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Marie NDiaye
Tre donne forti
Traduzione di
Antonella Conti
Titolo originale:
Trois femmes puissantes
© Editions Gallimard, Paris, 2009
http://narrativa.giunti.it
© 2010, 2013 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: aprile 2010
Ristampa
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Anno
2019 2018 2017 2016 2015
A Laurène, Silvère, Romaric
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E colui che la accolse o che apparve come per caso sulla soglia della
sua grande casa di cemento, in un’intensità di luce all’improvviso
così forte che sembrava fosse il suo stesso corpo vestito di chiaro a
generarla e diffonderla da sé, quell’uomo che se ne stava lì, piccolo,
appesantito, emanante un bagliore bianco come una lampada al neon, quell’uomo comparso sulla soglia della sua casa smisurata non
aveva più niente, si disse subito Norah, della fierezza, della statura,
della giovinezza di un tempo che tanto a lungo e misteriosamente
si era mantenuta costante da sembrare imperitura.
Teneva le mani incrociate sul ventre e la testa inclinata di
lato, e quella testa era grigia e quel ventre prominente e molle
sotto la camicia bianca, al di sopra della cintura dei pantaloni
color crema.
Era lì, aureolato di fredda brillantezza, caduto probabilmente
sulla soglia della sua casa arrogante dal ramo di uno degli alberi
corallo del giardino, poiché, si disse Norah, lei si era avvicinata
alla casa tenendo gli occhi fissi sulla porta d’ingresso attraverso il
cancello e non l’aveva vista aprirsi per lasciar passare suo padre – ed
ecco che, tuttavia, lui era apparso nel crepuscolo, quell’uomo rilucente e decaduto cui una micidiale bastonata sul cranio sembrava
aver compresso le proporzioni armoniose che Norah ricordava fino
a ridurle a quelle di un uomo grosso e senza collo, dalle gam­be
corte e massicce.
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Immobile la guardava avvicinarsi e niente nel suo sguardo esitante, un po’ perso, lasciava pensare che aspettasse la sua venuta né
che le avesse chiesto, l’avesse insistentemente pregata (per quan­to,­
pensava lei, un simile uomo potesse essere capace di implorare un
qualsivoglia soccorso) di fargli visita.
Era semplicemente lì, forse dopo aver lasciato con un unico
battito d’ali il grosso ramo dell’albero corallo che ombreggiava di
giallo la casa, per atterrare pesantemente sulla soglia di cemento
crettato, ed era come se soltanto il caso avesse portato in quel momento i passi di Norah verso il cancello.
E quell’uomo capace di trasformare qualunque preghiera le rivolgesse in una richiesta pressante, la guardò spingere il cancello e
penetrare nel giardino con l’aria di un padrone di casa che, leggermente importunato, si sforzi di nasconderlo, la mano a visiera sugli
occhi benché la sera avesse già inghiottito nell’ombra la soglia comunque illuminata dalla sua strana persona sfolgorante, elettrica.
«Ah, sei tu» fece lui con la sua voce sorda, debole, un po’ incerta
nel francese malgrado l’ottima padronanza della lingua, come se
l’apprensione orgogliosa che suo padre aveva sempre avuto rispetto
ad alcuni errori difficili da evitare avesse finito per fargli tremare
anche la voce.
Norah non rispose.
Lo abbracciò brevemente, senza stringerlo a sé, rammentando
quanto lui detestasse il contatto fisico dal modo quasi impercettibile con cui la carne flaccida delle braccia di suo padre si ritraeva
sotto le sue dita.
Le sembrò di avvertire un tanfo di muffa.
Odore che scaturiva dalla gialla fioritura abbondante e ormai
esaurita del grande albero corallo che spingeva i suoi rami oltre
il tetto piatto della casa, tra le cui foglie probabilmente aveva nidificato quell’uomo segreto e presuntuoso, appostato, pensava
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Norah a disagio, a cogliere ogni eventuale rumore di passi che si
avvicinassero al cancello per spiccare il volo e posarsi goffamente
sulla soglia della vasta dimora dai muri di cemento grezzo, o forse
scaturiva, quell’odore, proprio dal corpo o dai vestiti di suo padre,
dalla sua pelle di vecchio, rugosa, cinerea, Norah non lo sapeva,
non avrebbe saputo dirlo.
Tutt’al più poteva affermare che lui quel giorno portava, anzi,
probabilmente ormai portava sem­pre, rifletteva Norah, una camicia grinzosa e macchiata da aloni di sudore e che i suoi pantaloni
erano diventati verdognoli e lustri ai ginocchi dove formavano dei
brutti rigonfiamenti, o perché, volatile troppo pesante, cadeva ogni
volta che prendeva contatto col suolo, o perché anche lui, in fondo, rifletteva Norah con una pietà un po’ fiacca, era diventato un
vecchio sciatto, indifferente o cieco alla mancanza di pulizia pur
mantenendo le abitudini di un’eleganza convenzionale, vestendosi
come aveva sempre fatto di bianco e crema e senza mai presentarsi
nemmeno sulla soglia della sua casa incompiuta senza prima essersi tirato su il nodo della cravatta, quale che fosse il salone polveroso
da cui era appena uscito, quale che fosse l’albero corallo estenuato
dalle fioriture da cui aveva appena preso il volo.
Norah, arrivando dall’aeroporto, aveva dovuto prendere un taxi
e camminare poi a lungo nel caldo, avendo dimenticato l’indirizzo
preciso di suo padre e riuscendo a orientarsi solo dopo che ebbe
riconosciuto la casa, tanto che ora si sentiva sporca e appiccicosa,
sminuita.
Portava un vestito verde tiglio, senza maniche, punteggiato di
fiorellini gialli abbastanza simili a quelli caduti dall’albero corallo che ricoprivano la soglia, e dei sandali bassi dello stesso verde
tenue.
E notò, frastornata, che i piedi di suo padre calzavano degli
infradito di plastica, lui che, se non ricordava male, si era sempre
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fatto un punto d’onore di mostrarsi soltanto in impeccabili scarpe
chiuse, beige o bianco sporco.
Dipendesse dal fatto che quell’uomo trasandato aveva perso
ogni legittimità a guardarla con occhi critici o delusi o severi, o
piuttosto dal fatto che, forte dei suoi trentotto anni, Norah aveva
smesso di preoccuparsi sopra ogni altra cosa del giudizio sul proprio aspetto, in ogni caso, si disse, quindici anni prima si sarebbe
sentita imbarazzata, mortificata a presentarsi stanca e sudaticcia
davanti a suo padre il cui fisico, così come il portamento, non
avrebbero allora mai tradito il più piccolo segno di debolezza o di
sensibilità all’afa, mentre adesso tutto questo le era indifferente, al
punto da permetterle di offrire all’attenzione di suo padre, senza
distoglierlo, un viso nudo, lucido, che non si era nemmeno degnata
di incipriare nel taxi, dicendosi, sorpresa: Come ho potuto dare
importanza a queste cose, e dicendosi anche con un’allegria un po’
acida, un po’ astiosa: Pensi pure di me quel che gli pare, perché
ancora si ricordava delle osservazioni crudeli, offensive, espresse
con disinvoltura da quell’uomo sdegnoso quando lei e sua sorella
adolescenti andavano a trovarlo, osservazioni che immancabilmente facevano riferimento alla loro mancanza di eleganza o all’assenza
di rossetto sulle loro labbra.
Le sarebbe piaciuto dirgli adesso: Ti rendi conto, ci parlavi come a due donne fatte, quasi che avessimo un dovere di seduzione,
invece eravamo solo delle bambine, e figlie tue.
Le sarebbe piaciuto dirglielo con una leggerezza appena venata
di rimprovero, come se tutto ciò non fosse altro che uno dei tratti
dell’humour un po’ rude di suo padre, come per sorriderne insieme, lui con un filo di contrizione.
Ma vedendolo lì in piedi nei suoi infradito di plastica, sulla
soglia di cemento cosparsa dei fiori marcescenti che lui stesso
probabilmente faceva cadere quando, con ali pesanti e stanche, si
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staccava dall’albero corallo, Norah capì che suo padre non si stava affatto preoccupando di esaminarla e di formulare un giudizio
sul suo aspetto, così come non avrebbe mai sentito né compreso
neppure la più incalzante allusione ai suoi crudeli apprezzamenti
di un tempo.
Aveva gli occhi scavati, lo sguardo lontano, un po’ fisso.
Norah a quel punto si domandò se davvero lui ricordasse di
averle scritto per chiederle di andare a trovarlo.
«Entriamo?» disse lei mettendosi la borsa da viaggio sull’altra
spalla.
«Masseck!»
Suo padre chiamò battendo le mani.
Il chiarore glaciale, quasi azzurrognolo dispensato dal suo corpo informe parve crescere d’intensità.
Un vecchio in bermuda e polo strappata, a piedi nudi, uscì dalla
casa a passo svelto.
«Prendi la borsa» ordinò il padre di Norah.
Poi, rivolgendosi a lei:
«È Masseck, lo riconosci?».
«Posso portarla da sola» rispose, pentendosi subito di quelle
parole che sarebbero senz’altro dispiaciute al servitore abituato,
malgrado l’età, a sollevare e trasportare i carichi più pesanti, e porgendogliela subito dopo con un impeto tale che lo colse di sorpresa
e lo fece vacillare, ma lui subito si riprese e, gettatosi la borsa sulla
schiena, curvo, rientrò in casa. L’ ultima volta che sono venuta, disse
lei, c’era Mansour. Masseck, non lo conosco.
«Quale Mansour?» fece suo padre con un’aria di colpo smarrita,
quasi costernata, che non gli aveva mai visto prima.
«Non saprei dire il suo cognome, ma questo Mansour è vissuto
qui anni e anni» disse Norah che si sentiva sempre più in preda a
un disagio viscoso, soffocante.
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«Allora sarà stato il padre di Masseck.»
«Ma no,» mormorò lei «Masseck è troppo in là con gli anni per
essere il figlio di Mansour.»
E siccome suo padre aveva un’aria via via più disorientata, anzi
sembrava sul punto di domandarsi se per caso lei non lo stesse
menando per il naso, Norah si affrettò ad aggiungere:
«Ma comunque non ha importanza».
«Non ho mai avuto nessun Mansour al mio servizio, ti sbagli»
disse lui con un sorrisino arrogante, condiscendente, che, prima
manifestazione della vecchia personalità di suo padre, riscaldò il
cuore di Norah pur risultandole fastidioso come un tempo, quel
piccolo ghigno sprezzante, come se la cosa più importante fosse
non tanto che quell’uomo vanitoso avesse o meno ragione, quanto
che continuasse a intestardirsi per avere l’ultima parola.
In effetti lei era sicura che c’era stato un certo Mansour, scrupoloso, paziente, capace, a occuparsi di suo padre per diversi anni, e se
anche lei e sua sorella, in fin dei conti, non erano venute in quella
casa più di tre o quattro volte dai tempi dell’infanzia, era Mansour
che ci avevano trovato e mai questo Masseck dal viso sconosciuto.
Appena entrata, Norah sentì fino a che punto la casa fosse vuota.
Si era fatto buio, ormai.
Il grande salone era oscuro, silenzioso.
Suo padre accese una piantana, e una luce povera come può
esserlo quella diffusa da una lampadina da quaranta watt rese visibile il centro della stanza col suo lungo tavolo dal piano di vetro.
Sui muri dall’intonaco ruvido Norah riconobbe le foto incorniciate del villaggio turistico che suo padre aveva posseduto e diretto
e che aveva fatto la sua fortuna.
Un gran numero di persone erano sempre vissute in casa di
quell’uomo orgoglioso del suo successo nella vita, non tanto generoso, aveva sempre pensato Norah, quanto fiero di far vedere a tutti
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che era capace di accogliere e mantenere fratelli e sorelle, nipotini
e nipotine, parenti vari, al punto che Norah non aveva mai trovato
il grande salone vuoto, quale che fosse il momento della giornata
in cui ci era capitata.
C’erano sempre dei bambini sprofondati sui divani, a pancia
all’aria come gatti satolli, degli uomini che bevevano il tè guardando la televisione, delle donne che andavano e venivano dalla
cucina o dalle camere.
Quella sera, deserta, la stanza svelava brutalmente la durezza
dei suoi materiali, mattonelle lucide sul pavimento, muri di cemento, una serie di strette finestre.
«Tua moglie non c’è?» domandò Norah.
Lui spostò due sedie dal grande tavolo, le mise vicine, poi cambiò idea, le ricollocò al loro posto.
Accese la televisione e la spense prima ancora che una qualsiasi
immagine avesse avuto il tempo di apparire.
Si muoveva strascicando gli infradito, senza sollevare i piedi.
Le labbra gli tremavano leggermente.
«È in viaggio» buttò lì alla fine.
Mah, si disse Norah preoccupata, probabilmente non ha il coraggio di confessare che lei l’ha lasciato.
«E Sony? Dov’è Sony?»
«Lo stesso» rispose lui in un soffio.
«Sony è in viaggio?»
E il fatto che suo padre, quell’uomo dalle tante donne e dai
tanti figli, quell’uomo non particolarmente bello ma brillante, scaltro, impietoso e sbrigativo, il quale, di povere origini, una volta
consolidata la sua fortuna era sempre vissuto circondato da tutta
una piccola comunità grata e sottomessa, che quell’uomo viziato
si ritrovasse solo e forse abbandonato risvegliava in Norah, suo
malgrado, un vecchio rancore indefinito.
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Le sembrava che suo padre stesse finalmente ricevendo la lezione che la vita avrebbe dovuto fargli entrare nel cuore già da un
pezzo.
Ma quale tipo di lezione?
Si sentiva, a pensare queste cose, meschi­na e vile.
Dopotutto, se suo padre aveva ospitato delle persone opportuniste, se suo padre non aveva mai avuto veri amici, né donne sincere (a parte, pensava Norah, sua madre) e nemmeno figli affettuosi e
se, invecchiato, indebolito, probabilmente meno facoltoso, vagava
solitario nella sua lugubre casa, per quale ragione pensare che tutto
questo rientrasse nelle leggi di una morale rispettabile, assoluta,
e fosse per Norah una situazione di cui rallegrarsi, dall’alto della
sua virtù di figlia gelosa finalmente vendicata di non aver mai fatto
parte della cerchia di parenti vicini a suo padre?
E adesso che si sentiva meschina e vile, si vergognava anche
della sua pelle accaldata, umida, del suo vestito sgualcito.
Come per rimediare ai cattivi pensieri, come per assicurarsi che
suo padre non sarebbe rimasto solo a lungo, chiese:
«Sony tornerà a casa presto?».
«Te lo dirà lui stesso» mormorò suo padre.
«Come fa a dirmelo, se non c’è?»
«Masseck!» gridò lui battendo le mani.
Piccoli fiori gialli di albero corallo gli volteggiarono via dalle
spalle o dalla nuca fin sul pavimento e lui, con la punta di uno dei
suoi infradito, con un movimento lesto, li schiacciò.
Norah ebbe allora l’impressione che stesse calpestan­do il suo
vestito punteg­­giato di fiori simili a quelli.
Masseck arrivò spingendo un carrello carico di piatti e posate
e cominciò a disporre il tutto sul tavolo di vetro.
«Siediti,» disse il padre «ora si mangia.»
«Vado prima a lavarmi le mani.»
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Ritrovava nel proprio tono di voce quella loquacità assertiva di
cui non si serviva mai con nessuno al di fuori di suo padre e il cui
intento era quello di prevenire ogni eventuale tentativo da parte
di quest’ultimo di far eseguire da Masseck, un tempo da Mansour,
l’azione che lei stava per compiere, sapendo che lui detestava che
gli ospiti di casa sua provvedessero da soli anche al minimo bisogno e dessero così l’impressione di dubitare della competenza dei
suoi servitori, tanto che sarebbe stato capace di dirle: Masseck si
laverà le mani per te, senza pensare neanche lontanamente che lei
non avrebbe obbedito come gli avevano sempre obbedito giovani
e vecchi intorno a lui.
Ma suo padre l’aveva udita a malapena.
Si era seduto, seguiva con occhio assente i gesti di Masseck.
Norah osservò che la sua pelle era diventata nerastra, meno
scura di prima, spenta.
Lo vide sbadigliare come un cane, in silenzio, con la bocca
spalancata.
Ebbe allora la certezza che l’odore lievemente fetido avvertito
sulla soglia proveniva sia dall’albero corallo che dal corpo di suo
padre, poiché l’uomo nella sua interezza era intriso della lenta putrefazione dei fiori giallo arancio – quest’uomo, pensò fra sé, che
tanto si era preso cura della purezza del suo aspetto esteriore, che si
era profumato solo con le essenze più raffinate, quest’uomo altero
e inquieto che non aveva mai voluto emanare il suo vero odore!
Poveretto, chi mai avrebbe immaginato che sarebbe diventato
un vecchio, grosso uccello dal volo maldestro e dagli odori forti?
Norah si avviò verso la cucina, seguì un lungo corridoio di
cemento illuminato a malapena da una lampadina completamente
oscurata da escrementi di mosche.
La cucina era la stanza più piccola e più scomoda di quella
casa smisurata e, adesso le tornava in mente, Norah aveva inserito
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anche questo nell’interminabile lista dei motivi di risentimento
nei confronti di suo padre, pur sapendo che mai glieli avrebbe
notificati, né quelli gravi né quelli di poco conto, pur sapendo che
nella realtà del faccia a faccia con quell’uomo impenetrabile non
avrebbe mai potuto fare appello all’infallibile audacia con cui da
lontano lo subissava di rimproveri, e per questo scontenta, delusa
di se stessa, e ancora più risentita contro di lui perché chinava la
testa, non osava dirgli niente.
Suo padre se ne infischiava di far lavorare i suoi servitori in
un luogo squallido e faticoso, dato che né lui né i suoi invitati vi
mettevano mai piede.
Ma una riflessione di questo genere gli sarebbe rimasta incomprensibile e, si diceva Norah con un rancore esasperato, l’avrebbe
attribuita al sentimentalismo tipico del suo sesso e del mondo nel
quale lei viveva, la cui cultura era ben lontana dalla propria.
Non siamo dello stesso paese, le società sono diverse, avrebbe detto suppergiù, sentenzioso, condiscendente, poi avrebbe con
ogni probabilità convocato Masseck per domandargli davanti a
lei se la cucina gli andava bene così com’era, cosa a cui l’uomo
avrebbe risposto affermativamente e a quel punto, senza nemmeno
rivolgere a Norah uno sguardo di trionfo, perché questo avrebbe
dato importanza a un argomento che non ne meritava, suo padre
avrebbe semplicemente considerato chiuso l’argomento.
Non ha senso né interesse avere per padre un uomo col quale
non ci si può letteralmente intendere e il cui attaccamento è sempre
stato molto dubbio, pensava Norah una volta di più, tranquillamente però, ormai senza fremere per questo sentimento di impotenza,
rabbia e scoramento che un tempo la distruggeva ogni volta che
le circostanze le facevano sbattere il naso contro le irrimediabili
differenze di educazione, di punti di vista, di percezione del mondo
fra quell’uomo dalle passioni fredde, che aveva passato solo qualche
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anno in Francia, e lei che invece ci viveva da sempre e il cui cuore
era ardente e vulnerabile.
Eppure si trovava lì, nella casa di suo padre, eppure era venuta
quando lui l’aveva chiamata.
E se ne fosse stata meno fornita, di quell’emotività che lui disprezzava senza ritegno, disprezzando con essa anche la propria
figlia e tutto l’Occidente rammollito ed effeminato, Norah avrebbe
potuto trovare un pretesto qualsiasi per evitarsi un viaggio come
quello – ... e sarebbe per me un onore e un piacere insigne se tu volessi, qualora le tue forze te lo permettessero, separarti per un periodo
più o meno lungo dalla tua famiglia per venire da me, tuo padre,
poiché ho da parlarti di cose importanti e gravi...
Ah, come già rimpiangeva di aver ceduto, come desiderava ritornarsene a casa sua, a fare la sua vita.
Una snella ragazza vestita di una canottiera e di un pareo logoro
lavava pentole nel piccolo acquaio della cucina.
Il tavolo era ricoperto dalle pietanze che, intuì Norah, aspettavano di essere servite a lei e a suo padre.
Sbalordita, intravide del pollo arrosto, e poi cuscus, riso allo
zafferano, carne scura in salsa di arachidi, e ancora altre pietanze
che riusciva a indovinare sotto i coperchi trasparenti e appannati,
una sovrabbondanza che le tagliò le gambe e che già cominciava
a pesarle sullo stomaco.
Si infilò tra il tavolo e il lavello e attese che la ragazza finisse,
con grande fatica, di sciacquare una pentola multiuso.
Il lavello era così stretto che le pareti del recipiente continuavano a urtare i bordi o il rubinetto, e siccome non era provvisto di
sgocciolatoio la ragazza era costretta ad accovacciarsi per posare
su uno strofinaccio steso in terra le stoviglie appena sciacquate.
Ancora una volta, la riprova della scarsa preoccupazione che
suo padre aveva per il confort dei domestici esasperò Norah.
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Si lavò velocemente le mani rivolgendo nel frattempo alla ragazza dei sorrisi e dei piccoli cenni col capo.
E quando le ebbe chiesto il suo nome, e la ragazza, dopo una
pausa di silenzio (quasi a voler incastonare la sua risposta, pensò
Norah, in una montatura di importanza), ebbe dichiarato: Khady
Demba, la serena fierezza della sua voce ferma, del suo sguardo
diretto stupì Norah, la tranquillizzò, scacciò in parte l’irritazione
che aveva nel cuore, la stanchezza inquieta e il risentimento.
La voce di suo padre risuonava dal fondo del corridoio.
La chiamava con impazienza.
Lei si affrettò a raggiungerlo e lo trovò infastidito, smanioso
di attaccare il taboulé con frutta e gamberetti che Masseck aveva
servito nei due piatti apparecchiati ai lati opposti del tavolo.
Fece appena in tempo a sedersi che lui si mise a mangiare voracemente, il viso basso quasi a toccare il cibo, e quell’ingordigia
completamente priva di parole e di ipocrisia si accordava così male
con le antiche maniere di quell’uomo spesso e volentieri affettato,
che Norah stava quasi per chiedergli da quanto tempo non mangiasse, pensando che sarebbe stato anche capace, ammesso che si
trovasse davvero in ristrettezze economiche, di aver concentrato
in quella cena, per stupirla, le provviste dei tre giorni precedenti.
Masseck portava un piatto dopo l’altro a un ritmo che Norah
non fu capace di seguire.
Fu sollevata nel vedere che suo padre non faceva per niente
caso a ciò che lei mangiava.
Alzava la testa soltanto per sbirciare con occhi al tempo stesso
sospettosi e avidi ciò che Masseck aveva appena posato in tavola,
e l’unica volta che guardò di nascosto verso il piatto di Norah, lo
fece con un’espressione di preoccupazione così infantile da farle
comprendere che si stava semplicemente assicurando che Masseck
non l’avesse servita con porzioni più generose delle sue.
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Ne fu sconvolta.
Suo padre, quell’uomo loquace con una certa propensione alla
verbosità, rimaneva in silenzio.
Gli unici rumori della casa erano quelli delle stoviglie, lo strascichio dei piedi di Masseck sul pavimento, forse anche il fruscio
provocato dai rami più alti dell’albero corallo sul tetto di lamiera
– quell’albero solitario stava forse chiamando suo padre, si chiese
Norah vagamente, lo stava forse chiamando per la notte?
Lui continuava a mangiare, passando dall’agnello alla griglia
al pollo in umido, respirando appena fra un boccone e l’altro, ingozzandosi senza piacere.
Per concludere, Masseck gli presentò un mango tagliato a
pezzetti.
Lui se ne ficcò uno in bocca, poi un altro, e Norah lo vide masticare con difficoltà e tentare di inghiottirlo, ma invano.
Sputò allora la poltiglia di mango nel piatto.
Le sue guance erano rigate di lacrime.
Un calore intenso salì alle guance di Norah.
Si alzò, udendo la propria voce che balbettava qualcosa di imprecisato, si mise dietro di lui ma a quel punto non seppe cosa fare
delle proprie mani, lei che non si era mai trovata nella situazione
di confortare suo padre né di manifestargli niente di più che attenzioni formali, obbligate, macchiate di rancore.
Cercò Masseck con lo sguardo ma lui aveva già lasciato la stanza
insieme agli ultimi piatti.
Suo padre piangeva ancora, silenziosamente, il viso privo di
espressione.
Si sedette allora vicino a lui, avvicinandosi il più possibile con
la fronte al suo viso bagnato, solcato di rughe.
Poteva sentire, dietro l’odore del cibo, delle salse speziate, quello
dolciastro dei fiori putrefatti del grande albero, poteva vedere il
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collo sporco della camicia, dato che suo padre teneva la testa un
po’ piegata.
Le tornò allora in mente una notizia datale da suo fratello Sony
due o tre anni prima, che invece lui, suo padre, non aveva ritenuto
opportuno divulgare a lei e sua sorella, motivo per cui Norah gliene
volle prima di dimenticare sia l’informazione sia l’amarezza provocata da quel silenzio, ed entrambe le cose di nuovo la trafissero
simultaneamente inasprendole un po’ la voce che avrebbe invece
voluto essere consolatoria.
«Dimmi... dove sono i tuoi figli?»
Si ricordava che erano due gemelli ma di quale sesso, non avrebbe saputo dirlo.
Lui la guardò con aria smarrita.
«I miei figli?»
«Gli ultimi che hai avuto» disse lei. «Almeno credo. Tua moglie
li ha portati con sé?»
«Le bambine? Ah, sì, loro sono qui» mormorò lui voltandosi
dall’altra parte, come se, deluso, avesse sperato che sua figlia gli
stesse parlando di qualcosa che lui non sapeva o di cui non aveva
afferrato tutte le implicazioni e che, in qualche maniera strana e
sovrannaturale, lo avrebbe salvato.
Norah non seppe trattenere un piccolo brivido di trionfo malevolo, vendicativo.
Sony era dunque l’unico maschio di quell’uomo che non amava
e non stimava le sue figlie.
Oppresso, invaso da inutili e mortificanti femmine per giunta
nemmeno carine, si diceva tranquillamente Norah pensando a se
stessa e a sua sorella che avevano sempre avuto, secondo il loro
padre, il difetto redibitorio di essere troppo caratterizzate, cioè di
assomigliare più a lui che alla loro madre, spiacevoli prove viventi
dell’inconcludenza del suo matrimonio con una francese – perché
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cos’altro avrebbe potuto portargli di buono quella storia se non una
prole quasi bianca e dei maschi di buona fattura?
Ebbene, era andata male.
Gli posò dolcemente una mano sulla spalla.
Benché turbata, per un verso, si sentiva piena di ironica
compassione.
«Mi piacerebbe conoscerle» disse, affrettandosi però a precisare,
per evitare di sentirsi chiedere di chi stesse parlando: Le tue due
figlie, le bambine.
La spalla grassa di suo padre si liberò dalla mano di Norah,
movimento involontario per farle capire che nessuna circostanza
poteva autorizzare tale familiarità.
Si alzò con fatica, si asciugò il viso alla manica della camicia.
Spinse un’orribile porta a vetri che si trovava in fondo alla
stanza, accese l’unica lampadina che rischiarava un nuovo corridoio stretto e lungo, tutto di cemento grigio, sul quale, Norah
se lo ricordava, si affacciavano simili a celle conventuali tante
camerette quadrate abitate un tempo dalla numerosa parentela
di suo padre.
Adesso era sicura, dal modo in cui i loro passi, il respiro rumoroso e irregolare di suo padre risuonavano nel silenzio, che quelle
stanze erano vuote.
Le sembrava di camminare già da alcuni lunghi minuti quando
il corridoio prese un’altra direzione poi deviò di nuovo, diventando
quasi buio e così soffocante che Norah fu lì lì per fare dietrofront.
Suo padre si fermò davanti a una porta chiusa.
Afferrò la maniglia e rimase immobile un istante, l’orecchio
appoggiato al battente, e Norah non capì se stesse cercando di
sentire qualche rumore dall’interno o se stesse raccogliendo tutte
le sue forze mentali prima di decidersi ad aprire, di certo però il
comportamento di quell’uomo che era insieme irriconoscibile e
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perennemente ingannevole (ah, l’incorreggibile convinzione, durante i lunghi anni in cui erano stati senza vedersi, che il tempo
lo avrebbe reso migliore e più vicino a lei!) le risultava ancor più
spiacevole e preoccupante che in passato, all’epoca in cui non si
poteva mai essere sicuri che, nella sua impudenza sfrenata, nella
sua allegria arrogante e priva di humour, non stesse per proferire
una delle sue considerazioni di memorabile crudeltà.
Con un movimento brusco, come per sorprendere e compromettere, aprì la porta.
Si fece immediatamente da parte, spaventato e a malincuore,
per lasciar passare Norah.
La piccola stanza era rischiarata da un abat-jour rosa posto su
un comodino fra due letti, uno dei quali, il più stretto, era occupato dalla ragazza che Norah aveva visto in cucina il cui nome era
Khady Demba e che aveva, osservò Norah, il lobo dell’orecchio
destro tagliato in due.
Seduta a gambe incrociate sul materasso, era intenta a cucire
un vestitino verde.
Rivolse a Norah un’occhiata, poi un rapido sorriso.
Due bambine dormivano nell’altro letto, girate l’una di fronte
all’altra, sotto un lenzuolo bianco.
Con una leggera stretta al cuore, Norah pensò che quei due visi
infantili erano i più belli che avesse mai visto.
Forse svegliate dall’afa che dal corridoio penetrava nella cameretta climatizzata, o forse da un’impercettibile alterazione della quiete circostante, le bambine aprirono gli occhi nello stesso
momento.
Li posarono sul loro padre, gravi, spietati, senza ombra di calore, senza piacere nel vederlo, senza nemmeno timore, mentre lui,
osservò Norah stupefatta, sembrava liquefarsi sotto quello sguardo,
con la testa dai capelli rasati e la faccia e il collo nella camicia aperta
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all’improvviso grondanti di un sudore dall’esalazione acre e forte
di fiori calpestati.
E quell’uomo che era stato capace di diffondere intorno a sé
un’atmosfera di segreta paura, e che mai si era lasciato intimidire
da nessuno, sembrava terrorizzato.
Che cosa poteva temere da parte di due bambine così piccole,
si chiese Norah, e così straordinariamente belle, figlie miracolose della sua vecchiaia, tali da far senz’altro dimenticare il loro
sesso inferiore e la scarsa bellezza delle due prime figlie, Norah
e sua sorella – come potevano spaventarlo due bambine così
incantevoli?
Norah si avvicinò al letto, si inginocchiò, sorridente, all’altezza dei due visini identici, tondi, scuri, delicati come teste di foca
posate sulla sabbia.
In quell’istante le prime battute di Mrs. Robinson risuonarono
nella stanza.
Tutti sussultarono, anche Norah che pure aveva riconosciuto
la suoneria del proprio cellulare e affondava la mano nella tasca
del vestito, pronta a spegnerlo prima di accorgersi che la chiamata
veniva da casa, e portandolo poi imbarazzata all’orecchio nel silenzio della camera che sembrava aver cambiato natura e, da calmo,
pesante, letargico, era diventato attento, vagamente ostile.
Come in attesa di parole definitive e chiare che potessero far
loro decidere se tenermi fuori o accettarmi.
«Mamma, sono io!» gridò la voce di Lucie.
«Ciao, tesoro. Puoi anche parlare più piano, ti sento bene» disse
con la fronte che bruciava dalla confusione. «Che succede?»
«Niente! Stiamo facendo le crêpes con Grete. Poi andiamo al
cinema. Ce la spassiamo.»
«Magnifico» sussurrò lei. «Ti mando un bacio, ti richiamo
presto.»
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