Ingegneria Economica n. 82 - Associazione Italiana di Ingegneria

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Ingegneria Economica n. 82 - Associazione Italiana di Ingegneria
INGEGNERIA
ECONOMICA
Organo ufficiale dell’ AICE
Associazione Italiana di Ingegneria Economica
n. 82 – 1° trimestre 2007
AICE – Associazione Italiana di Ingegneria Economica
membro dell’ ICEC – International Cost Engineering Council
Sede Legale: viale Washington 50 – 20146 Milano
Segreteria: viale Isonzo 25 – 20I35 MILANO
(presso la Segreteria del Corso di Formazione in Ingegneria Economica)
telefono 02 5836 5936 – telefax 02 5836 5558
Posta elettronica: [email protected]
Sito Internet: http://www.aice-it.org
INGEGNERIA ECONOMICA
Organo ufficiale dell’ AICE – Associazione Italiana di Ingegneria Economica (fondata nel I979 –
membro dell’ International Cost Engineering Council)
Pubblicazione trimestrale tecnico-economica, registrazione presso il Tribunale di Milano n. 235 del
26 marzo I999 – Direttore Responsabile: dott. ing. Luciana Broggi
Direzione e Redazione: viale Isonzo 25 – 20I35 MILANO – telefono 02 5836 5936 – telefax
02 5836 5558
(presso la Segreteria del Corso di Formazione in Ingegneria Economica)
CONSIGLIO DIRETTIVO (2006-2008)
Presidente: ing. Gianluca di Castri (membro titolare)
Vice Presidente: ing. Michele Rossi (membro titolare)
Presidente Onorario: prof. ing. Luigi Pojaga (membro di diritto)
Membri titolari:
• dott. Emanuele Banchi – Delegato ICEC
• ing. Daniele Cimiotti
• prof. Giorgio Faini - Tesoriere
• arch. Edith Forte - Segretario
• prof. ing. Pietro D. Patrone
• dott. Marco Pizzamiglio
Membri di diritto:
• dott. Giuseppe Catanzano
• ing. Antonio Vettese
PRESIDENTI DELL’AICE DALLA FONDAZIONE AD OGGI
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dott. Cesare Sinicorni (I979)
dott. ing. Alessandro Riva (I980-8I)
dott. Cesare Sinicorni (I982-83)
dott. ing. Alessandro Riva (I984-85)
prof. ing. Luigi Pojaga (I986-87)
dott. Giuseppe Catanzano (I988-89)
prof. ing. Luigi Pojaga (I990-9I)
prof. ing. Luigi Pojaga (I992-93)
prof. ing. Luigi Pojaga (I994-95)
prof. ing. Luigi Pojaga (I996-97)
dott. Giuseppe Catanzano (I9982000)
12. dott. ing. Antonio Vettese (200I-02)
13. dott. ing. Antonio Vettese (2003-05)
14. dott. ing. Gianluca di Castri (2006-08)
INDICE
Convocazione di Assemblea
pag. 2
Lettera del Presidente
pag. 3
La perequazione urbanistica: profili giuridici (Michele Pallottino)
pag. 5
Non è l’uomo la causa del riscaldamento del pianeta (di Franco Cianflone – per gentile
concessione del “Giornale dell’Ingegnere)
pag. 13
Il miglioramento continuo del rapporto Qualità/Life Cycle Cost di prodotti e processi
tramite il FRACAS (Failure Report Analysis and Corrective Action) su Web (di Sergio Di
Veroli e Gad Piperno)
pag. 19
Convocazione di Assemblea
L'assemblea ordinaria e straordinaria dei soci è convocata per il giorno 14 giugno
2007 alle ore 14:00 in prima convocazione ed alle ore 18:00 in seconda
convocazione.
Ordine del giorno:
ASSEMBLEA STRAORDINARIA - modifiche allo statuto dell'associazione
ASSEMBLEA ORDINARIA - approvazione bilancio 2006, relazione sullo stato
dell'associazione, varie ed eventuali
Il Presidente – Gianluca di Castri
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LETTERA DEL PRESIDENTE
In questo numero pubblichiamo l’ultimo testo inviatoci dall’amico prof. Michele Pallottino, che tutti
noi ricordiamo per i suoi interventi alle giornate AICE e che è recentemente e prematuramente
scomparso.
Pubblichiamo altresì, per gentile concessione del Giornale dell’Ingegnere, un’intervista di Franco
Cianflone al prof.Lindzen sul riscaldamento globale. Oggi si parla molto di difesa dell’ambiente, per
lo più in concomitanza con previsioni catastrofiche eseguite da vari enti, privati o pubblici, più o
meno accreditati presso organismi nazionali ed internazionali. Interessi politici ed economici
sovrastano il problema ambientale, e ciò è altrettanto vero sia per coloro che lo sottovalutano sia
per coloro che lo esasperano; riteniamo di fare comunque cosa utile tentando di portare un po’ di
chiarezza e riportando il parere, “fuori dal coro”, di uno dei più importanti climatologi viventi.
Pubblichiamo inoltre un articolo dei soci Di Veroli e Piperno sulla metodologia FRACAS, già
presentato alle Giornate AICE 2006.
Facciamo infine presente ai Soci che stiamo aggiornando il piano di formazione del Corso presso
l’Università Bocconi, anche in vista del rinnovo dell’accredito dello stesso presso l’ICEC; accredito
che dobbiamo comunque rinnovare entro febbraio 2008, in quanto giunto alla sua periodica
scadenza.
Le principali innovazioni sono:
Il Corso verrà suddiviso in sei moduli (contro i sette attuali) di 40 ore ciascuno e cioè
o Modulo di base
o Cost Engineering
o Pianificazione e Programmazione
o Organizzazione e contratti
o Project Management
o Project Financing
Il coordinamento del modulo di Project Financing è stato affidato all’Ing. Guido Silvestroni
dell’AICE – Delegazione di Roma.
Sarà dato più spazio alle applicazioni pratiche e all’uso di software applicativi.
Appena disponibile la nuova edizione sarà scaricabile dal nostro sito AICE, in modo che i soci
possano avere possibilità di fare commenti ed osservazioni.
Gianluca di Castri
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A. LA PEREQUAZIONE URBANISTICA: PROFILI GIURIDICI
(di Michele Pallottino)
Sommario: 1.- Profili e problemi generali. Trasferimento dei diritti edificativi e perequazione
urbanistica.
2.- La perequazione urbanistica in generale e il problema di una specifica
norma di supporto.
3.- I diversi modelli di perequazione urbanistica e quelli previsti nel d.d.l.
3860. 4.- I profili privatistici della perequazione.
5.- Bibliografia essenziale.
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1.- Le norme del d.d.l. 3860 sulla perequazione urbanistica. I problemi.
Il d.d.l. 3860 sui principi in materia di “governo del territorio” contiene all’art. 8,
sull’“attuazione del piano urbanistico”, disposizioni sulla perequazione urbanistica e su aspetti
correlati: compensazione, trasferimento di diritti edificativi, permute fra aree o con cubatura, e la
perequazione intercomunale.
Nel suo complesso l’art. 8 dispone quanto segue.
“Attuazione del piano urbanistico
1. Le disposizioni del piano urbanistico sono attuate con piano operativo o con
intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi definiti nel piano
strutturale. Le modalità di attuazione del piano strutturale sono definite dalla legge
regionale. L’attuazione è comunque subordinata alla esistenza o alla realizzazione
delle dotazioni territoriali.
2. Le previsioni della pianificazione urbanistica possono essere attuate anche sulla base dei
criteri di perequazione e compensazione i cui parametri devono essere fissati nei piani strutturali.
3.- La perequazione è realizzata con l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà
immobiliari ricomprese negli ambiti territoriali oggetto di trasformazione urbanistica.
4. I diritti edificatori sono attribuiti indipendentemente dalle destinazioni d’uso, in
percentuale del complessivo valore della proprietà di ciascun proprietario, e sono liberamente
commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali omogenei.
5. Al fine di mantenere il limite massimo complessivo di edificazione dei predetti ambiti
omogenei è possibile individuare alcune aree da dotare di indici di edificabilità incrementabili.
6. A fronte di benefici pubblici aggiuntivi rispetto a quelli dovuti e comunque coerenti con gli
obiettivi fissati nel piano urbanistico, nel medesimo possono essere previste forme di premialità,
consistenti nell’attribuzione di indici differenziati, determinati in funzione dei predetti obiettivi, per
interventi di riqualificazione urbana e di recupero ambientale.
7. Nelle ipotesi di vincoli di destinazione pubblica, anche sopravvenuti, su terreni non
ricompresi negli ambiti oggetto di attuazione perequativa, in alternativa all’indennizzo monetario
previsto per la procedura di espropriazione, il proprietario interessato può chiedere il trasferimento
dei diritti edificatori di pertinenza dell’area su altra area di sua disponibilità, la permuta dell’area con
area di proprietà dell’ente di pianificazione, con gli eventuali conguagli, ovvero la realizzazione
diretta degli interventi di interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con
l’amministrazione per la gestione di servizi.
8. Le regioni possono assicurare agli enti di pianificazione le adeguate risorse economicofinanziarie per ovviare ad eventuali previsioni limitative delle potenzialità di sviluppo del territorio
derivanti da atti di pianificazione sovracomunale.
9. Le leggi regionali disciplinano forme di perequazione intercomunale, quali modalità di
compensazione e riequilibrio delle differenti opportunità riconosciute alle diverse realtà locali e degli
oneri ambientali su queste gravanti”.
I problemi da esaminare (dal punto di vista giuridico) sono i seguenti: la necessità o meno
di una norma di supporto per l’introduzione e la disciplina della “perequazione”, e se tale norma
debba esser contenuta in una legge statale, ovvero sia sufficiente una legge regionale; la sorte
delle leggi regionali già in vigore che introducono e disciplinano forme di “perequazione
urbanistica”; il sistema della “perequazione urbanistica” e degli istituti correlati nei suoi profili
generali e i diversi modelli in cui può articolarsi il sistema e quelli previsti nel d.d.l. 3860; i profili
“privatistici” della perequazione, la natura giuridica del diritto edificativo e la correlazione di questi
con il regime di conformazione del diritto di proprietà fondiaria.
4
2.- La perequazione urbanistica in generale e il problema di una specifica norma di
“supporto”.
Come è noto, la “perequazione urbanistica” è da sempre uno dei nodi fondamentali del
diritto urbanistico, assunta a parametro di correttezza nelle scelte del pianificatore incisive sul diritto
di proprietà dei suoli, con tutta la tematica dei “vincoli urbanistici” (e si tratta della “indifferenza” della
proprietà rispetto alle scelte dell’urbanista); nonché a parametro della congruità delle indennità di
espropriazione (e si tratta della “eguaglianza” fra i proprietari espropriati e quelli non espropriati),
come indicato più volte dalla Corte costituzionale.
Accanto, o prima ancora di tali contenuti, la “perequazione” è un metodo di pianificazione
del territorio, e può essere perequazione dei volumi, perequazioni dei valori, perequazione
preventiva o successiva, come può essere anche perequazione mista per la compresenza di due o
più di quei caratteri.
Come è altrettanto noto, la questione della “perequazione” viene da lontano, già con la
legge urbanistica n. 1150 del 1942, con il “comparto” e con gli altri strumenti di aggregazione delle
proprietà (artt. 23 ss.); procede poi (ma se ne avrà consapevolezza solo più tardi) con l’art. 42,
comma 2, della Costituzione, sui “limiti” alla proprietà; e giunge infine ad una prima tappa
fondamentale: la questione dei vincoli assoluti, espropriativi o meno, per finalità urbanistiche o
paesistiche, con le sentenze della Corte cost. 29 maggio 1968 nn. 55 e 56.
La Corte è molto precisa nell’indicare in termini generali la “perequazione” come
“eguaglianza”, quale valore giuridico, con riferimento specifico al regime e dunque al contenuto del
diritto di proprietà dei suoli: al sistema della “perequazione urbanistica” peraltro fa espresso
riferimento la sentenza 20 maggio 1999 n. 179.
La “perequazione” si pone dunque come terzo modello per risolvere insieme il tema
generale dell’“uguaglianza” e della “indifferenza” giuridica nei riguardi delle scelte del pianificatore e
il tema contingente dei “vincoli urbanistici”; terzo modello rispetto a quello della riforma del regime
giuridico dei suoli, con l’eliminazione per legge dello “jus aedificandi”, e a quello dell’indennizzo del
vincolo e dell’espropriazione.
Il sistema della “perequazione”, come è noto, è già stato introdotto, e da tempo, in una serie
di piani urbanistici comunali (Venezia, Torino, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Benevento,
Parma, Pavia, Cremona e Roma con la c.d. “variante delle certezze” sulla “compensazione”).
Si è posto allora il problema se rientrasse nelle attribuzioni dell’amministrazione di
pianificazione prevedere e disciplinare sistemi di tale genere, ovvero se fosse necessaria una
specifica norma (di attribuzione del potere: e si è discusso se norma statale o anche regionale).
Si sottolineava infatti che i sistemi di perequazione incidessero nel regime della proprietà e
nell’“ordinamento civile”, coperti da riserva di legge statale.
Il problema oggi ha meno rilievo con il nuovo assetto delle attribuzioni fra lo Stato e le
Regioni, con il principio di “sussidiarietà” e con la strumentalità di alcune funzioni rispetto alle
materie-base (il “governo del territorio”, in questo caso), di cui ai nuovi artt. 117 e 118 Cost. (così
come interpretati dalla Corte cost. soprattutto nella sentenza 1° ottobre 2003 n. 303; si vedano
anche le sentenze 27 gennaio 2004 n. 43 e 28 luglio 2004 n. 280).
Peraltro la questione va risolvendosi nei fatti, perché sistemi di “perequazione urbanistica”
sono previsti in leggi regionali: così, l.r. Basilicata 23/99 (art. 33); l.r. Emilia Romagna 20/00 (art. 7);
ll.rr. Puglia 20/01 (art. 14) e 3/05 (art. 21); l.r. Calabria 19/02 (art. 54); l.r. Veneto 11/04 (artt. 35-37);
l.r. Campania 16/04 (artt. 32-34); l.r. Toscana 1/05 (art. 60); l.r. Umbria 11/05 (artt. 4 e 29-30); e l.r.
Lombardia 12/05 (art. 11).
E perché appunto il legislatore nazionale con il d.d.l. 3860 si appresta ad introdurre, con
l’art. 8, una norma base.
Inoltre nell’art. 1, commi 21-24, della legge 15 dicembre 2004 n. 308 (in materia
ambientale), si prevede e disciplina un sistema di c.d. “compensazione”, e cioè la trasferibilità dei
diritti edificativi in caso di vincolo assoluto di inedificabilità di natura non urbanistica.
Con l’approvazione del d.d.l. 3860 si porrà il problema della sorte delle leggi regionali in
materia.
Tuttavia, una verifica attenta delle disposizioni delle varie leggi regionali consente di
escludere che sorgano problemi di compatibilità, in considerazione anche della funzione (di norma
di principi) e del contenuto (di norma base del sistema) dell’art. 8 d.d.l. 3860, dello specifico rinvio
alla normativa regionale e dunque dell’ampio spazio riconosciuto e comunque da riconoscere a
questa, delle sintetiche indicazioni fornite per definire i contorni del sistema della “perequazione”,
nonché delle note regole sui rapporti fra leggi regionali e legge statale di principi (come fissate dalla
Corte costituzionale nelle sentenze citate da ultimo).
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Va ricordato infine come la giurisprudenza amministrativa si sia già pronunciata sul sistema
della “perequazione” con importanti sentenze: così TAR Emilia Romagna I 14 gennaio 1999 n. 22
(sul p.r.g. di Reggio Emilia); TAR Lazio I 19 luglio 1999 n. 1652 (sulla “compensazione” della
“variante delle certezze”); TAR Campania, Salerno, I 5 luglio 2002 n. 670 (in particolare sui
comparti, e che non ritiene necessaria una legge di supporto per l’introduzione di modelli di
“perequazione urbanistica”); e Cons. Stato IV 3 maggio 2000 n. 2614 (sulla “compensazione”).
3.- I diversi modelli di “perequazione urbanistica” e quelli previsti nel d.d.l. 3860.
La “perequazione” può avere contenuti molto diversi, secondo il regime fissato dalla
normativa.
Può essere l’unico modello per l’attuazione delle previsioni urbanistiche (e perciò essere
obbligatoria), ovvero (essendo allora facoltativa) accompagnarsi ad altri sistemi attuativi, più
tradizionali (l’esproprio, il comparto, la convenzione, il vincolo indennizzato, e così via).
Può riferirsi a tutto il territorio comunale, ovvero essere limitata a parti del territorio dai
caratteri o dalla disciplina urbanistica particolari.
Può accompagnarsi o meno con la previsione della trasferibilità dei “diritti edificativi”
all’interno o anche all’esterno del comprensorio interessato.
Ed infine può accompagnarsi o meno al sistema delle c.d. “compensazioni”, e cioè alla
trasferibilità dei “diritti edificativi”, ovvero alla permutabilità di aree, anche fuori del comprensorio
interessato, e dunque su tutto il territorio comunale.
Anche con riferimento alle modalità attuative la perequazione può presentarsi in modo
differenziato.
Così, quando si ricorra ad accordi fra i proprietari ovvero alla aggregazione delle proprietà;
e ciò avviene attraverso gli strumenti tradizionali del consorzio volontario e del comparto.
Così, quando si proceda con la c.d. “cassa perequativa”: chi ha l’edificabilità versa una
somma (determinata secondo criteri prestabiliti), che viene attribuita a chi non abbia l’edificabilità. E
la “cassa perequativa” può essere “privata” (e cioè costituita e gestita dagli interessati) o “pubblica”
(e cioè gestita dalla tesoreria comunale).
Così infine, e si tratta dell’ipotesi giuridicamente più complessa, quando si procede con il
trasferimento dei c.d. “diritti edificativi”, con permuta o meno delle aree, o di cubatura esistente o da
realizzare.
Quel che è certo, e che rappresenta il carattere base del sistema della “perequazione”, ma
anche i limiti della sua utilizzazione, è che il codice base del regime dei suoli (non disponibile da
parte della normativa regionale, perché coperto dalla riserva di legge statale, ai sensi dell’art. 42
Cost.) è la stretta correlazione fra il diritto edificativo (“jus aedificandi”) e l’area o comunque un
diritto reale (come la “superficie”). In sostanza, tutto il sistema ruota intorno al suolo e al titolare del
diritto reale su di esso (come si avrà modo di dire più approfonditamente nel successivo § 4).
I vari piani urbanistici e le leggi regionali che introducono o che consentono l’introduzione
della “perequazione urbanistica” hanno adottato l’uno o l’altro modello, o modelli misti.
Qui interessa dire della scelta che il legislatore nazionale si appresta a fare con il d.d.l. n.
3860 sul “governo del territorio”.
Il d.d.l., dopo aver stabilito (nel co. 6 dell’art. 5) che il “regime dei suoli” è conformato dal
piano operativo, nell’art. 8, sull’“attuazione del piano urbanistico”, rimette alla normativa regionale la
definizione delle modalità di attuazione del piano strutturale (co. 1); e (nel co. 2) fissa il principio che
le previsioni del piano urbanistico “possono” essere attuate “anche sulla base dei criteri di
perequazione e di compensazione”, secondo parametri fissati nei piani strutturali.
Nei co. 3 e 4 è indicato il regime base della “perequazione”: questa si realizza con
l’attribuzione di diritti edificativi alle proprietà ricomprese negli ambiti territoriali “oggetto di
trasformazione urbanistica”, “in percentuale del complessivo valore” di esse e indipendentemente
dalla specifica destinazione d’uso fissata dal piano; e i diritti edificativi sono liberamente
commerciabili (trasferibili) negli e tra gli ambiti territoriali.
Il sistema è completato da tre previsioni:
- l’“incrementabilità” dei diritti edificativi per mantenere il limite massimo di edificazione,
ovvero per ragioni di riqualificazione urbana o di ricupero ambientale (co. 5 e 6);
- nel caso di vincoli di destinazione pubblica sopravvenuti (espropriativi o meno), in
alternativa all’indennizzo il proprietario “può” chiedere il trasferimento del diritto edificativo su altra
area in sua disponibilità, la permuta della propria area con area edificabile del Comune, ovvero di
realizzare gli interventi e di gestire il servizio pubblico relativo (co. 7);
- e la “perequazione intercomunale” da prevedersi e disciplinarsi con legge regionale (co.
9).
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Nel tener conto che si tratta di normativa sui principi per la legislazione regionale e che
ampio spazio regolamentativo è (naturalmente) riconosciuto e da riconoscersi comunque alle leggi
regionali, possono intanto individuarsi i caratteri fondamentali del sistema delineato nel d.d.l.
all’esame del Parlamento.
La perequazione è prevista come misura ordinaria ma facoltativa della pianificazione
operativa (attuativa); nella prima stesura il d.d.l. la si prevedeva come misura obbligatoria.
Si tratta di una perequazione mista, in quanto utilizzabili contemporaneamente e in modo
complementare più modelli perequativi (secondo la scelta della legislazione regionale): - “plafond
legal”, e cioè un indice di edificabilità (fondiaria, funzione di quella territoriale) attribuito a ciascuna
area in modo convenzionale, e cioè indipendentemente dalle destinazioni d’uso fissate dal piano,
ma in rapporto all’estensione o al valore delle singole proprietà immobiliari: il riferimento al “valore”
rende applicabile il sistema della “cassa perequativa”; - la “commercializzazione” dei diritti
edificativi, e cioè la loro libera trasferibilità, all’interno dell’ambito territoriale o fra ambiti; - la
“compensazione” fra aree edificative e aree a destinazione pubblica, e cioè il trasferimento del
diritto edificativo su altra area, ovvero la permuta fra aree; - e naturalmente i tradizionali modelli
perequativi del comparto, della lottizzazione convenzionata, degli indennizzi, degli oneri
urbanizzativi, dei contributi del permesso di costruire, e gli altri modelli che le Regioni hanno titolo di
introdurre con la propria normativa.
Il sistema perequativo naturalmente non condiziona le scelte di pianificazione, ma
rappresenta lo strumento per rendere “indifferente” la proprietà rispetto a tali scelte. E si applica su
tutto il territorio comunale, e si articola sostanzialmente in tre fasi: l’attribuzione dell’indice di
edificabilità convenzionale alle aree dell’ambito interessato; la “commercializzazione” dei diritti
edificatori e la “compensazione” fra aree, in dipendenza delle destinazioni d’uso fissate nel piano
operativo; e la perequazione in sede di pianificazione attuativa.
Con il rinvio alla legislazione regionale per la definizione di modalità e criteri, è ben possibile
(e opportuno) che le Regioni prevedano una disciplina più dettagliata, regolando altri profili, come
già fatto in alcune delle leggi regionali ricordate. Così, individuando i caratteri degli “ambiti territoriali
oggetto di trasformazione urbanistica” (se territorio urbanizzabile o anche solo parzialmente
urbanizzato). Così, fissando i criteri per l’attribuzione dell’indice convenzionale alle singole aree.
Così, regolando il sistema direttamente in sede di normativa, anche regolamentare, ovvero
rinviando la disciplina ai regolamenti e ai piani urbanistici comunali. Così, correlando il sistema alla
attuale situazione di fatto e di diritto delle singole proprietà. Così, prevedendo l’acquisizione al
Comune delle aree permutate e/o delle maggiori edificabilità riconosciute dal piano operativo
rispetto all’indice convenzionale, da utilizzare per interventi di interesse pubblico. Così ancora,
condizionando il trasferimento dei diritti, dentro o fuori degli ambiti, a destinazione d’uso equivalenti.
Comunque appare indispensabile che la normativa regionale specifichi il significato, i limiti
di applicazione e il processo determinativo dell’indice convenzionale.
Poiché il sistema dell’indice convenzionale ha lo scopo di rendere equivalenti in termini
giuridico-economici le destinazioni d’uso della proprietà, se di edificabilità, di non edificabilità o di
uso pubblico, appare opportuno che esso si applichi prevalentemente al territorio da edificare ed
urbanizzare insieme (“urbanizzabile”), mentre siano da escludere il territorio “urbanizzato” (e
dunque i suoli edificati non ricompresi nel territorio “urbanizzabile”) e quello “agricolo”. Le eventuali
necessità di perequazione di tali territori potranno essere risolte in altro modo: per il territorio
“urbanizzato”, attraverso il sistema della “compensazione”, e cioè con la permuta di aree con il
Comune; per il territorio “agricolo”, attraverso il meccanismo della gratuità del permesso di
costruire.
E’ naturale che la distribuzione dell’indice territoriale dell’“ambito” sulle singole proprietà
immobiliari non può sostanziarsi in una mera ricognizione delle precedenti destinazioni urbanisticoedilizie delle singole aree, ovvero in una meccanica ripartizione dell’indice fra le superfici. Di
conseguenza non può essere attribuito lo stesso indice ad aree disomognee (pur se appartenenti
allo stesso “ambito”); anche in questo caso infatti dovranno essere considerati congiuntamente e
contemperati vari elementi (di diritto e di fatto), quali ad esempio l’edificabilità non ancora attuata, i
vincoli non ancora indennizzati, le procedure espropriative in corso, l’avvenuto pagamento
dell’I.C.I.; e ancora l’irrilevanza della destinazione, nel piano urbanistico vigente, a inedificabilità o
espropriativa, qualora in “fatto” l’area abbia invece la medesima vocazione naturale di quella con
destinazione edificativa; eguale criterio andrà applicato alle aree destinate nel piano vigente ad
edificazioni di peso e quantità diversi, ma dalla medesima vocazione naturale; e così via.
Infine alla legislazione regionale è rimessa la definizione della disciplina della c.d.
perequazione interna fra i proprietari in sede di pianificazione operativa (attuativa). Qui vi è un limite
al potere legislativo regionale, consistente nel diritto di autoregolamentazione dei privati
(nell’esercizio della “autonomia privata”) soprattutto se si ricorra agli strumenti del “comparto” e del
“consorzio” fra i proprietari.
In questi casi la perequazione si attua attraverso i sistemi tradizionali della ripartizione dei
7
diritti edificativi e degli oneri fra tutti i proprietari, indipendentemente dalle destinazioni d’uso
specifiche impresse alle singole aree dal piano urbanistico operativo.
Tale sistema è conosciuto e utilizzato da tempo: la ripartizione può infatti
avvenire sostanzialmente in tre modi diversi (come si avrà modo di vedere più
diffusamente nel punto successivo):
- attraverso una rete di reciproci impegni di natura contrattuale, con successivo
trasferimento a titolo oneroso dei diritti edificativi o dei volumi realizzati;
- attraverso una ricomposizione fondiaria in capo ad un soggetto terzo (società o consorzio
fra i proprietari) che ripartirà poi il realizzato o gli utili fra i singoli soci o i consorziati;
- attraverso la costituzione di una “cassa perequativa”.
4.- I profili “privatistici” della perequazione.
Per definire al meglio la vicenda (giuridica) dei sistemi di perequazione, del diritto edificativo
e della sua trasferibilità è necessario partire dal c.d. statuto della proprietà fondiaria.
Tale statuto è definito da una pluralità di norme: l’art. 42 Cost., che al co. 2 stabilisce la
riserva di legge in materia, legge statale secondo l’art. 117; gli artt. 832 ss. del codice civile; e tutta
la normativa urbanistico-edilizia.
Attualmente, e la vicenda è nota, il c.d. diritto edificativo giuridicamente non ha autonomia e
dunque consistenza e dignità di un “diritto”; è una semplice facoltà del diritto reale (proprietà;
superficie) sul bene “suolo”.
Infatti per poterlo esercitare è necessario essere titolari del diritto sul bene “suolo”; ed
anche per poterlo esercitare su area altrui è necessario un diritto reale sul suolo (diritto di
superficie, che si trasforma, realizzata la costruzione, in diritto di proprietà superficiaria: artt. 952 ss.
cod. civ.).
Parlare dunque di diritto “immateriale”, di sua commerciabilità e di sua trasferibilità è
procedere per definizioni improprie dal punto di vista giuridico.
Così, la quantità di edificabilità riconosciuta dal piano ad un’area (c.d. indice fondiario) e la
medesima destinazione a inedificabilità si sostanziano, per l’attuale statuto della proprietà fondiaria,
in altrettanti limiti alla facoltà edificativa (“jus aedificandi”) del diritto di proprietà. Di qui i problemi dei
“limiti” alla proprietà (art. 42 co. 2 Cost.; art. 832 cod. civ.), dell’indennizzo, dei vincoli, e così via.
L’edificabilità concreta riconosciuta dal piano giuridicamente non è una utilità (addizione) attribuita
al diritto di proprietà, bensì è una limitazione di quel diritto (fascino della scienza giuridica!)
Va poi detto che il problema giuridico del trasferimento dei diritti edificativi si pone in modo
diverso a seconda che lo statuto della proprietà sia conformato come è attualmente (con il diritto
edificativo quale facoltà del diritto reale), ovvero come potrebbe essere un domani, approvato il
d.d.l. n. 3860, che stabilisce (nell’art. 5) che la “conformazione” della edificabilità è stabilita con il
piano urbanistico operativo, come si avrà modo di verificare.
La riprova di quanto si va osservando la si ha da tre vicende note e studiate da tempo.
La prima è quella del “comparto” (art. 23 l.u. n. 1150/42), dove, per poter procedere alla
distribuzione equa dei diritti, dei costi e dei risultati della edificazione fra le varie aree in assenza di
accordi fra le proprietà, è necessario ricomporre queste in un’unica proprietà comune (comunione).
Il sistema del comparto edificatorio non pone particolari (nuovi) problemi, se non sotto il profilo della
disciplina delle varie fasi (problemi esaminati dal TAR Campania Salerno I n. 670/02, cit.; v. anche
Cass. 3 febbraio 1994 n. 1125).
La seconda è quella del “consorzio” fra i proprietari (artt. 850 e 2602 cod. civ.), dove i c.d.
trasferimenti dei diritti fra aree avvengono con negozi di diritto privato per lo più di natura mista,
esercizio della “autonomia privata” degli interessati.
Qui bisogna distinguere tre ipotesi: il trasferimento del diritto in altra area dello stesso
proprietario; il trasferimento in area di proprietario diverso; il trasferimento a fronte di cubatura da
realizzare.
Nel primo caso, l’operazione si risolve con atti unilaterali del proprietario: di natura
abdicativa per l’area che cede l’edificabilità (rinuncia all’esercizio della facoltà di costruire) - ma non
accrescitiva per l’area che acquista l’edificabilità, per via dello “jus aedificandi” connesso comunque
al diritto di proprietà - e di servitù “non aedificandi”, o di “onere reale”, o di “obligatio propter rem”,
quale condizioni perpetue di inedificabilità dell’area cedente.
Nel secondo caso, l’operazione è più complessa e si risolve con negozi bilaterali fra
proprietari. Si tratta di contratti atipici ad effetti obbligatori, condizionati all’approvazione
amministrativa del progetto (Cass. 22 febbraio 1996 n. 1352; Cons. Stato V 28 giugno 2000 n.
3637), senza oneri di forma pubblica o di trascrizione. Dal punto di vista fiscale l’atto di
trasferimento è stato ritenuto tuttavia un atto con effetti analoghi a quello del trasferimento di diritti
8
reali immobiliari (Cass. 22 gennaio 1975 n. 250 e 14 dicembre 1988 n. 6807). Atto dunque di natura
traslativa, di regola a titolo oneroso, con effetti “erga omnes”.
A ciò si accompagna, secondo una tesi, un atto unilaterale costitutivo di servitù “non
aedificandi” sull’area del cedente e un atto di rinuncia (a edificare) e di accettazione (della
edificazione) stipulato dal cedente con l’altro proprietario (ma potrebbe trattarsi di due atti
unilaterali). Secondo altra tesi, sempre quale manifestazione dell’autonomia privata delle due parti,
si determinerebbe una sorta di “onere reale” sul terreno del cedente (vincolo reale opponibile ai
terzi, in quanto l’atto può essere trascritto) e/o di “obligatio propter rem” fra le due parti, o anche di
“servitù reciproche”.
Nel terzo caso, vi è invece un contratto misto costitutivo di un’“obligatio propter rem” (o di
una “servitù”) e di acquisto di immobile futuro (da realizzare).
La terza vicenda è quella della acquisizione della edificabilità delle aree vicine per poter
usufruire dell’indice edificativo attribuito dal piano in assenza di area sufficiente, con conseguente
inedificabilità dell’area ceduta.
La questione va posta e risolta esattamente nei termini che si sono indicati (per la vicenda
precedente).
A ben vedere, tutto si risolve nell’esclusivo ambito privatistico dell’autonomia
(autoregolamentazione) dei privati e dell’esercizio delle facoltà del diritto di proprietà fondiaria. E ciò
anche quando le vicende di cui si è detto siano oggetto di convenzioni o atti d’obbligo con il
Comune, che servono (soltanto) a garantire sul piano privatistico la prescrizione del piano
urbanistico, di per sé inidonea ad ottenere il medesimo risultato giuridico.
In termini giuridico-privatistici la questione non cambia con la tematica dei sistemi
perequativi e del trasferimento dei diritti edificativi dentro o fuori dell’“ambito”, sia su area del
medesimo proprietario o di proprietario diverso, sia a fronte o meno di permuta di cubatura.
Le conclusioni indicate invece cambiano e notevolmente se si modifichi il punto di partenza:
se cioè la facoltà edificativa (del diritto di proprietà) sia intesa non già un diritto connaturato al bene
“suolo” (“plafond legal” o indice territoriale spalmato; e indice fondiario riconosciuto
indipendentemente dalle destinazioni di piano), bensì come diritto conformato direttamente dal
piano urbanistico, e dunque attribuito (“concesso”) da questo.
Vi è da domandarsi se effettivamente il d.d.l. 3860 stabilisca che la conformazione
discenda dal piano. Così è scritto a chiare lettere nel co. 6 dell’art. 5, dove è previsto che sia il
piano operativo a disciplinare “il regime dei suoli ai sensi dell’articolo 42 della Costituzione”, in
contrapposizione all’altra previsione che il “piano strutturale non ha efficacia conformativa della
proprietà”.
Tuttavia proprio nell’art. 8 del d.d.l. sembra cogliersi una contraddizione rispetto a quelle
regole: nel co. 6 è infatti stabilita un correlazione fra diritto edificativo e indennizzo per
l’espropriazione, che farebbe pensare ad una preesistenza della facoltà edificativa (da
indennizzare, in caso di esproprio) rispetto al piano operativo. Salvo a non voler sostenere che
l’indennità di esproprio sia da limitarsi alle altre facoltà d’uso e alla sola misura di edificabilità di
base (“plafond legal”): ma in tali ipotesi non vi sarebbe allora più correlazione (e possibilità di
scambio) fra l’area sotto esproprio e il diritto edificativo.
Comunque, qualora effettivamente con il d.d.l. 3860 si introduca il principio della edificabilità
“concessa” dal piano, e non connaturata al diritto di proprietà, nei sistemi della “perequazione”,
della “compensazione” e del trasferimento dei diritti edificativi non vi sarebbero allora atti di
cessione di diritti reali (che non esisterebbero), né servitù di non edificazione: la assoluta
inedificabilità sarebbero il regime normale della proprietà dei suoli prima del piano.
Con l’attribuzione da parte del piano dell’indice diffuso di edificabilità (“plafond legal”), ma
con destinazione non edificativa per un’area, il piano infatti non introdurrebbe un vincolo su di essa
(appunto perché l’area nasce inedificabile) e dunque non si porrebbero problemi di indennizzo.
Inoltre, il diritto edificativo convenzionale (“plafond legal”) riconosciuto all’area (destinata a non
essere edificata) corrisponderebbe in realtà alla attribuzione al proprietario non di un diritto “in res
propria”, bensì di un diritto “in res aliena”, sottoposto tuttavia alla condizione del suo acquisto da
parte del cessionario (a titolo oneroso; o in permuta di cubatura da realizzare).
Il diritto edificativo cioè non corrisponderebbe ad una facoltà inerente al diritto di proprietà,
bensì ad un diritto autonomo svincolato dal suolo, ma che per poter essere esercitato sarebbe
necessario che si unisca con il diritto di proprietà (o meglio, confluisca nella titolarità del soggetto
proprietario dell’area edificabile).
E’ da ritenere che esso avrebbe natura (o equivalenza) di diritto reale, e in particolare di
diritto reale di superficie (su terreno di un terzo). Il titolare del diritto sarebbe il proprietario dell’area
“vincolata”. Il suolo su cui esercitare il diritto sarebbe quello con l’indice maggiore del “plafond
legal”.
Con la differenza, rispetto al regime tradizionale della “superficie” (art. 952 ss. cod. civ.),
9
che il diritto non sarebbe concesso dal proprietario dell’area, ma dal piano urbanistico.
Il diritto edificativo, una volta che si unisce con il bene “suolo” (e cioè con il diritto di “nuda
proprietà”), da diritto “immateriale” (in attesa o sospeso o condizionato) si trasformerebbe in diritto
di proprietà superficiaria. Così è possibile spiegare il corrispettivo del suo trasferimento in cubatura
o la permuta di esso con cubatura.
Naturalmente tutto ciò ha rilievo sulla trascrizione del diritto e sulla sua opponibilità a terzi
(possibili, perché diritto di natura “reale”).
Tutto ciò dipenderebbe dalla circostanza, più volte sottolineata, che il diritto edificativo non
ha materiale consistenza e esercibilità se non unito ad un diritto reale.
5.- Bibliografia essenziale.
Sui primi studi sulla perequazione urbanistica e sul trasferimento dei diritti edificativi, anche
per ulteriori riferimenti, BONACCORSI e PALLOTTINO, La riforma del regime d’uso dei suoli
edificabili, Milano 1978; e STELLA RICHTER, Il potere di pianificazione nella legislazione
urbanistica, in Riv. giur. ed., 1968, II, 173 ss.Sulla perequazione urbanistica, profili “pubblicistici”, più recentemente, anche per ulteriori
riferimenti: POMPEI, Il piano regolatore perequativo, Milano 1998; VIVA, La perequazione a scala
metropolitana. Aspetti giuridici e istituzionali, in Presente e futuro della pianificazione urbanistica,
Milano 1999, 289 ss.; QUAGLIA, Pianificazione urbanistica e perequazione, Torino 2000;
BOSCOLO, La perequazione urbanistica, ecc., in L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato,
Milano 2000, 193 ss.; URBANI, I problemi giuridici della perequazione urbanistica, in Riv. giur. urb.,
2000, III, 587 ss., e Ancora sui principi perequativi e sulle modalità di attuazione nei piani
urbanistici, ivi, 2004, II, 509 ss.; e BOSCOLO, Una conferma giurisprudenziale (e qualche novità
legislativa) in tema di perequazione, in Riv. giur. ed., 2003, I, 823 ss.;Sui profili “privatistici” del trasferimento dei diritti edificativi: CECCHERINI, Il c.d.
“trasferimento di cubatura”, Milano 1985; CANDIAN, Il contratto di trasferimento di volumetria,
Milano 1990; SCARLATELLI, La c.d. cessione di cubatura. Problemi e prospettive, in Giust. civ.,
1995, II, 287 ss.; RUGGERO, Contenuto e finalità delle convenzioni urbanistiche nella esperienza
notarile, in Convenzioni urbanistiche e tutela nei rapporti fra privati, Milano 1995, spec. 149 ss.;
QUAGLIA, op. cit.; CANDIAN, Trasferimento di volumetria, in Digesto civ., Torino 2000; e
CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. Not., 2003, I, 1113 ss.-
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MICHELE PALLOTTINO
18 aprile 2005
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NON E’ L’UOMO LA CAUSA DEL RISCALDAMENTO DEL PIANETA: LO AFFERMA UNO
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SCIENZIATO DEL MIT
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di Franco Cianflone – per gentile concessione del “Giornale dell’Ingegnere”.
Boston, (USA)- Il riscaldamento globale dal pianeta che si è verificato nell’ultimo secolo, ha creato
molte preoccupazioni, soprattutto a livello politico. Gli scienziati sono divisi nei loro pareri. Per
meglio capire la moderna fisica del clima e le implicazioni con le attività antropiche, il Giornale
dell’Ingegnere ha rivolto qualche domanda al professor Linzen, che recentemente ha esposto una
relazione sull’argomento a un comitato ristretto della Camera Alta inglese, rigettando ogni
responsabilità dell’uomo nel riscaldamento del pianeta. Richard S. Linzen, attualmente professore
di Fisica dell’Atmosfera presso il Massachussetts Institute of Technology (il mitico MIT), ha in
precedenza ricoperto analoghe cattedre alle università di Harvard e Chicago, svolgendo per oltre 45
anni ricerche avanzate sulle varie sfaccettature della fisica del clima.
Professore, ci può spiegare in cosa consiste il “riscaldamento globale”?
“Anche se le opinioni degli scienziati sono divise sulle cause del riscaldamento globale, sono tutti
concordi nel ritenere che si tratti di un problema molto serio, da non trascurare. Molto spesso i
legislatori di molti Paesi agiscono senza conoscere il problema e senza sapere cosa sia, in effetti, il
riscaldamento globale. Una parte degli scienziati ritiene che i cambiamenti del clima, relative ad
estensioni più o meno grandi, siano di origine antropica. A loro parere, se non si prenderanno
immediati provvedimenti, si potrebbero avere disastrose conseguenze. Altri (la maggioranza)
pensano che siano molte le cause che determinano il cambiamento del clima e, sin dal primo
apparire dell’uomo sulla Terra, si sono sempre verificate variazioni di rilievo. Tuttavia, dato che tali
mutamenti si manifestano dovunque sul pianeta, è poco probabile che questi cambi possano
continuamente peggiorare.”
Sussistono pericoli per il pianeta Terra, dovuti ai cambiamenti climatici?
“Analizzando la natura delle affermazioni scientifiche, è facile vedere come queste siano servite per
il supporto a un ingiustificato allarmismo. Tuttavia, dato che la tendenza dei governi è quella di
rispondere a queste preoccupazioni con un tangibile sostegno per la ricerca scientifica, si può
facilmente capire la riluttanza di buona parte della comunità scientifica ad ammettere che il loro
assenso sia dovuto all’allarmismo diffuso.”
Quali sono, professor Lindzen le premesse per affermare che si sta verificando un aumento
del riscaldamento globale?
“Per prima cosa bisogna notare che la temperatura media globale della superficie del pianeta è
sempre variata. Nel corso degli ultimi 60 anni ha avuto andamento altalenante, crescendo e
decrescendo. Nell’ultimo secolo è probabilmente cresciuta di 0,6°C. Secondo me, non abbiamo
avuto un riscaldamento medio globale.
L’anidride carbonica è uno dei gas serra e l’aumento della sua concentrazione potrebbe contribuire
al riscaldamento globale. Essa, infatti, è cresciuta e il raddoppio del suo quantitativo nell’atmosfera
potrebbe incrementare la forza radiante della terra (principalmente dovuta al vapor d’acqua e alle
nubi), di circa il 2%.
Ma c’è la responsabilità dell’uomo?
“E’ evidente che l’uomo è il responsabile dei recenti aumenti della concentrazione di anidride
carbonica, quantunque il clima stesso possa indurre variazioni nella presenza di CO2. Questi
presupposti costituiscono un consenso molto condiviso da parte di tutti gli scienziati.
La responsabilità umana nell’aumento del riscaldamento della Terra non è del tutto plausibile e non
è ancora universalmente accettata dalla grande maggioranza dei ricercatori. Tuttavia, queste
affermazioni contribuiscono non poco a sostenere una situazione d’allarme non giustificabile”
Come agiscono i gas serra nel riscaldamento del pianeta?
“In termini di sviluppo, i gas serra, aggiunti all’atmosfera attraverso le attività umane, sin dal 19
secolo hanno già prodotto tre quarti della forzatura radiativa del clima che, secondo i calcoli, ci si
dovrebbe aspettare dal raddoppio del quantitativo d’anidride carbonica presente. Le principali
ragioni sono:
a)- La CO2 non è l’unico gas serra di origine antropica. Altri gas, come il metano, contribuiscono
all’effetto serra.
b)- L’impatto della CO2 non è lineare, nel senso che chi aggiunge ancora CO2 nell’atmosfera,
contribuisce all’effetto serra in misura minore del suo predecessore. Per esempio, se si considera il
valore che l’anidride carbonica aveva raggiunto alla fine del XIX° secolo (circa 290 parti per milione
in volume o ppmv) e si raddoppia (per esempio sino a 580 ppmv), questo causerebbe soltanto il 2%
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Il presente articolo è stato pubblicato, suddiviso in due sezioni, dal “Giornale dell’Ingegnere”
nell’anno 2005
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d’incremento nella forzatura radiativa del clima. Poi, per ottenere un ulteriore 2% di crescita nella
forzatura radiativa, si dovrebbe aumentare ulteriormente la CO2 con altri 580 ppmv addizionali,
anziché con 290 ppmv. Attualmente, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è circa 370 ppmv.
Il raddoppio dell’anidride carbonica, se le maggiori componenti “serra”, come nubi e vapor d’acqua,
rimangono fisse, dovrebbe condurre, sulla base delle teorie della fisica più avanzata, all’incremento
medio di 1 grado nel riscaldamento globale. L’attuale aumento della forzatura radiativa del clima, a
causa delle attività umane, rispetto agli ultimi anni del XIX° secolo, raggiunge 0,76°C, valore
maggiore di quello ch’è stato osservato, ma che è, tuttavia, inferiore a quanto previsto dai correnti
modelli matematici del clima.”
Secondo lei, a cosa hanno portato i modelli di cambiamento climatici?
“Certamente a un allarmismo ingiustificato e senza fondamenti. In ultima analisi uno dei principali
motivi del diffuso allarmismo sull’effetto serra e sul riscaldamento globale del pianeta, è il fatto che
molti dei comuni modelli matematici del clima prevedono, per un raddoppio della concentrazione di
CO2, un aumento della temperatura globale di 4°C. Q uesto perché, in tali modelli, il
comportamento delle più importanti sostanze che contribuiscono all’effetto serra, come nubi e
vapor d’acqua, è considerato in modo da amplificare enormemente la risposta dei singoli gas serra
d’origine antropica. Tuttavia, com’è stato stabilito in ogni valutazione dell’IPCC (Intergovernmental
Panel on Climate Change = Comitato Intergovernativo dei Cambiamenti Climatici), i modelli
semplici falliscono nello stabilire l’esatto ruolo di nuvole e vapor d’acqua. Noi lo sappiamo perché,
nel confronto dei modelli ufficiali, tutti gli altri modelli non riescono a riprodurre esattamente le
distribuzioni osservate della copertura nuvolosa. Pertanto, i modelli predittivi sono fortemente
influenzati da caratteristiche che noi riteniamo errate.”
Quanto sono validi i modelli matematici del clima?
“Se si presume che questi modelli predittivi siano corretti quando le emissioni serra d’origine umana
sono stimate circa sei volte maggiori di quelle prodotte nel secolo scorso, intervengono alcuni
processi sconosciuti che annullano tale differenza. Quest’affermazione influenza molto meno delle
dichiarazioni che caratterizzano il secondo rapporto dell’IPL, che sono servite come una “pistola di
fumo” per gli accordi di Kyoto, con l’affermazione che: “Il peso dell’evidenza suggerisce un’effettiva
influenza umana sul clima globale”.
Non c’è dubbio che un’influenza umana possa esistere, ma è a un livello cosi piccolo, da poter
essere attualmente non distinguibile.”
Lei ha accennato ad allarmismo. Da dove deriva?
Come già abbiamo comunque notato, anche se tutte le variazioni della temperatura media globale
del pianeta sono dovute all’uomo, tali influenze implicherebbero una piccola e relativamente scarsa
ripercussione sul clima, se paragonata alle previsioni del modello che figura nei report dell’IPCC.
Un ulteriore esempio del cattivo uso delle premesse del problema, che induce all’allarmismo, è da
ricercare nelle frasi iniziali del sommario del report 2001 del National Research Council (NRC)
statunitense: Climate Change Science: An Analysis of Some Key Questions.
Questo rapporto è stato preparato affrettatamente su specifica richiesta della Casa Bianca. La
rapida stesura della relazione di 15 pagine è preceduta da un sommario esecutivo di 10 pagine,
assolutamente inutile. Le linee guida furono stabilite all’ultimo momento, senza l’approvazione
dell’apposito comitato. Il report citato dà per certo che:
“I gas serra, accumulati nell’atmosfera della Terra, sono il risultato d’attività umane.”
“Queste ultime hanno causato un aumento della temperatura dell’aria sulla superficie della Terra e
degli oceani.”
Secondo lei, queste asserzioni corrispondono a verità?
“In effetti le temperature stanno aumentando. I cambiamenti osservati da numerosi ricercatori degli
ultimi decenni, sono molto probabilmente dovuti all’attività antropica, ma non si può escludere che
alcune significanti parti di queste variazioni siano anche una conseguenza della naturale variabilità.
Asserzioni come quelle contenute nel citato rapporto, contribuiscono non poco a incoraggiare gli
allarmisti. Ciò non ostante, le due frasi sopracitate servono per distinguere le variazioni di
temperatura osservate, dalla causalità umana. La presenza della parola “probabilmente” nella
seconda frase riferita, è grossolanamente esagerata e indica ancora la mancanza di certezza,
mentre il fatto che non si sia entro il livello della normale variabilità, è menzionato soltanto di
striscio. Quello che di solito non è detto è che le variazioni osservate sono molto minori di quanto
non ci si aspetti.”
Quali le reazioni del mondo scientifico a queste affermazioni?
“La risposta di molti commentatori è tipica e restringe le premesse alla base della relazione NCR.
Michelle Mitchell, della CNN, ha dichiarato che il sopracitato report rappresenta un’unanime
decisione che il riscaldamento globale sia reale, stia peggiorando sempre più e sia dovuto all’uomo.
Questo non è un argomento da propagandare! L’affermazione di Mitchell, costituisce una chiara
risposta standard al rapporto NCR. Quanto sostenuto nel rapporto segnalato, non ha basi
12
scientifiche ed è privo di senso logico.”
ALLARMISTICHE E FITTIZIE LE TEORIE SUI CAMBIAMENTI CLIMATICI
Boston (USA)- Continua l’intervista al professor Richard S. Lindzen sui cambiamenti climatici. La
cui prima parte è apparsa nel precedente n. 17 del 15 ottobre scorso.
Com’è accaduto che il modello matematico allarmistico sia stato giustificato nonostante
l’incremento della temperatura, osservato nel passato, risulti inferiore a quello previsto dai
calcoli?
Si tratta di interferenze ingannevoli. Come al solito, l’argomento è sviluppato trascurando le
conclusioni più recenti. Si ignora volutamente che il clima è in grado di variare senz’alcuna forzatura
esterna. El Niño, la corrente dell’oceano Pacifico, è un valido esempio, ma ne esistono molti altri. Il
riferimento a una qualsiasi serie storica della temperatura globale terrestre, evidenzia fluttuazioni
che non sono connesse ad alcuna forzatura nota e queste variazioni non superano il mezzo grado
centigrado.
Su quali elementi basa queste informazioni?
L’argomentazione più comune in questo senso si fonda sugli studi del centro di Hadley, nel Regno
Unito, e appare nel capitolo 12 del terzo accertamento scientifico dell’IPCC. In tali studi, tre specifici
diagramma dimostrano quanto segue.
Nel primo, è indicato come la registrazione di una determinata temperatura osservata (senza
errore) e i risultati di quattro modelli coincidono con la cosiddetta forzatura naturale nel periodo
1860-2000. Esiste una piccola variazione dei valori nei modelli considerati che, presumibilmente,
fanno risaltare alcuni dati inattendibili, non rappresentanti con certezza la variabilità. In nessun caso
i modelli riflettono, nemmeno approssimativamente, le osservazioni degli ultimi 30 anni.
In un secondo diagramma, le curve dei quattro modelli sono affette da una forzatura che evidenzia
la componente antropogenica. Durante gli ultimi 30 anni c’è una leggera corrispondenza. E’
dimostrabile come le osservazioni sperimentali e il modello, entrambi con forzature del clima sia
naturali sia antropogeniche, abbiano una concordanza approssimativa su tutte le registrazioni. Si
osserva come i modelli utilizzati hanno una sensibilità relativamente bassa, al raddoppio della
concentrazione della CO2, di circa 2,5 gradi C.
Come bisognerà agire? Esistono altre cause naturali di forzatura del clima?
Per sapere cosa fare, bisognerebbe conoscere esattamente cosa è stato fatto. La naturale
forzatura del clima è indotta dall’attività vulcanica e dalla variabilità della radiazione solare.
L’impatto radiativo dei vulcani non è stato misurato bene prima dell’eruzione del Pinatubo, del 1991,
e le stime variano tra loro di un fattore 3. La forzatura del clima dovuta al sole è molto variabile e
ancora sconosciuta. Le forzature antropogeniche includono non solo l’influenza dei gas serra di
origine umana, ma anche gli aerosol agenti in modo da annullare il riscaldamento.
Quanto incidono gli aerosol?
Sfortunatamente, le proprietà degli aerosol non sono ancora conosciute con precisione. Questa
teoria è stata evidenziata in un recente articolo dalla rivista “Science”, nel quale si rimarca la grande
incertezza dell’influenza degli aerosol, stimata in concordanza tra i modelli e le osservazioni. Il
metodo è buono come qualsiasi altro, ma i criteri seguiti per analizzare i modelli costituiscono una
procedura ridondante. Attualmente gli aerosol appaiono soltanto un parametro variabile, in quanto
sia la loro magnitudine, sia la loro storia nel tempo, sono adeguabili. Tuttavia, la scelta di modelli
con sensibilità relativamente bassa, consente rettifiche non determinanti.
Il lavoro fatto è, essenzialmente, un esercizio di adattamento alle curve. Personalmente ritengo che
le probabilità che le modifiche mostrino ciò che effettivamente accade, siano molto basse.
Com’è stata evidenziata l’influenza umana?
Gli autori del capitolo 12 del Terzo report scientifico dell’IPCC, a sostegno delle loro tesi, hanno
concluso che è evidente, sin dal 1966, l’esistenza di un’influenza umana ben determinata sul clima
globale.
Nuovi studi stanno cominciando a separare i contributi ai cambiamenti climatici osservati, attribuibili
a influenze individuali esterne, da quelli antropogenici e naturali. Questi lavori suggeriscono che i
gas serra antropogenici rappresentino un contributo sostanziale al riscaldamento globale osservato,
specialmente negli ultimi 30 anni. Tuttavia, l’accuratezza di queste stime è certamente limitata
dalle incertezze nella valutazione delle forzature dovute alle variabilità interne, naturali e
antropogeniche e della risposta del clima alle influenze esterne.
Tale asserzione non è molto lontana dalla realtà. La dipendenza del modello dai risultati reali non è
enfatizzata, ma quest’affermazione è effettivamente la più corretta che il Sommario del terzo report
dell’IPCC abbia diffuso. Alla luce di tale nuova evidenza e prendendo in considerazione le ulteriori
incertezze, la maggior parte del riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni è, probabilmente,
dovuto all’aumento della concentrazione dei gas serra. Ma, in verità, non si può fare una
conclusione del genere.
Perché?
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La metodologia, omettendo qualsiasi trattazione della variabilità interna, porta a un punto cruciale.
Si può rappresentare la presenza della variabilità interna, tracciando una linea orizzontale con il
valore medio della temperatura tra il 1850 e il 2000 e ampliando lo spessore questa linea sino a
coprire un tratto di 0,4°C, per rappresentare la va riazione interna casuale del clima. Si possono
anche tracciare i valori osservati, in modo da coprire una larghezza di 0,3° C, corrispondenti a
un’incertezza dell’osservazione di +/- 0,15°C. Le d ue linee, grossolanamente ampliate, si
sovrapporranno quasi su tutte, anche se, statisticamente, ci si aspetta una piccola percentuale di
non sovrapposizione, sottolineando la necessità, non evidenti, di forzare l’interpretazione.
Quindi l’impatto dei contributi umani è indiscernibile, dato che il segnale è troppo piccolo,
comparato ai disturbi naturali.
Le pretese che le temperature globali attuali siano “segnali di rottura” o “senza precedenti” sono, in
ogni caso, discutibili o ingannevoli e servono semplicemente per mascherare che il valore
dell’aumento del riscaldamento osservato è troppo piccolo per essere confrontato a quanto
predetto dal modello. Questa conclusione non è alterata nemmeno dal riscaldamento degli oceani
che porterebbe un ritardo nella risposta.
In che modo un riscaldamento modesto può rappresentare un allarme?
Dobbiamo qui affermare che malafede e manipolazione dei dati invadono il settore della pura
fantasia, passando da una situazione allarmistica a una non reale! Un semplice esempio illustrerà
la situazione.
Secondo i manuali di meteorologia dinamica, si può ragionevolmente concludere che, in un mondo
più caldo, le tempestive subtropicali e la variabilità del tempo potranno decrescere. Giudicando
dall’andamento storico dei cambiamenti climatici, questi si verificano con maggiore probabilità
latitudini elevate che non ai tropici. In un mondo più caldo, ci si aspetterebbe una diminuzione
dell’attuale differenza tra alte e basse latitudini.
E’ questa differenza che genera disturbi extratropicali di grande rilevanza nel clima?
Quando, d’inverno a Boston, c’è una giornata insolitamente calda, la causa è il vento che soffia da
sud. Parimenti, se si ha un raffreddamento insolito, è perché il vento soffia da nord. La possibile
estensione di questi estremi, senz’alcun dubbio, ha determinato basse latitudini calde e alte
latitudini fredde. Dato che ci si aspetta che le alte latitudini si scalderanno molto di più delle latitudini
basse, in un clima più caldo, la differenza tende a diminuire con minori variazioni.
Ciò non ostante, noi sosteniamo il caso opposto e ogni modello, che afferma la nostra tesi (alla
quale gli allarmisti di solito non danno credito) e l’ipotesi di base discussa in precedenza, conferma
che si è raggiunta una buona concordanza scientifica sull’argomento. Ovviamente, molti temporali e
tempeste eccezionali sono considerate come motivo d’allarme. In tal modo, si fa ricorso all’opposto
delle nostre tesi per influenzare l’opinione pubblica.
Vi sono argomentazioni scientifiche a supporto delle tesi allarmistiche?
Spesso gli scienziati non sono perfettamente in buona fede. Jonh Hougthton, ilprincipale redattore
dei report scientifici dell’IPCC, ha sostenuto che in un mondo più caldo dev’esserci una maggiore
evaporazione e il calore latente (rilasciato quando il vapor d’acqua evaporato condensa e si
trasforma in pioggia) fornirebbe un maggior quantitativo d’energia per le perturbazioni.
Quest’affermazione si basa su un numero di errori ovvi, per quanto le asserzioni continuano ad
essere ripetute anche da chi non conosce bene la meteorologia e la climatologia, perché,
probabilmente, privi di argomentazioni migliori. Per i dilettanti, le tempeste subtropicali non sono
generate principalmente dal calore latente rilasciato durante la convezione. Tuttavia, anche nelle
regioni tropicali, quando il calore latente ha un ruolo principale, la forzatura del clima non dipende
dall’evaporazione, ma dal valore ottenuto sottraendo all’evaporazione l’umidità alla superficie del
mare. Ne risulta che questa sia quasi un’invariante rispetto alla temperatura, a meno che l’umidità
non diminuisca, in un ambiente più caldo.
C’è un’interrelazione tra il riscaldamento globale e la violenza degli uragani?
Come ha rimarcato l’IPCC, non c’è un’evidenza empirica che sostenga tale influenza. Lo stato
dell’arte dei modelli stimola un’azione negativa, mentre sussistono argomentazioni teoriche che
escludono una trascurabile influenza sull’intensità degli uragani. Questo è, ovviamente, di notevole
interesse intellettuale, ma non costituisce un motivo per sostenere legittimamente un allarme.
Su quali elementi ci si è basati per generare il diffuso allarmismo?
Forse il più biasimevole tentativo di generare un allarme climatico mondiale è stato il collegamento
tra il riscaldamento globale osservato e lo tsunami che ha gravemente danneggiato molte regioni
nell’Asia meridionale alla fine del 2004. In quest’occasione sono state fatte molte asserzioni che
tendevano a collegare il riscaldamento globale ai fenomeni geologici.
Queste illazioni sono faziose. In ogni caso, per quanto capziosi siano tali collegamenti, gli allarmisti
seguono quella che, ormai, è divenuta un’abitudine di chi considera come allarmante ogni
fenomeno forte, inusuale o, spesso, comune, ma non conoscono bene le circostanze del
riscaldamento globale e quindi, disonestamente, suggeriscono che l’evento osservato era stato
effettivamente predetto dai modelli.
14
Quali sono, professor Lindzen, le sue conclusioni?
Per prima cosa, enfatizzare che l’affermazione di base relativa al riscaldamento globale, molto
frequentemente descritta come unanime risposta del mondo scientifico, è completamente
inconsistente e, virtualmente, non costituisce un problema.
In effetti, le osservazioni suggeriscono, molto semplicemente, che la sensibilità sul clima reale e
molto minore di quella che si basa su modelli nei quali la sensibilità dipende da processi che sono
stati chiaramente svisati, vuoi per ignoranza o per la limitazione delle macchine di calcolo. I tentativi
di stimare la sensibilità del clima reale mediante i processi di formazione delle nuvole o con altri
metodi che evitano la dipendenza dai modelli, supportano la conclusione che la sensibilità è bassa.
Il raddoppio della concentrazione di CO2 porterebbe a un riscaldamento globale di 0,5°C.
Quadruplicando tale concentrazione si arriverebbe, se dovesse accadere, a un aumento della
temperatura globale di 1°C. In nessuno di questi ca si si avrebbe un maggior riscaldamento
associato con eventi tempestosi, anche di grande intensità.
In secondo luogo, una notevole parte della comunità scientifica è convinta che lo stato di allarme
non sussista. La questione non è tanto stabilire se i modelli relativi al clima siano corretti (e non lo
sono), ma piuttosto se i loro risultati siano tutti verosimili. E’ improbabile dimostrare che sia vera
qualcosa che è impossibile. Tale dicotomia evidenzia che il fenomeno è molto esteso e ogni
argomentazione scientifica rigorosa, che aderisca perfettamente agli accordi di Kyoto, potrebbe non
avere una riconoscibile influenza sul clima. Questo, chiaramente, non è d’alcuna importanza per le
migliaia di politici, negoziatori, diplomatici, burocrati e fautori che ruotano attorno al problema,
senza conoscerlo dal punto di vista scientifico.
Al centro della questione c’è un'altra difficoltà: il cattivo uso del linguaggio. George Orwell scrisse
che il linguaggio “diventa pericoloso e non accurato quando i nostri pensieri sono sciocchi, ma la
trascuratezza del linguaggio rende più facile, per noi, avere pensieri sciocchi”.
Io ho il timore che le difficoltà del discorso, in mancanza di un vocabolario universale condiviso,
siano piuttosto evidenti.
15
16
6
Sergio Di Veroli A.U. e Direzione generale
Gad Piperno
Direzione tecnica e di consulenza
Telebit - Roma
Telebit - Roma
Il miglioramento continuo del rapporto Qualità/Life Cycle Cost di
prodotti e processi tramite il FRACAS( Failure Report Analysis
and Corrective Action) su Web.
B. IL MONDO INDUSTRIALE E DELLE COSTRUZIONI DI OGGI
Il rapporto di Qualità/Costo è oggi anche chiamato indice di Competitività di un
prodotto/processo.
In realtà possiamo dire che tale rapporto rappresenta realmente la
Competitività se alla Qualità si dà il significato di insieme delle prestazioni fornite e degli attributi
misurabili della Qualità stessa (l’Affidabilità, la Manutenibilità, la Sicurezza ) e, al Costo, quello di
Costo del Ciclo di Vita (LCC).
In Italia, da breve tempo, con l’avvento dell’Euro, sono arrivate delle condizioni di stabilità
monetaria, in termine di tassi di interesse del denaro e di inflazione, che liberando l’orizzonte dalla
nebbia provocata dalle operazioni monetarie e finanziarie a breve, rendono obbligatorio alle
imprese industriali di cambiare la strategia di crescita, dedicandosi alla pratica di rendere più
competitivi, in termini reali, i prodotti. Il caso FIAT che ha ritrovato l’utile tramite l’offerta di prodotti
belli e innovativi è l’emblema della nuova situazione industriale. Ma nello stesso tempo non sfugge
l’aspetto della necessità che, per stare al passo della concorrenza, bisogna accompagnare a questi
prodotti delle garanzie pluriennali e quindi impegnarsi che la Qualità del prodotto si mantenga nel
tempo in modo che non ci si rimetta, in immagine e in riparazioni di garanzia, quello che era
margine positivo apparente all’inizio.
Che il bisogno di assicurazioni sul comportamento dei prodotti nel tempo sia oggi sentito da
tutti i settori produttivi in una catena che va dal fornitore della minima parte meccanica, fino al
cliente di sistemi o costruzioni complesse, è realtà di tutti i giorni e alla quale non sfugge nessun
settore industriale e delle costruzioni. Basti pensare agli impegni richiesti sulla sicurezza e
manutenzione, su base pluriennale, richiesti oggi dalle Ferrovie, dalla P.A. nei capitolati rispondenti
alla Legge Merloni ter, alle costruzioni in Project Financing (dove l’Appaltatore/gestore deve
garantirsi un Ritorno dell’Investimento anche per 30 anni) oltre alle aziende industriali che devono
fornire una garanzia pluriennale e comunque mantenere l’immagine di fronte a una concorrenza
che offre sempre di più Qualità costante di uso, nel tempo, del prodotto/processo.
C. LA QUALITA’ E IL CONTROLLO PER PROCESSI DELLA GESTIONE AZIENDALE
Le considerazioni suddette evidenziano la necessità di passare da una Gestione
Economica dell’Azienda esclusivamente basata sull’annualità, a una gestione mista tra la gestione
tradizionale e quella per processi pluriennali. La differenza sostanziale è che l’Azienda, una volta
diretta prevalentemente a curare l’ampliamento del proprio mercato su prodotti stabili nel tempo,
ora deve badare a offrire il giusto prodotto per ogni segmento di mercato dove può massimizzare
l’utile. Ma offrire il giusto prodotto significa entrare in una ottica tecnico-economica di lungo periodo
e quindi acquisire coscienza sulle conseguenze delle proprie scelte sul LCC dei singoli prodotti.
La figura 1 mostra come sia necessario vedere il C.E. Aziendale annuale come somma di
contributi di processi pluriennali di prodotto, dove alcuni danno Margine Operativo positivo perché
sono nella fase di Ricavo e sfruttano gli investimenti di R&D fatti in passato, altri rappresentano
contributi negativi perché in fase di studio.
17
L'ORGANIZZAZIONE PER PROCESSI DAL PUNTO DI
VISTA ECONOMICO
Anno -3 Anno -2 Anno -1 2006
Processo 1
+
M.O.
R. & S.
Processo 2
-
+
Anno +1 Anno +2 Anno +3 Anno+4 Anno +5
+
+
-
-
M.O.
R. & S.
Processo3
M.O.
+
+
+
+
+
+
+
+
-
+
+
+
-
+
R. & S.
M.O. Margine Operativo = Ricavi – Costi Attribuibili e Costi Generali
Figura 1: Il contributo dei processi ai bilanci annuali e visione pluriennale dei processi stessi
La figura 2 mostra il Contributo della Qualità misurata, al Costo del Ciclo di Vita. Se il
parametro dell’ Affidabilità tecnica (MTBF- Tempo medio tra un malfunzionamento e il successivo)
di un prodotto/processo vogliamo che cresca, occorre normalmente investire di più, perché occorre
dare più Qualità nel tempo al prodotto. Viceversa i costi della manutenzione, sia correttiva che a
programma, con i loro aggregati dei costi di Logistica, di Indisponibilità e di grandezza dei
Magazzini delle parti di scorta oltre che dei costi del Personale sono in diminuzione con l’aumento
dell’affidabilità dei prodotti. Il modello LCC rappresenta un punto di minimo dato dalla somma delle
2 curve.
Le seguenti formule della teoria Affidabilistica, basata sul calcolo delle probabilità di
accadimento di un evento e della sua frequenza nel tempo, spiegano la figura 2.
A=
MTBF
MTBF + MTTR
(Formula 1)
dove A= Disponibilità in % del tempo totale di uso
MTBF = tempo medio tra un guasto (malfunzionamento) e il successivo, ossia il tempo di buon
uso del prodotto
MTTR= tempo medio di fuori uso del sistema per riparazione
a un certo tempo t=
λ=
t0
1
(frequenza di guasto) (Formula 2)
MTBF
n
MTTR =
∑ λ ∗ MCT
i
i
1
(Formula 3)
n
∑λ
i
1
Dove lo MCTi è il tempo medio di riparazione del singolo componente e
frequenza di guasto del singolo componente.
18
λi
è la
Figura 2: ricerca del punto di ottimo nel LCC in funzione dei costi iniziali e dei costi di gestione e
manutenzione.
Se voglio una Qualità migliore devo aumentare l’affidabilità e devo diminuire il
tempo di riparazione, ma questi due parametri non sono minimamente indipendenti rispetto
al LCC. Infatti la misura economica, in questo caso (Formula 1), è dato dalla Indisponibilità
che è il complemento a 1 della Disponibilità A. E’ ovvio che nel tempo di Indisponibilità per
guasto e/o malfunzionamento devo provvedere a mezzi sostitutivi o fermare una
produzione/servizio, tutte operazioni che pesano sul LCC. Nella Formula 3 lo MTTR (ossia
il tempo totale di manutenzione correttiva e riparazione del sistema con i relativi costi) sono
dipendenti in modo fondamentale dalla frequenza di guasto dei componenti.
Queste relazioni sono basilari per l’approntamento del modello del LCC e quindi
dello studio della ottimizzazione a priori, in fase di progetto e delle sue revisioni. La figura 3
rappresenta il flusso di un moderno progetto basato sul controllo del LCC in modo che si
tenga conto della relazione tra la simulazione RAM (Affidabilità, Disponibilità,
Manutenibilità) e l’analisi di rischio, offrendo una base più certa all’analisi di proiezione
Economico-Finanziaria.
19
Obbiettivi tecnici e
profili di missione
dell’opera
Progetto di
massima
Verifica di
fattibilità
Anagrafico e
albero dei costi
Modellazione
RAM
Analisi di rischio
Analisi finanziario assicurativa
Life Cycle Costing
Dsign Review e
validazione n
Modellazione RAM LCC ed
analisi di rischio definitive
Accettato?
No
Progetto esecutivo
Sì
Sì
Validazione
finale
No
Correzione
del
modello?
Figura 3: flusso delle attività di progettazione con enfasi sulle fasi legate all'affidabilità, al rischio e al
LCC
D. IL FRACAS (FAILURE REPORT ANALYSIS & CORRECTIVE ACTION)
Produzione
Costruzione
Progettazione
Manutenzione,
Gestione
Ingegneria
R
R
L
I
C
A
S
M
C
K
Guasti e reclami
Indici per
l’ottimizzazione
del processo
Anomalie
Confronto
Prototipazione
RAM
RISK
LCC
R
C
M
Feedback
Figura 4: interazione tra processo aziendale e FRACAS
Una buona Azienda oltre che fare la simulazione a priori del proprio business deve
anche saperlo controllare. I metodi FRACAS servono proprio per controllare i modelli RAM,
di Safety e di LCC, per analizzare nel tempo le problematiche che vengono dal campo o
20
dalla produzione e ottenere così il miglioramento continuo. La figura 4 riporta la realtà di
confronto tra le informazioni elaborate dal FRACAS e le singole parti del processo
produttivo dalla progettazione alla manutenzione (Figura 4). Il FRACAS è comunque utile
anche nei casi i cui non si posseggano i modelli a priori perché permette di ricostruire il
comportamento reale del sistema a posteriori e valutare la convenienza sul LCC
dell’operazione di correzione.
Il Failure Reporting Analysis and Corrective Action System è una metodologia che prevede le
seguenti fasi:
1. Raccolta delle informazioni (Failure Reporting). Tali informazioni possono provenire dal
campo e dalla gestione; oppure dall’interno dell’azienda come prove di qualifica e
prototipazione, collaudi e riparazioni in produzione, costruzione dell’impianto. I dati raccolti
devono essere categorizzati in modo intelligente al fine di poterli studiare e tirarne fuori
informazioni utili nei passi successivi.
2. Analisi (Analysis): I dati vanno come detto analizzati statisticamente. L’analisi può essere di
tipo qualitativo (distribuzione per attributi, relazioni di causa-effetto) in base alle
categorizzazioni stabilite, oppure di tipo quantitativo cime per esempio il calcolo di metriche
di processo (es. Manufacturing quality rate, CPK produttivo, parametri affidabilistici come
MTBF, MTTR o disponibilità e tanti altri). Il sistema deve poter segnalare le ripetitività di
guasto nelle diverse parti dell’albero del prodotto anche in apparati dislocati in zone
territorialmente lontani.
3. Dall’analisi devono emergere le criticità del sistema in esame, le relazioni causa-effetto
delle anomalie, i cali di performance, la tendenza del sistema a divergere dalle vie previste
dal progetto. Il sistema deve essere in grado di segnalare automaticamente le
configurazioni di allarme previste a priori verso i FRB (Failure Review Board) di
competenza, ma deve anche fornire strumenti adeguati agli addetti all’analisi per scoprirne
altre non previste in partenza.
4. Definizione e valutazione delle azioni correttive (Corrective Actions): I FRB convocati a
seguito di una configurazione d’allarme o per una chiamata diretta da parte degli addetti per
situazioni di criticità scaturite dall’analisi dei dati, devono a loro volta eseguire un’indagine
della causa origine della criticità e determinare le azioni correttive per eliminarla. Tali azioni
correttive non possono dirsi completate se non a seguito di una verifica dell’efficacia delle
stesse nell’eliminare la criticità par cui sono state messe in pratica.
5. Il sistema (System). Quanto detto finora, rappresenta la metodologia. Tutti i punti
precedenti però vanno messi a sistema. È necessario cioè dotarsi di strumenti informatici
adeguati che integrino la raccolta dei dati, la loro analisi, la rilevazione delle criticità, la
convocazione e la relazione delle attività di Board nonché la validazione dell’efficacia delle
azioni correttive. Le suddette fasi non possono essere scisse ma devono essere integrate
anche e soprattutto nel caso di processi/prodotti/opere le cui attività sono suddivise
funzionalmente e territorialmente.
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Guasto/ Evento/ Manutenzione
Valutazione di efficacia
delle azioni correttive
Registrazione
Definizione delle azioni
correttive
Verifica
FRB/ MRB
Riparazione
Definizione della
causa origine
Analisi della causa origine
Figura 5: le fasi del ciclo FRACAS
E. FRACAS SU WEB
Per quanto detto al punto 5 del paragrafo precedente c’è la necessità di fare un sistema di tutte
le informazioni raccolte ed analizzate, nonché di quanto emerso dalle attività di Board. In questo
senso la tecnologia web diventa essenziale per questo tipo di sistema. Essa consente di
raccogliere informazioni provenienti da apparati dislocati in luoghi distanti tra loro, di metterne a
fattor comune le difettosità, di correlarle con le relative condizioni al contorno e di rendere i
risultati di tali analisi disponibili alla consultazione.
La tecnologia web garantisce in questo senso, l’immendiatezza e la sicurezza del dato, la
reattività del sistema alle criticità grazie alla possibilità di svolgere le analisi sui dati senza essere
vincolati al luogo che ha generato il dato e grazie agli allarmi automatici che il sistema deve
poter garantire. Consente quindi all’azienda di intervenire, prontamente e se necessario, per
modificare il progetto o il processo prima che il difetto causi eccessive perdite di non qualità o di
sicurezza, in ogni caso di limitarne gli effetti.
F. FRACAS E LCC
Un sistema FRACAS su web è quindi in grado di seguire, nella sua interezza e nella sua
pluriennalità, l’intero ciclo di vita del prodotto/processo/opera in tutte le sue fasi: ricerca e
sviluppo, prototipazione, prove di qualifica, produzione/costruzione, prove cliente, gestione,
manutenzione e Customer Service. Esso è quindi il tassello essenziale per il controllo continuo
del LCC e per l’aggiornamento del relativo modello. Infatti, è proprio dai dati statistici rilevati dal
FRACAS nelle varie fasi operative, dai consuntivi dei costi, dalla valutazione della qualità e della
affidabilità del prodotto in campo, che si può capire se le previsioni fatte in sede di progetto
iniziale siano state rispettate o meno, e soprattutto che strada stia prendendo l’intera fase
operativa del progetto stesso.
22
L’unione di FRACAS e modello LCC consentono in ultima analisi di governare l’intero progetto
lungo tutto il suo ciclo di vita, e forniscono ai manager strumenti per guidarne la fase operativa
dotati di completezza, sicurezza ed immediatezza.
G. BIBLIOGRAFIA
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Elettrotecnico Norme CEI sulla fidatezza
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Italiano