Yves Klein: L`atto di creazione del Vuoto
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Yves Klein: L`atto di creazione del Vuoto
Yves Klein (Nizza, 28 aprile 1928 – Parigi, 6 giugno 1962) I. Il Problema della Rappresentazione: l'Immagine e il Colore Yves Klein: L'atto di creazione del Vuoto «Mi meravigliava d'altra parte, perché sempre più, davanti a qualsiasi quadro,figurativo o no, provavo la sensazione che le linee e tutte le loro conseguenze, contorni, forme, prospettiva, composizione, costituissero per l'appunto le sbarre di una finestra di prigione. In lontananza, nel colore, la vita, la libertà e io davanti al quadro, mi sentivo in prigione. Ed è, penso, a causa di questa stessa sensazione di imprigionamento che Van Gogh ha esclamato: “Vorrei essere liberato da non so quale orribile gabbia!”. E più tardi: “Il pittore del futuro sarà un colorista come non se ne sono mai ancora visti”. Ciò accadrà una generazione più tardi. Ho fatto dunque a poco a poco la conoscenza dell'immateriale attraverso il colore». Così si esprime Yves Klein durante la conferenza da lui tenuta a Parigi, alla Sorbona, il 3 giugno 1959, con una manciata di parole che rappresentano il manifesto dell'inizio folgorante della propria rivoluzione artistica. Nel giugno del cinquantanove Klein è già un artista affermato e completo e, invitato da Iris Clert a tenere un discorso alla Sorbona, egli si impegna a ripercorrere le tappe fondamentali della propria crescita artistica, la genesi della sua arte e i suoi intenti passati, presenti e futuri. Nelle parole precedentemente citate l'artista francese parla delle motivazioni profonde che l'hanno spinto verso una nuova idea di arte, che hanno mosso il suo animo verso la ricerca di un cambiamento: Yves è ribelle, come lo era lo stesso Vincent Van Gogh, e non può far altro che sentirsi imprigionato, in un'arte e una società carcerarie. Un'arte che insiste su forme, linee, demarcazioni, territorialità fisse e inscalfibili. Seguendo una prolifica generazione di artisti egli afferma l'effettiva predominanza del colore. Il problema del colore e della sua prevalenza è certamente una questione di capitale importanza, che segna profondamente la storia dell'arte: non è, o almeno sembra, possibile creare senza usare il colore. Esso è abitante dello spazio e strumento necessario del pittore, che si trova costretto a conviverci, in un rapporto di amore e odio. Il colore è tiranno: rappresenta per il pittore l'unica possibilità per rappresentare e allo stesso tempo si interpone come un ostacolo tra l'artista e la propria idea. Prendendo per vera e assodata l'estetica di Benedetto Croce, nel XXI secolo non si può non ammettere il reale rapporto necessario tra forma e contenuto: l'arte è intuizione-espressione, due facce della stessa medaglia che coesistono e non possono sussistere da sole. “L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.”. Risulta dunque evidente come il Colore di un'opera esista già nell'idea, nell'intuizione, dell'opera, in quanto parte fondamentale della rappresentazione. La dicotomia tra forma e contenuto è un'illusione, il colore e la sua stesura sono già di per sé un contenuto: se la forma è una infinita indefinizione di blu, il contenuto sarà effettivamente l'infinito indefinito, arte senza più linee. Ma partiamo da più distante, perché attendere fino agli anni cinquanta del Novecento per un concetto tanto semplice? Vale la pena soffermarsi ad osservare la tappe fondamentali che hanno portato alla nascita della rivoluzione kleiniana: la nascita del nuovo concetto di colore. Durante uno dei suoi viaggi in Italia Yves si trova a visitare ad Assisi la basilica di San Francesco e rimane estasiato dal blu degli affreschi di Giotto (Klein stesso ammette di non conoscere se effettivamente essi siano opera di Giotto stesso o di qualcuno dei suoi allievi, anche se lo stile è inconfondibile). Così blu, così monocromi, così eterni, egli osserva in essi una intenzione autenticamente monocroma, seppur probabilmente inconsapevole. Per arrivare invece a una delle principali fonti di ispirazione di Klein dobbiamo compiere un salto di circa cinquecento anni, giungendo ad Eugene Delacroix, definito dal pittore nizzardo “il campione del colore”. Klein pone Delacroix come iniziatore della pittura lirica contemporanea e la lettura del diario del pittore romantico segnerà tutta la sua carriera, influenzando ad esempio la nascita dell'arte-azione immateriale, idea artistica che si fonda sulla volontà di poter lasciare un segno di momenti di vita vissuta come espressione della vita artistica dell'artista, che è innanzitutto performance. Facendo un passo indietro, prima di giungere all'arte contemporanea, è fondamentale ricordare l'importanza di un pittore visionario, che pose il colore a fondamento della propria espressione, ovvero El Greco. Egli di fatto fu precursore della rivoluzione concettuale impressionista, con l'affermazione della supremazia del colore rispetto all'immagine. Parlando di ventesimo secolo sono due i principali autori, citati anche da Klein a più riprese, ad aver affrontato il problema del rapporto tra forma e organizzazione del colore. Se Piet Mondrian si è maggiormente concentrato nella schematizzazione del colore e dello spazio, ordinato secondo linee ordinate, seppur dopo aver attraversato una prima fase pittorica da colorista puro e ribelle, il vero innovativo precursore di Yves Klein è Kazimir Severinovič Malevič. Il pittore russo ha condotto l'arte contemporanea all'esasperazione della forma, incarnando magistralmente la crisi del post-moderno, creando figure costituite soltanto da puro colore perse nello spazio della tela. Non ancora un colore che si appropria di tutto ma in ogni caso l'affermazione coraggiosa del colore sull'immagine. L'arte di Malevič è ben distante, seppur non graficamente, al concetto kleiniano di dematerializzazione dell'arte, il problema sono gli oggetti che rimangono persistenti sulla tela. La rivoluzione non era ancora stata elaborata, nonostante colore e non colore dominassero la tela: il problema fondamentale è che nelle composizioni suprematiste il colore è oggetto della rappresentazione e non protagonista totale che si fonde col suo autore in modo idealistico e completo. Nonostante le apparenze Malevič e Klein sono due artisti concettualmente distanti, anche se risultano comunque estremamente centrate ed efficaci le parole della gallerista Iris Clert: “Se Kazimir Malevič si è spinto fino all'esasperazione della forma, Yves Klein, lui, si è spinto fino all'esasperazione del colore e persino più in là ancora, sino all'immaterializzazione del quadro”. Pittore che, con la sua opera, si avvicina molto al problema in cui era incappato l'artista russo, è il surrealista Joan Mirò. Analizzando nel particolare i suoi dipinti Bleu I, Bleu II e Bleu III (di cui è importante notare la caratteristica blu del titolo e degli sfondi dei quadri) emerge chiaro e definito nuovamente il problema dell'oggetto della rappresentazione, dell'impossibilità di rappresentare un'immagine senza un'immagine tangibile di qualche tipo. In Bleu III (1961) la libertà dell'allucinazione inventa un sistema di segni: l'oggetto, il segno, è ridotto al minimo possibile, una linea e due punti posti contro la potenza immanente di un blu indefinito. Nonostante questa opera sia posteriore ai monocromi di Klein, Mirò rimane e torna all'astrattismo, come lo stesso Malevič precedentemente trattato, portando la sua arte su un piano antico e classico di rappresentazione materiale. La materia ha ancora potere e i segni sono gli ambasciatori dei significati. È emblematica l'espressione di Mirò “l'inizio è immediato, è la materia a decidere” ed è incredibile quanto l'artista spagnolo sia giunto così vicino all'artista di Nizza ma rimanga così distante concettualmente. Paradossalmente, le loro rimangono due arti inconciliabili. Lasciando a Klein l'ultima parola su questa diatriba, egli è inequivocabile: «Sono il pittore dello spazio. Non sono un astrattista, ma un realista. Per dipingere lo spazio ho il dovere di recarmi sul posto, nello spazio stesso», il contrario dell'allucinazione di Mirò, dunque. Giungiamo quindi all'ultimo pittore di questa rassegna, una mente geniale che si divincola da ogni contestualizzazione cronologica, ovvero il già precedentemente citato Vincent Willem van Gogh. Per il pittore olandese non aveva importanza la materia, la causa fondamentale di tutto doveva essere il delirio, la ribellione, l'idea e la turbolenza. Il colore prende potere e i segni, i simboli, contano poco. È inevitabile poi, parlando di van Gogh, citare Antonin Artaud, personalità straordinaria che trasformerà il Novecento culturale, grande estimatore dell'artista. Sono tratte proprio dal saggio di Artaud a lui dedicato, “Van Gogh, il suicidato dalla società”, queste riflessioni ricche di significato: “La pittura lineare pura mi rendeva pazzo da molto tempo quando ho incontrato van Gogh che dipingeva, non linee o forme, ma cose della natura inerte come in piene convulsioni” - “Non c'è carestia, o epidemia, o esplosione vulcanica, o terremoto, o guerra, che rovesci le monadi dell'aria, che torca il collo alla figura torva di fama fatum, il destino nevrotico delle cose, quanto un dipinto di van Gogh”. Si ritrova nell'artista olandese una fusione tra artista, vita e quadro che difficilmente è riscontrabile nella storia dell'arte. Una cosa è fondamentale: l'arte non è comunicazione, linguaggio. Lo dicono chiaramente Artaud, Croce (nella frase prima citata) e lo stesso Klein. L'arte è ribellione, atto di resistenza alla mortalità, gesto di sfida, rappresentazione della natura esterna e interna al soggetto dipingente, che si fonde con l'oggetto dipinto. “È un fatto spirituale”. Nei modi e nel genio è impossibile non riscontrare molte analogie tra van Gogh e Klein. Ed è proprio all'artista francese che siamo finalmente arrivati. Le caratteristiche della sua arte, di cui abbiamo già ampiamente parlato, sono appunto la liberazione dalla prigionia e il raggiungimento dell'assoluto immateriale. Yves racconta «quando ero ragazzo feci un sogno ad occhi aperti in cui firmavo il confine della volta celeste. Quel giorno iniziai ad odiare gli uccelli che volavano nel cielo perché cercavano di bucare la mia opera più importante e più bella. L'evento segnò l'inizio della mia carriera come pittore». È immediatamente chiaro il dialogo a distanza che si trova qui a tessersi tra Klein, Marcel Duchamp e Piero Manzoni: l'artista che firmando crea l'opera d'arte. È la genesi di una carriera visionaria. Firmare la volta celeste non è solo il simbolo dell'appropriazione della natura, della fusione tra natura e artista, ma è soprattutto l'atto d'amore verso il blu. “Il materialismo è nemico della libertà”. Klein dipingerà monocromi per anni, cercando nella stesura del colore totale una risposta alla sua ricerca di indefinibile, e giungerà finalmente solo nel 1956 a creare "la più perfetta espressione del blu", a creare il suo colore, il suo blu. L'International Klein Blue. Klein è esso stesso il suo blu. Nel 1957 è appena entrato nella sua epoca blu ed espone nella galleria di Iris Clert: soltanto monocromi di colore blu. Ma perché proprio tale colore? Per Klein il blu è l'unione tra cielo e mare, “quanto c'è di più astratto nella natura tangibile e visibile” - “Nello spazio dell'aria blu sentiamo che il mondo è permeabile alla fantasticheria più indeterminata”. Egli trae grande ispirazione dalla lettura di Gaston Bachelard e ama citarne una frase: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità blu”. La tela, conquistata dal suo colore, non offre un punto fisso in cui guardare e lo spettatore si trova dinanzi ad essa spaesato e avvolto. Avvolto da cosa? Dalla profondità dell'immateriale. Yves Klein si rende conto però di non potersi fermare al monocromo, lui vuole raggiungere l'immateriale totale, il vuoto: vuole crearlo. D'altronde, come creare qualcosa di immateriale con il materiale colore? Procedere con un atto simile è creare un blu che rappresenti l'immateriale, non raggiungere il vuoto. Il problema della rappresentazione è proprio questo: rappresentare non è creare-raggiungere uno stato, il vuoto, nell'obiettivo di Klein, ma è dare vita ad una immagine. Il merito dell'artista francese è certamente quello di aver dato pieno potere al colore ed aver dimostrato come sia possibile creare immagine, rappresentazione, arte, senza l'uso della linea. L'esasperazione del colore continua comunque a creare un'opera d'arte, e in quanto arte la sua condizione necessaria è quella di esistere, e dunque esistere nella materia, proprio perché non esiste opera artistica allo stadio dell'inespresso. Dipingere una tela di un unico ipnotico blu costringe l'artista a fare i conti con la materia e con i problemi dell'espressione artistica. Diventa quasi ridicola la critica di chi sostiene che quella di Klein non sia arte: è proprio il fatto che sia ancora arte, perlomeno arte classica, a rendere complicato e apparentemente irraggiungibile l'arduo obiettivo del pittore di liberarsi della materia. Anche Klein stesso è cosciente dei propri limiti, necessita di una trasformazione, e annuncia la sua rivoluzione: «Lo schermo tangibile del blu sulla tela impedisce la visione dell'orizzonte». Occorre raggiungere l'atto, oltre la mera rappresentazione, una sfida mai tentata prima. Creare da zero un nuovo orizzonte, più immateriale, più intangibile, più vuoto. II. Creare il Vuoto? Una sfida tra Artista, Arte e Materia Yves Klein, nel mezzo del suo cammino artistico, cominciò ad amare l'idea. L'idea su tutto, che sovrastasse anche il concreto. Ma in quanto idea essa necessitava di un'espressione, nonostante fosse la fantasia di uno spazio vuoto. C'era bisogno di creare l'ambiente nel quale l'opera si sarebbe trovata. Una sfida paradossale, di nuovo: rappresentare la non materia attraverso la materia, ma ora con un nuovo alleato, lo spazio. Nell'aprile del 1958, a Parigi, sempre nella galleria Iris Clert, si tenne quella che è probabilmente la sua più celebre e affermata mostra: “Epoca Pneumatica, la sensibilità pittorica immateriale allo stato materia prima”, meglio conosciuta come “Le Vide” (Il Vuoto). Klein prese in prestito un'intera galleria d'arte e in qualche giorno la dipinse semplicemente di bianco. Ogni oggetto fu rimosso, e al posto della galleria che esisteva precedentemente ora si trovava semplicemente un bianco eterno e impalpabile. Il Bianco e lo Spazio governavano da soli, e l'uomo si perdeva, camminando all'interno dell'opera d'arte. Ma quale opera d'arte di preciso? Le pareti? La stanza? No, al contrario, l'opera stessa era lo spazio creato dal vuoto che si trovava nella stanza. Klein aveva pensato al Vuoto e l'aveva creato nella materia, almeno in linea teorica. La mostra lasciò gli spettatori sgomenti, entusiasti, frustrati e muti. Certamente l'artista aveva raggiunto l'obiettivo di dare forma ad una idea astratta, ma si era realmente liberato dalla prigione della rappresentazione? Il Vuoto, l'immateriale, hanno la peculiare caratteristica di non esistere nel mondo e la loro presenza è possibile solo con lo sforzo dell'immaginazione umana. Ma l'immaginazione basta a dare vita reale a ciò che sarebbe altrimenti irreale?Le risposte sono con tutta probabilità irraggiungibili, ma la domanda fondamentale da porci è però: l'arte crea mondo o rappresentazione del mondo? Perché se l'arte creasse mondo allora il vuoto sarebbe possibile. Se considerassimo l'arte come la rivalsa dell'uomo su Dio, la sua possibilità unica di dare forma ai propri sentimenti in un atto di creazione che esterna, allora anche l'espressione artistica del vuoto potrebbe essere una porzione di spazio che potrebbe essere chiamata autenticamente Vuoto. Occorre solo, per spettatore e artista, accettare l'assurdo dell'arte, e accettare che l'assurdo fa parte della vita. Applicare dunque la sospensione dell'incredulità alla materia stessa, un problema grande quanto l'accettare la non esistenza del soggetto. E allora Klein diverrebbe il primo uomo nello spazio, lo spazio autentico: lo Spazio creato intenzionalmente, per essere un vuoto immateriale. D'altro canto non possiamo, in qualità di uomini razionali e materiali, evitare di riflettere a come sia contraddittorio dare vita ad un vuoto partendo da una stanza materiale e del palpabile colore bianco. Ritorna in Le Vide, mostra e al tempo stesso opera d'arte tridimensionale, il medesimo problema inestricabile che ci siamo posti interrogandoci sull'esito finale dei dipinti monocromi. Proviamo però di nuovo ad immedesimarci nell'artista, e nello spettatore che si trova dinanzi ad una esposizione che mette in scena una stanza dai confini cancellati e confusi e null'altro, insomma a sospendere l'incredulità. Riconosciamone i pregi: d'altronde Klein nei termini che utilizza per descrivere ciò che fa è estremamente coerente e tanto preciso da creare una tautologia artistica praticamente inattaccabile. L'artista aveva previsto le critiche che gli si sarebbero potute muovere e si era armato contro il disprezzo attraverso i discorsi e le parole proprie dell'uomo di genio che conosce pienamente ciò che sta compiendo. Klein parla di immaginazione e di sensibilità, poco gli importa il fatto che creare il vuoto sia un atto di creazione di un artificio artistico ingannatore che illude lo spettatore. L'opera d'arte per lui deve proseguire oltre queste inutili contraddizioni formali. Se, come abbiamo detto prima, l'arte è forma e contenuto, e i due termini sono inseparabili e si influenzano l'un l'altro, allora il contenuto del vuoto deve corrispondere necessariamente ad una forma inesistente, immateriale. Ma di nuovo, se si guarda alla forma si vedrà una stanza colorata di bianco, al di là del significato di tale significante, e unendo forma e contenuto si otterrà semplicemente una stanza bianca senza nulla al suo interno, non il concetto astratto di vuoto. È sicuramente vero che questo cinismo e una tale puntigliosità nell'analizzare un'opera la svilisce e abbatte la magia, ma la pretesa di Klein, l'ambizione di creare l'immateriale dell'arte, è un progetto di importanza storica immensa e la volontà di superare l'arte si scontra irrimediabilmente con le tecniche e le forme dell'arte tradizionale. Occorre fare un passo in più, cambiare il punto di vista. Ma prima di trattare la fase successiva è doveroso soffermarsi a sottolineare i meriti straordinari che vanno riconosciuti alla mostra Le Vide. Hans-Georg Gadamer critica la tendenza moderna a scorgere nel fatto artistico una zona segregata e asettica dello spirito. L'arte è strettamente connessa con la realtà concreta della vita, è esperienza del mondo e nel mondo che modifica radicalmente chi la fa. Esiste invece la tendenza a sradicare l'opera dal suo contesto vitale originario, separandola dal proprio retroterra, per fruirne il puro valore estetico. Niente di più sbagliato dunque. E l'esempio principe di tutto ciò è il museo, che strappa l'arte e la ripone in un contesto atemporale, rendendola eternamente ferma e contrastando il movimento che l'opera d'arte richiede per la propria produzione e che si trova insito in essa. Klein non si distacca mai completamente dal mercato, non ha motivo di farlo del resto, ma comprende profondamente tutto ciò, forse anche inconsapevolmente. Sono sicuramente notevoli a questo proposito i suoi lavori prodotti all'aria aperta con gli elementi della natura, che fondono ancora di più arte e mondo, ma è proprio a questo proposito che la mostra dell'aprile del '58 risulta innovativa e visionaria. Klein prende una galleria d'arte e, letteralmente, la smonta. Elimina gli oggetti, le pareti, il concetto stesso di mostra. Abbatte il museo: lo spettatore varca la soglia e si ritrova spaesato nell'opera d'arte, nulla intorno a sé e nessuna figura da osservare sino al termine dell'orizzonte del bianco profondo dei muri impalpabili. L'arte è già lì, non necessita di essere osservata perché l'osservatore ci si trova catapultato dentro, ed essendo un'opera concettuale, che fa dell'idea il suo tutto essa è costantemente collegata all'animo dell'artista. L'atemporalità stessa cessa di essere un problema con la scomparsa del tempo dell'opera. Perché tutto questo conta così tanto più del già ben geniale dipinto eseguito utilizzando la caduta della pioggia sulla tela? Perché Klein agisce al cuore dell'istituzione ed è la forma istituzionalizzata dell'arte quella che fa più chiasso quando viene infranta. Al di là delle critiche, “La sensibilità pittorica immateriale allo stato materia prima” è prima di tutto un atto di coraggio. Passiamo ora oltre, per giungere al marzo del 1959, quando Yves Klein avrà l'occasione di poter esporre alla mostra collettiva “Vision in Motion / Motion in Vision” organizzata da Pol Bury e André Balthazar all'Hessenhuis di Anversa. Queste sono le parole che lui stesso utilizza per raccontare tale esperienza, durante la sua conferenza alla Sorbona di due mesi più tardi: «Al momento dell'inaugurazione, nello spazio a me riservato, invece di mettervi un quadro o un qualsiasi altro oggetto tangibile e visibile, pronuncio ad alta voce davanti al pubblico queste parole prese a prestito da Gaston Bachelard: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità blu”. L'organizzatore belga della mostra mi chiede allora dove sia la mia opera. Rispondo: “Qui, qui dove sto parlando in questo momento” […] “Vi sembrerà forse che io stia tentando l'impossibile, che mi stia precipitando verso qualcosa d'inumano”» e conclude trionfalmente: «Avrei potuto fare dei gesti simbolici […] No! Quelle poche parole che avevo pronunciato erano già troppe». Si tratta di un'esibizione unica, arrogante e geniale. Klein sottolinea il fatto che egli avrebbe potuto compiere un gesto simbolico, come dipingere con un pennello asciutto le pareti, ma tutto ciò non è necessario: era finalmente giunto a qualcosa di nuovo e diverso dall'opera d'arte pura e tradizionale. Costituire l'immateriale era possibile soltanto compiendo un passo in più, osando andare oltre non soltanto a linee e forme, ma agli stessi pennelli, alla tela, alle pareti. L'opera che Klein espose quel giorno era il semplice uso della parola. Il concetto espresso dall'artista, che si trasforma in rivelatore in tempo reale della propria espressione, contemporaneamente opera e artefice, avvolgeva lo spettatore nel tempo di un istante. Le parole fluiscono e danno vita al concetto, che viene recepito e costruito direttamente nella mente dell'osservatore/ascoltatore; non c'è più bisogno del simbolo tangibile, intagliato nella materia. Con questa esibizione l'artista ha finalmente fatto il passo decisivo verso il proprio fine. “Voglio superare l'arte – superare la sensibilità – superare la vita – voglio raggiungere il vuoto”. Ha compiuto l'atto di creazione di qualcosa mai visto prima, che si interpone tra arte e vita, e che paradossalmente sembra superare tutto ciò. È probabilmente giunto all'atto più simile all'atto di creazione del Vuoto che un uomo possa pensare. Proprio colui che aveva auspicato «l'uomo abiterà lo spazio con la forza terribile ma pacifica della sensibilità» è riuscito per primo, almeno nell'arte, a superare anche l'antica sensibilità, producendone una nuova. Ma, se come abbiamo affermato, l'arte fa tutt'uno con la vita, dobbiamo ammettere che effettivamente il vuoto è venuto ora a crearsi anche nella realtà che ci circonda, evento intangibile ma esperibile concettualmente. Perché il vuoto kleiniano non è il nulla, ma un preciso stato immateriale. Il concetto fondamentale a cui dobbiamo riferirci diventa l'immaginazione. Per Yves “Immaginare è lanciarsi verso una nuova vita”: superare le forme precedenti non è possibile se non rinunciando al passato, lanciandosi e rinascendo. È come se l'artista stesso ci dicesse, citando le prime pagine de “La Luna e i Falò” di Cesare Pavese, che «Dove son nato non lo so» e poi ancora, sembra andare oltre, sino ad affermare: «Muoio ogni attimo e rinasco nuovo e senza ricordi, rinasco arte, artista, nell'immateriale». III. Senza Desiderio Nessuna Realtà: Yves Klein come Autore nel Contesto del Pensiero Deleuziano Il vuoto non è il nulla. Questo è un concetto fondamentale. Più volte l'ha rimarcato lo stesso Klein, soprattutto attraverso la citazione di Bachelard che già abbiamo ripreso: “Prima, non c'è nulla, poi c'è un nulla profondo, poi una profondità blu”. È determinante prendere atto della differenza che notevole che si interpone tra il nulla e il vuoto, in quanto il vuoto, come stato artistico, necessita di essere creato, o perlomeno possiamo dire che richieda uno stato nel quale sia possibile la sua rappresentazione. Non rappresentazione allegorica ma, come appunto per Klein, una rappresentazione totale e fedele, che proietti l'illusione sensibile di trovarsi di fronte a dell'immateriale, al confine dunque tra rappresentazione e creazione. Le domande fondamentali da porsi a questo punto sono quindi due, ovvero quale rapporto ci sia tra arte e atto di creazione e quale rapporto ci sia tra creazione ed artista. Nel pensiero del filosofo francese Gilles Deleuze, appartenente alla corrente post-strutturalista, uno dei concetti cardine è quello di desiderio. Per come è presentato il desiderio nell'Anti-Edipo, tale elemento è completamente discostato dal classico concetto freudiano di desiderio come mancanza: movimento inconscio verso una casella vuota, che sentiamo la necessità di riempire. Senza scendere oltremodo nei dettagli, per Deleuze il desiderio è invece una caratteristica assolutamente fondante e fondamentale dell'essere umano, elemento propulsivo e sconfinante. Non più una casella vuota da raggiungere ma la stessa casella che si espande e produce mondo senza un deterministico finalismo, razionale o irrazionale che sia. Tale nozione deve però essere inquadrata nell'ambito post-strutturalista. Prendendo a prestito da Michel Foucault la definizione di struttura: “Dal momento in cui ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è persa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l'uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana.”. Deleuze vuole però andare oltre a tutto ciò: è chiaro che l'esistenza sia influenzata dalla struttura in cui abita, ma la struttura stessa deve essere messa in dubbio. Essa non è cancellata, ma alla sua staticità viene opposta un'idea nuova di forze vitalistiche che attraversano ogni cosa. Il concetto cardine diventa la produzione, non in termini di produzione soggettiva ma di forza impersonale e pulsionale (in senso freudiano). Si va al di là della struttura proprio in quanto l'universo è ora desoggettivato e attivato da differenze libere, non vincolate. Il desiderio è in sostanza, per Deleuze, una pulsione produttiva. Ma soprattutto il desiderio è rivoluzionario. Esso collega l'individuo, desoggettivato, al mondo e a ciò che produce nell'universo. Quando l'individuo si trova poi, casualmente o volutamente (e in questo caso è da sottolineare il fatto che Klein, come Duchamp e Manzoni, pone la sua volontà in quanto artista come condizione centrale per la produzione/trasformazione artistica), a produrre un'opera d'arte, il collegamento che avviene trai due è inscindibile: l'artista è all'interno dell'opera, come era già stato ravvisato dall'ermeneutica, ma in questo caso non in veste di rappresentatore che fa cadere pezzi di sé stesso sulla tela ma in qualità di macchina desiderante e produttrice che crea senza sosta mondo intorno ad essa e si trova accidentalmente a produrre anche arte. Chiarito ora il concetto deleuziano di desiderio è possibile proseguire con ulteriori osservazioni. Per Klein, come abbiamo visto nel capitolo II, fare arte è immaginare e immaginare è lanciarsi. La ricerca dell'immateriale di Yves Klein sembra superficialmente minimale, ma nasconde una forza produttiva e dirompente che è difficile non ricondurre al desiderio deleuziano. Costruire monocromi di un blu profondo o dipingere di bianco una galleria non sono una semplice stesura di colore, ma la scelta di ripercorrere l'intera tradizione artistica occidentale e di giungere alla soluzione che l'unico modo per eliminare la crosta della materia dall'arte è quello di rompere ogni linea, ogni forma, ogni prospettiva e figura. In qualche modo, se la produzione artistica è frutto di un desiderio estremamente produttivo e a-razionale, utilizzare la forma d'arte per esprimere il proprio desiderio e poi attraverso la stessa arte cercare, rompendo le regole, di raggiungere uno stato immateriale, è tentare un viaggio a ritroso per ritornare alla forma pura del desiderio. Per Deleuze, l'arte è percetto, ovvero “in filosofia, il contenuto dell'intuizione empirica, cioè l'oggetto della percezione senza alcun riferimento alla cosa fisica da cui proviene lo stimolo”. Le opere concettuali di Klein sono dunque totalmente ascrivibili alla definizione di arte, ma soprattutto anche l'immateriale della mostra “Epoca Pneumatica, la sensibilità pittorica immateriale allo stato materia prima” è una manifestazione artistica e in quanto tale un prodotto della produzione desiderante. Il tentativo di Klein, ben lungi dal dimostrarsi un fallimento, è definibile come atto provocatorio di grande ambizione: tornare al desiderio attraverso una manifestazione dello stesso, rompendo gli schemi della natura e collegando arte e desiderio attraverso il termine rivoluzione, caratteristica comune ai due aspetti. È chiaro che osservando cinicamente l'operazione compiuta dall'artista francese sembra abbastanza evidente che ogni operazione possa essere rimessa al motivo fondante del desiderio, in quanto anche il tentativo di oltrepassare le barriere della materia non può essere un reale ritorno all'origine dell'atto ed tale tentativo è compiuto proprio seguendo il flusso del desiderio stesso, ma la portata di una sfida simile lascia un segno indelebile nell'arte, materia (ambito, in questo caso) che del resto deve sapere anticipare e talvolta fregarsene della filosofia, per non smarrire il proprio atteggiamento rivoluzionario e rivoltoso. Perché del resto sono le rivoluzioni artistiche le sole rivoluzioni a non fallire e a portare in ogni caso, ad ogni costo, un cambiamento. E positivo o negativo non esistono, quando si parla di rivoluzione artistica e desiderio rivoluzionario. Yves Klein aggredisce la tela e non ha paura di nascondere il proprio desiderio: la smembra e vi lascia traccia del vuoto, il suo vuoto, ciò che vuole manifestare. Gettarsi, come fa Klein (quindi come autore/fautore), in opere di tale genere, è paragonabile ad affrontare a viso aperto il processo schizo, il viaggio iniziatico di perdita dell'Io. Per citare R.D. Laing, come viene ripreso nell'Anti-Edipo da Deleuze: “Ero in qualche modo giunto al presente a partire dalla forma più primitiva della vita” - “Guardavo, no, piuttosto sentivo davanti a me un viaggio spaventoso”. E ritorniamo ora sul termine “rivoluzione”, che spesso ho utilizzato in questo saggio. Credo che si possa affermare che il concetto di rivoluzione sia uno degli aspetti maggiormente cruciali dell'esistenza umana – insieme a quello di “atto di resistenza”, di cui parleremo più avanti – dunque della vita dell'umanità intera, di quella dell'uomo comune e soprattutto di quella dell'artista. Deleuze nell'intervista contenuta nel suo Abecedario dichiara: «Tutte le rivoluzioni falliscono» e poi ancora «Che le rivoluzioni falliscano, che finiscano male, non ha mai fermato la gente, non ha mai impedito che la gente diventasse rivoluzionaria». Una visione cruda e determinata, ma che ammette il perseguire umano dell'idea di rivoluzione con un tono tutt'altro che pessimistico: il divenire rivoluzionario è una condizione umana che esiste da sempre e fa parte del procedere sincronico della struttura; si trova sullo stesso piano della vita e della morte. Abbiamo ora parlato della rivoluzione a caratteri generali, ma occorre fare una puntualizzazione: le rivoluzioni di cui parla Deleuze nelle frasi sopra riportate sono quelle compiute con le armi. Che le armi siano le parole, la non violenza oppure la barbarie e i fucili non importa, perché le rivoluzioni di società sono destinate a fallire in partenza. Nessun sovvertimento di questo tipo è destinato a mantenere i propri propositi, perché l'essere umano quando si rapporta con gli altri, e fa dunque politica, è fallaceo per natura. Ciò di cui non ho ancora trattato sono invece le rivoluzioni artistiche, e sono proprio esse le uniche rivoluzioni a poter non fallire, il modo privilegiato con il quale lo spirito rivoluzionario riesce a manifestarsi compiutamente. L'arte vede continuamente rivoluzioni, lotte, artisti in collera con l'ambiente che li circonda determinati a cambiare, rivoltare gli schemi, e che riescono nel loro intento. Dopo ogni artista l'arte non è più la stessa di prima. È evidente come i sistemi politici e le dittature continuino a tornare periodicamente nella storia: una rivolta antizarista diviene rivoluzione socialista e infine ricade nella dittattura, una protesta pacifica che utilizza l'arma della non-violenza come quella di Gandhi libera un popolo da un oppressore esterno per poi lasciarlo in balia di un tiranno interno ad esso, la religione, che continua imperterrito il suo lavoro di oppressione. Non c'è un vero progresso e il cambiamento è solo a breve termine, immediato, e quando la ferocia rivoluzionaria è placata il mondo continua nel suo sviluppo sincronico e sempre uguale. Ciò non significa certamente che il cambiamento sia impossibile, ma è importante sottolineare il destino fallimentare della rivoluzione armata per evidenziare invece la storia delle rivoluzioni artistiche. L'arte prosegue imperterrita dalla nascita dell'uomo, sopravvive alle rivoluzioni e non torna mai la stessa, nemmeno nei modi. Il pensiero si modifica e trovandosi cambiato non riesce più a pensare un mondo senza cambiamento, proprio perciò l'arte sembra continuare ad evolversi in una sola direzione, seppur con arresti e sporadici cammini all'indietro. Specialmente in campo artistico però l'arte richiede la presenza di grandi uomini, grandi artisti. Parlando, nei precedenti capitoli, del cambiamento apportato da Klein, si è detta una cosa fondamentale che occorre tenere a mente: la rivoluzione si prepara. Non avviene mai da sola e non accade mai senza motivo, seppur partorita dalla genialità o da impulsi improvvisi. Questo perché la rivoluzione è un processo in fieri, in costante divenire: ogni rivoluzione prepara quella successiva e ogni artista dà un contributo inestimabile, anche quelli minori. È ora molto chiaro perché si sia parlato di Yves Klein come un individuo rivoluzionario: non è abusare di un termine, ma riconoscere oggettivamente la portata del suo operato. Egli è uno di quei grandi nomi che hanno lasciato una traccia indelebile nel percorso dell'arte. Potrebbe non aver creato davvero il vuoto che voleva raggiungere, ma non ha mai in nessun modo tradito le premesse e gli obiettivi della sua rivoluzione, apportando una modifica concettuale alla quale gli artisti dopo di lui dovranno guardare per poter “proseguire”. È un fatto di potere, avere questa possibilità. Tutto ciò l'aveva ben compreso Albert Camus, quando, dopo aver visto la già citata mostra “Le Vide”, dove Klein aveva dipinto di bianco e svuotato la galleria d'arte, ebbe a dire la celebre frase profetica “Avec le vide, les pleins pouvoirs” (trad. “Con il vuoto, pieni poteri”). Creare il vuoto è una svolta epocale: in quel momento Yves Klein teneva le redini delle sviluppo mondiale della dialettica dell'arte, stava segnando un punto di svolta e stava scegliendo personalmente che forma dare all'arte del futuro, seppur parzialmente inconsciamente. Ritornando al tema della "preparazione", Klein fa diventare la preparazione stessa dell'opera, del colore, parte dell'opera, in quanto parte fondamentale dell'idea e dell'atto di creazione artistica. Il vuoto non è composto soltanto dal quadro, appeso e fermo, o dall'esibizione "istantanea", ma dalla preparazione stessa: la creazione del più perfetto blu, il blu necessario alla creazione, e la preparazione alla performance, dunque la vita stessa dell'artista. Concetto chiave della filosofia dell'arte di Deleuze è poi quello di arte come “atto di resistenza”. È infatti impossibile parlare di Deleuze e di arte senza farvi riferimento. L'idea alla base è chiara e inequivocabile, ed era già stata propria di Croce e dello stesso Klein: l'arte non comunica, ma costituisce una resistenza. Ciò non annulla assolutamente la funzione sociale dell'arte, bensì sposta semplicemente il punto di vista, spostando il rapporto artista-opera-mondo. Klein spazia tra le arti, si muove quando dipinge, porta la sua tela sotto la pioggia, la sottopone allo spettacolo feroce del fuoco, alla nudità dei corpi cosparsi di colore. E ancora: compone musica, recita, getta oro nelle acque e progetta architettura immateriale. La sua è una ricerca continua ed estenuante, che non può terminare, in quanto la ricerca è la componente essenziale del suo modo di fare arte. È forse proprio per questo che la sua morte in giovane di età ci è di così alta ispirazione, lo mitizza ai nostri occhi di comuni mortali e non artisti: la ricerca forsennata dei pochi anni che ha vissuto si è interrotta troppo presto, ma ci consegna l'illusione che la vita di Klein potesse essere ancora lunga e straripante, mai banale o terminata. Si può quasi dire paradossalmente che la morte ha reso grande Klein, evitandogli il rischio di venir accusato di banalità, ripetitività, caratteristiche che la personalità del pittore francese avrebbe sicuramente mal sopportato di ascoltare. Un destino simile ma opposto a quello di un suo quasi contemporaneo: Jean-Michel Basquiat, morto giovanissimo – 28 anni – ma che aveva dovuto sorbirsi l'accusa di aver esaurito la sua creatività e originalità. Uno smacco difficile da metabolizzare, per un rivoluzionario come lui, un rivoluzionario molto vicino per “aggressività” e pathos a Yves Klein. Proprio quest'ultimo infatti, ha saputo con tenacia e coraggio perseverare nel suo continuo percorso di mutamento. Ma perché cambiare sempre? Perchè spostarsi e assumere forme diverse è il modo migliore per poter resistere: farsi trovare irriconoscibile davanti alla morte, che allora non sarà più solamente annientamento, ma una gloria secolare. Deleuze riassume chiaramente, in una conferenza del marzo 1987, pubblicata nella raccolta “Che cos'è l'atto di creazione?”: «L'opera d'arte non ha niente a che fare con la comunicazione, non contiene la minima informazione, c'è invece affinità tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza. Essa ha qualcosa a che fare con l'informazione e la comunicazione in quanto atto di resistenza. […] Malraux sviluppa un bel concetto filosofico, dice una cosa molto semplice, dice che l'arte è la sola cosa che resiste alla morte. […] Basta guardare una statuetta di tremila anni avanti Cristo». Le opere di Klein creano rapporti di potenzialità, di inespresso, di potenza, che raramente si sono visti nella storia dell'arte: danno vita ad un atto di resistenza che rimane di straordinaria ispirazione ancora oggi. Non solo opere, le performance di Klein danno vita ad un discorso artistico e filosofico che rimane ad aleggiare nei musei, nelle gallerie, nelle università. Quale migliore atto di resistenza di quello che si mantiene vivo anche nelle parole oltre che nei fatti materiali? Poste le basi dei rapporti reciproci tra desiderio, rivoluzione e resistenza, si potrebbe fare un passo ulteriore e domandarsi come possa reagire l'arte alla sopravvivenza, quando essa raggiunge l'immateriale tanto auspicato da Klein. Se l'arte è l'unica cosa che resiste alla morte ciò significa che l'arte è immortale e questo porta con sé la problematizzazione del discorso sul “supporto” sul quale poggia/vive l'opera. Ovvero: l'arte è immortale quando è solo atto? Su cosa si basa la sua sopravvivenza, se non è presente un supporto fisico che può essere preservato? Tale questione è in realtà ben più antica di Klein e affonda le sue radici sulle forme di narrazioni letterarie tramandate a voce. In questo caso però si parla di letteratura, non dell'arte plastica/pittorica a cui allude Klein: paradossalmente la letteratura, come forma d'arte, è nata nell'immateriale, nell'esibizione orale, per poi trasferirsi alla scrittura, mentre la pittura è nata per rappresentare il reale, per resistere sulle pareti di roccia e dare un'immagine universale di ciò che si aveva visto, e soltanto con Yves Klein ha raggiunto l'immaterialità. Al di là del parallelo tra le due forme artistiche, rimane chiaro come entrambe siano parimenti arte e dunque siano sottoposte alle stesse regole. Ebbene, il supporto in questo caso rimane la memoria. La memoria è trasformata dall'arte in materia. Che ciò avvenga all'inizio o al termine dell'evoluzione poco importa. Dunque, l'atto artistico che è appunto immateriale, trova nella memoria e nel ricordo la propria tela, che porta con sé gli stessi difetti della tela materiale: anche la tela deperisce, si sbiadisce, come il ricordo si perde con il corso del tempo. L'astratta performance è immortale atto di resistenza quanto lo sono le pitture rupestri. Antonella Moscati, nella postfazione a “Che cos'è l'atto di creazione?” scrive: « […] Soprattutto se con questo termine (opere) si intende il risultato di una delle tre attività fondamentali – lavoro, produrre, agire – di cui secondo Hannah Arendt si compone la vita attiva degli esseri umani. La Arendt fa rientrare esplicitamente l'opera d'arte nel produrre come attività poietica: ovvero in quella attività umana “in cui si manifesta la dimensione antinatura di un essere che dipende dalla natura”. In maniera non molto diversa da Deleuze, la Arendt attribuisce all'opera due caratteristiche fondamentali: avere un'esistenza indipendente e separata da chi le ha prodotte e poter durare anche oltre la vita di chi ne è l'autore. Ma il paradosso è che questa sorta di resistenza alla morte avviene nell'opera, cioè nell'artefatto o, meglio, nel manufatto, di cui l'opera d'arte è solo un caso particolare, non tanto per l'intervento umano, una coscienza o una soggettività atemporale che si esteriorizza nei suoi prodotti, quanto per la necessaria relazione che ha l'opera con il materiale. È infatti al supporto materiale […] che l'opera deve la sua capacità di permanere.». I punti da commentare sono qui due: innanzitutto il concetto che l'opera d'arte rientri nel produrre come attività poietica, nella quale si manifesta la dimensione anti-natura dell'uomo (che pur vi è legato, talvolta suo malgrado), e poi il problema della persistenza dell'opera oltre la vita dell'autore. Grande ed evidente esempio di performance art che si unisce alla fotografia è il celebre “Salto nel Vuoto”, fotografia nella quale Klein è immortalato nel mezzo di un volo plastico, conseguente ad un salto dall'apice di un muro. L'essere umano è qui catturato nel suo massimo atto di sfida verso la natura: il pericolo sfidato a costo del dolore fisico, in quanto scegliere di andare contro le leggi della natura, raggiungere nuovi stadi dell'arte, rappresenta il prometeico atto dell'uomo che deve obbedire alla natura ma è per sua costruzione un ribelle, un contro-natura. Bisogna però compiere un'importante scissione tra l'atto del salto e il fotografo che immortala la scena. L'obiettivo dell'artista è sicuramente rappresentare (ancora una volta scegliendo un'arte diversa) fisicamente su pellicola il gesto dell'essere umano che tenta di staccarsi definitivamente dalla terra per raggiungere uno stato di vuoto e che lo raggiunge, nella realtà momentaneamente ma, nella fotografia, in eterno. Non bisogna però ignorare che la stessa performance eseguita davanti alla macchina fotografica è essa stessa un momento dell'atto di creazione artista, uno step così diverso nelle proprie caratteristiche da poter quasi essere diviso dalla fotografia. Ciò che voglio esprimere e che ho già precedentemente sottolineato è proprio questo: non è assolutamente un errore attribuire all'opera d'arte la caratteristica di poter vivere dopo la vita dell'autore, ma è un errore fondamentale considerare la memoria dell'istante come un supporto non persistente. Le gesta leggendarie e provocatorie di Klein, che egli non esitava a definire arte, come del resto tutta la performance art e i lavori di Marina Abramovic, tanto per citarne un autore, non possono essere escluse dalla categoria di opere d'arte, proprio per la vita che esse ancora possiedono nelle memorie degli uomini, negli scritti che ne parlano e nei cambiamenti che hanno ispirato. Dopotutto, è Benedetto Croce ad aprire il suo breviario di estetica con la frase “l'arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”: il confine è sottile e in un mondo nel quale la produzione originale è sempre più scoraggiata, a favore della riproduzione macchinosa, non possiamo permetterci un atteggiamento di spietato cinismo nei confronti di qualche cosa che effettivamente crea rivoluzione e resistenza. IV. Il Popolo che Manca: Paul Klee e Martin Heidegger Rifacendoci nuovamente ad un testo di Gilles Deleuze: «Che rapporto c'è fra la lotta umana e l'opera d'arte? Il rapporto più stretto e, secondo me, più misterioso. Proprio ciò che Paul Klee intendeva dire quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e allo stesso tempo non manca. Il popolo manca vuol dire che questa affinità fondamentale tra l'opera d'arte e un popolo che non esiste non è ancora chiara e non lo sarà mai. Non c'è opera d'arte che non faccia appello ad un popolo che non esiste ancora». Come definito appunto da Klee, e Deleuze stesso, è presente uno strettissimo legame tra popolo, artista e opere d'arte: l'atto di resistenza si mette necessariamente in dialogo con l'essere umano, in quanto è l'uomo ad attribuire il valore all'arte e l'uomo si struttura sempre nella forma di un popolo. Il popolo manca perché l'arte è sempre un passo avanti, l'artista è in qualche modo veggente sino dal momento in cui l'arte pittorica ha cessato di essere mera rappresentazione e ha cominciato a portare con sé effettivamente l'espressione del proprio autore. È avvenuta, con l'arte d'avanguardia, una svolta epocale nella storia: se il popolo è sempre mancato, in un certo senso, ora si venivano a creare le condizioni per un'azione di creazione di popolo e di linguaggio, molto similmente a ciò che Martin Heidegger diceva nei confronti della poesia. Il popolo che non esiste ancora a cui fa riferimento la nuova opera d'arte viene creato in concomitanza con l'atto di creazione artistica. Il filosofo tedesco, grande esaltatore della poesia e grande studioso delle opere di Hölderlin, sosteneva infatti che “i poeti forniscono ad un popolo la sua identità e istituiscono usanze e costumi” e dare identità ad un popolo che precedentemente non ne aveva una significa di fatto crearla, praticamente dal nulla. E ancora: «La poesia è il linguaggio originario di un popolo. […] La poesia è il fondamento che regge la storia». Dunque l'arte non esprime un'epoca, ma la plasma: proprio ciò che ci stanno dicendo Klee e Deleuze quando ci mettono davanti al problema della mancanza del popolo. L'errore evidente e principale di Heidegger fu però appunto, al di là delle motivazioni di origine ideologica che mossero le sue riflessioni e vanno considerate, quello di limitare il suo pensiero alla poesia. Se infatti esso è un discorso quasi totalmente veritiero nel momento in cui si osserva l'arte antica, medievale e moderna, appena si approda a valutare l'arte contemporanea e soprattutto le arti concettuali e le avanguardie, è evidente come costantemente siano gli artisti i principali fautori del progresso, coloro che anticipano e influenzano il popolo. E ciò è ancor più vero quando parliamo di Yves Klein. Fu proprio lui, nel Chelsea Hotel Manifesto, a cantare con audacia il potere dell'uomo e dell'arte: «La sensibilità dell'uomo è onnipotente sulla realtà immateriale. La sua sensibilità può anche leggere nella memoria della natura, che si tratti di passato, di presente o di futuro! Questa è la nostra autentica capacità di azione extra-dimensionale! E, ce n'è bisogno, ecco qualche prova di ciò che affermo: Dante, nella Divina Commedia, ha descritto con precisione assoluta quel che nessun viaggiatore del suo tempo avrebbe ragionevolmente potuto scoprire, la costellazione, invisibile dall'emisfero nord, conosciuta sotto il nome di Croce del Sud». E, ancora, in un breve scritto chiamato “Cattura del Vuoto” egli fece riferimento al suo rapporto col popolo, in quantità di avanguardista: l'artista doveva creare la condizione di mancanza della folla, doveva trovarsi solo, per poter preparare un nuovo mondo al popolo del futuro. Nella sua esperienza di cattura del vuoto, un'intera città, o meglio un'intera nazione, doveva rinchiudersi in casa per due ore, lasciando allo Spazio la vista di un luogo immenso senza esseri umani. In un contesto surreale di silenzio e desolazione, l'artista doveva essere spinto fuori dalla propria casa, per poter esperire in solitudine la cattura del vuoto stesso, e tale esperienza sarebbe stata soltanto il primo passo verso una consapevolezza nuova dello spazio. V. Una Breve Riflessione: Jiro Yoshihara e Ad Reinhardt Una caratteristica singolare che è possibile notare in autori come Klein, Mondrian e Rothko è quella di aver reagito in modo sorprendente all'avvento dell'era della riproducibilità dell'opera d'arte. Come dice Walter Benjamin infatti, con la possibilità della riproducibilità dell'opera d'arte si toglie ad essa la propria caratteristica “auraticità”; è curioso dunque vedere come alcuni artisti, anziché difendere strenuamente l'unicità del proprio lavoro con il ritorno alla tradizione pittorica, la quale richiede al pittore una straordinaria abilità innata, si siano concentrati su un tipo di pittura concettuale, che esprimesse le loro idee attraverso opere d'arte di estrema semplicità realizzativa. Semplici da realizzare tecnicamente ma di estrema complessità nell'elaborazione mentale. È evidente infatti come i monocromi di Klein siano opere non soltanto riproducibili grazie alla fotografia ma facilmente riproducibili da chiunque sotto forma di tela materiale e colore: l'importanza della novità è spostata sul fatto che semplicemente nessuno avesse pensato a realizzare un quadro di quel tipo prima dell'artista. Due artisti che hanno seguito una via estremamente vicina a quella di Yves Klein sono l'americano Ad Reinhardt (Buffalo, 24 dicembre 1913 – New York, 30 agosto 1967) e il giapponese Jiro Yoshihara (1905 – 1972). L'opera più rilevante di Reinhardt per la nostra riflessione è Abstract Painting, del 1963: semplicemente una gigantesca tela quadrata dipinta di un intenso e uniforme nero. Come definisce questo tipo di produzione lo stesso artista, nel 1961: “A square (neutral, shapeless) canvas, five feet wide, five feet high, as high as a man, as wide as a man's outstretched arms (not large, not small, sizeless), trisected (no composition), one horizontal form negating one vertical form (formless, no top, no bottom, directionless), three (more or less) dark (lightless) no–contrasting (colorless) colors, brushwork brushed out to remove brushwork, a matte, flat, free–hand, painted surface (glossless, textureless, non–linear, no hard-edge, no soft edge) which does not reflect its surroundings—a pure, abstract, non–objective, timeless, spaceless, changeless, relationless, disinterested painting—an object that is self–conscious (no unconsciousness) ideal, transcendent, aware of no thing but art (absolutely no anti–art).” Gli anni di sviluppo di tale concetto sono i medesimi nei quali opera Klein, ed è evidente la sua influenza, come del resto è chiara la fonte di ispirazione principale di Reinhardt: il quadrato nero di Malevich, opera che come abbiamo detto ha fortemente influenzato anche l'artista francese. La tecnica che il pittore americano adotta per i propri Black Paintings gli permette di dare vita ad un quadro che in apparenza si presenta come un unico blocco nero, ma che è in realtà composto di sfumature. Travasava l'olio dai pigmenti che sceglieva, per ricreare una finitura satinata molto delicata. In questo modo, le sue superfici, ora opache, riuscivano ad assorbire maggiormente la luce. Le correnti a cui si possono ascrivere tali opere sono certamente l'espressionismo astratto (la stessa corrente di Rothko, del resto) e il minimalismo, movimenti molto vicini quanto paradossalmente distanti dal Nouveau Réalisme di cui faceva parte Klein. Il tema del monocromo avvicina gli autori, che però si distanziano fortemente a causa del diverso uso del colore: Klein proverà diversi monocromi prima di approdare definitivamente al blu, il suo personale blu, e snobberà completamente il nero. Il punto fondamentale è appunto il fatto che il nero sia un non-colore. “Lightless”, senza luce, come dice la presentazione del suo stesso autore. La differenza tra nero e blu profondo è immensa: il blu di Klein nasconde un'anima di aggressività e creatività, proprio dove il nero totale esprime l'annullamento di ogni colore e dell'arte stessa. Nel bianco che Klein utilizza per creare un intero ambiente che sia un luogo sconfinato è celata una forza rivoluzionaria che si trova appunto in netto contrasto con l'annullamento e la ricerca del nulla di Reinhardt. L'artista che persegue un obiettivo completamente diverso da quest'ultimo è invece Jiro Yoshihara, che opera nei medesimi anni e può essere considerato a ragione probabilmente il vero corrispondente di Klein per l'arte contemporanea nipponica. Nella sua serie di Work realizzati intorno 1964, egli dipinge sfondi di un intenso arancione, spezzati soltanto da un chiaro e definito cerchio giallo che campeggia al centro della tela. Il tema trattato è quello del cerchio come finestra sul mondo e Yoshihara dipingerà per quasi tutta la vita opere il cui soggetto sarà semplicemente il cerchio. “While Yoshihara never associated his art with Zen teachings, his celebrated circles are instantly reminiscent of traditional ensō (circle) paintings. In Zen Buddhism, the ensō symbolizes both enlightenment and the void, representing emptiness, freedom, unity and infinity. Constituting the ultimate transcendent form in Zen painting, ensō is the prerequisite to every act of creation, indicating the moment when the mind is emptied so as to allow the body to create.” Il cerchio è libertà, vuoto, unità ed infinito: il punto più vicino a Klein raggiunto dall'arte del Novecento. Il cerchio che domina sullo sfondo monocromatico collega la tradizione Zen con la novità della contemporaneità, creando una rappresentazione che al contempo con la propria presenza dà vita ad una finestra sull'immateriale e sull'indefinita infinità avvolgente del colore. Perché “I colori sono i veri abitanti dello spazio”. Bibliografia - Yves Klein / Verso l'immateriale dell'arte / O barra O edizioni - Antonin Artaud / Van Gogh il suicidato dalla società / Adelphi - Gilles Deleuze / Che cos'è l'atto di creazione? / Cronopio - G. Deleuze, F. Guattari / L'anti-Edipo / Einaudi - N. Abbagnano, G. Fornero / La filosofia / Pearson Paravia - wikipedia.org - youtube.com / La rivoluzione (Deleuze) / youtube.com/watch?v=Y51Rxv4VvVE - sothebys.com / Jiro Yoshihara / sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2016/moderncontemporary-asian-art-evening-sale-hk0628/lot.1002.html - moma.org / moma.org/collection/works/78976 - The Chelsea Hotel Manifesto / http://www.ikb2002.altervista.org/scritti/scritti1.htm Leap into the Void, 5, rue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses, France, october 1960. The title of this work by Yves Klein, according to his newspaper Dimanche 27 novembre 1960, is: ''A man in the Space ! The painter of the Space throws himself into the Void!'', 1960. Artistic action by Yves Klein. Photo Harry Shunk-John Kender. Yoshihara Jiro (1905 – 1972), WORK, executed circa 1964, oil on canvas, 61 by 73.1 cm; 24 by 28¾ in. Yves Klein, Monochrome bleu sans titre (IKB 171), ca. 1960, 62 x 50 cm Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1963, Oil on canvas, 60 x 60" (152.4 x 152.4 cm) La Spécialisation de la sensibilité à l’état matière première en sensibilité picturale stabilisée. Galerie Iris Clert, Paris, April 28 - May 12, 1958.