il frasario essenziale del fedifrago: istruzioni per l`uso
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il frasario essenziale del fedifrago: istruzioni per l`uso
il frasario essenziale del fedifrago: istruzioni per l’uso È stato dimostrato da ricerche approfondite condotte sul campo che ogni marito fedifrago, quando si rivolge alla propria amante, attinge, più o meno inconsapevolmente, a un repertorio consolidato, una sorta di serbatoio dell’inconscio collettivo adulterino. È come se i traditori avessero accesso a un manuale segreto in cui sono racchiuse le frasi utili a innamorare, rabbonire, turlupinare le malcapitate, nel tentativo di perpetrare all’infinito la bigamia. Le amanti, nei primi tempi della relazione (e talvolta per un periodo molto lungo prima di insospettirsi), ascoltano con orecchie vergini le asserzioni del fedifrago, credendo nell’esclusività di quelle parole e ignorando che si tratta invece di formule condivise da tutta la categoria dei traditori. Tali formule corrispondono a enunciati standard – con variazioni idiosincratiche minime – che accompagnano ogni fase della relazione: dalle sperticate dichiarazioni d’amore alle promesse di un futuro diverso, passando attraverso i ripensamenti (guarda caso, sempre post-coitali) nonché i moniti, le precisazioni, le preoccupazioni, le giustificazioni, le gelosie, le autocommiserazioni, le fantasie poligame, le pietose o 8 impietose descrizioni opportunistiche della legittima consorte e delle copule coniugali, le esaltazioni appassionate del polimorfo sesso extra-coniugale, e per concludere, i finti abbandoni e le nuove epifanie. Qualunque sia la verità scientifica in proposito, a partire da oggi ogni donna possiede uno strumento indispensabile di difesa personale, perché il manuale del fedifrago non è più segreto: è qui, tra le vostre mani, sotto i vostri occhi, affinché vi possa essere di aiuto e di conforto. Le mogli sapranno cosa raccontano i mariti alle amanti. Le amanti si accorgeranno di non essere sole, ma di subire insieme a migliaia di altre tapine un’ineluttabile logosfera comune. E infine, i fedifraghi dotati di intelligenza e umorismo potranno ridere di sé, ma forse chissà, talvolta anche riflettere. Il fatto è che ci sono due modi per affrontare un tema doloroso come il tradimento: la tragedia e la commedia. Noi abbiamo scelto di corredare il frasario del fedifrago con storie vere di ordinaria comicità, sia perché il comico è la forma moderna del tragico, sia perché ridere dei propri disastri quotidiani è l’unico modo per non esserne sopraffatti. Come suggerisce l’assennato finale del Falstaff di Verdi, la realtà della condizione umana è che siamo tutti gabbati. Così, con uno sguardo di tenerezza rivolto al nostro annaspare, davvero non ci resta che ridere. dichiarazioni e promesse Gli uomini sposati inondano le amanti con dichiarazioni e promesse, attingendo a vari registri linguistici, con una marcata predilezione per la retorica e l’enfasi. Guardano le povere allocche e gridano quasi, percuotendosi il petto: “Ma quanto stracazzo ti amo! Io non posso smettere di amarti! Non ho mai provato una cosa del genere! Non possiamo gettare via tutto questo! Eri tu la donna per me!”. E, se il sillogismo vale ancora qualcosa, dovrebbe essere facilissimo per loro assecondare la passione declamata, separarsi dalla moglie e andare a vivere con l’amante. Ma non è così. I maschi, e in particolare i fedifraghi, concepiscono nettamente distinte la sfera dei sentimenti sublimi, e quella della concretezza e dei vantaggi. Ecco quindi che, alle prime timide perplessità sollevate dalle amanti, si adombrano e iniziano a mitragliare promesse e rassicurazioni del tipo: “Non sarà sempre così per noi, amore mio. Dammi sei mesi. Io non sono come gli altri uomini sposati…”. Queste promesse sono già un po’ diverse dalle dichiarazioni (e preparano le dure frasi di seguito elencate nel manuale). Contengono molti condizionali, e puntini di sospensione. Sono slabbrate da un’irritante vaghezza. Alludono alla presenza di ostacoli oggettivi ma superabili. E difficilmente (tranne che nella intramontabile “dammi sei mesi”, ormai svuotata di una reale connotazione temporale) accennano a una progettualità concreta e veritiera. 12 io non ti farò mai soffrire (Anche nella versione arricchita dalla suggestiva locuzione: “Piuttosto che farti soffrire mi butterei sotto a un camion”). Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone constatava uno stato di patimento universale che affligge non il genere umano solamente, non gli animali solamente, ma tutti gli esseri: le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Basta entrare in un giardino: benché in apparenza ridente, benché nella stagione più mite dell’anno, non vi si incontrerà altro che sofferenza. La rosa offesa dal sole, il giglio succhiato dall’ape, l’albero infestato dal formicaio o da bruchi o da mosche o da lumache o da zanzare; il ramicello rotto dal vento, lo zeffiretto che straccia un fiore, e là una pianta che ha troppo caldo, un’altra troppo fresco, o troppa luce, o troppa ombra. Per non parlare poi del passaggio umano, quantunque nell’innocenza del camminare. Scrive infatti il recanatese: “Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi”. Allora ecco che mi rivolgo a te, fedifrago che stai leggendo queste pagine, e garbatamente t’invito alla riflessione. Come puoi avere la certezza che non farai mai patire la tua amata? Tant’è vero che già stai procurando tribolazioni alla donna che ha avuto 13 la malasorte di accasarsi con te, benché tu, molto probabilmente, non te ne renda neanche conto. Cosa ti fa pensare che non sarai mai causa del dolore altrui, dal momento che anche un piede incolpevole e ignaro straccia l’erba del giardino e schiaccia la formica senza nemmeno accorgersene? Chi sei tu per avere la tracotanza di dichiararti inoffensivo? Morale della favola, quando un uomo sentenzia “io non ti farò mai soffrire”, bisogna scappare subito. Gambe in spalla, e via. In un borgo della montagna abruzzese viveva un carrozziere che si dilettava a scrivere poesie. Un giorno d’estate si presentò in officina una ragazza forestiera che era in vacanza sulla Maiella e aveva avuto un piccolo incidente con la macchina, un rincoglionito non si era fermato allo stop e le aveva ammaccato il paraurti. Al carrozziere bastò guardarle la bocca carnosa per incapricciarsene, e non appena abbassata la serranda corse a casa a scrivere versi. «C’ sctì fa’*?», gli chiese la moglie mentre friggeva le barbabietole. «Non lo vedi che sto scrivendo? Lasciami in pace». «Ancora quelle brutte poesie?». «Tu non capisci niente, tu non mi hai mai capito! Io sono costretto qui dai casi avversi della vita, ma se fossi nato altrove, e avessi avuto altre frequentazioni, sarei un grande poeta riconosciuto in tutto il mondo». La moglie rise la sua grassa risata che conteneva anche qualche rutto, e il poeta come sempre s’offese a morte. Restò immusonito per tre giorni, piangendo la sorte amara che lo costringeva a riparare i rivestimenti esterni delle automobili nella carrozzeria che era stata di proprietà del padre della consorte, ormai defunto. * Che stai facendo? 14 Lo sfortunato poeta ritrovò il sorriso quando la forestiera passò a ritirare la macchina. «Non so come ringraziarla», gli disse lei. «È stato così gentile da parte sua ripararmi l’auto tempestivamente! Domani torno ad Ancona, la vacanza è finita e da lunedì si ricomincia a lavorare». «Si figuri signorina, è stato un piacere. Se non è molestia, un modo per ringraziarmi ci sarebbe. Dato che domani è già in partenza, vorrei mostrarle un posto panoramico da cui si domina tutta la vallata, un luogo meraviglioso noto solo ai temperamenti romantici come il mio. Sa, io appena posso mi ritiro lassù in solitudine a scrivere i miei versi». «Lei scrive poesie?». «Non so se definirle poesie, non oso tanto. Sono versi, li scrivo fin da quando ero bambino. Avrei voluto nascere altrove per poter coltivare questa mia passione, ma la vita è assurda e crudele. Qui in paese non mi hanno mai capito. Ah, fossi nato a Parigi! Là sì che sarei stato felice e avrei fatto vita di bohème!». Poi prese la mano della forestiera e attaccò a cantare con un bel timbro tenorile, sebbene stonando, che gelida manina, se la lasci riscaldar... A questo accenno operistico, la giovane sorrise. Il carrozziere era galante, e aveva un fascino misterioso, o almeno questo è ciò che lui, con un certo savoir faire, le faceva intendere. E poi era un bell’uomo, alto e robusto, e aveva occhi castani come i boschi d’Abruzzo, che tanto l’avevano affascinata. Risero insieme, poi il carrozziere continuò il racconto con un tono tra il dolente e il rassegnato. «Da ragazzino ho dovuto mettere da parte i sogni e imparare un mestiere. Ho cominciato a lavorare in questa carrozzeria, di cui tre anni fa sono diventato proprietario. Be’, non è del tutto mia, in parte è di mia moglie, e della piccola Irene». Al che sospirò con amarezza, come per farle intendere una profonda infelicità coniugale. E anche, in modo subdolo, per mettere in 15 chiaro a priori il suo stato civile, la paternità e la condizione economica, legata a doppio filo a quella della consorte (si tratta di una tecnica ben nota agli adulteri impenitenti). La ragazza, che era una credulona, si intenerì. Accettò l’invito, e i due partirono in macchina per raggiungere il luogo da lui decantato, che si rivelò essere niente di che, ma alla forestiera piacque molto, forse perché era il carrozziere a piacerle. Quell’uomo le metteva addosso un’inquietudine dolce, il che la preoccupava non poco. Lui era ammogliato, e questo la induceva a pensare che bisognava stargli alla larga, una sua amica aveva avuto una lunga storia con uno sposato e ne era uscita mezza matta. Ricordatelo sempre, le diceva la sua amica. Non credere mai mai mai, e ti ripeto mai, alle parole degli uomini sposati. Mentono. Qualsiasi cosa fuoriesca da quelle bocche schifose, si tratta di menzogna. Ricordatelo sempre. E la forestiera se lo ricordava. Ma quando lui, prendendola per mano, le lesse la poesia che aveva scritto il giorno in cui si erano visti per la prima volta, la giovane, che di poesia non capiva un cazzo esattamente come il carrozziere stesso, trovò quei brutti versi meravigliosi. Sarà stato perché erano rivolti a lei, e questo bastava a farglieli apprezzare, sarà stato perché il carrozziere poeta la fissava con sguardo ipnotico, ma quel momento fu l’inizio della fine. E come accadde per i celeberrimi amanti danteschi, galeotti furono i versi e chi li scrisse: il carrozziere interruppe la lettura e, tutto tremante, le baciò la bocca. Ma in quel preciso momento li sorprese lo strillo acuto del cellulare. Era la moglie. «Gaetano!», lo apostrofò una voce querula e primitiva. La risposta di Gaetano fu un grugnito. «Dove sei? Stai tornando? Preparo ammangiare?», lo incalzò la signora. «Arrivo subito», rispose con mestizia il fedifrago, mentre guardava la forestiera con occhi affranti. 16 «Dai muoviti, che friggo le frattaglie», e riattaccò. «Devi andare...», disse con timidezza l’anconetana. Il carrozziere annuì. «Non è per mia moglie», sospirò. «È per la piccola Irene. Se non rientro per cena potrebbe avere una crisi epilettica». «Oh!», esclamò angosciata la ragazza. «Vai! Vai subito!». Due mesi dopo la situazione era scappata di mano a entrambi. Il carrozziere, rinvigorito da quella relazione insperata con una giovane donna che addirittura apprezzava le sue poesie, non faceva altro che scrivere versi e lettere melodrammatiche indirizzate all’amante, la quale con uno stato d’animo tra la felicità e la malinconia aveva preso a fare la spola fra Ancona, dove viveva, e una piccola città abruzzese lungo la costa, luogo deputato agli incontri clandestini. La marchigiana non avrebbe mai voluto trovarsi invischiata in un adulterio, ma non riusciva a staccarsi da quell’uomo magnetico. Tuttavia, sempre memore delle sagge parole dell’amica impazzita d’amore, diffidava delle promesse che il suo amato le faceva con un’enfasi da attore dozzinale, e ciò era motivo di collera per Gaetano, che pretendeva a tutti i costi di essere creduto. «Tu non ti fidi di me», le diceva il carrozziere. «Ma io ti dimostrerò che ti sbagli. Io non ti farò mai soffrire. Piuttosto che farti soffrire mi butterei sotto a un camion». Ecco, l’aveva detta la frase indicibile, il condensato di tracotanza che avrebbe meritato una punizione esemplare da parte di tutti gli dei dell’Olimpo, se questo fosse un racconto mitologico anziché una storia vera. Al cospetto di tanta presunzione, sarebbe stato il momento di darsela a gambe, ma l’anconetana era troppo innamorata per scappare. E poi, quella stupidaggine del camion... mah. Gli era forse venuta in mente perché era un carrozziere? Ma perché mai avrebbe dovuto buttarsi sotto a un camion per evitare sofferenze 17 all’amante? Non sarebbe bastato dire tutto alla moglie? Che bisogno c’era di un sacrificio tanto inutile quanto assurdo? «Gli uomini sposati non lasciano le mogli, Gaetano, io lo so», obiettava lei con tristezza. A quel punto Gaetano si imbestialiva, sembrava che una vipera gli avesse morso una chiappa e cominciava a urlare, invelenito. «Io non sono come gli altri uomini sposati! Io sono diverso, hai capito? Io sono bellissimo, noi siamo bellissimi, tu devi accettare il fatto che ci amiamo alla follia e ci ameremo per sempre!». «Sì, ma così non potrà durare. Non possiamo passare tutta la vita a incontrarci di nascosto a Tortoreto Lido. Io voglio un amore alla luce del sole. E tua moglie, poveretta, non merita di essere ingannata. Nessuno merita di essere ingannato». «Ma che ne sai tu di mia moglie! Lascia stare mia moglie, con lei non ho dialogo, non c’è comunicazione, non mi capisce. Io e mia moglie non ci amiamo, non ci siamo mai amati. Io non ho mai amato nessuna come amo te». «Ma scusa, allora perché ti sei sposato?». A una domanda così ovvia e naturale, Gaetano grugniva impermalito. Poi ammutoliva. Poi attaccava con i lamenti. «È stato un errore. Un terribile errore che mi ha rovinato la vita». «Ma il rimedio c’è. Si chiama sincerità. Parlatevi. Non ci pensi a lei? Non credi che anche lei abbia il diritto ad avere un amore, un’altra possibilità? Come si può vivere senza una carezza?». «Mi devi dare tempo. Non posso sconvolgere la vita della piccola Irene dall’oggi al domani. Dammi sei mesi». «È giusto», annuiva l’anconetana, che apprezzava sinceramente la cautela nei confronti della piccola epilettica. Il carrozziere, che sempre andava vantando la propria singolarità e originalità, non si accorgeva di essere un coacervo 18 dei cliché tipici dell’adultero. Tutte le frasi che pronunciava sembravano uscite pari pari da questo manuale, con l’aggiunta di patetiche infiorettature di gusto tardo ottocentesco. «Io devo risolvere questa situazione, ma mi dilania il fatto che tu non abbia fiducia in me. Io lo so, lo sento che tu non ti lasci andare completamente, che ti proteggi, crei una barriera. Ma io non sono come quegli stronzi dei tuoi ex, io sono un uomo vero, e ti amo da impazzire. Non capisci che quello che sento per te non ha confini?». «Eh be’, insomma. Qualche confine mi pare che ce l’abbia», obiettava l’anconetana facendo stizzire Gaetano, il quale amava i melodrammi e detestava che lei ironizzasse. «E allora lasciami! Lasciami e poi vieni a sbirciare cosa sarà la mia vita!», urlava lui, alludendo al fatto che, a suo tempo, si sarebbe comunque separato. A quel punto alla marchigiana veniva da piangere, si sentiva in colpa per la propria diffidenza. «Gaetano, io ti amo, come posso stare senza di te? Come posso lasciarti?». (A forza di frequentare Gaetano cominciava anche lei ad avere dimestichezza con le scene madri). «Non piangere amore mio. Io non ti farò mai soffrire. Mai e poi mai ti farò del male!». Eccolo di nuovo, ancora con ’sta storia del “non ti farò mai soffrire”. E sì che, a giudicare dalle lacrime, a farla soffrire aveva già cominciato. Ma dai oggi e dai domani, a furia di dichiarazioni d’amore estreme la giovane anconetana finì per credergli, dismise ogni protezione cautelare e si affidò completamente al suo carnefice, il quale, non appena fu certo di averla in pugno, la straziò. Cominciò con la tipica infilata di disgrazie (vedi alla voce di questo manuale: “Suo padre sta morendo lentamente di Alzheimer”) e continuò con l’intero repertorio. Tutto. Non si fece mancare nulla. 19 Quando la moglie insospettita gli perlustrò il cellulare e scoprì la tresca, fu una tragedia. «O con noi o contro di noi», disse a Gaetano, includendo in quel noi anche la piccolina. Cominciò per il fedifrago smascherato un periodo di libertà vigilata, durante il quale incontrarsi con l’amante fu del tutto impossibile. Il loro diventò un amore fatto solo di email, di canzoni struggenti linkate su youtube, di trombate altrui visionate su youporn, nonché di missive vergate a mano con penna stilografica e carta da lettere filettata in similoro, perché era così che a Gaetano piaceva infiorettare e inviare le sue poesie. Passarono i mesi. Il carrozziere, in quanto impegnato su due fronti spinosi che lo facevano sudare oltremodo, tribolava come un mulo: doveva ammansire la coniuge, spergiurando di aver troncato la relazione adulterina, e contemporaneamente salvaguardare il rapporto con l’amante, malgrado le difficoltà logistiche dovute alle restrizioni impostegli dalla legittima consorte. Quando la cornuta si persuase che tra i due amanti fosse finita, si rilassò e tornò a concedere al marito libertà di movimento, al che gli adulteri ripresero gli incontri clandestini pomeridiani nel solito alberghetto di Tortoreto Lido. Poi accadde che durante l’estate l’anconetana tornò in vacanza in montagna. Il giorno in cui scorse Gaetano in canottiera in riva al fiume Aventino mentre – in compagnia della moglie e di una combriccola di loro amici dalle sembianze cavernicole – si ingozzava di interiora d’agnello impanate e fritte, le venne un groppo in gola che la immalinconì più del consueto. Ma nel momento in cui lo vide brandire un osso e chiamare Irene una caccola di cane scorrazzante e nevrastenico, quasi svenne: si sentì ingannata, presa in giro, turlupinata in modo abominevole, e capì che il suo poeta non avrebbe mai lasciato né la friggitrice né la cagna isterica. Partì per Ancona per non ritornare più. 20 Gaetano la cercò disperatamente, le scrisse lettere strappacuore, le spedì versi che esibivano uno struggimento lancinante, le spiegò che la piccola Irene era come una figlia per loro, e che sua moglie, se lui avesse avuto l’ardire di separarsi, avrebbe per vendetta agito come una moderna Medea, squartando la cagnolina e facendola a pezzi che avrebbe poi impanato e fritto, e infine servito a cena agli amici trogloditi. Ma la marchigiana, irremovibile, non rispose. Fino al giorno in cui cadde, cadde di nuovo, perché cadere è quanto di più bello. Lo dice anche il poeta Rainer Maria Rilke che, al contrario di Gaetano, ha scritto pagine meravigliose: “E noi che pensiamo la felicità come un’ascesa, ne avremmo l’emozione quasi sconcertante di quando cosa ch’è felice, cade”. Peccato però che l’anconetana abbia avuto la sventura di cadere per un uomo immeritevole. Be’, succede. Forse è contenta lo stesso? Non si sa. Insomma si rividero, si amarono per l’ennesima volta nell’alberghetto di Tortoreto Lido e, tra mille vicissitudini, stanno ancora insieme. E intanto passano gli anni, e l’anconetana sa che legandosi a un fedifrago non avrà mai una famiglia, ma se le famiglie sono come quella del suo poeta carrozziere, preferisce un amore struggente e vivo, un amore che sappia di qualcosa, oltre che di fritto. La signora, del tutto consapevole della perdurante infedeltà del marito, continua a rosolare barbabietole come se niente fosse. Ogni tanto, quando lo vede rientrare appagato e felice dopo un pomeriggio fuori paese a ritirare pezzi di ricambio per la carrozzeria, minaccia la cottura della piccola Irene. Al che lui, per qualche tempo, rinuncia agli incontri con l’amante. Talvolta la moglie sbatte con le corna sugli stipiti delle porte, ma nessuno la vede. E questo, per lei, è ciò che più conta.