al valore di quello dell’acqua (90x10-11) Basandosi sugli studi pubblicati da Fatt nel 1971 riguardo l’elevata gaspermeabilità della gomma siliconica, l’FDA americana approvò l’utilizzo continuato di lenti a contatto costruite in puro elastomero di silicone. L’assoluta idrofobia del silicone veniva superata rendendo idrofilo un strato di circa 2 µ di spessore sulle due superfici delle lenti mediante bombardamento molecolare sotto vuoto. Studi clinici dimostrarono che l’applicazione di queste lenti poteva essere effettuata con discreto successo. Incredibilmente la grandissima permeabilità ai gas di questo materiale ne ha anche decretato il suo parziale insuccesso. Infatti se da un lato l’alto Dk permette un notevole flusso dell’ossigeno dalla faccia esterna della lente verso i tessuti corneali sottostanti, parimenti la lente non rappresenta più una valida barriera contro l’evaporazione del liquido corneale sotto di essa; ciò determina un assottigliamento del film lacrimale che aiutato dall’elevata elasticità della gomma produce, dopo alcune ore d’uso, l’adesione della lente all’occhio caratterizzata da iperemia acuta, infiltrati corneali e dolore. Questi motivi in aggiunta alla non infrequente fragilità dello strato idrofilo di superficie hanno limitato l’uso di queste lenti al campo terapeutico. Si intuì subito che per sfruttare appieno la possibilità di gaspermeabilità del silicone senza subirne gli indesiderati effetti collaterali, bisognava riuscire a copolimerizzarlo con il tradizionale idrogel per ottenere un nuovo copolimerico bifasico che associasse le qualità idrofile dell’idrogel a quelle idrofobiche del silicone. Normalmente due materiali che si trovano in diverse fasi hanno diversi indici di rifrazione. La scoperta chiave fu di creare una regione interfasica fra le due, idrofoba e idrofila, in modo da rendere continua la rifrattività e quindi assicurare la visione nitida. 119 Il fatto che siano trascorsi vent’anni prima di arrivare a questo risultato dimostra che esistono problemi molto più complessi di quello che si pensi. Nel marzo del 1999 Bausch & Lomb introduce sul mercato PureVision la prima lente siliconeidrogel. Il materiale Balafilcon A è una miscela di silicone e un composto idrogenato (NVinilpirrolidone) con un contenuto d’acqua del 35%, una permeabilità (Dk) di 99x10-11 unità e una trasmissibilità (Dk/t) pari a 110x10-9 unità. La matrice in silicone favorisce il naturale trasporto di O2 alla cornea; la matrice in idrogel regola la dinamica dell’idratazione, l’elasticità facilita il trasporto dei fluidi. Il contenuto del 17% di acqua legata abbassa notevolmente il rischio di disidratazione assicurando un confort e un movimento della lente eccellenti. Alla fine del 1999 CibaVision presenta sul mercato Night&Day con materiale Lotrafilcon A, un polimero bifasico in cui la fase idrofoba è rappresentata dal fluorosilossano che conferisce la metà della permeabilità totale. Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 120 La fase idrofila è fornita dal dimetilacrilamide con un’idrofilia del 24%. Il Dk è pari a 140 unità e il Dk/t a 175. Questi nuovi prodotti hanno abbastanza rapidamente riscosso un evidente successo nella comunità degli applicatori che hanno trovato utile il loro impiego, non solo per il porto prolungato, ma anche per quello giornaliero. Specificatamente nei casi in cui venga richiesto un numero d’ore d’uso particolarmente elevato. Difatti anche dopo diverse ore di inserimento le lenti silicone/hydrogel mantengono a buon livello la loro idratazione e non presentano forme di imbrattamento. La resistenza ai depositi è in vero molto accentuata. Nonostante il miglioramento della funzione metabolica ottenuto con questi materiali, in molti portatori si è manifestata una certa tradizionale, sottile e vellutato, rappresenta una non trascurabile sensazione di corpo estraneo. Inoltre la bassa idratazione, pur mantenendosi abbastanza costante durante le ore di porto, non consente una costante e sufficiente dinamica di mataboliti e cataboliti. Per ovviare a questi inconvenienti, in momenti successivi sono state introdotte sul mercato lenti in cui la componente siliconica è ridotta rispetto alle prime formulazioni, a vantaggio della quota idrogel. Si ripristina, in questa maniera, una buona tollerabilità, anche se viene a scadere il valore di Dk/t. Molti di questi prodotti (Optix O2, Advance) non sono approvati per il porto continuato. Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 121 La manutenzione delle lenti a contatto Premessa. I materiali plastici semirigidi e morbidi di cui sono costruite le l.a.c. hanno la caratteristica di legarsi chimicamente con alcune sostanze presenti nelle lacrime umane. Inoltre gli Hydrogel (lenti morbide) comportandosi come vere e proprie spugne tendono ad assorbire moltissimo dall’ambiente ove sono immerse; quindi non solo dalle lacrime, ma anche dall’aria. In altri termini tutte le lenti a contatto gas-permeabili sono, in misura diversa, soggette ad inquinamento che se non viene controllato e combattuto conduce al decadimento qualitativo della lente e all’impossibilità di essere utilizzata, pena gravi disturbi infiammatori a carico di cornea e congiuntiva. È bene quindi che prima di affrontare le tecniche di manutenzione ci si faccia un’idea di quali sono i nemici da combattere. I depositi È stimato che l’80% di tutti i problemi clinici legati all’uso di lac morbide è attribuibile alla formazione di depositi. Essi comportano: Riduzione dell’acuità visiva Riduzione della bagnabilità del materiale Aumento delle complicanze infettive e infiammatorie Le analisi chimiche e morfologiche dei depositi hanno condotto ad evidenziarli come segue: ORGANICI INORGANICI MICRORGANISMI PROTEICI LIPIDICI Carbonato di calcio Batteri Lizozima Fosfolipidi Fosfati di calcio Funghi Albumine Trigliceeridi Ferro Virus Globulina Est. di colesterolo Mucine 122 I depositi possono interessare la sola superficie della lente (adsorbimento) oppure possono penetrare all’interno di essa e legarsi alla matrice (assorbimento) È chiaro che in caso di adsorbimento la rimozione dei depositi risulta sicuramente più semplice. Infatti con un semplice sfregamento con dei detergenti o con l’immersione in soluzioni contenenti enzimi l’eliminazione del materiale estraneo è assicurata. Nel caso dell’assorbimento, che può in certi casi essere una fase successiva all’adsorbimento, la rimozione è difficoltosa e molto spesso inattuabile. Le lenti dure sono più frequentemente interessate da problemi di depositi di superficie, salvo alcuni materiali particolarmente gaspermeabili ove il legame inscindibile (assorbimento) di sostanze proteiche con la matrice del polimero è verificabile. Gli idrogel sono caratterizzati da entrambe le modalità. Le lenti a bassa idratazione sono maggiormente interessate da depositi di superficie, mentre quelle ad alta idratazione, in funzione della maggior larghezza dei pori del polimero che consente il trasporto acqua, sono più facilmente e rapidamente penetrabili sia dai materiali organici che inorganici. Risulta quindi evidente che la qualità e la quantità dei depositi e la velocità di formazione sono strettamente influenzate da: Le caratteristiche fisico-chimiche e geometriche delle lenti La qualità del film lacrimale L’ammiccamento La frequenza di sostituzione Il sistema di pulizia Le caratteristiche fisico-chimiche si riferiscono in massima parte all’idratazione e alla ionicita dell’idrogel. Allo stesso modo sono importanti le caratteristiche sia quantitative che qualitative del film lacrimale che è il mezzo attraverso il quale il materiale delle lac interagisce con le strutture corneali sottostanti. Inoltre il film lacrimale determina la dinamica dei fluidi all’interno del polimero, infatti le variazioni della sua osmolarità, nel senso dell’aumento o della diminuzione, determinano nel primo caso richiamo di acqua dalla lente verso il film (disidratazione), nel secondo cessione di liquidi dal film alla lente (mantenimento corretto dell’idratazione). Non dobbiamo dimenticare, per finire, l’importante ruolo svolto dall’ammiccamento nella formazione dei depositi. Un ammiccamento infrequente e in qualche modo scorretto induce 123 alterazioni del film lacrimale e della sua adeguata distribuzione, creando problemi di bagnabilità e disidratazione. I depositi organici. I muco-proteici. Qualsiasi polimero posto a contatto con il film lacrimale viene ricoperto in tempi molto rapidi da uno strato di muco-proteine secreto dalle cellule mucipare della congiuntiva. Questa pellicola proteica ha, inizialmente, lo spessore di circa 1µ e svolge un ruolo molto importante nel processo d’integrazione lente-cornea, infatti rende idrofila (bagnabile) la superficie delle lac aumentando la biocompatibilità del materiale. Il film mucoproteico raggiunge il massimo di copertura della lente in tempi diversi a seconda del tipo di materiale di cui è costituita la lente. Su lac a bassa idrofilia la prima pellicola si forma dopo circa 2 ore dall’inserimento, su lenti ad alta idrofilia ioniche basta anche un solo minuto. Mano a mano che le lenti vengono usate la pellicola mucoproteica aumenta di spessore (coating) fino a raggiungere un plateau che rimane quantitativamente inalterato; a questo punto le proteine iniziano a denaturare diventando veicolo preferenziale di adesività batterica, e di fenomeni di sensibilizzazione allergica del tarso congiuntivele con conseguente predisposizione all’instaurarsi di forme di congiuntivite papillare gigante e infezione corneale. Risulta evidente che il tipo di materiale utilizzato e il tempo di sostituzione delle lenti possono enormemente influenzare la formazione dei depositi proteici e la conseguente qualità d’utilizzo delle lac stesse. Figura 8 Deposito Proteico retiforme, 6X Figura 7 Deposito Proteico a superficie estesa, 6X 124 I Lipidi. L’interazione lipidi-lac si comporta in modo opposto a quella proteica. Tutti gli studi condotti sull’adsorbimento lipidico da parte dei materiali per lac hanno dimostrato che gli idrogel non ionici (I° e II° Gruppo) attraggono più lipidi dei materiali ionici del III° e IV° Gruppo. Ancora una volta, la differenza la fa la presenza del monomero NVP che in questo caso presenta una notevole affinità a legarsi con i lipidi. Un’altra differenza sta nel fatto che l’aumento della durata del porto conduce ad un costante aumento della presenza lipidica sulla superficie delle lac, mentre la deposizione proteica, una volta raggiunto il plateau tende a mantenersi quantitativamente uguale. I lipidi presentano sulla superficie della lente un comportamento di tipo oleoso, che ne produce un cattivo umettamento. Si accumulano in aree circoscritte o si presentano sottoforma di gocce; possono facilmente derivare da cattiva igiene delle mani al momento dell’inserimento, o da tracce di trucco raccolte dalle ciglia, ma molto spesso da disfunzioni nella produzione del liquido lacrimale, che per cause d’ordine organica generale, può in certi periodi presentare un eccesso di concentrazione di esteri di colesterolo. I depositi inorganici. Sono essenzialmente sali di calcio: Fosfato di calcio e carbonato di calcio; in misura meno evidente l’ossido di ferro. CaCO3. Il carbonato di calcio è sicuramente l’elemento dominante di questa serie. Si presenta in formazioni cristalline aventi aspetto aghiforme. Possono insorgere per cattiva manutenzione come ad es. l’uso di acqua di rubinetto per il risciacquo o la conservazione, ma più spesso per occasionali variazioni del ph delle lacrime in seguito ad assunzione di medicinali o variazioni evidenti del comportamento alimentare.. Col tempo, se le lenti non vengono sostituite, l’elevata concentrazione di calcio sulle superfici favorisce la trasformazione in calcio fosfato assolutamente insolubile che, mescolandosi con proteine e lipidi tende a precipitare dando origine a calcoli. 125 Alcuni portatori sono particolarmente soggetti all’accumulo di calcoli per la particolare composizione chimica delle loro lacrime. In questi casi la calcolosi della lente può assumere, anche in tempi brevi (15-20 gg) aspetti di grande invasività. Se da un lato, il fenomeno è favorito dall’invecchiamento della lente, in casi di soggetti predisposti può presentarsi anche su lenti da poco sostituite. FeO. Il ferro come deposito su lenti a contatto è essenzialmente di derivazione esogena. Non sembra esistano particolari affinità elettive tra questi depositi e il materiale delle lenti. Si presenta sottoforma di piccoli accumuli molto concentrati di colore rossastro, assolutamente asintomatici per il portatore. Il riscontrarli, durante una visita di controllo, deve far supporre che l’utilizzatore frequenti aree ad elevata concentrazione di polveri ferrose ( Stazioni ferroviarie, siti siderurgici, officine meccaniche ecc.). La presenza di tracce di ossido di ferro se in misura limitata non rappresenta condizione limitante all’uso delle lac. Solo in caso di una presenza molto marcata di tali depositi è opportuno consigliare la sostituzione delle lenti. I microrganismi. I Batteri. L’adesione batterica alle lenti a contatto è identificata come un importante fattore nell’eziologia di tre manifestazioni patologiche: • La cheratite batterica • “l’occhio rosso acuto” • le ulcere periferiche Nella cheratite batterica l’agente patogeno principale è la Pseudomonas Auroginosa che provoca l’infezione della cornea. Fortunatamente, visti gli esiti spesso infausti, l’incidenza è abbastanza bassa (20/00) tra i portatori di lenti a lunga durata. Nell’”occhio rosso acuto” (Clare) i responsabili sono molti batteri della famiglia dei Gram negativi; l’incidenza tra i portatori di lac è superiore alla precedente e si attesta intorno al 7%. 126 Un’efficace barriera contro le infezioni batteriche viene svolta dai depositi proteici nella fase precedente alla denaturazione. Infatti nel coating iniziale sono presenti in elevata percentuale il lizozima e ll lattoferrina che svolgono un’efficacissima azione batteristatica e batteriolitica. I rischi aumentano quando si passa alla fase denaturata di queste proteine, che diventano buon terreno di coltura batterica. I Miceti. Altri microrganismi in grado di procurare problemi alle lenti sono i funghi. Ricavano la loro forza vitale dal catabolismo dei depositi organici. Tra i saccaromiceti predomina la candida albicans, tra i mucomiceti l’Aspergillus niger e il Penicillum. L’invasione micotica è favorita dai depositi proteici e il danneggiamento della lente è irreversibile, anche con trattamenti enzimatici non si riesce a rimuoverli in modo definitivo. La manutenzione. A fronte dei fenomeni di contaminazione precedentemente esposti, si deve dedurre che la manutenzione delle lenti a contatto ha lo scopo di garantirne un porto sicuro e confortevole e di impedire il più possibile l’accumulo di depositi e di microrganismi patogeni Una qualsiasi linea di manutenzione deve soddisfare: • la disinfezione • la conservazione • il risciacquo • l’umettamento delle lenti a contatto in uso. La vasta gamma di prodotti per la manutenzione oggi presenti sul mercato può rappresentare uno stimolo per il contattologo ad imparare a differenziare i trattamenti a seconda del materiale usato e del tipo di film lacrimale presente; ma spesso crea nei confronti del consumatore, male o per nulla guidato, una stato di assoluto confusione che porta alla banalizzazione dei prodotti disponibili (mi dia una soluzione per lenti morbide; una qualunque! Tanto sono tutte uguali). Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 127 Le soluzioni Uniche. Il successo delle lenti usa getta (disposable) è stato decretato dal messaggio di facilità, versatilità e universalità (banalizzazione?) che ne ha accompagnato il lancio sul mercato. Ovviamente continuare a proporre i tradizionali sistemi di pulizia, basati sull’utilizzo minimo di tre soluzioni, avrebbe tradito tale messaggio. Nasce così la manutenzione basata su un solo prodotto (Soluzione Unica) che consente di: • strofinare • disinfettare • conservare • risciacquare le proprie lenti a contatto usa e getta. Pertanto tali soluzioni devono contenere: • un agente antimicrobico per la disinfezione e conservazione • un tensioattivo per la detersione • un agente chelante • sali tampone Gli Enzimi Proteolitci. Sulla base di quanto sinora esposto, si comprende che tra tutti i depositi possibili su lenti a contatto le proteine rappresentano l’elemento maggiormente preoccupante. Tali depositi rappresentano una condizione estremamente positiva durante la fase biologicamente vitale, mentre diventano il veicolo delle peggiori intolleranze ed infezioni dopo la denaturazione. Per combattere queste conseguenze esistono solo due sistemi, tra loro alternativi: a) utilizzare lenti di durata uguale o minore alla fase vitale b) utilizzare un trattamento a base di enzimi proteolitici che eliminino i depositi prima che avvenga la denaturazione Il mercato dei trattamenti enzimatici ha subito negli ultimi dieci anni un evidente ridimensionamento, dovuto all’utilizzo di soluzioni uniche ad azione proteolitica e soprattutto 128 all’avvento delle lenti disposable. Tali trattamenti rimangono, oggi, un passaggio obbligato solo per gli utilizzatori di lenti tradizionali a sostituzione superiore ai tre mesi. È necessario ricordare che i trattamenti enzimatici non hanno alcun effetto disinfettante sulle lenti e quindi non costituiscono alternativa al processo di disinfezione che deve essere comunque effettuato. Affinché si possa prevenire l’accumulo proteico è necessario che i trattamenti enzimatici vengano eseguiti a scadenze programmate che oscillano tra i 7 e i 10 giorni, che è stimato come tempo minimo prima dell’inizio del processo di denaturazione. Altra attenzione da porre in questi trattamenti è che essendo gli enzimi stessi delle proteine è necessario che non permangano sulla lente dopo il trattamento, perché potrebbero ingenerare dei processi di sensibilizzazione identici a quelli delle sostanza che si tenta di rimuovere; è quindi fondamentale un approfondito risciacquo con soluzione fisiologica una volta terminato il ciclo. I trattameti enzimatici proteolitici non sono ad esclusivo appannaggio delle lac in idrogel, ma rappresentano anche un importante aiuto nel buon mantenimento delle lenti RGP che pur con tempi più lunghi sono ugualmente alterate dalla denutarazione proteica. Gli Umettanti Al contrario degli enzimi, i prodotti umettanti stanno conoscendo una stagione di gradissimo successo commerciale, tale da spingere le case farmaceutiche produttrici ad investire sempre più massicciamente nella formulazione di nuovi prodotti sempre più efficaci. Il motore di questo fenomeno sta nel moltiplicarsi dei fattori ambientali predisponenti alla secchezza oculare, non ultimo il massiccio diffondersi dei sitemi di termoregolazione forzata degli ambienti di lavoro e l’utilizzo sempre più ampio dei videoterminali. Lo scopo di una soluzione umettante è aumentare le qualità idrofila della superficie delle lenti a contatto in modo che il liquido lacrimale vi si possa stendere uniformemente, quindi organizzarsi sulla superficie in modo da formare un cuscinetto protettivo dall’adesione dei lipidi. Gli umettanti normalmente in commerciano utilizzano gli stessi agenti presenti nei presidi farmaceutici relativi al trattamento farmacologico dell’occhio secco. Gli esteri della cellulosa e la meticellulosa e i derivati dell’acido ialuronico sono pertanto gli agenti principalmente usati. 129 Il confezionamento in monodose è preferibile a quello multidose per evitare la presenza di conservanti. Ci sentiamo di dover rilevare che se i criteri di scelta delle sostanze umettanti da prescrivere dovrebbero essere determinati da un’adeguata conoscenza dello stato del film lacrimale sul quale devono andare ad agire. La scarsa sensibilità della maggioranza degli applicatori verso un’indagine seria dell’aspetto qualitativo delle varie componenti del film lacrimale determina una somministrazione di sostanze umettanti che risponde più ad una esigenza di tipo commerciale piuttosto che a criteri di ordine scientifico. Soluzioni Fisiologiche e Soluzioni Saline. Le soluzioni fisiologiche e saline sono rappresentate da sodio cloruro alla concentrazione dello 0,9%. Il loro utilizzo è essenzialmente rivolto al risciacquo delle lenti a contatto. Con il termine “Fisiologica” si deve intendere una soluzione senza nessun additivo, mentre con il termine “Salina” ci si riferisce ad una soluzione che contiene preservanti o addirittura conservanti. Queste soluzioni vengono indifferentemente usate principalmente per il risciacquo delle lenti a contatto. Generalmente le soluzioni confezionate in forma monodose od aerosol sono soluzioni fisiologiche (senza preservanti e conservanti) ed oltre alla funzione di risciacquo delle lenti possono essere usate per risciacqui e bagni oculari. Quelle flaconate, per mantenere la necessaria sterilità dopo l’apertura, devono contenere dei preservanti anche a concentrazione molto piccole. La consegna delle lenti a contatto Istruzioni per l’uso La fase applicativa di un paio di lenti a contatto trova il suo naturale compimento quando il cliente, per la prima volta, si porta a casa la confezione di lenti con cui dovrà cominciare la fase di adattamento. La consegna e la spiegazione delle usuali istruzioni per l’uso rappresentano un momento estremamente delicato per la felice riuscita di tutto il lavoro applicativo precedentemente svolto. Se è vero ciò che si è detto parlando di manutenzione, che la maggior fonte di abbandono 130 nell’uso di lenti a contatto dipende, non da errori applicativi, ma da scarsa igiene dell’utente, va da se che sarebbe un errore madornale banalizzare questa fase, affidandola a persone non competenti od ancor peggio confidando nel buon senso dell’utilizzatore. Lenti Morbide. Il cliente che per la prima volta ha un approccio alle lenti a contatto deve essere istruito su: • Procedure di inserimento e rimozione. Il cliente deve riuscire a mettersi e togliersi le lenti a contatto da solo, almeno una volta. Solo dopo questo risultato si possono consegnare le lenti per l’uso casalingo. Nel caso si palesino evidenti difficoltà in queste operazioni, si eviti di insistere nei tentativi oltre la mezz’ora e si inviti il cliente a ritornare una seconda volta per riprendere l’istruzione. • La manutenzione. Con chiarezza e semplicità di linguaggio devono essere illustrate le caratteristiche dei diversi componenti della manutenzione. Particolarmente, è da far porre l’attenzione sui prodotti che hanno specifiche caratteristiche disinfettanti, al fine che siano chiaramente differenziati da quelli con caratteristiche umettanti, risciacquanti e proteolitiche. È necessario dimostrare operativamente tutta la procedura di manutenzione quotidiana e farla ripetere al cliente. È bene trasmettere tutte le informazioni necessarie, affinché il portatore comprenda l’importanza dell’igiene generale da tenere nell’utilizzo delle lenti a contatto. In questo contesto è opportuno non dare nulla per scontato come ad esempio: la necessità di lavarsi le mani prima di toccare le lenti, non utilizzare nessun prodotto diverso da quelli consigliati, non usare mai acqua normale, non lasciare mai le lenti a secco. Nell’elencare al portatore tutte queste precauzioni è meglio saper giustificarle con argomenti validi: es. “La lente a contatto si comporta come una spugna, quindi assorbe tutto ciò con cui viene a contatto e lo trattiene dentro di se, col rischio di poterlo trasmettere all’occhio durante l’uso, quindi bisogna che le mani siano sempre pulite. Il contatto con acqua normale provoca il deposito sulle lenti di tutti i sali minerali in essa contenuti con conseguente rapido degrado della lente stessa……ecc.” . Fondamentale è che chi utilizza le lenti tenga le unghie delle dita delle mani sempre molto ben tagliate per un duplice motivo: sia nella procedura di inserimento che in quella di rimozione le punte delle dita entrano vistosamente entro l’occhio, unghie lunghe sono potenziali armi che, involontariamente, possono ledere i tessuti oculari; inoltre le lenti a contatto sono fatte di un materiale particolarmente delicato al taglio, maneggiarle con dita unghiate rappresenta un grave rischio per la loro integrità. 131 • Tempi di adattamento. Le lenti a contatto morbide non richiedono, in linea di principio, una vera e propria fase di adattamento. Esse possono essere indossate, fin dal primo giorno, per tutto il tempo stimato necessario all’utilizzatore. In pratica, però, è bene prescrivere un utilizzo al 50% del tempo utile totale per l’intera prima settimana, quindi fissare una seduta di controllo. Solo dalla seconda settimana, dopo che il controllo non abbia evidenziato problemi, si può dare il via all’uso totale. Ricordiamo che i tempi massimi di utilizzo di lenti a contatto non sono assolutamente standardizzabili. Ogni occhio ha un suo limite ben preciso che deve essere fissato dall’ottico applicatore. In qualsiasi caso, anche in quello più favorevole, è necessario ribadire che le lenti devono al massimo coprire la giornata lavorativa e che devono essere sempre rimosse almeno 3 ore prima di coricarsi per la notte. • Precauzioni d’uso. Nell’uso delle lenti a contatto è necessario saper riconoscere valutare i segni premonitori di eventi anche gravi che potrebbero verificarsi se tali segni venissero sottovalutati o peggio ignorati. Ciò giustifica la necessità di convincere il cliente a presentarsi a dei controlli periodici (non oltre i sei mesi), indipendentemente dal tipo di lenti usate. Inoltre va sottolineato, sempre in sede di consegna, che qualsiasi problema, anche lieve, va indagato, da parte dell’ottico o dell’oculista. Una lente che inizia a “dare fastidio” anche leggero, va tolta immediatamente. Va lavata e sciacquata. Controllata visivamente, per scoprire eventuali rotture o sfilacciature, e quindi, se tutto sembra a posto, rimessa nell’occhio. Se poi il fastidio persiste, va rimossa definitivamente e portata all’ottico applicatore per i controlli del caso. Sopportare un disturbo inusuale, per impossibilità a rimuovere le lenti o altro, quasi sempre significa procurare danni alla cornea, che richiederanno diversi giorni di terapia e astensione dall’uso per poter guarire. È quindi buona norma che l’utilizzatore porti sempre con se il portalenti, contenente un po’ di soluzione conservante, in modo da poter togliere le lenti in qualsiasi caso di necessità. Spesso in sede di consegna, il cliente chiede se esistano attività per le quali è sconsigliato l’uso delle lenti a contatto. Per rispondere adeguatamente ricordiamo non esistono attività di vita quotidiana o sportive (anche violente) che non possano essere fatte con le lenti a contatto morbide indossate. Sono necessarie solo alcune precauzioni: nella vita lavorativa quotidiana, se possibile, è bene evitare gli ambienti eccessivamente secchi (es. regolazioni esagerate dell’aria condizionata in estate e dei caloriferi in inverno); nella pratica del nuoto è bene indossare sopra le lenti a contatto degli occhialini protettivi o la maschera al fine di evitare il contatto tra l’acqua delle piscine o del mare con le lenti indossate. Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 132 La vendita al banco su prescrizione esterna. Un abituale utilizzatore di lenti a contatto morbide può presentarsi nel punto vendita munito di una nuova prescrizione oculistica per acquistare delle nuove lenti aggiornate con la nuova gradazione prescritta. Nella norma, ma è sempre meglio informarsi, gli oculisti visitano i loro pazienti senza le lenti applicate. Pertanto la gradazione riportata nella prescrizione si riferisce ad occhiali da vista e non a lenti a contatto. Il problema che si pone è saper interpretare tale prescrizione e consegnare lenti a contatto del potere esatto. La regola è la seguente: Prescrizioni senza astigmatismo di tipo negativo (miopia): da sf. -0.25 a sf.-3.75 nessuna modifica da sf.-4.00 a sf. -5.75 ridurre le lenti a contatto di 0.25 da sf.-6.00 a sf. -7.75 ridurre le lenti a contatto di 0.50 da sf.- 8.00 a sf.- 9.75 ridurre le lenti a contatto di 0.75 Prescrizioni senza astigmatismo di tipo positivo (ipermetropia): L’ordine quantitativo di modifica è identico al precedente. Ma in questo caso non si opera in riduzione, ma bensì in aumento di potere. Prescrizioni con astigmatismo: L’astigmatismo prescritto può essere ignorato sole se: 1. è < a 0,75 2. (In caso di astigmatismi inferiori o uguali allo 0,75) il rapporto tra potere cilindrico e potere sferico non è superiore a ¼. In presenza di prescrizioni cilindriche superiori alla diottria è opportuno consigliare l’uso di lenti toriche e comunque consultare l’ottico sulla miglior opportunità. In caso di necessità, volendo risolvere ugualmente con lenti a contatto sferiche, si tenga conto che per ogni 0,50 di astigmatismo non corretto va aumentata la parte sferica di 0.25 dt. Lezioni di Contattologia- E. Bottegal 133