La malafede, una «micropatologia» molto diffusa

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La malafede, una «micropatologia» molto diffusa
La malafede, una «micropatologia» molto diffusa
SARA CALDERONI
Di recente, mi sono imbattuta in un interessante
libriccino: L’ambiguità(1), di Simona Argentieri. In
copertina poche righe annunciano: «Piccoli crimini della coscienza: i comportamenti ambigui sono
il sintomo di un forte disagio sociale e psichico.
Invadono la morale quotidiana, i giochi della politica, il linguaggio delle passioni».
Sappiamo che la psicanalisi dai suoi albori si
occupa del tema del “falso”, che può coinvolgere
vari aspetti dell’esperienza di un individuo cognitivo, percettivo, affettivo - e che in sostanza
si manifesta in una frattura, più o meno netta, tra
realtà interiore e realtà esteriore.
Nelle nevrosi classiche, per esempio, porzioni
della realtà vengono represse e confinate nell’inconscio; nell’isterico i desideri profondi, non confessati a se stessi, sono demandati ad un sistema di
falso io che si impegna a svolgere attività segretamente gratificanti per l’io: avviene cioè una dissociazione tra ciò che si è e le azioni che si compiono, delle quali si nega l’importanza; un altro
approccio con il falso io ha invece la personalità
schizoide. Anche in questo caso avviene una scissione, ma il falso io dello schizoide si piega alla
volontà degli altri, alle loro aspettative - vere o
immaginate che siano - per garantire al proprio io,
percepito come incorporeo, la salvezza da un’estinzione temuta. Ecco allora la frattura: il falso io
sarà avvertito come qualcosa di estraneo da sé e la
sottomissione esteriore (che non si traduce necessariamente in un falso io buono) è accompagnata
da una ribellione interiore a una docilità cui ci si
sente costretti. Prigioniere di se stesse, insomma,
queste personalità vivono la condanna di «un’insicurezza ontologica primaria»(2) che non permette
loro di allacciare rapporti normali con il mondo
esterno, percepito come luogo minaccioso, pieno
di trappole e pericoli.
Ma di questi individui, se manifestano sintomi
troppo acuti (se vivono forme di gravi psicosi)
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abbiamo imparato a diffidare poiché tra noi e loro
esiste un muro di incomunicabilità. E se ci fanno
tenerezza è solo perché alla giusta distanza possiamo permetterci di coglierne tutta la fragilità.
Cosa sappiamo invece di quelle modalità difensive subdole, ambigue, talmente frequenti da essere
considerate normali, ma che come una malattia
infettano la nostra quotidianità?
«Piccoli crimini della coscienza», appunto. Una
«micropatologia» che agisce sotterranea, che in
silenzio striscia nella nostra società, senz’altro
poco attenta a queste “dissociazioni”.
Eppure, la malafede presenta caratteristiche molto
vicine alle forme di nevrosi. E può diventare
anche pericolosa per la psiche.
Il punto di partenza è sempre la verità. Chi agisce in
malafede attua infatti un meccanismo difensivo
molto simile a quello della personalità nevrotica,
ma si tratta di «una manovra di collusione e di
superficiale consenso». La verità, insomma, non è
repressa: è raggirata, è nascosta in «un’area al limite tra conscio e inconscio», in una comoda «zona
grigia». E la scissione non è subita, è utilizzata.
È un «compromesso di integrità» - secondo una
calzante definizione di Leo Rangell (3) riportata
dall’autrice del saggio.
Una grande varietà di casi mi pare si offra oggi ai
nostri occhi: ci sono i professionisti che indugiano
in un feroce senso critico verso chi elude il fisco,
ma poi di fronte alle proprie ingenti spese e all’ingombro delle tasse si adagiano alla non fatturazione
dei propri servizi; ci sono i letterati che si indignano
ogni qual volta un premio lo vince chi aveva conoscenze in giuria, ma poi si rivolgono alle proprie
amicizie per assicurarsi che, questa volta, finalmente tocchi a loro essere considerati con il giusto valore; ci sono le persone per bene che inveiscono contro chi deturpa, con la propria presenza, parti belle
della città per spacciare droga, ma hanno il numero
privato del loro personale fornitore quando devono
organizzare feste in casa in cui non può mancare un
po’ di cocaina (tanto dilagante da fare paura nel
nostro paese) per ravvivare la serata; o quelli che
considerano debolezza mentale il rifugio del cocainomane, ma poi ogni sera combattono lo stress
fumandosi in pace un innocuo spinello, distensivo,
se non terapeutico. Tanto questa non è dipendenza.
Il problema potrebbe quasi far sorridere, essere
individuato come semplice ipocrisia - e talvolta lo
è - ma spesso è molto di più.
Eh sì, perché certi individui credono veramente in
ciò che difendono o criticano, ma non sono disposti ad aderire con scelte di vita al valore che proclamano. Operano, insomma, per avere un vantaggio segreto: «continuare a godere di una buona
autostima e sentirsi protagonisti di scelte ideali
senza pagare il prezzo della coerenza».
Simona Argentieri, nel suo breve saggio, analizzando non i casi eccezionali, ma appunto quelli
«minimali, ai confini della normalità», spiega con
parole semplici e chiare quanto nocivo possa
essere questo subdolo meccanismo, se perpetuato.
Con la malafede, infatti, aspetti fortemente contraddittori della personalità si alternano senza
generare conflitto, disagio perché manca il tentativo di «stabilire nessi, di sintetizzare coerentemente […] i propri vissuti cognitivi e affettivi».
Se l’individuo persiste nel vivere questa forma di
ambiguità, oscillando in una dualità contraddittoria ma non conflittuale (il dubbio e l’ambivalenza
sono da considerarsi situazioni più sane, giacché
vi è consapevolezza della difficoltà di superare
l’ansia della contraddizione) però non potrà godere soltanto del privilegio di non affrontare realmente la propria coscienza. La rimozione di questi nessi, funzionale all’eliminazione dell’angoscia, ha infatti un prezzo: provoca l’alterazione,
l’inibizione di altri «circuiti affettivi o intellettivi». Pensiamo al nostro corpo. Ai suoi collegamenti nervosi: un incidente nel quale sono colpito
alla testa, mi procurerà mal di schiena, magari
crampi allo stomaco, mi sentirò indolenzito, la
mia andatura rallenterà. Il male insomma si estende, difficilmente resta confinato, circoscritto.
Sarebbe troppo facile per la nostra psiche riuscire
in un autoinganno senza perdere qualcosa di sé.
Il meccanismo della malafede poi è resistente e come tutte le malattie - tende a «difendere se stes-
so, a riproporsi, a perpetuarsi, resiste con forti
quote di aggressività a ogni tentativo di smascherarlo, poiché […] l’uscita dall’ambiguità provoca
ansia , confusione, colpa e disagio».
Il conflitto, la sofferenza sono dunque forme sane
di rapportarsi a se stessi e agli altri. Fanno maggior presa con la realtà.
Con cosa hanno a che fare invece le scelte ideali?
Filosoficamente parlando, Sartre risponderebbe:
con la fuga dal non essere, che si infiltra nella
nostra coscienza, nella realtà umana, con il nostro
desiderio d’essere e di ricostituzione di una totalità originaria, con la percezione di sé come mancanza che genera angoscia. Ecco, proprio questa
angoscia induce a coprire la verità, la quale ben
prima di essere verità dei fatti in questione è
verità di limite della coscienza umana.
La psicanalisi può usare altre parole: le scelte
ideali hanno a che fare con un problema narcisistico non risolto.
Resta il fatto che la società oggi è davvero malata
di malafede.
La tolleranza alla convivenza di diverse etnie, per
esempio, può diventare una forma di malafede: nel
senso che si può essere tolleranti non per scelta etica,
ma per convenienza, perché è più facile “fingere”
indulgenza che sapersi indignare se qualcosa minaccia la nostra identità e differenza culturale - che è
nostra certezza e come tale va salvaguardata. La neutralità è «imperdonabile nella vita civile», espressione subdola di una società che si autolusinga.
Karl Popper affermava che la tolleranza non può
essere illimitata e che essere devoti all’idea di tolleranza mette a rischio la libertà.
Ma certamente anche l’intolleranza, a sua volta,
può rappresentare una forma di regressione
all’ambiguità. La storia insegna come grandi violenze siano state compiute per conservare un potere, per eliminare l’estraneo, l’altro da sé che
minaccia il nostro confine: sia esso politico, ideologico, culturale. Eliminando l’altro, elimino il
conflitto. Ecco allora che anche l’intolleranza può
condurre all’indifferenziato.
Una società per essere sempre pronta al cambiamento, all’ospitalità, dovrebbe sapersi misurare
quotidianamente con la propria capacità di discriminare, valutare, riconoscere le differenze «a
livello dei significati».
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In nome di scelte ideali, troppo spesso, non si
compiono scelte semplici e coerenti, per non sentire il peso di una responsabilità d’azione che
comporta rinuncia, dolore. Si cade così in un torpore dove manca la costrizione e ad un tempo la
libertà, dove manca il risveglio della coscienza,
mancano i colori. Ecco la zona grigia diventa questo: una società che si autocondanna al degrado,
un corpo e una mente dove sono recisi i nessi, uno
spazio di adattamento sempre meno autentico.
«L’angoscia è la possibilità della libertà» - sosteneva Kierkegaard - e «la possibilità è la più
pesante di tutte le categorie»(4).
Note bibliografiche
1 - Simona Argentieri, L’ambiguità, Einaudi, Torino, 2008. L’autrice è membro ordinario e didatta dell’Associazione Italiana di Psicanalisi e dell’International Psycho-analytical Association. Vive e
lavora a Roma.
2 - Ronald Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale.
Einaudi, Torino, 2001.
3 - Leo Rangell, psicanalista, oggi presidente onorario dell’Associazione Internazionale di Psicanalisi.
4 - Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Edizioni SE, 2007.
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