dispensa generale ottica oftalmica

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dispensa generale ottica oftalmica
OTTICA
OTTICA GEOMETRICA.
Il mondo che ci circonda e nel quale viviamo è pervaso da energia elettromagnetica che sottoforma
di onde si propaga in tutte le direzioni. L’energia elettromagnetica si differenzia in base alla
lunghezza dell’onda di propagazione “λ” e alla frequenza di vibrazione “ν”; ad esempio l’energia
che si muove con un’onda di 10-2 metri è utilizzata dai radar, mentre i raggi X usati dalla
diagnostica vibrano con una lunghezza di 10-12 metri ecc.
Una piccolissima porzione di onde elettromagnetiche, quelle comprese tra λ10-8 e 10-6 metri hanno
la caratteristica, se captate dall’occhio, di eccitare i ricettori della retina e provocare la sensazione
luminosa che si traduce in effetto visivo. Per questo fatto tali radiazioni vengono chiamate onde
luminose o più brevemente: “luce”, ed il loro insieme costituisce quella porzione di spettro
elettromagnetico denominato spettro visivo.
Furono le intuizioni di padre Grimaldi (1665) e gli esperimenti di Newton poi che dimostrarono che
lo spettro visibile, o luce bianca, è scomponibile in una serie di colori detti colori dell’iride: rosso,
arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.
Solo nel 1827 si poterono effettuare vere e proprie misure delle lunghezze d’onda dello spettro
visibile e si potette associare la percezione visiva dei vari colori a specifiche lunghezza d’onda e fu
possibile definire la seguente corrispondenza:
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Parallelamente allo studio sulla natura della luce, anche quello sulla sua velocità propagazione ha
impegnato gli scienziati per oltre tre secoli. Infatti essendo essa molto elevata solo in tempi
moderni, e con sofisticate tecnologie è stato possibile definirne con precisione i valori e come essi
mutino al mutare del mezzo ove avviene la propagazione.
Si stabilì, infatti, che nel vuoto, ove non esistono attriti, la radiazione raggiunge la sua massima
velocità (c = 299.793 Km/s), mentre rallenta quando attraversa sostanze trasparenti, ma più dense;
ad esempio in acqua essa cala a 225.056 Km/s, nel vetro oftalmico è 196.980 Km/s e così via.
La visione.
Per effetto della riflessione della luce i corpi rimandano in tutte le direzioni i raggi luminosi che li
colpiscono, provenienti da sorgenti autonome (sole, lampadine ecc.)
Se nel percorso di questi raggi si viene a trovare un occhio umano essi entrano dalla pupilla e vanno
a stimolare la retina che a sua volta trasmette al cervello (attraverso il nervo ottico) la sensazione
luminosa raccolta. Il cervello elabora il segnale e ne ricostruisce forma, colore, dimensione. Quindi
proietta davanti a se l’immagine, così costruita, dell’oggetto e mediante un processo di
triangolazione la colloca in un preciso punto dello spazio reale.
La visione è quindi un fenomeno psichico che può essere influenzato da fattori esterni che
modifichino la qualità, la direzione e l’intensità dei raggi luminosi che colpiscono la retina.
Ciò accade, per esempio, quando la luce, prima di arrivare all’occhio, attraversa altri corpi
trasparenti, che pur lasciandola passare ne alterano la direzione. Il più classico degli esempi di
questo tipo è l’errore di collocazione degli oggetti visti attraverso una massa d’acqua.
La rifrazione.
Il fenomeno appena descritto è spiegato scientificamente dalla rifrazione della luce.
Un raggio luminoso si propaga all’infinito senza mai cambiare direzione fin tanto che il mezzo nel
quale avviene la propagazione rimane costante. Se invece il mezzo muta in consistenza o
trasparenza il raggio modifica la sua velocità di propagazione e di conseguenza la sua direzione.
Se consideriamo che il primo mezzo di propagazione sia il vuoto e il secondo una qualsiasi altra
sostanza trasparente più densa, possiamo fare il rapporto tra le due velocità:
esempio:
vvuoto / vvetro = n
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Il valore assunto da “n” in questo rapporto viene chiamato indice di rifrazione di quella sostanza
rispetto al vuoto.
Alla diminuzione di velocità corrisponde anche una variazione di direzione di propagazione. Si
possono infatti identificare l’angolo con cui la luce incide il mezzo più denso (angolo d’incidenza) e
l’angolo con cui prosegue più lenta dentro detto mezzo (angolo di rifrazione) e si nota che il
rapporto tra questi due angoli è ancora uguale ad “n”
Quindi l’indice di rifrazione (n) può essere calcolato e definito da questo rapporto angolare.
(fig.1)
î / řD = n
Figura 1
La Dispersione.
Come abbiamo visto la luce bianca è composta da una serie lunghezze d’onda diverse a cui
associamo diverse percezioni cromatiche. In effetti non esiste un unico indice di rifrazione delle
varie sostanze trasparenti, ma bensì diversi indici quante sono le differenti lunghezze d’onda che
compongono lo spettro. Pertanto quando un raggio di luce bianca penetra in una sostanza più densa
si scompone in un pennello di raggi corrispondenti alle diverse lunghezze d’onda. Si genera il così
detto effetto arcobaleno.
Questo fenomeno si chiama “dispersione”, essa può essere maggiore o minore a seconda delle
caratteristiche del mezzo che l’ha generata. La dispersione può essere misurata e il suo valore si
esprime con il numero di Abbe.
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La Vergenza.
Consideriamo uno schermo opaco con al centro un foro circolare (diaframma) e un punto raggiante
posto sull’asse del diaframma ad una distanza finita dallo schermo stesso (fig. 2). I raggi luminosi
che riusciranno a passare attraverso il diaframma vanno a costituire un cono luminoso che ha il
vertice sul punto raggiante e come base l’apertura del diaframma.
Figura 2
I raggi che costituiscono il cono hanno una certa divergenza che aumenta e diminuisce a seconda
della distanza del punto raggiante dal centro del diaframma (fig.3). Più precisamente essa aumenta
col diminuire della distanza e diminuisce col crescere della stessa.
Figura 3
In ottica oftalmica ha molta importanza poter misurare il valore di divergenza o convergenza
(vergenza positiva o negativa) che i raggi possono assumere rispetto all’occhio che li raccoglie o
rispetto ad una lente che li deve modificare.
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Come si è visto la maggiore o minore vergenza dei raggi è strettamente legata alla distanza del
punto raggiante dal centro del diaframma; anzi possiamo definire che il suo valore è inversamente
proporzionale ad essa.
Quindi per calcolare la vergenza dei raggi rispetto ad un sistema di riferimento (nel ns. esempio il
centro del diaframma) basta fare l’inverso della distanza che stiamo prendendo in esame (ad es. la
distanza tra il punto raggiante e il centro del diaframma).
Come noto, inverso di un numero è il quoziente ottenuto divedendo 1 per quel numero
Per continuare col nostro esempio, se il punto raggiante si trova a 1 metro dal diaframma la
vergenza dei raggi luminosi sarà:
1:1 = 1
se la distanza è di 0,50 metri la vergenza sarà:
1:0,5 = 2
per una distanza di 0,25 metri:
1:0,25 = 4
ecc.
Ogni qualvolta la distanza viene espressa in metri la vergenza che ne risulta è espressa in diottrie.
Fuoco.
Per effetto della rifrazione, la luce muta il suo percorso quando attraversa corpi trasparenti di
densità diversa.
Consideriamo alcuni esempi.
Se ad un fascio luminoso che proviene dall’infinito (vergenza 0) anteponiamo una lamina
pianoparallela in vetro i raggi non subiranno alcuna deviazione (angolo di incidenza = 0°).
Se gli stessi raggi colpiscono la lamina con un angolo diverso da zero essi vengono rifratti
all’interno della lamina ed emergono dalla parte opposta, spostati rispetto al cammino originario,
ma sempre con vergenza 0 (fig.4).
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Figura 4
Se, invece, anteponiamo al cammino degli stessi raggi un blocco di vetro che presenti verso i raggi
incidenti una superficie convessa di tipo sferico si noterà che del fascio luminoso che proviene
dall’infinito solo il raggio centrale colpirà la calotta sferica con un angolo d’incidenza (î) uguale a
zero e quindi non verrà deviato; tutti gli altri formeranno angoli di incidenza sempre maggiori man
mano che si allontanano dal centro e di conseguenza verranno deviati in misura diversa.
Il fascio di raggi paralleli proveniente dall’infinito, una volta entrato nel vetro si trasforma in un
fascio di raggi convergenti che proseguendo per il loro cammino vanno tutti ad incontrarsi in un
unico punto ad una certa distanza dall’apice della calotta sferica che li ha deviati. Ora se ponessimo
in questo punto uno schermo opaco, su di esso potremmo vedere la perfetta immagine dell’oggetto
che all’infinito ha creato il fascio di raggi. (fig.5)
Figura 5
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Il punto ove si raccolgono i raggi e si forma l’immagine prende nome di fuoco. La distanza del
fuoco dall’apice della calotta sferica dipende da due fattori:
1. l’indice di rifrazione del vetro
2. il raggio di curvatura della calotta
infatti se la curvatura della calotta aumenta, essa tende a far aumentare l’angolo di incidenza dei
raggi e di conseguenza aumenta anche l’angolo di deviazione (rifrazione) degli stessi.
Una volta determinata la posizione del fuoco rispetto alla calotta che l’ha generato si può
agevolmente misurare la distanza che lo separa dall’apice della stessa. Quindi operando l’inverso di
tale distanza otterremo il valore in diottrie della vergenza positiva (convergenza) di quei raggi.
Ne consegue che volendo dare un valore alla capacità di diverse calotte sferiche di far convergere i
raggi luminosi non sarà più necessario riferirsi al loro raggio di curvatura, ma bensì alle diottrie di
vergenza che sono in grado di esprimere.
Ora immaginiamo di anteporre alla radiazione che proviene dall’infinito (vergenza 0) la superficie
concava di una calotta sferica di vetro.
La rifrazione avviene, ovviamente, secondo le regole consuete (i raggi rifratti piegano e si
avvicinano alla normale), Il fascio di raggi paralleli proveniente dall’infinito, una volta entrato nel
vetro si trasforma in un fascio di raggi divergenti che, allontanandosi sempre di più tra di loro, non
s’incontreranno mai in alcun punto dello spazio reale.
Viene pertanto a mancare il punto di fuoco che, come si è visto, serve a calcolare la vergenza della
superficie rifrangente. Per ottenere comunque tale valore si prolungano artificiosamente all’indietro
i raggi emergenti fino ad ottenere il loro congiungimento in un punto dell’asse (raggio centrale che
non viene deviato) determinando così un fuoco virtuale.
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Diventa ora semplice misurare la distanza di tale fuoco virtuale dall’apice della superficie
rifrangente e calcolare la vergenza che in questo caso sarà indicata con segno negativo (vergenza
negativa).
Finora abbiamo sempre considerato che il punto raggiante sia posto all’infinito in modo tale che la
superficie rifrangente venga investita da un fascio di raggi a vergenza 0 (paralleli).
Quando la sorgente luminosa viene spostata dall’infinito verso la superficie rifrangente, i raggi che
andranno a colpire il diottro avranno un percorso divergente. Essendo la capacità rifrangente del
diottro costante, si genererà un allontanamento, rispetto al fuoco, del punto in cui si forma
l’immagine nel caso di diottro convergente e un avvicinamento nel caso di diottro divergente.
OTTICA FISIOLOGICA.
Anatomia del sistema visivo.
Per meglio comprendere il funzionamento dell’occhio umano dal punto di vista della sua
rifrangenza è opportuno conoscere alcuni elementi della sua anatomia.
Come si osserva nella sezione in fig. 6, nella parte anteriore l’occhio presenta una calotta
trasparente detta Cornea che rappresenta il più importante mezzo rifrattivo di tutto il sistema visivo;
la cornea in periferia si congiunge con una membrana opaca, fibrosa e di colore bianco, la sclera, la
quale, estendendosi all’indietro, forma un guscio sferico che chiude completamente l’occhio.
Procedendo verso l’interno, oltre la cornea, si trova uno spazio vuoto, riempito da un fluido detto
umor acqueo, delimitato posteriormente da una sottile membrana, mobile e pigmentata: l’iride, al
cui centro si apre, con diametro variabile, un foro: la pupilla.
Subito dietro la pupilla è posizionato il cristallino; un corpo, anch’esso perfettamente trasparente, a
forma di lente biconvessa, che per effetto di un meccanismo chiamato accomodazione è in grado di
mutare la curva delle proprie superfici e quindi il suo potere rifrattivo. Il cristallino è tenuto sospeso
in perfetta posizione da un serie di filamenti detti zonula di Zinn che si inseriscono nelle pliche
(processi ciliari) del muscolo ciliare.
Oltre il cristallino l’occhio presenta una cavità le cui pareti sono quasi interamente tappezzate dai
terminali dalle fibre nervose provenienti dal nervo ottico che penetrano all’interno da un forame
posizionato in prossimità del polo posteriore dalla parte nasale. Tali terminali sono costituti dai
fotorecettori che sono le cellule sensibili alla luce. Esse, una volta sensibilizzate, trasformano lo
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stimolo luminoso in un segnale elettrico che percorrendo a ritroso il nervo ottico va a stimolare
l’area della corteccia cerebrale deputata alla visione.
Questo tappeto di recettori, che prende il nome di retina, non presenta una qualità costante lungo
tutta la sua estensione. Esso ha un’elevatissima raffinatezza e specializzazione solo in una
piccolissima area (fovea) di 4mm di diametro posta vicino al polo posteriore. Man mano che ci si
allontana dalla fovea la retina perde in raffinatezza fino a diventare, nelle zone molto periferiche,
alquanto grossolana. È quindi la fovea che determina la direzione visiva, perché è solo con essa che
l’occhio è in grado di fornire la visione nitida e particolareggiata degli oggetti fissati. Tutto il
rimanente tessuto retinico ha la funzione di fornire il riempimento del campo visivo proponendo
degli oggetti soltanto forma e colore.
Figura 6
L’occhio come sistema rifrangente.
Se, al posto delle superfici di vetro, poniamo a fronte della radiazione luminosa un occhio umano,
completo di tutte le sue strutture e assente da qualsiasi difetto anatomico-funzionale, potremmo
vedere che esso si comporta come un sistema convergente (vergenza positiva) con il fuoco posto in
corrispondenza della retina centrale. Quando tale condizione è soddisfatta si innesca il fenomeno
della visione come descritto all’inizio.
A causa di uno sviluppo anomalo del bulbo oculare o di alcune sue membrane è possibile che
questa condizione non si verifichi, cioè che il fuoco del sistema convergente dell’occhio non vada a
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cadere sulla retina centrale (fovea) ma bensì fuori di essa; in questo caso le immagini che vengono
trasmesse al cervello saranno poco nitide, prive di particolari salienti, e la loro ricostruzione
(proiezione) psichica lo sarà altrettanto.
Tali alterazioni del sistema diottrico dell’occhio prendono il nome di ametropie visive. Esse sono di
tre tipi:
1. miopia
2. ipermetropia
3. astigmatismo
Quello miope è un occhio che possiede un eccesso di vergenza positiva (convergenza) rispetto alla
posizione della sua retina. Infatti in esso il fuoco dei raggi provenienti dall’infinito si forma prima
della retina ad una distanza relativa all’entità del difetto (fig.7). In questo caso, per risolvere il
problema basterà anteporre all’occhio una lente a vergenza negativa (divergente) opportunamente
calcolata in modo che i raggi provenienti dall’infinito entrino dentro l’occhio non più paralleli ma
divergenti al punto tale da compensare esattamente l’eccesso di convergenza originario. Ciò fatto, il
fuoco si sposterà sulla retina centrale consentendo il ripristino della visione nitida.
Figura 7
Nell’occhio ipermetrope si presenta il problema opposto, esso infatti ha un deficit di convergenza
tale che, se ciò fosse possibile, il fuoco dei raggi provenienti dall’infinito andrebbe a formarsi oltre
la retina, fuori dall’occhio stesso.
L’apposizione di una lente a vergenza positiva (convergente), opportunamente calcolata, farà si che
i raggi, prima di penetrare l’occhio, possano acquistare quel tanto di convergenza sufficiente a
riportarne il fuoco sulla retina. (fig.8)
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Figura 8
L’astigmatismo è un difetto che dipende dalla curvatura della membrana più esterna dell’occhio
(cornea). Essa dovrebbe essere sferica, avere cioè un unico raggio di curvatura, ma alcune volte, per
cause anatomiche, può assumere la forma torica, presentando pertanto due raggi di curvatura ben
distinti. In questo caso il sistema rifrattivo dell’occhio presenta non uno ma due fuochi che
corrispondono ai due raggi di curvatura corneali. Questi due fuochi, poi, risentono delle stesse
problematiche dell’occhio miope o ipermetrope; possono così formarsi entrambi prima della retina
(astigmatismo miopico) ovvero virtualmente oltre la retina (astigmatismo ipermetropico), in alcuni
casi più rari un fuoco può formarsi prima della retina(condizione miopica) e l’altro oltre la retina
(condizione ipermetropica) si parla allora di astigmatismo misto (fig.8A).
Figura 8A: L’occhio astigmatico
Anche in questi casi saranno necessarie delle lenti che aumentino o diminuiscano la vergenza dei
raggi in entrata ma che al contempo operino una azione differenziata, spostando in maniera
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maggiore quello dei due fuochi più lontano dalla retina e in misura minore quello più vicino, in
modo tale che il risultato finale sia di avere entrambi i fuochi riuniti in uno solo e posizionato
perfettamente sulla retina.
L’accomodazione
Finora abbiamo valutato la rifrangenza dell’occhio assumendo come costante che la vergenza dei
raggi incidenti fosse uguale a zero (punto raggiante posto all’infinito).
Quando il punto raggiante dall’infinito si avvicina e si posiziona nello spazio finito, l’occhio non
viene più investito da una fascio di raggi paralleli, ma da una cono di raggi divergenti. E come
abbiamo visto all’inizio la vergenza negativa di tali raggi aumenta al diminuire della distanza del
punto raggiante dal sistema di riferimento (nel nostro caso l’occhio).
Se consideriamo l’occhio come un sistema rifrangente di tipo statico e applichiamo le regole
dell’ottica geometrica ci accorgiamo che, se non sono presenti difetti visivi, nessun oggetto o punto
raggiante posto a distanza finita può essere visto nitido, in quanto la retina centrale coincide con il
fuoco del sistema solo in presenza di radiazione parallela. Mentre con radiazione divergente il fuoco
si posiziona ipoteticamente oltre ad essa, mimando la condizione di ipermetropia.
Tutti noi, specialmente se la natura ci ha fornito di occhi buoni, sappiamo che ciò non è vero.
Infatti, il soggetto emmetrope è normalmente in grado di avere visione nitida sia degli oggetti
lontani (infinito) sia di quelli più o meno vicini (finito). Se ciò accade è perché il sistema rifrattivo
dell’occhio non è di tipo statico, ma bensì dinamico.
Dinamico significa che il sistema possiede la possibilità di mutare la sua capacità rifrattiva e di
adattarla al variare della vergenza (solo in senso negativo) dei raggi che lo investono. In modo che il
fuoco venga sempre mantenuto corrispondente alla retina centrale.
Tale meccanismo insito nell’occhio umano è rappresentato dall’accomodazione. (fig.9)
L’attività di accomodazione è sostenuta dall’elasticità della massa cristallinica.
Per stimolazione neuro-muscolare il cristallino non degradato è in grado di aumentare
opportunamente la curvatura delle sue superfici (maggiormente quella anteriore) in modo tale da
compensare esattamente l’aumento di divergenza (vergenza negativa) assunto dalla radiazione
proveniente dallo spazio finito. Tale capacità di adattamento consente ad un soggetto giovane di
tenere a fuoco tutto lo spazio visivo posto tra l’infinito e una distanza minima di +/- 10 cm.
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Fig.9: L’accomodazione
Si è parlato di un soggetto giovane in quanto l’elasticità cristallinica tende a ridursi con il progredire
dell’età. Il progressivo invecchiamento biologico comporta un allungamento della distanza minima
di capacità di messa a fuoco. È evidente che quanto tale distanza minima supera quella che è
considerata la normale distanza per il lavoro vicino il soggetto dovrà ricorrere all’uso di lenti
convergenti che sopperiscano alla mancanza di accomodazione (presbiopia).
L’attività accomodativa dell’occhio, oltre a permettere la visione nitida alle distanze prossimali, è
un mezzo a disposizione del sistema visivo per compensare anche alcune forme ametropiche.
Come si è visto ipermetropia e astigmatismo ipermetropico sono condizioni in cui l’occhio soffre di
insufficienza di convergenza, quando questa non sia di valore eccessivo, l’attività accomodativa
esercitata anche per la visione lontana consente il ripristino della focalizzazione sulla retina senza il
ricorso all’uso di lenti convergenti (positive). Naturalmente tale attività, mantenuta dalla continua
contrazione del muscolo ciliare, è fonte di forme di affaticamento. Quando poi se, in questa
situazione, si è costretti ad esercitare anche un prolungato lavoro da vicino, lo sforzo accomodativo
totale può risultare di tale valore da non essere possibile sostenerlo se non per tempi brevi. Il ricorso
ad occhiali con lenti convergenti da usare almeno durante il lavoro diventa necessario.
Nessun aiuto dall’ accomodazione può venire nei casi di ametropia miopica, anzi in questo caso, un
eventuale atto accomodativo peggiorerebbe la condizione rifrattiva.
Il miope è sempre uno scarso utilizzatore dell’accomodazione. Infatti, quando il punto di fissazione
si trova ad una distanza uguale all’inverso della vergenza del valore della miopia presente, esso
viene visto nitido senza che venga esercitata alcuna accomodazione. Questo ci spiega come sia
possibile che un miope di medio livello (da –2.00 a –4.00 dt.) giunto all’età della presbiopia possa
tranquillamente leggere uno scritto posto a circa 40 cm semplicemente togliendo l’occhiale in uso
da lontano.
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L’OCCHIALE
GENARALITA’
L’occhiale correttivo (da vista) è il risultato della combinazione di due prodotti diversi:
1. Lenti oftalmiche
2. Montatura
La soddisfazione dell’acquirente sarà garantita se lo si saprà indirizzare in una scelta che possa
esprimere:
1. comfort visivo
2. comfort fisico
3. soddisfazione estetica
4. sicurezza
5. spesa adeguata
Ognuna delle due componenti dell’occhiale (lenti e montatura) giocano un ruolo importante su tutti
e cinque i punti che garantiscono la soddisfazione del cliente.
Infatti la scelta giusta delle lenti oftalmiche non ha a che vedere solo con il comfort visivo, ma esse
•
dovranno avere caratteristiche di giusta leggerezza per non influenzare eccessivamente il
peso finale dell’occhiale (comfort fisico);
•
il loro spessore, una volta sagomate dovrà essere contenuto nei termini di un buon risultato
estetico;
•
dovranno, finché possibile, garantire sicurezza d’uso contro urti o traumi,
•
ed infine avere un costo adeguato alle aspettative d’uso del cliente.
Ugualmente si può dire della montatura.
•
Essa dovrà calzare perfettamente sul naso e sulle orecchie, affinché il peso totale
dell’occhiale sia il più possibile ben distribuito(comfort fisico);
•
la dimensione e la forma della dima deve tendere ad un buon centraggio dell’occhio al fine
di ridurre le fastidiose aberrazioni delle lenti molto decentrate (comfort visivo);
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•
forma, colore e dimensione è bene che corrispondano all’anatomia del viso e alla
carnagione (soddisfazione estetica);
•
la robustezza e l’assenza di parti contundenti (viti o perni sporgenti) sono necessarie per
una buona sicurezza d’uso anche in condizioni estreme.
LE LENTI OFTALMICHE
Tecnologia
I materiali utilizzati per la costruzione di lenti oftalmiche devono avere principalmente la
caratteristica di essere il più possibile trasparenti, affinché l’energia raggiante che li attraversa
mantenga il più possibile integre tutte le sue caratteristiche. Solo così il segnale trasmesso dalla
retina alla corteccia visiva sarà puro e l’immagine elaborata conterrà tutti i particolari dell’oggetto
che ha generato l’emissione luminosa.
Pertanto il materiale deve avere le caratteristiche di
‰
Omogeneità: quando non contiene sostanze chimico-fisiche diverse
‰
Isotropia: quando le caratteristiche fisiche del mezzo rimangono costanti in ogni loro
punto.
Gli elementi fisico-chimici che contraddistinguono i mezzi ottici (nel nostro caso le lenti
oftalmiche) e che sono di diretta derivazione dal tipo di materiale utilizzato sono:
‰
L’indice di rifrazione (n). Definisce la capacità del mezzo ottico di far rallentare la velocità
di propagazione della radiazione che su di esso incide e lo attraversa. Il suo valore viene
usualmente associato allo spessore delle lenti necessarie a correggere l’ametropia. Più
l’indice è alto più la lente finita è sottile.
‰
Il numero di Abbe (ν). Chiamato anche Costrigenza o Coefficiente di dispersione, definisce
la qualità ottica del materiale, in termini di purezza della radiazione trasmessa.
‰
La densità (d). Espressa in grammi/cm3, viene messa in diretta relazione con il peso. Più
aumenta la densità tanto maggiore sarà il peso specifico del materiale. Quando è possibile,
sono preferibili lenti oftalmiche costruite con bassi valori di densità, per migliorare il
comfort fisico dell’occhiale finito.
‰
L’indice percentuale di trasmittanza. È definito dal rapporto tra la quantità di energia
raggiante che investe la superficie anteriore della lente e la quantità che emerge dalla faccia
posteriore; è pertanto indicatore della trasparenza del materiale utilizzato.
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I materiali oftalmici dal punto di vista chimico appartengono a due famiglie:
‰
Minerale. Tutti i tipi di vetro ottico.
‰
Organica. Costituita dal gruppo di resine normalmente derivate dalla lavorazione degli
idrocarburi.
Il vetro
La scoperta del vetro è uno dei tanti traguardi del progresso dei quali il genere umano non
ha conservato memoria. L’utilizzo di oggetti di vetro sia per scopi pratici che ornamentali risale
almeno a 1500 anni prima di Cristo. Solo alla fine del XIII secolo esso fu utilizzato per produrre le
prime lenti oftalmiche destinate a modificare il mondo della visione. Al di la, comunque, di chi ne
sia stato l’inventore, Il vetro ha rappresentato per circa 8 secoli l’unico materiale utilizzato per la
costruzione delle lenti oftalmiche.
Il vetro è composto fondamentalmente di silice (SiO2-biossido di silicio), a cui vengono poi
addizionate varie sostanze che ne abbassano la temperatura di fusione e ne modificano alcune
proprietà fisiche, come ad esempio l’aumento della stabilità. Tra le più importanti sono il Calcio
(Ca2O), il Sodio (Na2O), il Potassio (K2O), il Magnesio (MgO).
Il processo di produzione inizia dalla selezione delle sabbie silicee e la loro purificazione da
sostanze estranee che ne comprometterebbero l’isotropia. Quindi avviene il processo di macinatura
e di mescola con gli additivi previsti dalla formula costruttiva. Il tutto viene posto nel classico
crogiolo di caolino per l’infornatura. La temperatura di fusione si aggira tra i 1200° e i 1400° che
per la corretta amalgama delle sostanze deve permanere per oltre 3 ore. Per eliminare eventuali
bollosità è quindi necessario ulteriormente aumentare la temperatura a 1600°. Il successivo
raffreddamento deve essere molto lento e progressivo (10-15 giorni), periodo nel quale la miscela in
via di solidificazione viene continuamente mescolata. Il controllo delle temperature di
raffreddamento deve essere accurato: eccessi di velocità o di lentezza possono produrre la perdita
del carattere amorfo della sostanza con conseguente compromissione dell’isotropia. Prima della
completa solidificazione la pasta vetrosa viene plasmata entro cassette refrattarie è riportata alla
temperatura di 600° e quindi nuovamente raffreddata. Ora il materiale può essere diviso in blocchi
che vengono molati, spianati e lucidati.
La fabbricazione delle lenti oftalmiche passa attraverso varie fasi. La prima di esse consiste
nel produrre un semilavorato, detto comunemente sbozzo, che ha già la forma della lente. In una
seconda fase lo sbozzo viene trattato con sostanze abrasive al fine di eliminare il materiale in
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eccesso e di attribuire al prodotto i valori di curvatura richiesti ad ottenere il corretto potere della
lente. Seguono quindi delle operazioni di Pulitura e Lucidatura.
I tipi di vetro più comunemente usati in occhialeria sono:
‰
Crown. È il più diffuso vetro del settore oftalmico perché presenta il miglior rapporto tra gli
elementi identificativi della qualità. È apprezzato soprattutto per la sua durezza, omogeneità
e facilità di taglio. Presenta le seguenti caratteristiche di base: trasmittanza 91,4%, n 1,523,
ν 58,60, d 2,54 g/cm3. I punti di debolezza sono la fragilità (si rompe in grossi pezzi), peso e
spessore sono notevoli negli alti poteri. Per ovviare all’eccesso di peso si può aggiungere
alla miscela originaria il borace o l’anidride borica che, fluidificando la massa vetrosa, ne
fanno diminuire la densità. Per migliorare l’indice di rifrazione si addiziona in quota
consistente (30%) l’ossido di bario che è in grado di portare l’indice a 1,6, senza modificare
il coefficiente di dispersione che è una delle migliori qualità del crown. Ne risulta però
aggravata la densità con un sensibile aumento del peso. Esiste la possibilità di utilizzare altri
tipi di bario che non alterano la densità, ma penalizzano il coefficiente di dispersione
deprimendolo a valori intorno a 42.
‰
Flint. Sono vetri quasi ormai abbandonati dall’occhialeria, mentre mantengono un grande
appeal nell’industria delle cristallerie. Sono ottenuti con l’addizione in mescola di ossidi di
piombo che sono in grado di aumentare l’indice di rifrazione fino a 1,8. Da questo punto di
vista risultano adatti alla correzione di alte ametropie miopiche, ma contemporaneamente
procurano un crollo nel valore della dispersione (il numero di Abbe si abbassa a 26), la
densità è elevatissima (4,8 g/cm3), rendendo il peso dell’occhiale a volte insopportabile.
‰
Vetri al Titanio. In tempi relativamente recenti si è sostituito il bario e il piombo con
l’ossido di titanio. Così si ottiene un indice di rifrazione 1,7, mantenendo una densità molto
vicina al crown tradizionale (3 g/cm3), evitando pertanto l’aggravio sensibile di peso. Il
coefficiente di dispersione peggiora, ma non ai livelli del flint. (35-40). Non ultimo il titanio
permette una più che buona protezione dall’ultrvioletto. Condizione imprescindibile con
questi vetri è l’utilizzo del trattamento antiriflesso. Infatti la riflessione sulle due superfici
della lente supera il 15%
‰
Le terre rare. Per la correzione delle elevate ametropie miopiche, si è creata una nuova
famiglia di vetri nella quale la presenza silicea viene quasi sostituita dalle cosiddette terre
rare quali il lantanio, niobio e tantalio. Si ottengono indici di rifrazioni compresi tra 1,8 e
1,9 ove l’inevitabile scadimento della dispersione e della densità sono relativamente
contenute. I dati del lantanio sono: n 1,804, ν 36, d 3,62 g/cm3. Con l’utilizzo in mescola di
17
tutte e tre le sostanze indicate (lantanio, niobio e tantalio) si ottengono le seguenti
caratteristiche: n 1,878, ν 38, d 4,75 gcm3.
Le resine organiche
Il mondo delle plastiche è storia relativamente recente. Esso nasce con lo sviluppo della
chimica del petrolio, quindi databile dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Uno dei primi
materiali che vennero sperimentati per sostituire il vetro in alcune applicazioni particolarmente
soggette a traumi fu il polimetilmetacrilato (PMMA), normalmente conosciuto come Plexiglas o
Perspex. Esso ha la grande qualità di essere assolutamente infrangibile anche in presenza di
sollecitazioni meccaniche molto marcate, ma al contempo presenta una bassa resistenza
all’abrasione. Questa sua caratteristica di graffiarsi con estrema facilità ne ha presto limitato la
possibilità d’uso in ottica oftalmica.
Ebbe molto più successo un altro materiale la cui progettazione fu commissionata dal governo
americano alla Columbia Southern Division della Pittsburgh Plate Glass Indusrtries al fine di poter
realizzare i parabrezza degli aerei militari. Furono progettati circa 170 monomeri termoindurenti, tra
i quali fu scelto il composto numero 39: il glicocarbonato di allile, meglio conosciuto come
Columbia resin 39 o CR39. A guerra finita, nel 1947 un optometrista, Robert Graham, intuì le
potenzialità che il CR39 poteva avere anche nella produzione di lenti oftalmiche. Fondò la Armolite
Lenses Co. È cominciò la produzione e la vendita agli ottici di lenti in CR39, leggere, infrangibili, e
meglio resistenti ai graffi del plexiglass.
Fabbricazione delle lenti in CR39
Come consueto per le materie plastiche termoindurenti, il processo produttivo delle lenti in
CR39 si avvale della tecnica della fusione. In pratica il monomero viene fuso (polimerizzato)
all’interno di stampi di vetro che riproducono le caratteristiche geometriche della lente che si vuol
produrre. Le fasi salienti del processo sono:
‰
Preparazione del monomero. Il monomero deve essere raffinato, pulito e addizionato dei
catalizzatori atti ad attivare la reazione termoindurente. In questa fase bisogna evitare che
inizi prematuramente la polimerizzazione. A questo scopo si utilizzano sostanze capaci di
inibirla a basse temperature.
‰
Riempimento. Lo stampo viene riempito di monomero liquido e quindi accuratamente
sigillato.
18
‰
Polimerizzazione. Gli stampi vengono posti in forni per molte ore. La temperatura deve
essere accuratamente controllata durante tutto il processo e deve essere garantita l’assenza di
aria all’interno degli stampi che provocherebbe la formazione di bolle nel corpo delle lenti.
‰
Condizionamento. Il ritorno alla temperatura normale del polimero finito avviene con
gradualità al fine di evitare la formazione di tensioni all’interno delle lenti. Allo scopo gli
stampi vengono posti per un periodo di circa 6 ore all’interno di forni che mantengono la
temperatura a 80°.
‰
Trattamenti. Avvenuta la stabilizzazione termica, le lenti ottenute possono essere trattate
con gli usuali rivestimenti di tipo indurente e antiriflesso. È da sottolineare che solo i
trattamenti effettuati in questo momento si integrano in modo intimo con la struttura del
polimero, garantendo durata e stabilità.
Osservando le caratteristiche chimico-fisiche del CR39 si comprende il grande successo che questo
materiale ha avuto nell’ambito dell’occhialeria, tale da rappresentare il successore del vetro crown
nella maggioranza delle realizzazioni oftalmiche.
Vetro Crown
CR39
2,54 g/cm3
1,32 g/cm3
1,523
1,498
Numero di Abbe
58,60
57,8
Trasmittanza
91,4%
93%
Densità
Indice di
rifrazione
Cr39 vs Crown
La lente finita pesa la metà della sorella in
crown
La differenza di spessore di una lente, anche
di potere elevato, rimane inferiore a 0,05 mm
Omogeneità e isotropia rimangono garantite
ad alti livelli.
La minor riflettanza permette di migliorare la
trasparenza.
Il punto debole del CR39, come del resto di tutte le materie plastiche, rimane la durezza, che nel
vetro crown rappresenta un elemento di grande pregio. L’utilizzo, ormai quasi universale, dei
trattamenti indurenti delle superfici delle lenti finite ha, almeno in parte, risolto il problema.
Volendo confrontare, in termini statistici, la durata di utilizzo di una lente in crown con una in
CR39 si può notare che le differenze, pur a favore del vetro, non sono così marcate, in quanto la
minor durezza del CR39 è in parte compensata dalla notevole fragilità del vetro.
Il successo commerciale mondiale delle lenti organiche ha spinto la ricerca a realizzare dei
nuovi polimeri, di derivazione dal CR39, che potessero controbattere l’uso del vetro anche nelle
19
correzioni di alte ametropie. Oggi, realizzate in materiale plastico, sono presenti sul mercato lenti di
indice di rifrazione 1, 6, 1,67,1,74.
Policarbonato (PC).
È un materiale termoplastico che ricorda il PMMA. Come tutte queste plastiche viene
lavorato per stampaggio. Ha la caratteristica importante di mantenere bassissima la soglia di
cristallizzazione e quindi di esprimere una resistenza all’impatto notevolmente superiore a tutti gli
altri materiali (50 volte maggiore del CR39 e 500 volte rispetto al vetro) la densità si mantiene
molto bassa (1,20 g/cm3), garanzia di grande leggerezza. L’indice di rifrazione è 1,59, migliorativo
sia rispetto al crown che al CR39.
I punti di debolezza del PC sono però altrettanto importanti:
Il numero di Abbe è decisamente basso (ν 30). Pertanto la qualità ottica è tra le più basse
della sua categoria.
La sua durezza è molto inferiore alle plastiche termoindurenti (CR39). Tanto da non poter
essere commercializzato privo di trattamento indurente delle superfici, che ne riduce la resistenza
all’impatto.
La sagomatura finale della lente in PC non può essere effettuata con le usuali attrezzature
con cui si lavora il vetro o il CR39, ma solo con particolari mole a secco che utilizzano abrasivi di
elevato diametro.
In funzione di queste limitazioni, le lenti in policarbonato vengono utilizzate quasi esclusivamente
nei casi ove sia necessario garantire la massima sicurezza contro i traumi.
La forma delle superfici attive
I primi costruttori producevano lenti con una sola superficie attiva: quella anteriore per le positive e
quella posteriore per le negative, mentre la seconda superficie veniva mantenuta piana. Tali lenti
prendevano nome di “pianoconvesse” e “pianoconcave”.
Quando si iniziò a voler produrre lenti di potere molto elevato ci si scontrò con un notevole
aumento della curvatura della superficie attiva che conduceva a eccessivi spessori. Si pensò, allora,
di coinvolgere nella rifrazione anche la superficie sino allora mantenuta piana in modo da sommare
l’effetto rifrattivo di entrambe; nacquero così le lenti “biconvesse” e “biconcave”. Con esse gli
spessori si ridussero in modo considerevole.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
20
Studi successivi dimostrarono però che tali lenti mantenevano un’adeguata purezza d’immagine
solo in una limitata zona centrale, mentre verso i bordi si formavano forti distorsioni dovute alle
aberrazioni extrassiali (distorsione, astigmatismo dei fasci obliqui, coma ecc.).
Alcuni ricercatori (Wollaston, Ostwalt, Tscherning) si applicarono per definire quale doveva essere
la forma migliore, non dal punto di vista estetico ma da quello della qualità ottica, da dare alle lenti
oftalmiche per superare i problemi indotti dalle aberrazioni.
Ne risultò che la lente in grado di restituire all’occhio la miglior immagine puntuale anche quando
esso ne utilizzava aree periferiche era una lente con la superficie esterna convergente e quella
interna divergente; tale forma venne chiamata “menisco”.
Le lenti a menisco sono quelle che ancor oggi utilizziamo.
La forma a menisco introdotta sul mercato nei primi decenni del secolo scorso ebbe rapido successo
e nonostante un costo decisamente superiore, strappò il mercato alle lenti “bi” che lo detenevano da
oltre 6 secoli.
Il punto debole delle lenti menisco sta nei poteri positivi medio-alti e alti. Già con valori superiori a
+4.00 dt. la qualità d’immagine, nella visione periferica, cala sensibilmente; con poteri oltre +7.00
dt. si torna ai risultati delle vecchie biconvesse.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
21
Il diagramma di Tscherning
Il problema può essere risolto dando a una delle due superfici attive una particolare forma non
sferica. Le lenti così costruite prendono il nome di lenti Asferiche.
Questa lavorazione rende meno curva la porzione periferica della lente che modera l’effetto delle
aberrazioni extrassiali, ma al contempo migliora anche l’effetto estetico in quanto si ottiene una
notevole riduzione dello spessore e del peso.
Proprio per questo effetto estetico, più che per le qualità ottiche, le lenti asferiche stanno
conoscendo in questi ultimi anni un successo notevole. Vengono spesso utilizzate anche nelle basse
correzioni positive e sempre più spesso in quelle negative, ove non svolgono particolari funzioni
ottiche, ma danno una mano all’indice di rifrazione nella riduzione degli spessori.
Figura 6
E. Bottegal – Ottica oftalmica
22
La qualità delle superfici attive.
Se lo scopo principale di una lente oftalmica è di correggere i difetti visivi, oggi più di un
tempo chi è costretto ad utilizzare occhiali da vista pretende che la loro funzionalità si mantenga
costante nel tempo e in tutte le situazioni. Si pretende che le lenti siano resistenti ai graffi, che non
si sporchino facilmente, che migliorino la visione notturna, che proteggano dalla luce diurna più
nociva, quale l’Ultravioletto.
Per aderire a tali esigenze, l’industria oftalmica ha così elaborato intorno alla lente per occhiali una
raffinata tecnologia di rivestimento delle superfici che si concretizza nei seguenti interventi:
Trattamenti che migliorano la funzionalità ottica della lente:
•
Trattamento antiriflesso
•
Trattamento antimbrattamento
Trattamenti che migliorano la qualità del materiale:
•
Trattamenti antigraffio
•
Trattamenti di tempra
Il Trattamento indurente
È caratterizzato dalle deposizione sulla lente di un sottile strato di materiale a base di silicio
o di quarzo, materiali che hanno caratteristica di elevata durezza e conferiscono alla lente qualità
antigraffio abbastanza evidenti.
Esistono almeno due tecniche per la realizzazione di tale trattamento:
•
Per verniciatura
•
Per precipitazione sottovuoto
La verniciatura è il sistema più datato ed anche più economico.
La precipitazione sottovuoto è più efficace come risultato in quanto si possono usare materiali più
duri, ma al contempo il trattamento è più fragile di quello prodotto per verniciatura, può, infatti,
fessurarsi o staccarsi.
Quando, durante la vendita, si prospetta al cliente l’opportunità di dotare le lenti di questi
trattamenti è bene essere molto chiari e precisi nelle informazioni da fornire, per evitare che
un’errata comprensione possa creare un’aspettativa di funzionamento oltre le oggettive possibilità e
di conseguenza una serie di reclami ingiustificati, tanto più che ciò per cui stiamo chiedendo un
aumento del prezzo è cosa assolutamente invisibile.
23
Quindi è necessario spiegare che un trattamento antigraffio è adatto a prevenire le abrasioni
derivanti dal normale uso quotidiano dell’occhiale e non da abrasioni profonde legate ad uso
inadeguato o poco attento.
Il trattamento antiriflesso
Le lenti per occhiali, come del resto tutti i corpi trasparenti, non lasciano passare tutta la luce
che le colpisce, perché una certa parte viene riflessa dalle superfici attive.
La porzione di luce riflessa è energia che va sprecata perché non raggiunge l’occhio e quindi non
può entrare nel processo visivo. Inoltre, la riflessione non si limita a creare una diminuzione di
luminosità dello spazio visivo, ma contribuisce a disturbarlo proponendo immagini sbiadite e
diafane che si sovrappongono a ciò che si sta guardando.
Per avere un esempio basta pensare a un bel paesaggio notturno osservato da una stanza attraverso
un vetro di finestra; fin tanto che la stanza rimane buia l’osservazione è perfetta, quasi il vetro non
esistesse, ma appena si accende una luce sul vetro si forma il riflesso di tutto ciò che si trova nella
stanza, tanto da nascondere il paesaggio prospiciente.
In maniera simile un occhiale che funziona perfettamente di giorno, di notte, specie durante la
guida, può presentare fastidiosi riflessi tali da rendere insicura la conduzione del veicolo.
Questa ed altre ragioni conducono alle necessità di dotare le lenti per occhiali di un trattamento che
limiti al massimo tali disturbi soprattutto per chi faccia vita lavorativa in ambienti sovente illuminati
da luce artificiale, o che utilizzi spesso la guida notturna.
Il coefficiente di riflessione
Il coefficiente di riflessione, quando la lente è immersa in aria, è definito dalla seguente:
2
(
n − 1) )
R=
, quindi il valore di R cresce all’aumentare dell’indice di rifrazione.
(n + 1)2
Indice di rifrazione del materiale
Riflettanza percentuale
1,525
4,3%
1,604
5,3%
1,706
6,7%
1,8
8,2%
I valori riportati in tabella si riferiscono al materiale, ma quando con il materiale viene costruita una
lente oftalmica la radiazione non si limita a riflettersi sulla faccia anteriore, ma parte dell’energia
trasmessa dalla prima faccia si riflette sulla faccia posteriore interna della lente, dando così un
24
ulteriore aumento alla riflettanza. Il processo continua all’infinito, ma è dimostrato che sono solo le
due prime riflessioni a determinare quasi la totalità della riflettanza, tutte le altre sono infatti di
valore trascurabile.
In ragione di ciò la riflettanza espressa da una lente è definita dalla seguente: RT =
2R
(1 + R)
Questo è il motivo per il quale i costruttori di lenti consigliano l’utilizzo del trattamento antiriflesso
quasi obbligatorio nelle lenti ad alto indice.
L’effettiva validità di tale trattamento è dimostrata dal fatto che il 90% di coloro che lo
hanno realizzato una prima volta, lo richiedono nuovamente nel momento dell’acquisto di un
occhiale successivo.
Principio di eliminazione dei riflessi
La riduzione dei riflessi sulle superfici di una lente si basa sul principio dell’interferenza
distruttiva. Deponendo uno strato trasparente sulla superficie della lente accade che la radiazione
incidente si riflette una prima volta sulla superficie anteriore dello strato e una seconda volta sulla
prima superficie della lente sottostante. Affinché si generi l’eliminazione totale dell’onda riflessa è
necessario che si verifichino le seguenti condizioni:
1. l’intensità (ampiezza d’onda) dei due raggi riflessi deve essere uguale. Ciò può accadere
solo se lo strato antiriflesso è costituito da un materiale di indice uguale alla radice quadrata
dell’indice del materiale di cui è fatta la lente. nar = nlente
25
2. il cammino ottico dei due raggi riflessi deve
essere in opposizione di fase, cioè che il ritardo
dell’uno sull’altro sia uguale a
λ
2
. Ciò si
verifica quando lo spessore dello strato
antiriflesso è uguale a
λ
4
della radiazione
n è l’indice del materiale della lente
n1 è l’indice dello strato antiriflesso
1 è l’indice dell’aria
incidente.
Analizzando le due precedenti condizioni si possono fare delle considerazioni di tipo tecnologico:
I Considerazione: si impone che lo strato antiriflesso venga costruito di un materiale avente indice
di rifrazione molto basso, ma al tempo stesso esso deve avere delle caratteristiche molto importanti:
a. essere perfettamente trasparente
b. avere buona capacità di adesione
c. avere buona durezza per non essere facilmente alterabile dagli insulti meccanici
d. poter essere steso in spessori molto bassi
e. avere un coefficiente di dilatazione termica simile al materiale della lente, per evitare
(specie nelle lenti organiche) che un forte shock termico ne provochi la rottura.
II Considerazione: l’opposizione di fase è calcolata sulla lunghezza d’onda della luce incidente. Ma
la luce incidente è bianca, quindi composta da una gamma di λ diverse. Pertanto lo spessore dello
strato non potrà certo soddisfare tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile. Diventa necessario
scegliere su quali operare (ad es. quelle centrali: giallo-verde), sacrificando tutte le altre. Di
conseguenza sarà sempre presente un riflesso residuo, che avrà la tonalità di colore delle lunghezze
d’onda più distanti da quelle considerate.
Materiali per l’antiriflesso.
Una delle condizioni più difficili da realizzare nella produzione di un antiriflesso è il valore
basso di indice di rifrazione della sostanza antiriflettente usata. Nelle lenti in vetro minerale il
materiale che presenta le migliori caratteristiche antiriflettenti è il fluoruro di magnesio, che
fortunatamente non presenta un n alto (1,38). Comunque anche con questo materiale, se si applica la
formula: nar = nlente si nota, dalla tabella seguente, che esso riesce ad ottenere l’abbattimento
totale del riflesso solo per vetri di indice elevato.
26
Indice di rifrazione della lente
Riflettanza
1,525
1,31%
1,604
0,86%
1,706
0,39%
Dovendo lavorare con lenti in resina organica, la questione si complica. Infatti i materiali
antiriflettente a basso indice non hanno una buona capacità di adesione sul materiale della lente. Si
è costretti ad utilizzare prodotti diversi come il quarzo che ha un indice (1,46) assolutamente
improponibile. Per ovviare al problema si applica sulla lente uno strato di materiale ad altissimo
indice, 2,0/2,3, (ossidi di zirconio o di titanio) e su di esso si fa aderire il quarzo antiriflesso
Se si vuole allargare il ventaglio delle lunghezze d’onda interessate dall’antiriflesso e al
tempo stesso creare trattamenti più duraturi nel tempo si deve procedere alla deposizione
sovrapposta di più strati di materiale antiriflettente. All’inizio si passò dai canonici due (strato di
adesione + strato antiriflesso) a tre, poi a cinque, a sette e così via. Oggi i trattamenti più sofisticati
sono realizzati con 9 o 10 deposizioni, di cui alcune dedicate a rendere compatibili e adesivi tra di
loro gli altri strati antiriflettenti. Dato il costo elevato di questi trattamenti, il cui valore di vendita a
volte supera quello della lente stessa, si usa aggiungere all’esterno uno strato antigraffio e
idrorepellente per migliorarne la funzionalità, garantendo una maggiore durata.
Alla luce delle precedenti considerazioni si può sicuramente affermare che:
a. ancora molta strada deve essere fatta per arrivare a soddisfare le condizioni richieste.
b. Proprio per l’attuale precarietà, la tecnologia impiegata nella produzione degli
antiriflessi deve essere di assoluta primaria qualità.
Produzione dell’antiriflesso.
La produzione del trattamento AR avviene per
sublimazione sotto vuoto delle sostanze antiriflettenti
che una volta raggiunto lo stato gassoso, naturalmente
si depositano sulla superfici delle lenti. Come in tutti i
trattamenti
di
vaporizzazione
anche
quello
dell’antiriflesso si avvale di camere sotto vuoto
sigillate, al cui interno, su delle apposite calotte a
forma di ombrello vengono depositate le lenti da
trattare. Le sostanze antiriflettenti vengono a loro volta
raccolte, all’interno della camera, in un contenitore
chiamato crogiolo, ove, mediante bombardamento
elettronico o per effetto elettrico,
27
vengono portate alla temperatura di sublimazione.
Il controllo degli spessori dei singoli strati viene effettuato, durante al fase di lavorazione,
sfruttando la capacità di vibrazione del quarzo. Il quarzo è un minerale la cui frequenza di
vibrazione è costante sotto particolari condizioni, ma varia se sulla sua superficie viene applicato un
rivestimento. Pertanto si pone un cristallo di quarzo, di cui sia conosciuta la frequenza, all’interno
dalla camera sotto vuoto assieme al plateau delle lenti. Durante il processo lo strato di materiale
antiriflettente si deposita anche sul cristallo di quarzo. Un sistema elettronico è in grado di fornire le
variazioni di frequenza emesse dal quarzo e tradurle in valore di spessore depositato
Nel caso del vetro l’adesione risulta molto efficace e difficile da asportare. Con le lenti in
resina i problemi sono maggiori. Infatti molte sostanze antiriflettenti devono essere riscaldate a
circa 200° per poter aderire efficacemente, mentre la resina oftalmica per non alterarsi deve
rimanere al di sotto dei 100°.
Un altro problema è determinato dalla facilità di sfogliatura dei trattamenti AR. Esso è determinato
dal fatto che la resina organica ha un indice di dilatazione 20 volte superiore a quello di molti
rivestimenti AR; pertanto in caso di surriscaldamento dell’occhiale, la lente tende a dilatarsi molto
di più del trattamento che la ricopre che tenderà a fessurarsi e creparsi per l’effetto della trazione.
È, quindi, importante richiamare i clienti utilizzatori di lenti organiche trattate AR di non esporre
l’occhiale a fonti di calore.
Il trattamento antimbrattamento.
Se si osserva al microscopio la superficie di un trattamento antiriflesso si può notare che
essa è notevolmente porosa, quindi è facile ricettacolo di sostanze grasse che incrostandosi sono
difficili da rimuovere.
Per ovviare a ciò si usa far depositare sulla superficie dell’antiriflesso una sostanza con
caratteristiche idrofobe e antimbrattanti che è in grado di risolvere il problema senza per questo
ridurre il benefico effetto del trattamento antiriflesso.
Il trattamento di tempra
L’utilizzo di occhiali con lenti in vetro sottopone l’utilizzatore ad un evidente rischio di
danni oculari nel momento in cui, con occhiale indossato e
per cause traumatiche, le lenti
dovessero rompersi. Tale rischio ha indotto i paesi anglosassoni ad introdurre nella propria
legislazione una norma che obbliga i produttori di lenti a mettere in commercio lenti in vetro solo se
temperate.
La tempra, quindi, è un procedimento che aumenta la resistenza agli urti del materiale vetroso.
28
Essa può avvenire con i sistemi tradizionali usati anche per altri materiali consistenti in un
preriscaldamento del materiale ed un veloce raffreddamento. Per i vetri risulta essere più efficace il
sistema chimico che consiste nell’immergere la lente in una soluzione di cloruro di potassio
preriscaldata a 400°. In tale maniera si crea uno scambio tra superfici della lente e soluzione di ioni
sodio e potassio che genera un rivestimento di circa 100 micron notevolmente resistente.
L’elevato costo produttivo e l’avvento delle lenti in resina organica hanno praticamente reso quasi
obsoleto questo trattamento.
La funzionalità correttiva
A seconda della funzione esercitata le lenti oftalmiche si possono dividere in:
•
•
Monofocali
Plurifocali
Lenti Monofocali.
Le lenti monofocali sono quelle che in ogni parte della loro superficie esprimono un unico potere.
Vengono utilizzate per la correzione di tutti i difetti visivi e per la presbiopia. Il fatto che in molti
casi l’utilizzatore possa, indossando lenti monofocali, avere visione nitida e confortevole a tutte le
distanze dipende, non certo da qualche proprietà delle lenti, ma da modificazioni ed aggiustamenti
appropriati che l’occhio riesce ad attuare.
Tali aggiustamenti sono legati all’attività neuro-muscolare del sistema visivo (occhio-encefalo) che,
come molte funzioni corporee, si mantiene efficiente solo per una certa porzione di vita.
Lenti Multifocali.
In questa categoria si classificano:
1. lenti Bifocali
2. lenti multifocali o progressive
Per affrontare adeguatamente il tema delle lenti oftalmiche multifocali è opportuno richiamare
alcuni concetti relativi all’ambito della deficienza visiva alla quale sono destinate: la presbiopia.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
29
La Presbiopia
La prima osservazione da farsi è che la presbiopia non è un’ametropia, bensì una
caratteristica fisiologicamente normale conseguente al processo di invecchiamento dell’occhio. Più
precisamente legata al progressivo ridursi dell’ampiezza accomodativa dovuta alla sclerosi
lenticolare, in altre parole l’indurimento della massa cristallinica.
Tra i molti studi che si sono occupati della variazione dell’ampiezza accomodativa in funzione
dell’età, quello che ha avuto maggiori riscontri è riassunto nella tabella di Donders
Età
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
Dt
14
12
10
8,5
7,0
5,5
4,5
3,5
2,5
1,75
1,00
0,50
0,25
Una definizione esatta ed esaustiva del termine “presbiopia”, che ne rilevi tutti gli aspetti
clinici, ottici, psicologici non è così frequente da trovare nella letteratura specializzata. Ad esempio
riportiamo alcune definizioni, lasciando che ciascuno si scelga quella che più piace.
Approccio fisio\matematico:
“Quando, per effetto della sclerosi del cristallino, l’ampiezza accomodativa disponibile scende al
disotto delle 4 dt., il soggetto in questione può essere definito presbite.”
Approccio clinico scientifico:
“La presbiopia è un problema rilevante che riguarda l’occhio e la visione, diffuso in ogni parte del
mondo e legato all’età, caratterizzato da:
•
Un’insorgenza lenta e non precisabile;
•
Una probabile eziologia multifattoriale;
•
Irreversibilità”
Approccio comportamentale:
“La Presbiopia è un fattore sociale, vissuto da ognuno in chiave personale”
Presbiopia: oggi e domani
Interessante, ai fini di comprenderne il potenziale sviluppo, è rifarsi alle statistiche e alle
proiezioni della popolazione dei presbiti:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
30
•
1988 38%
•
1998 42%
•
2008 47%
L’Italia è +5% rispetto al resto d’Europa
Tra il 1990 e il 2050 la popolazione mondiale crescerà dell’ 1% mentre quella con oltre 50 anni avrà
un incremento del 75%.
Saremo presbiti per più della metà della nostra vita!
L’approccio alla presbiopia
Indipendentemente dalle diatribe accademiche relative alle definizioni possibili, il diventare
presbiti rappresenta per ognuno un’esperienza rilevante e non certo positiva, che induce a
comportamenti così frequentemente simili da poter essere catalogati.
Nonostante il fenomeno presbiopia sia universalmente conosciuto, e faccia parte del bagaglio
culturale di ognuno di noi (tutti sappiamo che prima o poi dovremo usare occhiali per leggere), al
momento del presentarsi dell’evento la reazione è quella di:
Minimizzare il problema:
nell’analisi delle cause:
•
“in questo periodo sono particolarmente stanco”
•
“ho bisogno di vacanza, mi sento molto stressato”
nell’utilizzo di tecniche compensative:
•
aumento della distanza di lettura,
•
aumento dell’illuminazione,
•
quando possibile, riduzione delle attività prossimali.
conseguenza:
•
approccio sempre ritardato alla correzione del problema
•
maggiori difficoltà nell’accettare da subito addizioni medio/alte
Gli stadi della presbiopia
Come clinicamente consueto, nella presbiopia si possono riconoscere:
•
una fase incipiente, in cui, più che perdita di visione nitida, l’individuo risente di stati
d’astenopia in occasione d’impegni particolarmente gravosi e prolungati a distanza vicina.
31
•
Una fase conclamata, in cui la perdita di capacità accomodativa ha raggiunto livelli elevati, tali
da non consentire più la corretta messa a fuoco degli oggetti vicini se non con l’uso di ausili
appropriati.
Spesso viene inserita una terza fase, la presbiopia precoce, sulla quale è bene fare chiarezza.
Tale concetto si basa sul fatto che l’età d’insorgenza del fenomeno presbiopia è non poco diversa
se ci si sposta tra le varie aree geografiche del pianeta.
É riconosciuto, infatti, che il diventare presbiti sia correlato alla qualità della vita.
La presbiopia si manifesta più precocemente tra le popolazioni a basso tenore di vita, cui si
riconduca un’alimentazione scadente nelle componenti nutrizionali fondamentali, e una scarsa
igiene del corpo.
Altri fattori predisponenti sono l’elevata esposizione alla radiazione UV e l’elevate temperature
ambientali.
Rimane comunque importante stabilire che un ambiente sociale omogeneo rende, ugualmente,
abbastanza omogenea l’età di insorgenza del fenomeno presbiopia.
Il dato di fatto è la correlazione tra l’insorgenza della presbiopia e la riserva accomodativa
disponile.
La riserva accomodativa per fare cosa?
Non può essere corretto ritenere che esista una soglia precisa, uguale per tutti, per definire
l’insorgenza del fenomeno presbiopia.
Benché sia da notare che la diminuita efficienza visiva è fattore del normale invecchiamento
dell’occhio, essa può aumentare i suoi effetti se le prestazioni richieste diventano più impegnative.
Quindi tenendo conto dell’evoluzione che da tempo si sta verificando nel mondo, specie in quello
del lavoro, si possono catalogare un serie di cause che possono accelerare l’insorgenza della
presbiopia e che possono essere classificate come:
cause esterne:
•
La stampa utilizza caratteri sempre più piccoli,
•
La posizione dei monitor dei VT è spesso incongruente
•
L’illuminazione del posto-lavoro è scorretta,
•
I tempi di applicazione si protraggono sempre di più
•
......................
cause interne:
•
La capacità di trasmissione del cristallino,
32
•
Il sesso, le donne sembra richiedano compensazioni per vicino mediamente tra 1 e 4 anni prima
dei maschi,
•
La statura medio-bassa, (distanza di Harmond)
•
Il vizio di refrazione, quando è causa di pigrizia accomodativa (miope),
•
Lo stress
Una disquisizione a parte merita lo “Stress”.
“Stress” è un termine utilizzato per definire tutte quelle situazioni che tendono a modificare il
nostro stato di equilibrio.
Lo stress è un processo innato che ci caratterizza sin dalla nascita.
È anche, e in molta parte, un prodotto acquisito dall’era moderna e tecnologica. Si calcola che un
uomo dei nostri giorni sia colpito quotidianamente da 65mila stimoli stressogeni in più rispetto ad
un suo simile che viveva un secolo fa.
Quando esiste una forma di stress l’organismo, inconsciamente, restringe anche il proprio campo
percettivo, quasi per economizzare le risorse.
Lo stress visivo rappresenta una delle maggiori componenti nella totalità delle condizioni
stressogene, sicuramente la più diffusa nella popolazione. Esso è dovuto alla brusca variazione di
abitudini visive che ha caratterizzato l’uomo moderno. Per millenni gli esseri umani sono stati
prevalentemente impegnati in attività visive a lunga distanza (uomo cacciatore, uomo guerriero).
Durante l’ultimo secolo, o meglio durante gli ultimi 50 anni, si sono verificati enormi progressi nel
campo tecnico scientifico. Tali rivoluzioni si sono portate appresso la sconfitta dell’analfabetismo,
l’aumento della scolarizzazione e, di conseguenza, la necessità di aumento esponenziale di ore
quotidianamente spese nell’uso della visione vicina. La variazione di abitudini visive è stata
enormemente più veloce e più drastica di quanto non sia stato l’adattamento funzionale del sistema
visivo.
Il sistema visivo non ha avuto il tempo sufficiente per introdurre le necessarie mutazioni atte ad
inibire lo “stress visivo la punto prossimo”. Il passaggio da “uomo cacciatore” a “uomo
tecnologico” è sicuramente in atto (aumento dei soggetti miopi), ma non si è ancora compiuto.
Lo stress è pertanto uno degli elementi fondamentali nell’insorgenza della presbiopia, in quanto,
aumentando sempre più le richieste di alta performance al punto prossimo, il nostro sistema visivo,
non ancora modificatosi per tale esigenza, richiede precocemente aiuti esterni che gli consentano il
raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Si può ben dire che la nostra moderna civiltà ha tolto la fatica dalla schiena dell’uomo e l’ha portata
ai suoi occhi.
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Resta comunque inteso che con il termine “presbiopia” sia da intendere una rottura
avvenuta nel sistema visivo, considerato come spazio di visione nitida e confortevole estesa tra il
punto remoto e il punto prossimo. Quando la visione al punto remoto rimane buona e non altrettanto
al punto prossimo allora possiamo parlare di necessità di addizione per vicino. Tutti i sussidi ottici
che vengono proposti a soggetti giovani per migliorare la loro performance al punto prossimo sono
qualcosa di diverso dalla correzione della presbiopia.
Non esistono, se non per cause patologiche, presbiti di 30 anni.
Le fasi della presbiopia
1. Presa di coscienza (40\50 anni)
2. Presbiopia instabile (50\58 anni)
3. Presbiopia stabile (over 58)
I presbiti del terzo millennio
L’idea del presbite, che ha accompagnato gli operatori del settore ottico per buona parte del
secolo scorso, come persona giunta a compimento della fase pubblica ed operativa della vita che,
nulla aspettandosi dal futuro, adagia le sue scelte su concetti minimali, non corrisponde più al vero.
Oggi i “maturi” sono consumatori dalla mente aperta, esigenti e attenti, sia alla moda che alle
innovazioni. Essi sono sempre più alla ricerca di uno “stile” che consenta loro di affrontare con
serenità ed impegno la propria vita come attori protagonisti piuttosto che da passivi spettatori.
Oltretutto, come si è detto, il fenomeno presbiopia fa sentire i suoi effetti sempre più in età
giovanile. Diviene quindi indispensabile essere attenti alle mutate situazioni, comprendere le
modifiche richieste ed essere pronti soddisfare le nuove esigenze.
La correzione ottimale che l’ottico propone deve essere sempre più individualizzata, cucita
addosso al cliente presbite, rispecchiare appieno le sue esigenze, il suo lavoro, i suoi problemi. Ma
soprattutto deve dare risposta alle sue richieste e soddisfare le sue attese.
Naturalmente questo modo di procedere ci conduce a formulare moltissime caratterizzazioni
del soggetto presbite: il pigro, il dinamico, il pratico, l’esteta, etc…Rimane, comunque essenziale
dividere la categoria in:
‰
Giovane presbite
‰
Presbite Consolidato
Il giovane presbite è un quarantenne spesso brillante e dinamico che sta raggiungendo i
vertici della carriera professionale. Pertanto la sua esigenza primaria è quella di continuare a far
fronte ai suoi impegni con velocità, ma soprattutto con la precisione che gli è consueta. Non può
permettersi di far dipendere le sue performance da una visione prossimale difficoltosa ed insicura,
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ma al tempo stesso non è disponibile a mettere in conto disturbi collaterali di alcun genere. Cerca
fondamentalmente praticità, ma ancor di più, anche se restio ad ammetterlo, esteticità. Si sta
accorgendo, giorno dopo giorno, che molte cose stanno cambiando nell’immagine che lo specchio
gli restituisce ogni mattina. La sua cura per i particolari diventa più attenta e selettiva. Un nuovo
oggetto, quale un occhiale correttivo, non potrà essere uno qualsiasi, ma qualcosa di indispensabile
che non suoni come una nota stonata, ma entri nella piena armonia di un’apparire sapientemente
studiato.
Dal punto di vista della funzionalità visiva, la sua capacità accomodativa è ancora rilevante, le
medie distanze sono ancora alla sua naturale portata, soltanto la lettura prossimale (40 cm) risulta
difficile o fastidiosa. D’altra parte le sue necessità relazionali sono ancora molto intense e un
sussidio che lo costringa ad “un mettere e togliere” in continuazione può essere un’evidente
ostacolo.
Il presbite consolidato è quasi sempre portatore di un’ametropia già presente in gioventù o
sviluppatasi nel decorso iniziale della presbiopia. Sicuramente ha già sperimentato vari tipi di
correzioni ed acquisito abitudini che facilmente si sono radicate. Tutto ciò lo rende, contrariamente
a quanto si è portati a pensare, un cliente difficoltoso da trattare con soluzioni innovative,
sicuramente molto di più del giovane presbite, che essendo alla prima esperienza è aperto a tutte le
proposte possibili.
Il presbite consolidato ha ormai raggiunto la massima inefficienza accomodativa, per tanto necessita
di essere corretto per le mezze distanze. Risulta essere in definitiva il miglior cliente a cui proporre
la correzione con lenti multifocali progressive.
La correzione oftalmica della presbiopia
Il principio fondante nella correzione oftalmica della presbiopia consiste nell’
identificare la lente positiva più debole, che sommata algebricamente alla correzione dell’ametropia
da lontano, sia in grado di fornire visione confortevole alla personale distanza di lavoro.
La compensazione con lenti monofocali
La compensazione della presbiopia con l’occhiale monofocale prevede due possibilità di realizzo
con caratteristiche di utilizzo abbastanza diverse:
‰
L’occhiale di normali dimensioni
‰
Il mezzocchiale
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La prima soluzione è sicuramente la meno pratica. La montatura di dimensioni normali occupa
tutto lo spazio visivo davanti agli occhi e pertanto ogni qualvolta il soggetto sposta l’attenzione su
punti oggetto posti a distanze diverse (di solito maggiori) da quella di utilizzo, per la quale è stata
calcolata l’addizione, il mondo appare sfuocato al punto da costringerlo a togliere gli occhiali, per
poi di nuovi rimetterli quando vorrà tornare a lavorare alla sua distanza abituale. Tutto questo
“mettere e togliere” risulta talmente difficile da sostenere che prima o poi indurrà il soggetto ad
utilizzare l’occhiale anche a distanze scorrette, introducendo anomali utilizzi dell’accomodazione,
con il risultato di accelerare la progressione della presbiopia o l’instaurarsi, troppo precoce, di
forme di ipermetropia senile.
È chiaro che questa soluzione di compensazione della presbiopia non è adatta a nessuno. È pertanto
opportuno che l’ottico rifugga il più possibile dal proporla a qualsivoglia cliente.
Il mezzo occhiale rappresenta il tentativo di risolvere, almeno in parte, i problemi legati alla
soluzione precedente. L’utilizzo di una montatura tagliata nella parte superiore consente di passare
dalla visione vicina attraverso lenti monofocali alla visione lontana senza nulla davanti agli occhi.
Questa soluzione non è assente da problemi:
1) Eventuali ametropie da lontano rimangono totalmente non corrette, pertanto, in questi casi,
l’osservazione dell’infinito sopra l’occhiale non sarà per niente nitida o quantomeno
confortevole.
2) Se utilizzato da un presbite consolidato, distanze appena maggiori di quella calcolata per
l’addizione saranno percepite sfuocate, provocando nell’utilizzatore strane modifiche della
postura. Come si usa dire, vengono a mancare le mezze distanze.
Questa soluzione, dal punto di vista tecnico può soddisfare soltanto i giovani presbiti emmetropi ,
ma è talmente penalizzante dal punto di vista estetico, da dover essere anch’essa scartata dalla rosa
delle possibili proposte da fare al presbite.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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La compensazione con lenti bifocali
Benjamin Franklin (17 gennaio 1706 - 17 aprile 1790) fu
giornalista, pubblicista, autore, filantropo, abolizionista,
scienziato, diplomatico e inventore statunitense, nonché uno
dei protagonisti della Rivoluzione americana. Affetto da una
marcata
miopia,
trova intollerabile l’avvento della
presbiopia, che lo costringe, per lavorare, ad un continuo
cambio di occhiali. Da uomo geniale, quale egli era, tagliò a
metà due lenti: una da lontano e un’altra da vicino; quindi le
incollò tra loro, usando il balsamo del canadà, un collante che
presenta lo stesso indice di rifrazione del vetro. Inserì in una
montatura la nuova coppia di lenti, tenendo nella parte
superiore la porzione per lontano. Inforcato, l’occhiale
permetteva al suo geniale inventore di vedere bene sia da
lontano che da vicino. Era nato l’occhiale bifocale.
La lente bifocale ha avuto da allora un’evoluzione continua e sono stati proposti diversi metodi di
costruzione e varie forme dei segmenti da vicino.
Per definizione, la lente bifocale possiede due focali. Una per la parte del lontano e una per
la parte del vicino. Le due focali corrispondono ai due poteri omologhi. Dall’ottica geometrica
sappiamo che il potere diottrico di una superficie è definito da:
ϕ=
n −1
R
Volendo nella stessa lente ottenere due zone con poteri diversi, si potrà far variare l’indice di
rifrazione del materiale nel passaggio da una zona all’altra, ovvero mantenere costante su tutta la
lente l’indice del materiale e nel punto di passaggio tra le due zone variare il raggio di curvatura.
Lenti bifocali a variazione di indice
Le lenti che sfruttano la variazione dell’indice di rifrazione tra le due zone, a causa della
forma assunta da quella da vicino, prendono il nome di bifocali a disco fuso.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
37
Il sistema di produzione consiste
nel costruire una lente portante
sulla cui superficie anteriore viene
ricavata una fossetta, entro la quale
verrà fuso un disco di materiale di
indice di rifrazione maggiore. Il
potere della zona per vicino PV è
dato dalla somma algebrica : PV = P2 + P3 + P4 . Qualora la prescrizione per lontano sia
astigmatica, il valore cilindrico deve essere mantenuto anche nella zona del vicino. Allo scopo, la
correzione cilindrica viene costruita sulla faccia opposta a quella ove è ricavata la fossetta. Per
realizzare la lente fotocromatica è preferibile l’utilizzo del sistema a placca, che permette una
maggiore uniformità di colorazione, in quanto, usando vetro fotocromatico sia per la lente di base
che per la pasticca fusa, si genera quasi sempre una maggior intensità di colorazione nella zona
dedicata alla visione vicina.
Le forme normalmente prodotte a disco fuso sono:
a.
Circoletto
b.
Disco ¾
c.
Pantoscopica
Lenti bifocali a variazione di curvatura
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Vengono usualmente denominate “monoblocco”. Il materiale ottico usato può essere sia
vetroso che resinoso e non esistono limitazioni di indice. L’addizione è ottenuta modificando il
raggio di curvatura nella zona deputata alla visione vicina.
Le forme costruttive possibili sono, oltre a quelle già viste per il disco fuso (circoletto, disco ¾ e
pantoscopica) anche l’unghia visibile, invisibile e l’executive.
Nelle forme a circoletto, disco ¾ e pantoscopica
la variazione di curvatura. relativa alla zona del
vicino è ricavata sulla superficie anteriore della
lente, mediante un accorciamento del raggio
Nelle forme a unghia visibile, invisibile ed
executive le variazioni di curvatura sono
ricavate sulla superficie interna della lente,
mediante un allungamento del raggio
Il salto d’immagine.
Un problema per nulla trascurabile nasce nel momento in. cui l’asse visivo del portatore
passa dalla parte del lontano a quella del vicino. In prossimità della zona di separazione si forma un
duplice effetto prismatico determinato dalla distanza che separa i centri ottici, quello del lontano e
quello del vicino, dalla linea di separazione. I due effetti prismatici si sommano quando i prismi
sono accoppiati base/base e apice/apice In un unico caso i due effetti prismatici si sottraggono tra
loro, propriamente quando si verifica l’accoppiamento base/vertice (lente negativa per lontano e
positiva per vicino). In quest’ultima occasione, decentrando in maniera opportuna (più uno
dell’altro) i due centri ottici, si può ottenere la stessa quantità di valore prismatico con l’effetto di
annullare totalmente il salto d’immagine.
In verità questa condizione è realizzabile solo con le lenti ad unghia visibile. Nelle lenti a circoletto
e a disco ¾ la tecnica costruttiva impone regole che non permettono mai l’annullamento del salto
d’immagine. Esso diventa massimo nelle bifocali ad unghia invisibile, a causa dello smusso dello
scalino di separazione.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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Il salto d’immagine modifica la localizzazione degli oggetti nello spazio visivo. La
differenza di effetti prismatici, introdotti dalle due zone della lente sulla linea di separazione,
determina la formazione di una zona cieca tanto più ampia quanto maggiore è il salto d’immagine
Lo spostamento apparente dell’immagine aumenta con:
a. L’aumento dell’addizione
b. L’aumento della distanza apice-lente
c. L’aumento della distanza della linea di separazione dai centri ottici.
Normalmente il sistema visivo riesce a compensare il salto d’immagine attraverso rapidi movimenti
saccadici degli occhi, in funzione del fatto che il sistema corticale elimina le immagini percepite
durante le saccadi ed elabora solo quelle percepite all’inizio e alla fine del movimento.
La compensazione con lenti progressive
“La lente progressiva è una lente che sfruttando le diverse posizioni assunte dagli assi visivi, nel
passaggio dalla visione per lontano a quella per vicino, permette una percezione distinta degli
oggetti posti in varie zone dello spazio”.
Da tale definizione si comprende quanto sia importante individuare punto per punto quali sono le
porzioni di lente che vengono intersecate dagli assi visivi quando passano dalla posizione primaria
(assi paralleli) a quella secondaria di convergenza a 33cm.
La congiunzione di tutti questi punti chiamasi “linea meridiana principale.”
Partendo dalla semiparte superiore di questa
linea, ove sarà posizionato il potere da lontano,
man mano che ci si sposta verso il basso, il
potere della lente dovrà aumentare senza
soluzioni di continuità fino a raggiungere un
massimo prestabilito nella semiparte inferiore.
Come è ben conosciuto da chi sa di ottica
geometrica, la potenza di una superficie
rifrangente dipende dall’indice di rifrazione del materiale di cui è fatta e dal suo raggio di curvatura.
Risulta evidente che, costruendo una lente progressiva, non è possibile agire sull’indice di
rifrazione; e quindi la variazione di potere potrà essere ottenuta attraverso la costruzione di una
superficie a raggio variabile.
Una lente multifocale con la zona di progressione costruita attorno alla linea meridiana
principale non dovrebbe teoricamente, ma solo teoricamente, creare alcun problema di adattamento.
40
Visto che ciò non è quasi mai vero, è necessario individuare da cosa dipenda la presenza di tutte le
sgradevoli sensazioni visive che accompagnano l’individuo nei primi giorni d’uso del suo occhiale
multifocale.
Tali cause sono:
•
La standardizzazione della postura.
•
L’astigmatismo di superficie.
La standardizzazione della postura.
Progettare e costruire una lente con progressione di curvatura lungo una linea meridiana,
significa stabilire a priori quali dovranno essere le posizioni degli occhi e conseguentemente del
capo e del busto che consentano di sfruttare al meglio le potenzialità della lente a tutte le distanze.
La
molteplicità
abitudini,
delle
delle
professioni,
conformazioni
delle
fisio-
anatomiche, delle necessità visive in genere,
ovviamente non consente di pensare che possa
esistere un’unica postura ideale. Pertanto,
nonostante gli sforzi dei progettisti, si giunge
ad una condizione di compromesso.
Sarà l’utente che dovrà imparare e modificare
alcune sue abitudini posturali per eliminare le
anomalie
visive
indotte
dalle
superfici
progressive.
Anche nella più comune attività visiva da
vicino: la lettura in posizione seduta,
l’utilizzo della lente progressiva impone una significativa variazione di postura sia nel campo
verticale che in quello orizzontale.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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Nel campo verticale, infatti, l’inclinazione
media del capo deve ridursi dagli abituali 45° a
non più di 35°, di conseguenza l’infraduzione
degli assi visivi dovrà aumentare di altrettanto.
Orizzontalmente,
l’ampiezza
di
campo
normalmente richiesta è di circa 36°; una lente
progressiva
per
soddisfare
tale
ampiezza
dovrebbe avere una zona per vicino di circa
18mm di grandezza, cosa questa che nella
maggior parte dei casi non avviene; l’utente è
quindi costretto a ruotare continuamente il capo
per seguire nitidamente lo scritto.
I necessari adattamenti di postura non sono
sempre facilmente assimilabili dai presbiti trattati con lenti multifocali. In molta parte dei casi
trattasi di persone, che in ragione dell’età, non possiedono un’adeguata plasticità del sistema
muscolo\scheletrico, e comunque poco disponibili a modificare abitudini consolidate da una vita.
Nel proporre la correzione con lenti progressive, è opportuno che vengano anticipate tutte le
possibili difficoltà derivanti dalla necessità di mutamento della postura, in modo che non siano una
spiacevole scoperta, ma qualcosa di atteso e magari sopravvalutato. Se poi l’anamnesi avesse
evidenziato particolari abitudini posturali (leggere a letto, guardare la Tv in posizione supina ecc.),
è bene non esitare nel proporre, a fianco dell’occhiale progressivo, l’acquisto di un sussidio
monofocale da usare in tali particolari condizioni postutali.
L’astigmatismo di superficie.
Nelle lenti progressive, usualmente, la superficie anteriore è costruita con curvatura
variabile, mentre quella interna riporta le curvature necessarie per la compensazione dell’ametropia
di base. L’aumento del raggio di curvatura della superficie esterna produce l’incremento di potenza
richiesto (addizione).
L’effetto, non voluto, ma che risulta impossibile eliminare totalmente, è che ad ogni variazione di
curvatura, oltre a corrispondere la voluta variazione sferica del potere, si associa un’indesiderata
componente cilindrica con un suo preciso orientamento (asse) che va aumentando di valore man
mano che ci si allontana dalla linea mediana principale.
42
Questa componente cilindrica, detta astigmatismo di superficie, è più o meno presente su tutta la
superficie della lente e, visto che dipende dai progressivi aumenti della curva anteriore, sarà
proporzionatamente più elevata nelle addizioni maggiori dove si rendono necessari maggiori e più
frequenti mutamenti del raggio di curvatura.
Si è riscontrato che, dal punto di vista visuo\percettivo, viene agevolmente tollerata la presenza di
astigmatismi di superficie fino a un massimo di 0,50 dt.: le aree della lente che rimangono entro tale
valore sono definite aree funzionali (utilizzabili) e corrispondono normalmente alla zona relativa
alla linea meridiana principale.
Il resto della superficie, interessata da astigmatismi superiori, costituisce l’insieme delle così dette
aree laterali, dove i valori cilindrici possono anche raggiungere le 3 dt.
a. Distribuzione delle aree funzionali e
non sulla superficie di una lente
progressiva.
b. Modifica
del
valore
dell’addizione
all’interno del canale di progressione
A complicare ulteriormente la situazione si associa il fatto che tali componenti astigmatiche spesso
presentano evidenti variazioni, tra punto e punto, della direzione dell’asse.
Il risultato percettivo riscontrato dall’utilizzatore della lente sono le ben conosciute sensazioni di
“mare mosso” (vertigine, ondulazione dello spazio laterale, ecc.).
Riveste fondamentale importanza per l’ottico, che deve scegliere la lente più idonea, poter
valutare la qualità costruttiva delle lenti a disposizione. Questa valutazione può svolgersi solo
avendo a disposizione una serie di grafici che ogni azienda costruttrice dovrebbe fornire. I più usati
sono:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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•
Le matrici a punti. Viene fotografato un
reticolo a cerchi attraverso la lente: la foto
mostra le distorsioni introdotte nei vari
punti,
ma
non
fornisce
nessuna
informazione sulla quantità e direzione degli
astigmatismi di superficie.
•
La mappa dei vettori. I segmenti indicati
sulla
mappa
sono
proporzionali
all’astigmatismo presente e l’orientamento
ne definisce l’asse.
•
La
mappa
isoastigmatica.
Indica
la
distribuzione dell’astigmatismo di superficie
mediante linee che congiungono i punti con
uguale valore. Questa mappa consente
definire bene la qualità dell’area del lontano,
l’ampiezza e la posizione di quella del
vicino, la configurazione del corridoio di
progressione, l’ampiezza e la qualità delle
aree laterali.
44
•
I
Plateaux
spaziali.
rappresentazione
mappa
Sono
tridimensionale
isoastigmatica
senza,
la
della
però,
le
indicazioni quantitative.
Evoluzione delle lenti progressive
A partire dal primo progetto di una superficie progressiva (Aves 1907) e ancor di più dopo il
1959, quando venne presentata sul mercato europeo Varilux , numerosi sono stati i successivi
prototipi e realizzazioni sempre più raffinati di lente progressiva. Considerando le geometrie
costruttive che man mano sono state proposte, è possibile fornire una classificazione tecnicotemporale della evoluzione della lente progressiva negli ultimi 50 anni.
I Generazione. In questa fase le
progressioni
sono
ottenute
susseguirsi
di
superfici
raccordate
strettamente
con
sferiche
in
il
,
un’area
centrale, che va a formare il corridoio di
progressione ottica a basso astigmatismo
di superficie, con una lunghezza variabile
tra i 10 e i 16 mm.
La presenza di variazioni di curva di tipo sferico produce un veloce incremento degli astigmatismi
di superficie appena ci si distanzia dalla linea meridiana centrale. In tal modo l’aumento di
addizione procura un rapido restringimento della canale utile alla visione. Questi lenti funzionano
bene solo peri utilizzi statici, mentre l’utilizzo dinamico è caratterizzato da una evidente distorsione
dello spazio tale da essere difficilmente tollerata.
Influenza del valore di addizione nella
ampiezza delle aree funzionali della lente
45
Inoltre la progressione è distribuita sulla
superficie della lente in modo simmetrico. In
pratica ogni lente può essere usata sia come
destra che sinistra. Alfine di ottenere l’adeguato
decentramento nasale della zona per vicino la
lente viene ruotata nella fase di marcatura.
Questa tecnica introduce un evidente disturbo
della binocularità nelle lateroversioni, in quanto
le aree nasali e tempiali della lente destra non presentano la stessa congruità d’immagine di quelle
della lente sinistra.
II Generazione
Nelle
lenti
di
seconda
generazione, la necessità di
ridurre
gli
astigmatismi
di
superficie
portò
alla
progettazione
di
che
avevano
la
curve
caratteristica
di
diminuire il loro raggio man
mano che procedevano verso la
periferia (curve non sferiche).
Le caratteristiche di queste curve
sono tipiche di tutte le lenti asferiche. Derivano dalla famiglia delle coniche , sono infatti ottenute
sezionando un cono con un piano non perpendicolare all’asse. Nel centro di riferimento da lontano
corrisponde l’unica curva sferica (cerchio) che si modifica verso l’alto in elissi oblate e verso la
zona del vicino prima in elissi prolate, quindi in parabole ed infine in iperboli
Questa soluzione costruttiva ha il vantaggio, rispetto alla precedente di rendere molto più
“dolci” le zone di raccordo, riservando maggiori spazi alle aree a basso valore di astigmatismo di
superficie. Nella sezione verticale l’aumento del potere è perfettamente garantito nei termini
dell’addizione richiesta; nella sezione orizzontale, al di sopra del punto di centraggio da lontano il
potere aumenta verso la periferia. Al di sotto del centro per lontano, al contrario, procedendo verso i
bordi della lente, il potere diminuisce.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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La variazione orizzontale di potenza
Questa variazione di potenza nella
sezione orizzontale va considerata con
attenzione.
Innanzi tutto è da dire che l’aumento di
potere nella zona periferica del lontano è
più modesta della variazione negativa della
zona periferica del vicino.
Comunque queste variazioni influiscono positivamente nell’utilizzo delle aree laterali della lente
progressiva. Infatti l’osservazione di oggetti posti lateralmente necessita:
‰
Di una potenza maggiore nella visione di oggetti a distanza, data la posizione più vicina alla
lente di quanto si osserva
‰
Di una potenza minore nella visione vicina, data la maggiore distanza dei punti osservati
rispetto alla visione centrale.
Questi aspetti visivi positivi possono diventare disagi in presenza di una scorretta prescrizione
optometrica.
In effetti, il concetto che più bassi sono i valori di addizione più confortevole è l’uso di lenti
progressive induce molti prescrittori a sottocorregere la miopia e a sovracorregere l’ipermetropia.
Alla luce di quello che si è detto riguardo alla variazione orizzontale dei poteri, nulla potrebbe
essere più sbagliato. Infatti un miope sottocorretto da lontano, oltre a non avere una perfetta visione
nella zona centrale della lente, ne avrà una ancor peggiore nelle zone laterali.
L’ipermetrope sovracorretto da lontano sarà continuamente invogliato ad usare le aree laterali per la
visione in distanza. e quindi indotto ad assumere strane posture del capo
Per quanto riguarda la visione da vicino, visto che il potere positivo dell’addizione tende
lateralmente a diminuire si è diffusa l’idea che nei soggetti che utilizzano le lenti prevalentemente
da vicino sia meglio aumentare lievemente, ma comunque oltre il giusto, il valore dell’addizione.
Per costoro è bene ricordare che un eccesso di addizione provoca:
‰
Un aumento dell’astigmatismo di superficie su tutta la lente
‰
Un restringimento del canale di progressione
‰
Una perdita di profondità di fuoco nella zone del vicino
Riassumendo, gli effetti immediati che furono resi disponibili con l’introduzione delle curve
asferiche sono:
•
Maggior controllo degli astigmatismi laterali
•
Aumento dell’ampiezza del canale di progressione
47
•
Leggero aumento del potere periferico della zona del lontano
•
Leggera diminuzione del potere periferico della zona del vicino
Tipologie
La possibilità di controllare la distribuzione degli astigmatismi di superficie nelle zone laterali
attraverso gli incrementi negativi più o meno accentuati delle curve di progressione permise di
produrre lenti con diverse concezioni di utilizzo.
Le tipologie che si affermarono maggiormente furono due:
•
Lente Hard
•
Lente Soft
Il tipo Hard è una lente che privilegia le due zone funzionali principali: quella del lontano e
quella del vicino. Comprimendo molto nelle zone non funzionali gli astigmatismi di superficie si
ottiene, infatti, un significativo aumento di ampiezza (facilità di utilizzo) delle due zone principali a
scapito, però, del corridoio di progressione che risulta particolarmente breve e stretto.
La funzionalità di questo prodotto ricorda un po’ quella delle lenti bifocali; ad una buona qualità
visiva del tutto lontano e del tutto vicino si affianca una difficoltosa gestione “dell’intermedio”.
Durante la deambulazione l’effetto “mare mosso” è decisamente evidente.
Il tipo Soft è una lente in cui il corridoio di progressione ha una maggior lunghezza e
ampiezza, le zone principali sono più sacrificate in ampiezza, l’astigmatismo di superficie è
distribuito su aree più grandi e quindi il suo gradiente di variazione è molto debole. È una lente che
si adatta molto al presbite con necessità visive nel vicino e nell’intermedio; risulta essere di facile
adattamento e di buon confort.
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Da questi due concetti costruttivi prendono le mosse i progetti di tutte le più moderne lenti
progressive. Ogni costruttore, infatti, tenta di realizzare un prodotto che assommi le caratteristiche
positive di entrambe le tipologie al fine di ottenere visione ottimale a tutte le distanze e basso
impatto funzionale nella fase di adattamento.
La costruzione asimmetrica
Uno dei grandi passi avanti compiuti nelle lenti progressive di
seconda generazione è stato il passaggio dalla vecchia costruzione
simmetrica a quella asimmetrica. Si inizia a pensare le lenti
progressive come lente destra e lente sinistra, ben identificate e
non intercambiabili. La prima importante innovazione su questa
strada fu la creazione di un decentramento dell’area del vicino
rispetto a quella del lontano, in modo che non fosse più necessario
ruotare la lente.
Tale decentramento prende il nome di inset Il suo valore viene
calcolato in base alla variazione che la distanza interpupillare
monoculare da lontano subisce quando gli occhi convergono per
la visione vicina. Come si ricorderà tale valore oscilla tra i 2 e i
2,5 mm. Le lenti progressive di seconda generazione
cominciarono ad essere costruite con un inset fisso di 2,5 mm.
L’equilibratura dello spessore
In tutte le lenti progressive di I e II generazione la progressione è a carico della superficie
esterna della lente, mentre il potere da lontano, sia sferico che cilindrico, è ottenuto lavorando la
superficie interna.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
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L’aumento
della
curvatura
della
superficie
esterna
produce
ovviamente una diminuzione sensibile dello spessore al bordo nella
zona bassa della lente in evidente contrasto con la parte superiore
decisamente più spessa, introducendo problemi non solo di tipo
estetico, ma anche di montaggio.
Nella tabella seguente sono indicati gli spessori (in millimetri) che
una lente progressiva con potere da lontano sf.+1.00 e Ø70 assume al
variare dell’addizione
Spessore al bordo
Spessore al bordo
alto
basso
3,2
1,7
1,1
2.00
4,2
2,6
1,0
3.00
5,1
3,6
1,0
Valore dell’addizione
Spessore al centro
1.00
Per ovviare a tale difformità si è pensato di costruire la superficie
interna decentrata rispetto a quella esterna. Viene così eliminata una
porzione di lente corrispondente ad un prisma a base alta. Ciò che
residua è una lente a spessori ridotti e omogenei con la zona del
lontano non più centrata per effetto della presenza di un prisma
verticale a base bassa misurabile nel centro geometrico della lente
(2mm sotto la croce di centratura) di valore di 0,4 – 0,7
dell’addizione (vedi tabella succ.).
Questa lavorazione è oggi applicata di serie a tutte le lenti positive,
mentre per le negative, visto che il guadagno nell’assorbimento dello spessore è minimo, molti
costruttori lo prevedono solo come lavorazione speciale su richiesta.
Add.
0,50-1,0
1,25
1,5-1,75
2,00
2,25-2,5
2,75
3,0-3,25
3,50
Prisma
0,50
0,75
1,00
1,27
1,50
1,75
2,00
2,25
La modifica dei valori di spessori (centrale e al bordo) che si ottengono con l’inserimento del
prisma di bilanciamento sono esposti nella seguente tabella:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
50
Spessore al bordo
Spessore al bordo
alto
basso
2,9
1,1
1,0
2.00
3,5
1,3
1,0
3.00
4,0
1,4
1,0
Valore dell’addizione
Spessore al centro
1.00
Dal confronto della due tabelle si possono sintetizzare i vantaggi del prisma di alleggerimento
‰
Spessori ai bori equilibrati e ridotti
‰
Estetica della lente migliore
‰
Montaggio migliore
‰
Spessore al centro ridotto (per le positive)
‰
Peso ridotto
III Generazione.
La salvaguardia della binocularità
Nel più recente periodo viene affrontata la necessità di salvaguardare al massimo la
binocularità anche durante l’utilizzo della visione laterale.
Rispetto alla visione centrale, l’osservazione di un punto laterale comporta una rotazione
sempre maggiore dell’occhio opposto alla direzione di rotazione (es.: se si guarda a destra, l’occhio
sinistro deve ruotare di più del destro). Pertanto gli assi visivi andranno ad incrociare la lente in
zone poste a distanza diversa dalla linea mediana.
A queste diverse zone delle due lenti devono essere associate caratteristiche congrue che
consentano la corretta fusione delle immagini. Naturalmente anche gli effetti prismatici,
naturalmente diversi perché diverso è il decentramento, dovranno essere equilibrati per evitare
l’insorgenza di forie indotte difficilmente compensabili
E. Bottegal – Ottica oftalmica
51
L’inset variabile.
Nelle lenti progressive l’area del vicino è identificata
dal circoletto, entro il quale è rilevabile strumentalmente
il potere; contemporaneamente, però, quest’area non
contiene il centro ottico, che rimane posizionato lungo
la verticale passante per il centro da lontano. Quindi
l’area del vicino nelle lenti progressive non è un’area
centrata, ma bensì un’area prismatica orizzontale che
assume orientamento a base esterna nelle lenti positive e
a base interna in quelle negative, il cui valore dipende
dalla potenza in gioco (lontano+addizione).
La presenza del prisma costringe il portatore a variare la
propria convergenza (in + o in – a seconda
dell’orientamento della base) e quindi gli assi visivi
andranno ad interessare una zona diversa da quella
prevista ove è garantita sia l’assenza di distorsioni che
la bontà del potere.
Per ovviare a questo inconveniente, le aziende
più all’avanguardia prevedono la costruzione
della lente con la possibilità di variare l’inset,
aumentandolo
nelle
lenti
positive
e
diminuendolo in quella negative, con un range
di variazione tra 2 e 5mm.
L’inset variabile ha costituito un primo passo
avanti nel concetto di “personalizzazione” della
lente multifocale.
Come si è potuto finora vedere, ogni costruttore di lenti progressive standardizza il suo
prodotto su una serie di parametri che possano adattarsi alla maggioranza dei potenziali utilizzatori
di tali lenti. Più parametri vengono inseriti (visione statica, visione dinamica, inset variabile ecc.)
maggiormente la lente, così prodotta, ottiene il gradimento di una sempre maggiore fetta di utenza.
L’adattarsi bene, con soddisfazione, all’occhiale progressivo dipende da quanto la
costruzione delle lenti e il relativo montaggio si adattano allo stile di vita e di lavoro di ciascuno. La
52
scelta della montatura, nel suo adattarsi al volto del portatore, gioca un ruolo altrettanto
fondamentale.
Prendendo sempre più coscienza di questi aspetti, a partire dall’anno 2000 alcuni produttori hanno
intrapreso una serrata ricerca per costruire lenti progressive sempre più personalizzate e quindi
meno invasive per le abituali condizioni visive. La lente viene costruita a partire da una serie di
misure e progettata in condizioni di reale utilizzo.
La geometria interna e l’aumento della parametrizzazione.
Tra le varie novità proposte nel recente periodo, una sicuramente significativa è stata quella
di realizzare la progressione, non sulla faccia esterna della lente, bensì su quella interna,
associandola all’eventuale correzione per lontano.
I vantaggi ottenuti in termini di comfort di adattamento sono innegabili. La lavorazione progressiva
interna, infatti, agendo su una curva di tipo negativo, dovrà produrre un allungamento, e non un
accorciamento, dei raggi di curvatura, quindi i raccordi tra le curve risultano essere più “dolci” e il
gradiente più basso. Il mantenere sferica monocurva la faccia esterna non produce fastidiose
variazioni di ingrandimento e per finire, essendo la faccia interna più vicina all’occhio, si ottiene un
pur lieve incremento del campo visivo.
Questa scelta obbliga ad abbandonare la possibilità di costruire un’ampia gamma di superfici
progressive partendo da un unico semilavorato (come avviene nelle progressioni su faccia esterna),
bensì è necessario lavorare e costruire la lente in modo sempre diverso, partendo ogni volta dalle
singole prescrizioni.
Non essendo più vincolati ad un semilavorato e dovendo in ogni caso costruire, totalmente
ogni volta, la lente, permette, a richiesta dell’ottico, di inserire nella costruzione tutta una serie di
parametri personalizzati sia sulle caratteristiche del futuro utilizzatore sia sulla montatura
selezionata.
Le personalizzazioni più normalmente richiedibili sono:
•
La distanza interpupillare per un inset variabile.
•
La distanza apice corneale \ lente
•
La dimensione della montatura che determina la corretta posizione della lente davanti
all’occhio
•
L’inclinazione pantoscopica
•
La piegatura del frontale
•
La distanza di lavoro.
53
A scapito di questo notevole processo di personalizzazione, c’è da dire che i costi di realizzazione
di queste lenti sono talmente elevati da rappresentare, almeno oggi, un prodotto destinato ad un’elite
di consumatori particolarmente esigenti, ma anche abbienti.
Inoltre, il senso di una sempre più raffinata personalizzazione viene a perdersi se i valori
parametrizzabili dal costruttore vengono rilevati in modo scorretto e poco affidabile.
Progressioni a campo corto.
Tra le lenti personalizzate, merita un accenno la progressiva a campo corto (OFFICE) che
utilizza campi di visione nitida compresi tra i 40cm e i 2m. Tale prodotto è un’adeguata risposta al
giovane presbite che richiede solo di poter lavorare in scrivania con serenità e agevolezza.
La lente è costruita con le caratteristiche del disegno soft, con addizioni molto contenute (0,751,25).
54
Il risultato è un prodotto a bassissimo gradiente e con un massimo contenimento degli astigmatismi
laterali. Non è pertanto richiesto al portatore alcun sforzo di adattamento.
La progressiva a campo corto può senz’altro essere considerata, anche per il costo basso, un ottimo
veicolo di introduzione all’uso futuro di lenti a progressione completa.
Variazione della lunghezza del canale di progressione
Fino a qualche tempo fa in qualsiasi lente progressiva la lunghezza della progressione
oscillava intorno ai 17mm; la qual cosa richiedeva che la montatura scelta garantisse uno spazio
verticale sufficiente a contenerne l’intero sviluppo, affinché la zona del vicino venisse totalmente
sfruttata (min. 22 mm).
Con l’avvento della moda delle montature verticalmente strette tale necessità non poteva più essere
rispettata. Pertanto la maggior parte dei produttori ha inserito nella gamma delle loro lenti
progressive la tipologia a “canale corto” che richiede una altezza di montaggio (croce-bordo
inferiore) tra i 16 e 19 mm.
È chiaro che le lenti a canale corto presentano degli standard di utilizzo sicuramente un po’ diversi
dalle sorelle tradizionali e quindi è bene, per fare una scelta adeguata, valutare tutte le condizioni in
gioco.
Canale di progressione lungo:
•
Area del vicino più bassa, ma più larga
•
Ottima utilizzazione alle medie distanze
•
Maggiore influenza sulla postura abituale
•
Maggiore necessità di rotazione degli assi visivi
Canale di progressione corto:
•
Maggiore rispetto della postura abituale
•
Rapidità di utilizzo delle zone principali (lontano e vicino)
•
Scarsa performance alle medie distanze
Per fare una scelta ragionata dell’uno o dell’altro prodotto (ammesso che in questa professione
esistano regole) può essere utile saper rispondere alle seguenti domande:
55
•
Il cliente presenta motilità del capo e degli occhi normali?
•
L’utilizzo previsto dell’occhiale sarà statico o dinamico?
•
Quale è il grado di riserva accomodativa disponibile?
Fatto ciò, le scelte potrebbero essere così articolate:
Lente corta adatta:
•
Ai giovani presbiti e presbiti emmetropi. Costoro non abbisognano dell’utilizzo del canale di
progressione in quanto possiedono ancora una discreta ampiezza accomodativa che permette
loro di vedere agevolmente le mezze distanze con il potere da lontano.
•
A chi ha problemi di correzione della postura
•
Ai portatori di bifocali (montate bene). Sono soggetti già abituati alla mancanza dell’intermedio
Lente lunga adatta:
•
Ai presbiti consolidati, già adattati a lenti progressive
•
A chi svolge prevalentemente lavori di scrivania
La scelta della lente.
Aver capito che le lenti progressive non sono tutte uguali implica operare, con il giusto
discernimento, quale lente proporre e vendere nella varia casistica di presbiti che ci si possono
presentare.
Gli aspetti che è opportuno tenere in considerazione sono:
•
Attenta analisi del portatore
•
Se possibile, un buon controllo optometrico
•
Un’adeguata scelta della montatura
•
Una perfetto montaggio
•
Ampie informazioni e istruzioni al portatore
•
Assistenza postvendita
L’analisi del portatore
Il potenziale cliente di lenti progressive va valutato secondo due linee guida:
a. L’analisi della prescrizione (il suo difetto visivo)
b. L’analisi dell’individuo
L’analisi della prescrizione
L’individuo miope necessita di assoluta e precisa correzione del lontano. L’occhiale
progressivo dovrà garantire al massimo questa funzione. La prescrizione del lontano dovrà essere il
56
più possibile totale e l’area deputata a questa visione dovrà essere la più ampia possibile e quindi
assente da disturbi. La visione vicina riveste minore importanza, anche se non deve essere
trascurata. Il miope di lieve e media entità normalmente utilizza l’occhiale progressivo per la vita di
relazione, mentre il lavoro prossimale e ancor più la lettura di svago preferisce svolgerli senza
occhiali, ponendo gli oggetti in prossimità del suo punto remoto.
La geometria costruttiva che maggiormente si attaglia a tutte queste caratteristiche è quella hard
L’ipermetrope generalmente giunge alla lente progressiva per risolvere eminentemente i suoi
problemi da vicino e alle mezze distanze. Meno attenzione è posta alla visione lontana che
normalmente è risolta dall’atto accomodativo. La lente ideale è pertanto quella che ottimizza il
canale di progressione e la zona del vicino: la geometria Soft.
L’emmetrope è il cliente più difficile. Abituato ad avere eccellente capacità visiva a tutte le
distanze, soffre maggiormente l’avvento della presbiopia ed è meno incline di altri a soluzioni di
compromesso che non lo riportino ad una visione totalmente confortevole. A costoro è opportuno
consigliare in prima battuta la lente a campo corto (Office), che offre un gradiente di potere molto
dolce e un eccellente contenimento degli astigmatismi laterali. Una volta utilizzato per un certo
periodo questo tipo di correzione , il passaggio alla progressiva totale sarà accettato con notevole
facilità.
Le prescrizioni complesse.
È opportuno stabilire subito che non esiste alcun supporto scientifico per definire alcuni difetti
visivi incompatibili con l’uso di lenti progressive.
Esiste, caso mai, il buon senso.
Pertanto si può affermare che è meglio evitare l’utilizzo di lenti progressive nei casi
•
di elevato (oltre 3 dpt) astigmatismo contro regola
•
di elevata anisometropia
•
di elevata modifica dei valori correttivi
L’analisi dell’individuo.
L’occupazione e lo stile di vita sono elementi che se conosciuti possono risolvere con
grande successo la vendita di un occhiale progressivo. Il soggetto che passa la maggior parte del suo
tempo lavorando a scrivania e/o al videoterminale, che normalmente coltiva hobby di tipo statico e
casalingo avrà grandi soddisfazioni utilizzando una geometria Soft. Mentre un lavoratore dinamico,
poco frequentatore di scrivanie, oppure colui che il tempo libero lo impiega prevalentemente all’aria
aperta privilegerà soprattutto la buona visione lontana e quindi adatta sarà una lente Hard o meglio
ancora una geometria interna.
57
La scelta della montatura.
Troppo spesso oggi accade che sia il cliente ad imporre la scelta della montatura, basandosi
ovviamente solo su concetti di fashion.
Occorre pertanto riaffermare il concetto che un occhiale multifocale è un prodotto ad alta
tecnologia, la cui scelta deve seguire precise esigenze tecniche che non sempre si sposano con la
moda.
Ricordiamo, brevemente, gli aspetti più salienti della scelta:
•
La forma. In una lente progressiva i punti estremi
di visione lontano-vicino distano tra di loro dai 13
ai 17mm con un decentramento orizzontale della
zona per vicino variabile tra i 2 e i 4,5mm. È
necessario quindi che la scelta della forma non
penalizzi alcuna di queste caratteristiche, come
potrebbe accadere adottando forme a goccia o
particolarmente sfuggenti nella parte inferiore od
ancora forme eccessivamente “corte” sull’asse
che taglia la zona del vicno
longitudinale.
•
La linea rossa indica la forma scosigliata
Le dimensioni. La condizione ideale consiste nella scelta di una montatura il cui
scartamento si avvicini il più possibile alla distanza interpupillare. Ciò consente di ridurre al
minimo il diametro della lente con conseguente ottimizzazione degli spessori e dei
decentramenti.
•
Adattabilità. La montatura, una volta calzata, deve avere la massima stabilità davanti agli
occhi; un occhiale ballerino continua a proporre agli occhi porzioni di lente non congrue con
la postura, con conseguente difficoltà di adattamento. Occorre inoltre controllare che la
montatura indossata presenti un’inclinazione angolare del suo piano frontale di circa 8-12°
verso l’interno, al fine di mantenere costante la distanza delle lenti dal centro di rotazione
degli occhi quando si passa dal lontano al vicino. L’avvolgimento del frontale deve essere
intorno ai 5°. A questo riguardo si considerino a rischio le montature in acetato prodotte da
lastra di spessore inferiore ai 6mm. Tali prodotti infatti, con l’uso e anche con il semplice
calore del viso tendono a perdere la curvatura inizialmente data dal costruttore.
58
Dopo aver scelto la montatura è necessario
rilevare l’esatta altezza a cui dovranno essere montate
le lenti. Per fare ciò è necessario fissare, con un
pennarello, sulla lente di presentazione di ambo gli
occhi il punto ove cadono gli assi visivi con lo sguardo
in posizione primaria (sguardo all’infinito). Tale punto
coincide con il centro pupillare.
Per non commettere errori è necessario porsi
perfettamente di fronte al cliente,
in
modo
che
dell’esaminato
gli
occhi
e
quelli
dell’esaminatore siano alla stessa
altezza. L’eventuale disparità di
statura costituisce una facile fonte
di errore che si può agevolmente
evitare eseguendo l’operazione da
seduti. Come si è detto, durante la
marcatura, il cliente, con il capo in
posizione
eretta,
dovrebbe
guardare
all’infinito,
ciò
non
risulta possibile, in quanto il viso
dell’esaminatore
si
trova
perfettamente di fronte a quello
59
del cliente. Per ottenere ugualmente la posizione primaria degli occhi, durante l’operazione di
marcatura, basta dire al cliente di fissare alternativamente l’occhio dell’esaminatore omolaterale a
quello su cui si sta lavorando
Una volta completata l’operazione, è bene controllare che i punti segnati siano alla stessa altezza
dal bordo inferiore della montatura; se dovessero risultare differenze, si fa calzare di nuovo la
montatura e si osserva quale delle due marcature è maggiormente centrata sulla pupilla del cliente e
si registra questa misura come altezza definitiva di montaggio per ambo le lenti.
Il montaggio.
Una volta scelta opportunamente la montatura è necessario definire le dimensioni delle lenti
da ordinare affinché siano centrabili con la distanza interpupillare dell’utilizzatore. Questa
operazione può essere fatta con lo stesso sistema di calcolo che si usa per le monofocali, ma risulta
più semplice e maggiormente a prova di errore utilizzare il regolo comparatore, che tutte le aziende
produttrici di lenti forniscono.
La montatura va appoggiata sul regolo in funzione del
ponte. Si imposta in verticale la croce di centraggio in
corrispondenza del rilevamento del centro da lontano,
segnato sulla lente di presentazione. L’operazione deve
essere svolta un occhio alla volta e consente di leggere il
diametro minimo della lente, utilizzando i cerchi
concentrici segnati sul regolo.
Attraverso questa procedura è anche verificabile che l’area del vicino rimanga interamente e
sufficientemente inserita nel cerchio della montatura. Se ciò non fosse, sarà necessario, se possibile,
ridurre la lunghezza del canale ovvero indirizzare il cliente verso un’ulteriore scelta della
montatura.
60
La centratura delle lenti è condizione basilare affinché l’occhiale progressivo possa essere
ben tollerato. Quando se un utilizzatore dichiara di avere difficoltà ad adattarsi, la prima cosa da
fare è controllare il centraggio delle lenti. Per fare ciò si deve essere in grado di ritracciare sulla
superficie della lente i punti di centratura lontano e vicino.
A questo scopo, esistono sulla
lente
ue
marcature
dell’addizione, poste nelle zone
laterali e distanti tra loro 34 mm.
Queste
marcature
facilmente
visibili
indelebili,
anche
a
occhio nudo, devono essere
messe
in
corrispondenza
a
quelle disegnate sul regolo.
A questo punto si possono, con un pennarello, ricopiare per trasparenza sulla superficie della lente i
punti di centraggio.
La consegna dell’occhiale
Alla consegna dell’occhiale devono essere ancora presenti sulle lenti le marcature originarie
al fine di poter controllare la corretta posizione dei centri pupillari per lontano e per vicino secondo
la procedura scelta per il montaggio. Va inoltre controllato il perfetto assetto della montatura
indossata e fornite al cliente tutte le indicazioni per un uso corretto.
È buona cosa far eseguire al cliente, con l’occhiale indossato, tutte le operazioni visive che
abitualmente si fanno nella vita quotidiana:
‰
Guardare lontano
‰
Leggere uno scritto
‰
Camminare
‰
Evitare rotazioni repentine del capo
Concludendo…
Il successo di un occhiale progressivo è soprattutto legato all’attenzione che si è saputa porre nel
valutare la persona alla quale lo abbiamo venduto.
Se ne avremo valutato bene
•
l’occupazione,
•
lo stile di vita,
61
•
le abitudini visive,
•
il suo modo di camminare,
•
la sua naturale postura nel leggere
Se gli avremo trasmesso tutte le necessarie istruzioni come ad esempio:
•
corretta posizione dell’occhiale sul viso
•
evitare osservazioni laterali
•
postura corretta durante il lavoro da vicino
e soprattutto se l’avremo preavvertito di tutti i possibili disagi che potrà provare nei primi giorni e
di cui non si dovrà spaventare, perché destinati a scomparire, è possibile che gli insuccessi nelle
vendite di occhiali progressivi rimangano solo un ricordo.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
62
LA MONTATURA
Nomenclatura.
Per montatura s’intende l’occhiale senza lenti. Nella lingua inglese vengono utilizzati due
termini: mount per indicare le montature a giorno, prive di struttura portante, e frame per indicare la
montatura tradizionale, completa in tutte le sue parti.
Quando si parla di Occhiali si intende l’insieme della montatura e delle lenti che saranno utilizzate
per rendere nitida la visione o per proteggere gli occhi dalle radiazioni dannose. È quindi scorretto,
volendo parlare di occhiali protettivi, indicarli come montature da sole.
La montatura è, a sua volta differenziabile in alcune parti e più precisamente:
1) Frontale: comprende i due cerchi, il ponte e i musetti
2) Cerchi: sono detti anche anelli o occhi. Sono la parte del frontale che circonda e blocca le
lenti nella loro corretta posizione.
3) Ponte: è la parte del frontale che lega insieme i due cerchi, che normalmente sovrasta la
sella nasale dell’utilizzatore.
4) Naselli: sono un prolungamento del ponte. Consentono un adeguato appoggio della
montatura sul naso dell’utilizzaatore.
5) Stanghette: dette spesso anche aste. Sono dei sostegni collegati ai musetti per mezzo di
cerniere che consentono l’appoggio della montatura sugli orecchi
6) Musetti: sono le due estremità laterali del frontale, su cui, per mezzo di cerniere, si fissano le
aste.
Dimensioni.
La dimensione della montatura è definita dai suoi parametri costruttivi basilari che sono:
•
Il calibro (diametro orizzontale dell’ “occhio”)
•
Il ponte (distanza che separa i due occhi)
Tali parametri sono obbligatoriamente indicati dal costruttore e riportati generalmente
all’interno delle astine, più raramente all’interno del ponte.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
63
Risulta evidente che queste misure possono variare a seconda del modo in cui vengono rilevate.
Si è pertanto reso necessario creare degli standard di misurazione a cui attenersi allo scopo di
rendere omogenei i dati forniti dai vari costruttori.
Esistono due sistemi:
•
Il sistema boxing
•
Il sistema datum line
Il sistema boxing è sicuramente oggi il più diffuso tra i costruttori, tanto da essere considerato lo
standard per eccellenza. Con esso l’occhio della montatura viene inscritto in un quadrato/rettangolo
la cui lunghezza di lato rappresenta la misura; la distanza tra i due occhi è definita DBL ed è
rilevata tra i punti più vicini dei due “occhi”
Il sistema datum-line è il più vecchio dei due (risale agli anni ’30) ed è ancora il più utilizzato dagli
ottici italiani nella loro pratica quotidiana. Il suo nome deriva dal fatto che viene individuata una
linea sulla quale vengono prese tutte le misure. Tale linea si trova a metà altezza tra il punto più alto
e quello più basso dell’ ”occhio” della montatura.
Si identificano lungo di essa pertanto:
•
Il ponte
•
Il calibro
•
Lo scartamento (dCM) (distanza tra i centri di figura dei due “occhi”)
Questo sistema offre maggior comodità di rilevamento dei dati necessari alla corretta centratura
dell’occhiale, in quanto la linea mediana di riferimento è facilmente identificabile.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
64
Elementi identificativi e marcature.
Gli elementi identificativi della montatura sono normalmente indicati nella parte interna
delle stanghette e a volte all’interno del ponte. Essi sono:
‰
La dimensione lineare orizzontale del cerchio
‰
La dimensione lineare del ponte
‰
La lunghezza delle stanghette
‰
La ditta produttrice
‰
La linea che identifica il design
‰
Il codice modello
‰
Il codice colore
Funzionalità.
La montatura per assolvere a pieno il suo ruolo deve corrispondere ad alcuni caratteri di
funzionalità:
1) Mantenere le lenti perfettamente allineate (secondo i criteri dell’ottica oftalmica) agli occhi
del portatore
2) Creare il massimo comfort in termini di peso e pressione.
3) Soddisfare i comuni criteri di esteticità
Per soddisfare la condizione (1) è necessario che gli appoggi della montatura sul viso siano saldi e
precisi.
Per soddisfare la condizione (2) è necessario che i punti di contatto con la cute del viso siano minori
possibile.
Dato l’evidente contrasto esistente tra queste due ultime condizioni, è necessario che il costruttore
sappia trovare una adeguato compromesso tra le esigenze elencate. Ciò si ottiene mediante l’utilizzo
di materiali che presentino:
a) Un basso peso specifico
b) Un elevato grado di plasiticità
Il basso peso specifico consente di applicare nei punti di contatto un minor valore di pressione e di
attrito, mentre la buona plasticità permette di modificare, entro certi limiti, i punti di appoggio e di
contatto, personalizzandoli al viso del cliente.
Un ruolo importante per ottenere il massimo gradimento dall’utilizzatore consiste nel disporre, nel
proprio assortimento di vendita, di montature il più diversificate possibile in termine di dimensione.
65
La dimensione appropriata rispetto al viso dell’utilizzatore è infatti il parametro principale da
selezionare per ottenere adeguati successi di vendita.
La buona calzabilità della montatura (vestibilità) dipende, oltre dalla sua corretta dimensione, anche
da:
•
Forma e dimensioni del ponte
•
Assetto e lunghezza delle astine
•
Angolo pantoscopico
•
Angolo di avvolgimento
Il Ponte.
Il centraggio cerchio/occhio deve avvenire non solo in senso orizzontale ma anche in
verticale. In questo senso il ponte gioca un ruolo fondamentale. La sua dimensione deve adattarsi
perfettamente al setto nasale del portatore. Nelle montature di metallo l’appoggio è garantito dalle
alette laterali che contribuiscono a far si che la barra di unione tra i due occhi non si appoggi sul
setto nasale. Se ciò non è rispettato si formeranno fastidiose abrasioni sulla sella nasale che si
troverà a sopportare l’intero peso dell’occhiale.
Nelle montature in acetato di cellulosa l’intero ponte deve appoggiare, quasi fasciare, il naso. Solo
così si può ottenere la giusta stabilità.
Le aste.
Durante la prova della montatura è necessario fare attenzione alle aste.
Esse devono avere la giusta lunghezza affinché possano essere modellate sul contorno dell’orecchio
per almeno 3 cm. Aste troppo corte sono fonte di grande instabilità dell’occhiale. È necessario
ricordare a questo proposito che l’occhiale finito ha molto spesso un peso decisamente superiore a
quello avvertito provando solo la montatura.
Le astine in posizione aperta devono avere la giusta divergenza corrispondente la dimensione della
testa del portatore; se esse premono sulle tempie procureranno lo scivolamento dell’occhiale sulla
punta del naso.
L’angolo pantoscopico.
Un altro aspetto importante da controllare per garantire un corretto posizionamento della
montatura è l’angolo d’inclinazione con il piano facciale (angolo pantoscopico). Nella posizione
66
corretta la parte bassa della montatura deve avvicinarsi al viso rispetto alla parte alta. Il valore di
tale inclinazione può variare a seconda dell’utilizzo a cui è destinato l’occhiale.
L’occhiale usato solo da lontano necessità di un grado d’inclinazione modesto (3°/5°)
Negli occhiali per vicino l’angolo può raggiungere anche i 15°
Gli occhiali a permanenza si posizionano a mezza strada con un’inclinazione di circa 8°
N.B.: L’angolo pantoscopico è determinato solo parzialmente dall’inclinazione d’ inserimento delle
astine sul frontale della montatura in quanto esso è fortemente condizionato dalla posizione
dell’orecchio rispetto al globo oculare. È pertanto necessario controllare la correttezza di questa
misura solo ad occhiale indossato.
Angolo di avvolgimento.
La curvatura del frontale dovrebbe garantire il mantenimento della distanza occhio/lente
lungo tutte le escursioni visive. Per ottenere questo risultato è necessario che a partire dal naso il
cerchio si pieghi verso il viso di un valore idoneo a mantenere costante la suddetta distanza per
un’escursione visiva (cioè senza rotazione del capo) di almeno di 20°/25°.
Tale condizione è generalmente soddisfatta con un’angolatura (meniscatura) di circa 5°.
Angoli di meniscatura scorretti inducono capacità correttive delle lenti oftalmiche diverse rispetto a
quella prescritta.
Inoltre, un frontale che rimane troppo discosto dal piano degli occhi (angolo di avvolgimento 0°)
introduce un restringimento del campo visivo.
N.B.: Esiste un forte adattamento soggettivo all’angolo di avvolgimento (anche scorretto) utilizzato
per molto tempo. Il fenomeno sta alla base dei grossi disturbi denunciati dai portatori al momento di
indossare un nuovo occhiale che utilizzi un angolo diverso anche se corretto. In questi casi può
risultare arduo convincere il cliente ad adattarsi alla nuova condizione e quindi la strada migliore è
quella di far assumere al nuovo occhiale lo stesso angolo di quello vecchio.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
67
Tipi di montature.
Da alcuni anni a questa parte, le esigenze estetiche sempre più pressanti, l’evoluzione
costante delle tecnologie costruttive e la selezione di materiali sempre più sofisticati hanno di gran
lunga allargato il panorama dei tipi di montature disponibili. In estrema sintesi è possibile
classificare i modelli oggi più comunemente utilizzati nel modo seguente:
a) Montature intere a cerchio chiuso
b) Montature intere a cerchio apribile
c) Montature per mezzi occhiali
d) Montatura a giorno
e) Occhiali monopezzo
Montature a cerchio chiuso.
Fanno parte di questa categoria tutte le montature realizzate in materiale plastico. In esse
infatti i cerchi porta lenti non presentano alcuna possibilità di apertura. Pertanto le lenti potranno
essere inserite solo previa un sufficiente preriscaldamento del cerchio, che ne aumenta il grado di
plasticità. Il riscaldamento naturalmente deve essere appena sufficiente a consentire, esercitando
una leggera pressione, l’inserimento della lente presagomata. Normalmente, nella fase del
successivo raffreddamento, il materiale ha la capacità di ritornare alla forma e alla dimensione
originaria, bloccando in modo stabile la lente entro di se.
Montature a cerchio apribile.
Sono tutte le montature realizzate in metallo. Per l’inserimento della lente, non essendo
ovviamente possibile pensare di riscaldarle fino alla temperatura di rammollimento, è ricavato,
generalmente in prossimità del musetto, un punto di apertura comandato da una vite. Una volta
montata la lente a cerchio aperto, viene inserita la vite assieme ad un leggero strato di vernice
trasparente, cha ho la funzione di bloccarla entro il proprio alloggiamento per evitare che con l’uso
possa anche minimante allentarsi.
Montature per mezzi occhiali.
Appartengono sia al primo che al secondo tipo, in funzione che siano realizzate in plastica o
in metallo. Equivalgono ad una montatura i cui cerchi sono tagliati a metà, di cui venga utilizzata
solo la parte inferiore. Il ponte rimane quello originario in modo che anche se calzati normalmente
la parte di cerchio rimasta sia localizzata sotto il piano di sguardo primario (occhi che guardano
lontano). Sono essenzialmente utilizzati per la visione vicina, da soggetti privi di difetti visivi da
68
lontano, che con questi occhiali riescono a gestire tutte le distanze senza il fastidioso mettere e
togliere, obbligatorio con gli occhiali di normali dimensioni.
Montature a giorno.
In queste montature sono parzialmente o completamente spariti i cerchi che trattengono le
lenti. Esse vengono mantenute nella loro posizione corretta da complessi sistemi di ancoraggio al
ponte, ai musetti, o a quel che rimane dei cerchi. Appunto in funzione del modo in cui vengono
trattenute le lenti, le montature a giorno si differenziano in:
a. Nylor. In questi tipi, generalmente, viene mantenuta in
essere la semiparte superiore del cerchio in cui è ancorato
un sottile filo di nylon che incastrandosi in un apposito
canale ricavato lungo tutto il bordo della lente la trattiene
nella posizione desiderata
b. Glasant. Non viene mantenuta nessuna porzione di cerchio. Le lenti sono totalmente
esposte e forate in corrispondenza del ponte e del musetto. Dove mediante
l’inserimento di viti o perni vengono ancorate. La totale esposizione rende le lenti
suscettibili a subire sollecitazioni e traumi vari. In questi occhiali è necessario infatti
utilizzare lenti costruite con materiali infrangibili ad alta densità.
Una variante di grande successo della tecnica glasant è il sistema air. In esso i fori sulla
lente assumono forma di asola e al posto delle viti vengono usate le stesse stanghette che nel punto
di inserimento sull’asola della lente si arricciano in guisa di molla. Tutta la montatura è realizzata in
un sottile tondino di acciaio o di lega di titanio che conferisce all’occhiale finito un bassissimo
impatto estetico (appunto aeriforme) ed una elevata elasticità che protegge contro deformazioni e
rotture. Salvo elevati spessori delle lenti (per cui tutti i glasant sono sconsigliati) il peso finale che
l’utilizzatore porta sul viso non supera i 4-5 grammi.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
69
Un’altra interessante variante è rappresentata
dal tipo eyemetrics. Questa tecnica consente di
fabbricare di volta in volta gli occhiali partendo
da una serie di rilevazioni computerizzate
dell’anatomia del viso del futuro portatore. La
parti della montatura (astine e ponte) sono
realizzate in materiale plastico anallergico del
peso di pochi grammi. Il sistema di montaggio
delle lenti non utilizza viti ma perni inseriti
nelle lenti. Se dal punto del confort e della
leggerezza i vantaggi sono analoghi a quelli
degli altri glasant, la stabilità sul viso risulta di
gran lunga superiore.
Materiali per le montature
Per le varie finalità che si vogliono associare al prodotto occhiale, esistono delle qualità
indispensabili per qualsiasi materiale si voglia usare per la costruzione:
1. Leggerezza
2. Resistenza meccanica
3. Stabilità dimensionale
4. Compatibilità con l’epidermide
5. Facile possibilità di inserimento delle lenti
6. Possibilità di trattamenti di superficie
Leggerezza. In parte di questa caratteristica si è già precedentemente detto. L’elemento fondante è il
peso specifico del materiale usato.
Resistenza meccanica. Affinché questa si realizzi il materiale deve avere:
‰
Elevata resistenza all’urto
‰
Elevata resistenza alla flessione
‰
Elevata elasticità
‰
Memoria di forma
Stabilità dimensionale. È una qualità strettamente derivata dalla resistenza meccanica. È opportuno
che il nomale uso protratto nel tempo e i relativi insulti meccanici che inevitabilmente si presentano
(es.: le variazioni di temperatura), non alterino l’assento iniziale dell’occhiale e quindi la corretta
posizione delle lenti.
70
Compatibilità con l’epidermide. La montatura vive a contato con l’epidermide del viso ed
interagisce con essa in modo continuo. È pertanto necessario che tra il materiale di cui è costituita e
i tessuti interessati non si creino situazioni biologiche di conflitto. I casi di manifesta allergia ai
componenti della montatura sono sicuramente più presenti nell’utilizzo di montature metalliche, ove
le forme di allergia essenziale al nichel rappresenta l’aspetto più eclatante; tant’è che ormai da
tempo i più importanti produttori di occhiali hanno totalmente eliminato questa sostanza da tutte le
leghe metalliche usate ed hanno adattato in forma sempre più diffusa l’utilizzo del puro titanio che
garantisce l’assoluta anallergicità. L’attenzione si è ora spostata verso i trattamenti di superficie dei
materiali, quali laccature, verniciature e rivestimenti galvanici in genere per i quali deve essere
ricercata la completa compatibilità epidermica. Per quel che riguarda i materiali plastici, il problema
è praticamente inesistente, salvo nelle situazione di sudorazione particolarmente acida che in molti
casi è in grado in tempi relativamente brevi di corrodere sia gli strati di rivestimento che il materiale
stesso con possibili conseguenti forme di irritazione epidermica di origine meccanica.
Facile inserimento delle lenti. Questa caratteristica è naturalmente diversa a seconda si tratti di una
montatura in metallo ovvero in plastica. Nel caso del metallo, ove il cerchio è apribile, è sufficiente
che la lega usata abbia sufficiente elasticità atta ad evitare facili deformazioni. Mentre nelle
plastiche, ove l’inserimento avviene mediante riscaldamento del cerchio, è necessario che il
materiale possegga un elevato coefficiente di dilatazione associato ad una immediata capacità di
ritorno alla dimensione originaria in seguito ad improvviso raffreddamento.
I trattamenti di superficie. Sono da tempo universalmente usati su qualsiasi tipo di montatura. Il loro
scopo è duplice:
‰
Migliorare e/o salvaguardare le caratteristiche del materiale.
‰
Rendere la montatura esteticamente migliore.
Nelle montature di plastica si tratta di laccature, verniciature e colorazioni di vario genere. In quelle
di metallo sono placcature, laminature e trattamenti di colorazione galvanici. Naturalmente è
fondamentale la presenza di compatibilità chimica tra i trattamenti e il materiale, affinché non sia
necessario utilizzare dei pre-trattamenti di supporto, di solito troppo costosi. Il fine da raggiungere è
che il trattamento, qualunque esso sia, non vada precocemente incontro ad esfoliazione o
scollamento.
Alla luce di quanto detto si possono ora esaminare i materiali utilizzati e le tecniche
costruttive delle montature che li contraddistinguono.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
71
Le plastiche.
Le doti di leggerezza, elasticità e indeformabilità hanno indirizzato la scelta verso la
famiglia delle termoplastiche1 In anni recenti si sono affiancate anche altre sostanze plastiche con
caratteristiche a volte contrastanti con alcune di quelle normalmente ritenute indispensabili, ma che
possiedono capacità di portare a valori elevati solo alcune di esse (ad esempio ottenere
un’elevatissima leggerezza a scapito di una scarsa elasticità).
La famiglia delle termoplastiche :annovera le resine cellulosiche:
‰
Nitrato di cellulosa (celluloide)
‰
Acetato di cellulosa (rhodoid)
‰
Acetopropionato di cellulosa (propionato)
La celluloide. È stato l’unico materiale utilizzato per tutta la storia delle montature in plastica fino
al primo dopoguerra. Unici due inconvenienti sono: 1) nell’invecchiamento tende a far evaporare
alcune sostanze plastificanti col risultato di perdere la sua elasticità la facile termodilatabilità; 2)
enorme infiammabilità. Proprio questa ultima caratteristica ha condotto, a partire dagli anni ’60, al
suo completo abbandono, per l’eccessiva pericolosità d’incendio a cui erano sottoposte le industrie
dell’occhialeria.
Acetato di cellulosa. È divenuto il naturale sostituto della celluloide. Ne esalta tute le caratteristiche
positive e ne deprime le negative ( non è infiammabile). È considerato il materiale più pregiato per
la costruzione di montature in plastica. Viene prodotto in lastre di spessore diverso, a seconda della
montatura che si vuol costruire. Le lastre sono già colorate secondo infinite varianti, ottenute anche
con inserimento di stoffe ed elementi decorativi. La montatura viene ottenuta mediante fresatura
comandata da un pantografo che consente l’esatta riproduzione della forma voluta.
1
Le termoplastiche sono resine che possono essere ripetutamente modificate in seguito a riscaldamento e
raffreddamento. Sono composte da lunghe catene di fibre libere di muoversi le une contro le altre. Si possono fondere,
sciogliere e saldare. Sono notevolmente influenzate dai solventi che tendono a gonfiarle o a dissolverle.
72
Propionato di cellulosa e Acetobutirrato di cellulosa. Anche se oggi viene più volte usato per la
costruzione di montature griffate, il prodotto che con queste materie si ottiene è sicuramente di
minor pregio qualitativo rispetto a quelle in acetato. Il materiale viene portato a 205° che
rappresenta la temperatura di fusione e quindi iniettato entro stampi che riproducono la sagoma
della montatura finale. Le montature possono poi essere colorate con varie tecniche per ottenere la
miglio somiglianza possibile con quelle di acetato. Il propinato in genere viene colorato per
immersione; in questo modo la colorazione rimane in superficie mantenendo un’ottima trasparenza.
Queste montature presentano buone performance di leggerezza e adattabilità, ma col tempo tendono
essere carenti nella stabilità. Anche le stesse colorazioni possono rovinarsi se surriscaldate o trattate
con prodotti alcolici.
Tra i materiali lavorati per iniezione in stampi, va ricordato l’Optyl. Proposto dalla tecnologia
tedesca nel 1964, ha conosciuto una grandissima fortuna per oltre un ventennio, dovuta la fatto che
con essa sono state costruite tutte le collezioni di occhiali di una tra le più prestigiose griffe
dell’epoca. Da un punto di vista tecnologico la novità proposta dall’optyl consiste nel fatto che
appartiene alla famiglia delle plastiche termoindurenti2. Presenta infatti grande resistenza, elasticità
e stabilità, con il non trascurabile vantaggio di essere il 30% più leggero dell’acetato di cellulosa.
Per modificarne la forma è necessario il riscaldamento oltre gli 80° e le modifiche si fissano con un
successivo rapido raffreddamento, ma, per effetto di una originale memoria del materiale, un nuovo
riscaldamento oltre gli 80° fa riassumere alla montatura la sua forma originale.
Per gli occhiali protettivi destinati alla sicurezza personale vengono utilizzati il nylon
(soprattutto per occhiali sportivi) e il policarbonato (negli occhiali di protezione industriale).
Entrambe questi materiali presentano ottime proprietà di resistenza meccanica e stabilità. Sono poco
adatti ad essere usati nella normale produzione da vista non presentando affinità ad esser colorati.
I metalli.
La lavorazione degli occhiali metallici parte da un filo trafilato a forma di “u” di uno dei
materiali base e successivamente piegato, saldato e lavorato fino ad ottenere la montatura finita. Le
montature così ottenute vengono poi sottoposte a trattamenti di rivestimento e colorazione di vario
tipo. Le principali leghe usate sono:
Alpacca. (rame-zinco-nichel). È una lega particolarmente utilizzata per gli occhiali destinati ad
essere rivestititi da materiali nobili quali oro,palladio, rodio ecc., medianti processi di laminatura o
placcatura. Presenta buone capacita meccaniche e di stabilità, ma è alterabile dagli acidi organici.
2
Le termoindurenti sono plastiche che in funzione dello loro struttura molto intrecciata presentano una soglia termica
di deformazione molto elevata e quindi possono esser modificate con maggiore difficoltà rispetto alla termplastiche.
73
Monel. (rame-nichel-ferro). Ha caratteristiche simili all’alpacca ed è utilizzato come suo sostituto
nelle montature laminate.
Acciaio. È sicuramente tra i materiali più resistenti e duraturi (nella versione inox). Presenta però
scarsa propensione alla coloritura e ai trattamenti in genere. Nella produzione di occhiali viene
utilizzato con i suoi colori naturali. In alcuni casi viene utilizzato come anima di base su cui viene
ricavato un sottile rivestimento in plastica di diversi colori.
Titanio. Straordinariamente leggero e inalterabile anche agli agenti atmosferici. Rimane la
soluzione per tutti coloro che, volendo utilizzare occhiali di metallo, presentino forme di allergia ai
metalli (specie nichel). Esso è infatti perfettamente anallergico. Si combina bene in lega con tutti i
metalli nobili. Unico neo, non è saldabile, quindi in caso di rotture la montatura deve essere
sostituita integralmente.
Alluminio. È un materiale di recente utilizzo che per il basso peso specifico può sostituire il più
costoso titanio. Si presta bene alle colorazioni galvaniche, alle laccature e rivestimenti. Ha
un’elevata malleabilità, duttilità e resistenza alla corrosione.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
74
GLI OCCHIALI PROTETTIVI
Premessa
Con il termine “lenti protettive” si intende tutto il complesso dei mezzi ottici atti a
proteggere la regione oculare da:
a. Gli insulti meccanici provenienti da sostanze estranee, quali schegge metalliche e
legnose, sostanze chimiche, anche gassose, di tipo causticante ecc.
b. dalle componenti nocive della radiazione elettromagnetica in grado di raggiungere
l’occhio.
Nel presente lavoro ci si occuperà esclusivamente della seconda categoria che va sotto il nome di
lenti filtranti.
Lenti filtranti.
La categoria dei filtri selettivi rimane uno degli argomenti maggiormente maltrattati
dell’ottica oftalmica. Un’informazione confusa, lacunosa e comunque scientificamente carente ha
contribuito a creare nell’ambiente degli ottici una cultura, sull’argomento, di basso profilo.
I filtri selettivi sono nella maggior parte dei casi identificati nella famiglia delle lenti
colorate, che nell’ambito dello spettro elettromagnetico sono in grado di selezionare parzialmente
sia alcune componenti dell’invisibile che del visibile. È opportuno chiarire che non è detto che una
lente, per il solo fatto di presentarsi più o meno colorata sia in grado di filtrare le componenti
dell’invisibile (le più dannose). Altrettanto una lente bianca (priva di filtro per il visibile) può
possedere un’ottima prevenzione dall’invisibile.
Allora è sicuramente importante approfondire gli ambiti entro i quali le lenti filtranti sono chiamate
ad essere efficaci.
Lo spettro elettromagnetico
È la porzione di tutta l’energia elettromagnetica, proveniente dal sole, che riesce a superare la
barriera atmosferica e raggiungere la superficie terrestre. Le caratteristiche distintive di tale energia
sono:
‰
La lunghezza d’onda λ
‰
La frequenza di vibrazione ν
‰
La quantità energetica trasportata E
75
La relazione che unisce tali caratteristiche è la seguente:
E=
ν
λ
I limiti dello spettro elettromagnetico sono compresi tra i raggi cosmici ad elevatissima energia che
vibrano con λ = 10-14 m e le onde radio (λ =108 m). L’ottica è interessata da una piccola porzione
dello spettro: quella compresa tra i 100 nm e 1 mm di lunghezza d’onda, comprendente:
a. l’ultravioletto,
b. la porzione visibile
c. l’infrarosso.
L’ultravioletto
È la porzione a più corta lunghezza d’onda, quindi la più carica di energia. Occupa la zona
iniziale dello spettro ottico e non è percepita dall’occhio. A seconda del suo contenuto energetico si
divide in:
1. UV-C. (λ 100-280 nm area germicida.) rappresenta la componente più dannosa per i
tessuti. Fortunatamente è quasi completamente assorbita dall’atmosfera
2. UV-B (λ 280-315 nm area dell’eritema). È la porzione più pericolosa per l’occhio.
L’assorbimento è a carico del cristallino e del vitreo. Provoca opacizzazione prematura
del cristallino, raggrinzimento del vitreo e degenerazioni retiniche.
3. UV-A (λ 315-390 area di pigmentazione) Nella suo porzione più lunga (380-390 nm)
raggiunge la retina. Per il resto è completamente assorbito dal cristallino senza
particolare pericolosità.
Un aspetto saliente, da tener presente in funzione della protezione, è la caratteristica dei tessuti di
cumulare nel tempo la radiazione assorbita. Pertanto il danno biochimico risulta essere la
sommatoria di tante esposizioni protratte nel tempo. Risulta evidente che la prevenzione deve essere
fatta in forma generalizzata sin da giovane età. In senso più ristretto, particolare attenzione
protettiva deve essere posta da coloro che lavorano in ambienti ove si utilizzano lampade ad
emissione di ultravioletto (saldatori, fotografi ecc.)
E. Bottegal – Ottica oftalmica
76
Il visibile.
Una
piccolissima
porzione
di
onde
elettromagnetiche, quelle comprese tra 10-8 e 10-6
metri
hanno
la
caratteristica,
se
captate
dall’occhio, di eccitare i ricettori della retina e
provocare la sensazione luminosa che si traduce in
effetto visivo. Per questo fatto tali radiazioni
vengono
chiamate
onde
luminose
o
più
brevemente: “luce”, ed il loro insieme costituisce
quella porzione di spettro elettromagnetico
denominato spettro visivo.
Furono le intuizioni di padre Grimaldi (1665) e gli esperimenti di Newton poi che dimostrarono che
lo spettro visibile, o luce bianca, è scomponibile in una serie di colori detti colori dell’iride: rosso,
arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.
Solo nel 1827 si potettero effettuare vere e proprie misure delle lunghezze d’onda dello spettro
visibile e si potette associare la percezione visiva dei vari colori a specifiche lunghezza d’onda.
La porzione del visibile è perfettamente tollerata dall’organo visivo. Solo in casi particolari
elevata intensità possono presentarsi fenomeni reattivi, di carattere peraltro transitorio e facilmente
risolvibile.
L’infrarosso.
Si differenzia in:
1. porzione corta (760-15000 nm). È assorbita in maggior parte deal cristallino (ove genera la
cataratta efoliativa, legata all’effetto termico). Il problema è a carico di chi è costretto a
fissare per lunghi periodi le fonti di emissione (lavoratori delle acciaierie, vetrai, saldatori
ecc.). Particolare aspetto è la retinite solare proveniente da prolungata osservazione diretta
del sole (eclissi).
2. porzione lunga (15000nm-1mm). Molto debole negli effetti dannosi, è completamente
assorbita dal film lacrimale e dalla cornea.
La protezione.
Da quanto detto, risulta evidente la necessità per chiunque, in forma diversa, di utilizzare per
un lungo periodo della propria vita degli occhiali per la protezione dalla radiazione.
77
Per meglio comprendere il mondo delle lenti filtranti è opportuno chiarire il meccanismo della
filtratura e il significato di alcuni termini particolarmente ricorrenti in questo campo.
Quando un fascio di luce investe una lente avvengono una serie di fenomeni:
Una parte di radiazione viene riflessa
dalle superfici attive; il rapporto tra la
quantità di luce che ha colpito la lente
(intensità incidente) e la porzione riflessa
costituisce il coefficiente di riflessione,
denominato riflettanza.
Una parte viene trattenuta nel corpo
della lente; il rapporto tra la quantità di luce
che ha colpito la lente (intensità incidente) e la quantità assorbita dal corpo della lente costituisce il
coefficiente di assorbimento, denominato assorbanza
Infine una parte riesce a superare la barriera formata dalla lente ed emerge dal lato opposto;
il rapporto tra la quantità di luce che emerge dalla lente (intensità emergente) e la quantità che l’ha
colpita (intensità incidente) costituisce il coefficiente di trasmissione, denominato trasmittanza.
Nella pratica il valore della riflettanza e dell’assorbanza vengono conglobati in uno unico chiamato
assorbimento.
Il comportamento protettivo di una lente filtrante viene definito graficamente mediante le
curve di trasmittanza (τ), normalmente espressa in percentuale. La trasmittanza dipende da una serie
di variabili indipendenti:
‰
la lunghezza d’onda della radiazione
‰
la natura fisica del materiale della lente
‰
il coefficiente di riflessione
‰
lo spessore della lente
La diversa colorazione che le contraddistingue dipende dalla radiazione maggiormente trasmessa
(meno assorbita), mentre l’intensità (più o meno scure) dipende dal valore dell’assorbimento: più
alto è l’assorbimento minore è l’energia trasmessa e più scura apparirà la lente. Quando una lente
presenta una trasmittanza costante a tutte le lunghezze d’onda del visibile viene detta
colorimetricamente neutra; la sua tonalità è grigia, più o meno scura in funzione del valore
dell’assorbimento.
L’effetto filtrante viene modificato inserendo nel materiale fuso della lente degli ossidi
metallici di diverso tipo (colorazione in pasta). L’inconveniente di questa tecnica consiste che la
concentrazione delle sostanze filtranti risulta diversa a seconda della distribuzione degli spessori
78
sulla lente. Si generano quindi zone più chiare nei punti più sottili e più scure in quelle più spesse.
Una soluzione è rappresentata incollando su una delle superfici della lente bianca una placca
filtrante di spessore omogeneo, oppure facendo depositare, sotto vuoto, sulla superficie posteriore
l’ossido prescelto.
Di seguito vengono analizzate le curve di trasmittanza delle più comuni lenti filtranti
presenti sul mercato
Blu.
Per
l’effetto
della
aberrazione cromatica è ben
accettata dall’ipermetrope.
La filtratura dell’UV è però
insignificante, vanificando
così
l’aspetto
protettivo.
Risulta valida solo per un
aspetto estetico
Verde.
La
trasmittanza
massima
a
550nm
consente
una
buona
adattabilità
del
soggetto
ipermetrope. Trova ottima
collocazione anche negli
occhi
afachici.
La
protezione dall’UV e dal
IR è buona
E. Bottegal – Ottica oftalmica
79
Grigio. Rappresenta una
delle filtrature più diffuse.
Al variare di λ
l’assorbimento si mantiene
costante, nel visibile, per
cui la percezione cromatica
è poco alterata. La
protezione UV è buona
nella zona B. Ha il
.
miglior utilizzo in luoghi
molto illuminati, utilizzando un assorbimento elevato.
Giallo. Filtra ottimamente
la radiazione blu e l’UV
anche nella zona C meno
dannosa.
Aumenta
il
contrasto
anche
in
condizioni
di
scarsa
luminanza. È adatto alla
visione
notturna
perché
esalta la λ per la quale la
retina
è
maggiormente
sensibile
E. Bottegal – Ottica oftalmica
80
Marrone.
Buona
La
filtratura dell’UV, scarsa
quella dell’IR. Adatto ai
soggetti
miopi
che
ricavano
ne
visione
maggiormente nitida. Come
il giallo aumenta i contrasti
e risolve bene in bassa
luminanza.
Rosa. Assorbe bene tutta
l’area della radiazione
molto energetica e l’UV
sotto i 350 nm. È la miglior
filtratura per gli occhiali da
lavoro al videoterminale.
Bianco (antiattinico).
Assorbe la radiazione UV
in
modo
totale
senza
variare la trasmittanza del
visibile. È consigliato a
tutti
gli
ametropi
che
svolgono
attività
in
presenza di illuminazione
artificiale (neon)
Lenti fotocromatiche
Il vetro fotocromatico presenta nella sua composizione la presenza di cristalli di alogenuro
d’argento che dimostrano un’attività fotoattiva in funzione dell’intensità luminosa dell’ambiente.
81
Lenti realizzate con questo materiale hanno la capacità di modificare il loro valore di assorbimento
a seconda del tempo di esposizione alla luce solare e di tornare allo stato iniziale chiaro al calare
della stimolazione luminosa.
Gli elementi in grado di influenzare la reazione fotocromatica sono:
‰
il tipo di radiazione elettromagnetica. Il fotocromatismo si attiva con radiazione ad
elevata energia (355-420 nm), quindi nella regione dell’UV-A. lo schiarimento dipende al
contrario dalla radiazione infrarossa
‰
gli aspetti termici. Il freddo favorisce lo scurimento, il calore lo inibisce. Al contrario lo
schiarimento è favorito dal calore e inibito dal freddo.
‰
Lo spessore della lente. Spessori elevati favoriscono lo scurimento. Differenti valore di
spessore nella stessa lente generano intensità di colorazioni diverse e sgradevoli. Il problema
si supera applicando una lamina
fotocromatica a spessore costante sulla superficie
posteriore della lente.
‰
Il trattamento antiriflesso. La sua caratteristica è quella di eliminare dalla lente la
radiazione ultravioletta, necessaria per lo scurimento. Pertanto è opportuno che venga
effettuato solo sulla superficie interna lasciando entrare nel corpo della lente tutta l’energia
presente.
I materiali fotocromatici organici presentano una fenomenologia fotoattiva basata su variazione
della struttura molecolare. L’elemento fotosensibile è la molecola di ISN, sulla quale la luce
agisce trasformandola in un isomero a catena aperta, che presenta delle bande di assorbimento
nel visibile (nell’area dei 600 nm) che sono responsabili del cambiamento di colore.
Alcuni inconvenienti che questo tipo di resine organiche avevano nella loro prima generazione,
quali:
‰
La forte dipendenza dalle temperature
‰
La tendenza col tempo ad esaurirsi
‰
Le colorazioni non perfettamente definite
sembrano in buona via di risoluzione con le ultime novità introdotte dal materiale Transition
Lenti polarizzate.
Le radiazioni elettromagnetiche naturali presentano uguali proprietà su ogni piano passante
per la direzione del fronte d’onda, il quale si propaga contemporaneamente in tutti i piani dello
spazio. Si parla di polarizzazione quando la propagazione del fronte d’onda viene soppressa in una
specifica direzione mediante l’uso di filtri detti appunto polarizzanti.
82
le superfici estese piane, come l’acqua l’asfalto ecc, hanno la caratteristica di riflettere la luce solare
polarizzandola secondo un piano a loro parallelo. In tale condizioni l’elevata concentrazione di
energia lungo il piano di polarizzazione procura all’osservatore un fastidioso abbagliamento.
Utilizzando filtri che operino una selezione orizzontale del piano di vibrazione, viene eliminata la
porzione di energia disturbante, senza un’eccessiva perdita di luminosità.
Tra due lamine di vetro o di materiale organico si inserisce una pellicola di perioduro di
solfato di chinina, i cui elementi cristallinici sono orientati in modo di consenti re solo il passaggio
della luce che vibra solo su un certo piano, definito asse di polarizzazione. La lente così ottenuta
può essere montata su di una montatura con l’accortezza di orientare l’asse di polarizzazione
secondo il piano di riflessione che crea il disturbo visivo. In questo modo verrà eliminato il disturbo
e la visione risulta pulita e confortevole (priva di riflessi).
Il mercato degli occhiali polarizzanti conosce una fascia di utenti assai fidelizzata che una volta
apprezzato il confort di questo tipo di visione faticano a distaccarsene. Comunque la produzione di
occhiali protettivi con lenti polarizzanti rimane confinata ad un target di occhiali molto tecnici e
usualmente svincolati da ogni influenza del fashion.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
83
LA RICETTA DI PRESCRIZIONE DELLE LENTI
Formato
Nella sua estensione più comune la ricetta con cui vengono prescritte le lenti correttrici presenta
alcuni elementi fondamentali:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
le generalità e i titoli del prescrittore
l’anagrafica dell’utente
la data
il grafico
il corpo
le note
Le generalità del prescrittore identificano chi ha materialmente eseguito l’esame rifrattivo che,
avendo l’esclusiva responsabilità di quanto prescritto, deve essere preventivamente consultato se
dovessero sorgere difficoltà nell’esecuzione della prescrizione stessa tali da implicare qualsivoglia
variazione.
84
Consultare il prescrittore è necessario anche ogni qualvolta si presentino delle difficoltà
d’interpretazione dei dati prescritti, ogni iniziativa presa arbitrariamente dal confezionatore degli
occhiali può stravolgere la filosofia prescrittiva.
È quindi opportuno che ogni punto vendita di ottica tenga una rubrica dei professionisti che operano
nella propria zona.
Nome e cognome dell’utente sono ovviamente necessari per identificare la persona a cui la
prescrizione si riferisce. Una ricetta che ometta tale indicazione non deve essere eseguita prima di
aver accertato, presso il prescrittore, l’identità mancante.
La data di emissione permette di collocare la prescrizione in una sequenza temporale esatta rispetto
ad esami effettuati precedentemente o successivamente. Nel caso fosse mancante, è buona cosa che
chi fornisce l’occhiale trascriva sul retro della prescrizione la data di tale fornitura allegando il
timbro del punto vendita e la firma del responsabile.
Nel corpo sono indicati i valori rifrattivi delle lenti che dovranno essere utilizzate nella confezione
dell’occhiale.
Il corpo è diviso in due parti: sul lato sinistro del foglio sono indicati i valori relativi all’occhio
destro e sul lato destro quelli relativi all’occhio sinistro.
In ogni parte sono presenti tre possibili ipotesi prescrittive:
•
•
•
Lontano
Permanenza
Vicino
Tale distribuzione sta ad indicare la destinazione principale, a volte assoluta, della correzione
prescritta.
L’occhiale da lontano renderà nitida la visione oltre i 2 metri di distanza; potrebbe essere poco o
nulla influente su quella da vicino e in alcuni casi potrebbe peggiorarla.
L’occhiale prescritto da vicino renderà nitida, ma soprattutto, confortevole la lettura e il lavoro a
tavolino, ma si rivelerà insufficiente e più spesso fastidioso se usato da lontano.
La prescrizione a permanenza si riferisce a delle lenti che, almeno durante l’espletamento di alcune
attività, è bene siano indossate per soddisfare la visione sia vicina che lontana.
Le caselle corrispondenti alla prescrizione per permanenza vengono, alle volte, usate per consigliare
l’uso di occhiali adatti alla visione nelle mezze distanze.
Può essere necessario per l’utente avere visione nitida ad una distanza inferiore a i due metri, ma
superiore al mezzo metro; in questo caso se chi prescrive ritiene inidoneo l’uso di lenti plurifocali,
può ordinare l’utilizzo di un occhiale che soddisfi tale necessità, ma che si rivelerà inefficace o
fastidioso se usato per distanze diverse.
Ognuna di queste sezioni (lontano, permanenza, vicino) prevede tre caselle per l’inserimento dei
dati:
1. Sfera (sfero)
2. Cilindro
3. Asse
La prima (sfera) raccoglie valori positivi o negativi adatti a correggere difetti di miopia (-),
ipermetropia (+) e presbiopia (+).
85
La seconda (Cil.) e la terza (Ax) vengono utilizzate quando sono da correggere difetti di
astigmatismo. In questo caso i valori inseriti nella casella “Cil.”saranno positivi o negativi a
seconda si tratti di astigmatismo ipermetropico o miopico.
Nella casella dell’asse viene indicata in gradi sessagesimali la giusta rotazione da dare alla lente
inserita nella montatura. Questo dato, quindi, interessa più chi dovrà montare le lenti piuttosto che il
venditore.
Alcuni esempi;
OCCHIO DESTRO
SF.
CIL.
- 4.00
Miopia semplice in ogni occhio
OCCHIO DESTRO
SF.
CIL.
+0.50
Ipermetropia semplice in ogni occhio
AX
OCCHIO SINISTRO
SF.
CIL.
-3.50
AX
AX
OCCHIO SINISTRO
SF.
CIL.
+1.00
AX
OCCHIO DESTRO
SF.
CIL.
AX
-0.50
180°
Astigmatismo miopico semplice in occhio destro
Astigmatismo miopico composto in occhio sinistro
OCCHIO SINISTRO
SF.
CIL.
-0.50
-0.50
OCCHIO DESTRO
OCCHIO SINISTRO
SF.
CIL.
AX
SF.
CIL.
+1.00
+1.00
+0.75
90°
Astigmatismo ipermetropico composto in occhio destro
Astigmatismo ipermetropico semplice in occhio sinistro
OCCHIO DESTRO
SF.
CIL.
-0.50
+1.00
Astigmatismo misto in OO
OCCHIO SINISTRO
SF.
CIL.
+1.00
-2.00
AX
110°
AX
180°
AX
100°
AX
180°
Il grafico, che generalmente è posto sopra il corpo, è costituito da due semicerchi, uno per occhio,
che riportano lungo la semicirconferenza la scansione in gradi sessagesimali da 0° a 180°; su di essi
viene riportata, in modo grafico, la direzione dell’asse di correzione dell’astigmatismo (se presente)
indicata numericamente nel corpo.
Anche se questa ulteriore indicazione può sembrare un eccesso di zelo, ciò non è, in quanto esistono
2 sistemi di calcolo della direzione dell’asse dell’astigmatismo:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
86
•
•
Sistema Tabo
Sistema Internazionale
La differenza tra i due sta nella posizione assegnata al punto 0° da cui si inizia a contare.
Nel sistema Tabo gli zeri sono posti all’estremità destra di ogni grafico.
Nel sistema Internazionale lo zero del grafico corrispondente all’occhio destro è posto a destra,
mentre quello corrispondente all’occhio sinistro è posto a sinistra.(fig.9)
Pertanto se non è preventivamente conosciuto il sistema usato dal prescrittore, solo l’indicazione
grafica della direzione dell’asse dell’astigmatismo dell’occhio sinistro può essere stabilita con
certezza. Nulla cambia invece per l’occhio destro.
Lo spazio riservato alle note viene a volte utilizzato per indicare la Distanza Interpupillare alla
quale devono essere montate le lenti.
Altre volte lo spazio viene utilizzato per meglio specificare il tipo di lenti da usare (es. multifocali,
bifocali, ecc.).
Infine è bene ricordare che ogni prescrizione deve riportare la firma del prescrittore,
indipendentemente dal fatto che l’intestazione ne riporti i dati anagrafici. Una ricetta senza firma
non costituisce prescrizione, ma rappresenta una copia di quanto prescritto in passato.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
87
LABORATORIO OFTALMICO
Premessa
È opportuno ricordare che l’utilizzo di un sistema di compensazione dell’ametropia deve:
‰
Riportare sul piano dei ricettori retinici l’immagine dei punti oggetto osservati.
‰
Introdurre uno stato di comfort visivo
Se si vuole definire tra questi due elementi una scala d’importanza, sicuramente il raggiungimento
del comfort è preminente rispetto a quello della perfetta focalizzazione. Quando entrambi sono
soddisfatti il risultato può essere considerato ottimale.
Il centraggio delle lenti correttive
Uno degli elementi procedurali fondamentali al fine di garantire il comfort è il corretto centraggio
delle lenti correttive. Per centraggio si intende la coassialità tra asse ottico della lente e asse visivo
dell’occhio, quando entrambi passano per il centro di rotazione dell’occhio.
Per ottenere un corretto centraggio delle lenti è necessario raccogliere alcuni dati dal
portatore, dalla montatura e metterli tra di loro in relazione.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
88
RELAZIONE
MONTATURA
PORTATORE
Calibro
Interpupillare da lontano
Posizione centri pupillari orizzontale
Interpupillare da vicino
Posizione centri pupillare verticale
Ponte
Scartamento
MONTATURA-PORTATORE
Angolo pantoscopico
Le misure della montatura
La dimensione della montatura è definita dai suoi parametri costruttivi basilari che sono:
•
Il calibro (diametro orizzontale dell’ “occhio”)
•
Il ponte (distanza che separa i due occhi)
Tali parametri sono obbligatoriamente indicati dal costruttore e riportati generalmente
all’interno delle astine, più raramente all’interno del ponte.
Risulta evidente che queste misure possono variare a seconda del modo in cui vengono rilevate.
Si è pertanto reso necessario creare degli standard di misurazione a cui attenersi allo scopo di
rendere omogenei i dati forniti dai vari costruttori.
Esistono due sistemi:
•
Il sistema boxing
•
Il sistema datum line
Il sistema boxing è sicuramente oggi il più diffuso tra i costruttori, tanto da essere considerato uno
standard. Con esso l’occhio della montatura viene inscritto in un quadrato/rettangolo la cui
lunghezza di lato rappresenta la misura; la distanza tra i due occhi è definita DBL ed è rilevata tra i
punti più vicini dei due “occhi”
Il sistema datum-line è il più vecchio dei due (risale agli anni ’30) ed è ancora il più utilizzato dagli
ottici italiani nella loro pratica quotidiana. Il suo nome deriva dal fatto che viene individuata una
linea sulla quale vengono prese tutte le misure. Tale linea si trova a metà altezza tra il punto più alto
e quello più basso dell’ ”occhio” della montatura.
Si identificano lungo di essa pertanto:
•
Il ponte
•
Il calibro
89
•
Lo scartamento (dCM) (distanza tra i centri di figura dei due “occhi”)
Questo sistema offre maggior comodità di rilevamento dei dati necessari alla corretta centratura
dell’occhiale, in quanto la linea mediana di riferimento è facilmente identificabile.
La distanza interpupillare (DI)
Per misurare la dI è necessario individuare il centro di ogni pupilla. Compito non sempre facile
specie in presenza di pupille irregolari o di iride particolarmente scura. È quindi opportuno fare
riferimento ad altri punti più facilmente identificabili. Ad esempio:
‰
I margini pupillari esterno-interno
‰
Il limbus corneale interno-esterno
‰
Il canto interno e il canto esterno
Volendo raffinare meglio la misurazione è opportuno fare riferimento ai due assi visivi. Infatti
nella maggior parte dei casi l’asse visivo non coincide perfettamente con l’asse pupillare. Il
punto di intersezione dell’asse visivo con la pupilla è spostato nasalmente rispetto al centro
geometrico pupillare. L’asse pupillare e l’asse visivo formano tra loro un angolo, chiamato
angolo alfa:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
90
L’angolo alfa ha ampiezza soggettiva. In soggetti non affetti da exotropia ma con angolo alfa
particolarmente elevato la posizione degli occhi appare divergente.
Quando, per misurare la dI si utilizzano gli interpupillometri digitali, ciò che si misura in realtà è la
distanza tra gli assi visivi. Infatti i due piccoli punti luminosi che si formano sulle pupille sono
dovute al riflesso della mira luminosa, contenuta nello strumento, che il soggetto esaminato sta
osservando con i suoi assi visivi. Facendo attenzione si è in grado di rilevare che le due piccole
riflessioni luminose non coincidono quasi mai con il centro geometrico della pupilla.
La distanza interpupillare deve essere presa sia da lontano che da vicino. Nella usuale
pratica, una volta rilevata quella per lontano, la correlata per vicino viene ricavata per calcolo (si
sottrae 2 mm per occhio).
Relazione montatura-portatore
La dimensione della montatura deve essere consona alla distanza interpupillare della
persona; la montatura calzata, infatti, dovrebbe posizionarsi in modo tale che i centri pupillari si
posizionino il più possibile al centro degli “occhi” della montatura. La condizione ideale quindi è
quella in cui lo scartamento della montatura è uguale alla distanza interpupillare. Ottenere
questa condizione porta con se il fatto che la lente da montare avrà il minimo diametro possibile, in
quanto esso sarà condizionato dalla sola grandezza dell’ “occhio” della montatura, il che produce
una serie notevole di vantaggi:
Estetici:
•
contenimento massimo degli spessori della lente
•
distribuzione omogenea lungo tutto il cerchio degli spessori
Funzionali:
•
Riduzione massima del peso dell’occhiale finito
•
Maggior stabilità
91
•
Notevole riduzione delle distorsioni visive nell’utilizzo delle zone periferiche della lente
Scegliere montature molto grandi pensando di aumentare il campo di sguardo è un errore,
perché quando l’escursione visiva supera i 20° viene fisiologicamente introdotta la rotazione del
capo.
Scegliere montature troppo corte in altezza significa uscire spesso con lo sguardo dal campo utile
della lente, rendendo inutile la correzione.
Dato che la coincidenza tra dI e dCM (distanza interpupillare e scartamento)è condizione
abbastanza rara, ciò che più frequentemente accade è che il centro ottico della lente debba essere
decentrato, rispetto al centro geometrico della montatura, sia orizzontalmente che verticalmente.
Il decentramento orizzontale da lontano
Normalmente, per un carattere eminentemente
estetico, gli occhiali presentano uno scartamento
sempre superiore alla distanza interpupillare.
Pertanto il decentramento necessario dei centro
ottici delle lenti, sul piano orizzontale, sarà
sempre verso il naso. La quantità monoculare
del decentramento è calcolata con la seguente
Decentramento =
DAV − dCM
2
Il decentramento verticale da lontano
Il corretto decentramento verticale si ottiene tenendo conto di:
‰
La posizione dei centri pupillari dietro la montatura che verrà rilevato mediante marcatura
sulla lente di presentazione.
‰
Il valore dell’angolo pantoscopico.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
92
L’angolo pantoscopico.
Normalmente, il piano del frontale dell’occhiale indossato non è perpendicolare al piano orizzontale
(pavimento), bensì è inclinato verso l’interno. L’angolo formato dalla perpendicolare al piano
orizzontale e il frontale della montatura prende il nome di angolo pantoscopico e il suo valore
oscilla tra i 5° e i 15°. La presenza dell’angolo pantoscopico nasce dalla necessità di compensare in
qualche modo la staticità del piano delle lenti correttive in rapporto all’enorme motilità che gli
occhi dimostrano dietro di esse.
Se
da
un
lato,
la
presenza
dell’angolo
pantoscopico consente una miglior percezione
delle immagini, da un altro fa perdere la
coassialità tra asse ottico della lente e asse
visivo dell’occhio con il risultato che l’asse
ottico della lente non passa più per il centro di
rotazione dell’occhio. (condizione bene descritta
nella fig. a). La fig.b mostra che per ripristinare
l’allineamento dell’asse ottico della lente con il
centro di curavatura dell’occhio è necessario
abbassare il centro ottico della lente di una
quantità che è direttamente proporzionale al
valore dell’angolo pantoscopico. Il calcolo
dell’abassamento può essere eseguito secondo
la seguente:
Abb. = s ⋅ tg.θ
Dove s rappresenta la distanza tra il centro di
rotazione e il piano dell’occhiale in assenza di
angolo pantoscopico (normalmente considerata
paria a 27mm), mentre θ è l’angolo formato
dall’asse ottico della lente con l’asse visivo.
Calcolato in questo modo si ottengono i dati
contenuti nella tabella sottostante:
93
CENTRAGGIO VERTICALE IN PRESENZA DI ANGOLO
PANTOSCOPICO
ANGOLO PANTOSCOPICO
ABASSAMENTO DEL CENTRO OTTICO
2,5°
1,2 mm
5°
2,4 mm
7,5°
3,6 mm
10°
4,8 mm
12,5°
6,0 mm
15°
7,2 mm
Si osservi che il centro ottico si abbassa di circa 0,5 mm per ogni grado di angolo pantoscopico
Il primo problema che l’ottico si trova ad affrontare quando vuole montare correttamente un
occhiale è assegnare il corretto valore all’angolo pantoscopico della montatura, calzata sul viso del
cliente. Per superare l’ostacolo si sono adottate, nel tempo, varie standardizzazioni
dell’abbassamento del centro ottico. Viene normalmente presa come origine la linea del datum line.
Alcuni usano posizionare il centro ottico della lente su questa linea, altri ritengono migliore alzarlo
rispetto ad essa di 2 mm. Entrambe le soluzioni si basano sull’assunto (per la verità non sempre
verificato) che i centri pupillari debbano cadere nella semiparte superiore della montatura a circa 58 mm dalla linea mediana.
In tempi recenti l’introduzione sul mercato delle lenti progressive ha creato l’abitudine di rilevare,
mediante una marcatura sulla lente di presentazione, la posizione dei centri pupillari dietro
l’occhiale. Si è abbastanza diffusa la cultura del centrare tutte le lenti, anche le monofocali, come
fossero delle progressive. In tal modo non si introduce alcun effetto prismatico, ma sarebbe
opportuno che venisse azzerato l’eventuale angolo pantoscopico per mantenere la coassialità tra
l’asse ottico della lente e il centro di rotazione dell’occhio. Evidente, agendo in questo modo, la
perdita di qualità visiva durante la rotazione degli occhi dietro le lenti, particolarmente nelle
infraduzioni.
Più recenti considerazioni su effetti prismatici e confort hanno stabilito che le vergenze fusionali,
normalmente presenti, sono più che sufficienti a mantenere in confort un abbassamento del centro
ottico di 4 mm rispetto alla posizione del centro pupillare, il che, il più delle volte, equivale ad
alzarlo, rispetto alla linea mediana, di una valore compreso tra 1 e 3 mm. Operando in tal modo, si
giudica visivamente premiante l’allineamento dell’asse ottico con il centro di rotazione, piuttosto
94
che l’annullamento degli effetti prismatici, che come appena detto sono nella maggior parte dei casi
ben tollerati.
Esistono alcune condizioni rifrattive in cui l’abbassamento del centro ottico non può essere
applicato, pena l’introduzione di possibili discomfort fusionali. Esse sono:
‰
La presenza di scarse riserve fusionali, ove la presenza anche di lievi valori prismatici può
generare la diplopia.
‰
Ametropie elevate, ove a piccoli valori di decentramento corrisponde un marcato effetto
prismatico base bassa negli ipermetropi e base alta nei miopi. In questi ultimi, oltretutto
l’effetto prismatico crea uno schiacciamento dell’immagine che va a ridurre ulteriormente la
dimensione dell’immagine sulla retina.
‰
Anisometropia, ove la differenza di potere diottrico tra i due occhi provoca, in caso di
decentramento verticale delle lenti, differenti valori di prisma causa di anisoforia.
Esiste per contro una condizione nella quale non è possibile trascurare il corretto abbassamento
dei centri ottici in funzione dell’angolo pantoscopico. Infatti se utilizzando lenti a tradizionale
geometria sferica, non far coincidere l’asse ottico con il centro di rotazione dell’occhio genera
effetti negativi sulla performance visiva, ma tutto sommato abbastanza contenuti da poter essere
sopportati, la stessa cosa non si può affermare quando si utilizzano lenti asferiche. Con
quest’ultime il mancato decentramento verticale (abbassamento dei centri ottici) genera un
deterioramento della qualità dell’immagine retinica molto fastidioso. Pertanto la realizzazione del
decentramento con le tecniche sopra specificate rappresenta un’imprescindibile necessità.
Procedura pratica
Nella pratica quotidiana, l’elemento di maggiore difficoltà da definire, per operare un
adeguato decentramento verticale secondo le regole sopra esposte, è la corretta definizione del
valore dell’angolo pantoscopico, che a differenza di altre misure relative alla montatura, quali il
calibro o il ponte, non può essere preventivamente stimato. Esso infatti non dipende solo
dall’angolo di attaccatura delle aste sul frontale, ma in massima parte dalle caratteristiche
anatomiche delle strutture del viso (naso e orecchie) dell’utilizzatore. Pertanto, il valore dell’angolo
pantoscopico riveste un carattere estremamente soggettivo e va valutato ad occhiale calzato. La
semplice osservazione, in assenza di strumenti adeguati, non consente di stimare con ragionevole
approssimazione il valore dell’angolo. Un metodo che consente di pervenire ad un buon risultato è
il seguente:
‰
Si fa calzare la montatura al cliente
95
‰
Si segnano sulle lenti di presentazione le posizioni pupillari dietro gli occhiali, con gli occhi
in posizione primaria.
‰
Si osserva lateralmente la presenza dell’angolo pantoscopico, quindi si invita il soggetto ad
alzare lentamente e progressivamente il capo fintanto che l’angolo pantoscopico si annulla
(frontale perpendicolare al piano orizzontale).
‰
Si ferma il soggetto in questa posizione e si torna a segnare la posizione delle pupille dietro
le lenti.
La distanza tra la seconda marcatura e la prima
rappresenta il valore di abbassamento del centro
ottico,
dipendente
dall’entità
dell’angolo
pantoscopico. Per comodità di montaggio,
normalmente sulle buste di lavorazione è
opportuno segnare di quanto il centro ottico
deve essere alzato (o abassato) rispetto alla linea
mediana della montatura. Per calcolare questo
dato si misura la distanza (y) della seconda
marcatura (quella presa ad angolo azzerato)
dal bordo inferiore della montatura e ad essa si sottrae la metà dell’ampiezza verticale totale
dell’”occhio” (b):
⎛b⎞
Dec.vert. = y − ⎜ ⎟
⎝2⎠
Se il valore esce positivo il centro ottico si troverà alzato rispetto alla linea mediana, se esce
negativo si troverà abbassato.
Si è precedentemente rilevato che nei casi di anisometropia il decentramento verticale
genera valori prismatici diversi tra i due occhi. Il diffrenziale tra i due valori genera la condizione di
anisoforia. In questi casi, specie quando l’anisometropia supera le due diottrie, è opportuno
sistemare il frontale in modo che l’angolo pantoscopico si azzeri, evitando così qualsiasi
decentramento delle lenti. Altre soluzioni di compromesso sono sicuramente meno valide.
Gli effetti prismatici.
L’ottica geometrica assimila la variazione di vergenza, impressa da una lente alla radiazione
incidente, alla deviazione generata da un prisma. Prentice definisce le lenti come un insieme infinito
di prismi con angolo di rifrangenza crescente man mano che il punto di incidenza si allontana dal
centro ottico. Il valore della deviazione è misurato dalla formula:
96
∆ = h ⋅ϕ
In questo modo la lente perde
la sua connotazione d’insieme di due
diottri,
per
assumere
quella
di
accoppiamento di prismi. Nella lente
positiva i prismi sono accoppiati per
la base, in quella negativa per il
vertice.
Risulta evidente che se per qualsiasi
ragione, i punti di centraggio non
coincidono con centri ottici della lente (CO) dietro ad essa si genera un effetto prismatico , l’occhio
riceve la radiazione come se provenisse da un punto eccentrico dello spazio visivo. Per ripristinare
la coniugazione tra fovea e punto oggetto, il centro fusionale dovrà imprimere un movimento di
vergenza compensatoria e di conseguenza commetterà un errore di localizzazione dell’immagine.
Alle volte è la stessa prescrizione a richiedere oltre alla correzione dell’ametropia anche un
effetto prismatico. In questi casi può essere fatta costruire una lente prismatica con l’opportuno
valore di deviazione (δ). Lenti di questo tipo risultano spesso antiestetiche e appesantiscono
l’occhiale. Inoltre l’immagine fornita dal prisma ha sempre un effetto di iridescenza dovuto alla
marcata dispersione cromatica che esso introduce.
Ugualmente si può ottenere l’effetto prismatico desiderato decentrando il centro ottico della
lente rispetto ai centri pupillari, evitando gli inestetismi del prisma.
La seconda soluzione, sicuramente vantaggiosa, trova però alcuni limiti di realizzabilità legati al
fatto che l’entità del decentramento è inversamente proporzionale al potere della lente:
h=
∆
ϕ
Pertanto la possibilità di evitare il ricorso alla lente prismatica dipende da:
‰
L’entità del valore prismatico necessario
‰
Il potere diottrico della lente
‰
Il diametro massimo disponibile della lente
‰
La dimensione dell’occhio della montatura
Per conoscere il meccanismo dell’effetto prismatico legato al decentramento è bene tener conto che
a parità di valore e di direzione del decentramento:
E. Bottegal – Ottica oftalmica
97
a)
Con lenti positive il prisma introdotto ha base corrispondente alla direzione dello
spostamento del centro ottico. (Esempio: se il centro ottico è spostato verso il naso il
prisma equivalente ha la base nasale)
b)
Con lenti negative il prisma ha la base opposta alla direzione dello spostamento del
centro ottico
Inoltre, la formula di Prentice permette di calcolare la deviazione subita dai raggi quando
attraversano un prisma.Questo valore prende il nome di effetto prismatico nominale (∆n). Però a
causa della distanza tra lente e occhio, il valore della rotazione che gli assi visivi devono compiere
per mantenere l’immagine sulla fovea non è proporzionale all’effetto prismatico nominale. Il valore
della reale rotazione degli assi visivi prende il nome di effetto prismatico effettivo (∆e)
Se indichiamo con:
s: la distanza tra il centro di rotazione dell’occhio e la lente (27 mm)
d: la distanza di fissazione
l’effetto prismatico nominale è definito dalla seguente:
∆e =
∆n
.
⎛s⎞
1+⎜ ⎟
⎝d ⎠
Le variazioni di ∆e non dipendono solo dalla distanza di fissazione, ma anche dal fatto che la
deviazione sia generata da un prisma puro ovvero da una lente decentrata.
Esercizio I: Calcolare l’effetto prismatico effettivo generato da un prisma di 7∆ sia nella visione
all’infinito che in quella a 40 cm.
Visione da lontano: ∆ e =
Visione da vicino: ∆ e =
∆n
7
7
7
=
=
= = 7∆
⎛s⎞
⎛ 0,027 ⎞ 1 + 0 1
1+⎜ ⎟ 1+⎜
⎟
⎝d ⎠
⎝ ∞ ⎠
∆n
7
7
7
=
=
= 6,56 ∆
=
⎛s⎞
⎛ 0,027 ⎞ 1 + 0,0675 1,0675
1+⎜ ⎟ 1+⎜
⎟
⎝d ⎠
⎝ 0,4 ⎠
E. Bottegal – Ottica oftalmica
98
a) Visione da lontano
∆e = ∆n
b) Visione da vicino
∆e < ∆n
Quando l’effetto prismatico è ottenuto mediante decentramento di una lente oftalmica, deve
per forza entrare nel calcolo anche il potere della lente. Dalla formula di Prentice sappiamo, infatti
che l’effetto prismatico nominale è direttamente proporzionale ad esso. Inoltre non è da trascurare
la variazione di potere effettivo che la lente produce in base alla sua distanza dal centro di rotazione
dell’occhio. È noto infatti che l’allontanamento di una lente dall’occhio produce un effetto
correttivo minore nelle lenti negative e maggiore in quelle positive.
Nella formula di. Prentice, per il calcolo dell’effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n il potere
della lente è quello nominale. Per calcolare l’effetto prismatico effettivo bisogna sostituire il potere
nominale della lente con quello effettivo che deriva da: ϕ e =
∆e = h ⋅ϕ e → ∆e = h ⋅
∆e =
∆e =
ϕn
1 − (s ⋅ ϕ n )
=
s
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
d
1 − (s ⋅ ϕ n )
quindi :
h ⋅ϕ n
ma h ⋅ ϕ n è uguale a ∆n Sostituendo si ottiene:
1 − (s ⋅ ϕ n )
∆n
nella visione lontana
1 − (s ⋅ϕ n )
∆n
ϕn
nella visione vicina
E. Bottegal – Ottica oftalmica
99
Esercizio II: Calcolare l’effetto prismatico effettivo, in visione all’infinito, generato da una lente
sf.+12.00 e da una -12.00, quando siano entrambe decentrate tempialmente di 8mm.
Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,8 ⋅ 12 = 9,6 ∆
Effetto prismatico effettivo con lente positiva: ∆ e =
∆n
9,6
9,6
=
=
= 14,20 ∆
1 − ( s ⋅ ϕ n ) 1 − (0,027 ⋅ 12) 0,676
Effetto prismatico effettivo con lente negativa: ∆ e =
∆n
9,6
9,60
=
=
= 7,25 ∆
1 − ( s ⋅ ϕ n ) 1 − (0,027 ⋅ −12) 1,324
a) Visione da lontano con lente positiva
∆e>∆n
Base Tempiale
b)Visione da lontano con lente negativa
∆e < ∆n
Base Nasale
Nella visione vicina entra nel calcolo la distanza lente-centro di rotazione (s) e la distanza di
fissazione (d).
Esercizio III. Calcolare l’effetto prismatico effettivo dato da una lente di potere +10.00 dt,
decentrata verso il naso di 6 mm, quando venga fissato un oggetto a 33 cm.
Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,6 ⋅ 10 = 6 ∆ Base Nasale
Effetto Prismatico effettivo:
∆e =
∆n
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
s
d
6
=
1 − (0,027 ⋅ 10) +
2,7
33
=
6
6
=
= 7,39 ∆ Base Nasale
1 − (0,27) + 0,081 0,811
Esercizio IV: Calcolare l’effetto prismatico effettivo della stessa lente precedente, con lo stesso
decentramento, quando il punto di fissazione sia a 10 cm:
∆e =
∆n
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
s
d
=
6
1 − (0,027 ⋅ 10 ) +
2,7
10
=
6
6
= = 6 ∆ Base Nasale
1 − (0 ,27 ) + 0,27 1
100
Esercizio V: Calcolare l’effetto prismatico effettivo della stessa lente precedente, con lo stesso
decentramento, quando il punto di fissazione sia a 5 cm.
∆e =
∆n
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
s
d
6
=
1 − (0,027 ⋅ 10 ) +
2,7
5
=
6
6
=
= 4,72 ∆ Base Nasale
1 − (0, 27 ) + 0,54 1,27
Ora ripetiamo i tre esercizi precedenti con gli stessi dati ma considerando la lente negativa.
Effetto prismatico nominale: ∆ n = h ⋅ ϕ n = 0,6 ⋅ 10 = 6 ∆ Base Tempiale
Esercizio VI: Oggetto a 33 cm:
∆e =
∆n
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
s
d
=
6
1 − [0 ,027 ⋅ (−10 )] +
2,7
33
=
6
6
=
= 4,42 ∆ .Base Temp.
1 − (−0,27 ) + 0,081 1, 351
=
6
6
=
= 3,89 ∆
1 − (−0, 27 ) + 0,27 1,54
=
6
6
=
= 3,31 ∆ Base Tempiale
1 − (−0,27 ) + 0,54 1,81
EsercizioVII: Oggetto a 10 cm:
∆e =
∆n
s
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
d
=
6
2,7
1 − [0,027 ⋅ (−10 )] +
10
Base
Tempiale
Esercizio VIII: Oggetto a 5 cm
∆e =
∆n
1 − (s ⋅ ϕ n ) +
s
d
=
6
1 − [0 ,027 ⋅ (−10 )] +
2,7
5
Osservando i risultati degli esercizi dell’effetto prismatico da vicino si possono fare alcune
considerazioni:
I° Considerazione: La lente considerata ha potere 10 dt, quindi la sua focale è 10 cm ()
II° Considerazione: Con la lente positiva, quando il punto di fissazione è posto ad una distanza
maggiore della focale della lente ∆e è maggiore di ∆n. Quando il punto di fissazione è posto a
distanza pari alla focale ∆e è uguale a ∆n.. Quando il punto di fissazione è posto a distanza inferiore
alla focale della lente ∆e è minore di ∆n..
III° Considerazione: Con la lente negativa, qualunque sia la distanza del punto di fissazione ∆e è
sempre inferiore a ∆n.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
101
A conclusione della trattazione degli effetti prismatici con prisma puro e lente sferica,
riassumiamo il confronto tra effetto prismatico nominale ed effettivo con la seguente tabella:
CONFRONTO TRA ∆e e ∆n
Lontano
Vicino
Prisma puro
∆e = ∆n
∆e < ∆n
Lente positiva decentrata
∆e > ∆n
d>f: ∆e > ∆n
d=f: ∆e = ∆n
d<f: ∆e < ∆n
Lente negativa decentrata
∆e < ∆n
∆e < ∆n
il centraggio dell’occhiale da vicino.
Il decentramento orizzontale
Nei concetti nulla cambia rispetto a tutto quello che è stato detto per la centratura da
lontano. Unica differenza sta nel valore della distanza interpupillare, e quindi dei centri ottici della
lente, che deve essere ridotta mediamente di 2,5 mm per ciascun occhio.
Ancora una volta è , però, necessario, fare un distinguo per le lenti asferiche.
Quando il centro ottico della lente è posizionato per la distanza interpupillare da vicino ed il bulbo
effettua la regolare convergenza per allineare la fovea con il punto di fissazione, affinchè l’asse
ottico delle lenti continui a contenere il centro di rotazione dell’occhio è necessario che il piano
delle lenti, e quindi della montatura, ruoti verso l’esterno di 1° per ogni 0,05 mm di decentramento
orizzontale. Il normale decentramento di 2,5 mm per occhio corrisponde una rotazione del frontale
della montatura di 5°.
102
Regolare decentramento del centro ottico Rotazione verso l’esterno del piano delle
da vicino. L’asse ottico non contiene il
lenti per riportare l’asse ottico a contenere
centro di rotazione dell’occhio
il centro di rotazione dell’occhio
Osserviamo che:
1. La quantità di piegatura del frontale della montatura verso l’esterno dipende dall’entità del
decentramento. Quindi se il decentramento è 0° anche l’angolo di piegatura sarà 0°
2. È otticamente improponibile utilizzare delle lenti asferiche se non si è in grado di far si che
l’asse ottico contenga il centro di rotazione dell’occhio.
3. La soluzione di piegare verso l’esterno il piano delle lenti è altrettanto improponibile; sia per
fattori estetici che di comfort fisico
Ciò significa che le lenti asferiche, quando sono utilizzate per la visione vicina, vanno centrate sulla
distanza interpupillare per lontano.
Il decentramento verticale.
Per tenere conto dell’infraduzione degli assi visivi nella visione vicina il centro ottico delle
lenti deve essere ulteriormente decentrato verso il basso. L’entità del decentramento dipende dal
tipo di appoggio nasale della montatura utilizzata.:
¾ Appoggio normale sulla radice del naso (montature tradizionali): si abbassa il centro di due
millimetri rispetto alla linea mediana dell’occhio della montatura.
¾ Appoggio al centro della sella nasale (nezzocchiale): il centro. Ottico va posto sulla linea
mediana dell’occhio della montatura.
Effetti prismatici e binocularita’
La mancanza di coincidenza centro-ottico/asse-visuale, con conseguente effetto prismatico, può
realizzarsi in due condizioni:
1. Errore di centraggio.
2. Utilizzo di zone extra-assiali della lente
Gli errori di centraggio
Sono di tipo involontario quando si commette un errore nella sagomatura delle lenti. Sono
invece volontari nell’allineamento verticale, quando in presenza di angolo pantoscopico si
abbassano volontariamente i centri ottici, rispetto alla reale posizione della pupilla dietro lenti, per
far passare l’asse ottico sul centro di rotazione dell’occhio.
E. Bottegal – Ottica oftalmica
103
L’utilizzo di zone extra-assiali
Le lenti montate in un occhiale assumono rispetto agli occhi una posizione assolutamente
statica. Pertanto ogni qualvolta l’utilizzatore decide di esplorare lo spazio con movimenti degli
occhi e non del capo, risulta che gli assi visivi abbandonano il punto di centraggio originale, pur
esatto, e vanno ad utilizzare zone di lente variamente parassiali, introducendo un’inevitabile effetto
prismatico.
Si può ben dire che durante tutto il tempo di utilizzo di un occhiale sono di gran lunga maggiori i
momenti in cui la visione è interessata da effetti prismatici che non quando il sistema fusionale è in
perfetto riposo.
Diventa pertanto estremamente importante saper valutare l’impatto che tali effetti prismatici
hanno sulla binocularità dell’utilizzatore. Essi saranno la risultante degli effetti monoculari.
L’effetto prismatico complessivo risulta dalla somma degli errori di centratura definiti in
ciascun occhio, strettamente dipendente dal potere delle lenti, ma anche dall’orientamento della
base del prisma introdotto in ogni occhio. A questo riguardo si parla di:
1. Effetti prismatici simmetrici
2. Effetti prismatici asimmetrici
Effetti simmetrici
Il caso è ben visualizzabile nella figura accanto. L’effetto
prismatico introdotto dalle lenti è base nasale nell’occhio
destro e a base tempiale nell’occhio sinistro. In pratica i
prismi introdotti hanno entrambe le basi verso sinistra. Si
usa dire che i prismi hanno la base coniugata.
Questo fenomeno può essere causato sia da un errore di
montaggio delle lenti, sia da posizioni di sguardo laterali
che vanno ad interessare zone extra-assiali
coniugate
delle lenti.
Nel caso che i prismi simmetrici siano creati da un errore di montaggio, gli occhi, che in
posizione primaria stanno osservando l’infinito, non hanno sulle rispettive fovee l’immagine
dell’oggetto osservato e per ripristinare la corretta visione bifoveolare saranno costretti a ruotare
entrambi verso l’apice del prisma (a destra nella figura) di un valore angolare pari a quello
dell’effetto prismatico monoculare introdotto. In questo caso la fusione sensoriale non è impegnata,
perché gli assi visivi possono continuare a mantenere il loro parallelismo. Si genera in pratica un
104
movimento binoculare di versione, che genera un errore di collocazione delle immagini degli
oggetti osservati nello spazio. Gli effetti prismatici simmetrici monoculari, sommandosi, si
annullano.
Nel caso che l’effetto prismatico simmetrico sia creato dai movimenti volontari di versione
dietro le lenti, ciò che si verifica è una modifica del valore dell’angolo di versione. Nel caso si tratti
di lenti positive l’angolo di versione tende ad aumentare, nel caso di lenti negative l’angolo tende a
diminuire.
La possibilità di annullare il totale del valore prismatico introdotto da due effetti monoculari
simmetrici è anche dipendente dal potere diottrico delle lenti. In presenza di anisometropia si genera
anche, dal punto di vista prismatico, un’anisoforia che implica un diverso valore di versione a
carico di ciascun occhio. Da ciò si comprende che l’utilizzo volontario di decentramenti verticali
simmetrici, necessari in presenza di angolo pantoscopico dell’occhiale, devono essere valutati con
molta attenzione in presenza di significative condizioni anisometropiche.
Effetti asimmetrici
Sono
questi
coinvolgono
i
le
casi
che
capacità
maggiormente
fusionali.
Infatti
l’effetto prismatico asimmetrico fa perdere la
fissazione
bifoveolare,
che
si
ripristina
attraverso movimenti disgiunti degli occhi.
Solo attraverso la modifica della vergenza degli
assi visivi si riesce a mantenere la fusione delle
immagini.
Come si vede nell’immagine, la direzione delle
basi degli effetti prismatici è tempiale in ambo
gli occhi. L’asimmetria è definita dal fatto che le basi sono rivolte l’una a verso destra e l’altra
verso sinistra. In questo modo i valori prismatici monoculari si sommano. Gli assi visivi, per
mantenere la fusione, non possono più rimanere paralleli, ma devono compiere un movimento in
convergenza, di ampiezza pari alla somma degli effetti monoculari.
Le capacità fusionali sensoriali che sovrintendono ai movimenti di vergenza hanno carattere
di soggettività, pertanto non è infrequente riscontrare una diversa risposta soggettiva in presenza di
identici effetti prismatici asimmetrici. In linea generale le capacità di compensare tali effetti è
maggiore per i movimenti in convergenza, minore per quelli in divergenza e scarsissima per le
vergenze verticali.
105
106
LE LENTI A CONTATTO
I Polimeri.
La possibilità di correggere l’errore rifrattivo dell’occhio, modificando la potenza del suo
diottro principale era conosciuta fin dai tempi di Leonardo da Vinci. Poterlo fare mediante
sovrapposizione alla cornea di una calotta trasparente otticamente capace di riportare il sistema
all’emmetropia è invece storia dei nostri giorni. Nel XX secolo la chimica organica e propriamente
quella delle materie plastiche ha permesso di produrre nuove sostanze con caratteristiche di
leggerezza, trasparenza, lavorabilità a bassi spessori, stabilità e biocompatibilità
che si sono
dimostrate perfettamente adatte alla costruzione di lenti a contatto. Queste sostanze fanno parte
della grande famiglia dei polimeri.
I polimeri sono composti costituiti da l’unione di numerose (molte migliaia) unità elementari
chiamate monomeri.
L’unione di monomeri tutti uguali tra di loro porta alla formazione di omopolimeri, mentre
l’unione di monomeri di sostanze diverse viene chiamata copolimero.
Il legame tra i vari monomeri che costituiscono il polimero può essere in forma:
‰
lineare
‰
ramificata
‰
crociata
In base al loro comportamento al calore, sono suddivisi in:
‰
termoplastici
‰
termoindurenti.
I polimeri termoplastici si ammorbidiscono con il calore e possono essere modellati più volte
con relativa facilità; i termoindurenti non si ammorbidiscono facilmente e possono essere
lavorati una sola volta.
I polimeri lineari in genere hanno caratteristiche meno nobili, sono termoplastici, solubili,
instabili, mentre quelli con legami crociati e trasversali sono inerti, stabili, insolubili nei più comuni
solventi.
Se il numero dei legami trasversali è relativamente basso, il materiale risulta morbido e con
particolare attitudine ad assorbire la soluzione ove viene immerso. All’aumentare del numero dei
legami crociati aumenta la rigidità del materiale e diminuisce la sua affinità ad assorbire liquidi.
107
È opportuno passare in rassegna quali debbono essere le principali caratteristiche affinchè un
polimero possa essere selezionato per la costruzione di lenti a contatto.
La permeabilità e la trasmissione di ossigeno.
La cornea è un tessuto avascolare che acquisisce ossigeno, ad occhio aperto, dal film
lacrimale, in cui si diffonde l’ossigeno atmosferico e in misura molto minore dall’umor acqueo e dal
plesso vascolare perilimbare. Ad occhio chiuso dai vasi della congiuntiva tarsale.
Qualsiasi lente a contatto applicata sulla cornea agisce come barriera all’utilizzo
dell’ossigeno atmosferico.
Una certa quantità d’ossigeno può comunque raggiungere la cornea attraverso:
‰
Il pompaggio di liquido lacrimale dietro la lente durante il suo movimento (significativo
nelle lenti RGP)
‰
Attraverso il materiale della lente
Questa seconda opportunità è fondamentale nelle lenti morbide, ove il grande diametro e lo
scarso movimento non consentono adeguate forme di pompaggio.
Il valore della permeabilità dell’ossigeno in un certo materiale è funzione della:
•
Velocità con cui le molecole di ossigeno riescono a passare attraverso il materiale
(Diffusione)
•
Facilità con cui l’ossigeno si dissolve nel materiale (Solubilità)
Il prodotto di questi due coefficienti: Diffusione (D) x Solubilità (k) è sempre un valore molto
piccolo, tale che per comodità viene espresso come x10-11 .
Il Dk (x10-11) è una caratteristica del materiale in quanto ne esprime la gaspermeabilità
Quando con un dato materiale viene costruita una lente a contatto entra in gioco un altro fattore
fondamentale: lo spessore della lente (t).
Poiché, in questo caso, il valore di trasmissibilità di ossigeno viene ottenuto facendo il rapporto tra
il Dk del materiale e lo spessore (t) della lente, viene usata l’espressione Dk/t che in valore è
espressa da un numero x 10-9.
Entro un certo limite di riduzione di apporto di ossigeno la cornea umana è in grado di
rallentare i propri processi metabolici ed evitare alterazioni significative della sua deturgescenza; se
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
108
tale limite viene superato l’edema stromale travalica i confini fisiologici e la richiesta di ossigeno,
per combattere l’anossia, si rivolge ai capillari del plesso perilimbare che aumentano di volume e si
spingono fin oltre il limbus per conferire l’ossigeno richiesto dagli esausti tessuti corneali.
Risultato: OCCHIO ROSSO.
Nel 1984 Holden e Mertz stabilirono che l’ispessimento della cornea (edema) indotto dal porto di
lenti a contatto non doveva superare il 4% e che i Dk/t utili a non superare tale limite sono:
‰
24 x10-9 per il porto diurno
‰
87x10-9 per il porto notturno
Porto notturno
140
120
Dk/t
100
80
Serie1
60
40
20
0
0
5
10
15
20
25
30
Edema Corneale
Fig.1- Distribuzione dell’edema cornele al variare del D k/ nel porto notturno (Holden e Mertz)
La necessità di produrre lenti con alto Dk/t fu compreso dai costruttori come obiettivo da
raggiungere ancora prima degli studi di Holden e Metz e l’attenzione fu subito posta al contenuto
d’acqua raggiungibile dalla lente, requisito fondamentale per aumentare la gas-permeabiltà.
Il rapporto acqua/polimero
Gli idrogel sono polimeri che hanno un rapporto privilegiato con l’acqua, nel senso che,
dopo la produzione allo stato secco, nel momento che vengono immersi in soluzione acquosa
tendono ad assorbire una certa quantità di liquido, aumentando di peso e di volume. La
variazione di peso dallo stato secco a quello idrato esprime il tasso d’idratazione del materiale.
109
In effetti però solo una parte del tasso di idratazione è costituita da acqua elettrostaticamente
legata ai siti polari del materiale; un’altra parte, a volte anche rilevante, è determinata dall’effetto
di riempimento dei pori del polimero stesso senza però legami chimici (acqua libera).
Nel caso l’idrogel venga rimosso dallo stato di immersione e posizionato in ambiente secco
l’acqua libera tende ad evaporare rapidamente mentre la porzione legata permane molto più a
lungo all’interno del materiale.
In modo analogo, si possono osservare stati di disidratazione di lenti idrofile quando siano
applicate in occhi tendenzialmente secchi. Lo strato acquoso del film lacrimale evapora
nell’intervallo di tempo compreso tra due ammiccamenti. Se il film è instabile si generano aree
più o meno diffuse di secchezza che tendono ad essere risolte richiamando acqua dall’interno
della lente applicata. Si genera, quindi, una disidratazione primariamente a carico dell’acqua
libera presente nella lente che è tanto più veloce, quanto maggiore è la sua idrofilia.
Gli effetti derivati dalla disidratazione sono:
‰
Diminuzione del BOZR
‰
Diminuzione del Dk/t
‰
Aumento dell’indice di rifrazione
‰
Diminuzione dello spessore
‰
Diminuzione del diametro totale (TD)
‰
Cambiamento del potere
Risulta evidente che conoscere il rapporto esistente tra acqua libera e acqua legata consente
di conoscere la velocità di disidratazione di una certa lente a contatto in condizioni di secchezza
oculare.
La carica elettrica
Un’altra caratteristica di estrema importanza nella valutazione degli hydrogel è il tipo di
carica elettrica di superficie in essi presente.
Infatti per effetto della ionizzazione alcuni materiali possono presentare una carica di
superficie negativa, mentre altri tendono alla neutralità.
Tenendo conto che le mucoproteine del film lacrimale sono caricate positivamente in
superficie, a seconda della carica presente nel materiale questo sarà più o meno predisposto alla
formazione di depositi.
In questo contesto gli hydrogel vengono distinti in:
‰
ionici (hanno carica negativa)
110
‰
non-ionici (non hanno carica)
La classificazione secondo l’FDA
Riconoscendo come primarie le caratteristiche di idratazione e ionicità dei materiali per lenti a
contatto in relazione al loro comportamento in vivo, l’FDA ha stabilito la seguente
classificazione in quattro gruppi:
GRUPPO 1
GRUPPO 2
H2O<50% non-ionico H2O>50% non-ionico
GRUPPO 3
GRUPPO 4
H2O<50% ionico
H2O>50% ionico
Tefilcon (38%)
Lidofilcon B (79%)
Bufilcon (45%)
Bufilcon A (55%)
Tetrafilcon A (43%)
Surfilcon (74%)
Deltafilcon A (43%) Perfilcon (71%)
Crofilcon A (38%)
Lidofilcon A (70%)
Droxifilcon A (47%) Etafilcon A (55%)
Hefilcon AeB (45%)
Netrafilcon A (65%)
Phemfilcon A (38%) Focofilcon A (55%)
Isofilcon (36%)
Hefilcon C (57%)
Ocufilcon (44%)
Mafilcon (33%)
Alfafilcon A (66%)
Ocufilcon C (55%)
Polymacon (38%)
Omafilcon A (59%)
Phemfilcon A (55%)
Vasurfilcon A (74%)
Methafilcon A (55%)
Hioxifilcon (59%)
Methafilcon B (55%)
Ocufilcon B (53%)
Vifilcon A (55%)
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
111
L’evoluzione dei materiali
A seconda della famiglia di appartenenza del materiale, le lenti a contatto di dividono in:
‰
Lenti Rigide
‰
Lenti Morbide
Materiali per Lenti rigide.
Sono costruite con polimeri di tipo vetroso classificati in 4 gruppi in relazione al valore di
Dk espresso.
Gruppo
1:
PMMA
(poli-metilmetacrilato).
Dk=0.
È il primo materiale plastico utilizzato per la
fabbricazione di lenti a contatto. Ha ottime
caratteristiche
di
stabilità,
riproducibilità,
qualità ottica, facilità di lavorazione. Si noti
nella struttura l’assenza di gruppi polari che ne
impedisce
l’assorbimento
dell’acqua
e
di
conseguenza la scarsa compatibilità con le
strutture figurate del film lacrimale.
Gruppo 2: CAB (Acetato Butirrato
di cellulosa) Dk=4.
E’ il primo materiale gas permeabile
rigido
utilizzato
(1973)
Deriva
dall’eterificazione della cellulosa,
che contiene numerosi gruppo OH.
Nella produzione alcuni di questi ossidrili vengono rimpiazzati dall’acetato (acido acetico) e dal
butirrile (acido butirrico derivato da gas naturali). I rimanenti gruppi OH conferiscono al materiale
una buona bagnabilità e un’idrofilia del 2-3%. Nella sua versione originaria presenta alcuni
inconvenienti quali la bassa resistenza all’abrasione e la ridotta stabilità dimensionale, in termini di
costanza del BZOR. Maggior successo ha avuto la sua co-polimerizzazione con l’Etilene acetato di
vinile (EVA), che ne migliora la bagnabilità e la stabilità.
112
Gruppo 3: Silossano-Metacrilato
(pMMA+Silossano) Dk>6.
Questi copolimeri sono frutto di miscele
monometriche che contengono 4 componenti
principali giocati i proporzioni differenti:
‰
Monomero di silossano metacrilato. non
contiene in effetti silicone puro, ma
derivati del metacrilato caratterizzati da
legami silossanici (Silicone-Ossigeno
Si-O-Si) nella struttura finale della
catena. Siccome questi legami sono per loro natura ampi e flessibili consentono all’ossigeno
di muoversi liberamente entro il materiale.
‰
p-MMA (Metilmetacrilato). Conferisce al materiale tutte le qualità del plexiglass: stabilità,
lavorabilità, durezza.
‰
EGDMA (Etileneglicoldimetacrilato): connette le catene polimeriche e le rende più stabili
(crosslincante)
‰
MAA (Acido metacrilico) Conferisce ottima bagnabilità (Umettante)
I principali svantaggi legati a questi materiali sono:
‰
facilità a sviluppare depositi proteici derivati dal film lacrimale
‰
Fragilità
‰
Alta incidenza di colorazione corneale ore 3 e 9
Le più comuni denominazioni commerciali di questi materiali sono le seguenti:
Materiale
Dk
Polycon II
12
Boston II
15
Paraperm O2
15
Boston IV
26,7
Dk43
43
Paraperm EW
56
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
113
Gruppo 5: Fluoroacrilati
Si ottengono addizionando dei
componenti fluorati ai
copolimeri di silossano-acrilato.
I risultati:
‰
Notevole aumento della gas-permeabiltà
‰
Aumento della durezza che può arrivare ai livelli del p-MMA
‰
Riduzione del coefficiente di attrito (lente- palpebra)
‰
Aumento resistenza alla formazione di depositi
Le più comuni denominazioni commerciali di questi materiali sono le seguenti:
Materiale
Dk
Fluoroperm 30
30
Boston ES
31
Equalens
71
Fluoroperm 90
90
Quantum
92
Boston 7
73
Equalens 125
125
Fluoroperm 151
151
Optacryl F
160
Materiali per Lenti morbide
Le prime lenti a contatto morbide nascono nel 1962 in Cecoslovacchia. Lim e Wichterle,
due ricercatori dell’istituto di chimica macromolecolare di Praga, attraverso la polimerizzazione
di monomeri di idrossietilmetacrilato legato in forma crociata con una bassa quantità (meno del
3%) di glicoletilenedimetacrilato (EGDMA)
ottengono
lenti
a
Polidrossietilmetacricato (p-HEMA) che presenta un contenuto d’acqua del 38%.
114
contatto
in
L’HEMA si dimostra subito un ottimo materiale per la costruzione di lenti a contatto per la
buona stabilità, nessuna carica di superficie, robustezza. Unico neo il Dk pari a 9x10-11 .
Ottenere un valore di trasmissione minimo sufficiente per un uso diurno (24x10-9) obbliga alla
costruzione di spessori troppo bassi, non proponibili per la tecnologia dell’epoca. Per ovviare a
questo inconveniente le prime lenti in HEMA commercializzate, a partire dai primi anni ’70,
presentavano diametri estremamente piccoli (12,5 / 13,00) al fine di sfruttare per l’ossigenazione
corneale anche l’effetto pompa sotto la lente durante l’ammiccamento.
L’utilizzo di diametri piccoli richiede, in sede applicativa, una scelta accurata del r.b. e
quindi la necessità di avere a disposizione una gamma molto vasta di tali parametri.
Per standardizzare maggiormente la produzione riducendo significativamente il numero dei r.b.
disponibili, era necessario costruire diametri più grandi (13,50, 14,00, 15,00) ma
conseguentemente aumentare il Dk/t delle lenti attraverso l’aumento dell’idratazione del
materiale.
Tale risultato fu ottenuto attraverso la copolimerizzazione dell’HEMA con altri monomeri.
I principali monomeri usati in questa fase sono l’acido metacrilico e l’Nvinilpirrolidone
La copolimerizzazione con acido metacrilico (MAA) permise di ottenere un’idratazione variabile
tra il 50% e il 65% a seconda della concentrazione acida.
L’aggiunta di questo acido però modifica lo stato di neutralità superficiale dell’HEMA
rendendolo elettrochimicamente negativo (materiale ionico) e quindi con grande affinità di
legame, sia con le componenti figurate del film lacrimale, sia con i disinfettanti contenuti nelle
soluzioni di manutenzione.
L’utilizzo del Nvinilpirrolidone (NVP), per la presenza del lattato che va a sostituire il
gruppo acido introdotto dall’uso del MAA, permette di ottenere idratazioni molto elevate (fino al
75%) e mantenere relativamente neutra la carica di superficie.
115
Con lo stesso scopo vennero introdotti sul mercato nuove copolimerizzazioni senza HEMA
che, oltre ad aumentare il contenuto idrico, mantenessero la neutralità di carica.
I più diffusi sono quelli a base di metilmetacrilato (MMA). Lo si trova copolimerizzato sia con
Glicerolmetacrilato (GMA) sia con NVinilpirrolidone (NVP).
La prima sintesi (MMA/GMA ) portò alla realizzazione e commercializzazione del
Crofilcon A, un materiale che per la prima volta dimostrava un’efficacissima resistenza alla
formazione di depositi, tale che fu acclamato come l’unico prodotto adatto ad ottenere un’effettiva
prevenzione nei casi di congiuntivite papillare gigante.
Nonostante le premesse il Crofilcon A non ebbe il successo che poteva meritare a causa del suo
contenuto idrico (38%) che come Dk lo equipara al classico HEMA e quindi non lo rendeva
idoneo all’uso prolungato se non addirittura permanente che già all’ora, come del resto oggi,
rappresentava per i produttori di lenti il punto d’arrivo per la conquista del mercato.
MMA/NVP ha avuto più successo del precedente, in quanto consente di ottenere hydrogel
non-ionico ad elevato contenuto idrico (70%) quindi con Dk elevato che si accoppia ad una buona
resistenza meccanica.
Tutte queste nuove polimerizzazioni (sia quelle con HEMA che quelle senza) presentarono
subito (al contrario di quelli ionici) una notevole rapidità di disidratazione e una relativa lentezza
nel reidratarsi. Difatti il loro utilizzo in ambiente poco idratato (es. l’occhio secco) ne provoca una
veloce perdita d’acqua con evidente modificazione dei parametri costruttivi (r.b., potere, ecc.) che
in aggiunta alla loro particolare lentezza nel reidratarsi li rende relativamente poco sensibili
all’uso di lacrime artificiali (necessità di frequenti instillazioni).
La manifesta impossibilità all’ottenere il materiale ideale ( privo di carica di superficie, di
idratazione medio alta, veloce ad idratarsi e lento a disidratarsi) spinse alcuni a pensare che le
lente costruibile il più vicino possibile alle condizioni ideali dovesse avere un Dk/t
sufficientemente elevato per il porto anche prolungato, ottenuto con una media idratazione
accoppiata ad un basso spessore (max 0,08 mm), costruita in materiale ionico per garantire il
mantenimento dell’idratazione anche i presenza di secchezza e che venisse sostituita prima che si
verificasse la deneturazione dei depositi proteici.
Nella seconda metà degli anni ‘80, un’azienda americana che i più conoscevano solo come
produttrice di shampoo per capelli, per altro anche di dubbia qualità, si affaccia sul mercato della
contattologia e propone ACUVUE la prima lente disposable.
116
Si può certo dire che da questo momento in poi il mondo della contattologia è radicalmente
cambiato.
Etafilcon A, copolimero HEMA/MAA, 58% d’idratazione, ionico, Dk 28, non è certamente
nulla di nuovo, ma utilizzato per produrre lenti di basso spessore (0,07mm Dk/t 40x10-9) da usare
per 7 gg a porto continuo o 15 gg ad uso giornaliero ha rappresentato la più grande idea
commerciale nel mondo della contattologia moderna, con la quale ancor oggi è necessario
continuamente confrontarsi.
Come si è appena detto, da un punto di vista tecnico scientifico Acuvue non rappresenta
certo una novità e tanto meno un progresso. Il materiale non ha nulla di innovativo. Il vero punto
di forza fu il coraggio di proporre per primi al mondo un programma di sostituzione rapida
assolutamente rivoluzionario per le abitudini dei consumatori e degli applicatori dell’epoca.
La sostituzione frequente consente infatti di utilizzare spessori di lente molto bassi con
relativo evidente aumento del Dk/t, atto a consentire un certo porto prolungato, e cosa non
indifferente permette di sfruttare la deposizione proteica solo nel periodo di attività biologica
positiva. Saks et altri hanno riportato che il lisozima legato a materiali ionici mantiene il 90 %
della sua attività positiva, mentre quando si lega a materiali non-ionici diventa in gran parte
inattivo.
D’altro lato, lo spessore ridotto dimostrò un grosso limite. Infatti, Acuvue, se applicate su
occhi dalle condizioni lacrimali precarie o se usate in ambienti poco idonei come ad es. aria
condizionata o uso di VTC, in presenza di una pur lieve evaporazione, producono fenomeni di
adesione corneale tali da obbligare l’abbandono dell’utilizzo. Inoltre, in uno studio del 1992 Natan
Efron afferma che il 75% delle lenti Acuvue mai usate mostra difetti di costruzione che possono
essere causa di microtraumi epiteliali.
A metà degli anni 90 la ricerca si è indirizzata su materiali in grado di ridurre al minimo
l’interferenza con il metabolismo corneale. I risultati hanno condotto a due classi di prodotti:
1.- I Biomimetici
2.- I Siliconici
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
117
I Materiali Biomimetici.
La biomimesi s’indirizza al produrre materiali che mostrino grande affinità di superficie sia
con i tessuti corneali sia con le strutture del film lacrimale.
Il trattamento dell’idrogel con Fosforilcolina (PC) che è uno dei principali componenti delle
membrane cellulari umane conferisce a questo nuovo materiale (Omafilcon A) una
biocompatibilità uguale a queste cellule, una grande affinità con l’acqua con bassissimo tasso di
disidratazione, e quindi una notevole resistenza alla formazione di depositi organici.
La mimesi delle strutture del film lacrimale riprende gli studi degli anni 80 che avevano
condotto alla produzione del Crofilcon A, che può considerarsi il padre di questi nuovi materiali.
La mimesi è assicurata dalla presenza del glicerolo che è anche componente delle glicoproteine che
costituiscono l’ossatura dello strato muco-proteico del film lacrimale.
Si ricorderà che la funzionalità e la compattezza dello strato muco-proteico sono condizione
essenziale sia della corretta bagnabilità dell’epitelio corneale sia della corretta integrazione tra lac e
cornea. I materiali a base di glicerolo s’integrano in modo molto intimo con questo strato riuscendo
anche a sopperire ad eventuali sue alterazioni.
Il nuovo materiale si ottiene copolimerizzando l’HEMA con il Glicerol-matacrilato (GMA). Esso si
distingue dal capostipite (Crofilcon A) proprio per la sostituzione del Metilmetacrilato (MMA) con
l’idrossietilmetacrilato (HEMA); ciò consente di ottenere la presenza di 5 gruppi funzionali di
legame con l’acqua (3 alcolici e 2 esterei) contro solo 4 del vecchio Crofilcon. L’aumento
dell’idrofilia è consistente: si passa dal 38% al 58%. Il bilanciamento idrico presenta valori di
disidratazione in vivo vicini allo 0%, la stabilità al variare del PH è migliore di qualsiasi altro
concorrente. La resistenza alla formazione di depositi organici è elevatissima: in 2 settimane d’uso
il GMA/HEMA raccoglie 2,8 microgrammi di proteine, un materiale ionico di pari idratazione
(Etafilcon A) 338 microgrammi.
I Materiali Siliconici.
La possibilità di ottenere la correzione del proprio difetto visivo in modo permanente e non
legato all’infilare od applicare quotidianamente il mezzo correttivo rappresenta da sempre il sogno
di tutti gli ametropi.
L’introduzione della chirurgia rifrattiva in un primo tempo ha fatto molto sperare, ma i
risultati dei primi dieci anni di fotoablazioni hanno raffreddato molti entusiasmi e se non altro
118
hanno messo in chiaro i limiti di una terapia che era stata spacciata come “il grande miracolo” per
tutti gli ametropi.
Nuovo impulso ha quindi ottenuto la ricerca per la realizzazione di lenti a contatto ad
altissimo Dk/t tale da consentire l’uso permanente.
Durante tutti gli anni 70 il concetto di alto Dk è rimasto legato a quello di alta idrofilia con i
limiti già precedentemente esposti:
‰
Elevata predisposizione all’accumulo di depositi organici (materiali ionici)
‰
Rapidità di disidratazione e lentezza nell’idratazione (materiali non ionici)
‰
Limite (pur elevato) del Dk al valore di quello dell’acqua (90x10-11)
Basandosi sugli studi pubblicati da Fatt nel 1971 riguardo l’elevata gaspermeabilità della
gomma siliconica, l’FDA americana approvò l’utilizzo continuato di lenti a contatto costruite in
puro elastomero di silicone.
L’assoluta idrofobia del silicone veniva superata rendendo idrofilo un strato di circa 2 µ di
spessore sulle due superfici delle lenti mediante bombardamento molecolare sotto vuoto.
Studi clinici dimostrarono che l’applicazione di queste lenti poteva essere effettuata con discreto
successo.
Incredibilmente la grandissima permeabilità ai gas di questo materiale ne ha anche decretato
il suo parziale insuccesso. Infatti se da un lato l’alto Dk permette un notevole flusso dell’ossigeno
dalla faccia esterna della lente verso i tessuti corneali sottostanti, parimenti la lente non rappresenta
più una valida barriera contro l’evaporazione del liquido corneale sotto di essa; ciò determina un
assottigliamento del film lacrimale che aiutato dall’elevata elasticità della gomma produce, dopo
alcune ore d’uso, l’adesione della lente all’occhio caratterizzata da iperemia acuta, infiltrati corneali
e dolore.
Questi motivi in aggiunta alla non infrequente fragilità dello strato idrofilo di superficie
hanno limitato l’uso di queste lenti al campo terapeutico.
Si intuì subito che per sfruttare appieno la possibilità di gaspermeabilità del silicone senza subirne
gli indesiderati effetti collaterali, bisognava riuscire a copolimerizzarlo con il tradizionale idrogel
per ottenere un nuovo copolimerico bifasico che associasse le qualità idrofile dell’idrogel a quelle
idrofobiche del silicone.
Normalmente due materiali che si trovano in diverse fasi hanno diversi indici di rifrazione.
La scoperta chiave fu di creare una regione interfasica fra le due, idrofoba e idrofila, in modo da
rendere continua la rifrattività e quindi assicurare la visione nitida.
119
Il fatto che siano trascorsi vent’anni prima di arrivare a questo risultato dimostra che esistono
problemi molto più complessi di quello che si pensi.
Nel marzo del 1999 Bausch & Lomb introduce sul mercato PureVision la prima lente siliconeidrogel.
Il materiale Balafilcon A è una miscela di silicone e un composto idrogenato (NVinilpirrolidone) con un contenuto d’acqua del 35%, una permeabilità (Dk) di 99x10-11 unità e una
trasmissibilità (Dk/t) pari a 110x10-9 unità.
La matrice in silicone favorisce il naturale trasporto di O2 alla cornea; la matrice in idrogel
regola la dinamica dell’idratazione, l’elasticità facilita il trasporto dei fluidi. Il contenuto del 17% di
acqua legata abbassa notevolmente il rischio di disidratazione assicurando un confort e un
movimento della lente eccellenti.
Alla fine del 1999 CibaVision presenta sul mercato Night&Day con materiale Lotrafilcon A,
un polimero bifasico in cui la fase idrofoba è rappresentata dal fluorosilossano che
conferisce la metà della permeabilità totale.
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
120
La fase idrofila è fornita dal dimetilacrilamide
con un’idrofilia del 24%. Il Dk è pari a 140
unità e il Dk/t a 175. Questi nuovi prodotti
hanno abbastanza rapidamente riscosso un
evidente successo nella comunità degli
applicatori che hanno trovato utile il loro
impiego, non solo per il porto prolungato, ma
anche per quello giornaliero. Specificatamente
nei casi in cui venga richiesto un numero d’ore
d’uso particolarmente elevato. Difatti anche
dopo diverse ore di inserimento le lenti
silicone/hydrogel mantengono a buon livello la
loro idratazione e non presentano forme di
imbrattamento.
La resistenza ai depositi è in vero molto
accentuata.
Nonostante il miglioramento della funzione
metabolica ottenuto con questi materiali, in
molti portatori si è manifestata una certa
tradizionale, sottile e vellutato, rappresenta una
non trascurabile sensazione di corpo estraneo.
Inoltre la bassa idratazione, pur mantenendosi
abbastanza costante durante le ore di porto, non consente una costante e sufficiente dinamica di
mataboliti e cataboliti.
Per ovviare a questi inconvenienti, in momenti successivi sono state introdotte sul mercato lenti in
cui la componente siliconica è ridotta rispetto alle prime formulazioni, a vantaggio della quota
idrogel. Si ripristina, in questa maniera, una buona tollerabilità, anche se viene a scadere il valore di
Dk/t. Molti di questi prodotti (Optix O2, Advance) non sono approvati per il porto continuato.
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
121
La manutenzione delle lenti a contatto
Premessa.
I materiali plastici semirigidi e morbidi di cui sono costruite le l.a.c. hanno la caratteristica di
legarsi chimicamente con alcune sostanze presenti nelle lacrime umane. Inoltre gli Hydrogel (lenti
morbide) comportandosi come vere e proprie spugne tendono ad assorbire moltissimo dall’ambiente
ove sono immerse; quindi non solo dalle lacrime, ma anche dall’aria.
In altri termini tutte le lenti a contatto gas-permeabili sono, in misura diversa, soggette ad
inquinamento che se non viene controllato e combattuto conduce al decadimento qualitativo della
lente e all’impossibilità di essere utilizzata, pena gravi disturbi infiammatori a carico di cornea e
congiuntiva.
È bene quindi che prima di affrontare le tecniche di manutenzione ci si faccia un’idea di quali sono i
nemici da combattere.
I depositi
È stimato che l’80% di tutti i problemi clinici legati all’uso di lac morbide è attribuibile alla
formazione di depositi.
Essi comportano:
Riduzione dell’acuità visiva
Riduzione della bagnabilità del materiale
Aumento delle complicanze infettive e infiammatorie
Le analisi chimiche e morfologiche dei depositi hanno condotto ad evidenziarli come segue:
ORGANICI
INORGANICI
MICRORGANISMI
PROTEICI
LIPIDICI
Carbonato di calcio
Batteri
Lizozima
Fosfolipidi
Fosfati di calcio
Funghi
Albumine
Trigliceeridi
Ferro
Virus
Globulina
Est. di colesterolo
Mucine
122
I depositi possono interessare la sola superficie della lente (adsorbimento) oppure possono
penetrare all’interno di essa e legarsi alla matrice (assorbimento)
È chiaro che in caso di adsorbimento la rimozione dei depositi risulta sicuramente più semplice.
Infatti con un semplice sfregamento con dei detergenti o con l’immersione in soluzioni contenenti
enzimi l’eliminazione del materiale estraneo è assicurata.
Nel caso dell’assorbimento, che può in certi casi essere una fase successiva all’adsorbimento, la
rimozione è difficoltosa e molto spesso inattuabile.
Le lenti dure sono più frequentemente interessate da problemi di depositi di superficie, salvo alcuni
materiali particolarmente gaspermeabili ove il legame inscindibile (assorbimento) di sostanze
proteiche con la matrice del polimero è verificabile.
Gli idrogel sono caratterizzati da entrambe le modalità. Le lenti a bassa idratazione sono
maggiormente interessate da depositi di superficie, mentre quelle ad alta idratazione, in funzione
della maggior larghezza dei pori del polimero che consente il trasporto acqua, sono più facilmente e
rapidamente penetrabili sia dai materiali organici che inorganici.
Risulta quindi evidente che la qualità e la quantità dei depositi e la velocità di formazione sono
strettamente influenzate da:
Le caratteristiche fisico-chimiche e geometriche delle lenti
La qualità del film lacrimale
L’ammiccamento
La frequenza di sostituzione
Il sistema di pulizia
Le caratteristiche fisico-chimiche si riferiscono in massima parte all’idratazione e alla ionicita
dell’idrogel.
Allo stesso modo sono importanti le caratteristiche sia quantitative che qualitative del film lacrimale
che è il mezzo attraverso il quale il materiale delle lac interagisce con le strutture corneali
sottostanti. Inoltre il film lacrimale determina la dinamica dei fluidi all’interno del polimero, infatti
le variazioni della sua osmolarità, nel senso dell’aumento o della diminuzione, determinano nel
primo caso richiamo di acqua dalla lente verso il film (disidratazione), nel secondo cessione di
liquidi dal film alla lente (mantenimento corretto dell’idratazione).
Non dobbiamo dimenticare, per finire, l’importante ruolo svolto dall’ammiccamento nella
formazione dei depositi. Un ammiccamento infrequente e in qualche modo scorretto induce
123
alterazioni del film lacrimale e della sua adeguata distribuzione, creando problemi di bagnabilità e
disidratazione.
I depositi organici.
I muco-proteici.
Qualsiasi polimero posto a contatto con il film lacrimale viene ricoperto in tempi molto rapidi da
uno strato di muco-proteine secreto dalle cellule mucipare della congiuntiva.
Questa pellicola proteica ha, inizialmente, lo spessore di circa 1µ e svolge un ruolo molto
importante nel processo d’integrazione lente-cornea, infatti rende idrofila (bagnabile) la superficie
delle lac aumentando la biocompatibilità del materiale.
Il film mucoproteico raggiunge il massimo di copertura della lente in tempi diversi a seconda del
tipo di materiale di cui è costituita la lente. Su lac a bassa idrofilia la prima pellicola si forma dopo
circa 2 ore dall’inserimento, su lenti ad alta idrofilia ioniche basta anche un solo minuto.
Mano a mano che le lenti vengono usate la pellicola mucoproteica aumenta di spessore (coating)
fino a raggiungere un plateau che rimane quantitativamente inalterato; a questo punto le proteine
iniziano a denaturare diventando veicolo preferenziale di adesività batterica, e di fenomeni di
sensibilizzazione allergica del tarso congiuntivele con conseguente predisposizione all’instaurarsi di
forme di congiuntivite papillare gigante e infezione corneale.
Risulta evidente che il tipo di materiale utilizzato e il tempo di sostituzione delle lenti possono
enormemente influenzare la formazione dei depositi proteici e la conseguente qualità d’utilizzo
delle lac stesse.
Figura 8 Deposito Proteico retiforme, 6X
Figura 7 Deposito Proteico a superficie estesa, 6X
124
I Lipidi.
L’interazione lipidi-lac si comporta in modo opposto a quella proteica. Tutti gli studi condotti
sull’adsorbimento lipidico da parte dei materiali per lac hanno dimostrato che gli idrogel non ionici
(I° e II° Gruppo) attraggono più lipidi dei materiali ionici del III° e IV° Gruppo. Ancora una volta,
la differenza la fa la presenza del monomero NVP che in questo caso presenta una notevole affinità
a legarsi con i lipidi.
Un’altra differenza sta nel fatto che l’aumento della durata del porto conduce ad un costante
aumento della presenza lipidica sulla superficie delle lac, mentre la deposizione proteica, una volta
raggiunto il plateau tende a mantenersi quantitativamente uguale.
I lipidi presentano sulla superficie della lente un comportamento di tipo oleoso, che ne produce un
cattivo umettamento. Si accumulano in aree circoscritte o si presentano sottoforma di gocce;
possono facilmente derivare da cattiva igiene delle mani al momento dell’inserimento, o da tracce
di trucco raccolte dalle ciglia, ma molto spesso da disfunzioni nella produzione del liquido
lacrimale, che per cause d’ordine organica generale, può in certi periodi presentare un eccesso di
concentrazione di esteri di colesterolo.
I depositi inorganici.
Sono essenzialmente sali di calcio: Fosfato di calcio e carbonato di calcio; in misura meno evidente
l’ossido di ferro.
CaCO3.
Il carbonato di calcio è sicuramente l’elemento dominante di questa serie. Si presenta in formazioni
cristalline aventi aspetto aghiforme.
Possono insorgere per cattiva manutenzione come ad es. l’uso di acqua di rubinetto per il risciacquo
o la conservazione, ma più spesso per occasionali variazioni del ph delle lacrime in seguito ad
assunzione di medicinali o variazioni evidenti del comportamento alimentare..
Col tempo, se le lenti non vengono sostituite, l’elevata concentrazione di calcio sulle superfici
favorisce la trasformazione in calcio fosfato assolutamente insolubile che, mescolandosi con
proteine e lipidi tende a precipitare dando origine a calcoli.
125
Alcuni portatori sono particolarmente soggetti all’accumulo di calcoli per la particolare
composizione chimica delle loro lacrime. In questi casi la calcolosi della lente può assumere, anche
in tempi brevi (15-20 gg) aspetti di grande invasività. Se da un lato, il fenomeno è favorito
dall’invecchiamento della lente, in casi di soggetti predisposti può presentarsi anche su lenti da
poco sostituite.
FeO.
Il ferro come deposito su lenti a contatto è essenzialmente di derivazione esogena. Non sembra
esistano particolari affinità elettive tra questi depositi e il materiale delle lenti.
Si presenta sottoforma di piccoli accumuli molto concentrati di colore rossastro, assolutamente
asintomatici per il portatore.
Il riscontrarli, durante una visita di controllo, deve far supporre che l’utilizzatore frequenti aree ad
elevata concentrazione di polveri ferrose ( Stazioni ferroviarie, siti siderurgici, officine meccaniche
ecc.). La presenza di tracce di ossido di ferro se in misura limitata non rappresenta condizione
limitante all’uso delle lac. Solo in caso di una presenza molto marcata di tali depositi è opportuno
consigliare la sostituzione delle lenti.
I microrganismi.
I Batteri.
L’adesione batterica alle lenti a contatto è identificata come un importante fattore nell’eziologia di
tre manifestazioni patologiche:
•
La cheratite batterica
•
“l’occhio rosso acuto”
•
le ulcere periferiche
Nella cheratite batterica l’agente patogeno principale è la Pseudomonas Auroginosa che provoca
l’infezione della cornea. Fortunatamente, visti gli esiti spesso infausti, l’incidenza è abbastanza
bassa (20/00) tra i portatori di lenti a lunga durata.
Nell’”occhio rosso acuto” (Clare) i responsabili sono molti batteri della famiglia dei Gram negativi;
l’incidenza tra i portatori di lac è superiore alla precedente e si attesta intorno al 7%.
126
Un’efficace barriera contro le infezioni batteriche viene svolta dai depositi proteici nella fase
precedente alla denaturazione. Infatti nel coating iniziale sono presenti in elevata percentuale il
lizozima e ll lattoferrina che svolgono un’efficacissima azione batteristatica e batteriolitica.
I rischi aumentano quando si passa alla fase denaturata di queste proteine, che diventano buon
terreno di coltura batterica.
I Miceti.
Altri microrganismi in grado di procurare problemi alle lenti sono i funghi. Ricavano la loro forza
vitale dal catabolismo dei depositi organici. Tra i saccaromiceti predomina la candida albicans, tra i
mucomiceti l’Aspergillus niger e il Penicillum. L’invasione micotica è favorita dai depositi proteici
e il danneggiamento della lente è irreversibile, anche con trattamenti enzimatici non si riesce a
rimuoverli in modo definitivo.
La manutenzione.
A fronte dei fenomeni di contaminazione precedentemente esposti, si deve dedurre che la
manutenzione delle lenti a contatto ha lo scopo di garantirne un porto sicuro e confortevole e di
impedire il più possibile l’accumulo di depositi e di microrganismi patogeni
Una qualsiasi linea di manutenzione deve soddisfare:
•
la disinfezione
•
la conservazione
•
il risciacquo
•
l’umettamento
delle lenti a contatto in uso.
La vasta gamma di prodotti per la manutenzione oggi presenti sul mercato può
rappresentare uno stimolo per il contattologo ad imparare a differenziare i trattamenti a seconda del
materiale usato e del tipo di film lacrimale presente; ma spesso crea nei confronti del consumatore,
male o per nulla guidato, una stato di assoluto confusione che porta alla banalizzazione dei prodotti
disponibili (mi dia una soluzione per lenti morbide; una qualunque! Tanto sono tutte uguali).
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
127
Le soluzioni Uniche.
Il successo delle lenti usa getta (disposable) è stato decretato dal messaggio di facilità,
versatilità e universalità (banalizzazione?) che ne ha accompagnato il lancio sul mercato.
Ovviamente continuare a proporre i tradizionali sistemi di pulizia, basati sull’utilizzo minimo di tre
soluzioni, avrebbe tradito tale messaggio.
Nasce così la manutenzione basata su un solo prodotto (Soluzione Unica) che consente di:
•
strofinare
•
disinfettare
•
conservare
•
risciacquare
le proprie lenti a contatto usa e getta.
Pertanto tali soluzioni devono contenere:
•
un agente antimicrobico per la disinfezione e conservazione
•
un tensioattivo per la detersione
•
un agente chelante
•
sali tampone
Gli Enzimi Proteolitci.
Sulla base di quanto sinora esposto, si comprende che tra tutti i depositi possibili su lenti a contatto
le proteine rappresentano l’elemento maggiormente preoccupante. Tali depositi rappresentano una
condizione estremamente positiva durante la fase biologicamente vitale, mentre diventano il veicolo
delle peggiori intolleranze ed infezioni dopo la denaturazione. Per combattere queste conseguenze
esistono solo due sistemi, tra loro alternativi:
a) utilizzare lenti di durata uguale o minore alla fase vitale
b) utilizzare un trattamento a base di enzimi proteolitici che eliminino i depositi prima che
avvenga la denaturazione
Il mercato dei trattamenti enzimatici ha subito negli ultimi dieci anni un evidente
ridimensionamento, dovuto all’utilizzo di soluzioni uniche ad azione proteolitica e soprattutto
128
all’avvento delle lenti disposable. Tali trattamenti rimangono, oggi, un passaggio obbligato solo per
gli utilizzatori di lenti tradizionali a sostituzione superiore ai tre mesi.
È necessario ricordare che i trattamenti enzimatici non hanno alcun effetto disinfettante sulle lenti e
quindi non costituiscono alternativa al processo di disinfezione che deve essere comunque
effettuato.
Affinché si possa prevenire l’accumulo proteico è necessario che i trattamenti enzimatici vengano
eseguiti a scadenze programmate che oscillano tra i 7 e i 10 giorni, che è stimato come tempo
minimo prima dell’inizio del processo di denaturazione.
Altra attenzione da porre in questi trattamenti è che essendo gli enzimi stessi delle proteine è
necessario che non permangano sulla lente dopo il trattamento, perché potrebbero ingenerare dei
processi di sensibilizzazione identici a quelli delle sostanza che si tenta di rimuovere; è quindi
fondamentale un approfondito risciacquo con soluzione fisiologica una volta terminato il ciclo.
I trattameti enzimatici proteolitici non sono ad esclusivo appannaggio delle lac in idrogel, ma
rappresentano anche un importante aiuto nel buon mantenimento delle lenti RGP che pur con tempi
più lunghi sono ugualmente alterate dalla denutarazione proteica.
Gli Umettanti
Al contrario degli enzimi, i prodotti umettanti stanno conoscendo una stagione di gradissimo
successo commerciale, tale da spingere le case farmaceutiche produttrici ad investire sempre più
massicciamente nella formulazione di nuovi prodotti sempre più efficaci.
Il motore di questo fenomeno sta nel moltiplicarsi dei fattori ambientali predisponenti alla
secchezza oculare, non ultimo il massiccio diffondersi dei sitemi di termoregolazione forzata degli
ambienti di lavoro e l’utilizzo sempre più ampio dei videoterminali.
Lo scopo di una soluzione umettante è aumentare le qualità idrofila della superficie delle lenti a
contatto in modo che il liquido lacrimale vi si possa stendere uniformemente, quindi organizzarsi
sulla superficie in modo da formare un cuscinetto protettivo dall’adesione dei lipidi.
Gli umettanti normalmente in commerciano utilizzano gli stessi agenti presenti nei presidi
farmaceutici relativi al trattamento farmacologico dell’occhio secco.
Gli esteri della cellulosa e la meticellulosa e i derivati dell’acido ialuronico sono pertanto gli agenti
principalmente usati.
129
Il confezionamento in monodose è preferibile a quello multidose per evitare la presenza di
conservanti.
Ci sentiamo di dover rilevare che se i criteri di scelta delle sostanze umettanti da prescrivere
dovrebbero essere determinati da un’adeguata conoscenza dello stato del film lacrimale sul quale
devono andare ad agire. La scarsa sensibilità della maggioranza degli applicatori verso un’indagine
seria dell’aspetto qualitativo delle varie componenti del film lacrimale determina una
somministrazione di sostanze umettanti che risponde più ad una esigenza di tipo commerciale
piuttosto che a criteri di ordine scientifico.
Soluzioni Fisiologiche e Soluzioni Saline.
Le soluzioni fisiologiche e saline sono rappresentate da sodio cloruro alla concentrazione dello
0,9%. Il loro utilizzo è essenzialmente rivolto al risciacquo delle lenti a contatto.
Con il termine “Fisiologica” si deve intendere una soluzione senza nessun additivo, mentre con il
termine “Salina” ci si riferisce ad una soluzione che contiene preservanti o addirittura conservanti.
Queste soluzioni vengono indifferentemente usate principalmente per il risciacquo delle lenti a
contatto.
Generalmente le soluzioni confezionate in forma monodose od aerosol sono soluzioni fisiologiche
(senza preservanti e conservanti) ed oltre alla funzione di risciacquo delle lenti possono essere usate
per risciacqui e bagni oculari. Quelle flaconate, per mantenere la necessaria sterilità dopo l’apertura,
devono contenere dei preservanti anche a concentrazione molto piccole.
La consegna delle lenti a contatto
Istruzioni per l’uso
La fase applicativa di un paio di lenti a contatto trova il suo naturale compimento quando il
cliente, per la prima volta, si porta a casa la confezione di lenti con cui dovrà cominciare la fase di
adattamento. La consegna e la spiegazione delle usuali istruzioni per l’uso rappresentano un
momento estremamente delicato per la felice riuscita di tutto il lavoro applicativo precedentemente
svolto. Se è vero ciò che si è detto parlando di manutenzione, che la maggior fonte di abbandono
130
nell’uso di lenti a contatto dipende, non da errori applicativi, ma da scarsa igiene dell’utente, va da
se che sarebbe un errore madornale banalizzare questa fase, affidandola a persone non competenti
od ancor peggio confidando nel buon senso dell’utilizzatore.
Lenti Morbide.
Il cliente che per la prima volta ha un approccio alle lenti a contatto deve essere istruito su:
•
Procedure di inserimento e rimozione. Il cliente deve riuscire a mettersi e togliersi le lenti a
contatto da solo, almeno una volta. Solo dopo questo risultato si possono consegnare le lenti
per l’uso casalingo. Nel caso si palesino evidenti difficoltà in queste operazioni, si eviti di
insistere nei tentativi oltre la mezz’ora e si inviti il cliente a ritornare una seconda volta per
riprendere l’istruzione.
•
La manutenzione. Con chiarezza e semplicità di linguaggio devono essere illustrate le
caratteristiche dei diversi componenti della manutenzione. Particolarmente, è da far porre
l’attenzione sui prodotti che hanno specifiche caratteristiche disinfettanti, al fine che siano
chiaramente differenziati da quelli con caratteristiche umettanti, risciacquanti e
proteolitiche. È necessario dimostrare operativamente tutta la procedura di manutenzione
quotidiana e farla ripetere al cliente. È bene trasmettere tutte le informazioni necessarie,
affinché il portatore comprenda l’importanza dell’igiene generale da tenere nell’utilizzo
delle lenti a contatto. In questo contesto è opportuno non dare nulla per scontato come ad
esempio: la necessità di lavarsi le mani prima di toccare le lenti, non utilizzare nessun
prodotto diverso da quelli consigliati, non usare mai acqua normale, non lasciare mai le
lenti a secco. Nell’elencare al portatore tutte queste precauzioni è meglio saper giustificarle
con argomenti validi: es. “La lente a contatto si comporta come una spugna, quindi assorbe
tutto ciò con cui viene a contatto e lo trattiene dentro di se, col rischio di poterlo
trasmettere all’occhio durante l’uso, quindi bisogna che le mani siano sempre pulite. Il
contatto con acqua normale provoca il deposito sulle lenti di tutti i sali minerali in essa
contenuti con conseguente rapido degrado della lente stessa……ecc.” . Fondamentale è che
chi utilizza le lenti tenga le unghie delle dita delle mani sempre molto ben tagliate per un
duplice motivo: sia nella procedura di inserimento che in quella di rimozione le punte delle
dita entrano vistosamente entro l’occhio, unghie lunghe sono potenziali armi che,
involontariamente, possono ledere i tessuti oculari; inoltre le lenti a contatto sono fatte di
un materiale particolarmente delicato al taglio, maneggiarle con dita unghiate rappresenta
un grave rischio per la loro integrità.
131
•
Tempi di adattamento. Le lenti a contatto morbide non richiedono, in linea di principio, una
vera e propria fase di adattamento. Esse possono essere indossate, fin dal primo giorno, per
tutto il tempo stimato necessario all’utilizzatore. In pratica, però, è bene prescrivere un
utilizzo al 50% del tempo utile totale per l’intera prima settimana, quindi fissare una seduta
di controllo. Solo dalla seconda settimana, dopo che il controllo non abbia evidenziato
problemi, si può dare il via all’uso totale. Ricordiamo che i tempi massimi di utilizzo di
lenti a contatto non sono assolutamente standardizzabili. Ogni occhio ha un suo limite ben
preciso che deve essere fissato dall’ottico applicatore. In qualsiasi caso, anche in quello più
favorevole, è necessario ribadire che le lenti devono al massimo coprire la giornata
lavorativa e che devono essere sempre rimosse almeno 3 ore prima di coricarsi per la notte.
•
Precauzioni d’uso. Nell’uso delle lenti a contatto è necessario saper riconoscere valutare i
segni premonitori di eventi anche gravi che potrebbero verificarsi se tali segni venissero
sottovalutati o peggio ignorati. Ciò giustifica la necessità di convincere il cliente a
presentarsi a dei controlli periodici (non oltre i sei mesi), indipendentemente dal tipo di lenti
usate. Inoltre va sottolineato, sempre in sede di consegna, che qualsiasi problema, anche
lieve, va indagato, da parte dell’ottico o dell’oculista. Una lente che inizia a “dare fastidio”
anche leggero, va tolta immediatamente. Va lavata e sciacquata. Controllata visivamente,
per scoprire eventuali rotture o sfilacciature, e quindi, se tutto sembra a posto, rimessa
nell’occhio. Se poi il fastidio persiste, va rimossa definitivamente e portata all’ottico
applicatore per i controlli del caso. Sopportare un disturbo inusuale, per impossibilità a
rimuovere le lenti o altro, quasi sempre significa procurare danni alla cornea, che
richiederanno diversi giorni di terapia e astensione dall’uso per poter guarire. È quindi
buona norma che l’utilizzatore porti sempre con se il portalenti, contenente un po’ di
soluzione conservante, in modo da poter togliere le lenti in qualsiasi caso di necessità.
Spesso in sede di consegna, il cliente chiede se esistano attività per le quali è sconsigliato
l’uso delle lenti a contatto. Per rispondere adeguatamente ricordiamo non esistono attività di
vita quotidiana o sportive (anche violente) che non possano essere fatte con le lenti a
contatto morbide indossate. Sono necessarie solo alcune precauzioni: nella vita lavorativa
quotidiana, se possibile, è bene evitare gli ambienti eccessivamente secchi (es. regolazioni
esagerate dell’aria condizionata in estate e dei caloriferi in inverno); nella pratica del nuoto
è bene indossare sopra le lenti a contatto degli occhialini protettivi o la maschera al fine di
evitare il contatto tra l’acqua delle piscine o del mare con le lenti indossate.
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
132
La vendita al banco su prescrizione esterna.
Un abituale utilizzatore di lenti a contatto morbide può presentarsi nel punto vendita munito
di una nuova prescrizione oculistica per acquistare delle nuove lenti aggiornate con la nuova
gradazione prescritta. Nella norma, ma è sempre meglio informarsi, gli oculisti visitano i loro
pazienti senza le lenti applicate. Pertanto la gradazione riportata nella prescrizione si riferisce ad
occhiali da vista e non a lenti a contatto. Il problema che si pone è saper interpretare tale
prescrizione e consegnare lenti a contatto del potere esatto. La regola è la seguente:
Prescrizioni senza astigmatismo di tipo negativo (miopia):
da sf. -0.25 a sf.-3.75 nessuna modifica
da sf.-4.00 a sf. -5.75 ridurre le lenti a contatto di 0.25
da sf.-6.00 a sf. -7.75 ridurre le lenti a contatto di 0.50
da sf.- 8.00 a sf.- 9.75 ridurre le lenti a contatto di 0.75
Prescrizioni senza astigmatismo di tipo positivo (ipermetropia):
L’ordine quantitativo di modifica è identico al precedente. Ma in questo caso non si opera in
riduzione, ma bensì in aumento di potere.
Prescrizioni con astigmatismo:
L’astigmatismo prescritto può essere ignorato sole se:
1. è < a 0,75
2. (In caso di astigmatismi inferiori o uguali allo 0,75) il rapporto tra potere cilindrico e potere
sferico non è superiore a ¼.
In presenza di prescrizioni cilindriche superiori alla diottria è opportuno consigliare l’uso di lenti
toriche e comunque consultare l’ottico sulla miglior opportunità. In caso di necessità, volendo
risolvere ugualmente con lenti a contatto sferiche, si tenga conto che per ogni 0,50 di astigmatismo
non corretto va aumentata la parte sferica di 0.25 dt.
Lezioni di Contattologia- E. Bottegal
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