Il campo
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Il campo
Il campo Proprio in quanto racchiusa da una cornice immaginaria l’inquadratura è definibile sulla base di un doppio criterio spaziale: il campo e il fuori campo. Il campo è lo spazio visibile inquadrato dalla macchina da presa, mentre il fuori campo è tutto ciò che sta ai lati dell’inquadratura e non si vede, ma fa ugualmente parte dell’ambiente di cui quell’inquadratura è una porzione.. Campo e fuori campo sono spesso in un rapporto di reversibilità: è infatti sufficiente un movimento di macchina o un effetto di montaggio per esplicitare il fuori campo, per metterlo in campo, e per relegare nel fuori campo ciò che prima era in campo. Compito della narrazione filmica è anche quello di mettere in comunicazione e di rendere reversibili questi due spazi. Lo spazio fuori campo è suddivisibile in sei diverse aree: quattro che stanno ai lati dell’inquadratura (a destra, a sinistra, in alto e in basso), una che è oltre la scenografia e un’ultima che sta dietro la macchina da presa. Diversi sono i modi con i quali rendere lo spettatore consapevole dell’esistenza del fuori campo. Il primo di essi è quello delle entrate e uscite di campo. Un personaggio che entra in campo non arriva chiaramente dal nulla, bensì da uno spazio contiguo che noi non vediamo ma che fa parte della scena. Un secondo modo di esplicitare il fuori campo è quello che passa attraverso lo sguardo del personaggio verso un determinato punto del fuori campo. Lo sguardo indica qualcosa di esterno e lontano e esplicita immediatamente l’esistenza di ciò che allo spettatore non è dato di vedere. Un altro modo è quello di ricorrere al cosiddetto suono-off. La voce di un personaggio o la musica di una radio possono infatti essere uditi dallo spettatore senza che le immagini ci mostrino l’uomo che parla o la radio accesa. Il fuori campo va inoltre distinto in fuori campo attivo e passivo. Il fuori campo attivo è quello in cui ciò che vediamo o ciò che sentiamo ci spinge a porci delle domande concrete (Che cosa sta succedendo? Che cosa sta guardando quel personaggio? Che cosa è quel rumore?). Il fuori campo passivo è invece quello in cui, ad esempio, il suono crea un ambiente che avvolge l’immagine, la contestualizza, senza però suGianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) scitare nessuna domanda, nessuna ipotesi, nessun desiderio di andare a vedere. Altre due distinzioni essenzialil sono il fuori campo esterno, che è tutto quanto esposto finora, e il fuori campo interno. Possiamo intendere con questa seconda definizione quel fuori campo che è sotto un certo aspetto « in campo » perché interno all’inquadratura,ma celato allo sguardo dello spettatore da un elemento profilmico (una tenda, un oggetto, un personaggio) che, per un certo tempo, lo nasconde. Nella sequenza tratta da Psyco di Alfred Hitchcock si vede il detective entrare nella casa di Norman Bates, guardarsi intorno e poi salire lentamente la scala che conduce al piano superiore, dove una porta si socchiude lasciando trapelare una lama di luce sul pavimento. È qui che il fuori campo – presente fin dall’inizio della scena (infatti non si vede mai l’ambiente nella sua totalità) – assume il suo valore drammatico preannunciando la catastrofe. A questo punto Hitchcock può inquadrare dall’alto la casa nel suo insieme e sorprenderci con l’entrata in campo dell’assassino armato di coltello. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il dolly Nelle riprese con il dolly, attraverso il quale si possono effettuare movimenti di macchina più complessi (in inglese travelling), la macchina da presa è posta su un braccio mobile collocato sulla piattaforma di una gru su ruote, che può raggiungere diverse altezze e può muoversi a piacimento in avanti, indietro, in modo orizzontale o obliquo. In questo modo si possono unire diversi movimenti di macchina, come la panoramica e la carrellata, con il movimento di salita o discesa della cinepresa. In anni più recenti nuove appracchiature sono state predisposte per rendere più agevoli le tecniche di ripresa dinamiche. Una di queste è la steadicam (abbreviazione di steady camera), messa a punto negli anni Settanta dall’operatore Garret Brown, In sostanza la steadicam è un’intelaiatura dotata di un sistema di ammortizzatori, indossata direttamente dall’operatore, e su cui viene fissata un’apposita macchina da presa. Essa consente di mantener la stabilità dell’immagine indipendentemente dai movimenti dell’operatore, il quale, ad esempio, può correre, salire o scendere le scale, fermarsi all’improvviso senza provocare il benché minimo sobbalzo della cinepresa. Un’altra apparecchiatura che si è imposta a partire dagli anni Settanta, è la louma, un braccio meccanico in grado i spostare in qualsiasi direzione, sino a un’altezza di sette metri, una cinepresa qualsiasi che, tuttavia, non pesi più di diciassette chilogrammi. Con la louma l’operatore non è più vicino alla macchina da presa, ma se ne rimane tranquillamente a terra, controlland ole operazioni attraverso uno schermo video. Nella sequenza proposta, tratta da Quarto potere di Orson Welles, il dolly parte dal manifesto di uno show del personaggio femminile appeso sul muro di un locale, sale fino alla finestra e (grazie a una sovrapposizione d’immagini) entra dentro il locale e scende fino al tavolo a cui la donna è seduta sola e triste. Legando in un unico movimento l’immagine della star e quella della donna privata si può cogliere ancora di più la distanza e la differenza tra il mondo dello spettacolo e la vita reale. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) La carrellata La carrellata è un movimento di macchina prodotto dallo scorrimento della macchina da presa su ruote, binari o su un veicolo con penumatici (camera car) appositamente predisposti. Differentemente da qual che accade nella panoramica, qui è la macchina da presa tutta a spostarsi nello spazio. Il carrello può scorrere orizzontalmente o in profondità, può accompagnare lateralmente, precedere o seguire un corpo in movimento. Con l’espressione carrellata aerea si intendono quelle riprese fatte con l’ausilio diun aeroplano o di un elicottero. Se il movimento di macchina è rapportato a quello di un personaggio – o di un oggetto in movimento – si parlerà di carrello laterale, quando la macchina da presa si muove parallelamente al personaggio e lo riprende di profilo, di carrello a precedere, quando la macchina precede il personaggio inquadrandolo frontalmente e di carrello a seguire quando invece la macchina lo segue inquadrandolo di spalle. Nella sequenza di La grande guerra di Mario Monicelli il punto di vista mobile è costruito secondo una leggera prospettiva diagonale che consente di esprimere il carattere collettivo dell’azione bellica in corso, mentre la durata dell’inquadratura concorre a esprimere un certo effetto di realtà. La posizione della macchina da presa, che anticipa leggermente i due protagonisti, ha il compito di suggerire l’obbligatorietà del loro percorso, ma anche la preoccupazione che muove i loro passi. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Riprese con la macchina a mano Nelle riprese con la macchina a mano la macchina da presa è tenuta dall’operatore tra le mani o appoggiata sulle spalle. Il movimento della macchina non ha così più la fluidità tipica di un carrello, di una panoramica, di un travelling, ma al contrario procede a sbalzi e scossoni, in modo discontinuo e irregolare. Questo tipo di movimento, presente in molti film di reportage, diventa comune nella seconda metà degli anni Cinquanta, col diffondersi del cinéma-verité che lo imponega per da vita a un rapporto più diretto e immediato conla realtà. Presto, tuttavia, questa modalità si diffuse anche nel cinema di finzione (ora largamente diffusa con l’avvento delle videocamere) col compito di rinviare a un punto di vista soggettivo o all’esplicitazione della presenza della macchina da presa. Se ne rinviene un uso frequente in scene caratterizzate da una particolare concitazione (azioni di guerra, rizze, manifestazioni ecc.)o in certe soggettive. Come si vede nella sequenza tratta da Il figlio di Jean-Pierre e Luc Dardenne, la macchina da presa sta addosso ai personaggi, li segue passo dopo passo andando da uno all’altro, dichiara la propria presenza, ma al tempo stesso fa credere allo spettatore di essere presente in prima persona all’interno della scena. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) L’inquadratura Un’inquadratura può essere definita non solo a partire dalla sua distanza, altezza e angolazione in rapporto al rappresentato, dal suo rinviare o meno a uno spazio fuori campo, dal suo caratterizzarsi come oggettiva e soggettiva ma anche dal suo essere statica o dinamica, indipendentemente da ciò che accade sul piano del profilmico. A determinare la dinamicità sono, a un primo livello, i movimenti di macchina. È attraverso essi che noi spettatori abbiamo l’impressione di muoverci nello spazio rappresentato. Un’inquadratura dinamica si articola in più quadri mutando nel corso della durata, i rapporti di distanza, altezza, e angolazione della macchina da presa. I movimenti di macchina aumentano così le nostre informazioni sullo spazio rappresentato, danno ai soggetti e alla loro posizione una dimensione più vivida e definita, ne sottolineano la natura tridimensionale. La panoramica è un movimento di macchina realizzato con la cinecamera fissata su un perno che permette movimenti solo sull’asse stesso della macchina da presa: lo spazio della scena viene esplorato quindi con traiettorie orizzontali, verticali e rotatorie. Un tipo di panoramica molto particolare è quella a 360°, dove la macchina da presa esplora tutto lo spazio circostante a partire dalla posizione in cui essa si trova per ritornare laddove il movimento era iniziato. Tuttavia essa presenta nonpochi problemi di realizzazione dato che rischia di metter in campo quel fuori campo proibito che è la produzione del film. Nella celeberrima sequenza di Ombre rosse di John Ford la panoramica consente allo spettatore di scoprire, prima dei protagonisti che viaggiano sulla diligenza, la presenza minacciosa degli indiani appostati sulle colline. Il carattere fulmineo del movimento ha la funzione di accrescere l’aspetto della sorpresa, anche per sottolineare la drammaticità della situazione. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Lo zoom Lo zoom è una carrellata ottica, vale a dire un’azione sull’obiettivo che consente di ottenere un’impressione di allontanamento o di avvicinamento rispetto al centro dell’immagine. Non si tratta, dunque, di un vero e proprio movimento di macchina, poiché la cinepresa è ferma e il movimento è dato dalla variazione della lunghezza focale. La differenza che esiste, sul piano della rappresentazione dello spazio, fra un carrello e uno zoom è che con il movimento di macchina vero e proprio gli oggetti statici, disposti su più piani, guadagnano, nell’avvicinarsi della macchina da presa, volume e solidità e che lo sfondo si dà con una certa profondità. Al contrario, l’immagine proposta dallo zoom dà degli oggetti, dello sfondo e dello spazio in generale, una rappresentazione più appiattita e artificiale. In questa sequenza de Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah – in cui i quattro protagonisti reagiscono all’uccisione di un loro compagno da parte dello spietato generale Mapache – gli zoom hanno la duplice funzione di sottolineare le intenzioni dei personaggi, ormai determinati a sparare, e di indicare con certezza la scelta del loro primo obiettivo. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il colore Già all’inizio del Novecento Méliès interviene sulla pellicola in bianco e nero e la colora a mano, fotogramma per fotogramma, e negli anni Dieci alcune macchine permettono il viraggio del film in due tonalità, ma è soltanto negli anni Trenta che la pellicola sarà in grado di riprodurre tutto il prisma dei colori naturali L’avvento del colore fu pensato inizialmente come un accrescimento delle potenzialità realistiche del cinema. Tuttavia, anche a causa del tipo di pellicola vergine usata, i vividi colori degli anni Cinquanta ben poco avevano a che vedere con quelli della realtà. Più che un effetto di realismo il colore si caratterizzò inizialmente per la sua natura decorativa e spettacolare. Non a caso esso fu privilegiato da certi generi come il musical, cinema dell’immaginario per eccellenza o il western, che vedeva così esaltati i suoi grandiosi paesaggi. Sarà il perfezionamento delle sue qualità tecniche a determinare, negli anni Sessanta, l’affermarsi del colore anche nel cinema d’autore. Il colore, come la luce, ha un ruolo di primo piano nella costruzione dell’immagine e può attrarre l’attenzione dello spettatore su un particolare piuttosto che un altro, così come può suggerire determinate emozioni e significati. È noto come i colori chiari attirino lo sguardo più di quelli scuri, come i toni caldi (rosso-arancione-giallo) ci attraggano maggiormente di quanto non facciano quelli freddi (dal viola al verde). Una macchia di colore rossa in un’inquadratura dominata da tonalità fredde cattura immediatamente lo sguardo dello spettatore, imponendo così una lettura dell’immagine ben determinata. Nell’esempio proposto, tratto da Film Rosso di Krzysztof Kieslowski, si può notare come, sia in strada sia nell’appartamento, gli unici elementi colorati sono rossi, mentre il resto dell’ambiente è di una tonalità genericamente scura e indistinta. In questo caso il colore diventa il simbolo dell’amore tra la protagonista e il suo amante con cui parla al telefono: la rappresentazione visiva di un sentimento che è più forte di ogni altra cosa. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio proibito Il montaggio proibito – messo in pratica soprattutto a partire dal cinema di Orson Welles e dal neorealismo – consiste nel raccontare una scena dall’inizio alla fine in un’unica inquadratura detta piano sequenza, senza stacchi di ripresa, mantenendo così inalterata nel film l’unità spazio-temporale della realtà, come in una sorta di ripresa in diretta. Teorizzato dal critico francese André Bazin, il « montaggio proibito » si oppone al découpage classico e al modello ejzenstejniano che, in modi diversi, decidono cosa mostrare allo spettatore, come mostrarlo, per quanto tempo e in che ordine. La strada che secondo Bazin il cinema deve seguire è quella della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica ed evenemenziale, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale. Affiorano così due modalità espressive di importanza primaria nell’ambito dei parametri che costituiscono il linguaggio cinematografico: la profondità di campo e il piano sequenza. Su un piano strettamente fotografico un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco. Essa sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo sarà vicino all’obiettivo. Per messa in scena in profondità si intende la disposizione di oggetti e personaggi su più piani e il loro reciproco interagire. Per il teorico francese la profondità di campo pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che egli ha con la realtà. Di fronte ad essa, lo spettatore è sollecitato a dare un proprio contributo, è invitato a fare da sé il proprio découpage. Il piano sequenza è un piano che da solo svolge le funzioni di sequenza o scena. Rappresenta un evento o una serie di eventi, potremmo dire un episodio, caratterizzati da una relativa autonomia nel contesto narrativo complessivo di un film ed è l’equivalente di una somma di inquadrature su cui si articola una sequenza. In sostanza la profondità di campo e il piano sequenza nel mantenere la continuità spazio-temporale della realtà non più spezzettata dalla successione delle inquadrature, determinano un maggiore realismo. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Lo spazio non è più temporalizzato e frammentato bensì è rappresentato per blocchi unitari e, proprio come davanti alla realtà, è lo spettatore a doverne cogliere gli elementi significanti. Schematizzando si può arrivare a dire che un’inquadratura di un film a découpage classico ha uno e un solo significato, mentre un piano sequenza o un’inquadratura in profondità presenta, tutti insieme, più significati. Nella sequenza, tratta da L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, il piano sequenza si riduce a un’inquadratura fissa sui due protagonisti seduti contro un muro del velodromo, mentre tra essi e l’obiettivo della macchina da presa si vedono le gambe della gente che passa loro davanti, così il regista concentra l’attenzione sui personaggi dichiarando in modo semplice e lieve la complicità che sta nascendo tra i due. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio Il montaggio è quell’operazione che, tecnicamente, consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva (tali passaggi sono chiamati « stacchi », nel caso in cui vi sia soluzione di continuità tra le due inquadrature, oppure « raccordi », quando prevale un senso di fluidità nella relazione). Ma unire tra loro due inquadrature è ben più che una mera operazione tecnica: significa dar vita a un rapporto tra le immagini che esprime, al tempo stesso, il senso e il ritmo del film. Il montaggio, infatti, è quella pratica che consente di determinare l’ordine e la durata delle inquadrature secondo logiche di tipo narrativo, estetico e di significato. Il montaggio è stato per lungo tempo considerato l’elemento specifico del linguaggio cinematografico, la sua quintessenza, per il fatto di essere lo strumento attraverso cui più immagini vengono messe in relazione. Le tipologie di montaggio sono diverse e a ciascuna di esse, all’origine, corrispondeva una differente concezione del cinema. In un film contemporaneo, tuttavia, possono coesistere tipologie di montaggio molto diverse tra loro. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il piano americano Il piano americano indica quel tipo di inquadratura in cui la figura umana risulta essere tagliata all’altezza del ginocchio. Tale modalità di sguardo venne introdotta alle origini del cinema nell’ambito del genere western, in maniera tale da permettere allo spettatore di vedere le fondine contenenti le pistole. Nella sequenza tratta da Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah i quattro protagonisti interrompono la loro camminata giunti al cospetto del perfido generale Mapache e dei suoi tagliagole, a cui chiedono la liberazione di un compagno. In questo caso il piano americano suggerisce esplicitamente le intenzioni dei gringos, che per raggiungere il loro scopo sono decisamente pronti a usare le armi. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) L’angolazione L’angolazione definisce il punto di vista con cui la macchina da presa riprende la scena. Normalmente la ripresa è effettuata ad altezza del l’occhio umano, di fronte o di lato, ma può anche essere obliqua oppure perpendicolare, dal basso verso l’alto e viceversa. Dal modo in cui la macchina da presa inquadra il personaggio si possono ottenere nello spettatore effetti emotivi diversi. A partire quindi da un ipotetico piano base dove la cinecamera è posta frontalmente rispetto all’asse verticale e orizzontale del soggetto ripreso e si trova alla sua stessa altezza, è possibile derivare una pressoché infinita serie di posizioni che corrispondono ai diversi punti dello spazio lungo gli assi orizzontali (destra/sinistra), verticale (alto/ basso) e in profondità (davanti/dietro). Ogni mutazione del punto di vista rispetto al piano di base è già l’esplicito segno del lavoro di un’istanza narrante che mira a conferire un particolare valore all’oggetto rappresentato. Dal piano base si possono definire per differenza altri tipi di inquadratura in conseguenza, innanzitutto, della loro angolazione. Avrò allora i seguenti tipi di piani: dal basso, dall’alto, da destra, da sinistra. Si deve poi tener conto anche delle inclinazioni oblique, quelle in cui la base dell’immagine non è parallela all’orizzonte della realtà inquadrata. Infine si deve tener presente di come pur rimanendo perpendicolare al piano terra ripreso la cinecamera possa tuttavia collocarsi più in alto o più in basso del soggetto ripreso, alla sua destra o alla sua sinistra.. Inoltre quando si parla di angolazione si finisce sempre col mettere a confronto le inquadrature angolate dal basso con quelle che, invece, lo sono dall’alto. Le prima, come è noto, tendono a conferire un carattere di potenza, superiorità, esaltazione, minacciosità al rappresentato, mentre le seconde tendono a enunciare una dimensione di debolezza, soggezione, costrizione. Nella sequenza tratta da Pulp Fiction di Quentin Tarantino, la cinepresa è sistemata nel bagagliaio dell’automobile e la scena è compresa tra l’apertura e la chiusura del cofano. I due protagonisti sono inquadrati dal basso verso l’alto: prendono le pistole e intanto parlano di quello che stanno per fare e che sarebbe stato meglio avere dei fuciGianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) li. Scegliendo questa angolazione, Tarantino sottolinea l’importanza dei due gangster, ma suggerisce anche la precarietà della loro vita che da un momento all’altro può terminare dentro il bagagliaio di un’auto. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) L’inquadratura Un film è fatto di immagini in movimento che prendono il nome di inquadrature. L’inquadratura è l’unità base del discorso filmico e può essere definita come una rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo. Spazialmente l’inquadratura è costituita dalla porzione di realtà rappresentata da un certo punto di vista e delimitata da una cornice ideale costituita dai quattro bordi dell’inquadratura stessa, temporalmente dalla durata compresa fra il suo inizio, che segue la fine dell’inquadratura precedente, e la sua fine, che precede l’inizio dell’inquadratura seguente. Il cinema delle origini si caratterizzava per la costruzione di uno spazio filmico assai simile a quello teatrale, così come questo era percepito da uno spettatore seduto in una posizione ideale. Questi film erano formati da un’unica inquadratura con la cinepresa fissa, quasi sempre posta in posizione frontale al centro dell’immagine. Siamo di fronte a quello che è possibile definire il grado zero del linguaggio cinematografico, ovvero il semplice darsi di quelle condizioni minime affinché un film possa esistere, ma nulla più. L’inquadratura rappresenta dunque l’unità di misura del linguaggio cinematografico: il numero delle inquadrature contenute in un film è estremamente variabile e va dalla singola unità caratterizzante le opere delle origini alle diverse migliaia presenti in un film d’azione contemporaneo. Ogni inquadratura è sempre il risultato di scelte relative a due livelli. Il primo è quello del profilmico, ovvero di tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa, che è lì appositamente per essere filmato e fa concretamente parte della storia narrata (ambienti, personaggi, oggetti). La nozione di profilmico è connessa a quella di messa in scena. Il termine, di provenienza francese, indica il lavoro di organizzazione, da parte del regista, dei materiali di ogni inquadratura. Il secondo livello che determina le caratteristiche di un’inquadratura è quello filmico, che concerne il piano discorsivo propriamente detto, il linguaggio del cinema, o, più semplicemente, i modi in cui vengono rappresentati gli elementi profilmici. Sono qui in gioco codici più propriamente cinematografici come l’angolazione e la distanza, la dialettica di campo e Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) fuori campo, quella di piani oggettivi e soggettivi, l’uso o meno di movimenti della cinepresa ecc. Ogni inquadratura ci mostra dunque qualcosa e ce lo mostra in un determinato modo. Il termine inquadratura non va confuso con « campo » che è la porzione di spazio che in essa è racchiusa e « piano », cioè le parti della figura umana che vengono mostrate L’espressione « scala dei campi e dei piani » indica appunto queste diverse possibilità di ripresa. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) La luce La luce ha un ruolo fondamentale nei processi di rappresentazione e di coinvolgimento emotivo dello spettatore e agisce in tre modi: ha un valore simbolico e metaforico, serve a individuare il centro dell’attenzione all’interno dell’inquadratura, permette a ogni immagine di essere chiara e leggibile. Illuminare uno spazio non è quindi solo dargli luce sufficiente ma è soprattutto organizzarlo, dargli una struttura, imporre un certotipo di lettura alla quale lo spettatore non può e non deve sottrarsi. Attraverso il gioco delle luci e delle ombre, dei chiari e degli scuri, del colore, lo spazio cinematografico acquista senso, si drammatizza, diventa parte integrante e costitutiva della narrazione stessa. La luce può essere intradiegetica o extradiegetica. Con la prima si intendono tutte le fonti di luce che fanno parte della scena (lampadine, fuochi,candele ecc.). Con la seconda invece si intende l’illuminazione prodotta da riflettori e superfici riflettenti che esistono solo nella realtà produttiva del film e che non possono essere mostrati dalla macchina da presa. Tuttavia sono proprio gli effetti di questa luce extradiegetica a entrare nella diegesi del film e a determinarne la natura. Funzione della luce dietetica è così a volte quella di giustificare tali effetti. Il volto di un personaggio è fortemente illuminato in un ambiente oscuro affinché lo spettatore possa concentrarsi sulla sua espressione. Causa di questa illuminazione sarà uno studiato gioco di luci creato a livello extradiegetico; ma per rendere credibile l’effetto risultante si potrà ricorrere a qualche elemento diegetico come, ad esempio, una candela fra le mani del personaggio, una lampada posta al suo fianco, la luce della luna che filtra attraverso una finestra ecc. Le caratteristiche fondamentali della luce sono quattro: qualità (illuminazione contrastata o diffusa), direzione (luce frontale, laterale, controluce, dal basso e dall’alto), sorgente (key light o fonte di luce primaria, full light che serve a « riempire » l’immagine per attenuale le ombre create dalla keylight) e colore (con l’uso di filtri posto davanti ai riflettori). Esempio emblematico dell’uso della luce è la sequenza di Nosferatu di Friedrich Murnau, in cui l’ombra del vampiro sul muro risveGianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) glia la donna avvolta in uno spazio immacolato, per poi materializzarsi in carne e ossa e sparire nell’arco di una porta che si chiude, mentre le braccia di lei si protendono in avanti, legando così Nosferatu alla donna che sarà sua vittima come se fossero nello stesso luogo, e suggerendo in questo modo un destino comune e fatale. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) La figura intera La figura intera, inquadratura nella quale la figura umana occupa un’altezza pari a due terzi o più dell’altezza dell’immagine ripresa, è la prima di quelle inquadrature che mettono il personaggio al centro della scena, affermandone la superiorità rispetto allo spazio in cui si trova. Nella sequenza proposta, tratta da Il pianista di Roman Polanski, il protagonista viene portato da un amico in un appartamento disabitato che sarà il suo primo nascondiglio. I due uomini entrano in casa, l’amico esce di campo e il pianista rimane solo, al centro del salotto, con alla parete un pianoforte che lui non può più suonare. L’immagine così composta, con quel corpo fermo in mezzo a una stanza in disuso, rappresenta perfettamente il vuoto esistenziale in cui il nostro protagonista si trova. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il campo lungo Il campo lungo è un’inquadratura in cui le figure umane o gli oggetti si trovano a una notevole distanza, ma non abbastanza da impedire allo spettatore di definirne l’identità e la sua funzione è principalmente di tipo descrittivo. I campi lunghi sono spesso utilizzati nelle riprese in ambienti esterni per ovvie ragioni legate alle dimensioni della scena. Il campo lungo è una figura ricorrente nel cinema western che rappresenta spesso una realtà in cui l’uomo è parte integrante della natura stessa e instaura con essa un rapporto ben diverso da quello venutosi a costituire con l’avvento della società industriale. Inoltre nel suo carattere di genere, che esalta e magnifica i grandi spazi dell’America, il western non poteva non trovare nei campi lunghi e lunghissimi un modello di rappresentazione quasi ideale. Il campo lungo ha trovato altresì nella tradizione cinematografica un utilizzo privilegiato anche in rapporto a un’espressività classica: la predominanza dell’ambiente sul personaggio, ridotto a una minuscola silhouette, ha finito molte volte col voler significare una sua condizione di impotenza, solitudine, oppressione che esprimono con intensità un certo rapporto fra uomo e ambiente. Nel caso della sequenza tratta da Il Gattopardo di Luchino Visconti – in cui il principe Fabrizio e la sua famiglia fuggono da Palermo per recarsi alla residenza estiva sulle montagne – i campi lunghi proiettano i protagonisti del viaggio in una dimensione quasi epica. Ridotti a macchie sull’orizzonte, i rappresentanti di quella classe nobiliare che uscirà ridimensionata dagli eventi risorgimentali appaiono agli occhi dello spettatore come autentiche sopravvivenze del passato. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il campo medio Il campo medio indica quel tipo di inquadratura in cui la figura umana si estende per circa un terzo dell’altezza dell’inquadratura stessa ed è un tipo di inquadratura che ripropone un punto di vista abbastanza simile a quello dello spettatore teatrale che era dominante alle origini del cinema. Solitamente un campo medio consente di esprimere il rapporto tra i personaggi e lo spazio circostante, sia esso naturale o architettonico. Nella sequenza iniziale del film Yaaba di Idrissa Ouedraogo vengono presentati i due piccoli protagonisti accanto alla tomba della madre scomparsa prematuramente. Le loro sottili figure sembrano appartenere al paesaggio in cui sono immersi, costituito da arbusti e giovani alberi. Accanto al tumulo, i loro gesti e le loro preghiere paiono rivolti direttamente alla terra e agli elementi naturali. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il campo totale Il campo totale è quel tipo di inquadratura. che permette di rappresentare per intero, o quasi, un ambiente – un interno o un esterno circoscritto – e di mettere in campo tutti i personaggi che prendono parte alla sequenza rappresentata. In conseguenza al suo carattere principalmente informativo il campo totale è un tipo di inquadratura che gioca un ruolo essenziale all’interno della comunicazione narrativa filmica e, solitamente, è posto all’inizio o alla fine della scena (raramente tra questi due estremi). La prospettiva di sguardo che propone viene mantenuta anche nelle altre inquadrature ad esso collegate in modo da esprimere una continuità visiva allo spettatore. Nel caso della sequenza tratta da Fanny e Alexander di Ingmar Bergman i due personaggi si trovano a godere delle comodità di un salottino, sprofondati sul divano con il conforto di una tazza di tè. Il piano ravvicinato che segue il campo totale suggerisce l’intimità che viene a crearsi tra loro in modo assolutamente naturale. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il primissimo piano Il primissimo piano è l’inquadratura che afferma – con la figura intera, il piano americano, la mezza figura, il primo piano e il particolare, ma in maniera più estrema rispetto a queste – la centralità del personaggio e il suo predominio rispetto all’ambiente in cui si trova. Con il primissimo piano è come se lo spettatore entrasse direttamente nel corpo del personaggio, vivendo insieme a lui le emozioni che traspaiono dal suo volto Nella sequenza tratta da Zero in condotta di Jean Vigo, all’arrivo nella stazione per il rientro in collegio, uno dei ragazzi indica l’istitutore, che viene ripreso in primo piano per accentuare la sua espressione dura e severa, dopodiché la macchina da presa inquadra tre ragazzi in primissimo piano che si scambiano l’un l’altro un occhiolino d’intesa, dimostrando così di far parte di un gruppo a sé, solidale e unito. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il primo piano Il primo piano è l’inquadratura ravvicinata di un volto, la ripresa è tagliata all’altezza delle spalle. Se allo spettatore contemporaneo il primo piano appare come una delle soluzioni espressive più familiari del linguaggio cinematografico, non era così per lo spettatore dei primi anni del cinema. Dal momento che in teatro, come nella realtà, il corpo umano mantiene costanti le sue proporzion per tutta la durata dello spettacolo ingigantire all’improvviso una parte del corpo dell’attore tramite un piano ravvicinato e mostrarla « staccata » dal resto era considerato come qualcosa che avrebbe infastidito lo spettatore distraendolo dalla proiezione e allontanandolo da quell’illusione di realtà che giocava allora un ruolo di rilievo nel rapporto tra il film e il suo spettatore. È del resto significativo che a quell’epoca quelli che oggi noi chiamiamo primi piani venissero definiti « teste tagliate » ed è curioso notare come le prime apparizioni di « volti ingranditi » avvenissero spesso nell’ambito di film esplicitamente fantastici, come a dire che i primi piani erano possibili solo nei mondi dell’impossibile. Nel primo piano il volto dell’uomo diventa uno spazio di frontiera ai confini tra mondo esterno e mondo interno, una mappa di segni che lo spettatore deve decifrare per poter cogliere un sentimento, uno stato d’animo, un tratto caratteriale. Il primo piano è in sostanza il tentativo del cinema di rappresentare l’essere di un personaggio attraverso le sole immagini. Nella celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, l’inquietante dottor Hannibal Lecter, detto « The Cannibal », viene portato al cospetto di un senatore che vorrebbe convincerlo a collaborare nella soluzione di un caso che sta tenendo con il fiato sospeso l’intero Paese. Spesso utilizzato nelle scene in cui ha luogo un serrato confronto psicologico tra i personaggi, qui il primo piano ha soprattutto la funzione di attribuire al dottor Lecter un portato di ulteriore mostruosità, espresso dalla presenza della maschera di gomma. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) La mezza figura Con il termine mezza figura si indica un’inquadratura in cui il personaggio viene ripreso dalla vita in su. Si tratta della modalità di sguardo ideale con cui si stabilisce l’arricchimento reciproco dal punto di vista del significato tra il personaggio e il paesaggio circostante. Nella sequenza tratta da Io non ho paura di Gabriele Salvatores il piccolo Filippo viene liberato dal generoso Michele, suo nuovo amico. Nella seconda parte del frammento narrativo l’uso ripetuto della mezza figura indica lo stato d’animo della piccola vittima del sequestro, che si trova improvvisamente proiettato nello spazio dorato di un campo di grano, dove il carattere cromatico intenso delle spighe indica con evidenza il recupero di una dimensione di innocenza e spensieratezza da parte del personaggio. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il particolare Il particolare è l’inquadratura ravvicinata di una parte del corpo, mentre il dettaglio è l’inquadratura ravvicinata di un oggetto. In questa sequenza di Cuore selvaggio di David Lynch la giovane coppia formata da Sailor e Lula si sta abbigliando per una serata da trascorrere fuori a divertirsi. Ciascuno dei personaggi si prepara per l’occasione: attraverso la ripresa che si stringe sugli stivali di pitone di lui e sulle dita smaltate di lei, oltre che sugli oggetti che utilizzano con grande abilità e precisione rispettivamente per lucidare gli stivali e per smaltare le unghie, il regista sottolinea come la cura della propria immagine costituisca l’elemento decisivo della loro personalità. Sailor e Lula sono personaggi che comunicano più attraverso il corpo che non con le loro menti. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio connotativo Il montaggio connotativo, anche detto « montaggio delle attrazioni » secondo la formula di Sergej Ejzenstein, è il libero montaggio di azioni arbitrariamente scelte e autonome ma dotate di un preciso orientamento verso un determinato effetto tematico finale, ed finalizzato non tanto alla descrizione narrativa di un evento, quanto alla stimolazione nello spettatore di una risposta emotiva, intellettuale o ideologica, per cui le immagini assumono un significato ulteriore rispetto alla semplice esposizione dei fatti. Per Ejzenstein la riproduzione filmica della realtà non ha in sé alcun particolare interesse. Ciò che conta è il senso che di essa si cattura attraverso la sua interpretazione. Il cinema non può quindi limitarsi a riprodurre il reale ma deve interpretarlo, costituendosi così come un discorso articolato. Il montaggio è proprio lo strumento col quale arrivare a questa interpretazione, costruire questo discorso. Alla base dell’intera concezione ejzenstejniana del montaggio c’è il conflitto, la « collisione » tra due inquadrature che si trovano l’una accanto all’altra. Quindi mentre il découpage classico è un montaggio fondato sulla continuità, che deve farsi invisibile e subordinarsi alla chiarezza espositiva, quello ejzenstjniano è un montaggio che si struttura sulla base del conflitto, che si dà in tutta evidenza e il cui fine principale è proprio quello della significazione. Nella sequenza, tratta da La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenstein, dopo alcune immagini di cannoni, esplosioni e palazzi che crollano, si vedono in rapida successione tre brevi inquadrature di un leone di pietra in diverse posizioni che danno l’effetto di un leone vero che si alza combattivo, come di lì a poco il popolo di Odessa si rivolterà contro le autorità dispotiche. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio discontinuo Il montaggio discontinuo attraverso modalità di rappresentazione che, sia sul piano dello spazio sia su quello del tempo trasgrediscono le regole del découpage classico (secondo le quali il passaggio da un’inquadratura all’altra deve avvenire secondo i codici della continuità spazio-temporale) testimonia la possibilità di raccontare una storia utilizzando raccordi innaturali tra un’immagine e l’altra, inserendo riprese da punti di vista non previsti, salti temporali e spaziali tra un momento e l’altro dell’azione. Un modo di dar vita a forme di discontinuità spaziale è quello della violazione del sistema a 180°. Alcuni registi, piuttosto che pensare a uno spazio diviso in due e collocare la propria macchina da presa nell’ambito del semicerchio delimitato da quella che è la linea dell’azione principale, danno vita a un sistema di rappresentazione dello spazio non più a 180° bensì a 360°, nell’ambito del quale sistemano liberamente la loro cinepresa. Un secondo modo di dar vita a forme di discontinuità spaziale è rappresentato dal jump cut o falso raccordo che nasconde almeno due diverse forme di raccordi « irregolari ». Il primo è quello che altera quel principio del cinema classico che vuole che due inquadrature consecutive di uno stesso personaggio o oggetto siano sufficientemente differenziate sul piano dell’angolazione (almeno 30°) e della distanza, in modo che la nuova inquadratura abbia sufficiente autonoma. Il secondo è quello in cui più piani di uno stesso personaggio si succedono mostrandocelo in luoghi e tempi diversi. Il montaggio assume così una discontinuità sia sul piano spaziale (improvviso e immotivato passaggio da un luogo a un altro), sia su quello temporale (improvviso e immotivato passaggio da un tempo a un altro attraverso l’uso del flashback o del flashforward, ovvero dell’anticipazione di ciò che avverrà). In un film classico due inquadrature di uno stesso personaggio in un luogo e in un tempo diverso verrebbero inframmezzate da un piano di transizione che avrebbe il compito di attenuare il salto spazio-temporale fra le due immagini. Di fronte a questi falsi raccordi lo spettatore non può che vivere – indipendentemente dal fatto che li riconosca o meno come tali – un senso di inquietudine, che nasce dal ritrovarsi Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) di fronte a modalità di rappresentazione estranee a quelli a cui il cinema classico lo ha abituato. Un caso esemplare è la sequenza proposta, tratta da Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, in cui l’omicidio del poliziotto è rappresentato secondo la libertà d’azione tipica del protagonista, con uno sguardo soggettivo che privilegia il dettaglio e il primo piano rispetto alla scena nella sua totalità, così da suggerire l’attitudine anarchica del personaggio. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio formale Il montaggio formale è un montaggio non sottomesso alle regole della narrazione e che a una logica spazio temporale preferisce accostare due inquadrature sulla base di qualità puramente grafiche e formaliche instaurano fra loro un rapporto di volumi, superfici, linee, punti al di là della natura concreta degli elementi rappresentati e che tuttavia siano anche portatrici di significato. Più queste forme di montaggio grafico motivano l’intera forma del film, o di una sua parte, più le esigenze narrative perderanno peso e il film acquisterà un valore di tipo prettamente formale. Analogia e contrasto sono evidentemente i due parametri su cui si costituiscono gli effetti di montaggio grafico. Un esempio emblematico è quello della sequenza tratta da 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, in cui assistiamo alla scoperta da parte della tribù delle scimmie della possibilità di usare gli oggetti (degli ossi) come armi. Quando il capo tribù getta in aria l’osso che brandiva in segno di minaccia, la macchina da presa segue il suo volteggiare e, con un’ellisse temporale fra le più celebri della storia del cinema, ci porta di colpo nel futuro mostrandoci un’astronave che vola nel cielo e che quasi ha la stessa forma dell’osso, a significare lo sviluppo di quella tecnica di cui abbiamo appena visto le origini e di cui ci apprestiamo a vedere le conseguenze (la conquista dello spazio). Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Il montaggio narrativo Il montaggio narrativo o découpage classico, detto anche analitico o « invisibile », nasce con il cinema hollywoodiano e ne contraddistingue la produzione dal 1917 al 1960. Ciò a cui in primo luogo questo cinema mirava era il dar vita a quello che possiamo definire uno spettatore inconsapevole, che scivolasse dolcemente nel mondo della finzione, si proiettasse nella vicenda narrata, si identificasse coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema e di assistere a uno spettacolo, finendo con confondere la realtà rappresentata sullo schermo con la realtà tout court. Si trattava dunque di utilizzare il montaggio ma di mascherarlo, di renderlo il più discreto possibile, di cancellarne le tracce. Ed è proprio questo tipo di montaggio che dà vita a ciò che si definisce comunemente cinema della trasparenza o montaggio invisibile. Ed è proprio questo tipo di montaggio che ha preso il nome di découpage classico.. In questo tipo di montaggio il passaggio da un’inquadratura A a un’inquadratura B deve avere una ragione, deve rappresentare chiaramente ciò che sta accadendo, deve mettere in rilievo gli snodi drammatici e psicologici dell’azione. La rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è quindi fortemente subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione: il passaggio a un piano ravvicinato servirà a mettere in evidenza un personaggio o un oggetto ogni qual volta lo sviluppo narrativo della sequenza in questione lo richieda, ogni ritorno a piani d’insieme sarà funzionale alla rappresentazione di ciò che ha modificato una certa situazione complessiva e di cui lo spettatore deve essere subito informato. Nel far ciò il montaggio deve anche essere invisibile. Ed è qui che affiora uno dei principi chiave del découpage classico,quello della continuità, i cui fine primario è di controllare la forza parzialmente disgregatrice del montaggio per dar vita a uno scorrevole flusso di immagini da un’inquadratura a un’altra e facilitare cosè la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione, il suo cullarsi nell’illusione della realtà, il suo vivere in prima persona i sentimenti vissuti dai personaggi. A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l’altro in maniera che ogni mutaGianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) mento di inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile. Fra i principali tipi di raccordo ricordiamo: il raccordo di sguardo (un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, l’inquadratura successiva ci mostra questo qualcosa); il raccordo sul movimento (un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda); il raccordo sull’asse (due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature); il raccordo sonoro (una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature legandole così fra loro). Come lo spazio anche il tempo è organizzato dal découpage classico in modo tale da subordinarlo allo sviluppo della narrazione e presentando gli eventi nel loro rodine cronologico, con l’unica sostanziale eccezione del flashback. Mostra quindi una sola volta quel che accade nella storia e non ricorre a estensioni temporali, privilegiando la continuità di tempo della storia e del racconto. Il découpage classico si fonda sulla necessità di uno spettatore inconsapevole che va aiutato nei suoi processi di scivolamento nella finzione, proiezione nel narrato e identificazione nei personaggi. Da qui l’uso di un montaggio invisibile che però sappia fondarsi sui presupporti della motivazione, della chiarezza e della drammaticità, come dimostra la sequenza tratta da Blade Runner di Ridley Scott, in cui la scena è raccontata introducendo i due personaggi con un totale che ci descrive lo spazio d’azione, per poi sottolineare il dialogo con l’alternanza dei primi piani (tale alternanza è definita « campo e controcampo » ovvero quel tipo di montaggio che mostra alternativamente due personaggi che dialogano o più in generale due elementi profilmici che stanno uno di fronte all’altro), in modo descrittivo e consequen ziale. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) Scala Quando si parla di scala dei campi e dei piani si intende la diversa possibilità di ogni inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza. Si dovrebbe in realtà parlare di – impressione di distanza – in quanto non è solo la posizione della macchina da presa ma anche la lunghezza focale dell’obiettivo prescelto che può determinare una rappresentazione più ravvicinata o distanziata. È evidente che maggiore è la distanza, maggiore è anche l’ampiezza del campo inquadrato. La scala dei campi e dei piani parte da inquadrature più ampie e distanziate per arrivare a piani più ristretti e ravvicinati. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa) La soggettiva La soggettiva è un’inquadratura che esprime il punto di vista di uno o più personaggi. Affinché possa essere definita tale, la soggettiva deve essere preceduta o seguita (in altri casi alternata) dall’inquadratura che mostra il soggetto della visione. L’inquadratura oggettiva si ha quando l’obiettivo della macchina da presa coincide con un punto di vista neutro, che può appunto essere assimilato all’istanza narrante stessa. Associati al termine soggettiva si trovano spesso quelli di semisoggettiva e falsa soggettiva. Una semisoggettiva è un’inquadratura che pur rappresentando lo sguardo di un personaggio non ne rispetta sino in fondo la posizione. Ciò accade quando la macchina da presa è più vicina o lontana dall’oggetto di quanto non lo sia il personaggio o lo inquadra da un’angolazione leggermente diversa. Come semisoggettiva possiamo inoltre intendere qual tipo di inquadratura che ci mostra una determinata porzione di realtà così come la vede un personaggio dove, tuttavia, la macchina da presa non ne sostituisce lo sguardo ma si colloca leggermente alle sue spalle, che finiscono così con l’entrare in campo insieme alla nuca. Altra questione è quella della falsa soggettiva, ovvero dell’esistenza di inquadrature che pur simulando un carattere di soggettiva stilistica si rivelano poi o si trasformano, in piani oggettivi. Ciò può accadere quando un piano in movimento simula l’avanzare di qualcuno in uno spazio determinato, un qualcuno che tuttavia, nel corso della durata del piano, finisce con l’entrare in campo « oggettivizzando » il piano; proprio perché potenzialmente divisa in diversi quadri, un’inquadratura può essere, a seconda dei suoi movimenti, tanto oggettiva, quanto soggettiva. Nella sequenza tratta da Taxi Driver di Martin Scorsese si vede in oggettiva il taxi che parte, il volto del protagonista che guida, la strada attraverso il parabrezza e la coppia di ragazze che attraversa la strada, dopodiché il punto di vista diventa quello del taxista e in soggettiva seguiamo le due ragazze sul marciapiede, per poi tornare all’oggettiva quando il taxi si ferma all’incrocio. Attraverso questo scambio di sguardi si sottolinea un legame tra il taxista e una delle ragazze. Gianni Rondolino, Manuale di storia del cinema (© 2010 De Agostini Scuola Spa)