VERSO MALINDI Il mio amico Filippo è appena tornado dal Kenia e

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VERSO MALINDI Il mio amico Filippo è appena tornado dal Kenia e
VERSO MALINDI
Il mio amico Filippo è appena tornado dal Kenia e mi ha detto che
Malindi è meglio di Igea Marina dove vado ogni anno in agosto per
fare le sabbiature con la sabbia perché ho la cervicale dappertutto e
l’infiammazione cronica al nervo asiatico. Avevo già provato a farle
sul fiume Serio che passa dalle mie parti, ma, siccome c'erano solo
sassi, non mi facevano tanto bene. Però mi ha anche detto che non ci
sono gli ombrelloni tutti in fila con le loro rispettive sdraio e neanche
i bagnini, ma, in compenso, quando non piove c’è il sole. Ma mica
come il nostro che per abbronzarti devi mettere la crema, quella
marrone. No, là, dopo pochi minuti, passi dal rosso al nero quasi
senza accorgertene; al massimo fai due giorni di febbrone a letto per
via dei raggi ultraviolenti che fanno parte delle tradizioni locali. E
poi le donne non sono come le nostre. A parte il fatto che sono di un
colore molto più abbronzato, ma non devi romperti i maroni a
corteggiarle, invitarle a cena, chiedere “Vuole ballare con me
signorina?” e sentirti quasi sempre dire di no e fare la figura del pirla.
Il mio amico Filippo mi ha convinto.
Sono andato all’Agenzia e ho comperato un viaggio tutto inclusivo.
Sono arrivato all’aeroporto, ho fatto il keciup, che in italiano si
chiama cecchino, e mi hanno fatto salire sull’aeroplano. Era la prima
volta che lo prendevo. Ero curioso di vedere com’era il mondo visto
dall’alto, ma mi sono accorto che era continuamente grigio. Poi,
quasi alla fine del viaggio, mi sono accorto che il mio finestrino era
sopra l’ala e avevo continuato a guardare solo quella.
Comunque è stata una bella esperienza. A parte il fatto che ogni tanto
c'era il comandante che ci diceva di allacciare le cinture perché
stavamo volando in una zona di flatulenze. Ho chiesto ad un
bresciano di Bagolino che si era seduto in parte a me cosa fossero
queste flatulenze e lui, che era pratico di viaggi perché era stato più
volte all'estero tipo due volte alla Città del Vaticano e tre a San
Marino, mi ha detto che avevo capito male, che quelle erano
turbolenze mentre le flatulenze erano un'altra cosa. Tuttavia nell'aria
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si sentivano anche quelle perché dalla paura qualcuno doveva
essersela fatta sotto.
Tutto è cominciato quando, dopo il solito din don, abbiamo sentito il
primo annuncio: “Il comandante Valobassi vi da il benvenuto a
bordo del volo 1717 dell’AVIA CRUCIS. Siamo pronti al decollo.
Nei serbatoi sono state versate quattro taniche di benzina, ma, in
caso di necessità o dubbio fondato che non bastino a coprire il
percorso del volo, chiederemo ai gentili passeggeri di aggiungere la
benzina dei propri accendisigari. Aggrappatevi ai rispettivi sedili,
dite la vostra preghiera preferita e non fatevela addosso. A bordo
non abbiamo deodoranti. Vi ringraziamo per avere scelto il nostro
vettore. Siamo lieti di comunicarvi che tutti gli aerei dell’AVIA
CRUCIS sono uno schianto. Come si schiantano i nostri aerei non si
è mai schiantato nessuno. Per usare la vostra cintura di sicurezza,
inserite la barretta di metallo
nell'incastro, e tirate forte. Funziona
proprio come tutte le cinture di
sicurezza e, se non sapete come
funziona, probabilmente non dovreste
andare in giro da soli. Se non trovate
la cintura chiedete alla hostess del
nastro isolante che, al bisogno, fa lo
stesso. In caso di improvvisa perdita di pressione, le maschere ad
ossigeno scenderanno dal soffitto. Smettete di strillare, acchiappate
la maschera e tiratevela sulla faccia. Se viaggiate con bambini
piccoli, mettetevi la maschera prima di aiutarli ad indossarla. Se
viaggiate con due bambini piccoli, decidete adesso quale dei due
amate di più. Altre istruzioni pratiche di comportamento in caso di
incendio, di ammaraggio, di caduta libera e conseguente schianto le
troverete nel depliant davanti a voi. Potrete scegliere la lettura in
inglese, cinese, aramaico e russo. Nella prossima edizione sarà
inserito anche l'italiano. Si raccomanda di spegnere le attrezzature
elettroniche, spegnere cellulari e computer, togliere dalla propria
sede dentiere, denti d’oro, di metallo e di ceramica, occhi di vetro,
supposte per la nausea, pannoloni che, in caso di caduta, potrebbero
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procurare ferite ai passeggeri. Si consiglia inoltre di togliere gli
apparecchi acustici così, in caso di caduta, non sentirete niente.
Avvertiamo le signore portatrici di protesi al silicone che, durante il
decollo, a causa di eventuali decompressioni, potrebbero scoppiare.
Il comandante Volabassi vi augura buona fortuna".
Sentendo parlare di giubbotti salvagente e di maschere antigas per
l'ossigeno un po' mi ero agitato. Se dicevano tutte queste cose era
sicuramente perché pensavano che potessimo precipitare. Allora, per
non perdere tempo, ho trovato il giubbotto e me lo sono infilato
subito. Però la ostessa mi ha visto e mi ha gentilmente detto che non
era il caso perché l'aeroplano era abbastanza nuovo e di una marca di
quelli che non cadono quasi mai. A cena hanno distribuito una
scatoletta di alluminio dove c'era dentro di tutto, ma tutto
concentrato. Mangiare è stata una grande fatica perché i sedili erano
talmente stretti che in bocca o ci infilavi le ginocchia o una
forchettata di lasagne che neanche da lontano assomigliavano a
quelle della Pensione Mariuccia di Igea Marina. Di polenta nemmeno
l'ombra, in compenso mi hanno dato del vino che l'acqua sporca era
più colorata e saporita. Poi hanno spento le luci, probabilmente per
risparmiare sul contatore.
Mi è venuta voglia di telefonare alla mia Teresa che sarà stata in
pensiero, ma ci hanno detto che il motore dell'aeroplano poteva
disturbare i telefonini. Ma io ho provato lo stesso e ci sono riuscito.
"Teresa, ciao, sono io, volevo dirti che ho preso l’aereo. Come non
mi senti? Se ti sento io vuol dire che mi senti anche tu. Come? Ma sì,
quello che vola. Certo che ha le ali se vola. Come dici? Che anche le
galline e i tacchini hanno le ali, ma non volano; ma questo coso
dovrebbe volare, almeno spero. Comunque siamo già saliti a bordo…
Non brodo, cosa centra il brodo Teresa? A bordo, dentro. Cosa dici?
Parla più forte. Come? Se ho paura di volare? Ma neanche un po';
l’unica paura che ho non è quella di volare, ma è quella di
precipitare, ma tanto ho qui in parte un amico che mi fa coraggio.
Come dici Teresa? Di non sporgere la testa dal finestrino perché a
prendere aria mi viene la sinusite? Ma no, sta tranquilla; lo terrò
chiuso e farò a meno di uscire mentre voliamo. Chiudo perché costa
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troppo. Ti telefonerò quando sarò arrivato perché mi hanno detto che
a volte arriviamo davvero. Salutami la zia Dora, la zia Celestina, il
fruttivendolo, il fornaio e tutto il paese. Dì a tutti che sto andando
nell'Africa Nera. Ciao".
Dopo circa tre ore all'altoparlante abbiamo sentito: "Signori
passeggeri, è il vostro capitano che vi parla. Questo è il volo 17.17
dell’’AVIA CRUCIS. Stiamo volando in direzione di Mombasa;
abbiamo appena raggiunto l'altezza stabilita, siamo a 9000 metri di
altitudine, almeno credo… Potete slacciare le cinture di sicurezza e
muovervi liberamente, però per favore rimanete dentro l'aereo. Il
tempo per fortuna è buono; l'arrivo previsto è fra 5 ore circa, sempre
che ci arriviamo".
Stanco morto e disfatto mi sono addormentato come un sasso. Il mio
amico Filippo, che lui di viaggi aerei se ne intende perché il fratello
del cugino del cognato faceva lo stufato, no, forse lo stuart o che dir
si voglia, cercando su Internet aveva trovato da farmi fare un bel
risparmio. Magari lo dovevo allungare un po' (non Filippo, il
viaggio), ma avrei risparmiato 80 euri che al giorno d'oggi non sono
né noccioline né patatine fritte. Milano-Amsterdam-Addis AbebaCampala-Nairobi-Mombasa. Dopo tre giorni di viaggio con aerei a
elica con sedili mobili, nel senso che a ogni turbativa andavi a
sbattere la testa sul soffitto, per forza che sono crollato. Mi ha di
nuovo svegliato la voce del Capitano.
“Signore e signori, è il vostro comandante che vi parla. Allacciate le
cinture di sicurezza poiché stiamo iniziando la manovra di
atterraggio. Sono sicuro che la perdita del motore destro non sia
passata inosservata. Da quel poco che funziona la radio ho saputo
che è caduto in testa ad un pescatore di cozze. Niente panico
comunque; viaggeremo più leggeri e arriveremo prima a terra.
Siccome su questo aereo non esistono i televisori per poter vedere
film o rendervi conto in diretta dei parametri di velocità e altezza del
velivolo perché ce li hanno fregati i passeggeri precedenti, invito la
hostess a venire in cabina a farvi la radiocronaca dell’atterraggio
perché io sono occupato a sistemare un aggeggio che non so a cosa
serve".
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“Signore e signori, è Giovanna, la vostra hostess che vi parla. Vi
informeremo in diretta dello stato del volo minuto per minuto. Siamo
a 500 metri di altezza e siamo in vista della pista di atterraggio.
Contiamo di esserci fra pochi minuti. In questo momento abbassiamo
il carrello. Siamo a 200 metri dalla pista, fra poco, se la fortuna ci
assiste, toccheremo terra. Attento alla palma comandante! Si sente la
voce del capitano che dice: "Quale palma Giovanna?". "Quella che
abbiamo raccolto sull'ala destra! Accidenti; due gabbiani si sono
infilati nell’unico motore in funzione. Comunque no problem,
all’arresto del motore li togliamo e ce li mangiamo già arrostiti e
brustoliti. Si avvertono i passeggeri che abbiamo toccato terra e
stiamo rullando sulla pista, leggermente a lato. Vi preghiamo di
rimanere seduti al vostro posto con la cinture allacciate fino a che il
capitano trascina quello che è restato del nostro aereo fino al
completo arresto. Vi preghiamo di non dimenticare gli oggetti di
vostra proprietà uscendo dall'aeromobile. Tutto ciò che lascerete
verrà distribuito tra gli assistenti di volo. Siete pregati di non
lasciare mogli o figli. Appena avremo frenato e sgommato, ci
fermeremo prima di sbattere contro il muro dell’aeroporto.
L'aggeggio che il comandante stava tentando di riparare era il
comando dei freni che è andato a puttane. Quando il fumo dei
pneumatici si sarà sollevato e i campanelli di allarme saranno stati
spenti, verranno aperte le porte e potrete attraversare i rottami e
raggiungere il terminal. Il capitano vi ringrazia di aver volato con
l’AVIA CRUCIS”.
Finalmente a terra! Giunto
all'aeroporto di Mombasa tutto è
stato velocissimo; in sole tre ore e
quaranta minuti ho ritirato i
bagagli e fatto dogana. Finalmente
avevo con me la mia valigia. Guai
se me l'avessero persa! Il mio
amico Filippo (quello di Igea
Marina) mi aveva raccomandato
di portare i vestiti ai bambini
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poveri dei villaggi. La mia Teresa, santa donna, me l'ha riempita di 4
maglioni a maniche lunghe, 2 mutandoni pesanti fino alle caviglie, 3
sciarpe di lana, un cappotto che ormai non usavamo più perché le
tarme lo avevano tutto bucato più e un paio di scarponi chiodati che
avevo riportato dal militare. La Gisella, sempre l'amica della mia
Teresa, ha avuto una geniale intuizione. Siccome lei è abbonata a
CHI dove ci stampano tutte le notizie del mondo e, avendo letto che
in Africa si soffre la fame, ha avuto la brillante idea di fregare alla
nuora, una bestia di 120 chili che si era messa in testa di dimagrire,
due tubetti di Kalo che le dovevano togliere l'appetito. Ma a lei non
funzionavano un granché, della serie Kalo di
appetito, ma non Kalo di peso. Il suo
ragionamento comunque non faceva una
piega: se là soffrono la fame, distribuendo il
Kalo, la loro fame sarebbe di colpo sparita e
sarebbero tutti stati un gran bene. Piccolo
particolare negativo... Alla dogana mi hanno
trovato gli scatolini e mi hanno chiesto a cosa
servivano. Io, che ancora non conoscevo
perfettamente il suili, per far loro capire che
non si trattava nè di hascisso nè di
mariagiovanna, le ho distribuite ai compagni di viaggio dicendo che
erano dei preservativi per la malaria. Solo
più tardi ho saputo che per una settimana
nessuno era riuscito a mangiare tutte le
delicatesse del Villaggio; in compenso,
siccome dovevano avere anche un effetto
lassativo, le ore più belle della giornata le
hanno passate leggendo la Settimana
Enigmistica sul water.
La prima sorpresa, nell’uscire all’aperto, è
stata quella di trovare un uomo nero con un
cartello bianco con sopra il mio nome. La
cosa mi ha fatto piacere perché non
pensavo che mi conoscessero anche in
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Africa come a Igea Marina. Ma quello che mi ha stupito di più è stato
vedere un sacco di extracomunitari. Pensavo che ci fossero solo in
Italia. Chissà con quali canotti saranno arrivati fin qui visto e
considerato che la strada da fare per arrivare doveva essere stata
lunga un casino. Magari qua è più facile avere il permesso di
soggiorno.
Qui la gente deve essere o tutta matta o non aver mai preso la
patente. Non ti dico lo stringimento delle parti intime posteriori nel
vedere che l’autista stava guidando come un matto con la radio a
paletta, ma non solo... Non ti dico lo spavento quando mi sono
accorto che stava guidando dalla parte sinistra della strada. Poi mi
son ricordato che il mio amico Filippo mi aveva detto che sotto
l’equatore (che, quando ci sono passato sopra, non l’ho visto per va
di quella maledetta ala) tutto è al contrario di qua, dalle stagioni alle
stelle del cielo e, evidentemente, anche le strade.
Quando sono arrivato al Villaggio ho stralunato gli occhi! Mai vista
una roba del genere. L’entrata e le camere non avevano i tetti come
le nostre, ma di paglia. Sicuramente è perché il Kenia fa parte del
terzo mondo e sono poveri e non si possono permettere coppi o
tegole normali. Per prima cosa alla recinzione (che non ho capito
perché la chiamino così, ma, sul cartello lì sopra, c’era proprio scritto
Reception. Sarà per non far passare le scimme e gli elefanti) mi
hanno chiesto il Passaporto, mi hanno attaccato al polso un
braccialetto di plastica (molto probabilmente devono servire a
ritrovarti se ti perdi in paese) e un facchino, anche lui
extracomunitario, mi ha preso la valigia e mi ha accompagnato in
camera.
Anche qui una sorpresa! Un letto così grande che, se ci si entra in
due, per trovare l’altro si deve usare il navigatore. Sopra la coperta,
ben disposti, dei fiori colorati di ogni colore. Al mio sguardo di
ammirazione il facchino ha allungato la mano verso i fiori e mi ha
detto “Maritati” che presumibilmente si riferisce a letto matrimoniale
per gli sposati, ma io sono da solo e devono avermelo dato lo stesso
in previsione che fossi riuscito a cuccare qualcuna di qua. Che
gentili! Lì in parte, contro l’altro muro, un letto più piccolo che lui ha
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chiamato “Pelo Pelo”. Magari ci sarà stato su un
cane o una scimmia dal culo pelato per via del
fatto che ci avrà lasciato su il pelo. Comunque il
facchino nero continuava a tenere la mano tesa e
aperta. Allora, in un lampo di genio come è il mio
solito, ho avuto l’intuizione... Che invece di stare
ad indicarmi i fiorellini e il Pelo Pelo volesse la
mancia? In un encomiabile slancio di generosità gli piazzo nel bel
mezzo del palmo (ma com’è ‘sta storia? Uno tutto nero col palmo
delle mani bianco? O è finto o si è dimenticato di prendere il sole
anche lì) un cinquantone di centesimi di euro e che vada a bere e
mangiare alla mia salute e che crepi di indigestione!
Sto disfando la valigia quando, verso l’una, sento suonare dei
tamburi. Sicuramente, penso io, le tribù della vicina Savana si stanno
scambiando messaggi in mancanza di cellulare o telefono a
manovella. Cerimonia funebre? Matrimonio dei locali aborigeni?
Banditore di avvisi comunali? Niente di tutto questo! Guardo dalla
finestra e vedo una processione di gente bianca che si dirige verso un
salone all’aperto. Un ragazzino biondo di capelli e rosso come un
peperone di spalle mi dice di correre che il pranzo è pronto. Ho
saputo che qui il bianco lo chiamano Musungu che penso voglia dire
Musolungo, ma non ho capito il perché.
Una tavolata piena di ogni ben di Dio! Aveva ragione il mio amico
Filippo... qui è tutto diverso che da noi. A Igea Marina ti davano le
lasagne al lunedì, gli spaghetti al martedì, il risotto al mercoledì e via
dicendo, ma qui c’erano tutti insieme i cibi della settimana e ancora
di più. In ordine di prelevamento mi sono preso... Piatto ricolmo fino
all’orlo di spaghetti alla puttanesca, lasagne con ripieno di pesce,
pollo fritto, bistecca di una trota locale, sette varietà di verdure, frutti
strani che si vedono solo da queste parti quali banane un po' più
piccole delle nostre (che lo facciano per risparmiare?), pagaia, tango,
anguria (che qui, non so perché, lo chiamano melone) e, per finire,
un bel tirami su con contorno di cioccolato fondente fuso. Ma non
solo... Anche sul barettino della spiaggia si può bere e mangiare
anche se è un po' complicato farsi capire perché qui parlano il suili,
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no, il suini. Gli chiedo: “Mi porti una Pizza Margherita con tanto
pomodoro?”. Quello scatta e parte in picchiata. Si fa vivo dopo una
buona mezz’ora con la Magherita e, a parte, su un grande cesto,
almeno due chili di pomodori.
Finalmente posso godermi il famoso mare dei Tropici del Canchero.
Indosso il costume, percorro il parco del Villaggio con tanto verde,
con i buganditi che si arrampicano sui baobao, scendo in spiaggia e
mi godo la pace che ho sempre sognato senza avere fra i piedi i Vu
Cumprà e i venditori ambulanti di Igea Marina con i loro “Signora
comprare tappeto”, “Piangi bambino che la mamma ti compera il
bombolone”. Non faccio a tempo a guardarmi in giro che... Che si
siano spostati tutti qua? Che siano tutti tornati al loro paese per
mancanza di permesso di soggiorno? Vengo circondato da nugoli di
ragazzini che si chiamano tutti Bicci Boi (ma qui
non dovevano esserci solo nugoli di zanzare?) che
fra un ciao come stai, un jambo, un acuna patata e
un dammi qualche scellino che ho fame mi
tolgono il sole, il fiato e la serenità con cui volevo
iniziare la giornata. Ne vedo uno che, con in mano
un grosso pesce rosso mi dice di comperarlo
perché non ha i soldi per mangiare. La prima cosa
che gli dico è di mangiarsi il pesce, ma dallo
sguardo che mi rivolge capisco che o è allergico
al pesce o non lo digerisce o non gli piace per niente. Qualcuno mi
propone di condurmi a Sardegna due (primo non sapevo che ne
esistesse un’altra, secondo mi sembra che sia un po' troppo lontana),
alle piscine sott’acqua (questa non l’ho ancora capita...), a Marafa (o
Caraffa?), chiamata anche le Fucine (o Forcine?) del diavolo (non
sapevo che l’inferno fosse così vicino) e alla spiaggia del Sale dove
si vedono le pepite d’oro direttamente sulla spiaggia. Alla fine
sgattaiolo via come un ladro e, con perfetto slalom all’Alberto
Tomba, raggiungo il Villaggio.
Il mattino successivo qualcuno mi ha consigliato di prendermi un
Tuc Tuc. Pensavo fossero i classici biscotti che da noi si chiamano
proprio Tuc, quelli talmente friabili che, quando li intingi nel
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caffelatte, non fai a tempo a tirarli fuori che sono già sciolti e ti
rimane in mano solo il pezzettino asciutto che hai fra le dita. No,
questi sono tutt’altra cosa, anzi, tutt’altri cosi. Sono dei baracchini
tipo i nostri Ape Car che si vedevano in passato sulle nostre strade e
che servivano per piccoli carichi o per
trasportare le cose più varie e ormai
inutili alla discarica comunale. Qui,
però, ci salgono le persone che, invece
di portarle alla discarica, li mollano al
Care Blisse, al Bar Bar (famoso locale
di ritrovo per balbuzienti), al Casino,
al Tasche Safari, allo Stardasso e al
Mercato dei turisti che, se esci vivo, è
davvero un miracolo perché rischi di
morire squartato tanto ti tirano di qua e di là.
Corrono come matti, traballano come le pedani vibranti che si usano
in palestra, saltellano come cavallette superando i dossi di un metro e
venti di altezza che limitano la velocità delle strade e che ti fregano
le balestre (li chiamano Bamp sicuramente per riprodurre il rumore
che, ad ogni salto, fa la nostra testa quando batte sui ferri del loro
soffitto), sciamano tipo formicaio (io lo chiamerei Tuctucaio) fra
buche e fuoristrada, ma miracolosamente ti portano dove volevi
arrivare. Comunque, per quelli che volessero spendere meno, ci sono
anche delle motociclette a doppio sedile che sicuramente devono
avere origini bergamasche poichè vengono chiamate Pota Pota.
Prima di partire dall’Italia mi hanno fatto una testa grande così per
tutte le malattie che avrei potuto prendere in Africa. Meglio se mi
fossi fatto un profilattico. Il mio amico Filippo mi ha detto di non
preoccuparmi perché lui è sempre tornato vivo e vegetale. Comunque
un altro mio amico è andato su Internet a vedere quello che forse mi
sarei preso. Nell’ordine... epatite virile, dissenterite rettale, polipo
all’utero (che non avrei potuto prendere perché finora non ha fatto
ancora un bagno in mare), se piove i dolori romantici, la malaria se ti
punge la zanzara, ma solo se la zanzara è femmina e per di più
incinta (la prossima volta farò un corso per stabilire il sesso delle
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zanzare a prima vista. Il test di gravidanza sulle zanzare mi hanno
detto che non l’hanno ancora inventato), il cactus cerebrale, la vagina
pecoris, l’estitichezza cronica, le vene vanitose per il caldo, il
solleone che ti può dare disturbi alla vista tipo perdere delle dottrine
e diventare presbitero e, dolcis in fondo, il diabete mellifluo.
Comunque mi sono informato per bene e mi hanno detto che qui ci
sono un sacco di ospedali. Però qui non c’è la Mutua, neanche per
quelli che in Italia hanno il Tic e allora ho deciso di mettermi in
malattia quando tornerò a casa.
Ieri sera, con tre nuove conoscenze del Villaggio, sono stato in una
balera che qui chiamano il Fermento. Bel
locale, con musica spaccatimpani e bella
gente. Devono essere iniziate le vacanze
perché non ho mai visto tante studentesse
in un colpo solo. Solo a guardarle sentivo
che le palle degli occhi mi volevano
schizzare fuori come le palline del ping
pong. Devono essere di una Università di
lingue straniere perché parlano l’italiano meglio di me e dei miei tre
amici perché uno viene dalla Val Imagna in provincia di Bergamo, il
secondo da Bagolino in provincia di Brescia e il terzo un oriundo
siciliano che ormai è nel milanese da un sacco di tempo, ma che dice
lo stesso “Minchia che femmene! Bedde, scostumate e un po'
bottane!”.
È qui che incontro lei, Mara. Un incrocio stupendo fra una gazzella e
una giraffa. Portamento alto, elegante, signorile. Gambe slanciate
tipo Chichibio e la gru, culo all’altezza giusta poco sotto i fianchi,
tette che prorompono da tutte le parti come se volessero scoppiare da
un momento all’altro. Di sicuro questa non s’è fatta il lising di
silicone come le nostre. “Ciao, sono Mara. Tu come ti chiami?”.
Balbetto un po' il mio nome ancora nella tremenda incertezza che si
sia rivolta proprio a me. Mi son sentito portare in paradiso quando si
è seduta accanto a me, mi ha messo un braccio sulle spalle e con la
mano ha iniziato a farmi un ghirigori fra i capelli. In quel momento
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ho sentito suonare la trombe di eustachio, le campane della Chiesa
del mio paese lontano, i fuochi artificiali della festa del Patrono.
“Posso offrirti una gazzosa?” le dico in un momento di euforia e
della serie crepi l'avarizia. “Un Gin Fizzo” mi risponde. E vada per il
Gin Fizzo! Roviniamoci! Viene da un paese sulla strada per il parco
Schiavo, non ricordo se dell’est o dell’ovest, ma fa lo stesso, che si
chiama Checoioni o qualcosa di simile. Comunque la mia intuizione
era giusta. Studia, non ho capito che cosa, ma
studia. Se a scuola è brava come mi sta parlando e
accarezzando deve essere la prima della classe. Mi
azzardo... “Mara. Vuoi venire con me?”. “Sì
amore” mi risponde lei con una vocina d’angelo.
Non so se dirle che sono sposato poichè, sincerita
per sincerità, non merita di tradire la sua fiducia di
donna ormai innamorata persa. Mi riazzardo...
“Ma sai, Mara...”. “Ma con tutto il cuore mio caro
–mi interrompe- verrò con te al Masai Mara”
“Forse non hai capito... Ma sai, Mara...”. “Ma
certo che ho capito dolcezza!”. A parte il fatto che
a me dolcezza non l’ha mai detto nessuno, ma in
quel momento mi sono sentito sbrodolare il cuore,
tutto l’apparato dirigibile, cervello compreso. E
uscimmo così abbracciati e navigammo verso il
Villaggio. 40 euro per l’entrata e 50 per la notte.
Ma ne è valsa la pena. Uno sfrocugliamento
violento dei nostri corpi, tipo incontro amoroso fra un ragno e una
medusa, che è durato fino al mattino. Caddi in un sonno profondo e
ripieno di beatitudine. Al mattino la mia gazzella se n’era già andata.
Avrà dovuto fare i compiti per le vacanze. Ma l’avrei sicuramente
ritrovata la stessa sera al Fermento. Comunque, con o senza lei, ci
avrei dovuto andare lo stesso; mi ero accorto che probabilmente
dovrei aver perso là il mio portafogli visto che la tasca posteriore dei
miei pantaloni era desolatamente vuota.
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IN CENTRO A MALINDI
Appena sono entrato per la prima volta nel centro di Malindi ho
avuto la netta impressione che fosse leggermente diverso da quello di
Milano. Intanto non ci sono semafori così non ti tolgono i punti dalla
patente. Pensavo di arrivarci con la metropolitana che va sotto terra e
invece ne ho presa una che va sopra terra però con un vagoncino
solo. Qui si chiama Tuc Tuc. Comunque la metropolitana mi sembra
che la stiano facendo perché sulla strada che va dal Monumento a
Vasco di Grana all’inizio del paese si vedono bene le grandi buche
che hanno incominciato a scavare. Se il Tuctuchista non ci sta attento
si rischia di precipitare dentro e non so se da queste parti c’è il
Gruppo Speleologico della Val di Scalve che viene a tirarti fuori,
della serie Viaggio nel Centro
della Terra senza ritorno che
la maestra ci ha fatto leggere
la terza volta che ho fatto la
seconda. Diventano anche un
bel disturbo perché, avendo io
la prostica ingrossata come un
melone, a ogni scossone mi
vengono i dolori alle parti
intime davanti. Però, se riesci
fortunosamente a schivare gli scavi della metropolitana, centri
violentemente quei dossi che attraversano la strada ogni quattro metri
che sono così alti che per superarli bisogna essere degli scalatori
della Cornagera della Val Seriana.
Mentre il Tuctuchista stava cantando beatamente la Lalla Salama non
si è accorto di essere arrivato a ridosso di uno di questi e l’ha
centrato in pieno a velocità da Formula Uno. Quello che, in un
secondo e 10 decimi, è capitato si può riassumere in... pilota
catapultato fuori dal vetro anteriore con schegge dello stesso che
sono andate ad infilarsi rispettivamente 1) Nell’occhio di un Masai
che stava vendendo le sue perline a lato della strada facendogli fare
un salto triplo carpiato più alto di quello che fa la sua tribù al
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mercoledi sera al Coral Chi, 2) Nel sedere a panettoncino di una
bellissima fanciulla locale alta due metri e dieci che
stavapasseggiando mano nella mano, con angelica espressione di
innamorata persa, con un turista di passaggio alto un metro e
quaranta (a guardarli sembrava di vedere l’articolo “il”)
costringendola a grattarsi di nascosto poco elegantemente il culo che
qualcuno poteva pensare che avesse le morroidi infiammate e che
grattarsi proprio lì non stava bene. 3) Centrato in pieno un aborigeno
di qui senza un braccio che ancora non so se era già così o è stata la
scheggia del vetro a portarglielo via. 4) Il motore è schizzato via
come un proiettile centrando un baracchino con frutta di stagione
riducendola all’istante a marmellata multigusti che, sbrodolando
sulla strada, ha fatto cadere rispettivamente due Pota Pota, ribaltare
tre Tuc Tuc, zigzagare una macchina fuori strada che è andata a
finire veramente fuori strada e azzoppare un asino con carretto pieno
zeppo all’inverosimile di macuti. L’asino l’hanno dovuto abbattere
sul posto perché i suoi alti ragli disturbavano i residenti della zona
che stavano facendo la pennichella o cose simili. Il passeggero (che
sarei io) si è ritrovata la testa infilata fra le sbarre del soffitto del
trabiccolo. C’è voluto l’intervento dei Vigili del Fuoco, prontamente
e immediatamente accorsi dopo 50 minuti con tre camion, due
pompe e tre scale, per estrarlo. Siccome l’operazione si era
dimostrata subito difficile se non impossibile, il disgraziato (sempre
io) è stato portato sul camion di detti pompieri a sirene spietate
all’ospedale più vicino sempre con il collo incastrato nella griglia di
ferro appositamente asportata con la fiamma ossidrica il cui calore,
trasmettendosi al resto del ferro, ha provocato una ustione di decimo
grado al collo del malcapitato (sempre io) al quale rimarrà una
cicatrice indelebile per tutta la vita. Con un bel tatuaggio ci farò
disegnare due fiorellini di modo che sembrerà una artistica collana.
Comunque devo dire che le buche della metropolitana sono servite a
qualcosa. In uno scossone più forte degli altri la mia testa si è di
colpo sfilata dalla griglia lasciandoci solo qualche brandello di
orecchio sanguinolento per parte. Che mal d’Africa che mi sono
preso! I resti del motore e delle lamiere del Tuc Tuc sono stati
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prontamente raccolti da gente di passaggio e venduti al mercato nero
dalle parti di Mambrui.
Comunque in ospedale ci sono arrivato. Il pronto soccorso era pieno
di una ventina di fondi (qui i lavoratori li chiamano così). Da non
confondersi con i fondi di galera che sono ricoverati a Mutangani).
Tutti venti i fondi stavano pitturando le pareti che sembravano una
carta geografica in bianco e nero con le città segnate in rosso
corrispondenti ai segni del sangue delle zanzare spiaccicate con
mani, ciabatte e utensili simili. Uno che metteva il colore bianco
tendente al grigio sporco nella tolla, uno che la sollevava da terra,
uno che intingeva i pennello, l’altro che lo passava all’imbianchino,
l’imbianchino che dava due pennellate alla parete appollaiato su una
scala di legno con un piolo sì e due no che però ci saliva con l’agilità
di una scimmia dal culo pelato della Savana del Parco Schiavo, un
altro che gli prendeva il pennello e lo passava a quello accanto che a
sua volta lo dava al primo che intingeva il pennello nella tolla e via
dicendo. In 40 minuti, lavorando proprio come negri, avevano già
dato n. 8 pennellate in verticale e n.6 in orizzontale. Forse era meglio
prima. Insomma, non potendomi ricoverare al pronto soccorso per
via dei fondi, mi hanno portato nel reparto di ginecologia, l’unico in
funzione a quell’ora.
Il dottore, extracomunitario anche lui con laurea presumibilmente
presa in Somaglia (chiamata così perché lì si somigliano tutti), viste
le mie orecchie sanguinolente prende il suo strumento ginecologico e
mi fa un’esplorazione orecchiale. Magari pensa a un probabile ciclo
mensile venuto in sede estrauterina. Spero non mi dica che sono
incinto. Comunque credo di non esserlo perché la nausea non ce l’ho.
Ho solo un mal di testa della madonna. Chissà perchè il ginecologo
mi ha esplorato le orecchie... Magari qui i bambini nascono da un
orecchio. I gemelli da tutte e due. Mi dimettono dopo due ore e 600
scellini da pagare all’istante che se non paghi ti tengono nella stanza
blindata con tanto di inferriate arrugginite per tutta la vita a pane e
acqua. L’acqua deve essere del pozzo accanto da dove si sentono le
grida delle rane toro e dei rospi reali che fanno più rumore di una
locomotiva a vapore della linea Bergamo-Ponte di Legno. Chiedo se
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lo passa la mutua, ma ho l’impressione che qui non sia valida perché
un infermiere si precipita al computer per cercare su Goglo di che
cosa si tratta. Domando allora se accettano la Carta di Credito. Mi
rispondono che qui non sanno cosa sia, penso che conoscano solo
quella igienica che ho visto nella tualetta quando, per la paura, ho
preso una tremenda scarica di dissenterite. Carta igienica di colore
marrone. Ho chiesto perché e mi hanno detto che la usano per i neri
(di quella bianca per i musolungo erano momentaneamente
sprovvisti) e poi è più pratica perché tiene meglio lo sporco in caso di
riciclaggio. Ma intuisco che qualcuno non conosce neanche questa
vedendo le ragnatele di ditate marroni che ornano le pareti. Pagato il
mio conto al ginecologo mi sono incamminato verso il centro della
città, ma questa volta a piedi. Non si sa mai. Tutti guardavano le mie
orecchie dove in ambedue mi erano stati applicati due grandi ed
evidenti pacchi di ovatta tant’è vero che un bambino biondo e bianco
che passava da quelle parti con la sua mamma si è messo a gridare
“Mamma, guarda Topolino!”. A quel punto me li sono strappati via e
li ho gettati nel cassonetto. Devo essere stato il solo che ha usato il
cassonetto perché era completamente vuoto. In compenso tutte le
carte erano state diligentemente messe ai bordi della strada per far
vedere dove finiva l’asfalto.
Avevo voluto venire in centro perché volevo comperare i sovenir di
Malindi che mi hanno detto sono fatti con le perline dei Masai. Il mio
Amico Filippo, che è stato qui l’anno scorso nella stagione delle
piogge perché si paga di meno, mi ha istruito su tutto, soprattutto
sulle compere. Mi ha detto che devo contrattare. Non so se qui fanno
questi contratti. Comunque spero che per comperare le perline non ci
sia bisogno di un notaio con quello che costano. I notai, non le
perline. Proprio lì davanti al Seve to Seve noto una bancherella con
in parte un Masaio. Vuoi vedere che qui posso fare la spesa dei
sovenir? C’è di tutto e di tutti i colori dell’arcobaleno e qualcuno di
più. Non ho che l’imbarazzo della scelta. “Mi scusi signor Masaio,
posso vedere la sua merce?”. “Acuna patata! Vedere non costa
niente”. Gli dico che non voglio comperare le patate perché nel
Villaggio dove abito è tutto inclusivo e gli indico le cosine colorate.
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Anche lui è tutto colorato. Ha un vestito tipo abito da sera che porta
con eleganza del luogo, tiene in mano un bastone probabilmente per
tener via le mosche, attaccati alle orecchie due anelli che sembrano
cerchioni di bicicletta, ciabatte con suola di copertone di camion e un
sacco di braccialetti e collane che si è messo ai polsi e al collo invece
che metterli in vetrina perché la vetrina non ce l’ha.
Il mio amico Filippo mi aveva detto che devo
tirare sul prezzo perché loro hanno il vizio di
fregare i turisti. Allora... facciamo il punto...
La collana di perline variopitturate per la
Teresa che è andata a Igea Marina e che poi
le sue amiche creperanno di invidia, un filo
di palline nere che sembrano un Rosario,
però senza la croce in fondo, per il Curato
della mia parrocchia che si intona con la
tonaca, un anello di plastica rosa e marrone
per la Gisella, l’amica della Teresa, che ci fa
tanti favori quando ci presta il sale e lo
zucchero quando a casa rimaniamo senza e
che poi dirà ma che bravo tuo marito, così continuerà a prestarceli.
Un altro braccialetto per me con su scritto il mio nome così, se mi
perdo, sanno subito chi sono senza telefonare a Chi s’è visto s’è
visto. Dopo aver scelto tutti questi meravigliosi regali aborigeni
chiedo quanto fa. Mi dice 1100 scellini. Allora comincio a tirare sul
prezzo come mi aveva raccomandato il mio amico Filippo. Tiro io
che tira lui, dopo cinquanta minuti, lo prendo per sfinimento. Pur di
convincermi a togliere il disturbo, perché nel frattempo sono arrivati
altri clienti, mi lascia il sacchettino e aggiunge anche 100 scellini.
Non avrei mai immaginato che qui non solo puoi comperare, ma ti
pagano anche. Comunque non mi sono azzardato a chiedergli lo
scontrino fiscale per il valore degli oggetti comperati. Magari
l’avessi fatto! Al posto dei 100 scellini forse me ne avrebbe dati 200!
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Adesso mi scappa proprio di vedere cos’è questo famoso Casino di
Malindi. Il mio papà una volta mia aveva detto che ai suoi tempi da
noi, circa 50 anni fa, ce n’erano due. La Villa delle Rose e il
Diciotto. Qui, che sono più
indietro di noi, ce n’è solo uno.
Lui al Casino ci andava prima di
sposarsi a vedere le donne nude o
quasi. Allora costava solo due lire
o dieci lire a secondo di cosa
facevi e quanto tempo ci rimanevi
e in più dovevi pagare anche
l’uso del sciugamano, ma quello
costava poco. Con quelle tope che ho visto girare nel villaggio, tutte
fidanzate con turisti, immagino cosa avrei trovato lì. Magari il
sciugamano era gratis per far entrare più clienti. A dire il vero avevo
già notato un movimento di donne bellissime aborigene sculettare sui
marciapiedi. Dire marciapiedi è un po' esagerato... sono una specie di
sentieri a lato della strada fatti apposta per non essere spiaccicati da
qualche camion di passaggio che qui vanno a sinistra invece che
dalla parte giusta. Quando piove però devi usare la piroga o una
canoa locale.
Comunque a guardarle ci lasci gli occhi. Belle, fascinose; quando
camminano hanno un bellissimo andar di corpo, gambe tipo colonne
della Piazza di San Pietro, occhi grandiosi con palpebre lunghe come
i ventagli che usava la mia nonna Armida prima che inventassero i
ventilatori, denti così bianchi che più bianchi non si può (magari se li
lavano col Spic e Span), la pelle di velluto ( magari se la lavano con
il Coccolino ammorbidente), culo a mandolino ascendente panettone
e scarpe con tacco di 12 centimetri che se per caso cadono di lì si
sfracellano sull’asfalto. Probabilmente devono appartenere alla tribù
dei Vatussi, quelli che con un salto guardano negli occhi le giraffe e
che arrivano alle orecchie degli elefanti come diceva una canzone dei
miei tempi. Probabilmente lì al Casino mi stavano aspettando perché,
ancora prima di entrare, c’è un ingomo che ti apre la porta ancora
prima che tu allunghi la mano. Si vede che qui quelle automatiche
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che ci sono da noi all’Iper non le hanno ancora inventate, ma tanto il
personale costa poco. Prima di passare nel salone principale sputo
sulle mani e me le passo nei capelli per mettermi in ordine e mi passo
la lingua sui labbri perché siano più sensuali e erotici. Altra passata
di sputo sulle orecchie per togliere i residui di sangue che magari il
ginecologo mi ha lasciato dopo la visita interna. Controllo di avere in
tasca il preservativo. Il mio amico Filippo mi ha detto che è meglio
premunirsi per non correre il rischio di prendere l’AIDIS (o si
chiama AIAX?) e altre malattie virili equivalenti tipo morbillo,
vaccinella e tifo intestinale. Adesso sono pronto per affrontare la
goduria sessuale al Casino di Malindi. Se lo sapesse la mia Teresa
non esiterebbe a farmi la famosa operazione del Balzac, Bal... Zac!
Ma so di certo che anche a Igea Marina fanno queste cose; non solo
si fanno il bagno, ma anche il bagnino. Ma la mia Teresa è diversa
come sono tutte diverse da tutte le altre le morose dei turisti italiani a
Malindi.Entro a passi decisi e mi preparo alla scelta di una delle
gazzelle locali. Per alcuni attimi rimango rincoglionito perché...
perché... “Ma dove sono tutte le donne?” chiedo a un distinto signore
con zoccoli da cui quello destro lascia uscire da un buco il ditone del
piede con unghia da leopardo, braghe fino al ginocchio con vistose
rammendature e due pezze sul culo di un colore quasi uguale,
camicia bianca con sbrodolature di ogni colore (quelle del caffè e del
pomodoro si notano maggiormente). “Quali donne?”. “Quelle che di
solito si trovano nei casini...”. Quello, che di Casini doveva
intendersi, deve aver intuito che qualcosa non andava. “Vedi caro
mio, qui non c’è il Casino che forse volevi tu, ma c’è il Casinò con
l’accento sulla O”. A parte il fatto che mi è scocciato che mi abbia
subito dato del tu dato che probabilmente non eravamo neanche
lontani parenti, ma non avrei proprio pensato che una O con
l’accento avesse cambiato totalmente la destinazione d’uso.
Comunque, per non fare la figura dell’imbranato totale della serie
andavano per cuccare e rimasero cuccati e per tenere un contegno
naturale di profondo e assiduo conoscitore del luogo, mi sono
avvicinato a quelle ruote colorate che continuavano a girare le palle.
La gente metteva sui numeri del tavolo delle tavolette rotonde finchè
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l’omino nero con la divisa di Generale di Brigata lì davanti diceva
una frase mi sembrava francese (quante lingue sanno gli aborigeni!)
e che tutti si fermavano di colpo come
avessero paura di prendere la scossa.
Qualcuno ci guadagnava e si affrettava a
ritirare le tavolette colorate, ma la maggior
parte delle volte l’omino era più veloce di
loro e, con una specie di rastrello, si pappava
tutto lui. Io non mi sono fidato a giocare non
solo perché il mio amico Filippo non me l’ha
insegnato, ma anche perché a Igea Marina, dove di solito vado a
passare le vacanze e che è più grande di Malindi, queste cose non le
hanno ancora inventate.
Un pomeriggio sono andato di nuovo in centro di Malindi per un
caffè espresso al Care Blisse che costa meno che al Coral Chi. Là,
per ogni cosa che prendi, devi mettere la firma autografata su un
taccuino con tanto di numero della camera. Ma non era tutto
inclusivo? Solo l’ultimo giorno mi hanno fatto notare che, se fossi
andato al bar centrale a consumare, non avrei pagato una madonna,
ma a quell’altro, a soli cinque metri con le poltrone al posto delle
sedie così scomode che se ti sedevi dovevano usare un muletto per
tirarti fuori, non c’era niente aggratis. E io, il pirla, andavo sempre al
secondo! Comunque, quando mi facevano firmare il conto, mettevo
sempre il numero della camera del mio amico bresciano di Bagolino
che deve essere ricco perchè ha un sacco di capre e di mucche
lattonzole.
Questa volta in centro sono andato a piedi perché la metropolitana
non l’avevano ancora terminata; in compenso gli scavi erano ancora
più profondi e mi sono guardato bene dal prendere il Tuc Tuc vista la
tragica esperienza di qualche giorno prima. Mi ha accompagnato il
mio amico bresciano e, lui che sa tutto e che è arrivato fino alla terza
media, mi ha spiegato che molto probabilmente il mio autista era
troppo debole perché da queste parti una volta all’anno fanno il
Rataplam e non mangiano 24 ore al giorno, meno la domenica e le
feste comandate e non fanno sesso più di tre volte per notte. Chissà
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quante volte lo fanno quando finisce il Rataplam! Ho sentito dire
che, per rifarsi del tempo perso, il resto dell’anno lo fanno tre volte
all’ora con tre donne contemporaneamente, sempre escluse le
domeniche e le feste comandate. Inoltre non possono mangiare la
porchetta e bere la grappa. Per me quello non era per niente debole,
ma deve essersi fatto una decina di birre prima dei pasti e dopo i
pasti grappino compreso.
Comunque devo ammettere che questi sono posti dove devono essere
tutti ricchi. Non ho mai visto tante banche come a Malindi. Davanti a
una c’era un sacco di soldati con tanto di mitra, fucile a baionetta,
bombe a mano e bazuca. Qualche volta, quando c’è più ressa,
mettono anche un carro armato con cannone calibro 40. Sempre il
mio amico Filippo, quello di prima che sa sempre tutto, mi ha
spiegato che quella è la Wester Unione. Ho dato uno sguardo dentro
e ho visto due file lunghe lunghe di uomini e donne locali tutti
giovani e di gentile aspetto anche se neri che a me sembrano tutti
uguali. Mi ha detto che qui arrivano per posta celere estracomunitaria
i soldi dei vari morosi e morose italiani che hanno qui lasciato la
persona amata, distrutta, piangente e singhiozzante e fedele fino al
loro ritorno. Siccome spedire fin qua pacchi di biscotti, caramelle,
lecca lecca e alimenti vari costerebbe un casino sia via nave che
aeroplano, mandano direttamente i liquidi così se li comperano qua
che magari costano anche meno. Ho visto una bellissima sventola,
quella come le altre che ho spiegato prima con le gambe lunghe e
nere e culo in fuori, che ha ritirato un bel pacchetto di soldini.
Lasciato lo sportello si è messa di nuovo in fila e ne ha ritirati altri.
Nel giro di 30 minuti ho contato 18 passaggi e a ogni passaggio le
crescevano le tette per il fatto che tutte le volte se li infilava lì.
Probabilmente lo faceva per non pagare le tasse. Però la prossima
volta che vengo a Malindi me la faccio anch’io una morosa come
queste, ma prima devo controllare che sia onesta, fedele, religiosa,
preferibilmente cattolica e apostolica (ma mi frega un cazzo anche se
è mussulmanica), timorata di Dio e soprattutto vergine. Acuna
patata! Chissà quante ne trovo così!
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AL CORAL CHI
Su indicazione del mio amico Filippo che lui di viaggi se ne intende
perché il mondo l’ha già girato in lungo e in largo tipo Igea Marina
dove ci andiamo tutti gli anni, Cattolica (perché è molto religioso) e
Gabicce Monte (che poi si sposta da lì e va a Gabicce Mare a fare il
bagno perché su quello del Monte costa meno), mi sono presentato
all’Agenzia Turismatica Il Perditempo. Ho detto che volevo andare a
Malindi, provincia del Chenia, a sua volta provincia dell’Africa in un
Villaggio come si deve. Nel
senso di crepi l’avarizia perché
almeno una volta nella volta
bisogna
togliersi
queste
soddisfazioni
corporali.
Mi
hanno consigliato il Coral Chi
perché c’è il bagno in ogni
camera, mica come alla Pensione
Mariuccia che ce n’è uno in
fondo al corridoio e che se ti
scappa e è occupata da uno
stitico te la fai dentro. Quando la
macchina dell’Agenzia ha svoltato a sinistra mi sono trovato davanti
una casa piena di pali che era più alta delle Piramidi dell’Egitto.
Finalmente si vede una vera capanna Africana! Comunque mi è
venuto un dubbio... Non è che non abbiano capito bene dove dovevo
andare? A me sembrava che quella fosse una Cattedrale! Eppure il
nome c’era scritto grande e grosso. Ma evidentemente l’imbianchinopittore che l’aveva scritto deve aver fatto un errore, invece di scrivere
Coral Chi aveva scritto Coral Key. Che inalfabeta!
Un ingomo scarica la mia valigia contenente lo stretto necessario per
una vacanza africana di 15 giorni. 12 costumi di tutti i colori, 4
canottiere a maniche lunghe perché la sera può far freddo perché c’è
l’incursione termica, abito da sera (che poi è il vestito col quale mi
sono sposato 25 anni fa' che mi è un po' largo, ma che con l’umidità
del mare poi si restringe da solo), 14 magliette per il giorno, pinne,
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fucile e occhiali perché qui ci sono da vedere merluzzi, trote
salmonate, pesci balla, elefanti marini e balene della Patagonia e,
sempre su consiglio del mio amico Filippo, una decina di scatole di
preservativi perché da queste parti si cucca come niente. Alla faccia
della mia Teresa che è in menopausa da almeno 10 anni e che non ha
più voglia di stupidate. Appena dopo l’ingresso capisco che non si
tratta di una Cattedrale, ma di un teatro di lusso con tanto di sipario
bianco e rosso e con lo sfondo dell’Africa. Ma anche lì il pittorescultore deve aver sbagliato qualcosa. Io che, prima di partire, sono
andato sull’Atlantico Geografico a studiarmela, ho notato che è
capitato come all’Italia quando la Corsica è cancellata. Ma dov’è
andato a finire il Madagascara? O si sono dimenticati di metterlo o
molto probabilmente un vulcano o un terremoto del luogo deve
averlo fatta sparire nell’Oceano Indigeno.
Dopo i salamelecchi ai nuovi arrivati l’ingomo della valigia mi dice
Caribuni. Mi spiaceva rispondergli che non avevo ben capito la
parola, ma Caribuni penso voglia dire ciao-fatto buon viaggio-buona
vacanza-spero che qui ti trovi
bene-come sta la tua famigliaqui fa bel caldo-adesso fatti
una doccia che puzzi come una
capra. Mi apre la camera, per
educazione mi fa entrare per
primo e, dopo un secondo,
robatto indietro come una
molla. Mi sono spaventato a
morte. Infatti lì dentro c’era
allestita una camera mortuaria.
A quel punto l’ingomo, che
doveva sapere 17 lingue, mi ha parlato in italiano e mi spiegato che
quello non era un catafalco, ma più semplicemente una zanzariera
per zanzare locali che se poi ti pungono prendi la malaria, il colera e
la malattia del sonno. Per la doccia mi ha consigliato di aprire la
manovella e aspettare l’acqua calda che prima o poi arriva di sicuro o
forse. Nudo come un lombrico di un pescatore del lago di Iseo ho
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aspettato quattro ore e venti minuti e finalmente... finalmente un
cazzo! Si è fermata anche l’acqua fredda! Non mi rimane che lavarmi
a secco con salviettina impregnata di liquido antizanzare. Saprò più
tardi che è saltata la corrente dappertutto perché il Chenia non ha
pagato la bolletta della luce non ho capito bene se alla Nigeria o al
Burchina Fagiolo.
Dopo un giorno mi sono completamente ambientato. A parte il fatto
che per girare tutto il Villaggio dovrei avere il navigatore Pom Pom,
devo dire che, rispetto alla Pensione Mariuccia, qui c’è molto di più.
Ho fatto amicizia con il Carlone (veramente si chiama Giancarlo, ma,
siccome è grande e grosso, lo chiamo così), un bergamasco della
Valseriana che lui è esperto perché qui c’è stato ben due volte così
posso scambiare quattro parole con uno che è delle mie parti.
Facciamo un giretto panoramico. C’è una sfilza di piscine tutte
attaccate con l’acqua che viene dalla prima e va nelle altre di modo
che si risparmia. Quindi per cui è meglio fare il bagno in quella
superiore perché, con tutta la gente che c’è dentro e che ci fa la pipì,
se la fai nell’ultima non sai quello che ci trovi. Ci sono anche un
sacco di bambini che fanno il bagno. Uno dei tanti è corso dalla sua
mamma a dirle che Daniel ha fatto
pipì nella piscina. “Ma lo fanno
tutti!” ha risposto la mamma con
la puzza sotto il naso. Poi si è
accorta che Daniel in effetti la
stava davvero facendo la pipì, ma
direttamente dal trampolino. Tutto
attorno ci sono le camere, che in
suili le chiamano Bungalo, di modo che quando esci e se sei ancora
mezzo addormentato ci cadi dentro e non fai la doccia fredda. In tutta
la parte destra c’è il quartiere arabo, una specie di suc suc dove
vanno i raccomandati che hanno una piscina propria e che, se magari
ci vai anche solo per sbaglio, per punizione ti danno venti frustate
alla presenza di tutto il Villaggio di modo che imparano. Comunque
anche lì dentro gli arabi sono tutti sulle sdraio con su i costumi come
i nostri. Solo alla sera, mi dice il mio amico Carlone, mettono il
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burca e vanno in Moschea dove canta il Mezzin, un bel po' stonato,
con una lagna da far venire il latte ai ginocchi e non finchè la barca
va o Romagna mia come alla Pensione Mariuccia di Igea Marina. Lì
sopra c’è la Terrazza e di sotto la Pizzeria che però non è inclusiva.
Mi dicono che per andare
lì a mangiare le aragostole,
le ostreghe, i granchi di
fiume e i calamari giganti
ti chiedono prima il 740.
Per i più poveri c’è sempre
la possibilità di accendere
un mutuo. Ma a me non
mi frega un cacchio perché
a me i frutti di mare (ma i
frutti non si raccolgono
solo nell’orto? Mah!) mi stanno sullo stomaco e mi fanno fare i
ruttini tutto il santo giorno. A sinistra c’è il quartiere residenziale. Lì,
se ti azzardi solo a mettere un piede dentro, rischi la decapitazione
immediata senza processo e il tuo sfortunato corpo passa
direttamente alle cucine del tutto inclusivo. Un po' come capita
quando da noi muore un cinese. Mai visto il funerale di un cinese!
Probabilmente anche loro vanno a finire negli involtini primavera.
Giù in fondo, dove c’è il mare, venti poliziotti armati fino ai denti,
tengono lontani i bicci boi che dicono ai turisti che vogliono polenta
e fagioli, come se noi nel costume avessimo un chilo di farina e
mezzo di fagioli. Insomma, anche qui, come a Lampedusa, fanno la
politica dei respingimenti a suon di bastonate. Comunque la sera
raccattano i caduti. N.8 bicci boi, n.4 turisti scambiati per gli stessi
perché si sono dimenticati di mettere il braccialetto bianco di plastica
con su quella specie di “V” tutta sdraiata e n.1 vecchietto che per
caso passava da lì con un sacco sulle spalle. Di notte, quando la
marea si è sollevata, li hanno buttati in mare con una corona di foglie
verdi a mesto ricordo e un frettoloso De Profundis recitato dall’Imam
che si trovava per caso nel complesso arabo.
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C’è da dire che, oltre a me e al Carlone, c’è proprio della bella gente.
Alla sera, a cena, vengono tutti con i vestiti della festa, non come a
mezzogiorno che sembrano un mucchio di foche e elefanti marini
come si vede nei documentari di Voiger. Anch’io la sera mi metto il
vestito completo con giacca e cravatta per fare il figo e non far
vedere che vengo da Bergamo di Sotto. A dire il vero puzza ancora
di naftalina ed è pieno di pieghe come le rughe del mio povero nonno
Anselmo che se n’è andato a 99 anni, pace all’anima sua, perché la
mia Teresa, come l’ha tirato fuori dall’armadio, l’ha infilato
immediatamente nella valigia per la paura che non partissi e non
avermi più tra le balle per una settimana. “Sta attento alle donne!” mi
ha urlato prima che prendessi la corriera per la Malpensa, “Lo sai che
ti potresti prendere il colera, i pidocchi, la peste, la pellagra e il mal
d’Africa". A parte il fatto che questo mal d’Africa, che ho sentito
nominare tante volte, non so ancora cos’è. Deve essere una specie di
meningite, come quella che avevo fatto da piccolo, e che dicono che
o muori o rimani scemo. Io però non sono morto. E poi giù ancora
con le raccomandazioni... “Non mettere la testa fuori dal finestrino
dell’aeroplano che hai la sinusite, non mangiare cose col peperoncino
che hai la prostica ingrossata, non bere l’acqua dei rubinetti che c’è
dentro la salmonellosi
salmonata,
mettiti
gli
occhiali da sole perché se
no ti viene la scatarratta
negli occhi, non mangiare
cose africane che hai la
gastrite gastrica...”. Basta,
non ne potevo più!
Durante la settimana ho
conosciuto personalmente
di persona un bel po' di
gente e con qualcuno vado d’accordo. L’Umberto per esempio. Ha
un carattere di bestia, ma in compenso non è mai d’accordo su
niente. Se dici bianco lui dice rosso, se dici nero lui dice vaffanculo.
Ha una sedia fissa, solo per lui, lì in parte al bar del tutto inclusivo.
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Provaci a sederti al suo posto che ti maledice fino alla settima
generazione e oltre! Legge sempre, ma penso sia sempre lo stesso
libro perché ogni tanto lo trovo con gli occhi chiusi. Ma fa per far
vedere che lui non è un inalfabeta di provincia. Lui viene da Brescia,
mica come noi provinciali di provincia. Però, a modo suo, è
simpatico come l’orso del Parco delle Cornelle di Bergamo quando
balla il ballo dell’orso. E l’Enrica? Accidenti, mi dimentico sempre
di chiamarla signora Enrica. Che sia una signora non c’è proprio
dubbio. Si dice che arriva qui al Coral Chi con 24 bauli e 8 valigioni
di vestiti. Quando arriva di solito noleggia un TIR. Infatti non c’è
sera che non ne indossi uno diverso. Ha un’età indefinita fra i 42 e i
61 anni, è un incrocio fra una gazzella e una libellula tant’è scattante
e magrolina, ma tutto pepe e non ti dico quanti ammiratori s’è fatta
da queste parti. Si dice anche che, per cenare con lei, bisogna
prenotarsi almeno due mesi prima tanti sono i suoi ammiratoriamanti. I biglietti coi numerini li danno all’ingresso. Io, comunque,
non farò mai in tempo perché mi fermo solo 15 giorni e la lista
d'attesa è di almeno un mese. L’ultima volta l’ho vista con un signore
col Morbo di Pachistan. Nella mano mobile gli faceva tenere il
ventaglio di piume di struzzo che avevano catturato e spennato nel
Parco Schiavo. L’hanno assunto in pianta stabile a Coral Chi per
spargere il formaggio sui maccheroni dei turisti. La signora Enrica la
consiglierò al Carlone che di settimane se ne fa due di più perché è
più ricco di me perché ha una agenzia di
importo-esporto di caloriferi in Tanzania.
La Cristina la vedi razzolare dappertutto,
sempre assieme a Gianni e Fabio (lei li
chiama Cip e Ciop perché sono sempre
assieme, neanche fossero due gemelli nati
da padre e madre diversi perché non si
assomigliano una sega) che hanno una
bottega di RCI (Robe Costruite all’Interno)
dove si vende di tutto meno magliette,
collane masai, braccialetti di conchiglie di
mare e ciabatte da camera con perline colorate che però van bene
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anche in soggiorno. Quelli li commercia Margherita (non la pizza)
che quando la incontri, carina com’è, ti sbatte nel muso uno stupendo
sorriso con 48 denti così bianchi che sembrano le onde della barriera
corollaria. Il signor Mancini, Capo dei Capi, il Signore e Padrone di
tutte le cose, alle quattro e mezzo del mattino è già al 45mo giro dei
suoi possedimenti per controllare se i suoi 990 sottoposti sono tutti al
lavoro. Quelli della manutenzione, con le tute arancione tipo
ergastolani di Sing Sing, sono già al lavoro segregati nelle galere
dopo il campo da tennis tenuti a bada da un boia con il frustino a
sette code.
E come posso dimenticarmi di Martino? Martino di cognome e
Luciano di nome che, anche se li inverti, non riesci mai a capire qual
è il nome e qual è il cognome. È uno che nella vita deve essere stato,
come dicono dalle mie parti, tomber de femme, che, tradotto in
italiano, vuol dire trombatore. Ora sta con Olga, bellissimo
esemplare di femmina slava, la quale ora volge tutte le sue attenzioni
a Susci, un cagnetto tutto bianco e pelosetto, non come i nostri di
paese che sono tutti di pura razza bastarda, dimenticandosi spesso del
marito che lo vedi vagare verso le tre di notte alla ricerca del suo
bungalo. È un pezzo grosso (deve superare i 90 chili) del cinema e ci
ha fatto il gentile omaggio di farci vedere in anteseconda (in
anteprima l’aveva già mostrato a pochi intimi) il film delle piccole
piogge girato qui al Coral Chi con le scomparse del luogo. Si
chiamano scomparse perché nel giro di pochi secondi scompaiono
dalla storia così li paga di meno. Il Mitc (che è astemio) che faceva
l’ubriaco, la Rita, una signora niente male e con il caschetto bianco
platinato, che faceva la intrattenitrice al bar sempre col bicchiere in
mano. Si dice che, avendo girato per 34 volte la scena, ha dovuto
bersi 34 gin tonic. Poi l’hanno raccolta ciucca e imbriaca e portata
dall’Antonella all’Ospedale San Piero qui vicino. Le hanno fatto una
lavanda gastrica e quasi sveniva di nuovo quando le hanno
comunicato che per quella scena si erano dimenticati di metterci la
pellicola mai arrivata dall’Italia. Questa volta si sono limitati a 23 gin
tonic. La sera l’hanno trovata sulla spiaggia che cantava a
squarciagola guarda o mare quant’è bello anche se non c’era la luna e
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non si vedeva una mazza. Ma lei il mare, in uno spazzo di lucidità,
dice di averlo visto lo stesso blu cobalto.
La Valentona, perdon, la Valentina la trovi dappertutto. Non ho
ancora capito cosa faccia, ma quando ti incontra ti saluta con tanto
calore che senti i raggi ultraviolenti anche se non sei al sole. Il
Mascia è il personaggio più caratteristico del serraglio. Quello non
deve avere mai pensieri per la testa perché,
quando ti vede, si mette a sganasciare come un
matto e ti tira su il morale. Quando la sera
presenta gli spettacoli non so perché inizi a
parlare inglese. Molto probabilmente non si è
ancora accorto che ha a che fare con una
maggioranza quasi totalitaria di bergamaschi,
bresciani e resto d’Italia. E chissà di quanti ancora che qui
soggiornano per 14 mesi all’anno vorrei parlare, ma ho consumato
quasi tuta la penna biro. A proposito di spettacoli... Qui non è come a
Igea Marina che dopo cena o si gioca a tombola o si recita il Rosario.
No, qui ci sono fior di intrattenimenti che intrattengono i turisti che
fanno a calci e pugni e aggressioni varie per prendersi i posti migliori
sulle poltroncine davanti. Ieri sera abbiamo contato 12 feriti lievi, 2
gravi e varie ammaccature con
prognosi riservata che hanno
intasato la guardiola medica di
detto ospedale. Frattanto sono
arrivati i Masai. Proprio tutti
non ci stavano perché devono
essere arrivate quattro tribù
assieme. Erano in un centinaio.
O ci stavano loro o ci stavano
gli spettatori. I turisti allora si
sono
arrampicati
sulle
casuarine del macutto, alcuni aggrappati ai tetti di paglia come sono
le case degli aborigeni locali e del Coral Chi e da lì hanno assistito ai
balli e danze tributarie. Ogni tanto qualcuno, vinto dalla stanchezza,
precipitava al suolo riportando fratture varie. I Masai sono dei
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guerrieri, infatti hanno lance e scudi. Si dice che, prima di fare la
circonversione del pisello, devono andare a uccidere il leone. Quando
lo vedono saltano in alto per vedere se è proprio lui e poi o lo
strangolano o gli infilano il braccio in bocca, afferrano la coda e lo
rinversano come un calzino.
Un’altra sera è venuto il Freddi del Coriandolo a parlare e cantare su
Malindi. Ho la vaga impressione che questi
posti li conosca bene. Si dice che l’abbiano
catturato nella savana e trasportato fin qui come
hanno fatto nel film di King Kong. E infatti un
po' gli somiglia, solo che i peli li ha un po' più
corti. Deve essere buono come il pane e la nutella perché finora non
ha mai morso nessuno e deve anche aver imparato a leggere e
scrivere mica male perché ha scritto anche dei libri stampati. Il suo
parrucchiere deve essere in ferie da almeno sei mesi.
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AL RISTORANTE DEL VILLAGGIO
Dopo cinque ore da Mombasa a Malindi con un Tuc Tuc (che costa
un bel po' di meno del taxi) finalmente ero giunto al mio hotel.
Finalmente avrei potuto vivere in pieno il sabato del Villaggio (ero
arrivato il venerdì). Il mattino sul presto sono stato svegliato da strani
rumori, mi sembrava fosse gente che correva. Guardo fuori e vedo
che una moltitudine di turisti si stava precipitando verso le tavole
della colazione. Per non far tardi mi sono precipitato anch'io. Mi
sono tolto il pigiama di corsa e, sentendo altra gente arrivare, mi
sono detto vuoi vedere che poi io rimango senza? E via anch'io da
quella parte! Non ti dico che formicaio di gente che arrivava! Tutti a
prendere il posto per paura di mangiare in piedi. Infatti a me è
capitato di ritrovarmi da solo seduto su un muretto per via del fatto
che le sedie erano tutte occupate. Magari erano ancora vuote, ma
occupate chi da borsette, chi da giacche e chi da tovaglioli. Una l'ho
vista occupata da un reggipetto! Non mi ero accorto che, nella fretta
del precipizio, mi sono ritrovato in mutande. Speriamo le scambino
per l'ultimo modello del costume da bagno anche se la mia Teresa
nelle mie due valige me ne aveva messi quattordici, uno per giorno di
vacanza così non me li avrei fatti lavare. La colazione avrebbe
dovuto cominciare alle otto, ma dalle cinque e mezza tutti i posti
erano già occupati.
Abbiamo aspettato tre ore col cucchiaio, forchetta e coltello fra le
mani per essere pronti a scattare quando l'ingomo del Villaggio
avrebbe battuto sul tamburo l'annuncio tutto africano della serie la
pappa l'è pronta la pappa l'è pronta venite a magnà. Al momento
fatidico si è assistito ad uno scatto come ai 100 metri alle olimpiadi.
Chi spingeva, chi sgomitava, chi saliva sulle spalle di chi era davanti,
chi si intrufolava sotto le gambe di quelli che erano già ridosso ai
tavoli e chi, minacciando gli astanti con pistola Beretta calibro 7.75 o
coltelli alla Sandocan con grugni feroci da Al Crapone, si faceva
strada senza tanti riguardi. Fatto sta che non me la sono sentita di
buttarmi a capofitto nella ressa, ma sono stato ad aspettare il mio
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sacrosanto turno. Uno di Vicenza, grande e grosso, dopo essersi
catapultato come una ruspa di muratori
bergamaschi e con tutto il peso dei suoi 120 chili o su di lì, al grido
di andemo fioi che noialtri restemo sensa, è uscito con un piatto
contenente, nell'ordine, 4 uova crepate (qui le chiamano creppe), 2
etti di prosciutto fritto, mezzo chilo circa fra biscotti e brioscine, 6
fette di torta Pasqualina, una piramide di pane brustolito con relative
marmellate e panetti di burro, mezza anguria e 5 ananassi. Siccome
tutto nel piatto non ci stava ha praticamente riempito anche le tasche
delle braghe e della giacca. Il vuster l'ha messo di traverso
all'orecchio come fanno i negozianti con la penna biro. Gli ho detto
che doveva avere una gran fame e gli ho chiesto se anche a casa sua
mangiava tutta quella roba lì. "Ma cosa dise mona! A casa un
cafenino e basta! Qui me faso la riserva per un ano intrego! L'è tuto
pagato, neh!". Però non ce l'ha fatta a finire tutto quel ben di Dio. Il
cameriere estracomunitario alla fine ha ritirato il piatto con su 2 uova
crepate, 1 etti di prosciutto fritto, 2 etti circa fra biscotti e brioscine, 3
fette di torta Pasqualina, 5 fette di pane brustolito con relative
marmellate e panetti di burro che non aveva neanche aperto, la
mezza anguria e 3 ananassi. Anche un turista bresciano, che era
arrivato fra gli ultimi e che si era seduto in parte a me sul muretto,
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aveva visto la scena. "Guarda che tipo quello lì. Ma come si fa a
prendere tutta quella roba? Noi a Bagolino per colazione ci limitiamo
a 4 michette, un paio di etti di formaggio Bagòs, 7-8 fette di
mortadella, un caffenino e mezzo litro di latte. Quello lì grida
vendetta al cospetto di Dio e per di più fa peccato di gola. Che gente
che c'è a 'sto mondo!". Quando tutti si sono serviti abbiamo pensato
che toccasse a noi. Infatti è proprio venuto il nostro turno. Ci siamo
avvicinati al tavolo e… erano rimaste solo due banane. Una
piccoletta e una più grossetta.
Il cuoco ce le ha messe entrambedue su un piatto e siamo tornati
mestamente al nostro muretto. Le avremmo dovute dividere
aquivalentemente fra di noi. Con la fame che avevo io mi sono
istantaneamente preso la banana più grossa, ma il bresciano mi dice
subito che sono un maleducato di bergamasco. "Se tu fossi educatomi dice- avresti preso quella più piccola". Io, che non ci vedevo più
dalla fame, allora gli dico "Se fosse toccato a te scegliere per primo
quale avresti scelto?". "Ma, essendo io più educato di te, avrei scelto
quella più piccola". "E allora- gli rispondo io che vengo pure io dalla
montagna e che forse ho il cervello più fino di lui- non ce l'hai già
quella piccola? Allora buon appetito!". E mi sono sbafato quella
grossa.
Noi due, io e il bresciano che non siamo stupidi, non ci volevamo
lasciar fregare un'altra volta. Col cacchio che per il pranzo ci
saremmo seduti sul muretto per cuccare ancora altre due banane.
Prima dell'entrata del ristorante avevamo notato che c'erano due
specie di lettini, due baracchini che qui chiamano Pilli Pilli che poi
non sono altro che brandine col legno intarsiato dai falegnami
aborigeni del luogo. Dandoci una mano a vicenza li abbiamo
trascinati proprio lì a ridosso della lunga tavolata che qui, quelli che
parlano il suili, la chiamano buffé. Saremmo stati sicuri che questa
volta nessuno ci avrebbe fregato; saremmo stati sicuramente al primo
posto.
Detto fatto ci siamo sdraiati e nessuno avrebbe avuto il coraggio di
farci sloggiare. Comunque quella intelligente trovata di montanari
del nord ci ha leggermente annoiati perché stare in quella posizione
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dalle nove all'una non è facile se non c'è qualcosa da fare. Ma il
bresciano di Bagolino, che aveva anche lui il cervello fino, ha trovato
la soluzione. Ha tirato fuori un bel mazzo di carte da tressette e per
quattro ore abbiamo giocato a scopone. Verso le 11 i camerieri hanno
incominciato a preparare la tavola, anzi, la tavolata perché era lunga
da qui a là come fanno alla festa degli Alpini al mio paese. Ma mica
c'erano solo salamelle e cotechini! Figurati se in un albergo come si
deve, e per di più a Malindi che è la perla dell'oceano Indigeno, non
è diverso! Siccome eravamo stufi di giocare a scopone ci siamo dati
la pena di contare tutti i piatti. Per me erano 429, ma per il mio amico
erano 430, ma non abbiamo
fatto la verifica perché ci
eravamo sderenati per la
fatica di far di conto. Alla
stessa ora tutti i turisti erano
di nuovo lì pronti per
l'assalto dotati di archi,
frecce, cerbottane, tirasassi e
alcuni con mazze da Masai.
Il vicentino, per paura che un solo piatto non contenesse tutta quella
roba, si era portato appresso uno zaino d'alta montagna portato a casa
dopo otto mesi di militare in una Caserma di Vipiteno perché poi
l'avevano riformato per eccedenza di peso (non dello zaino, ma di lui
medesimo). Dalla bocca della maggioranza degli affamati scendeva
un rivolo di saliva che faceva presagire che l'assalto sarebbe stato
ancora più violento di quello del mattino. La minoranza invece si
trascinava sulle ginocchia come fanno i pellegrini di Fatima perché
gli zuccheri del sangue erano sotto zero. Solo un tale di Roma
sembrava non preoccuparsi più di tanto; era quello che al mattino si
era riempito di una ventina di brioches le 32 tasche del giubbotto da
esploratore della Savana. Orologio alla mano, dieci secondi prima
che il tale suonasse il tamburo, siamo scattati verso la tavolata con
una velocità che l'Alfonso, no, l'Alonso non se la sogna nemmeno. Il
bresciano s'è precipitato come una catapulta verso l'estrema sinistra e
io, in un decimo di secondo, verso destra. Siccome, a vista d'occhio,
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era impossibile passare di piatto in piatto e caricare tutta assieme
tutta quella roba, come da accordi e programmi presi in precedenza
mentre giocavamo a carte, man mano che la raccoglievamo ce lo
pappavamo seduta stante (che poi non eravamo seduti, ma
arzillamente in piedi) facendo roteare le nostre ganasce come la
trivella che usano per fare le gallerie nelle montagne. Eravamo
riusciti a suon di sberle e spintoni a contrastare l'assalto alla diligenza
di quelle orde affamate che si gettavano come le api sul miele. Giunti
finalmente alla metà della tavolata non ce l'abbiamo più fatta, sia
pure con tutta la nostra ferrosa volontà di montanari del nord, a
ingozzarci oltre. E sì che mancavano solo una fetta di carne, un
trancio di pesce spada e la teiera delle patate al forno.
Non era passata mezz'ora che ci siamo trovati lunghi e distesi sul mi
letto in stato comatoso e, come dicono i dottori, preagonico. Il
bresciano, sopraffatto da strani e imperativi dolori intestinali, non
avrebbe fatto a tempo ad arrivare al suo bungalo. Il primo suo istinto
era stato quello di liberarsi sotto la prima palma prima delle piscine,
ma il problema era quello di trovare la carta igienica. Anche qualche
foglia sarebbe andata bene per lo scopo. Diceva che a Bagolino per
quella funzione lì le foglie di gelso erano le migliori, ma i cespugli
attigui non erano di gelso, ma di buganditi e, con quelle spine che
uscivano dai rametti, rischiava di rovinarsi le parti intime posteriori e
di prendersi seduta stante una infiammazione del rettile. Una pia
donna che passava davanti alla porta, sentiti i nostri lamenti,
curiosando curiosamente oltre la porta, ha avvisato il Megadirettore
Generale del Villaggio che ci ha consigliato di farci vedere subito un
medico.
Se fosse stato bianco ci sarebbe costato 12000 scellini, se nero 8000
e, se avessimo voluto l'Ostregone di Mujeje, 2 manghi, tre banane e
una maglietta a mezze maniche perché a Malindi fa sempre caldo.
Ovviamente abbiamo scelto l'Ostregone. Ne è arrivato poco dopo
uno con un camicione multicolore, piume sul capo, due corna che gli
uscivano dal naso e muso tutto nero. Ha recitato una formula magica,
ha cosparso di incenso la stanza che olezzava di altri profumi e ha
ballato l'Alli Galli per tre volte. Non ha nemmeno voluto sentire la
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spiegazione dei nostri dolori (il suili in quel poco tempo non
l'avevamo ancora imparato), ci ha dato delle foglie di kilifi da fare un
infuso e ha fatto un certificato, sempre in suili e, per di più con brutta
scrittura (se l'avesse scritto
in bergamasco sarebbe stato
senza dubbio più chiaro; il
ché è tutto dire…), che
qualcuno si era sforzato di
tradurci: "Grave indigestione
per assunzione di cibi in
quantità
pachidermica,
ingolfamento dello stomaco,
del duotreno e delle altre vie
dirigibili, dissenterite acuta,
polistirolo e tricicli altissimi, basso numero di globi rossi e
piastrelle". Adesso finalmente penso di aver capito cos'è il mal
d'Africa! Che schifo quella medicina! Comunque mi ha fatto
vomitare non solo il corpo, ma anche l'anima e un paio di denti che
erano già cariatidi e sono caduto in un sonno profondo.
E pensare che il mio dottore della Mutua, che sarà magari anche un
medico di campagna, ma di queste cose deve intendersi, me l' aveva
detto di prendere con me delle medicine prima della partenza. Mi ha
subito consigliato di stare attento al ghiaccio perché lì si nascondono
e ci sguazzano i virus, ma io l'ho tranquillizzato subito perché gli ho
detto che da queste parti non ci sono tanti ghiacciai, tanto più che
non ho mai imparato a sciare. Allora lui ha precisato che parlava
della salmonella, ma l'ho rassicurato anche su questo; mi sarei ben
guardato di prenderlo se a tavola ci fosse stato il salmone. Ma oggi
non c'era, giuro! Mi aveva anche raccomandato di stare attento a non
prendere l'AIDIS, una malattia transessuale che veniva proprio dalle
scimmie africane. Comunque gli ho assicurato che non sarei mai
andato nè con scimmie, nè oranghi, nè bestie del genere Al massimo
con qualche signora per bene del luogo regolarmente munita di
certificato di buona salute e magari vergine. Per la malaria mi ha
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detto di non farmi pensiero perché fa più male prendersi dei
preservativi che la malaria stessa.
Infatti il mio amico Filippo, che di internet è pratico perché ci naviga
spesso (come farà non lo so! Io so solo che, basta che un onda si
muova, che prende il mal di mare), in un Sito di Malindi ha saputo la
stessa cosa, ma per il resto qualche medicina in valigia non sarebbe
stata di troppo. Infatti ho portato la Peracodina per la tosse, il
Pornolac per l'estitichezza, il Maialox per il mal di stomaco e la
Tachipirlina per la febbre. Le uniche due medicine che mi sono
dimenticato sono il Merdolin e l'Enterogermani per i movimenti
intestini. Neanche a farlo apposta l'unica infezione che qui ho preso
finora è stata questa disgraziata caghetta. L'unica malattia per la
quale non hanno ancora inventato il profilattico è il mal d'Africa che
presumibilmente si prende da queste parti e diventa cronica senza
possibilità di guarigione. Comunque basta non andarci e non si
prende.
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AL PARCO MARINO
Miracolo! Oggi sono riuscito (impresa non comune) a farmi ben 120
metri da solo! Poi la solita onda d'urto dei vu cumprà locali che in
suili chiamano Bicci Boi. "Oggi c'è la bassa marea e andiamo alla
barriera Coranica" mi dice il primo. In effetti avevo notato in mare
un certo movimento che mi ricordava il brano evangelico dove Gesù
camminava sull'acqua. E quanti novelli Messia stavano facendo la
stessa cosa! Andavano e tornavano camminando sul pelo dell'acqua
come se niente fosse. Sarà forse perché sono leggermente orbo, sarà
perché da entrambedue gli occhi sono presbitero, fatto sta che non mi
sono accorto subito che il mare si è ritirato chissà dove. Mi sono
quindi spiegato il fenomeno; niente di miracoloso questa volta.
Chissà se, dovesse tornare il vero Messia, se ce la farebbe ancora a
fare la stessa cosa ora che, dopo la sua morte, gli sono rimasti i piedi
bucati... Comunque la proposta più interessante che ricevo fra le
2000 che mi sono state rivolte nel giro di tre secondi netti ce n'è una
che risveglia il mio interesse. "Domani facciamo l'escursione a
Sardegna2".
Sardegna2? Ma
non ce n'è una
sola? Allora mi
spiega che qui la
chiamano così, ma
si tratta del Parco
Marino. A parte il
fatto che, essendo
anche un po'
sordastro dal lato destro per via del fatto che, da buon cacciatore di
montagna, gli spari del fucile mi hanno rovinato qualche timpano, la
prima volta avevo capito Porco Marino. Sapevo, perché ai miei tempi
l'avevo studiato sull'Atlantide Geografico dell'Agostino, che c'erano i
leoni marini, gli elefanti marini, le stelle marine, Marina Ripa di
Meana e anche Marina Berlusconi, ma porci marini mai! Quando
però me lo ridice dalla parte sinistra capisco meglio. Già mi
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immagino grandi alberi ombrosi, vialetti con piste ciclabili,
fontanelle di acqua, scoiattoli che corrono e uccellini che
cinguettano, ma, con grande pazienza e polle polle, mi rispiega che
non è un parco di prati e di boschi, ma di mare. Un parco di mare?
Ma certo che ci vado, anche solo per vedere come è fatto un parco
nel mare. Sardegna2... Fra me e me, continuo a pensare a cosa sarà
questo Sardegna2.
Non passa mezz'ora che capisco tutto al volo! Non ti vedo il
Berlusca, in compagnia del Flavio nazionale, che passeggiano
tranquilli
sulla
spiaggia?
Tranquilli sì, poichè i Bicci Boi
se ne guardano bene di
avvicinarli. Attorno a loro ci
sono quattro energumeni che li
respingono con occhiatacce
minacciose. Io, comunque, mi
avvicino ai due per parlare con
Silvio. Non l'avessi mai fatto!
Uno dei quattro mi blocca, il
secondo mi fa stendere a terra tipo verme solitario sulla sabbia, il
terzo mi sta addosso come il braccio di un caterpillar e il quarto si
mette ad armeggiarmi da capo fino ai piedi. "Non sono armato" dico
io con un filo di voce e col cuore che balla a 320 battiti al minuto.
Niente da fare. E sì che sono in costume e lì sotto non posso
nascondere più di tanto. Mi infila una manaccia lì davanti e si
accorge che tutto quello che palpava non erano nè coltelli, nè pistole,
nè bazuka. Mi ha dato una strizzata ai gioiellini che dalla fifa erano
diventati come noccioli di ciliegia e finalmente ho potuto
avvicinarmi al Gran Capo. "Adesso ho capito perché la chiamano
Sardegna2! Visto che lei di solito va a Sardegna1 immagino che sia
per questo che l'hanno chiamata così". "Cribbio! Dove passo io lascio
il segno giovanotto. Siccome ho intenzione di vendere Villa Certosa
voglio portare qui la mia residenza vacanziera. Ha qualche consiglio
da darmi?". Sinceramente pensavo che, dopo il salasso di De
Benedetti, fosse a corto di quattrini. Quindi gli ho spiegato che nel
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Villaggio di Mujeje si era liberata una capannuccia, magari un po'
sgangherata, ma con qualche ritocco gli avrebbe potuto andar bene.
Mi ha ringraziato del consiglio, una pacca sulle spalle e se ne sono
andati. Chissà se avrà seguito il mio consiglio...
Torno dai Bicci Boi. Prima mi accordo sul prezzo; prima 50000, poi
40000 e alla fine 35000 scellini (un euro corrisponde più o meno a
100 scellini) e prendo appuntamento per il mattino successivo.
Convinco a venire anche il mio amico bresciano. Alle 8.30 esatte
spaccate c'è il Tuc Tuc davanti al Villaggio che ci attende.
Percorriamo la Casuarina, chiamata così perché è stata storicamente
scoperta dai Turisti per Caso, virata a sinistra e ci scaricano su una
bella spiaggia con tante barche in attesa. Piccola barca e tanti turisti.
Siamo in 52 persone su una barca di sei metri. Mi ricordano le
acciughe stipate nei vasetti di vetro e gli esodi biblici degli
extracomunitari provenienti dalla Libia verso Lampedusa. Il natante,
dopo i primi scoppiettii del motore, pende tutto a destra. Si complica
la situazione quando tutti ovviamente rotoliamo da quella parte del
piano fortemente inclinato. Alt! C'è qualcosa che non va. "Mi sa che
facciamo la fine del Titanic" mi fa l'amico bresciano. "Ma no,
impossibile" gli rispondo non prima di aver osservato il mare con il
mio binocolo a 2 ingrandimenti "non noto alcun Iceberg
all'orizzonte! O forse sì? Noto alcune masse di ghiaccio all'orizzonte.
Mi tranquillizzano spiegandomi che si tratta del luccicore della prima
barriera coranica. ". Poi si svela il mistero. Nessun guasto, nessuna
falla; il capitano dall'occhio fino ed esperto nota che sulla panca di
destra se ne sta appollaiata una signora di Cremona di ben 130 chili.
Le enormi pieghe della pancia le nascondono il costume. Rivoli di
sudore dalle ascelle che attirano alcuni Albatros in cerca di pesce
marcio. Le tettone debordano dal microscopico reggiseno; forse
erano più consoni due scolapasta. Per riequilibrare il tutto viene
sollevata di peso da tutto il gruppo e lanciata fuori bordo. Sapremo
poi che dalla spiaggia di Majungo avevano avvistato una balenottera
di ben 130 chili, arpionata da un peschereccio di passaggio, affettata
e offerta, ben grigliata, ai turisti su un ristorantino di pescatori dalle
parti di Watamu con contorno di patatine fritte.
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Dopo circa una ventina di minuti, a causa del mare che proprio
stamattina ha deciso di incazzarsi, la comitiva è in preda a
incoercibili vomiti collettivi. In ossequio al cartello scritto in sette
lingue (aramaico compreso) dove
si invitano i nauseati o potenziali
vomitatori di farlo fuori bordo, si
assiste ad una violenta ondata,
anzi, cascata di cibarie semi
digerite. Solo in questo momento
comprendo che il dondolamento,
come
le
sue
conseguenze
gastriche, in questa zona doveva
essere previsto al fine di attirare varie qualità di pesci variopinti per
la gioia dei visitatori. Non sono certo nuovi (i pesci, non i visitatori)
ed abbuffate del genere poichè mostrano subito le loro preferenze in
fatto di gusti. In sequenza di gradimento vengono... residuati di
brioches, biscotti al forno del villaggio, prosciutto abbrostolito, uova
al tegamino e frutta di stagione. Scartano decisamente manghi,
papaie e banane. Evidentemente preferiscono frutti di mare reperiti
localmente. Uno dei compagni di bordo si arrischia a tuffarsi per fare
snorkeling, ma i residui digestivi dei compagni lo investono appieno.
Viene immediatamente assalito da un branco di barracuda e divorato
all'istante. Le sue ossa bianche si intravvedono attraverso il vetro sul
fondo della barca. Vista la situazione una sposina, abbarbicata al
maritino e tremante oltremodo di terrore, scrive frettolosamente su
un cartoncino da visita un accorato messaggio "S.O.S.". Lo infila in
una bottiglia di Coca Cola appositamente svuotata e lo affida al
mare. Non si accorge tuttavia che, nella fretta, si è dimenticata di
mettere il tappo e mestamente la richiesta di aiuto va a far compagnia
ai famelici pesci. A stomaci ormai vuoti e dopo un corale Te Deum
di ringraziamento si prosegue la navigazione. Nessuno si era accorto
che un pesce sega di passaggio, non trovando nulla da ingoiare, si era
accanito sull'elica e in un batter di pinna se l'era portata via.
"Tutti ai remi!" ci urla il capitano ben piazzato sulla prua del nostro
vascello. Ci disponiamo su due file e, al ritmo di fin che la barca va
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lasciala andare cantata dal turista più stonato che ci potesse essere a
bordo e che non poteva pagaiare perché affetto da Morbo di Pakistan
con evidenti mani tremule e pertanto inadatto a tenere la cadenza
della vogata, stiamo arrancando verso l'ignoto. Il secondo di bordo ci
sprona a remare con un frustino a nove code e nessuno si azzarda a
protestare. Ho la netta impressione che sul mio sedere si stiano
formando delle piaghe di incubo e il mio stomaco, già affetto dal
batterio dell'elicottero, si stia intorcignando tutto. Inoltre sento un
dolorino in mezzo al petto, proprio dove c'è lo sterco. Come ritorno
in Italia devo andare dal mio dottore a farmi fare un elettrodramma.
Vuoi vedere che ho qualche malattia in incubatrice? Mi sta proprio
assalendo un paté d'animo! "Fra poco arriveremo all'atollo" ci
annuncia gongolante il capitano. Il bresciano, che di atolli non se ne
intende perché sul Lago d'Idro probabilmente non ce ne sono,
euforicamente si mette a declamare "Apelle, figlio di Atollo, fece una
palla di pelle di pollo..." prontamente zittito da tutti per non
disturbare la solennità e l'amenità del luogo. A quel punto è la solita
sposina che deve essere una professoressa di italiano, presa da un
estro sentimentale, a declamare a sua volta " Chiare fresche e dolci
acque ove le belle membra pose colei che sola a me par donna". Il
marito le tappa la bocca col tappo della bottiglia della Coca Cola che
staziona ancora sul fondo della barca e finalmente ci godiamo la
pace. L'atollo, che non è il figlio di Apelle e nemmeno fatto di pelle
di pollo, è in fazzoletto di terra che emerge dall'acqua. È
meravigliosamente cristallina (l'acqua, non la terra) e non ha niente a
che fare con il mare di Igea Marina dove vado in vacanza ogni anno.
Là, se ci metti un piede dentro, lo ritiri
a chiazze nere di petrolio, marroni per
il fango e gialle per la pipì dei bambini
che la gente dice che è come l'acqua
santa, ma per me è solo fogna e basta.
L'unica similitudine che trovo è che in
entrambedue, più che una spiaggia,
sembra di stare sulla Piazza di San
Marco a Venezia tanto sono trafficate. A Igea 250 bagnanti al metro
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quadrato (famiglie, vu cumprà, cagnolini smarriti, bagnini, sdraio,
ombrelloni, palle e varia nostrana umanità) e qua una processione
che sembra spuntare dall'acqua di Bicci Boi che ti assalgono come
nubi di zanzare e che ti fanno dire "Ma chi me l'ha fatto fare di venire
qua. Potevo benissimo stare a Malindi che almeno la spiaggia è più
lunga e larga e che se gli dici vaffanculo si allontanano, ma qui non
gliene frega un cacchio (devono essere gli unici che non capiscono
l'italiano. Ma però lo parlano. Mah! Misteri dell'Africa nera!).
Comunque niente da dire; un bel posticino davvero se non ci fosse
stata la traversata vomitatoria, un paio di dispersi in mare, i grossi
calli sulle mani sanguinolente, il culo piatto e l'assalto sconsiderato
dei Bicci Boi. Qualcuno di noi prova a difendersi con una vecchia
fiocina arrugginita trovata sotto una panca della barca.
Evidentemente la mira non deve essere il suo forte. In ordine infila
una stella marina rosso-arancio, probabilmente di plastica, posta a
pochi metri dall'Ente Del Turismo, un gabbiano a volo radente a
caccia di qualche pesciolino che
sfortunatamente si è trovato nel posto
sbagliato nel momento sbagliato, un
pesce palla che si sgonfia come capita
spesso alla camera d'aria della mia 500
e la spalla sinistra
del capitano che
tira
giù
certi
bestemmioni
in
suili da far tremare le foglie delle palme che si
intravvedono sulla riva verso Watamu. Una
signora del nostro equipaggio, che aveva fatto il
corso di infermiera sul Piccolo Chirurgo, si offre
di medicarlo con acqua salata del luogo e un
brandello di rete da pesca rinvenuto in poppa
alla nostra gloriosa barca. Qualcuno ha appoggiato sull'atollo una
griglia con l'intenzione di accendere la carbonella per la grigliata
programmata. Sopra, ben disposte come soldatini sull'attenti, un buon
numero di aragoste freschissime di freezer, tranci di barracuda e trote
43
di acqua dolce del luogo. Tuttavia il mozzo del nostro vascello si è
dimenticato di portare l'alcol snaturato per accenderla. Il capitano,
con la poca forza che gli è rimasta per il sangue perso nel disgraziato
incidente, dà ordine perentorio di versarci sopra una mezza tolla di
benzina. "Pronto! Fuoco!". Non ha previsto il meschino l'effetto della
benzina associata alla carbonella... Una fiammata così nessuno
l'aveva mai vista sorgere dal mare. Dalla spiaggia di Watamu la
capitaneria di Porto ha immediatamente avvisato il Ministero
dell'Economia di Nairobi annunciando che a poco più di un
chilometro dalla costa si doveva essere sprigionato e incendiato un
getto di petrolio. Non sono passati pochi minuti che un Canadair
della Protezione Civile del Kenya ci ha individuati e bombardati con
12 quintali d'acqua spiattellandoci al suolo. Una sogliola si è messa a
farmi la corte. Otto natanti del Genio Militare sono sbarcati
sull'atollo per le trivellazioni di routine. La nostra barca, sotto la
violenza della cascata d'acqua, se n'è andata in 1000 pezzi. Un
poliziotto di almeno cento chili, pistola e kalashnikov in pugno, ci
ordina perentoriamente di legare con il filo della rete le assi della
barca per farne una zattera. Stiamo andando alla deriva da tre giorni e
tre notti. Veniamo avvistati dalla Poppi, una barca di pesca d'altura
che ci lancia una fune e ci rimorchia fino alla spiaggia di Malindi.
Ognuno viene tassato di 160 euro per il recupero. Ci avviamo verso il
villaggio trascinandoci come larve umane. Si avvicina un Bicci Boi e
mi fa "Domani possiamo andare a Sardegna2". Il nostro arciere di
bordo lo trapassa con l'ultima fiocina che gli è rimasta. Lo
sotterriamo assieme a tre chili di alghe, due conchiglie, tre gamberi e,
sgradito testimone, un askari del Coral Chi che sta curiosando
l'accaduto.
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IN SAVANA
Il mio amico Filippo, che l’anno scorso è stato a Malindi sull’oceano
indigeno, mi ha detto che era inutile andare in Kenia per vedere le
spiagge. Tanto valeva andare a Igea Marina dove andavo ogni anno
nella Pensione Mariuccia che era sicuramente più vicina e che si
poteva andare con la 500. In Africa bisogna andare a vedere le bestie
feroci che girano libere non come al Parco delle Cornelle di Bergamo
che sono dietro le gabbie e nemmeno come all’Acquasplasc di
Riccione dove le bestie non mancano, ma sono umane. Ed è proprio
per quello che mi sono deciso a venire in Africa con la macchina per
fare le foto da far vedere agli amici del Bar Giuditta e farli crepare di
invidia. Qui avrei potuto vedere di tutto, dai trichechi alle foche sulle
rive dei fiumi, dalle tigri della Magnesia ai famosi pinguini del
Kenia. Prima di partire sono andato all’Istituto di Igiene e Profilattici
per farmi fare la vaccinazione antititanic perché non si sa mai se fossi
stato morso da uno di quegli animali lì. Non so se, per proteggere i
turisti, hanno fatto l’antiarabica a tutte quelle bestie. Curarsi è bene,
ma pervenire è meglio. In previsione di questi pericoli ho convinto la
mia Teresa a non venire perché sono viaggi per uomini duri. Anche
se lei, che è sempre spiritosa, mi ha chiesto cosa io potessi avere di
duro perché di duro era un bel po' che non trovava niente. Comunque
era meglio che lei e la sua amica Evelina andassero ancora a Igea che
li, al massimo, potevano essere assalite dalle zanzare o dai ricci di
mare, ma non era la stessa cosa venire assaliti dalle gazzelle della
savana, dai serpenti boia o dai camaleonti africani.
Stamattina hanno bussato presto alla porta della mia camera del
Villaggio di Malindi. Ore 5 sveglia, ore 5,30 colazione, ore 6
partenza con la Land Rovere. Ma io ero già sveglio alle tre per
l’emozione e perché la sera avevo bevuto mezzo litro di keniacaffè
che è nero come quello del Bar Giuditta, ma è lungo come la fame.
Per puro caso avevo anche incontrato una bellissima ragazza nera
che deve aver studiato, come mi sembra di aver capito, dalle Suore
Orsoline di Mombasa, mica come le altre che erano lì solo per darla
via. Infatti, dopo averla portata in camera mia, ho avuto la conferma
45
che era molto religiosa perché nel momento più caldo continuava a
ripetere “Dio mio, Dio mio!”. Siamo in cinque. Io, il mio amico
bresciano, l’altro siciliano e due sposini novelli probabilmente in
viaggio di nozze. Lo si capisce dalle fedi sberluccicanti che hanno al
dito. Fa un freddo africano che non ti dico a quest’ora! Comunque mi
sono equipaggiato a dovere. Casco da esploratore, mutandoni di lana
fino alle caviglie, canottiera di cotone pesante a maniche lunghe,
pantaloni a zampa di elefante tanto per essere in tema, giubbotto di
tela impermeabile con 32 tasche e scarponi che di solito uso quando
il sabato e la domenica faccio l’escursione sulle prealpi bergamasche.
Qui però le escursioni sono completamente diverse tant’è vero che i
locali aborigeni le chiamano escursioni termiche per via del fatto che
il posto è molto infestato dalle termiti. Alla guida c’è un
extracomunitario nero locale e,
come assistente-accompagnatoreguida un altro dello stesso colore
di pelle. Pensavo che fino al Parco
Schiavo ci fosse l’autostrada;
magari all’Autogrillo verso le otto
avremmo potuto fare una sosta per
un caffè espresso con un
bombolone alla crema. Invece no.
Subito dopo Malindi ci siamo
beccati uno stradone polveroso con delle buche così profonde che
pensavo le avessero scavate apposta per cercare il petrolio.
Sono già due ore che rimbalziamo sui sedili come palline da ping
pong. Il culo ormai è diventato così piatto che più piatto non si può.
Il siciliano dice “Minchia, che è? Come le montagne russe alla Festa
de Santa Rosalia di Palemmo!”. Il bresciano dice che è abituato
perché a Bagolino certe mulattiere sono più o meno così, forse un po'
meglio. Gli sposini si tengono per mano e ogni tanto lanciano
nell’aria qualche lamento, non si sa se per la paura o per gioiose
espressioni d’amore. Aspettate di essere sposati da un sacco di anni
con la mia Teresa e vedrete che espressioni vi tirerete dietro.
Comunque abbiamo passato Ganda, paesino probabilmente fondato
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da bergamaschi poichè uno con lo stesso nome c’è anche vicino a
Selvino in Val Seriana. Poi abbiamo attraversato Kecoioni, dal nome
dell’espressione dei turisti già provati e torturati dalle buche della
strada e poi Kacconeni
che evidentemente ha
preso il nome dalla
caccole che ornano i nasi
dei bambini che spuntano
da ogni buco per urlarci
caramelle,
penna,
cappello. Poco più avanti
la terra cambia colore
ogni 100 metri. A volte è
grigia al naturale e a
volte di un rosso scuro
dove il Ministero del Turismo del Kenia deve aver fatto cospargere
della pittura dello stesso colore per far venire meglio le foto ai turisti.
Dopo due ore l’assistente-accompagnatore-guida ci dice che da lì in
poi non abita più nessuno perché le bestie feroci potrebbero essere
arrivate fino lì. Comunque, ogni tanto, ci attraversa la strada qualche
ragazzino che accompagna al pascolo capre e mucche. Il bresciano,
che sta sonnecchiando perché la sera prima aveva fatto tardi in una
balera sulla spiaggia della Rosada, si sveglia di colpo alla frenata
dell’autista per non tirare sotto qualche vitello. Mi dice che per lui
quelle non sono bestie feroci perché su a Bagolino ne vede un sacco
tutti i giorni. L’assistente-accompagnatore-guida gli dice che magari
quelle possono essere vicine. Forse le bestie feroci saranno allergiche
alle capre e alle mucche perché di capre, mucche e ragazzini non ne
abbiamo visti sbranati nessuno.
Per nostra sicurezza chiedo al l’assistente-accompagnatore-guida se
per caso da quelle parti non ci fossero dei cannibali. Mi ha
immediatamente confermato che non ce n'erano più perché l'ultimo
lo avevano mangiato la settimana scorsa. Il bresciano a quel punto si
mette a ridere come un cretino. Mi dice che, se ne avessimo
incontrato qualcuno, avrebbero incominciato a mangiare me che ho
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qualche chiletto di troppo poichè lui è magro come un'acciuga.
Figurati com'è rimasto male quando l’assistente-accompagnatoreguida gli ha detto che di solito, prima di mettersi a mangiare, quelli si
prendono un bianco secco!
Dopo tre ore finalmente arriviamo. Ci aspettano i soliti
extracomunitari con in mano dei bicchieri con del liquido arancione.
Lo chiamano cocti di benvenuto. Sicuramente deve essere stato
preparato almeno un paio di
ore prima poichè, oltre a essere
a temperatura ambiente (40
gradi all’ombra), nel mio
stanno nuotando n.2 mosche,
n.1 moscerino della savana, n.8
granelli di sabbia rossa affogati
sul fondo che evidentemente
hanno dato il colore al
beverone. Sudati e assetati l’abbiamo ingurgitato di colpo. Neanche
al bar della Giuditta del mio paese ne fanno di così buoni.
L’assistente-accompagnatore-guida ordina ai facchini di prendere i
nostri bagagli e portarli, assieme a noi, nei nostri alloggi. Tenda
verde militare come quelle che usavamo in Val Pusteria quando ero
sotto la naia, branda di ordinanza con lenzuala bianche e coperta
marrone (che abbiano comperato quelli scartati dall’Esercito
Italiano?), in fondo, nascosto da un tendone, water, doccia e
lavandino tipo Case Fanfani. Il tutto chiuso da lunghe cerniere da
chiudere ermeticamente la sera per proteggerci da bufali, orsi,
canguri e bestie del genere. Neanche il tempo di lavarci il muso e si
riparte, questa volta, finalmente, per esplorare la savana, insomma
quell’Africa nera che avevamo visto tante volte, proprio in bianco e
nero, nei film di Tarzan al cinema dell’Oratorio del paese.
Ora stiamo percorrendo la pista piano piano. Oddio, non è che qui ci
sia l’Africa nera vera e propria; quella vera magari verrà più tardi
poichè per ora è decisamente tutta grigia. Terreno grigio, alberi grigi,
facce grige dalla paura del primo contatto col pericolo bestiale. Tutto
secco insomma, arido come il mio orto dietro casa in agosto quando
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nessuno gli dà da bere perché siamo a Igea Marina per le vacanze.
Possibile che qui a nessuno venga in mente di innaffiare? Basterebbe
qualche springolo di acqua qua, uno là e tutto diventerebbe più verde.
Bisogna che scriva al Ministro del Turismo del Kenia. L’assistenteaccompagnatore-guida ci raccomanda di stare in silenzio poichè da
ora in avanti avremmo potuto incontrare gli animali della savana. Il
guidante e l’assistente-accompagnatore-guida scrutano l’orizzonte.
Uno guarda di qua, l’altro di là e... all’improvviso... Una gazzella!
Una gazzella giraffa! Io mi aspettavo di vedere una specie di incrocio
fra una gazzella e una giraffa, magari tutta marrone e alta sei metri;
invece era un cosino, tipo capra della Val Seriana, che se ne stava lì
tranquilla e placida a brucare quattro foglie secche di un misero
alberello selvatico. Ognuno tira fuori tutto l’armamentario
fotografico e si butta tutto a sinistra accavallandosi uno sull’altro a
riprendere il primo animale africano. Con la mia Canon digitale
regalatami da Giuliano, mio figlio, in occasione del mio 25/o di
matrimonio con la Teresa con relativo corso, sempre dal Giuliano, di
due mesi per imparare a usarla, mi metto in posizione di scatto. Che
emozione! È a questo punto che capisco il significato di Africa nera.
Infatti nel mirino vedo tutto nero. È la sposina che con una vocina
dolce e vellutata mi dice “Permette?” e mi toglie il coperchio davanti
all’obiettivo. Ora sì che la vedo la gazzella giraffa che, nel frattempo,
deve essersi rotta le palle (Le palle? Ma sarà una femmina o un
maschio?
Sicuramente
femmina
altrimenti
l’assistenteaccompagnatore-guida mi avrebbe detto che era un gazzello) e,
scazzata dalla nostra presenza, se ne sta andando per i fatti suoi.
Comunque sono riuscito a fare 18 formidabili scatti del suo sedere in
tutte le pose. Gli altri si passavano
soddisfatti le loro macchine per
mostrare le loro riprese. Fra tutti
cinque abbiamo scattato più di 120
fotografie alla gazzella giraffa.
Finalmente gli elefanti! Precisi
spaccati a quelle del Parco delle
Cornelle di Bergamo. Sicuramente
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devono essere parenti stretti perché hanno le stesse orecchie, lo
stesso naso lungo, gli stessi dentoni bianchi e la stessa coda piccola.
Un bestione così grande con un codino così piccolo... Bah!
Comunque sono sotto una pianta e si stanno godendo l’ombra.
Chiedo all’assistente-accompagnatore-guida se li può far spostare
almeno per un attimo per fare delle foto come si deve perché,
all’ombra, non vorrei che venissero scure, ma quello non mi ha
cagato per niente, come se io, noi, non avessimo pagato una bella
cifretta per vedere gli elefanti al sole.
Comunque devo tenere presente la
cosa per un eventuale rimborso da
parte del Tur Operatore. “Attenti a
quando spalancano le orecchie; vuol
dire che si stanno incazzando e
magari vogliono caricare” ci dice
l’assistente-accompagnatore-guida.
“Ma cosa devono caricare?” rimugino fra me e me... Mica hanno
l’orologio o le batterie... Comunque tre hanno le orecchie spalancate
e gli altri quattro ammosciate. Magari quelli sono ancora carichi.
Mah! Fra di loro c’è un elefantino piccolo. Ma come avranno fatto a
farlo? Se lo fanno come il toro e la mucca del mio amico Filippo
deve essere proprio difficile. Povera elefanta se si trova sopra di
colpo un bestione di quel genere! Comunque non sono affari miei e,
con le cose del sesso, se la vedano loro. Ad un tratto l’autista ci dice
di stare zitti che stavamo per vedere Cita. Mi immagino di trovare la
Cita di Tarzan, quel scimmione che sapeva sorridere e battere le
mani su e giù dai rami della foresta. Invece non è altro che una specie
di cane macchiato di nero come i quelli della Carica dei 101 dei
cartoni animati di Walter Disni che in suili si chiama ghepardo.
Ancora oggi non ho capito perché, incontrando altri pulmini, gli
autisti si fermano ogni volta a chiacchierare per dieci minuti. Qui
fanno tutto con calma; non per niente ogni poco ci dicono Polle Polle
e acuna patata. Comunque una teoria me la sono fatta. Sicuramente
si scambiano informazioni sulla moglie, sulla zia, sulle rispettive
nonne, i numerosi nipoti e su tutte le notizie del paese. Ma di leoni
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niente di niente. Mi dicono che probabilmente hanno già mangiato e
stanno riposando chissà dove per fare la digestione. Per forza!
Mangiare carne cruda appesantisce lo stomaco come diceva sempre
la mia nonna Armida. La prossima volta dovremo venire prima del
loro pranzo
Arriviamo al fiume. Mi dicono che lì dovremmo vedere i coccodrilli
e i popotami. A parte il fatto che il fiume è di un giallo-marroncino
con variazioni caccarella, ma vedere lì dentro i coccodrilli e i
popotami che sono marrone anche loro mi sembra difficile. Invece
no; l’assistente-accompagnatore-guida batte le mani, fa un verso in
non so quale lingua e due lucertoloni arrivano sulla riva. Ci guardano
fissamente della serie “E adesso che
ci hai chiamati cosa dobbiamo fare?”
poi spalancano quelle boccacce
enormi, mostrano una dentatura più
bianca e regolare di quella della
dentiera di mia nonna Armida e si
piantano lì fermi, immobili, ma così
immobili che ad un certo punto penso
siano di plastica messi lì apposta per i
turisti del Parco Schiavo. “Chiboco!”
ci urla il nostro assistente-accompagnatore-guida. “Chi abbocca?” gli
chiede il bresciano. “Il popotamo!” ribatte quello. “Ma dove minchia
è?” azzarda il siciliano in perfetto italiano per farsi capire. “Là; le
vedete le orecchie che escono dall’acqua?”. Infatti due puntini più
scuri ci sembra proprio di vederli. E giù a scattare altre cento foto fra
tutti cinque. A casa diremo che quelle erano le orecchie del
popotamo, ma che lì sotto stava al fresco e non gli fregava niente di
vedere i turisti del Parco Schiavo. Il fatto imprevisto scatta quando la
sposina sussurra all’oreccho del maritino “Mi scappa la pipì. C’è un
bagno da queste parti?”. Il maritino “Ma non la puoi tenere? Fra
cinque ore arriviamo al campo”. “No, non ce la faccio più, mi sembra
di scoppiare”. Che siano state le otto fette di anguria che le ho visto
pappare la sera prima al ristorante tanto è tutto gratis perché è una
vacanza tutta inclusiva? L’assistente-accompagnatore-guida, che le
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orecchie le ha buone, deve aver sentito tutto. “Scendi, va dietro il
pulmino e falla lì”. “E il leone?” azzarda lei con un fil di voce
vergognandosi come un ladro colto in fragranza in Chiesa. “Usa il
gabinetto tibetano” gli fa eco l’autista. Ci spiega che in Tibet la
toaletta consta di due bastoni. Il primo, il più lungo, si pianta per
terra per appendere eventuali indumenti che ostacolano la... funzione
e il secondo da tenere in mano per allontanare i cani. Quella, tuttavia,
decide di scegliere quello italiano. Schizza dietro il pulmino mentre il
maritino dall’alto dell’apertura superiore scruta ansiosamente
l’orizzonte. Se tutti facessero pipì nella savana quella sarebbe
decisamente più verde.
Felici e beati per aver visto gli animali feroci la sera siamo tornati al
campo con le tende dei militari. L’assistente-accompagnatore-guida
ci dice che il Kenia si è modernizzato e ora anche lì i telefonini
prendono. Allora decido di fare una bella sorpresa alla mia Teresa.
Tiro fuori il cellulare da una delle 32 tasche del mio giubbotto da
esploratore (che fatica a trovarlo! Non il giubbotto, il cellulare) e,
con infinita emozione, faccio il numero della Teresa. Chissà come
sarà contenta a far sentire a tutti a Igea Marina che ha un marito
esploratore safarista che le telefona dal bel mezzo dell’Africa nera!
“Pronto! Sei tu Teresa?”. “No, sono la Regina d’Inghilterra! Ma con
chi credi di parlare pirlone che non sei altro se hai fatto il mio
numero?”. “Sono arrivato al campo!”. “Stai giocando al calcio? Alla
tua età? Sta attento a non fregarti una caviglia! Se poi prendi una
storta sono io che ti devo curare e sopportare”. “Ma cos’hai capito?
Sono in un campo!”. “Senti imbranato; in che cavolo di campo sei
andato a finire? Ma se mi hai detto che volevi andare in Africa...”.
“Infatti, sono qui in un campo vicino al fiume”. “Cosa stai
pescando?”. “Ci sono i coccodrilli e i popotami”. “Allora metti una
lenza molto grossa perché non sarà tanto facile tirarli su. Comunque
ti devo lasciare perché qui in Italia è martedì e fra poco ci sono le
lasagne che mi piacciono tanto e non voglio che me le freghino gli
altri. Ciao e buona pesca. Ah, dimenticavo; se magari peschi anche
delle trote portane a casa una che la facciamo al forno”. Clic! Come
se le avessi telefonato dalla Val Imagna!
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Per noi hanno preparato una tavolata mica male. Un bel bicchiere di
vino rosso (da pagare. Ma non era tutto inclusivo? Misteri africani!),
minestrone di fagioli, bistecca di facocero (siccome non sapevo
cos’era mi hanno fatto vedere la fotografia. Da noi lo chiamano
semplicemente maiale), dolce della casa (specie di torta Pasqualina
che da noi si fa nella festa di Sant Eustorgio, patrono del paese) e
liquorino (da pagare), ma solo un paio di gocce. Poi tutti attorno al
fuoco all'aperto. Il siciliano si è allungato sulla sedia a sdraio perché
non ce la faceva più a stare sveglio. L’emozione di aver fotografato il
sedere della gazzella giraffa, gli elefanti e le orecchie del popotamo
l’aveva stroncato. Ad un tratto esplode con un “Santa Rosalia de
Palemmo! Cu fu! Mizzeca che dolore!”. Probabilmente in quel
momento deve aver preso il mal d’Africa. Aveva inavvertitamente
allungato i piedi e la sua scarpa destra Nike, nuova di pacca per
l’occasione, aveva preso fuoco. Poi ha cacciato un urlo che sembrava
quello di Tarzan ed è corso come un bolide di formula uno verso il
fiume. Non l’abbiamo più visto rientrare. Qualche coccodrillo, di
quelli veri, deve essersi finalmente sfamato. Il bresciano è schizzato
in tenda prima che avvenissero altre disgrazie. Poco dopo lo
sentiamo agitarsi e sacramentare perché ha scoperto che due
pipistrelli hanno preso alloggio nella sua tenda e non vogliono
saperne di uscire nonostante le scarpate che sta tirando senza
beccarne nemmeno uno. I due sposini si erano già ritirati dopo il
liquorino sempre di un paio di gocce. Sono rimasto da solo a
guardare il cielo. Mica sono come le stelle di Igea Marina queste!
Sono più grosse e più vicine. L’assistente-accompagnatore-guida mi
ha detto di guardare bene perché avrei potuto vedere alche la strada
lattea. Poi solo il silenzio interrotto dai rumori e dai versi che
vengono dalla savana. Chiedo all’assistente-accompagnatore-guida
se fosse il grido del giaguaro in amore. Mi risponde che non è il
giaguaro. Sono semplicemente i due sposini che si stanno godendo...
l’Africa.
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IL RITORNO IN MATATU
Comunque, dopo due settimane, quasi quasi mi scappa da piangere di
commozione a lasciare il Coral Chi. Non ho il coraggio di salutare
nessuno per non scoppiare in un pianto dirotto. Ma che dico dirotto?
Dirnove e dirdieci! Il Carlone l’ho salutato ieri sera da lontano. Era,
dodicesimo della fila, davanti all’ufficio turistico a prenotare il
numerino per passare la serata con la signora Enrica. Ma purtroppo
arriva anche il giorno del ritorno. Faccio quattro conti e ci ragiono
sopra. Devo tornare a Mombasa per riprendere l'aereo che mi
riporterà a casa. Se ci vado in taxi mi costa 50 euri che è poi quasi
quello che ho risparmiato nel venire prendendo una rotta più lunga,
ma che costa di meno. E'
per questo che il mio
amico Filippo mi aveva
consigliato
di
fare
Milano-AmsterdamAddis Abeba-CampalaNairobi-Mombasa.
Adesso riesco a capire
perchè la chiamano
rotta... perchè il viaggio
è continuamente rotto da
soste qua e là. Se ci vado
col tuc tuc rischio di arrivare a Natale; quindi non mi resta che
prendere il matatu. Me la caverò con 8 euri che corrispondono a 800
scellini. Mi dicono che è una comoda corriera che ti porta a
Mombasa dritto dritto e in poco tempo. Siccome la partenza è per le
7,40 mi consigliano che è meglio partire stasera alle otto. Mi sa che,
se avessi una bicicletta, arriverei prima! I matatu partono vicino ad
una stazione di benzina. Quando arrivo (speravo di essere solo) lo
trovo già pieno come una scatola di acciughe. Sul tetto c'è una pila di
sacchi e masserizie d'ogni genere, gabbia per polli compresa con
starnazzanti pennuti che non ne vogliono sapere di stare zitti.
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Partiamo. La strada è di un buio assoluto tipo miniera bergamasca
con minatori neri e rimasta senza nemmeno una lampada ad
acetilene. Comunque il faro sinistro è acceso; magari scarso, ma da
lontano mi auguro si possa intravvedere. Piccola lucetta interna che
riesce a malapena a darmi un'idea della situazione. Una grossa
mamma con bambino petulante
e
scarognante in braccio, uomo con accanto
cesto di pesce puzzolento che sta russando
(l'uomo, non il pesce) come un segatore di
piante delle montagne della val Taleggio,
ragazza
aborigena
locale
con
seni
prorompenti e minigonna vaginale che
presumo vada a pascolare sui marciapiedi di
Mombasa, tizio con effluvi di strani odori
alcolici che gli escono da due labbroni a canotto e piedoni con
unghie ad artiglio che gli escono dal finestrino laterale, una trans con
un muso di capra tibetana che a quest'ora non si è ancora truccato e
una decina di varia umanità semiaddormentata e che innalza poderosi
lamenti quando il pulmino centra a tutta velocità i bump che
attraversano la strada poco meno alti del muro di Berlino. Pur
vedendo una bella madonna l'autista corre come un ossesso cercando,
ad ogni incrocio con altri automezzi, di stare sul limite della strada
perchè, avendo un solo faro, teme che lo scambino per una moto.
Arrivati nei pressi di Kilifi il motore si mette a singhiozzare facendo
concorrenza al bambino della donnona. Poi silenzio totale. Silenzio
del motore, ma non dei passeggeri che s'incazzano come bestie della
savana quando i turisti li vogliono mettere in posa a tutti i costi per
l'improvviso stop.
Con espressione funerea e magari, se non fosse nero, rosso come un
peperone il capo ci annuncia che è finita la benzina. La ragazza
assennata (nel senso di copiosi seni), in perfetto italiano, mi dice che
questo imprevisto accade quasi ad ogni viaggio. E adesso? Semplice!
Acuna patata! Quello toglie un bidone da chissà dove e, pole pole, si
perde nella notte. Ci disponiamo tutti ai lati della strada perchè
temiamo che qualcuno, nella notte nera dell'Africa nera e con
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compagni di viaggio neri, centri il matatu lasciato parcheggiato senza
luci ai lati della strada. Io sono l'unico arrabbiato nero (per tutto il
resto bianco) per il contrattempo. Gli altri la prendono con filosofica
calma e, con un coretto ben intonato, si mettono a cantare. Mi siedo
sull'erba, mi sdraio e cado in un sonno profondo. Sogno le
passeggiate sul lungo mare di Igea Marina, le lasagne della Pensione
Mariuccia e le partite a tressette al Bar Giuditta. Poi, come mi si
presenta davanti la mia Teresa, mi viene (naturalmente) un incubo.
No, non è lei; è l'autista che mi sta scuotendo per dirmi che si riparte.
Intanto i primi chiarori dell'alba si intravvedono verso il mare. Si
riparte. Si riparte sì, ma non per molto.
Uno scossone più forte degli altri precede un stop improvviso che ci
sbatte gli uni contro gli altri. La tettona si ritrova fra i seni un paio di
pesci che si stacca da dosso fulmineamente e, nel tentativo di gettarli
dal finestrino, li sbatte a sua volta in faccia al trans intento a mettersi
il rossetto e che, per la frenatona imprvvisa, si fa uno schiribizzo che
gli arriva direttamente sulla fronte e la parrucca bionda cotonata vola
dritta sulla testa dell'autista. Oh, povera capretta! Se ne sta lì esanime
e piatta come una sogliola fra le ruote anteriori e posteriori. Il
proprietario blocca il veicolo e impreca con evidenti bestemmioni in
suili. Traduzione impossibile, ma senso bel chiaro. Conclusione...
Dopo mezz'ora di animati
conversari i passeggeri sono
tassati di 200 scellini a testa
se vogliono ripartire, pena il
sequestro del veicolo da
parte della polizia che
l'energumeno
vuole
chiamare ovviamente con
uno dei nostri cellulari.
"Potremmo
prenderci
almeno la capra" sussurra la tettona. Niente da fare. La tassazione di
ogni passeggero aumenterebbe di 300 scellini a testa. Meglio così;
non vorrei che, per distribuirci le porzioni del corpo del reato, lo
squartassimo all'interno del nostro disgraziato matatu e scendessimo
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poi tutti insanguinati tipo macellaio dei Mercati Generali di
Bergamo. E poi non saprei proprio come giustificare alla dogana quel
cosciotto di capra che mi troverei a portare, ancora caldo,
sanguinolento e non incartato, come bagaglio a mano. E lasciamo
perdere quant'altro è capitato al nostro disgraziato matatu tipo
foratura di una gomma, balestra posteriore in frantumi di modo che
sobbalzavi anche superando un mozzicone di sigaretta, il faro sinistro
ha esalato l'ultimo respiro con conseguente navigazione alla cieca,
vomitatona del pargoletto direttamente nella cesta del pesce e altre
cosette di questo genere.
Finalmente si arriva alla stazione dei matato. Una Babilonia di mezzi
in totale confusione che mi costringe a trascinarmi armi e bagagli
sino alla strada adiacente. E ora come arrivo all'aeroporto? Per forza
devo prendere un tassii. Detto fatto! Arrivo sì all'aeroporto, ma,
facendo i conti di quanto mi è costata questa avventurosa trasferta,
avrei di molto risparmiato a prendere un mezzo solo per me.
Dunque... 800 scellini per il matatu, 200 per la capra, 2000 mila per
il taxi... mi rimangono... mi rimane un bel niente perchè gli ultimi
soldi che avevo nelle tasche posteriori dei pantaloni sono
disgraziatamente spariti. Adesso capisco perchè il trans, nella scossa
dell'improvviso arresto per il delitto della capra, è schizzato in avanti
e mi ha affettuosamente abbracciato! Non era certo per amore o per
le mie doti fisiche di montanaro della Val Seriana, ma solo per vil
denaro che aveva certamente già adocchiato.
In una povertà francescana, trascinando a fatica la mia valigia, entro
al di là della vetrata. Appoggio tutto sul tappeto mobile del detettore
metallico, passo quella specie di porta e tutto si mette a suonare. Mi
bloccano, ma non riescono a trovare un bel niente. Penso... che sia la
mia salute di ferro? Poi mi sono d'un tratto ricordato che anche
all'arrivo è successa la stessa cosa. Come farò a spiegare a questa
gente che l'anno scorso mi sono fratturato una gamba e che ho ancora
dentro un paletto di ferro? Per fortuna gli altri passeggeri sono quasi
tutti italiani e riescono a farsi capire. Due poliziotti, comunque, mi
chiedono i soldi per la Coca Cola. Desolatamente mi rovescio tutte le
tasche a mia disposizione e mostro solo il passaporto che avevo
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messo per precauzione nel marsupio, ma soldi, almeno quelli per la
Coca Cola un bel negot. Sono finalmente arrivato nella sala d'aspetto.
Durante tutta la via crucis dei controlli non so quante Coca Cola mi
hanno chiesto. Ma non verrà a tutti questi impiegati il diabete
mellifluo a forza di bere Coca Cola? Eccolo là il mio aereo. Spero
solo che abbiano cambiato il capitano, la ostessa, che si siano
ricordati di mettere la benzina e che, in altre 36 ore, mi riportino in
Italia. Comunque la prossima volta non darò più retta al mio amico
Filippo. Voglio fare un viaggio più veloce; ho deciso che verrò in
corriera.
Dopo due settimane son tornato in Italia lasciando tristemente il
globulo emisferico sudista. Comunque non ho beccato nessuna
malattia. Solo una storta alla caviglia che mi sono procurato quando
sono scappato dalla spiaggia assalito dai bicci boi e che mi fa ancora
male. Che sia quello il mal d’Africa che dicono che si prende da
queste parti? Il mio periodo di ferie stava per scadere. Morivo dalla
voglia di raccontare agli amici del Bar Giuditta le mie avventure
africane. Parlare loro dei Bicci Boi, della marea che tira su e giu il
mare, della barriera coranica, dei Tuc Tuc e dei Pota Pota, della luna
che è più grande della nostra, dei Bamba neri che qui li chiamano i
serpenti dei sette cazzi perché se ti beccano sono cazzi tuoi, del
Fermento... A proposito di Fermento... quando ho voluto mostrare
tutte le foto che avevo scattato mi sono accorto che nel bagaglio a
mano mancava la macchina fotografica. Anche quella devo averla
dimenticata là! Dopo il mio meraviglioso soggiorno a Malindi, posso
dire di conoscere a fondo questo continente nero
(parabonzibonzibon!) che è pieno zeppo di africani e presumo sia per
questo che l'hanno chiamato Africa.
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