La memoria narrata - “Elio Vittorini” (Napoli)

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La memoria narrata - “Elio Vittorini” (Napoli)
La memoria narrata
collana diretta da
GUIDO D’AGOSTINO
UGO MARIA OLIVIERI
MARIO ROVINELLO
sezione memorie e storia
1
Scriveva Gabriel Garcia Marquez, «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».
Difendere e promuovere la memoria rappresentano così un dovere
morale, non solo per evitare pericolosi «oblii» e per risarcire chi è
stato vittima, ma soprattutto per dare speranza alle future generazioni
e per riconoscere a tutti il diritto a conservare la propria identità senza
subire alcun tipo di discriminazione.
La collana «La Memoria narrata» richiama – e si richiama a – due
tra le operazioni essenziali che compie l’intelletto umano: il ricordare
e lo scrivere, avvicinandole fino a fonderle. Nulla più della memoria
fornisce la chiave identitaria della nostra essenza e della nostra esistenza: come è stato detto, «alla fin fine, noi siamo ciò che ricordiamo»
ed il tempo che abbiamo già vissuto illumina il cammino di quello
che ci resta ancora da compiere.
Quanto alla scrittura, senza arrivare a dire che siamo addirittura,
ciascuno di noi, la nostra rispettiva grafia, è bene non sottovalutare
paura e potere dello scrivere. Tra la dimensione materiale dell’annodare una lettera all’altra e quella immateriale del pensiero che va connettendosi nelle sue parti vi è un’evidente corrispondenza.
Nel tempo in cui ognuno sembra essere sempre proteso al futuro
e poco propenso, invece, a fermarsi a riflettere su ciò che è accaduto
nel passato, vicino o lontano si tratti, l’esigenza di raccontare o semplicemente indagare su quanto occorso prima di noi è avvertita da più
parti. Spesso ci si imbatte in romanzi a sfondo storico o nelle scritture
che esprimono il desiderio di dare voce a chi non c’è più: memorie
di famiglia o diari di guerra. D’altronde, non è un caso che l’iniziativa nasca sotto il segno di anni-anniversari commemorativi quali la Liberazione nazionale (1945) e l’inizio, anche per l’Italia, della Grande
Guerra (1915): due eccezionali serbatoi, appunto, di scrittura e di ricordo, cioè di «memoria narrata».
La collana, che intende accogliere, in due distinte sezioni (una intitolata «romanzi», l’altra «memorie e storia»), opere dell’ingegno in
grado di riportare l’attenzione su passaggi particolarmente significativi
della storia, risponde, dunque, a questo diffuso sentire.
GUIDO D’AGOSTINO
UGO MARIA OLIVIERI
MARIO ROVINELLO
ISTITUTO CAMPANO PER LA STORIA DELLA RESISTENZA,
DELL’ANTIFASCISMO E DELL’ETA` CONTEMPORANEA
«VERA LOMBARDI»
L’onda della libertà
Le Quattro Giornate di Napoli
tra storia, letteratura e cinema
a cura di
Ugo Maria Olivieri, Mario Rovinello e Paolo Speranza
introduzione di
Guido D’Agostino
I Curatori sono a disposizione degli aventi diritto per quanto riguarda l’immagine utilizzata in copertina.
OLIVIERI, Ugo Maria; ROVINELLO, Mario; SPERANZA, Paolo (a cura di)
L’onda della libertà
Le Quattro Giornate di Napoli tra storia, letteratura e cinema
Collana: La memoria narrata
sezione memorie e storia, 1
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2015
pp. X+102; 24 cm
ISBN 978-88-495-3048-3
© 2015 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.
80121 Napoli, via Chiatamone 7
Internet: www.edizioniesi.it
E-mail: [email protected]
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo
(compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
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ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla siae del compenso previsto
dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra
siae, aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 dicembre 2000.
Indice
Introduzione di GUIDO D’AGOSTINO
VII
VALENTINA ABUSSI, Le Quattro Giornate di Napoli e il dibattito sull’invenzione della storia
1
MASSIMILIANO GAUDIOSI, Scrivere la città. Gli spazi urbani nelle
Quattro Giornate di Napoli
9
ARTURO MARTORELLI, Le Quattro Giornate di Napoli nella storia del cinema italiano
17
UGO MARIA OLIVIERI e MARIO ROVINELLO, «Come un pesce in un
acquario stagnante». La memoria delle Quattro Giornate e la
condizione degli intellettuali napoletani tra gli anni quaranta e
sessanta del Novecento
23
ANTONIO PISCITELLI, Un quartiere nella rivolta. Le memorie di un
«vicolo»
43
FRANCESCO SOVERINA, Intorno alle Quattro Giornate di Napoli…
tra cinema e storia
55
PAOLO SPERANZA, Un film «marcatamente antitedesco»: la Germania di Bonn contro Le Quattro Giornate di Napoli
63
MAURIZIO ZINNI, Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla
cronaca alla storia
81
Appendice
Immacolata Del Gaudio, recensione a Giuseppe Ghigi, La
memoria inquieta. Cinema e resistenza
93
L’immagine ritrovata: il nuovo dvd del film di Salvatore Iorio
97
Introduzione
Fare cinema partendo dalla storia,
fare storia partendo dal cinema
Scelta oltremodo felice, quella dei curatori di questo volume, nel
quale si ritorna su un tema cruciale della storia contemporanea di
questa città: il moto popolare delle Quattro Giornate di fine settembre-inizio ottobre 1943 attraverso cui Napoli disse ‘basta’ e decise di prendere il proprio destino nelle proprie mani. Prima grande
metropoli europea a ribellarsi alla brutale presenza tedesca ed a liberarsi prima ancora dell’ingresso delle truppe alleate, con un’azione che come fu rilevato «a caldo» indicava al resto d’Italia quale
via si sarebbe dovuta seguire per una generale insurrezione che
mettesse fine alla guerra, sancisse la vittoria del Movimento di liberazione nazionale, restituisse libertà, democrazia, coscienza antifascista, avviasse la complessa transizione alla Repubblica. È dunque
importante cogliere e valorizzare tale passaggio che lega Napoli e
il Mezzogiorno al più decisivo snodo storico dell’intera Nazione; ribadire, dentro e fuori noi stessi, che non solo c’eravamo al fatidico
‘appuntamento’ con la grande storia, ma ne abbiamo segnato l’inizio e abbiamo continuato a contribuirvi.
***
Come è ovvio, la storiografia sulle Quattro Giornate si è interrogata, a più riprese e in momenti culturali diversi, a lungo, tuttavia, soffermandosi sulla natura dell’insurrezione, sui suoi protagonisti, sul carattere di movimento spontaneo della gente comune
a fronte di una situazione di assoluta insopportabilità, materiale
prima ancora che etica e politica. E perciò stesso, sul ‘tasso’, per
così dire, di consapevolezza organizzativa, sulla presenza e sul ruolo
di stimoli e valori autenticamente antifascisti messi in campo e sorretti da precise strategie da parte delle forze politiche strutturate.
Per la verità, un dibattito non particolarmente utile e produttivo,
VIII
Guido D’Agostino
e per di più appesantito da pregiudizi legati alle diverse appartenenze partitiche.
In ogni caso, continuo a ritenere profondamente ‘politico’ il
sociale che si auto-organizza e che decide di decidere, collettivamente e persino in maniera quasi istintiva, collocandosi «dalla parte
giusta».
Hanno più ragione, se è lecito dire così, quanti hanno parlato
e scritto delle straordinarie vicende di allora – ormai 72 anni fa –
come il frutto di una sentenza politica a lungo elaborata nelle coscienze che infine irrompe nell’urto, come primordiale, con la vita
reale, oppure hanno insistito sulla partecipazione mista, trasversale,
rispetto a classe di appartenenza, età, genere, condizione culturale,
pregresse esperienze esistenziali, o ancora hanno precisato, con tenacia puntualizzatrice, che «gli insorti rappresentavano la generalità della popolazione napoletana e, in particolare, un certo livello
storico dei mutamenti in corso nelle strutture di carattere delle
classi subalterne». E che pertanto «ridurre le Quattro Giornate…
al censimento dei partecipanti attivi o degli armati significa impoverire un quadro problematico che vide il coinvolgimento complessivo di grandi masse proletarie, sottoproletarie e popolari» (L.
Cortesi). Hanno dunque torto coloro che si sono distinti per l’individuazione che hanno fatto delle Quattro Giornate come di un
fenomeno assimilabile ad una jacquerie della Francia contadina nel
Medioevo, o alla lotta per la difesa disperata di beni materiali primari o, ed è a mio avviso anche peggio, ad un sommovimento di
tipo tellurico e/o tipicamente ‘vesuviano’.
***
Ma torno alle belle pagine di questo libro, che toccano quella
che potremmo definire percezione/rappresentazione delle Quattro
Giornate della e nella letteratura, nella storia e, in misura anche
maggiore, nel cinema, con particolare riferimento al celebre, e ormai classico, e di culto, film di Nanni Loy, che risale al 1962.
Non sono esperto, benché appassionato, di cinema in genere e,
nel caso specifico, ho visto la pellicola di Nanni Loy decine di volte,
spessissimo in occasioni nelle quali si è andati nelle scuole, a trasmettere memoria, a spiegare come la memoria sia un diritto e, in-
Introduzione
IX
sieme, un progetto della vita che si ha ancora avanti a sé. Bene,
oggi sono più che mai convinto di non sapere dire se il film sia
un capolavoro (anche se lo penso e continuo ogni volta ad emozionarmi), ma sono altrettanto e assolutamente certo che i napoletani di oggi conoscono e sanno delle Quattro Giornate ciò che
quel film ha mostrato loro. In altri termini, Loy ha fatto del cinema
che ha costruito storia, generato conoscenza e senso comune in relazione ad un evento fondamentale per la nostra stessa identità.
Non sarebbe giusto, perciò, pretendere da lui che si immedesimasse
nella diatriba polemica o che facesse un documentario, un cinemaverità. Ha fatto, secondo me, di più e meglio: quello che a fronte
delle rabbiose proteste, accuse e recriminazioni da parte dei tedeschi all’uscita del film ha fatto scrivere sulle colonne del «Times»
di Londra che si trattava del più bel film sulla Resistenza italiana
(dopo «Roma città aperta»), un film onesto, sincero, nobile e pieno
di profondo calore umano: in pratica, uno dei più bei film di guerra
che sia mai stato fatto.
Concordo e sottoscrivo, nonostante le riserve e i limiti che pure
devono esserci stati e peraltro qui stesso evidenziati; il punto resta
che per il regista non era evidentemente necessario e importante
trascrivere in linguaggio filmico i dati concreti della realtà storica
codificata nel lavoro storiografico, bensì cogliere insieme, nel particolare e nell’universale, l’anima di un popolo, la sua capacità di
sottrarsi al destino imposto da altri, la sua volontà di riscattarsi e
ricominciare a vivere sapendo ormai che ribellarsi si può. Di qui,
presumo, la chiave prevalente, dominante – sebbene non esclusiva
– dell’epica popolare, enfatizzata, per di più, da una stupenda fotografia (gli occhi, i volti degli ‘scugnizzi’, delle donne, del marinaio fulminato barbaramente sulle scale dell’Università, del tenente
Stimolo, degli ostaggi ammassati nello stadio, e via dicendo) e da
una colonna sonora indimenticabile. Può dispiacere che un film
abbia potuto incidere più di libri, conferenze, testimonianze?
Non credo, e in ogni caso l’atto creativo nelle arti in genere, e
nel cinema in questo caso, merita altro tipo di considerazione che
non quello della mera trasposizione in immagini di pagine della
Storia. Si può fare, ma non è certo quanto compete obbligatoriamente al cineasta; tocca semmai agli storici di professione fare al
meglio il proprio mestiere, lasciando all’ispirazione artistica di fare
X
Guido D’Agostino
ciò che muovendo dalla storia si sente esprimere. Non pretendo,
naturalmente, di avere ragione, né tantomeno di chiudere una questione – il rapporto tra cinema e storia – che resta attuale ed aperta.
Ma credo bello e giusto ricordare la straordinaria realizzazione di
Nanni Loy nell’anniversario delle Quattro Giornate di Napoli e a
vent’anni dalla sua scomparsa.
GUIDO D’AGOSTINO
VALENTINA ABUSSI
Le Quattro Giornate di Napoli
e il dibattito sull’invenzione della Storia
La fantasia ch’altro non è, che memoria o dilatata, o composta.
(Giambattista Vico)
La programmazione dei cinema, oggi come ieri, scorre senza
che nessuno le presti troppa attenzione finché non giunge nelle
sale un film che accende gli animi e fa lungamente parlare di sé.
Anche in ciò ravvisiamo l’eccezionalità caratteristica dei capolavori:
scuotere dal torpore, portare alla ribalta temi e problemi, dar vita
al dibattito. Le Quattro Giornate di Napoli di Loy riesce addirittura a
diventare una questione internazionale, tra gli americani che lo accolgono entusiasti nella rosa dei candidati agli Oscar1, e i tedeschi
che polemizzano contro la lesa immagine del loro paese agli occhi
del mondo2.
Certo potrebbe apparire limitante – soprattutto per un’opera curata e tecnicamente complessa come questa – che il dibattito si conduca in gran parte sulla scelta e il trattamento del soggetto; va sottolineato tuttavia non solo che la storia ha una sua intrinseca imprescindibilità nel dar forma al discorso (e particolarmente nel film
storico e per Loy3); ma che il suo impatto emotivo, l’attenzione ri-
1
Alcune note entusiaste dell’accoglienza americana al film si trovano in
L. TAMAGNINI (a cura di), Nanni Loy: una monografia, Assessorato Istituzioni Culturali, Reggio Emilia 1981, p. 79.
2
«Le polemiche della stampa tedesca contro il film di Loy sono note. Da Die Welt,
a Der Stern, da Der Abend allo stesso ambasciatore tedesco in Italia, le proteste hanno
toccato punte altissime con toni sdegnosi e furenti». E. BRUNO, Le quattro giornate di
Napoli, in «Filmcritica», gennaio 1963, n. 129, pp. 55-58, p. 57.
3
Loy è infatti contrario ai registi che inseguono la bella forma fine a sé:
«Nel caso del mio film una deliberata ricerca formalistica non c’è, evidentemente; tuttavia non ho neanche voluto dare quel tono crudamente documentaristico che è straor-
2
Valentina Abussi
chiamata è diretta conseguenza della diligente costruzione che vi è
dietro.
Non va dimenticato anche se la considerazione rivolta al moto
insurrezionale partenopeo sembra possedere in sé i caratteri di una
provocazione o le ragioni per l’esaltazione del film.
«Ma lei, alle quattro giornate di Napoli ci crede?»4 domanda tendenziosamente quel giornalista che, all’acme delle polemiche tedesche contro il film, definisce la rivolta partenopea un parapiglia tra
papponi e prostitute.
Un atto di fede o un’adesione ideale, che trascende il dato bruto,
sembrano comunque necessari per comprendere e interpretare l’evento storico in questione poiché: «I moti napoletani del settembre 1943
per le loro caratteristiche, si differenziano profondamente dalle azioni partigiane che li seguirono al Nord. Una serena valutazione di essi non va fatta
sull’arida base statistica dei materiali risultati (in ogni modo rilevantissimi);
ma deve scaturire dal livello spirituale di cui s’informarono e dalle particolari condizioni di tempo e di luogo in cui ebbero vita»5.
Dunque grandi capacità immaginifiche, di reinvenzione del reale
a partire da tracce e da stracci (e straccioni), particolare sensibilità
per i caratteri e le caratteristiche fondamentali di un popolo, sono
le qualità richieste al regista alle prese con la ricostruzione dei fatti
delle Quattro Giornate: «Ho impiegato sei mesi a cercare una documentazione seria sulla lotta dei napoletani contro i tedeschi, e se invece di
dinario e splendido, per esempio, in Paisà; è stato il carattere stesso che ho voluto dare
alla narrazione a imporre un certo stile. Avrete forse notato che la tecnica prevalente
nelle 4 giornate è quella del campo lungo, dal quale di rado si staccano piani più ravvicinati. Anzi avrei voluto abbondare ancora di più nel campo lungo, avere prospettive
profondissime, inquadrare interi quartieri; ma naturalmente questo non sempre è stato
possibile per ragioni di traffico e anche per il pericolo di inquadrare edifici moderni e
anacronistici. Mi pare comunque che l’alternarsi improvviso di primi piani a campi
lunghi e a visioni complessive dia una certa efficacia alla vicenda creando un rapporto
fra gli individui e la coralità degli avvenimenti, il che è proprio quel che volevo ottenere» in «Conversazione con Nanni Loy», Bianco e Nero, 1962, p. 66.
4
J. STEINMAYR, in G. ROGHI, I tedeschi ci accusano, in «L’Europeo», anno
XVIII, 18 dicembre 1962, n. 50, pp. 60-67.
5
«Le quattro giornate», Guida Mercurio, 1946, in G. BUFFARDI (a cura di),
Libertà vo’ cercando… Le Quattro giornate nella poesia, nella letteratura, nella storiografia, Istituto Campano «Vera Lombardi», Napoli 2008, p. 11.
Le Quattro Giornate di Napoli e il dibattito sull’invenzione della Storia
3
fare un film avessi dovuto scrivere un libro, avrei abbandonato l’idea. In
fondo la documentazione più significativa di quelle giornate di settembre
l’ha lasciata il famoso fotografo Robert Capa e le sue “quattro giornate” restano uno dei suoi servizi più appassionati e attenti. C’è una foto memorabile di Capa, quella dello scugnizzo sporco e stracciato con l’elmetto tedesco in testa. È un’immagine che fece il giro del mondo e che per me, mentre cercavo di chiarire certe formule del film, è stata come un’immagine
chiave. È servita a impostare il racconto in un certo modo più di qualsiasi
scoperta documentaria»6.
Non c’è storia senza racconto, e forse davvero il film di Loy ha
il merito di aver inventato la storia laddove si recuperi il senso etimologico di inventare, dal latino «invenire», scoprire cercando, dar
la prima esistenza a cosa che non si conosceva: «A onore del regista
e del produttore va segnalato il coraggio di avere affrontato una materia
scottante, non del tutto vagliata dalla storia, e in gran parte ancora affidata a memorie orali. Mai all’episodio dell’insurrezione napoletana era stato
dedicato tanto impegno, né tanta ampiezza di illustrazione documentaria
(Non si possono fare confronti con “O Sole Mio” di Gentilomo, né con parziali sequenze di altri film)»7.
Ecco che la prima e più istintiva accoglienza del film si traduce
in gratitudine, un grazie per aver cercato e trovato, per aver visto:
«Dissi pubblicamente a Goffredo Lombardo, quando seppi che si accingeva
a produrlo: «Ti ringrazio. Non succede mai che la nostra città venga riverita o accarezzata dall’intera nazione. In realtà, la snobbano. […] La Resistenza fu il Nord e al Nord ha trovato i suoi molti, forse troppi aedi […]
A Napoli no, scriviamo sull’acqua i nostri meriti, un fiato di libeccio li
cancella». E figuratevi se, dopo un lamento simile, venuta la prima lode
cinematografica al mio paese e alla mia gente, sto qui a rivedere minuziosamente le bucce a Nanni Loy […]»8.
Il valore di questo contributo alla memoria è infatti tale che il
film non può essere giudicato solo per i suoi meriti artistici: «Al
6
N. LOY, A Napoli niente cronaca, in «Filmcritica», agosto 1962, n. 124, pp.
416-417.
7
B. SCOLARI, Le Quattro giornate di Napoli, in «Il ragguaglio librario», anno
XXIX, novembre 1962, n. 11.
8
G. MAROTTA, I meriti di Napoli, che un fiato di libeccio dissolve, in «L’Europeo», a. XVIII, 25 novembre 1962, n. 47, pp. 102-103.
4
Valentina Abussi
momento in cui scrivo c’è l’iniziativa di assegnare al film di Loy il premio della Stampa Estera per il miglior film dell’anno. A dire la verità io
penso che sia “Giuliano” sia “L’Eclisse” siano migliori come opere artistiche; ma voterò per “Le quattro giornate di Napoli”. Spero che esso abbia
l’ambito premio come prova che non tutti noi stranieri in Italia siamo d’accordo di “dimenticare” e che apprezziamo l’opera della cinematografia italiana nell’immortalare quegli avvenimenti con opere di grande valore artistico e morale»9.
Schierarsi per il film diventa una questione politica, e così mentre molti ambienti di sinistra ne promuovono la diffusione10 a Roma
si tiene il 20 novembre una conferenza stampa indetta dal regista
e dal produttore «cui hanno partecipato l’on. Caradonna, del msi, il sen.
Palermo, del pci, e il sen. Sansone, del psi. Il primo, ispirandosi a temi ricorrenti del neofascismo, ha espresso ‘preoccupazioni per i riflessi che il film,
interpretazione unilaterale di fatti storici italiani, potrà avere sia sui rapporti attuali con il popolo tedesco, sia sull’onore dell’esercito e quindi dell’intero popolo italiano’»11.
Il dibattito si diffonde: «Stupisce, peraltro, che fra tutti coloro i quali,
con maggiore o minore opportunità, si sono inseriti nella polemica, soltanto
pochi abbiano tentato di analizzare a fondo il motivo dell’irritazione […]
che il film di Nanni Loy ha suscitato in certi ambienti tedeschi […]»12;
chi ha provato questa analisi ne ha dedotto che «Quel che più ha
indignato e offeso i ‘camerati’ tedeschi […] è proprio che si sia ricordato la
sconfitta del grande esercito del Reich ad opera di una massa di straccioni,
di diseredati, di scugnizzi»13.
9
J.F. LANE, Le quattro giornate di Napoli, in «Filmselezione», p. 21.
«Il Mattino», domenica 2 dicembre 1962, p. 8 riporta un trafiletto in
cui si annuncia una mozione socialista al Consiglio Comunale in favore del
film avanzata dai consiglieri comunali Locoratolo e Acocelli. La mozione propone di organizzare proiezioni gratuite non solo nelle scuole, ma in tutti i
quartieri della città.
11
«Il regista Nanni Loy difende dai neo-fascisti «Le quattro giornate di Napoli», La Stampa, mercoledì 21 novembre 1962; anche in Cfr. P. CESAREO, Vivace dibattito a Roma su «Le quattro giornate», in «Il Mattino», mercoledì 21 novembre 1962, p. 3.
12
R. BALBI, I tedeschi e le Quattro giornate, in «Nord e Sud», anno X, febbraio 1963, n. 38, pp. 46-47.
13
F. CARPI, La lezione delle quattro giornate di Napoli, in «L’Europa letteraria»,
10
Le Quattro Giornate di Napoli e il dibattito sull’invenzione della Storia
5
Indipendentemente dall’aver colto le ragioni dell’irritazione (non
solo)14 germanica per il film, questa idea va in ogni modo riconosciuta centrale per comprendere l’interesse anche successivo di Loy
per il capoluogo campano: «L’imprevisto è sempre previsto a Napoli, una
città che mostra spudoratamente aspetti quasi intollerabili di disorganizzazione sociale, ma che nasconde un segreto: rappresenta nella maniera più
vistosa e spettacolare, un correttivo a società troppo organizzate, conquistate
dai miti della produzione e del successo»15.
L’aspetto dovrebbe essere assunto anzi come vero e proprio motivo poetico/politico del regista. Così intendendolo appaiono molto
più inconsistenti le critiche alla mancata adesione ai fatti o il pericolo vista la loro rievocazione a distanza «che la testimonianza, la quale
ieri ci appariva diretta e violenta, si trasformi oggi in una “ricostruzione”,
che può acquistare più il significato di una discutibile operazione “archeologica” che non di una penetrante misura conoscitiva del passato»16. O
meglio è proprio in quanto operazione archeologica che scava a
fondo nella sostanza e nell’indole del popolo partenopeo ricavandone ipotesi storiche, mantenendosi assolutamente in bilico tra realtà
e finzione, che ne si apprezza il valore: «Già altre volte Nanni Loy
ebbe a precisarci che il suo non voleva essere un film storico e né la ricostruzione, romanzata, abbellita di un avvenimento recente, ma una cantata
popolare, se proprio si volesse andare alla ricerca di una definizione. Avere
la pretesa di ricostruire, sulla scorta di documenti, giorno per giorno, quell’avvenimento che oggi va sotto la denominazione di “Le quattro giornate
di Napoli” sarebbe significato fare una cosa arida, falsa. La documentaXII-62, n. 18, p. 130 anche in Un’insurrezione popolare, in «Il Nuovo spettatore
cinematografico», anno V, febbraio 1963, n. 1, pp. 110-113, p. 111.
14
Invero non sono solo i tedeschi ma anche gli esponenti della Resistenza
napoletana a turbarsi: «I partigiani napoletani, riuniti in assemblea […] considerato che detto film che si autodefinisce «tra cronaca e storia» travisa la gloriosa epopea
di quelle giornate, di cui non coglie lo spirito né ricorda gli episodi storici, producendo
così una errata informazione dell’opinione pubblica italiana; […]», in I partigiani di
Napoli hanno chiesto il ritiro del film sulle «4 giornate», in «La Stampa», domenica
18 novembre 1962.
15
N. LOY (intervista a), in R. ROMBI, Napoli, ti amo e ti odio, in «la Repubblica», 11 gennaio 1993.
16
A. FERRERO, Dal cinema al cinema, Longanesi, Milano 1980, p. 196, già in
«Mondo Nuovo», n. 22, anno IV, 9 dicembre 1962.
6
Valentina Abussi
zione è servita per comprendere la portata dell’avvenimento; ma, giacché fin
da ora quelle «Quattro giornate» sono leggenda, epopea, solo la forma della
“Cantata popolare” poteva rendere il significato dell’avvenimento, la sua
poesia, la sua drammaticità»17.
Del resto chi invoca Rossellini come esempio di maggiore adesione agli eventi storici e di un più asciutto realismo18, non considera come anche delle sue opere si possa dire che «Alla ricerca della
compassione dello spettatore, entusiasmi e drammi hanno oscurato la lotta
clandestina come è stata vissuta dai partigiani e, hanno trasformato la resistenza in qualcosa d’irreale»19. Questa «severa» tipologia di giudizio,
per Rossellini come per Loy, sembra trascurare quanto sentimentale sia la tradizione culturale a cui gli italiani (e i napoletani poi
in maggior misura) sono educati, e che influisce sui modi di vivere
l’esperienza del reale più ancora che la produzione testuale.
Molto prima che Ferro restituisca al film il suo valore di testimonianza storica in quanto controanalisi della società, sulla stessa
lunghezza d’onda si muove Loy20. Il cinema della controanalisi storica mira infatti alla restituzione di una memoria dimenticata dai
testi ufficiali, per cui imprescindibile diventa la questione della
presa di posizione, ovvero l’assunzione del punto di vista dal basso,
di chi non ha mai diritto alla parola, delle caste inferiori e, nel
nostro caso, di coloro che non decidono la guerra ma ne rimangono incastrati e disorientati: «Addo’ sta a guerra? vanno chiedendosi
i cittadini napoletani, essi cercano per inseguirlo e scacciarlo, un fenomeno
che odiano, perché troppo estraneo al loro gusto, e tanto più lo odiano in
quanto li ha costretti a lasciarsene irretire»21. In questo senso il punto
17
V. RICCIUTI, «Le quattro giornate di Napoli» in anteprima all’«Opera» di Roma,
in «Il Mattino», venerdì 16 novembre 1962, p. 8.
18
Cfr. A. FERRERO, Dal cinema al cinema, cit.; E. BRUNO, Le quattro giornate di
Napoli, cit.; B. SCOLARI, op. cit.; ma l’accostamento con i capolavori di Rossellini avviene anche per rilevarne la continuità, Cfr. «Time», 15 marzo 1963.
19
Lo dice Pierre Sorlin di Roma città aperta e di tutti i film neorealisti. P.
SORLIN, Guerra e resistenza, in Storia del cinema mondiale, L’Europa, Einaudi, Torino 2001, p. 719.
20
Cfr. M. FERRO, Le film: une contre-analyse de la societé, «Annales» ESC, 28,
1973, pp. 224-26 anche in Cfr. M. FERRO, Cinema e storia, Feltrinelli, Milano
1980.
Le Quattro Giornate di Napoli e il dibattito sull’invenzione della Storia
7
di vista dal basso coincide con quello pacifista, di disprezzo per
ogni guerra.
E se «uno degli aspetti interessanti del cinema, segnalato dagli storici
contemporanei, riguarda la capacità dei film di descrivere con immediatezza
(anche se attraverso immagini ricostruite) e di rendere la “temporalità particolare [dove] si gioca la storia di persone assolutamente normali”, autorizzando l’irruzione di singoli individui nella narrazione d’insieme della storia»22, alla temporalità qui fa riscontro anche una spazialità particolare, con la stessa topografia della città che viene alla ribalta come
coadiutrice della rivolta: «Tutta Napoli è protagonista, e lo si può ben
dire riferendosi anche alla particolare struttura della città, all’intrico e alla
insidie dei vicoletti che paralizzò i potenti mezzi bellici del nemico e rese difficile i movimenti della truppa esposta agli agguati dei rivoltosi»23.
Il film rappresenta «l’aspirazione alla dignità che si sovrappone, nel
popolo in lotta, alla molla iniziale dell’istinto di conservazione»24; e non
solo per quel processo che «si sviluppa pienamente al momento delle
trattative con i tedeschi, quando il generale – rifiutandosi di parlare con
gli “straccioni” – riassume la posizione degli occupanti, che non è solo quella
di un esercito straniero, ma di un’ideologia razzista e totalitaria, e quando
il capitano mutilato chiarisce il valore della lotta popolare «Questi straccioni
la loro dignità se la sono conquistata combattendo» e il significato politico
che ne deriva: “Perciò è lui che detta le regole”»;25 ma, ancora, in quanto
aspirazione alla dignità della storia, un processo (anche questo) che
si sviluppa nel tempo, dalla reazione istintiva al nemico di allora,
alla costruzione di una consapevolezza del passato che continua ad
essere viva oggi, anche grazie a questa testimonianza cinematografica.
21
G. CINCOTTI, Le quattro giornate di Napoli, in «Bianco e Nero», dicembre
1962, n. 12, p. 68.
22
M. LAGNY, Il cinema come fonte di storia, in Storia del cinema mondiale, Teorie, strumenti, metodi, Einaudi, Torino 2001, pp. 272 e p. 273.
23
G. CIACCIO, Le 4 giornate di Napoli, in «La rivista del cinematografo», dicembre 1962, n. 12, p. 417. Curioso che in molti ricordino come la stessa Napoli invece si apra e si metta: «al servizio del «suo» film, impiegandovi in larga
misura il suo popolo, sospendendo il traffico, e rifacendosi, in una maniera che sa di
prodigioso, il volto devastato in quei giorni» L.P., «La Stampa», sabato 17 novembre 1962.
8
Valentina Abussi
Allora il principale valore del film è davvero favorire la nascita
di una coscienza storica, per la quale non sembra neanche più sufficiente la storiografia (quella scientifica), ma che ha bisogno del
racconto, anche a prezzo dell’inesattezza, della mitizzazione, dell’invenzione. Spetterà semmai dopo allo storico «sapere come passare
dalla traccia alla fonte, trasformare il film in «documento» e, a tale scopo,
come interrogare le immagini, veritiere e ingannevoli al tempo stesso»26.
24
S. ZAMBETTI, Le quattro giornate di Napoli, «Cineforum», anno 3, gennaio
1963, n. 21, pp. 27-45, p. 44.
25
Ibidem.
26
M. LAGNY, Il cinema come fonte di storia, cit., p. 281.
MASSIMILIANO GAUDIOSI
Scrivere la città.
Gli spazi urbani nelle Quattro Giornate di Napoli
Accanto alla indiscutibile capacità di rievocazione storica degli
episodi delle Quattro Giornate che sconvolsero Napoli, uno degli
aspetti più sorprendenti del film di Nanni Loy riguarda il ruolo di
protagonista concesso alla città. L’importanza conferita alla rappresentazione urbana è riscontrabile in tutte le fasi produttive della
pellicola: Loy decide di ambientare le scene esclusivamente in luoghi dal vero, rifiutando i teatri di posa della Titanus e girando quasi
interamente in esterni. Il film costituisce in questo senso un enorme
sforzo produttivo, e un lavoro sulle location di grande rilievo, come
si può evincere dai documenti di produzione: a fronte di un costo
complessivo di L. 689.745.956, per la voce ‘occupazioni luoghi – indennizzi’, ovvero per il risarcimento dei danni provocati dalle riprese (chiusura dei negozi, ripulitura delle strade, ecc.), che è soltanto una delle molte sotto-categorie indicate alla voce ‘Esterni’, risultano spesi ben L. 57.195.4031.
In fase di scrittura il regista ha trascorso circa tre mesi a Napoli
tra sopralluoghi e ricerca di documenti e testimonianze, per riportare nella sceneggiatura un’elevata quantità di luoghi. Tale sovrabbondanza è d’altronde presente nel trattamento inedito dal titolo
L’ammuina, scritto da Vasco Pratolini, e nella sceneggiatura realizzata da Carlo Bernari, Nanni Loy, Massimo Franciosa e Paquale Festa Campanile su un soggetto iniziale di Paolo Ricci. Nel testo di
Pratolini l’intenzione precisa di esaltare lo sfondo a dispetto dei
personaggi è enunciata nella premessa:
1
Le altre sotto-categorie incluse negli Esterni sono: ‘Trasporto persone e
materiale’, ‘Diarie’, ‘Varie’, ‘Energia elettrica-Gruppi-Carburatori’, ‘Trasporti’,
per un totale di L. 145.576.627. Per questi dati cfr. il fascicolo del film depositato presso l’Archivio Centrale dello Stato, Fondo del Ministero Turismo
e Spettacolo, Divisione Cinema, CF. 3936.
10
Massimiliano Gaudiosi
Di film sull’8 settembre, nell’ultima stagione se n’è avuta una fioritura.
[…] Ma tutti i film finora apparsi, sono centrati su un dato episodio,
raccontano le vicende di uno o più personaggi presi singolarmente.
Nessuno ha ancora tentato di cogliere un momento corale di quell’epopea tanto oscura quanto enorme. Il dramma di un’intera città, per
esempio. Una città come Napoli2.
Questa intenzione di portare in primo piano il paesaggio urbano
è altresì presente nelle scene che sono state gradualmente espunte
dalle tante versioni – ben undici – della sceneggiatura, e che non
hanno trovato posto nel film. Carlo Bernari ricorda che il motto che
circolava nel gruppo degli sceneggiatori era «Non bisogna affezionarsi
a nessuno!», e questa esigenza era dovuta al genere di film cui si stava
lavorando, «privo di un soggetto, tutto affidato a una poliedrica estemporaneità, sempre imprevedibile»3. Le scene che finirono per sparire,
e che furono oggetto di accese discussioni tra gli sceneggiatori, erano
proprio le più legate alla descrizione dei personaggi, come quella che
indugiava sui gusti raffinati del colonnello tedesco Scholl, e tanti episodi che finivano per mettere troppo in rilievo certi caratteri. In particolare, Bernari ricorda i due finali previsti nel copione:
uno più patetico (la morte del sottocapo Pitrella, che non ce la fa a
raggiungere Sorrento) l’altro più tragico, che […] narrava la processione delle bare dei caduti, fra le quali, quasi nascosta, c’è una piccolissima bara, quella di Gennarino, che sua madre Concetta, ancora
cerca fra le gambe della gente che si è riversata sulla via.
In sede di montaggio a questi due finali ne fu preferito un terzo,
che non era un vero e proprio finale, ma che aveva l’unico pregio di
non chiudere su un singolo personaggio, che avrebbe perciò solo assunto importanza di protagonista, guastando la coralità del film4.
2
V. PRATOLINI, L’ammuina, soggetto dattiloscritto conservato a Firenze presso
l’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto G. P. Vieusseux,
Fondo Pratolini [F. VP. 2.3], p. 2. Sono grato ad Aurelia Pratolini per avermi
permesso di pubblicare in questa sede alcuni brani del testo.
3
C. BERNARI, Le quattro interminabili giornate di Carlo Bernari, in «Cinema
Nuovo», 1963, 166, p. 431.
4
Ivi, p. 432.
Scrivere la città
11
La pellicola si conclude infatti con l’ingresso in città delle truppe
alleate e con l’esultanza dei napoletani. In questa sua testimonianza
Bernari tralascia però il finale scritto da Pratolini, un finale che ha
un sapore molto più tragico e che calca la mano sulla spietatezza
dell’esercito tedesco. Nelle ultime pagine del trattamento, una camionetta di soldati tedeschi in fuga verso Roma si ferma davanti a
una casa, per chiedere a una famiglia di contadini se hanno visto
passare gli americani, il nemico. Prima che qualcuno possa rispondere, una donna anziana, stordita, solleva una mano in direzione dei tedeschi e, in modo innocente, dice: «’O nemico… Eccoli, sono loro…». Come per riflesso i soldati aprono il fuoco decimando tutti i presenti, per poi risalire sulla camionetta5.
Questo finale non indugia su personaggi precisi ma chiude nel
dramma e nella violenza, rompendo in modo brusco il pathos dei
due sottofinali, e cioè l’esaltazione per l’ingresso degli americani e
il corteo funebre dietro la bara di Gennarino: un finale che agli
sceneggiatori deve essere apparso troppo audace e pessimistico6. Nonostante le differenze che si possono riscontrare tra le varie fasi
della scrittura, la ferrea decisione di non concedere spazi a personaggi principali persiste anche nella sceneggiatura finale, che su un
totale di ottantotto scene previste, ne prevede ben settantasei ambientate in esterni, indicando con esattezza la denominazione della
via, della piazza o del vicolo in cui si muovono i personaggi, lasciando pochissimo margine a indicazioni generiche. In una conversazione pubblicata su «Bianco e Nero», Nanni Loy ha ricordato
l’impatto di una tale presenza di esterni in fase di lavorazione:
in nessun’altra città avrebbero consentito che una troupe creasse tanto
disordine; debbo anche dire che per nostra fortuna – e per sfortuna
5
V. PRATOLINI, op. cit., pp. 249-250.
Pratolini non ha mancato di rilevare i molti cambiamenti apportati in
fase di sceneggiatura, e in particolare l’eccessiva tendenza ad ‘aneddotizzare’
il suo trattamento. Si veda a questo proposito A. VANNINI, Pratolini e il cinema:
cronaca di un amore deluso, in Vasco Pratolini tra cinema e teatro, a cura di P. Bartolini, Biblioteca comunale «Alessandro Lazzerini», Prato 1992, p. 80.
6
12
Massimiliano Gaudiosi
di Napoli – il disordine della città è ancora tale per cui l’aggravio portato da una troupe come la nostra fu sentito in modo relativo7.
L’impatto sulla città è stato effettivamente elevato, nel momento
in cui, per circa dodici settimane, Napoli si è trasformata in un
fronte di guerra, tra barricate, scontri a fuoco e sfilate di tank tedeschi. Le riprese, iniziate l’8 maggio e proseguite fino al 24 luglio
1962, si sono svolte quasi interamente a Napoli, tranne che per le
scene in cui i marinai nascondono le armi, realizzate a Gaeta, quelle
al campo sportivo del Vomero (girate nello stadio Vestuti di Salerno, architettonicamente più fedele all’aspetto che aveva lo stadio
napoletano negli anni Quaranta), e un interno a Roma, girato lì
per un’indisponibilità dell’attrice Pupella Maggio a raggiungere il
set partenopeo. Anche in quest’ultimo caso, però, è stato tutto girato in un ambiente vero «dal quale si intravede anche una stradina che può somigliare a un vicolo napoletano»8.
In generale nel film predominano luoghi non turistici, e scorci
lontani dall’inconfondibile gouache della città: se in apertura è riconoscibile la basilica di piazza del Plebiscito, l’apparizione di un
luogo noto come piano di ambientazione pare una sorta di concessione allo spettatore prima di condurlo in un racconto che nega
al suo sguardo una topografia riconoscibile. A prova di ciò basterebbe il riscontro della totale invisibilità del golfo e del Vesuvio.
Queste e altre palesi esclusioni sono tutte a favore della Napoli dei
vicoli, delle rampe e delle salite, delle piazzette nascoste dietro
schiere di palazzi.
La funzione di personaggio che ricopre la città non investe soltanto il racconto ma anche lo stile del film, come lascia intuire
l’uso reiterato del campo lungo. Il campo lungo è per convenzione
quell’inquadratura che attribuisce un pieno dominio del paesaggio
e include grandi porzioni di spazio. Si tratta della classica inquadratura del film western, dei suoi paesaggi sconfinati, o di quella
dei film di Eizenstejn, con le strade brulicanti di persone anonime:
immagini di grande respiro spaziale in cui non è possibile ricono7
Nanni Loy in Le ragioni delle quattro giornate. Colloquio con Nanni Loy, in
«Bianco e nero», 1962, 12, p. 57.
8
Ivi, p. 54.
Scrivere la città
13
scere i personaggi se non come sagome indistinte. Nelle Quattro
Giornate di Napoli il campo lungo diventa la cifra stilistica più ricorrente, come ammette lo stesso Loy:
la tecnica prevalente nelle 4 giornate è quella del campo lungo, dal
quale di rado si staccano piani più ravvicinati. Anzi avrei voluto abbondare ancora di più nel campo lungo, avere prospettive profondissime, inquadrare interi quartieri; ma naturalmente questo non sempre
è stato possibile per ragioni di traffico e anche per il pericolo di inquadrare edifici moderni e anacronistici9.
Questa tecnica è agevolata anche dalla scelta di una pellicola dal
formato 1,85:1, un formato che allarga le distanze assicurando allo
spazio una notevole autonomia.
Il campo lungo è il filtro attraverso il quale la città e le sue
strade si trasformano in elementi dominanti del racconto. Il direttore della fotografia Marcello Gatti ha avuto un ruolo essenziale in
questo senso, così come sono state determinanti sulla resa del film
le sue innovative riprese in esterni. Come ricorda Gatti, per venire
incontro a questa scelta stilistica del campo lungo, in alcune scene
del film è stato fatto anche ricorso a trucchi fotografici (circa quattro), curati dal pittore Joseph Nathanson:
si trattava di aumentare l’effetto già ottenuto dallo scenografo, con la
ricostruzione delle macerie, facendo anche apparire degli edifici diroccati. Sono stati disegnati sul negativo, in corrispondenza delle immagini di edifici, dei fondi neri, sui quali poi si sono fatte le riprese
di edifici diroccati. Attraverso questi effetti speciali alcuni luoghi come
il mercato ittico o come via Caracciolo sono stati contornati da rovine
e da case distrutte10.
Gatti si riferisce alla tecnica del glass-shot e del matte-shot, in uso
quasi esclusivamente nel cinema di genere e quasi mai adottata «in
film d’impianto realista, perché era considerata un intervento dalle
9
Nanni Loy in Le ragioni delle quattro giornate. Colloquio con Nanni Loy, in
«Bianco e nero», cit., p. 66.
10
Marcello Gatti in Le ragioni delle quattro giornate. Colloquio con Nanni Loy,
cit., p. 57.
14
Massimiliano Gaudiosi
marcate connotazioni fantastiche, addirittura antirealistiche»11. Anche il contributo dello scenografo Gianni Polidori è stato fondamentale, per la capacità di fondere le macerie immaginarie con le
macerie reali dislocate sulla scena, tonnellate di calcinacci che una
decina di camion spostavano da un set all’altro durante le riprese.
Tutti questi espedienti, all’interno di una visione ‘allargata’ come
quella del campo lungo, esaltano lo stravolgimento e la desolazione
di una città abitualmente vivace come Napoli, e gli spazi aperti si
alternano a piani ravvicinati sui personaggi, creando un rapporto
fra gli individui e la coralità degli eventi, fra gli abitanti e la loro
città.
Anche per ciò che riguarda il campo lungo possiamo parlare di
scelte suggerite dal trattamento. Nella premessa de L’ammuina si riporta che quello del film è
un racconto libero nella sua stesura narrativa, come se la macchina da
presa (guidata dal nostro occhio diciamo di posteri ormai) si rendesse
testimone dei fatti, spostandosi ora qua ora là nei diversi rioni della
città12.
In certi passaggi del trattamento l’idea di campo lungo diventa
addirittura esplicita, come nella scena in cui uno dei tanti personaggi del racconto si ritrova a osservare le devastazioni degli scontri:
dal suo nascondiglio, come in campo lunghissimo, egli vede adesso
quei manifestanti che si fanno d’incontro all’autoblindo; e l’autoblindo
che spara a zero, idem sparano da bordo del camion: i manifestanti
cadono come burattini, altri fuggono trovando scampo nei vicoli…e
senza interrompere la loro marcia l’autoblindo e il camion procedono
verso Mergellina. Restano sulla strada, nella luce vivida dell’alba, i corpi
dei caduti13.
Sul piano delle scelte spaziali, è infine doveroso un confronto
11
S. MASI, Quando la realtà è in agguato, in Storia del cinema italiano. 19601964, X, a cura di G. De Vincenti, Marsilio, Venezia 2001, pp. 457-458.
12
V. PRATOLINI,, op. cit., p. 4.
13
Ivi, p. 28.
Scrivere la città
15
del film con la grande scuola del neorealismo, poiché la lezione di
Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis è da intendere anche in termini paesaggistici: con il neorealismo il paesaggio assume connotati realistici senza perdere la propria funzione simbolica. Nelle Quattro Giornate di Napoli ritroviamo una funzione molto simile, con una
città che diventa un interlocutore negativo, ovvero un paesaggio che
«non è più semplice sfondo di una storia, ma si contrappone al
personaggio e invece di lasciarsi guardare come un oggetto, gli restituisce lo sguardo»14. Come ricorda Sandro Bernardi, al cinema il
rapporto tra paesaggio e personaggio che guarda è sempre centrale, anzi la presenza di un osservatore, che è parte essenziale del
paesaggio stesso, «implica un riferimento all’atto del guardare che,
se nella letteratura e nella pittura è ricorrente, nel cinema moderno
e contemporaneo diventa essenziale, costitutivo del linguaggio stesso»15.
Nelle Quattro Giornate questa articolazione si evince chiaramente nel
graduale passaggio da una dimensione oggettiva, preponderante
nella prima parte, a una dimensione sempre più soggettiva nella
seconda parte, con una elevata quantità di personaggi che osservano gli spazi e che mediano il punto di vista della macchina da
presa, ora per sparare sul nemico, ora per assistere alle devastazioni
perpetrate dai tedeschi. Da una condizione di impotenza iniziale,
che si traduce in un’osservazione neutra sulla città, passiamo progressivamente a una presa di coscienza, ed è forse per questo che
nelle inquadrature trovano posto sempre più di frequente dei personaggi intenti a scrutare il paesaggio.
14
15
S. BERNARDI, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002, p. 107.
Ivi, p. 16.
ARTURO MARTORELLI
Le Quattro giornate di Napoli
nella storia del cinema italiano
Nella storia del cinema italiano del dopoguerra un ruolo decisivo hanno esercitato i cosiddetti «generi». Come accaduto negli
USA a partire dagli anni d’oro di Hollywood, sono i generi il tessuto connettivo del cinema in quanto industria dello spettacolo,
forse più di quegli «autori» sui quali si fonda il prestigio di una cinematografia.
Sono stati i generi, dalla commedia di costume al dramma sentimentale al film a soggetto «storico», a segnare, in particolare, la
rinascita dell’industria cinematografica in Italia nel secondo dopoguerra e a permettere, nella loro varietà, di tener fronte alla concorrenza, soprattutto col cinema hollywoodiano, e a istituire un rapporto stabile col pubblico di massa che è il punto di riferimento
dell’attività produttiva.
Un particolare discorso meritano i film di «guerra». Per tutto
il corso degli anni Cinquanta, infatti, i temi della guerra nel cinema
italiano sono toccati in misura minore e spesso solo in riferimento
alla storia dell’età moderna se non quella dell’età classica. C’è grande
prudenza nell’affrontare, se non in maniera agiografica, la storia
patria, dal Risorgimento al Novecento. Fino al capolavoro di Monicelli, La grande guerra (1959), anche la guerra 1915-18 è letta sullo
sfondo di drammi e vicende private, spesso in chiave sentimentale.
I temi più vicini nel tempo, quelli del Fascismo e della Resistenza,
dopo i capolavori di Rossellini (Roma città aperta, 1945, e Paisà, 1946)
fino ad Achtung! Banditi! (1951) di C. Lizzani sono addirittura rimossi (abbondano film nei quali viene esaltato l’eroismo dei nostri
soldati nella Seconda guerra mondiale, da Carica eroica, 1952, a Uomini ombra 1954, di F. de Robertis, a Divisione Folgore, 1954, di D.
Coletti, a El Alamein, 1958, di G. Malatesta), per poi sfumare come
sfondo di altre storie per tutto il corso degli anni Cinquanta.
Fioriscono altri generi, ma gravi limiti incontra la diffusione di
18
Arturo Martorelli
un cinema «politico», complice l’imperante clima di censura che
tende ad ostacolare in vari modi nell’opinione pubblica la presa di
coscienza del recente passato, impedendo a sceneggiatori e registi
di affrontare in chiave critica i temi concernenti il regime fascista,
i suoi complici, i suoi alleati e mettere nel dovuto risalto le vicende
di chi a quel regime si era opposto. È una rimozione imposta dall’alto dalla volontà di una classe dirigente spesso culturalmente se
non politicamente omogenea al vecchio regime. È un clima, quello
che si impone, di soffocante conformismo, favorito da una censura
sulla libertà di comunicazione che tende a spegnere, sulla scorta di
leggi ancora fasciste, ogni tentativo di rinnovamento civile. I tentativi di revisione critica delle recenti vicende belliche (è il caso del
soggetto, 1953, di un film sulla guerra di Grecia, pubblicato su una
rivista e poi mai realizzato, L’Armata s’agapò scritto da R. Renzi e G.
Aristarco, a causa del quale i due autori furono condotti davanti a
un tribunale militare e condannati per vilipendio alla Forze armate
venivano stroncati sul nascere. Il rischio di offendere le istituzioni
nelle figure di questa o quell’arma dell’esercito o delle forze dell’ordine limitava di fatto non solo la libertà degli autori ma metteva a rischio di insuccesso economico i produttori «incauti».
Per circa quindici anni non c’è, di fatto, nelle istituzioni, nella
scuola, nei mezzi di comunicazione di massa filogovernativi (stampa,
radio e la nascente televisione), al di là della retorica di facciata,
alcun richiamo al momento storico della Resistenza come avvio di
un processo di rinnovamento democratico del Paese e della società
civile. La stessa Costituzione, nata dalla Resistenza, era, d’altronde,
ignorata e disattesa, vigendo in gran parte nei codici ancora le leggi
fasciste. Né, fino al 1956, c’è stata una Corte che vigilasse sulla costituzionalità dei provvedimenti legislativi. Di qui, il fatto che la memoria e le celebrazioni della Resistenza, a partire da quella del 25
aprile, finissero per essere riservate alle iniziative degli schieramenti
politici di sinistra che erano i soli a rivendicarne la paternità e difenderne la memoria.
Di fatto, nonostante il Paese si reggesse su una moderna Costituzione come quella del ’48, la legislazione del ventennio fascista
ha continuato il suo corso e ha trascinato i suoi effetti ben oltre
gli anni Ottanta, con la conseguenza di frenare sensibilmente la
crescita civile del Paese.
Le Quattro Giornate di Napoli nella storia del cinema italiano
19
Alla fine degli anni Cinquanta si prepara tuttavia una svolta. Sta
mutando il clima politico. I timidi tentativi di «apertura a sinistra»
(come nel gergo politico di quegli anni si intendeva il coinvolgimento dei socialisti in responsabilità governative e che sfocerà nei
primi governi di centrosinistra) vanno di pari passo a un maggior
coraggio produttivo, nella nostra cinematografia, confortato anche
da un certo successo di pubblico. La svolta è segnata, in quel genere che vogliamo chiamare «storico», dalla premiazione alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del 1959 col Leone d’oro
ex-aequo a due film, Il generale Della Rovere di R. Rossellini e La
grande guerra di M. Monicelli, che affrontano in modi e sotto angolature diverse due tragici momenti della nostra storia nazionale
(il Fascismo e la Guerra 1915-18). Il successo di critica e di pubblico (soprattutto per quanto riguarda il film di Monicelli) incoraggia registi e produttori a muoversi nella giusta direzione: affrontare temi di maggior impegno civile, come quelli della storia
nazionale torna utile anche sotto l’aspetto commerciale (né è da
sottovalutare il traino esercitato sul pubblico dalla presenza di due
protagonisti della commedia italiana quali Gassman e Sordi. Il tutto
porterà al produttore D. De Laurentiis un incasso superiore al miliardo di lire).
Altro esempio è quello di Tutti a casa (1959) di L. Comencini,
film nel quale alle vicende di un gruppo di sbandati dopo l’8 settembre 1943 fa da sfondo il dramma di un’Italia ancora in guerra,
fino ad un esito nel quale compare finalmente in primo piano la
Napoli delle Quattro giornate.
Senza voler affrontare il tema se siano gli orientamenti politici
più blandamente censori o il favore del pubblico per certe tematiche a incoraggiare la produzione cinematografica, è un fatto che
temi quali Fascismo e Resistenza sono ormai stabilmente presenti
nella nostra cinematografia dei primi anni Sessanta, sì da dar vita
a un filone che attraversa i generi (documento, ricostruzione storica, dramma a sfondo sentimentale, ancora «commedia») e si afferma decisamente. In due-tre anni la produzione di film orientati
in tal senso si intensifica: La lunga notte del ’43 (F. Vancini, 1960),
Il carro armato dell’8 settembre (G. Puccini, 1960), Kapò (G. Pontecorvo, 1960), Tiro al piccione (G. Montaldo, 1961), Un giorno da leoni
(N. Loy 1961), Il federale (L. Salce 1961), L’oro di Roma (C. Lizzani,
20
Arturo Martorelli
1961), La marcia su Roma (D. Risi, 1962), All’armi siam fascisti (L.
Del Fra, C. Mangini, L. Miccichè, 1962), Anni ruggenti (L. Zampa,
1962), La ragazza di Bube (L. Comencini, 1963), Il terrorista (Bosio,
1963), Il processo di Verona (C. Lizzani, 1963) sono i film più notevoli di un genere che si sta affermando. Sono temi che il pubblico
italiano vede proporsi in forme anche tradizionali, come la commedia di costume, ma ignorati per circa un quindicennio. Dall’indagine storica condotta in modo documentaristico alla trasposizione
sullo schermo di romanzi di successo, il pubblico italiano, e quello
più giovane in particolare, scopre una realtà quasi del tutto ignota.
Il tutto avviene nel contesto della più felice stagione che il cinema italiano, nel suo complesso, abbia mai attraversato, quella non
solo dell’affermazione internazionale di autori consolidati, da De Sica
a Fellini ad Antonioni a Visconti, ma della crescita complessiva di
un «sistema» che premia la qualità di sceneggiatori, musicisti, direttori della fotografia e di tutta una serie di validissimi tecnici.
Un caso a parte è costituito dalla storia delle Quattro giornate
di Napoli. L’episodio storico fa la sua comparsa nel cinema per la
prima volta a pochi anni di distanza dagli avvenimenti, nel film O
sole mio (G. Gentilomo, 1946), nel quale, se pur prevale l’impianto
melodrammatico, risultano importanti i momenti puramente documentari.
Da allora, né il diluviante cinema «napoletano» degli anni Cinquanta (film nei quali affiorano drammi sociali, ma per lo più come
sfondo di esibizioni canore che ne costituiscono la principale attrazione) né la cinematografia nazionale toccano più l’episodio, ritenuto anomalo anche dalla storiografia e relegato ai margini del
racconto sulla Resistenza. Né in città il clima è diverso. La sottocultura del «laurismo», il successo di una borghesia plebea, la fuga
dei cervelli dalla città, la sconfitta degli intellettuali più illuminati
finiscono per coinvolgere anche la memoria diffusa delle Quattro
giornate, che è consegnata ai racconti frammentari di privati cittadini, testimoni o protagonisti. Si ignora perfino il numero dei caduti e la portata delle forze in campo e si riducono gli avvenimenti
a «ragazzate» di scugnizzi. Né mancano, come sempre, i negazionisti, quelli che hanno vissuto dall’esterno «quelle giornate», ma
per i quali «non è accaduto niente, è tutta esagerazione e propaganda, e poi i tedeschi se ne stavano già andando» (!). Serpeggia,
Le Quattro Giornate di Napoli nella storia del cinema italiano
21
nei confronti di questo avvenimento, il sordido rancore di chi, per
mascherare la propria viltà, non può ammettere in altri un atteggiamento forte, dignitoso e libero. La narrazione delle Quattro giornate non diventa diffuso sentimento popolare né entra nell’immaginario collettivo se non a partire dal film che a quell’avvenimento
è dedicato (Nanni Loy, Le Quattro giornate di Napoli, 1962). Frutto
dell’iniziativa di un gigante della nostra imprenditoria cinematografia, Goffredo Lombardo con la sua Titanus, e favorito dall’attenzione di un pubblico ormai rinnovato nel gusto (sono gli anni
del «miracolo» non solo economico ma culturale ed emerge una
forte sensibilità nei giovani per questi come per altri temi) e aperto
alla ricezione dei temi della Resistenza, Le Quattro giornate rappresenta un caso particolare nel panorama del cinema italiano di quegli anni. La sceneggiatura è affidata alle mani di professionisti quali
M. Franciosa e P. Festa Campanile (saranno attivi nel cinema italiano fino agli anni Ottanta), oltre che a quelle di due autori di
punta della narrativa di stampo neorealista, C. Bernari e V. Pratolini. Fa da sfondo la musica, una tarantella cupa e trascinante di
un maestro quale C. Rustichelli. Infine, Nanni Loy, con all’attivo alcune co-regie, un paio di film «leggeri», si era già accostato a temi
di impegno nel già citato Un giorno da leoni. Qui è alla sua prova
decisiva, quella che ne consacrerà il nome.
La trama del film risulta divisa in episodi che finiscono tuttavia
per confluire nell’alveo della rivolta, la prima in Italia di tale portata ed estensione contro l’invasore tedesco. Il ritmo dell’azione, incalzante sin dall’inizio, si accentua man mano che gli episodi si succedono e si intersecano sino a coinvolgere l’intera popolazione cittadina. La «coralità» del film, secondo le esplicite intenzioni degli
autori, è volta a far emergere un protagonista collettivo, il popolo
napoletano, finalmente autore cosciente della propria storia, popolo
e non più plebe. Ad esso, nei titoli, il film è dedicato.
Il successo di critica (Nastri d’argento agli sceneggiatori, alla regia, all’attrice R. Bianchi, vari premi in festival internazionali) e di
pubblico (oltre 700 milioni di lire incassati nei successivi tre anni)
è servito a riproporre alla ribalta internazionale un avvenimento
fino ad allora marginale nella storia della Resistenza. Il coinvolgimento, durante le riprese, di interi quartieri della città di Napoli,
l’uso del dialetto, coniugato in formule anche «colorite», la parte-
22
Arturo Martorelli
cipazione, accanto ad un gruppo di validi attori professionisti (da
G.M. Volonté a L. Massari a F. Wolff a R. Bianchi), di attori improvvisati la cui recitazione risalta per realismo, decretò al film un
notevole successo popolare in tutta Napoli.
È un’operazione che ancor oggi resta come testimonianza non
solo della grande stagione del cinema degli anni Sessanta ma della
volontà di proporre allo spettatore ben più di una semplice ricostruzione dei fatti, qualcosa che, ispirandosi a quella nobile lotta
per la libertà, stimolasse una ripresa civile la cui necessità era avvertita dalla parte migliore della città. È un modo «esemplare» di
fare cinema, coinvolgendo un’intera popolazione per realizzare
un’impresa di grande respiro, i cui contenuti fossero destinati a durare nel tempo. A dispetto di qualche difformità nei confronti della
realtà storica, il film «tiene» a distanza di oltre cinquant’anni, perché tiene l’impianto complessivo, percorso, nel senso più alto del
termine, da un ampio respiro «popolare». Emerge, pian piano, e
si afferma nel corso delle storie singole, del loro intrecciarsi e districarsi, un senso di solidarietà che lega gli uni agli altri, il singolo
alla collettività, sì da permettere di superare egoismi e viltà. Significativa è la figura del capitano dell’Esercito (interpretata da G.M.
Volonté) che, tra i primi a imbracciare le armi e a guidare azioni
rischiose, scompare alla fine senza lasciare di sé nemmeno il nome.
È un popolo tutto che si è fatto soggetto storico, conquistandosi il
diritto a guidare la propria storia, il diritto a una libertà duratura,
sulla quale costruire il proprio futuro. Il film, che si conclude con
un omaggio al popolo napoletano, del quale ha esaltato il coraggio, lancia un esplicito segnale alla città e al Paese: il cammino del
risveglio e della ripresa civile è dall’esempio delle Quattro giornate
di Napoli che deve trarre ispirazione.
UGO MARIA OLIVIERI e MARIO ROVINELLO
«Come un pesce in un acquario stagnante».
La memoria delle Quattro Giornate e la condizione degli intellettuali
napoletani tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento1
La citazione del titolo, tratta dal libro di Ermanno Rea Mistero
napoletano, ben può tradurre in un’immagine il ricordo e la ricostruzione della condizione intellettuale a Napoli nell’immediato dopoguerra. Prima di accennare attraverso un rapido e desultorio excursus di alcuni testi letterari a questa condizione, converrà con
un’altra immagine provare a ridare la percezione del capoluogo
partenopeo in quegli anni e la sua reale collocazione nello scenario del mondo bipolare della Guerra fredda. E ancora una volta da
Mistero napoletano, sorta di romanzo-memoria, è possibile ricavare
un’immagine emblematica:
«…eravamo uno dei cinque o sei ombelichi del pianeta terra e non
lo sapevamo. Ovvero lo sapeva soltanto una metà del nostro cervello.
Altro che bigia periferia. Eravamo l’occhio dell’Alleanza Atlantica spalancato su tutta l’area del Mediterraneo sino alla Grecia e alla Turchia,
sino ai confini con l’Unione Sovietica. Tutto faceva capo a noi: non
c’era nave che solcasse il grande bacino che finisce a Gibilterra e comincia dallo stretto dei Dardanelli che non pendesse dalle nostre labbra»2.
Un’immagine che traduce un’emozione – il senso di «ritardo»
rispetto alla storia percepito da un intellettuale di sinistra – e al
contempo un’immagine che rappresenta un’interpretazione degli
avvenimenti, come spesso la migliore letteratura sa fare, proponendo
ai suoi lettori, in un piccolo spazio, analisi che voluminosi studi sto1
Quelle che seguono sono delle note di lettura più che un’indagine storico-critica del periodo. Note che attraverso immagini mito cercano di cogliere
l’apporto che la letteratura e il suo studio possono fornire per la comprensione di alcuni complessi passaggi storici.
2
E. REA, Mistero napoletano, Einaudi, Torino 1992, pp. 63-64.
24
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
rici spiegano e argomentano. Qual è in questo intreccio di linguaggi
e di specialismi il compito e la specificità della critica se non quello
di proporsi come una piccola glossa che segnala l’importanza del
problema, ricorda al lettore l’impegno di attivare la sua enciclopedia di conoscenza e impedisce alla memoria di essere inghiottita
nell’entropia informatica del presente?
Così in queste brevi note tenteremo di cogliere sotto la «figura»
del ritardo una condizione intellettuale di una generazione di scrittori e di intellettuali di sinistra seguita attraverso dei testi letterari
che, come argomenta la critica, sono sempre postumi, in ritardo rispetto all’attualità, ma non per questo estranei ad un «lavoro» sull’attualità.
1. La rappresentazione delle Quattro Giornate di Napoli
La «figura» del ritardo può senz’altro essere evocata per l’elaborazione di un «evento» come le Quattro Giornate di Napoli, esempio di una rivolta urbana «spontanea», episodio, forse tra i pochi
nel Mezzogiorno d’Italia, di aperta resistenza all’occupazione nazista, eppure a lungo sottovalutato e trascurato dagli stessi storici della
Resistenza. Non a caso bisognerà aspettare quasi venti anni perché
dell’evento parli il cinema (in realtà già nel 1946 l’episodio viene
trattato nel film diretto da Giacomo Gentilomo O sole mio, ma con
toni talvolta un po’ «melodrammatici»).
Il 15 novembre 1962, alla presenza dei presidenti della Camera Giovanni Leone e del Senato Cesare Merzagora, al Teatro
dell’Opera di Roma venne proiettata l’anteprima del film di Nanni
Loy Le quattro giornate di Napoli. A Napoli il film, dedicato alla
memoria del dodicenne Gennaro Capuozzo, arrivò nelle sale il
17 novembre e fu accolto con grande emozione dalla popolazione che ebbe l’occasione di rivivere attraverso lo schermo quelle
sofferenze in molti casi vissute in prima persona. Un film che ha
avuto, tra i molti altri meriti, quello di compensare anche se a
distanza di quasi venti anni (ma, come sostiene Raffaele Donnarumma, «alcuni eventi hanno bisogno di tempo per sedimentare») il quasi totale silenzio della letteratura su una delle pagine
più gloriose del popolo napoletano. Un film memorabile, un suc-
«Come un pesce in un acquario stagnante»
25
cesso internazionale del cinema italiano, una pagina di grande
cultura: Le Quattro Giornate di Napoli, prodotto nel 1962 dalla Titanus per la regia di Nanni Loy, è l’evento culturale che ha maggiormente segnato la memoria storica collettiva su uno dei momenti più importanti della Resistenza in Europa. Merito di un
grande regista come Loy, di un team eccezionale – nel quale spiccavano attori come Gian Maria Volontè (l’indimenticabile tenente
Vincenzo Stimolo), Regina Bianchi, Pupella Maggio, Lea Massari,
Jean Sorel, Frank Wolff, Aldo Giuffrè, Luigi De Filippo e il piccolo Domenico Formato nei panni di Gennarino, soggettisti e
sceneggiatori come Vasco Pratolini, Carlo Bernari, Raffaele La Capria, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, il direttore
della fotografia Marcello Gatti, il compositore Carlo Rustichelli.
I grandi attori coinvolti, per rafforzare l’idea si trattasse di un
film collettivo realizzato dalla e per l’intera comunità («in omaggio al Popolo Napoletano, vero interprete delle Quattro Giornate»), vollero partecipare al film mantenendo l’anonimato. Un
film che riesce a rendere viva questa bella pagina di storia e naturalmente vi riesce attraverso la forza delle immagini. Lo stesso
Loy, a sua volta, ammise che cercando di reperire documentazione sulle Quattro Giornate di Napoli niente era stato per lui
più importante delle foto di Robert Capa, in particolare quella
dello scugnizzo.
Aldo De Jaco giustamente scrisse sulle pagine di «Rinascita»:
«È questo un avvenimento di grande importanza per Napoli e ancor
più lo sarà quando il film verrà proiettato nei cinema dei quartieri e
della periferia a prezzi più accessibili; un avvenimento che – a parte il
valore intrinseco dell’opera d’arte cinematografica – ha una eccezionale importanza nel processo di evoluzione democratica della città divisa da quelle giornate di ardimento antifascista da venti difficili e lunghi anni di amara esperienza e di involuzione»3.
De Jaco si riferisce ai venti anni intercorsi tra le memorabili giornate del 1943 e l’uscita nelle sale del film di Loy. Anni in cui Na-
3
A. DE JACO, Le 4 giornate di Napoli, in «Rinascita», 24 novembre 1962,
p. 32.
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Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
poli visse la tragedia appunto della borsa nera, la nettissima affermazione della Monarchia nel referendum del 2 giugno 1946, gli
scontri che anticiparono e seguirono la proclamazione della Repubblica, la vittoria del laurismo.
Del film e del rapporto con la storia delle memorabili giornate del settembre 1943 si è discusso molto4 e tanti sono stati i
giudizi espressi nel tempo successivo all’uscita del film. Quello
che qui si intende provare a ricostruire è, piuttosto, il clima culturale che seguì la liberazione della città partenopea nei circa
venti anni che precedettero l’uscita della pellicola di Loy. In particolare l’interesse viene rivolto a quegli scrittori che mossero i
loro primi passi tra la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta del Novecento.
2. Napoli tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta
«Cosa è successo a Napoli durante gli anni cinquanta? Com’è stato
possibile che una città di tali dimensioni e con la sua collocazione geografica diventasse come una stazione dalla quale non passavano quasi
più treni, trasformandosi in un binario morto della Storia?»5.
Con queste parole Silvio Perrella introduce alla lettura di Mistero
napoletano. Una curiosità che sprona alla conoscenza dei passaggi
cruciali nella storia della città di Napoli, un ricordo di un passato
relativamente lontano ma le cui conseguenze sono ancora dentro
la dinamica del nostro presente. Gli anni cinquanta del Novecento
rappresentano un momento importante, perché segnati da avvenimenti che mutano profondamente la realtà socio-economica della
città: la netta affermazione della Democrazia Cristiana al governo
4
In primis, si veda G. D’AGOSTINO, Le Quattro Giornate di Napoli. 28 settembre – primo ottobre 1943, Tascabili economici Newton, Roma 1998 e ID., Le Quattro Giornate (1943). Tra politica e storia, in «Nord e Sud», maggio-giugno 1999,
pp. 57-79; G. ARAGNO, Antifascismo popolare. I volti e le storie, manifestolibri, Roma
2009.
5
S. PERRELLA, Introduzione, in E. REA, Mistero napoletano. Vita e passione di
una comunista negli anni della guerra fredda, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino 1995, p. V.
«Come un pesce in un acquario stagnante»
27
del paese e del comandante Achille Lauro sul terreno amministrativo locale, una sinistra, per usare le parole di Piero Antonio Toma,
«pavida e ingessata»6, il porto di Napoli che lentamente si avviava
a diventare una base logistica importante per gli anglo-americani.
Le illusioni dell’immediato dopoguerra lentamente vanno cadendo,
per lasciare il passo a una realtà assai diversa da quella immaginata
dopo il 1 ottobre 1943.
Cominciamo dallo spazio, lo spazio della città e lo spazio che la
città viene ad occupare nel contesto storico-politico italiano ed europeo.
Una serie di considerazioni strategiche e la collocazione del porto
di Napoli al centro del Mediterraneo portarono la Nato a stabilire
qui il Comando delle forze alleate dell’Europa meridionale (AFSOUTH). Una scelta, dunque, che avrebbe naturalmente condizionato la vita della città e della sua popolazione, così come il variegato mondo della cultura.
Dallo spazio strategico allo «spazio» della politica. Dopo il 1947
e la fine della collaborazione con il Pci, la Democrazia cristiana lascia alla destra monarchica l’amministrazione di Napoli. Con le elezioni comunali del 1952 infatti le amministrazioni a guida democristiana vengono sostituite da quelle guidate da Achille Lauro7, il
quale è riuscito a conquistare i voti della plebe usando
«i metodi più spregiudicati, puntando sulla fame e sull’ignoranza, sul
sentimentalismo e sulla superstizione, perfino sul fanatismo sportivo
per la squadra di calcio cittadina»8.
Come scrive un dirigente dell’allora Pci, Abdon Alinovi
«la D.C., nel suo stato maggiore nazionale, capì che non poteva ‘tenere’
Napoli (e il Mezzogiorno) senza venire a patti con la destra. Peraltro
questa, fiera oppositrice a Napoli e nel Sud, esercitava pienamente il
6
P.A. TOMA, Renato Caccioppoli. L’enigma, 2ª ed., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004, p. 7.
7
Sull’ascesa e la crisi del laurismo, cfr. il capitolo Lauro e i Gava: dal «boss»
cittadino alla macchina politica, in P.A. ALLUM, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, 2ª ed., Einaudi editore, Torino 1975, pp. 342-401.
8
A. GHIRELLI, Storia di Napoli, nuova edizione, Einaudi, Torino 2009, p. 532.
28
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
suo ruolo di componente esterna della maggioranza centrista in Parlamento, spesso puntellando e salvando i governi in pericolo della D.C.»9.
Una delle conseguenze di tale scelta politica della Dc partenopea fu la dismissione del territorio urbano e la sua devastazione da
parte di un ceto parassitario di speculatori immobiliari.
Seguono dunque i cruciali anni cinquanta, definiti da Antonio
Ghirelli quelli del «massacro urbano»10, per le folli scelte urbanistiche11 che hanno interessato Napoli tra la fine degli anni quaranta
e gli anni cinquanta, facilitate dalla mancanza di ogni disciplina e
da funzionari governativi, da architetti e da ingegneri, il più delle
volte facilmente corruttibili e favorevoli a giustificare la violazione
di leggi e regolamenti.
Spiega Ghirelli,
«il nuovo Pgr elaborato dalle prime amministrazioni democratiche tarda
ad essere approvato fino alla primavera del ’52, quando naturalmente
la Giunta laurina rifiuta con pretestuose motivazioni procedurali di ratificarlo… Mentre proclama di aver avviato ‘un profondo e complesso’
studio per un nuovo disegno regolatore, lo scrupoloso sindaco offre
sei anni di totale caos urbanistico ai suoi amici imprenditori, ai suoi
consiglieri, ai suoi parlamentari»12.
Ancora Abdon Alinovi ricorda:
«Mettere le ‘mani sulla città’, strappare e disperdere non solo le carte
del piano Isabella-Cosenza delle amministrazioni del C.L.N., ma persino quelle del piano regolatore vigente del ’42 costituisce la politica
concreta che l’amministrazione laurina persegue e offre a tutti i ceti
della città, riottenendone un consenso assoluto: la ‘garanzia’ americana
è ben più potente dei colpi di spillo del governo di Roma e delle opposizioni nel Consiglio Comunale»13.
9
A. ALINOVI, Gli anni ’50 a Napoli, in «il tetto», gennaio-aprile 1996, n. 193194, p. 47.
10
A. GHIRELLI, Storia di Napoli, nuova edizione, Einaudi, Torino 2009, p. 529.
11
Sull’argomento si veda in particolare l’importante saggio di ALESSANDRO
DAL PIAZ Napoli 1945-1985: quarant’anni di urbanistica.
12
A. GHIRELLI, Storia di Napoli, cit., pp. 539-540.
13
A. ALINOVI, Gli anni ’50 a Napoli, in «il tetto», settembre-ottobre 1996, n.
197, pp. 67-68.
«Come un pesce in un acquario stagnante»
29
Quanto, un anno dopo l’uscita della pellicola di Loy sulle Quattro Giornate, Francesco Rosi denunzierà nel suo bel film Le mani
sulla città. Restano indimenticabili le parole che aprono il film, pronunziate da coloro che stanno decidendo le sorti della città:
«questa terra quanto la puoi pagare oggi trecento, quattrocento a metro quadro, ma domani questo stesso metro quadrato può valere sessanta, settantamila e pure di più».
Un dramma che riguarda il degrado del territorio come quello
delle coscienze già ben rappresentato da Eduardo De Filippo nel
1945: nel mese di marzo debutta trionfalmente al Teatro San Carlo
di Napoli quello che può a ragione essere considerato il capolavoro di Eduardo, Napoli milionaria, commedia da lui scritta, messa
in scena e recitata. La struttura dell’opera è classica: «il primo atto
delinea la situazione, gli antefatti e i personaggi; il secondo sviluppa
la trama e al tempo stesso, attraverso l’assenza del protagonista, dà
la chiave di volta della vicenda; il terzo a specchio del primo, raccoglie e risolve tutti gli elementi narrativi»14. Il protagonista, Gennaro Jovine, vive sulla sua pelle le difficoltà economiche causate
dalla perdita del lavoro in seguito allo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale e dovrà affrontare la tragedia della deportazione in un
campo di prigionia in Germania. Riuscirà a ritornare, ma si scontrerà con una realtà altrettanto dura: la corsa all’acquisizione di un
falso benessere che ha condotto la sua famiglia sulla cattiva strada.
La moglie Amalia, i due figli grandi, Amedeo e Maria Rosaria, inseguono il benessere senza tenere in alcun conto la legalità e disinteressandosi del tutto di quanto capitato a Gennaro. Essi sono
protesi semplicemente al perseguimento dell’arricchimento. La guerra
e la borsa nera avevano fatto perdere quella solidarietà e quei buoni
sentimenti che sembravano essere endemici alla «plebe» così come
era stata rappresentata da tanta letteratura bozzettistica ottocentesca. Il grido finale del protagonista, «Amà. Ha da passà ‘a nuttata»
(che successivamente sarà cambiata in «La guerra non è ancora finita») intendeva denunziare la condizione di disordine, violenza,
14
E. DE ANGELI, Nota, in E. DE FILIPPO, Napoli milionaria!, a cura di E. De
Angeli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1987, p. X.
30
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
corruzione, tutti «nemici interni» che costituivano il drammatico seguito della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione tedesca
con gli orribili proclami del generale Scholl, comandante delle
truppe germaniche. In quel grido di dolore era contenuto
«un messaggio profondamente ottimistico, un appello agli uomini di
buona volontà a lavorare tutti insieme per un futuro diverso e migliore»15.
Le parole conclusive della commedia pronunziate da Gennaro
Jovine rappresentano un sentimento fortemente condiviso da tanti
giovani scrittori e più in generale dagli uomini di cultura che si distinguevano nel panorama culturale della città. Un vero e proprio
«torrente di talenti».
Appena due settimane dopo il felice esito delle Quattro Giornate,
il 14 ottobre 1943 il nuovo rettore dell’Università Adolfo Omodeo pronunciò un intenso discorso, alla presenza di una nutrita folla di giovani (tra i quali Gerardo Marotta che, insieme a Guido Piegari, sarebbe stato il fondatore e l’animatore del «Gruppo Gramsci»), pronunziando parole molto dure nei confronti della «ottusa» borghesia
cittadina, che era stata troppo connivente con il fascismo. Tra l’altro
una delle prime decisioni di Omodeo, dopo la nomina ricevuta, fu
quella di stabilire la messa a riposo per quei professori che si erano
dimostrati teneri rispetto agli oppressori tedeschi. Da quel discorso è
possibile far iniziare quella che a ragione può considerarsi una delle
stagioni (anche se di breve durata) più vive nella storia della città. Si
pensi alla nascita della rivista «Sud», al circolo Antonio Labriola e a
quello del Cinema. Una fase che, come scrive Ermanno Rea nel suo
recente libro Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta, vede la contemporanea presenza di grandi pensatori, quali
«Renato Caccioppoli, il geniale matematico testa di serie di una lunga lista di spiriti liberi, della quale faceva parte di sicuro anche Guido Piegari,
grazie soprattutto alla sua magnetica personalità e alla sua cultura senza
steccati»16.
15
Intervista con l’autore su Napoli milionaria!, in E. DE FILIPPO, Napoli milionaria!, cit., p. XIX.
16
E. REA, Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta, Feltrinelli, Milano
2014, p. 60.
«Come un pesce in un acquario stagnante»
31
Con Caccioppoli17 e Prunas c’erano anche Laura Giordano, Enzo
Oliveri, Renzo Lapiccirella, Francesca Spada.
Il Circolo del cinema, che inizialmente era nato come una piccola iniziativa, aveva assunto in città un ruolo di primo piano: uno
spazio dove la domenica mattina tanti napoletani
«andavano a compiere una specie di rito purificatorio, tra discussioni
e dibattiti in cui, di prevalente, non c’era che il libero sentire dei singoli, assieme alle opinioni, per lo più politicamente anticonformiste,
di coloro che prendevano la parola»18.
3. Gli intellettuali tra fuga e marginalità
«Il fascino di Napoli restò un’incognita il cui valore nemmeno il suo
talento matematico e intuitivo gli avrebbe permesso di individuare. Non
potendone fare a meno, si sentiva come il figlio di un borsaiolo, che
pur conoscendo le malefatte del padre avrebbe fatto di tutto per lui,
intenerendosi e nel contempo indignandosi»19.
Con queste parole Piero Antonio Toma tratteggia il sentire di
Renato Caccioppoli nei confronti della sua città. Un sentimento che
ha in sé in egual misura amore e accettazione e dall’altra eguale
difficoltà a tollerare gli aspetti orribilmente oppressivi di cui la stessa
storia è portatrice. Da un lato la bellezza, la solarità, i suoni della
città. Dall’altra le condizioni sociali, politiche ed economiche che
vanno realizzandosi riducono la libertà di espressione e l’indipendenza di molti intellettuali.
Antonio Ghirelli spiega:
17
«Cinema e letteratura costituivano la piattaforma per un ripensamento
sulla guerra, sulla città e soprattutto sul futuro. In quegli anni Domenico Rea
attendeva a Quel che vide Cummeo, Anna Maria Ortese a Il mare non bagna Napoli e Michele Prisco a Figli difficili… Intorno al Circolo si dava un gran da
fare, entusiasta, un gruppo di giovani. Prunas si chiedeva spesso se molti di
loro, più che del cinema, fossero affascinati da Renato». Vedi P.A. TOMA, Renato Caccioppoli. L’enigma, cit., p. 152.
18
E. REA, Mistero napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni della
guerra fredda, cit., p. V.
19
P.A. TOMA, Renato Caccioppoli. L’enigma, cit., p. 39.
32
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
«… concluso il dopoguerra, Napoli non offre più spazio alle individualità isolate. I margini del discorso si restringono in misura soffocante. La battaglia culturale rimane affidata alle formazioni istituzionali, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento hanno tenuto il campo…»20.
Subito dopo la Liberazione, dopo un ventennio di dittatura fascista, Napoli fu animata da molte correnti culturali e politiche diverse tra loro che rappresentavano anche le diverse facce del Cln,
il rappresentante unitario di tutte le forze politiche che avevano
contribuito alla sconfitta del Fascismo.
La lezione di ispirazione crociana avrà voce attraverso la pubblicazione della rivista «Aretusa»21 (diretta prima da Francesco Flora
e poi da Fausto Nicolini) dal marzo-aprile del 1944 fino al gennaiofebbraio del 1946. Nel febbraio del 1947 inizia la sua attività l’Istituto di Studi Storici, diretto da Federico Chabod. Nel 1954 Francesco Compagna e altri intellettuali di formazione liberale daranno
vita al mensile «Nord e Sud», di orientamento crociano.
Nello stesso anno viene pubblicato anche il primo numero di
«Le cronache meridionali», frutto dello spirito di collaborazione e
di unità di socialisti e comunisti. A dirigerla saranno infatti Giorgio
Amendola, Mario Alicata e Francesco De Martino. Il Pci, poi, unica
forza politicamente organizzata su base di massa e con un radicamento nei ceti popolari dopo la Liberazione, sarà anche molto presente nel contesto napoletano potendo contare sulla redazione cittadina del giornale «l’Unità».
Il Pci riorganizzò rapidamente il suo gruppo dirigente a Napoli,
chiamando a ricoprire ruoli chiave militanti che avevano vissuto la
tragedia del confino o che erano stati a lungo all’estero. Questa
scelta non fu sempre condivisa dalla base e provocò ampio dissenso.
Contrasti, che il Partito comunista napoletano già dal 1943 aveva
dovuto fronteggiare, quando un gruppo di militanti, tra i quali Eugenio Mancini e Libero ed Ennio Villone, in dissenso con il rigido
20
A. GHIRELLI, Storia di Napoli, cit., p. 537.
La rivista nasce a Napoli nel marzo-aprile 1944 e si autodefinì la prima
creatura dell’Italia liberata. È interessante citare alcuni importanti nomi che
collaborarono con essa: Alvaro, Bassani, Binni, Brancati, Calvino, Gatto, Ginzburg, Moravia, Pintor, Prisco.
21
«Come un pesce in un acquario stagnante»
33
centralismo dei funzionari e con la linea dell’unità antifascista anche nel Mezzogiorno già occupato, scelsero di dare vita ad un comitato federale indipendente e successivamente insediarono una federazione in piazza Montesanto22. Molti dei giovani protagonisti
della «scissione di Montesanto» erano anche fortemente critici nei
confronti delle scelte del Pci di affidare la guida dell’organizzazione
a una classe dirigente che non aveva vissuto la città durante il ventennio fascista e la successiva occupazione tedesca.
Scrive Mario Palermo, che fu sottosegretario alla Guerra nel governo Badoglio e consigliere comunale di Napoli, deputato ed infine senatore del Pci:
«Nonostante la buona volontà che aveva animato i nostri tentativi di
superare le divergenze e, direi quasi, l’umiltà con cui avevamo accolto
i compagni reduci da anni di confino e di carcere inviati a Napoli dal
centro; dopo neppure un mese di vita comune, ci rendemmo conto
che ogni forma di collaborazione politica con i nuovi dirigenti era,
non solo difficile, ma impossibile. Ci dividevano da loro una diversa
concezione del partito e una differente valutazione della situazione politica, con conseguenti diverse linee strategiche cui conformare l’azione…»23.
Un dissenso forte, che negli anni successivi e con soggetti e motivazioni diversi, si riproporranno. La reazione sarà spesso violenta
e il gruppo dirigente degli anni cinquanta si mostrerà sempre molto
determinato e fermo nel tentare di fare rientrare o allontanare
chiunque si mostrasse non perfettamente allineato con le direttive
del Partito. Insomma citando nuovamente Spriano:
«Si aggira anche lo spettro di Bordiga in Campania, in Calabria, nelle
Puglie, le regioni dove i fermenti di dissidenza sono più forti. Quando
Togliatti arriverà a Napoli, alla fine del marzo 1944, chiederà a Cacciapuoti se Amadeo Bordiga, il primo capo del partito, si è rifatto vivo
22
Sulla «scissione» di Montesanto cfr. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. 7. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo. Parte prima, Einaudi, Torino 1975, p. 153.
23
M. PALERMO, Memorie di un comunista napoletano, Libreria Dante & Decartes, Napoli 1998, p. 200.
34
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
in qualche modo. Gli viene risposto di no anche se, nella scissione di
Montesanto, c’è stato sicuramente il suo zampino»24.
Di quel clima fu senz’altro testimone Ermanno Rea, all’epoca
giovane militante del Partito comunista e giornalista de «l’Unità».
In particolare Rea racchiude nella vicenda di Francesca Spada, protagonista di Mistero napoletano e del racconto La comunista, la parabola di una intera città e, in particolare, di tanti uomini e donne
che crebbero e vissero credendo fermamente nella possibilità di trasformare radicalmente la società nella quale vivevano. La storia di
Francesca è la storia della difficile convivenza negli anni cinquanta
del secolo passato tra una linea stalinista degli alti dirigenti del Partito comunista napoletano e quanti mostravano forme, benché minime, di dissenso.
La storia di Francesca Spada sembra così andare di pari passo
con quella di Napoli e con quella del quarto piano del maggior
palazzo di angiporto, sede della redazione napoletana de «l’Unità»,
dove si radunavano
«a ondate, scontenti, curiosi, naufraghi bisognosi, …qualche campione
del catalogo degli intelligenti, la cui stella più brillante si chiamava
senza dubbio Renato Caccioppoli, l’estroso professore di analisi matematica, anticonformista fino allo struggimento»25.
La vita di Francesca Spada è segnata da un fascio di passioni,
intricate e violente. Come intricata è la topografia di Napoli, che
è il «fondale inquieto» nel quale si muovono le esistenze descritte
da Rea. Cosa è accaduto alla vita della protagonista di Mistero napoletano? Cosa all’intera città? Quando il destino individuale è divenuto storia opaca dell’intera città? Questi due piani, quello collettivo e quello individuale, si intrecciano in Mistero napoletano: la
sconfitta di Francesca è la sconfitta di un’intera città scippata – è
la tesi di Rea – del suo futuro, complice un partito, quello comunista, che seppellì ogni istanza di rinnovamento, «arroccato nel pro-
24
P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. 7. La Resistenza. Togliatti e
il partito nuovo. Parte prima, cit., p. 161.
25
E. REA, Mistero napoletano, cit., p. 15.
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35
prio guscio stalinista, incapace di ogni ossigeno democratico, schiavo
dei propri dèmoni e pregiudizi»26.
Non è naturalmente difficile per Rea rinvenire nello stalinismo,
nell’ipocrisia e nel falso moralismo della maggior parte degli esponenti del gruppo dirigente napoletano del Partito comunista uno
dei fattori decisivi che contribuirono a provocare l’insofferenza e il
malessere della giovane giornalista. Già nel 1945, agli inizi della relazione tra Francesca e Renzo, quest’ultimo era stato convocato dal
Segretario cittadino del partito, Salvatore Cacciapuoti, che aveva «intimato» al Lapiccirella di mettere fine a quel rapporto, dal momento che «non era la donna giusta per lui… Perché aveva già
due figli con un altro uomo. Perché era coinvolta in un processo
del tribunale di Latina, accusata di aver sottratto assieme ad un’amica alcune coperte e alcuni indumenti da una casa abbandonata
mentre la cittadina era sotto le bombe, tra i tedeschi in fuga e gli
americani che tardavano ad arrivare»27. Se per quel che riguarda
lo stalinismo, esso non era certamente diffuso soltanto tra i dirigenti napoletani del Partito comunista, il maschilismo e il moralismo esasperato furono due ricette tipicamente napoletane: per quel
che concerne il primo aspetto, «fu farina soprattutto del sacco di
Salvatore Cacciapuoti dotato, come dire?, di una naturale propensione per quest’arte», per il secondo, invece, «fu farina del sacco
di Giorgio Amendola, uomo proveniente da una famiglia dai costumi rigidissimi. Si racconta che suo padre, Giovanni, avesse fatto
parte per un certo tempo di un gruppo teosofico, quasi un ordine
religioso, i cui aderenti erano obbligati alla castità, nonché alla rinuncia di tutti gli altri piaceri della carne: vino, tabaccco e non so
cos’altro»28. L’ossessione maschilista di Salvatore Cacciapuoti ritorna
in numerosi altri passaggi del libro29 proprio perché Rea è convinto
che esso abbia avuto un peso determinante nella vicenda che intende ricostruire. È per questo, dunque, che parole molto dure egli
rivolge al segretario Cacciapuoti, «dalla faccia tetra e rotonda, un
po’ alla Mao, con gote pronunciate in fondo alle quali brillavano
26
27
28
29
E.
E.
E.
E.
REA,
REA,
REA,
REA,
Mistero
Mistero
Mistero
Mistero
napoletano,
napoletano,
napoletano,
napoletano,
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
p.
p.
p.
p.
77.
24.
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72.
36
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occhi scuri, furbi e cattivi»30. Il segretario viene ad essere nella struttura narrativa primo antagonista della coppia di protagonisti costituita da Francesca Spada e dal Lapiccirella, al cui entusiasmo, alla
cui purezza, al cui essere un po’ particolari si contrapponevano la
durezza e una certa cattiveria di Salvatore Cacciapuoti, impegnato
in primo luogo a fare perdere ogni traccia di Amadeo Bordiga e
delle sue tesi e a distruggere politicamente chiunque potesse essere
semplicemente in odore di bordighismo.
Ha scritto Abdon Alinovi
«nessuno può stupirsi che nell’animo di persone più o meno sensibili,
più o meno esposte si siano create lacerazioni psicologiche, anche gravi,
talora estreme»31.
Un altro episodio che dimostra quanto poco spazio veniva lasciato a coloro che si facevano portatori di idee sgradite o di posizioni non allineate è l’esplulsione dal P.C.I. dei giovani appartenenti
al «Gruppo Gramsci», il cui leader fu Guido Piegari, fortemente
critico nei confronti di Amendola e del suo modello di meridionalismo promosso dal Movimento per la Rinascita.
Lo stesso Rea nel suo Il caso Piegari spiega:
«In sostanza Piegari imputava a Giorgio Amendola di aver costituito attraverso il Movimento per la Rinascita una sorta di organizzazione quasi
concorrenziale, nella sua arrogante autoreferenzialità, con il Pci nazionale…»32.
Un atteggiamento così duro nei confronti di chiunque potesse
solo minimamente divergere dalla linea del partito produsse l’allontanamento di molti pensatori e scrittori, che naturalmente avvertirono come una spada sulla testa il preteso controllo dei quadri dirigenti del Partito. Tutto ciò, come riconosciuto anche da alcuni dirigenti di quel tempo, inflisse
30
E. REA, Mistero napoletano, cit., p. 73.
A. ALINOVI, Gli anni ’50 a Napoli, in «il tetto», settembre-ottobre 1996, n.
197, p. 83.
32
E. REA, Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta, cit., p. 23.
31
«Come un pesce in un acquario stagnante»
37
«un colpo ai danni dello stesso P.C.I. all’esercizio di una sua egemonia culturale e morale, in senso proprio gramsciano, che agirà per
lungo tempo nel movimento del pensiero e delle coscienze delle generazioni intellettuali successive»33.
Quanto accaduto a Napoli, si verificò naturalmente anche a livello nazionale, provocando in molti casi un lento allontanamento
di intellettuali che con grande passione avevano praticato la militanza politica. Italo Calvino, in un suo contributo pubblicato su «la
Repubblica» nel 1978, scrive:
«Io sono uno di quelli che hanno lasciato il partito comunista nel 19561957 perché non si destalinizzava abbastanza in fretta. Ma cosa dicevo
quando Stalin era vivo e lo stalinismo era accettato senza discussione
all’interno dei partiti comunisti? Ero o non ero stalinista anche io?»34.
E poi aggiunge:
«… A questo punto posso cercare di precisare la mia definizione: lo
stalinismo si faceva forte della necessità, le cose non potevano andare
diversamente da come erano andate, anche se il volto della storia non
aveva nulla di gradevole. Solo quando sono arrivato a capire che anche all’interno della necessità più ferrea c’è un momento in cui le
scelte sono possibili, e quelle di Stalin erano state in gran parte scelte
disastrose, ogni gustificazione dello stalinismo diventava impensabile»35.
In questo contesto nel 1953 appare la prima edizione del libro
di Anna Maria Ortese che tanto farà discutere e reazioni violente
susciterà in molti lettori, Il mare non bagna Napoli, che sembra ben
rappresentare quella condizione di immobilismo e di crisi che attanaglia la città nel decennio successivo alle Quattro Giornate del
1943.
33
A. ALINOVI, Gli anni ’50 a Napoli, in «il tetto», gennaio-aprile 1996, n.
193-194, p. 35. Sul caso del «Gruppo Gramsci» può essere utile leggere anche P. HERMANN, Gli anni ’50 a Napoli, in «il tetto», novembre-dicembre 1995,
n. 192, pp. 460-461.
34
I. CALVINO, Sono stato stalinista anch’io?, in «La Repubblica», 16-17 dicembre 1979.
35
I. CALVINO, Sono stato stalinista anch’io?, cit.
38
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
«Erano buoni, ti dico…» si ostinò con voce leggermente più dura la
D’Avanzo. Poi si pentì. «Figlia mia», disse più dolcemente, «parlo così
perché so i guai di casa tua. Con seimila lire di differenza, ci compravate il pane per dieci giorni, ci compravate… A te che ti serve veder bene? Per quello che tieni intorno!… Un silenzio…»36.
Questa immagine costituisce una prova appunto dell’incapacità
dell’intellettuale di cogliere il processo di marginalizzazione nei confronti della plebe, la cui condizione non è di certo endemica, ma
costruita dalla storia.
La Ortese tratteggia il carattere di quella stessa plebe, che, mossa
dalla disperazione e dalla fame, solo dieci anni prima aveva partecipato con coraggio alle giornate della rivolta antinazista:
«A un tratto vidi questo. Cinque ragazzi di età indefinibile erano seduti su un muretto, aspettando con volti assolutamente inespressivi che
la vettura passasse. Quando questa fu alla loro altezza, uno di oro si
alzò in piedi e rapidamente imitato dagli altri, si sbottonò il davanti
dei calzoni. Poi, tenendo il sesso tra le dita, come un fiore, si misero
a correre sul muro, tentando di seguire il tram, con richiami striduli,
dolenti, appassionati, che volevano attrarre la nostra attenzione su tutto
quanto essi possedevano»37.
La descrizione di Luigi Compagnone tratteggiata dalla stessa Ortese ne Il mare non bagna Napoli aiuta a comprendere da un lato la
condizione vissuta in quegli anni dall’intellettuale napoletano che
ha deciso di restare in città e che appare in tutto il suo isolamento,
sospeso tra una giovanile bellezza e una maturità in cui erano andate deluse le illusioni di un tempo, e dall’altra la percezione che
di lui ha uno scrittore che ha compiuto, invece, la scelta opposta,
quella di andare via:
«Il Compagnone… era un giovane alto, distinto, con una piccola testa
dai lineamenti classici… Vi era qualcosa in quel volto tra l’estrema gioventù e la vecchiaia, e, da anni, si era fatta sempre più evidente una
lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch’erano in lui, e una disperazione
e perfidia che erano egualmente in lui, e poco alla volta, specialmente
36
37
A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano 1994, p. 29.
A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, cit., p. 103.
«Come un pesce in un acquario stagnante»
39
per chi lo rivedeva dopo un po’ di tempo, quella parte inferiore di
lui, come un male nascosto, era avanzata. Non di molto, e si poteva
anche non avvedersene»38.
Il mare non bagna Napoli si presta certo a diverse interpretazioni,
ma forse risulterà più facile comprendere lo stato d’animo della
scrittrice ripensando alla chiave di lettura che della città hanno offerto Luongo e Oliva nel 1959 con il libro Napoli come è:
«contrasto fra moderno e antico, fra sordido e solenne, fra ricco e misero… alla base di ogni problema napoletano»39.
Un’essenza dicotomica della città che facilita qualsiasi lettura di
secoli e secoli di storia. E ancora il mare, spazio paradisiaco, ma
allo stesso tempo duratura testimonianza di ciò che sarebbe potuto
essere e non è stato, così come del tempo che passa inesorabile. Il
dramma vissuto e rappresentato dalla Ortese, ad esempio, nasce
dalla sua capacità di cogliere la bellezza di ciò che c’è e l’impossibilità di goderne e di trarne beneficio. La percezione di un mare
violentato dalle scelte della storia produce un vero e proprio rifiuto
del reale:
«…Insomma io non amavo il reale, esso era per me, sebbene non ne
fossi molto consapevole, come non lo sono forse nemmeno ora, quasi
intollerabile. Da dove questa intollerabilità provenisse, non sono ancora adesso in grado di dire, o dovrei interrogare la metafisica»40.
Ed è l’incipit di Ferito a morte (1961) di Raffaele La Capria, romanzo pubblicato qualche anno dopo quello della Ortese, ad aiutarci a comprendere quel diffuso sentire:
«La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea
smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tre le branchie e le
pinne dorsali. Sta per tirare – sarà più di dieci chili, attento, non si
può sbagliare! E la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che
costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivoti ab38
39
40
A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, cit., pp. 105-106.
E. LUONGO e A. OLIVA, Napoli come è, Feltrielli, Milano 1959, p. 65.
A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, cit., p. 174.
40
Ugo Maria Olivieri - Mario Rovinello
bandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola
passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo
la Grande Occasione Mancata»41.
L’immagine della ‘Grande Occasione’ evoca ciò che è si è andato verificando a Napoli in quegli anni: ciò che sarebbe potuto
essere e non è stato. Quella grande occasione mancata con la storia, di cui è causa anche la borghesia (quella «sonnolenta» dei Circoli nautici) che con i suoi silenzi si è resa complice della dismissione e della devastazione del territorio urbano o in altri casi ha
preferito la fuga. Lo stesso protagonista impersona la figura di un
giovane che a un certo punto della sua vita lascia Napoli per trasferirsi a Roma. In fondo lo stesso La Capria scrive Ferito a morte
quando ormai ha già deciso di allontanarsi da Napoli e di vivere
invece a Roma, che sente può offrirgli molto di più. Alla città immobile e priva di vita caduta nelle mani di Achille Lauro si contrappone un «mondo della modernità: veloce, adulto, pieno di possibilità»42. La scelta però non preclude il ricordo di ciò che è stato
lasciato e l’ineluttabile bisogno di fare i conti con il passato.
Così, dunque, Il mare non bagna Napoli e Ferito a morte, pur da
angolature differenti, rendono bene quello stato di delusione e di
sofferenza avvertita da quei giovani scrittori napoletani che avevano
riposto grandi aspettative nella fine della Seconda Guerra Mondiale
e che invece videro andare disilluse le loro speranze.
A distanza di molti anni, Giancarlo Mazzacurati, uno studioso attento alla dialettica congiunzione tra le forme letterarie e la rappresentazione del reale e, allo stesso tempo, un intellettuale di sinistra impegnato nella vita politica della città, in una lunga intervista del 1978, sembra cogliere con finezza quel senso di straniamento che dagli anni cinquanta fino agli anni settanta caratterizza
spesso la scrittura di questa generazione di intellettuali:
«Nello iato temporale intercorrente tra la fine del vecchio meridionalismo e l’inizio di questo programma di sviluppo industriale mancato
41
R. LA CAPRIA, Ferito a morte, Oscar Mondadori, Milano 2015, p. 5.
S. PERRELLA, Il tempo sommerso, in R. LA CAPRIA, Ferito a morte, Oscar Mondadori, Milano 2015, p. 5.
42
«Come un pesce in un acquario stagnante»
41
esiste un vuoto di aggregazione sociale, vuoto che l’emigrazione contribuì ad approfondire e in cui l’intellettuale meridionale (venutigli a
mancare i tradizionali punti di aggregazione culturale) ha reagito spesso
con lo sbandamento, l’assenza, il silenzio quando non con l’emigrazione intellettuale, in quegli anni assai consistente»43.
43
G. MAZZACURATI, Ruolo e impegno dell’intellettuale meridionale nella trasformazione del Mezzogiorno, con introduzione di U. Olivieri, in «il tetto», maggio-giugno 1978, n. 87, pp. 323-324.
ANTONIO PISCITELLI
Un quartiere nella rivolta.
Le memorie di un «vicolo»
«Scugnizzo» è parola napoletana che designa il ragazzo di strada.
Si afferma in ambito nazionale dalla fine del XIX secolo. Ne fa uso
la letteratura vernacola (Russo, Viviani), ma anche il cinema neorealista. Il valore del termine è ambivalente: può esprimere disprezzo
o simpatia, secondo l’enunciato in cui è inserita e in relazione all’immagine mentale che ne ha il locutore. Beninteso, i «ragazzi di
strada» erano e sono una drammatica realtà in tutto il mondo, ma
lo scugnizzo per antonomasia è napoletano.
Pare che il lemma derivi dal latino ex-cuneare e alluda all’effrazione. Designerebbe, in tal senso, una specie di scassinatore o di
ladruncolo. Beh, sì, è vero, molti ragazzi che vivono per strada si
danno al furto, ovunque, a Città del Messico come a Rio De Janeiro, a Kinshasa come a Bucarest. Anche a Napoli ovviamente. Altri si davano e si danno all’accattonaggio. Il fatto è che, per motivi
che non è il caso di analizzare qui, i monelli di tanta parte della
letteratura e del cinema non hanno un posto in cui stare. Questa,
almeno, è l’esperienza dello scrivente. Un tempo viveva per strada
perché in casa non poteva giocare. Non c’era spazio. La convivenza
di più famiglie in un unico appartamento di neppure settanta metri quadri non era l’optimum per l’energia di un bambino e la sua
voglia di correre. Così come non era immaginabile, per nuclei numerosi, vivere nell’unico vano di un terraneo, un tipo di abitazione
che a Napoli si chiama «basso». Oggi se ne può vedere ancora qualcuno, ma ai primi anni sessanta ne esistevano tanti, come esistevano tante baracche per i senzatetto della guerra. A quindici anni
dalla conclusione del conflitto? Sì, posso assicurare che è così, me
lo ricordo a perfezione. Uno come me che, da bambino, ha avuto
per area di gioco solo la strada non può dimenticare questa esperienza. Ero anch’io uno scugnizzo, benché non mi sia mai dato al
furto, alla rapina o all’accattonaggio. Neppure i miei compagnetti
44
Antonio Piscitelli
di allora. La strada era soltanto lo spazio disponibile per giocare.
Di auto non ce n’erano moltissime e le piazzette ancora si prestavano alla partitina di calcio.
Il luogo di appuntamento tra i monelli del mio quartiere era
piazza Santa Maria della Fede, uno slargo che insiste su Corso Garibaldi e si trova tra la ferrovia e Piazza Carlo III. La zona è nota
come Arenaccia, anche se solo una via reca questo nome.
Qui furono girate alcune scene del film di Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli. Correva l’anno 1962. Ai monelli dell’epoca la
piazza ‘e Santa Maria ‘a Fede fu interdetta per consentire alla troupe
di lavorare. Qualcuno fu ingaggiato come comparsa, tra costoro ero
anch’io, ma nel film che in seguito ho visto non compaio. Compaiono, invece, alcuni adulti che allora conoscevo, almeno di vista:
erano gli abitanti della piazza e delle strade adiacenti. Ancora oggi
li riconosco. Non si possono dimenticare le facce dei napoletani
del lungo dopoguerra. In loro rivedo il volto di mia madre, di mio
padre e dei numerosi zii e cugini della mia famiglia. Non hanno
nulla da spartire con le facce dell’odierna opulenza, le medesime
dei beauty center e della mutazione antropologica di pasoliniana memoria. Siamo più belli oggi, più pulitini, più perfettini, persino le
rughe tardano a comparire sui nostri volti. E forse tarda a comparire la coscienza del nostro comune passato, del sudore, delle fatiche e della fame di un tempo, del contributo di sangue che Napoli ha dato alla guerra di liberazione, alla Resistenza.
Salvatore Aiello se ne rammarica. Mi dice, con le lacrime agli
occhi, che la città neppure li ricorda i nomi delle vittime di allora,
di quelle drammatiche quattro giornate che valsero alla città la medaglia d’oro al valor militare. Eppure la rivolta di Napoli insegnò
a tutte le grandi città italiane ed europee che i popoli possono ribellarsi alla tirannia, che non c’è esercito che possa tener testa al
bisogno primario di libertà e dignità. I proclami del colonnello tedesco Walter Schöll furono puntualmente inevasi da una popolazione che non intendeva più sottostare ai rastrellamenti, alle rappresaglie e ai saccheggi operati dai tedeschi. Non furono solo i
«partigiani napoletani» a combattere l’occupante, ma anche la gente
comune, quella che non aveva armi e le armi non sapeva usare.
Combatteva con l’unico espediente possibile, la disubbidienza, la tenacia della resistenza «passiva». Erano civili, in altre parole, civili
Un quartiere nella rivolta
45
che conducevano in altro modo la lotta per la libertà. Molti persero la vita, vittime della ferocia con cui le truppe di occupazione
agirono per volontà del führer, il quale aveva ordinato che Napoli
fosse ridotta «in cenere e fango».
In via Martiri d’Otranto, sull’edificio che corrisponde al numero
civico 69, c’è una lapide che ricorda i nomi di alcune delle vittime
di quelle drammatiche giornate. Morirono tutte il 29 settembre del
1943, intorno alle dieci e trenta del mattino, come afferma di ricordare Salvatore. Questa lapide non la guarda nessuno, a parte lo
scrivente che non può fare a meno di sollevare lo sguardo ogni
volta che vi passa davanti. Gli abitanti del quartiere neppure sanno
che c’è e, quand’anche ne conoscessero l’esistenza, non riuscirebbero a leggervi che un elenco di nomi. Non per me, che conosco
da sempre i fatti, per averli uditi in famiglia ancor prima che Nanni
Loy venisse a girare il suo bel film nei luoghi dei combattimenti e
degli eccidi. Eccoli: Salzano Ciro (di anni 29), Salzano Francesco
(23), Iodice Francesco (60), Fusco Ciro (44), Albanese Gaetano
(14), Pagano Vincenzo (24), Imparato Concetta (54), Aiello Anna
(17). Non riesco a dare un volto a queste persone, a parte una,
della quale conosco ogni cosa, volto compreso. È la sorella di Salvatore, fu uccisa dai tedeschi quando lui aveva solo quattordici anni;
con lei morì Vincenzo Pagano, un vicino di casa che Salvatore dipinge come un gran bel ragazzo. Non so perché insista più volte
su questo particolare estetico, forse per sottolineare la circostanza
che la morte violenta e inattesa si porta via non solo una giovane
vita ma anche la bellezza che le fa da corollario.
La famiglia Aiello era costituita dal padre Giuseppe, dalla madre Concetta Tavino e da cinque figli, nell’ordine Elvira, la maggiore, poi Anna, Salvatore, Antonio e Giuseppe. Il capofamiglia faceva il lampionaio, cioè l’addetto all’accensione dei lampioni a gas.
Fino al 1935, ricorda Salvatore, anno in cui l’illuminazione elettrica
su larga scala ne causò il licenziamento. Rimasto senza impiego,
ebbe molte occupazioni precarie finché, allo scoppio della guerra,
non fu assunto nella guardia municipale, prevalentemente incaricato di vigilare sulle norme di sicurezza da rispettare durante i bombardamenti. Salvatore non sa dirmi molto di quest’occupazione del
padre, ancora troppo piccolo per averne chiara cognizione. Della
madre sa palesare molto di più; lavorava a domicilio come guan-
46
Antonio Piscitelli
taia. Rifletto. Quante storie conosco di lavoratrici a domicilio, prima,
durante e dopo la guerra. Con i mariti al fronte o disoccupati, le
donne erano il perno di un’economia in sordina che salvò dalla
fame molti ragazzi e giovani di allora. Erano pagate quattro soldi
e con quelli sfamavano intere famiglie. Le nuove generazioni dovrebbero sapere che sono venute al mondo grazie ai sacrifici delle
loro nonne. Se erano molto esperte del mestiere, diventavano maeste (maestre), una parola che, a Napoli, non designava l’insegnante
delle primarie, ma l’esperta che curava la formazione professionale
di giovani apprendiste. Il corrispondente maschile è masto (maestro). Per le giovani e i giovani andare dalla maesta o dal masto era
come recarsi alla scuola professionale, vi apprendevano il futuro
mestiere. D’altronde l’apprendistato «in bottega» è sempre stato la
tradizionale scuola artigiana. Anche i grandi artisti, da giovani, sono
stati a bottega.
Riferisco questo particolare perché, nel racconto di Salvatore, ha
un senso. Sua sorella Anna, che lui chiama familiarmente Nina, frequentò la casa di una maesta fino a un paio di giorni prima della
sua morte. Si trovava al Vasto e la ragazza vi si recò ogni mattina
per alcun tempo ad apprendervi il mestiere. Sennonché accadde
che il marito della signora in questione provò a metterle le mani
addosso. Non una ma più volte. Finché, in assenza della moglie,
che era uscita per non so quali faccende, l’uomo andò oltre le avances, tentò il vero e proprio stupro. Nina, che il fratello mi rappresenta come una ragazza volitiva, piena di energia, coraggio e spirito d’iniziativa, non solo si divincolò dall’uomo a colpi di morsi e
unghiate ma guadagnò velocemente la porta dell’appartamento, l’aprì e fuggì in strada. Si licenziò da sola seduta stante; se non lo
avesse fatto, non sarebbe morta di lì a due giorni. Arrivò trafelata
a casa sua, dopo aver fatto quattro rampe di scale a balzi, a quatte
a quatte, a quattro per volta. Nel vedersela comparire dinanzi tutta
sudata e scarmigliata, a un’ora insolita per il rientro, la madre Concetta volle sapere cosa le fosse accaduto. Lei, papale papale, le spiattellò l’accaduto per filo e per segno.
– ‘Stu chiaveche, stu fetente ‘e mmerda! – imprecò la buona
Concetta – E che, te ha truvate sola? Ah, ma appena sto bbona,
mme facce sentere, facce arrevuta’ ‘o quartiere. ‘Stu delinquente!
Concetta non stava bene in quei giorni. Aveva la febbre alta e
Un quartiere nella rivolta
47
continuò ad averla nei giorni seguenti. Non poté fare altro che tenersi a casa la sua Ninetta.
– Mme voglio muri’ ‘e famme, ma io da quelli nun te ce manne
cchiù, ‘ncoppe all’anema ‘e mammà!
Preferiva patire la fame piuttosto che esporre sua figlia alle profferte poco lusinghiere di uno sporcaccione. Il riferimento alla fame
era dovuto al fatto che la ragazza non riceveva alcuna retribuzione,
ma la maesta le forniva un pasto caldo ogni giorno, il che significava una bocca in meno da sfamare nella casa paterna.
Cibo non se ne trovava in quei giorni di tregenda. La gente razzolava tra i rifiuti in cerca di rimasugli edibili. Ce lo ricorda Nanni
Loy in qualche scena del film, quella dei fagioli contati, della patata, della parca cena al riformatorio. Torsi di cavolo, baccelli di legumi, tuberi sul punto d’esser guasti e tutto lo scarto possibile della
mensa «opulenta» di qualche famiglia benestante ben servivano ad
allontangare lo spettro dell’inedia. Non so quante volte ho udito
dalla bocca di mia madre il resoconto della fame durante la guerra.
E dopo, persino, e per lungo tempo, date la scarsità di lavoro e l’economia in dissesto! Persino io, che la guerra l’ho conosciuta solo
attraverso l’epica familiare, ricordo la fame del lungo dopoguerra
e ricordo la gran disperazione di mia madre quando non riusciva
a mettere un piatto caldo in tavola.
Non so dire quanto la memoria di Salvatore sia solida. Certe
volte si perde e pare non mettere a fuoco i ricordi. Ma io so che
sa, me ne ha riferito in altre circostanze.
– Che ti ricordi di quella mattina, Salvato’? Dimmelo di nuovo,
me lo hai detto tante volte. Ninetta, che accadde a Ninetta?
Quando si svegliò disse di aver fatto uno strano sogno. Aveva sognato un giovane, un giovane molto bello che «spezzava» delle rose
bianche e ne spargeva i petali. Questo giovane, nel sogno di Anna
o nell’immaginazione di Salvatore, era Vincenzo Pagano, il loro vicino di casa. Era questa una premonizione di quanto stava per accadere o a Salvatore piace pensarlo? Non so, non so. C’è una straziante nostalgia nel suo racconto, una commozione che nutre il ricordo di particolari forse solo immaginati.
– Mammà teneve ‘a freva, t’agge ditte, e dint’’a casa nun ce steve
niente ‘a mangia’.
Concetta chiede a Nina, che in famiglia è la più sveglia di tutti,
48
Antonio Piscitelli
di recarsi al Borgo Sant’Antonio, ancora oggi un rinomato mercato
all’aperto.
– Nine’, bell’’e mamme, va vide si truove nu poche ‘e pane,
ddoje patane.
Nina ci va al Borgo. Saranno state le nove del mattino, come ricorda Salvatore.
– Non era pericoloso? Non sapevate dei combattimenti in città?
– ‘O ssapeveme, ‘o ssapeveme, ma teneveme pure famme, tutte
quante. Erême tutte criature, ‘e mascule, je teneve quattuordece
anne, Tonino ddudece e Peppine ddiece. ‘E cchiù grosse erano Elvira e Nina. Elvira nun era bbona né pe’ friere e né pe’ arrostere.
Nina, invece, asceve ‘a dint’’o ffuoche.
Salvatore intende dire che, delle due sorelle maggiori, Anna era
quella più capace di cavarsi d’impiccio in caso di necessità. Così fu
lei, Anna, a uscire in strada in cerca di cibo.
– E tu dov’eri?
– Je steve sott’’o palazze. Pazziave cu Furtunate, ‘o figlie ‘e donna
Peppenella. Te arricuorde a donna Peppenella? Je e Furtunate teneveme ‘a stessa età.
Sì, mi ricordo di questa donna Peppenella. Era l’ortolana e fruttivendola della strada. Da bambino mia mamma mi ci mandava a
comprare le verdure. Il suo basso faceva angolo con via Martiri
d’Otranto. Era abitazione e bottega. Casa e puteche: un tipo di attività commerciale svolta all’interno dell’abitazione. Sul retro c’era
la zona letto (ma occorrerebbe dire «letti» a giudicare dalla folla
di gente che vi dormiva), sul davanti, a fronte strada, era esposta
la mercanzia. Oggi ‘o vasce ‘e donna Peppenella (qualcuno ancora lo
chiama così) è solo l’abitazione di una donna sola e temo assai
povera.
Intorno alle dieci del mattino si udì un mitragliare affocato d’incerta provenienza, ma vicino, assai vicino ricorda Salvatore. I pochi
che erano in strada cercarono rifugio nell’androne dei palazzi, che
furono subito sprangati a scanso di pericoli. Lui scappò nel basso
di donna Peppenella, anche questo chiuso immediatamente.
– Quanto durarono le raffiche di mitraglia?
– Ddiece minute, ‘nu quarte d’ora, n’eternità.
Salvatore non sa calcolare il tempo, sa solo dirmi che la paura
fu tanta e tutti erano col fiato sospeso, temendo che la sparatoria
Un quartiere nella rivolta
49
non cessasse, che giungesse a colpire i terranei. Nel basso si contarono, più volte, per essere certi che tutti fossero al sicuro. C’era
una specie di procedura: le camionette dei tedeschi sostavano per
qualche minuto a ogni crocicchio e sparavano all’impazzata, colpendo chiunque fosse capitato loro a tiro. Quella che si fermò all’incrocio tra via Santa Maria della Fede e via Martiri d’Otranto proveniva da via Dogliuolo, secondo quel poco che in seguito se ne
seppe. Sparò più di qualche minuto, il che mi fa supporre che qualcuno rispose al fuoco. Chi? Salvatore non sa dirlo né conosce il comandante Fratantonio Salvatore o Diglio Angelo che vollero la lapide commemorativa delle vittime di quella giornata, il primo definito patriota, il secondo membro della squadra di combattenti. Pagano Vincenzo era uno del gruppo? La sparatoria fu causata dai
partigiani o questi risposero al fuoco tedesco per salvare i civili che
in quel momento transitavano per la strada? Non so dirlo. La lapide recita: caddero combattendo contro il tedesco – per la liberazione di
Napoli – riaffermando – l’indomito coraggio del popolo – e l’amore alla libertà. Segue l’elenco degli otto nominativi summenzionati.
Ignoro se Nanni Loy fosse a conoscenza della strage di via Martiri d’Otranto, osservo che una scena del film fu girata nella vicina
via Biagio Miraglia, nel punto in cui questa strada s’interseca con
via Eleonora Pimentel Fonseca. Probabilmente fu scelto quest’angolo perché la presenza di un barbacane costituiva la scenografia
ideale alla ricostruzione dello scontro vero avvenuto a poca distanza.
Il basso ivi ripreso ben riproduce quello di donna Peppenella, identico, per far parte di un gruppo di edifici, tutti uguali, risalenti alla
fine del XIX secolo e fatti costruire per dare alloggio alle famiglie
sfrattate dalla bonifica della città dopo l’epidemia di colera del 1884.
Ne scrive Matilde Serao nella sua inchiesta giornalistica pubblicata
col titolo Il ventre di Napoli1. Sono i palazzi del Risanamento, come
ancora oggi la gente li chiama, benché la società che li costruì e
fu all’epoca appositamente fondata non esista più. Quello che si
vede nel film è per me ‘o vasce ‘e Maraucci. Vi abitava, all’epoca, un
mio amichetto, uno col quale ero solito giocare in piazza. Il suo
cognome era appunto Maraucci e così lo chiamavamo noi tutti scu-
1
M. SERAO, Il ventre di Napoli, Francesco Perrella editore, 1906.
50
Antonio Piscitelli
gnizzi di un tempo. Non so perché solo col cognome, tant’è che
ora non riesco a ricordare quale fosse il suo nome di battesimo.
Maraucci, solo Maraucci per tutti! Chissà che fine ha fatto. L’ho
perso di vista fin dagli anni del liceo, come tanti altri della sgangherata banda di birbantelli con i quali mi aggiravo allegro e spensierato tra le strade del quartiere. Altri tempi, altra felicità, senz’altro mezzo per conseguirla che lo sberleffo e il motteggio fini a se
stessi!
Anna Maria, invece, la incontro spesso, sempre in compagnia
del marito. Nel ’62 anche lei era una ragazzetta. Suo fratello Geremia, che non vedo più da quegli anni, oggi fa l’avvocato. Mi
piacerebbe incontrarlo e chiedergli di allora, di cosa ricorda di
quelle giornate bizzarre del film, quando la troupe si aggirava
nel palazzo in cui la famiglia d’origine abitava. Poi penso che sia
più attendibile la sorella, che è maggiore di lui, non ha mai traslocato e ancora vive lì, al civico 19 della piazza. Il film di Loy
ne ha fissato nella pellicola l’androne del palazzo, nella celebre
scena in cui Maria, l’attrice Lea Masssari, dialoga col previo innamorato, Salvatore, questo interpretato dall’attore americano
Frank Wolff. Poi c’è la ripresa dal balcone dell’appartamento al
primo piano, quella in cui sempre la Massari è ripresa mentre
conversa con un giovanissimo Antonio Casagrande nel ruolo di
suo marito: la coppia osserva e commenta, con diverso cuore, le
spacconate di Salvatore, il quale intima all’attacchino di non affiggere il celebre proclama del colonnello Schöll. Anna Maria mi
dice che la famiglia che consentì le riprese non c’è più. Aveva
un bellissimo letto di ottone o in ferro battuto. Secondo lei sarebbe lo stesso sul quale, nel film, vengono adagiati i cadaveri di
due giovani partigiani. Pare che quel letto piacesse moltissimo al
regista. So bene di cosa si tratta. Ce n’era uno analogo a casa
dei miei nonni, ma a quei tempi gli arredi prebellici era possibile rinvenirli in qualsiasi casa di napoletano. Nulla vieta che
quello usato per le riprese somigliasse al letto di cui mi parla la
mia amica.
La scena ricorda la difficoltà di dare sepoltura ai numerosi morti,
non tutti identificati, disseminati lungo le strade in cui realmente
si combatté. Ne so qualcosa, almeno sugli otto cadaveri di via Martiri d’Otranto. C’entra un signore che abitava in un terraneo di via
Un quartiere nella rivolta
51
Pasquale Baffi. Si chiamava Vincenzo Tummolillo, per me solo Tummulille, com’era a tutti noto quando io ero bambino. Beh, lui era
l’amico fidato dei bambini. Vigilava sui loro giochi spericolati. Diverse volte ha tirato mio fratello da qualche impiccio in cui s’era
cacciato. Giannino lo dipinge come un burbero buono e un uomo
di giustizia. Ci credo, conosco tutti i suoi eredi, di una sua nipote
sono stato l’insegnante. Angela, una delle sue figlie, è mia vicina
di casa. È lei che mi conferma quanto ho appreso da altre fonti,
compiendo un’operazione che potrei definire di collazione.
Pietà e coraggio animarono la sua iniziativa. Sfidando i pericoli
dei combattimenti ancora in corso, si procurò una carretta, di quelle
con le quali usualmente si effettuava il trasporto di merci in città,
e si improvvisò necroforo. Raccolse a uno a uno tutti i cadaveri, li
adagiò come fossero congiunti o figli, con cura amorosa, sulle scabre doghe del carretto a due ruote, se ne fece bestia da traino e
li condusse per i vicoli fino al non lontano obitorio di via Cesare
Rosaroll. La figura di Tummulille mi fa pensare alla pietà di Antigone, all’umano bisogno di onorare coloro che la morte ha rapito
al sodalizio degli affetti. Nella barbarie del conflitto in corso emerse
spontaneo, quale raggio di sole tra il denso nuvolo, un gesto di civiltà. Fu la pietosa mano di un uomo semplice a compierlo. Un gesto concreto il cui significato il poeta, attonito, non colse, non subito almeno:
«E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento»2.
Cantò questo segno di civiltà Nanni Loy, molto più tardi, nel
linguaggio che gli era congeniale, quello del cinema, che spesso
2
S. QUASIMODO, Giorno dopo giorno, Mondadori, Milano 1947.
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Antonio Piscitelli
traduce per l’illetterato l’ostica parola dei poeti. Da un testo letterario3 è infatti tratto il film; dal mondo della cultura e delle lettere
provengono i suoi sceneggiatori: il regista medesimo, Carlo Bernari,
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Vasco Pratolini.
Vidi il film l’anno seguente. Nientemeno che al cinema Metropolitan, una sala di prima visione, vale a dire con un biglietto d’ingresso molto caro per un ragazzetto come me che ancora indossava i pantaloni corti. In realtà non pagai, così come non pagarono
i due adulti ai quali facevo da «candela». Erano mia cugina Lucia
e il suo fidanzato Pasquale. All’epoca le coppiette non erano lasciate uscire da sole. V’era sempre un bambino che teneva loro
compagnia. A me spessissimo toccava la parte di «reggitore di moccolo», benché di candele per l’illuminazione non se ne usassero da
gran tempo. Il ruolo non era poi così malvagio: ne guadagnavo almeno un gelato e assai spesso il cinema, uno svago divertente al
quale non mi sarei certo sottratto. Tuttavia non mi sarei potuto consentire una sala di prima visione. Al cinema ci andavo con i miei
amichetti, la domenica mattina, in una delle numerose sale del mio
quartiere. Ce n’erano tante. Vi vedevo i film pseudostorici «dei romani», ‘o sicche e ‘o chiatte, cioè Stanlio e Ollio, o western con «i
buoni» che trionfavano sempre sui «cattivi». Costavano due soldi,
quasi l’esatto corrispondente della paghetta settimanale. No, il Metropolitan era una sala per ricchi. Forse neppure Lucia e Pasquale
potevano consentirsela, ma credo che lui avesse un paio di biglietti
omaggio, che includevano anche l’ingresso del «moccolo» dietro
esborso di una non esosa mancia da consegnare alla maschera. Fu
così che vidi per la prima volta «Le quattro giornate di Napoli».
Ne ho un ricordo vivido, rammento la forte impressione che ne ricevetti. Vedevo lo specchio di una città che conoscevo bene e l’epopea della mia gente, l’eco delle narrazioni familiari. Oltre tutto
ero stato testimone delle riprese e anche questa circostanza aveva
il suo peso nel suscitare in me un coinvolgimento inconsueto, mai
prima provato coi western o con i film dei romani. Ancora oggi,
quando mi capita di rivedere la pellicola, ricordo quella prima volta.
Ma penso anche sempre a Salvatore, alla sua tremenda espe3
A. DE JACO, La città insorge: le quattro giornate di Napoli, Editori Riuniti,
Roma 1956.
Un quartiere nella rivolta
53
rienza del 29 settembre 1943. Fu lui a trovare il cadavere di Nina.
– Salvato’, Salvato’! – urlò sua madre dalla finestra al quarto
piano.
Il ragazzo fece capolino dal basso di donna Peppenella.
– Mammà, ched è?
– Va’ vide soreta addò sta. Sto cu ‘o pensiere.
Gli spari erano cessati da un pezzo. Salvatore si avventurò cautamente lungo via Martiri d’Otranto. Non dovette allontanarsi molto.
A non più di trenta metri vide lo spettacolo agghiacciante dei cadaveri disseminati per terra. Tra essi era Nina, la sorella diciassettenne, la sua amica, la sua confidente. Era gonfia, mi riferisce, sembrava un pallone tanto si era gonfiata.
– C’era anche il tuo vicino, Vincenzo Pagano?
– Sì, steve llà pure isse. Che bellu guaglione che era, che bellu
guaglione! – ribadisce.
I vecchi, quando ricordano, si commuovono. Così vedo due lacrime sgorgare dai suoi occhi. Tendo una mano e gliele asciugo,
ma in realtà il mio gesto vuole essere una carezza, la carezza di un
figlio. Salvatore mi conosce da sempre. Mi ha visto bambino, studente, professore, scrittore; legge tutti i miei libri e se ne compiace.
È lui, ora, a prendermi per mano e a condurmi con sé in camera
da letto. So cosa vuole mostrarmi, lo ha fatto altre volte. In un angolo è il suo personale memoriale, i ritratti dei suoi cari defunti, i
genitori, la sorella Elvira, uno dei due fratelli, un giovane nipote.
Tra loro campeggia l’immagine di una ragazza d’altri tempi. Indossa un vestito a pois e reca sul capo un cappello di paglia a larghe falde. È Anna Aiello, morta il 29 settembre del 1943, all’età di
diciassette anni.
– Che bella guagliona! – commento – Che bella guagliona!
FRANCESCO SOVERINA
Intorno alle Quattro Giornate di Napoli…
tra cinema e storia
Senza memoria l’uomo
non saprebbe nulla,
e non saprebbe far nulla.
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone
In un pionieristico saggio del 1977 Marc Ferro, studioso della
rivoluzione russa e della Grande guerra, sottolinea, all’interno dei
rapporti fra cinema e storia, l’interazione fra l’uno e l’altra, individuando nella «settima arte» non solo una fonte, ma innanzitutto
un «agente di storia», di cui va colto l’«intervento», palese o sotterraneo, in più direzioni nelle dinamiche della società contemporanea. Per più versi, occorre tener conto di questo suggerimento
metodologico quando si parla delle Quattro Giornate di Napoli di
Nanni Loy. In primo luogo, perché – come ho potuto constatare
nelle numerose occasioni in cui sono stato invitato a presentarlo –
il film è stato, e rimane, il principale veicolo di conoscenza dell’insurrezione partenopea, contribuendo in maniera determinante
alla costruzione del senso comune su di essa.
Uscito nelle sale italiane nel 1962 (era distribuito dalla Titanus
di Goffredo Lombardo), riscuote un ampio consenso tra il pubblico
e lusinghieri apprezzamenti dalla critica, ma si attira subito la reazione risentita del governo e della stampa della Germania Occidentale. Il periodico «Der Stern» riporta la vibrante protesta del
ministro degli Esteri d’allora, Gerhard Schroeder, esponente della
CDU, che – attraverso la promozione di indagini storiche – intendeva scagionare da accuse false e infamanti le truppe della Wehrmacht di stanza a Napoli nel settembre 1943. Dal canto suo, un
giornalista, non temendo di cadere nel ridicolo e di irridere la verità storica, sminuisce le gesta dei napoletani arrivando a dipingerle
come una gazzarra di lenoni e prostitute. La disputa varcherà le
56
Francesco Soverina
soglie dell’assemblea comunale di Napoli e tre consiglieri – il comunista Carmelo Gabriele, il democristiano Gustavo Troisi, il socialista Lelio Porzio – firmeranno, nel dicembre 1962, una mozione
di condanna degli «oltraggi della stampa tedesca alla città».
È appena il caso di rammentare le aspre critiche suscitate, oltre
un trentennio più tardi nella Germania riunificata, dalla mostra fotografica dell’Institut für Sozialforschung di Amburgo sul coinvolgimento diretto dell’esercito tedesco nella guerra di sterminio del
Terzo Reich, che sfatava il mito di una «Wehrmacht pulita» impostosi nel secondo dopoguerra nell’opinione pubblica tedesco-occidentale.
Comunque, rispetto alla Bundesrepublik, ben altra sarà l’accoglienza riservata in campo internazionale alla pellicola girata da Nanni
Loy; in Italia, nei decenni successivi alla sua prima proiezione sugli
schermi, verrà riproposta innumerevoli volte, specialmente in occasione degli annuali appuntamenti del calendario civile: la festa della
Liberazione dal nazifascismo, il 25 aprile, e la ricorrenza delle Quattro Giornate sul finire del mese di settembre. L’ennesima conferma
della sua straordinaria longevità, anche al di fuori delle mura cittadine di Napoli, è venuta recentemente dalla scelta, del comitato di
«Ferrara per la Costituzione», di iniziare proprio con il film di Loy
la locale rassegna cinematografica volta a celebrare il settantesimo
anniversario della Resistenza. Non a caso si è presentata la «spontanea ribellione del popolo napoletano» come «un caso pressoché
unico nella storia della Seconda Guerra Mondiale» di una città in
grado «senza aiuti esterni» di mettere in fuga «il teutonico dominatore», recependo così il filo conduttore dell’opera di Loy e la
chiave di lettura prevalente sui mass-media, che spesso semplificano
e banalizzano quella di tanta memorialistica e storiografia.
Su soggetto di Vasco Pratolini – lo scrittore neorealista fiorentino, che si è rifatto ad un suo diario privato e si è ispirato al libro di Aldo De Jaco, La città insorge (1956) – il film racconta, con
toni epici, la sollevazione collettiva del popolo napoletano, spinto
dallo sdegno e dalla rabbia a mettere fine alle violenze e prevaricazioni perpetrate dalla «soldataglia germanica». La coralità è l’aspetto predominante di un’opera che restituisce, come meglio non
si potrebbe, il pathos e l’incalzante succedersi delle convulse e cruente
96 ore in cui tanti anonimi ‘eroi’ decidono coraggiosamente di bat-
Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia
57
tersi, in un’impari sfida, contro la tracotanza dell’esercito nazista.
La rivolta dilaga, dopo venti giorni di soprusi e terrore, di saccheggi
e vandalismi, quando scatta la caccia all’uomo per rastrellare migliaia di braccia da destinare al lavoro obbligatorio. Scandite dalla
Tarantella tragica del maestro Carlo Rustichelli, le sequenze più drammatiche – come quella relativa alla fucilazione, il 12 settembre, di
un marinaio sulle scale dell’Università dinanzi ad una folla ammutolita e costretta ad applaudire – coinvolgono emotivamente al punto
da far ribollire il sangue e indurre un’immediata identificazione
con gli interpreti del multiforme arcipelago degli insorti, tra cui gli
abitanti dei vicoli e dei ‘bassi’, i lavoratori, i marinai e soldati sbandati, le donne, determinate a salvare i propri uomini, gli studenti
liceali, i ragazzini del riformatorio, i giovani e giovanissimi figli dei
quartieri di Napoli. Significativamente, il film è dedicato al dodicenne Gennaro Capuozzo, medaglia d’oro – insieme con gli adolescenti Filippo Illuminato, Pasquale Formisano e Mario Menichini
– per aver sacrificato la propria vita durante i combattimenti contro i reparti tedeschi agli ordini del colonnello Scholl, spietato comandante della piazza di Napoli, incaricato da Adolf Hitler di ridurre la città a «fango e cenere». Come mostra emblematicamente
una scena, che riproduce fedelmente quanto avvenne nella realtà,
il distruttivo compito fu affidato a squadre di guastatori e sabotatori, chiamati a devastare l’apparato produttivo e le infrastrutture
civili, ad affamare la popolazione, a lasciare un ambiente desertificato agli Alleati in arrivo.
L’affresco realistico e intenso di Loy, preceduto da Il generale
Della Rovere di Roberto Rossellini (doppio Leone d’oro a Venezia
nel 1959), da Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini (che terminava con l’esplosione dell’insurrezione partenopea) e da Un giorno
da leoni (1961) dello stesso regista sardo, è un documento eloquente
del «dialogo con la storia», sul duplice binario passato-presente, intessuto dai cineasti italiani a partire dall’inizio degli anni Sessanta.
Si sviluppa allora un ricco filone sul ‘trittico’ fascismo-antifascismoResistenza, cioè su nodi tra i più importanti dell’immediato retroterra dell’Italia a loro contemporanea. Si tratta di film che traggono spunto dalle tensioni politico-ideologiche dell’oggi, che si volgono al passato, ma parlano in controluce del presente, delle sue
questioni e contraddizioni.
58
Francesco Soverina
E questo è vero anche per Le quattro giornate di Napoli. Come rivelerà Nanni Loy in un’intervista a «Bianco e nero», la sollecitazione a cimentarsi nella difficile prova di rappresentare un’improvvisata ma efficace forma di guerriglia urbana in una grande
metropoli viene al regista vicino al Partito comunista italiano, da
un lato, dall’impressione dei fatti del luglio 1960 a Genova e nel
resto d’Italia, provocati dal tentativo del governo Tambroni di operare una netta «svolta a destra», dall’altro dall’intento di mostrare
alla società italiana del «boom economico», pervasa da un deleterio cambiamento di costume, un esempio di solidarietà e sacrificio.
Ricostruendo il generoso scatto collettivo di un popolo come quello
napoletano, a suo giudizio, «animalescamente individualista», Loy
dà un’immagine del capoluogo partenopeo e della sua cittadinanza
che, a ben guardare, si discosta dai cliché folcloristici di tanto cinema nostrano e dalla fatalistica rassegnazione di Napoli milionaria,
che ha il suo inossidabile simbolo nella celeberrima frase di Eduardo
«adda passà ‘a nuttata!».
Non è stata la prima volta, peraltro, che si è dedicato un film
viene dedicato alle Quattro Giornate. Già nel 1945, a breve distanza
dagli eventi, con le macerie ancora disseminate dappertutto, Giacomo
Gentilomo impernia sulla rivolta il suo ‘O sole mio, di cui molte immagini, come dimostra Pasquale Iaccio in Cinema e storia, serviranno
a Nanni Loy per la costruzione delle scenografie della sua opera. In
questa, come in Un giorno da leoni, muovendosi «su più registri stilistici, Loy rivela – ha osservato Gian Piero Brunetta – la sua capacità
di osservazione distaccata e partecipe, il suo saper variare, entro una
stessa immagine, una caleidoscopica gamma di toni e di piani, dall’epico al drammatico, dal comico al patetico al farsesco».
Nell’Italia dell’impervia ricostruzione postbellica e degli anni Cinquanta, segnati dalla contrapposizione, talvolta rovente, tra le sinistre e le forze moderate e conservatrici capeggiate dalla Democrazia Cristiana, ‘O sole mio di Gentilomo, che per molto tempo è andato perduto, non lascerà tracce, subendo anzi le malevole critiche
di circoli cattolici adiratisi per il riferimento al fenomeno poco esemplare del collaborazionismo. È quello un periodo in cui, in particolare dal trionfo elettorale della DC nel 1948 alla formazione del
governo Tambroni nel 1960, l’antifascismo e la Resistenza non godono di buona salute; prevale invece un virulento anticomunismo,
Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia
59
vero e proprio perno del sistema politico italiano. La Costituzione
viene di fatto congelata e la democrazia effettivamente praticata risulta asfittica. Ancor più pesante è il clima politico a Napoli, in mano
ad Achille Lauro, lo spregiudicato armatore alla testa di un composito blocco sociale, in cui trovano spazio, sia pure in misura diseguale, ceti affaristici, spezzoni di nobiltà decaduta, il sottoproletariato e la piccola borghesia commerciale e impiegatizia. A mantenere vivo il ricordo della lotta di Liberazione, a celebrare le festività
repubblicane in città sono soltanto le minoritarie forze che si riconoscono nei valori più autentici e innovativi dell’antifascismo. Per il
resto, negli altri ambienti si oscilla dal silenzio all’aperta denigrazione, quando, come nel 1955, non si può ignorare, per legge di
Stato, la ricorrenza del decennale dell’insurrezione del 25 aprile.
Sulla stampa cittadina, a partire dal principale quotidiano di Napoli,
diretto dal transfuga fascista Giovanni Ansaldo, si sprecano gli inviti
alla «pacificazione nazionale», alla concordia, gli attacchi alla faziosità di chi tende ad inoculare i veleni dell’odio e della guerra civile.
Per una coincidenza tutt’altro che singolare, l’anno di uscita delle
Quattro giornate di Napoli, il 1962, è l’anno della fondazione in città,
da parte dell’insegnante democratico Giuseppe Grizzuti, assieme ad
un gruppo di giovani, di Nuova Resistenza, diramazione della rete
associativa nazionale nata dopo il luglio 1960 dall’incontro tra ragazzi da poco politicizzatisi, ex-partigiani, tra cui Ferruccio Parri e
Giorgio Agosti, ed intellettuali come Carlo Levi, Alessandro Galante
Garrone, Tristano Codignola, Giorgio La Pira e Aldo Capitini. Certamente, si respira un’aria nuova e la stagione cinematografica d’impegno civile da poco cominciata, unitamente agli interventi nelle
scuole, ai cicli di lezioni sull’Italia contemporanea promossi da vivaci circoli culturali, consente alle nuove generazioni, in città come
in gran parte del paese, di avvicinarsi ad una storia di cui erano
stati espropriati. In questo contesto, al film di Loy va riconosciuto
il grande merito di aver stimolato la riattivazione di una narrazione
da tempo interrotta, concorrendo a riannodare i fili di una trama
lacerata, a costruire una memoria pubblica e collettiva di eventi e
processi dimenticati e rimossi.
Tuttavia, non possono essere sottaciuti i suoi limiti. Neppure in
una scena compaiono i cecchini fascisti, responsabili invece di non
poche uccisioni e ferimenti, né si allude esplicitamente al ruolo
60
Francesco Soverina
svolto dagli elementi più consapevoli e motivati sul piano politico,
che assunsero in molte zone un ruolo direttivo. Dalla rivolta viene
così espunta la dimensione e caratterizzazione antifascista, finendo
per farla apparire come un’incontenibile sommossa popolare, esplosa
– come pure è stato – a difesa dei bisogni e diritti più elementari
calpestati dal «tallone di ferro» del terrorismo nazista, a coronamento di tre estenuanti anni di crescenti sofferenze e patimenti,
causati dal rarefarsi delle risorse alimentari, dal susseguirsi dei micidiali bombardamenti aerei e dall’infittirsi delle notizie luttuose
provenienti dai vari fronti.
Carlo Bernari, autore della corposa sceneggiatura, a cui hanno
collaborato pure Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e
Nanni Loy, rivelerà la progressiva eliminazione di ben nove scene,
tra cui quella dove agiscono i tiratori fascisti, rammaricandosene in
seguito alle proteste di ex-partigiani, spettatori interessati di una
delle prime proiezioni del film. Loy si difenderà da questi rilievi
critici, asserendo che la sua voleva essere un’opera soprattutto contro la guerra e le sue nefandezze.
Della chiave interpretativa del film – epico e coinvolgente come
si è già detto – si approprieranno suo malgrado i rappresentanti dei
partiti moderati, come l’allora presidente democristiano del Consiglio, il napoletano Giovanni Leone, già difensore nell’immediato dopoguerra di collaborazionisti e fascisti. È significativo che, allorché
si decide di erigere un monumento alle Quattro Giornate, Antonio
Gava – all’epoca presidente della Provincia – e gli altri dirigenti democristiani insistano, riuscendovi, perché esso sia dedicato allo «scugnizzo», cioè ad una figura priva, per la sua tenera età, di connotazioni politiche, espressione della «sana istintività partenopea» o, in
altri termini, di una presunta, immutabile realtà socio-antropologica.
Confinate nell’ombra rimarranno le tante figure dell’antifascismo politico – Geppino Aragno ne ha censite ben 170, ma a suo avviso il
numero è destinato a crescere –, protagonisti e non comparse di
un’insurrezione che Giorgio Bocca – partigiano azionista, nonché
grandissimo giornalista – definisce nella sua Storia dell’Italia partigiana
«anarchica, [anche se] non casuale». A sua volta Aurelio Lepre, a
lungo storico comunista, le definirà una «rivolta dell’istinto».
Da quanto sin qui si è detto le Quattro Giornate, l’evento al pari
della rappresentazione filmica, sono state – e continuano ad essere
Intorno alle Quattro Giornate di Napoli… tra cinema e storia
61
– terreno di disputa nell’arena mediatica, un caso di «uso pubblico
della storia», oggetto dell’offensiva revisionistica e negazionista. La
seconda ha sminuito l’insurrezione napoletana a fatto militarmente
irrilevante, se non inesistente, riproponendo, nel 1993, con Enzo
Erra, ex repubblichino e deputato missino, la stantia tesi di Attilio
Tamaro dell’apporto insignificante della Resistenza alla sconfitta del
nazifascismo. La prima ha visto nel film di Loy lo strumento di una
subdola manovra egemonica del Pci, teso ad impadronirsi di un
evento cui non aveva preso parte, dimenticando che, se era assente
il locale gruppo dirigente del Partito, sono stati attivamente presenti nella lotta non pochi suoi militanti, nonché comunisti in odore
di eresia. Si leggano, a tal proposito, le farneticanti considerazioni
di Pierluigi Battista, sul «Corriere della sera» del 6 giugno 2007,
sulla scorta del libro di Marco Demarco, una rivisitazione della recente storia napoletana dettata dal livore che assale chi non riesce
a liberarsi dalla sindrome dell’ex. È, infine, il caso di non infliggersi la pena di leggere, sulle Quattro Giornate, le tante mistificazioni, approssimazioni e menzogne ospitate in rete, ma di sottoscrivere l’esortazione di Umberto Eco rivolta ai giornali in vista di
un periodico censimento da fornire ai lettori sui siti culturalmente
più seri e attendibili. Mi si perdoni lo stile insolitamente graffiante,
ma davvero proprio non se ne può più.
Bibliografia di riferimento
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2009.
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1943), Maone, Napoli s.d. [1944].
GIORGIO BOCCA, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966.
GIULIA BUFFARDI, FRANCESCO SOVERINA (a cura di), numero monografico di
«Resist-oria. Bollettino dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza», a. 2004.
ENRICO BERNARD, Bernari sceneggiatore e le Quattro Giornate di Napoli in «Biblioteca di Rivista di studi italiani».
CARLO BERNARI Le mie quattrocento giornate (Storia di un film che non è stato
fatto) in GIOVANNI ARTIERI (a cura di), Le Quattro Giornate, Marotta, Napoli 1963.
62
Francesco Soverina
GIAN PIERO BRUNETTA, Cent’anni di cinema italiano. 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 1998.
ALDO DE JACO, Le quattro Giornate di Napoli, Editori Riiuniti, Roma 1972.
MARCO DEMARCO, L’altra metà della storia. Il potere a Napoli da Lauro a Bassolino, Guida, Napoli 2007.
GUIDO D’AGOSTINO, Le Quattro Giornate di Napoli, Newton & Compton, Roma
1998.
MARC FERRO, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Feltrinelli, Milano 1980
(ediz. originaria, 1977).
UGO FINETTI, La Resistenza cancellata. Controstoria della Liberazione, Edizioni
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sul sito nazionale dell’Anpi.
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PASQUALE SCHIANO, La Resistenza nel napoletano, CESP, Napoli-Foggia-Bari
1965.
FRANCESCO SOVERINA, La difficile memoria: La Resistenza nel Mezzogiorno e le
Quattro Giornate di Napoli, Dante&Descartes, Napoli 2012.
PAOLO SPERANZA
Un film «marcatamente antitedesco»
la Germania di Bonn contro il film di Loy
«È vero, il film Le Quattro Giornate di Napoli ha provocato irritazione nell’opinione pubblica tedesca. Anche se, a tale riguardo, io non ho
mai parlato di «offesa ai rapporti italo-tedeschi», sono però del parere che
tali films, per la tendenza a generalizzare e alterare atteggiamenti e fatti,
non si prestano ad una maggiore intesa tra i popoli ed alla cooperazione
europea. E soprattutto non contribuiscono a superare certi risentimenti tuttora esistenti fra i nostri due popoli».
Con questa dichiarazione, rilasciata a un redattore dell’Agenzia
«Italia» e ripresa dal quotidiano «Il Messaggero» il 5 dicembre 1962,
l’ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca a Roma Manfred
Klaiber conferiva il crisma dell’ufficialità e della rilevanza politica
alla querelle che da qualche giorno si era aperta nell’opinione pubblica tedesca sul film di Nanni Loy prodotto dalla Titanus.
In quella conversazione, il diplomatico di Bonn non si limitava
a brevi affermazioni di circostanza, anticipando sostanzialmente (pur
con uno stile più rispettoso e forbito rispetto agli standard giornalistici del suo Paese) i leitmotiv che, per più di un anno, avrebbero
tenuto banco sulla stampa della Germania Ovest: l’assoluta mancanza di veridicità storica del film; il tentativo dell’intellighenzia italiana di scaricare sul Terzo Reich l’esclusiva responsabilità della seconda guerra mondiale e delle sue atrocità; la minaccia, neanche
tanto velata, di ritorsioni politiche e commerciali (soprattutto nel
settore turistico) nei confronti dell’Italia; e, non ultimo, il grave vulnus che ne sarebbe scaturito al nuovo processo di integrazione europea, di cui la Germania di Bonn e l’Italia erano, con la Francia,
i più importanti assertori.
64
Paolo Speranza
Una polemica (apparentemente) incomprensibile
Possibile, è naturale chiedersi mezzo secolo dopo, che un film,
per quanto notevole sul piano artistico e produttivo, potesse provocare implicazioni di così vasta portata?
Anche ad una attenta rilettura della documentazione giornalistica dell’epoca, la vibrante polemica della stampa tedesco-occidentale contro la trasposizione cinematografica delle Quattro Giornate
di Napoli può in effetti rivelarsi pretestuosa, eccessiva, a tratti persino goffa, in ogni caso incomprensibile. E tale apparve all’epoca
negli ambienti culturali in Italia.
Da che cosa aveva origine, si chiedeva ad esempio su «Nord e
Sud» del febbraio 1963 Rosellina Balbi, «il motivo dell’irritazione – del
furore, in qualche caso – che il film di Nanni Loy ha suscitato in certi ambienti tedeschi»? Un interrogativo senza risposta: «Così, Alfredo Todisco
si chiedeva tempo fa su “La Stampa” – senza tuttavia darsene spiegazione
– «il motivo che spinge alcuni fogli della Repubblica Federale a confondere
l’avversione al nazismo e al fascismo con un sentimento antitedesco»; così
ancora, su queste stesse colonne, Antonio Ghirelli affermava recentemente
che, dal punto di vista tedesco, non esisterebbe “il minimo motivo di fondata irritazione per un film che, dei molti «girati» sull’argomento, è forse
– nella sostanza – il meno faziosamente antigermanico”».
L’analisi di Ghirelli era condivisa da uno dei maggiori critici cinematografici dell’epoca, Pietro Pintus, su «Realtà del Mezzogiorno»
del dicembre ‘62: «Gli stessi tedeschi, se si eccettuano gli ordini mostruosi
dei capi, sono visti in una luce misericordiosa, di umana partecipazione:
si presti attenzione a una delle ultime sequenze, quando il personaggio interpretato da Lea Massari chiede a un tedesco sbandato notizie della sua
famiglia, della sua vita borghese, con un sorriso. È come se la disperata ribellione di un popolo — una ribellione senza capi, senza guide, disordinata
e confusa, senza programmi — riuscisse a lambire, con il lato straziante di
quella disperazione, anche i più tetragoni alla pietà e in qualche modo in
quella pietà fiera li coinvolgesse, ne riscattasse un poco le colpe, ne minimizzasse gli orrori».
Sulla stessa lunghezza d’onda si collocava uno dei più autorevoli
editorialisti dell’area moderata, Domenico Bartoli, che sul settimanale «Epoca» del 3 febbraio ’63 dedicò l’intera rubrica «L’Italia allo
specchio» alla querelle politico-giornalistica: «Il risentimento dei tedeschi
Un film «marcatamente antitedesco»
65
per questo film – si chiede l’autore – da che cosa nasce? Dalla convinzione che alcuni episodi non sono esatti? Ma abbiamo visto che il film non
può raggiungere la verità storica. Dubitiamo, inoltre, che gli archivi della
Wermacht siano più precisi e attendibili. O forse i tedeschi sono indignati
per i sentimenti di ostilità verso di loro che risultano molto chiaramente dalle
Quattro giornate di Napoli? Possiamo comprenderli. Ma è un fatto che
le truppe germaniche commisero nel nostro Paese violenze e brutalità gravissime. A un certo momento, è naturale, bisogna sforzarsi di dimenticare,
anche perché l’Italia ha le sue colpe e le sue macchie, se pure umanamente
meno gravi, e quasi tutta l’Europa ha le proprie. Tuttavia – conclude
Bartoli – non si può proibire ai registi italiani, tanto severi con la nostra
vita e la nostra storia, di ricordare quel passato».
È proprio l’eccessiva ed inspiegabile levata di scudi da parte dell’opinione pubblica tedesca, d’altronde, a conferire a questa pagina
dimenticata una indubbia e ancora pregnante rilevanza, che attiene
non solo alla storia del cinema italiano ed europeo ma anche, come
vedremo, al dibattito sul secondo conflitto mondiale e sulla Resistenza, che nei primi anni Sessanta, «all’indomani del successo raccolto,
alla Mostra di Venezia, dal Generale Della Rovere di Roberto Rossellini»
(come notava Mino Argentieri su «Vie Nuove» del 3 giugno 1961),
era finalmente tornata in primo piano, insieme alle ferite ancora
aperte di una guerra devastante che, va ricordato, si era conclusa
da meno di due decenni. Ma fu solo sull’onda del film di Loy che
la coltre di oblio calata sulla guerra recente iniziò a evaporare anche nella Repubblica di Bonn: «Il film italiano Le Quattro Giornate
di Napoli suscitò in Germania un´ondata di sdegno, quando, nell´ottobre
del 1962, fu proiettato nelle sale cinematografiche», afferma lo storico tedesco Gerhard Schreiber, che emblematicamente sceglie di aprire
la prefazione del suo importante volume Deutsche Kriegsverbechen in
Italien (Crimini di guerra tedeschi in Italia, 1996) con un riferimento
al film prodotto dalla Titanus e alle polemiche che ne derivarono.
Solo da allora, puntualizza del resto Schreiber, «Quello che per alcuni
era inimmaginabile e per altri ormai perfettamente rimosso divenne consapevole e riaffiorò alla memoria», cominciando a sedimentarsi nella coscienza collettiva del popolo tedesco nonostante l’immediata controffensiva politico-mediatica volta a minimizzare la portata dei crimini di guerra. Persino nella metropoli che ospitava uno degli eventi
culturali più importanti d’Europa, la Francoforte della Buchmesse,
66
Paolo Speranza
un osservatore sensibile e attento come Vittorio Sereni, poeta e manager editoriale della Mondadori, a un anno esatto dalla «prima»
del film percepiva una diffusa e ostinata volontà di rimozione di
un passato prossimo tanto tragico e vergognoso: «Tutto ingoiano le
nuove belve, tutto / si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore»,
scrive Sereni nella poesia Nel vero anno zero, contestualizzata dal critico Massimo Raffaeli in Oblio a Francoforte con le belve pacate, su «Alias
libri», supplemento de «il manifesto», del 23 agosto 2015. «Tale, per
il poeta, – commenta Raffaeli – è l’anno zero di una smemoratezza che
si manifesta in Germania e altrove ormai come pacata, assennata, gestione
dell’oblio».
Il fantasma della Resistenza
Paradossalmente, tuttavia, la memoria del film di Loy, sebbene
con interpretazioni ed esiti controversi, risulta oggi più viva e consolidata nella storiografia tedesca contemporanea che in Italia, dove
risulta piuttosto scarna la bibliografia sull’argomento, rendendo ancora decisiva, e sempre più preziosa, la consultazione delle fonti
giornalistiche dell’epoca, dalle quali si evince un primo dato evidente e ineludibile: fu l’ondata di indignazione esplosa nella RFT
a suscitare un’eco anche in Italia, a poche ore dalla «prima» del
film, svoltasi il 15 novembre 1962 alla presenza dei presidenti della
Camera (Giovanni Leone) e del Senato (Cesare Merzagora) al Teatro dell’Opera di Roma.
Qualche avvisaglia delle imminenti polemiche si era in realtà manifestata anche alla vigilia dell’uscita in sala a Napoli, il 17 novembre, con una presa di posizione di alcuni partigiani e familiari delle
vittime delle Quattro Giornate, che sostanzialmente lamentavano,
come riporta una corrispondenza di Crescenzo Guarino su «La
Stampa», il loro mancato coinvolgimento nella consulenza storica
per il film e nella serata di gala organizzata dalla Titanus al Teatro
San Carlo. Si trattava tuttavia di un episodio circoscritto, e di una
circostanza tuttora piuttosto frequente in occasione di pellicole ispirate alla cronaca o alla storia recente.
Molto più vasta si rivelò invece la forza d’urto dell’opinione pubblica della RFT, dove alcuni dei maggiori quotidiani («Die Zeit» il
Un film «marcatamente antitedesco»
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19 novembre, la «Suddeutsche Zeitung» e «Der Abend» l’indomani)
aprirono subito un fuoco di fila contro il film della Titanus. Tanto
che già il 20 novembre, all’affollatissima presentazione al Circolo
della Stampa di Roma, gran parte dell’intervento del regista fu dedicato ad una serrata replica ai giornalisti tedeschi: «Loy ha ricordato
– si legge su «La Stampa» del 21 novembre – che gli ordini del quartier generale di Hitler furono testualmente di «ridurre tutta la città di Napoli ad un ammasso di macerie, cancellandola dalle carte geografiche, come
esempio alle altre città europee per prevenire possibili sollevazioni». A conclusione del suo intervento, Nanni Loy ha affermato vivacemente che il suo
operato non richiede giustificazione di alcun genere trovandole nella storia
delle «Quattro Giornate», ma che invece è lui a richiedere ora giustificazioni a certi giornalisti tedeschi che hanno accusato il film di falsità».
A sostegno della pellicola si schierarono due dei tre politici invitati per l’occasione dal produttore Goffredo Lombardo, col malcelato intento di prevenire sospetti di faziosità: il senatore comunista Mario Palermo, uno dei «padri nobili» dell’antifascismo napoletano e dell’insurrezione, e il suo collega Leonida Sansone del Psi
(partito da poco entrato nell’area di governo), che nei giorni successivi, nell’aula di Palazzo Madama, si spinse a proporre ufficialmente la visione del film di Loy in tutte le scuole d’Italia. Al terzo
invitato, il deputato del Msi Giulio Caradonna, che avrebbe potuto
trovarsi in imbarazzo nel minimizzare esplicitamente, in quella circostanza, la portata della Resistenza e delle Quattro Giornate, la levata di scudi della stampa germanica offrì un inatteso e facile appiglio polemico: «ispirandosi a temi ricorrenti del neofascismo – citiamo
ancora dal quotidiano di Torino – ha espresso «preoccupazioni per i riflessi che il film, interpretazione unilaterale di fatti storici italiani, potrà
avere sia sui rapporti attuali con il popolo tedesco, sia sull’onore dell’esercito e quindi dell’intero popolo italiano». Tanto che, commentò con qualche forzatura l’autorevole quotidiano «Die Welt» il 22 novembre,
«invece di una conferenza stampa si è sviluppato un duello verbale durato
due ore, soprattutto tra politici italiani di estrema sinistra e di estrema destra, che in alcuni momenti minacciava addirittura di sfociare in violenza».
Al di là delle forzature e delle diverse, spesso strumentali e in
qualche caso stravaganti, chiavi di lettura del film, l’eco vastissima
suscitata da Le Quattro Giornate di Napoli era l’ennesimo segno che
il cinema italiano, rinvigorito dall’apporto di nuovi autori e da una
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Paolo Speranza
rinnovata tensione etica e civile nella cultura nazionale, stava cominciando a squarciare il velo di ambiguità e di oblio che nel decennio precedente era calato sul Fascismo e sulla Resistenza.
Qualche settimana dopo, nel dibattito sul film organizzato dal
Circolo Napoletano del Cinema al «Fiamma» la mattina del 9 dicembre, in una sala assiepata di partigiani, parenti delle medaglie
d’oro al valore, politici e docenti universitari, e con ospite d’onore
l’illustre poeta turco Nazim Hikmet, il regista Loy e lo scrittore
Carlo Bernari, coautore della sceneggiatura, si trovarono invece a
doversi difendere da una critica inaspettata e di tutt’altro segno:
come mai nel film, chiesero alcuni esponenti politici ed ex partigiani (riprendendo le argomentazioni esposte in una lettera del 18
novembre al quotidiano «Il Mattino» dal deputato socialista Pasquale
Schiano, vicepresidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane), la responsabilità dell’atroce repressione veniva addossata
esclusivamente alle truppe tedesche, ignorando del tutto il ruolo
dei fascisti (e degli antifascisti)? Un argomento che sarà ripreso di
lì a poco – con ben altre finalità, come vedremo – da gran parte
della stampa tedesca.
«Tedeschi brava gente»
A scorrere le agenzie di stampa tedesche del 20 novembre del
’62, si potrebbe desumere che ad innescare la risentita reazione
dell’opinione pubblica della RFT sia stata la citata iniziativa del senatore socialista Sansone di proporre Le Quattro Giornate di Napoli
come «film didattico» nelle scuole italiane.
Una autentica provocazione – dal punto di vista della stampa di
Bonn – trattandosi di un film «marcatamente anti-tedesco», tanto
che in un articolo del 20 novembre su «Der Spiegel», uno dei settimanali più diffusi, vengono ventilate conseguenze preoccupanti:
«Le scene del film risultano così gravi per i rapporti tra Germania e Italia
che si prevede l’assunzione di misure nei confronti delle autorità italiane».
Il quotidiano berlinese «Der Abend», lo stesso giorno, è ancora
più esplicito: «Si girano in Italia troppi film antitedeschi. Il cinema italiano ha ritrovato il passato, ma non il suo passato fascista, bensì quello
tedesco, quello del nazionalsocialismo. Vittime dei barbari sono sempre belle
Un film «marcatamente antitedesco»
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ragazze e ragazzi italiani che si battono per la libertà. Finora noi abbiamo
accettato passivamente, ma a questo punto il governo tedesco dovrebbe pensare ad una chiara azione di antipropaganda».
A stretto giro interviene anche il governo di Bonn: il ministro
degli Esteri Schroeder, annuncia con enfasi a fine novembre la popolare rivista «Stern», pubblicata ad Amburgo, intende promuovere
un’inchiesta per l’esatta ricostruzione storica dei fatti del settembre
del ’43, «per dimostrare il corretto comportamento militare dei tedeschi in
una città – Napoli – che è meta di migliaia di turisti tedeschi».
I toni aggressivi e la sostanziale unanimità della stampa della
RFT destano impressione in Italia nel mondo del cinema e dell’informazione, come rivela un intervento su «Filmcritica» del gennaio ’63 del direttore Edoardo Bruno: «L’irritazione dei tedeschi per
il film Le quattro giornate di Napoli si può rilevare anche nei più
modesti giornali di provincia. La «Recklinghaeuser Zeitung» ad esempio,
scrive che, se lo stesso Ambasciatore tedesco a Roma definisce il film come
una offesa ai rapporti italo-tedeschi, è facile immaginare quanto veleno
sia stato distillato in questa opera cinematografica». Ma l’aspetto più
preoccupante è il riemergere di toni nostalgici che si immaginavano rimossi per sempre nella nuova Germania di Adenauer: «La
difesa del soldato tedesco della Wermacht e della stessa SS – commenta
l’autorevole critico cinematografico – sono i temi più incredibili e
più dolorosi che praticamente tutta la stampa tedesca di Bonn ha toccato».
Sentimenti che trasudano nelle lettere ai giornali. Dall’orgoglio
identitario e dalla difesa dell’onor militare all’esplodere delle pulsioni anti-italiane, non di rado con venature razziste, il passo è breve.
Significativa è la rubrica dei lettori in «Die Welt» del 17 dicembre,
a commento dell’articolo di Friedrich Meichsner sul film di Loy
(accusato di infangare la memoria dei soldati tedeschi e di minare
la collaborazione tra i due Stati). Un professore universitario ed ex
ufficiale, Werner Kolb, accusa addirittura il giornalista di un atteggiamento troppo morbido e problematico nella difesa della Wermacht. E non si trattava certo di una posizione isolata: all’epoca,
come argomenta Schreiber nel suo ponderoso studio sui crimini di
guerra tedeschi in Italia, l’onore dell’esercito germanico era ancora
uno dei capisaldi del sentire collettivo: «Questa differenziazione, alquanto schematica, secondo cui la Wehrmacht, a differenza delle SS, non
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Paolo Speranza
avesse commesso crimini è stata costruita dopo la fine della seconda guerra
mondiale da generali ed ufficiali della Wehrmacht stessa».
Le scene del film di Loy finivano dunque per costituire, a dire
dello storico tedesco, la «violazione di un tabù, vale a dire la convinzione che la Wehrmacht avesse commesso, tutt´al più (e ammesso che fosse
vero), crimini di guerra esclusivamente nell’Unione Sovietica. Questa rassicurante convinzione, socialmente accettata, metteva in discussione l’autenticità del film»: per lo spettatore medio tedesco era decisamente più
comodo rifugiarsi nella convinzione che il film rappresentasse una
«epocale distorsione storica», piuttosto che confrontarsi, per dirla
con Schreiber, «con la rappresentazione artistica della realtà storica» e
con la scoperta, traumatica per gli stessi tedeschi, degli orrori provocati dalle truppe di occupazione del Reich: «Lo spettatore vede il
dramma esistenziale, creature torturate, bambini affamati, devastazione di
ogni genere, fucilazioni arbitrarie, brutali deportazioni e ogni sorta di spaventosa crudeltà. In maniera esemplare viene documentato ai turisti tedeschi che andavano in vacanza in Italia, la sofferenza comune sconosciuta,
che la furia della guerra ha cagionato agli italiani», commenta Schreiber. In questa ottica, Napoli non può essere derubricata a un caso
isolato ma diventa una pars pro toto, scrive lo storico: una vibrante
metafora del terribile grado di ferocia repressiva esercitato dalla
Werhmacht, oltre che dalla Gestapo e dalle SS, nel secondo conflitto mondiale.
Più pervasivo e duraturo era destinato a rivelarsi l’altro argomento-chiave che dominò la stampa tedesca all’uscita del film: l’attribuzione esclusiva al Reich dei crimini di guerra da parte delle
autorità politiche e della cultura italiana, con l’inconfessato ma evidente obiettivo di rimuovere i fantasmi del proprio passato.
Nello stesso numero di «Die Welt», da Singen, il lettore W. Strittmatter chiama in causa le responsabilità degli italiani («Dimenticano
forse che la maggioranza di essi era favorevole all’Asse Roma-Berlino ed
aveva approvato l’entrata in guerra al fianco dei tedeschi voluta da Mussolini?») e dà voce alla voglia di ritorsione: «Oppure i tedeschi devono,
come contromisura, fare propaganda contro le vacanze in Italia?». Per evitare una frattura dirompente nelle relazioni tra i due Paesi, scrive
da Colonia Horst K. Kanert, non c’è che una strada: una energica
presa di posizione ufficiale da parte del governo di Bonn, per far
emergere «il vero stato d’animo che sta all’origine di questo film».
Un film «marcatamente antitedesco»
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«Li ha costretti a ricordare»
Le ferite aperte dal film di Loy, ed è questo il dato culturale di
maggior rilevanza, non sono ancora del tutto rimarginate nell’opinione pubblica tedesca e nella stessa cultura accademica. Una delle
conferme più recenti e significative si riscontra in una voluminosa
monografia pubblicata nell’ottobre del 2014 dalla studiosa Monique
Hoffman: Die Deutschen im italienischen Spielfilm nach 1945 (I tedeschi
nei film italiani dal 1945), che nell’introduzione ribadisce sostanzialmente alcune di quelle argomentazioni esposte con tanta indignazione dai lettori nel ‘62-’63, inserendole tuttavia in un contesto
politico-culturale ben più ampio e documentato.
Con il senso della prospettiva storica, la rilevanza e l’impatto mediatico del film di Loy sono riconducibili, a giudizio della Hoffman,
al nuovo scenario che si determinò in Italia nei primi anni Sessanta. Se fino ad allora, sostiene la studiosa, il tema della Resistenza
non veniva enfatizzato, giacché «il governo guidato dai democristiani
non aveva intenzione di giocare una carta a favore dei comunisti, con la
prima coalizione di centro sinistra, a partire dal 1963, cominciò un processo di trasformazione che comportò alla fine l´affermazione del mito della
Resistenza che diventava così religione di Stato», estendendo all’intera
comunità italiana la «patente» di antifascismo.
Funzionale a questa visione, è la tesi dell’autrice, «fu l’affermarsi
dello stereotipo del ‘tedesco cattivo’, visto che il capro espiatorio tedesco facilitava in questo modo lo scrollarsi di dosso la responsabilità della seconda
guerra mondiale e dei crimini commessi nei territori occupati insieme ai tedeschi».
Italiani brava gente, insomma, per riprendere il titolo di un celebre e coraggioso film di Giuseppe De Santis: «Il luogo comune del
cattivo tedesco – conclude la Hoffman – viene compensato da quello del
buon italiano».
Questa denuncia di una mitografia patriottica e autoassolutoria
della Resistenza italiana, sebbene non del tutto priva di fondamento
storico, venne tuttavia utilizzata a sua volta dall’opinione pubblica
tedesca con finalità analoghe, e in maniera assai più esplicita, senza
peraltro tenere conto di un fattore dirimente che proprio in quei
primi anni Sessanta si andava manifestando: il diverso grado di disponibilità e, per dirla tutta, di coraggio che in Italia si poteva ri-
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Paolo Speranza
levare, rispetto alla Germania, su quella che oggi si definirebbe, con
un termine in voga, la «narrazione» della seconda guerra mondiale
e della dittatura. Inoltre, a rigor di cronologia, appare evidente che,
se il nuovo contesto politico di centrosinistra favorì senz’altro la diffusione di una nuova e più avanzata visione storiografica, in realtà
era stata la cultura progressista (attraverso la narrativa, la stampa e
quindi il cinema) ad anticipare la politica e, in qualche misura, ad
indirizzarla. Per limitarci ad alcuni titoli, va ricordato che Il generale
Della Rovere era uscito nel ‘61, come pure Un giorno da leoni dello
stesso Loy, e che due anni prima dell’avvento del centrosinistra
molti registi italiani erano già alle prese con film e sceneggiature
ispirati alla guerra. Contestualmente a questa rinnovata tensione storico-politica, il cinema italiano era in prima fila in quegli stessi anni
nella mobilitazione dell’arte e della cultura contro la censura di
matrice militar-clericale.
Sotto questo profilo, i cineasti e gli artisti della Germania Federale (con rare eccezioni) mostravano negli stessi anni un atteggiamento senza dubbio più timido rispetto alla sfida di una lettura critica del recente passato ed al ruolo della censura. La reazione dell’industria cinematografica tedesca alla vigilia dell’uscita in sala di
Le Quattro Giornate di Napoli è rivelatrice del clima di censura interna vigente nella Germania di Adenauer, come dimostra Stephan
Buchloh nel documentato Pervers, Jugendgefardend, Staatsfeindlich, edito
dall’Università di Francoforte nel 2002. La FSK (Freiwillige Selbstkontrolle der Filmwirtschaft), l’organo di autocontrollo volontario
di cui si erano dotati i produttori della RFT, composto da tre commissioni per la «revisione cinematografica», scelte di cautelarsi organizzando una proiezione del film di Loy nella sede del Ministero
degli Affari Esteri, alla quale invitarono un gruppo di funzionari e
di ufficiali delle forze armate per farli esprimere sulle possibili conseguenze politiche e sull’effetto che avrebbe sortito sui soldati. In
linea con la quasi totalità dell’opinione pubblica nazionale, le due
commissioni della FSK, secondo la ricostruzione di Buchloh, «proibirono la proiezione del film cercando di celare all’opinione pubblica sia questa iniziativa censoria sia l´avvenuta visione da parte di organi statali; e
il motivo di tale censura non fu reso noto». (pagg. 204-205).
Solo in una fase successiva, e dopo estenuanti trattative, la massima autorità dell’organo di autocontrollo volontario dell’industria
Un film «marcatamente antitedesco»
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cinematografica, costituita da giuristi, autorizzò infine la proiezione
del film.
L’atteggiamento dei cineasti della Germania Ovest nei confronti
del film Le Quattro Giornate di Napoli segnò in ogni caso un vulnus
culturale e rimarca in maniera palese un’altra, fondamentale differenza tra il cinema italiano e tedesco dell’epoca: la pressoché totale assenza di solidarietà (in nome della libertà di espressione e
creativa) da parte dei cineasti della RFT nei confronti di un autore
di un altro Paese. Laddove, in Italia, era la censura politica a limitare la libertà degli artisti, in Germania si verificò un episodio di
censura anche all’interno del mondo cinematografico. Ad attestarlo
è anche la lettura delle principali riviste specializzate, che in larga
parte condivisero la polemica contro il film di Loy, ricorrendo a
toni persino più aggressivi di quelli apparsi sulla stampa generalista. «Film-Telegramm», ad esempio, ironizza in maniera greve sui
partigiani italiani: «In questo film sono dei grandi eroi, mentre i veri combattenti sanno che in guerra un unico contadino ucraino «Muschik» con
una mazza di legno è più pericoloso di 10 partigiani italiani uniti e armati fino ai denti». E l’amburghese «Filmkorrespondenz» ammonisce produttori e registi tedeschi «a non emulare in alcun modo questo
modello negativo di film».
Un’ondata di revanscismo che, nel giro di poche settimane, determinò una clamorosa inversione di posizioni: da (presunti) accusati, i cittadini tedeschi si ritrovano a chiedere conto a quelli italiani non solo delle attuali riserve mentali antigermaniche ma anche delle loro responsabilità passate, compreso il «tradimento» dell’8
settembre ’43. «I tedeschi ci accusano», titola il 18 dicembre del ‘62
«L’Europeo», pubblicando un reportage di Gianni Roghi nelle redazioni di Amburgo. «È colpa vostra», tuona al cospetto dell’esterrefatto collega italiano il direttore di «Stern» Steinmayr, mostrando
una pila di giornali come prova di una «ondata antitedesca».
Di fronte a questa escalation polemica, di coloritura sempre più
razzistica, mutò inevitabilmente anche l’atteggiamento della stampa
italiana, che nella prima fase della querelle era stato improntato a
una certa cautela, mista a sorpresa. Tra i primi ad affilare le armi
fu lo scrittore napoletano più popolare del momento, e autorevole
critico cinematografico, Giuseppe Marotta, che più volte aveva sollevato perplessità sullo smembramento della Germania dopo la
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Paolo Speranza
guerra: «Senonché – replica nello stesso numero de “L’Europeo” –
le odierne, livide obiezioni del settimanale tedesco “Der Stern” al film di
Nanni Loy Le quattro giornate di Napoli mi obbligano ad accettare l’ingiustizia di un Reich frantumato, qualora ingiustizia sia. Non tollero che
ci si dica: «Le Quattro Giornate le fece la malavita, sgualdrine, ladri e saccheggiatori; il popolo amava i tedeschi». E i bandi, le razzie, le deportazioni, gli incendi, furono baci e carezze graditissimi? La verità è che l’Italia, da cima a fondo, è tutta una cicatrice spirituale; i due anni di violenze e di umiliazioni che i nazisti inflissero a quanti ebbero in soggezione,
tuttora sanguinano in molte, fin troppe coscienze».
Pochi giorni prima, in una vibrante intervista al settimanale «Vie
Nuove» del 6 dicembre ‘62, era stato lo stesso Nanni Loy a ribadire con forza le sue ragioni, anticipando alcune delle argomentazioni di Marotta, con il quale mostra di condividere in primo luogo
lo sdegno civile per i toni di sprezzante denigrazione adoperati dalla
stampa tedesca contro il popolo di Napoli. Un oltraggio che il regista interpreta in chiave psicologica: «Ricordare ai revanscisti tedeschi
– dichiara al giornalista Cesare Pillon – la rivolta di Napoli credo sia
veramente il peggior affronto che si possa far loro. Basta vedere le loro argomentazioni. «Tafferugli tra ruffiane e prostitute…». È la configurazione
tradizionale che essi hanno di un città come Napoli, il luogo comune attraverso cui la intendono. È proprio per questo che hanno perso la calma.
Non possono sopportare che sia stata proprio la città più tranquilla del
mondo, la più pacifica, la più imbelle forse, certamente la più disorganizzata, a mettere in fuga il potentissimo esercito del grande Reich. Possono
forse sopportare – e hanno sopportato –. film che li accusano di atrocità
spaventose, di delitti senza giustificazione, ma gli brucia che la loro perfetta
macchina bellica sia stata battuta da un popolo senza armi, animato soltanto dal proprio coraggio e dalla propria disperazione».
Il film della Titanus aveva in effetto scoperto un vaso di Pandora, dal quale erano di colpo riemersi i fantasmi e i rimorsi collettivi di un intero popolo. «Li ha costretti a ricordare», titola a caratteri cubitali «Vie Nuove» presentando l’intervista a Loy.
Si trattava, in fondo, del riconoscimento più ambito per un cineasta italiano: dagli albori del Neorealismo fino all’avvento della
«commedia all’italiana», passando per il linguaggio introspettivo di
Antonioni e la poetica pasoliniana, l’ambizione più alta dei migliori
registi e sceneggiatori era stata la scoperta di storie e sentimenti oc-
Un film «marcatamente antitedesco»
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cultati dal conformismo dei benpensanti reazionari e una rilettura
critica e coraggiosa della realtà politica e civile del nostro Paese nel
contesto europeo, con la concreta utopia di concorrere a trasformare la società italiana in senso progressivo, laico e libertario.
Il «Muro di Berlino»
La campagna di stampa nella Repubblica Federale Tedesca durò
tuttavia ancora a lungo, sostituendo alla polemica frontale delle
prime settimane toni in apparenza più problematici, ma in realtà
ambigui e strumentali, spesso con esiti grotteschi.
La nuova strategia di comunicazione consisteva nel far emergere
un «fronte interno» contro quel film. Così, sulla «Suddeutsche Zeitung» del 6 dicembre, Gustave Reneé Hocke dedica gran parte del
suo articolo L’immagine del tedesco in un film italiano alla polemica
sollevata da Pasquale Schiano, che in realtà esprimeva una posizione largamente minoritaria in Italia. Ma il punto più basso (e ridicolo) fu raggiunto da «Der Spiegel», che nel n. 50 del ’62, a sostegno della sua tenace polemica, cita il settimanale «Gente» (fondato dall’editore monarchico Edilio Rusconi) come fonte «ben orientata verso le questioni della Resistenza» e addirittura, come «esperto
della Resistenza», il giornalista di estrema destra, e futuro senatore
del Msi, Giorgio Pisanò. Con i seguenti, prevedibili esiti: «La Resistenza napoletana, ha chiarito Pisanò, sarebbe stata in realtà poca cosa. Infatti solo seicento persone, su un milione di napoletani, rivela l’esperto della
Resistenza, si sarebbero ribellate negli ultimi giorni di settembre contro l’esercito di Hitler, che comunque aveva già deciso di ritirarsi dalla città del
Vesuvio».
Lo stesso giornale, due anni dopo, avrebbe commesso un clamoroso autogol accusando Loy di fallimento artistico per non essersi avvicinato neppure lontanamente al suo modello artistico (quello
sì, sottinteso, un vero capolavoro), ossia Roma città aperta di Rossellini: capolavoro del cinema mondiale, e artisticamente superiore
al film di Loy, ma in realtà ancor più esplicito ed efficace nel documentare le atrocità naziste in Italia…
Una reazione così tempestiva, capillare e simultanea della stampa
tedesco-occidentale sembra avvalorare la tesi che un lettore de «Il
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Paolo Speranza
Mattino», Ernesto Savarese, aveva prospettato in una «lettera al Direttore» pubblicata il 25 novembre del ’62: la polemica contro Le
Quattro Giornate di Napoli era stata innescata in Germania mentre
erano ancora in corso le riprese, in maniera preventiva e premeditata.
A moltiplicare le reazioni e i timori dell’opinione pubblica e
delle autorità della RFT verso il film di Loy concorrevano senza
dubbio il contesto cinematografico dei primi anni Sessanta e il prestigio internazionale conseguito già da due decenni dai registi italiani. Più degli stessi colleghi di Roma o Milano, i giornalisti tedeschi mostrano di percepire in tutta la sua portata sia il valore complessivo del cinema italiano sia la sua svolta civile che, un decennio dopo la crisi del Neorealismo, stava riprendendo quota in quegli anni, nella duplice direzione della critica corrosiva della società
contemporanea (con la grande stagione della «commedia all’italiana») e della rilettura della storia recente, a partire dal Fascismo
e dalla Resistenza, e per la prima volta, grazie a Monicelli, finanche del mito della Grande Guerra. Non a caso, insieme a Le Quattro Giornate di Napoli, negli stessi giorni i media tedesco-occidentali
prendono di mira I sequestrati di Altona di Vittorio De Sica, che peraltro, diversamente dal giovane Loy, era un regista da tempo popolare e quotato in tutto il mondo, con estimatori convinti anche
in Germania.
Sull’onda del Neorealismo, il cinema italiano godeva fin dall’immediato dopoguerra di un solido prestigio internazionale, e –
caso raro nello scenario della Guerra Fredda – senza distinzioni e
limiti di blocchi geopolitici. Alla stampa della RFT non sfuggiva tuttavia che il Neorealismo italiano (inteso all’estero in un’accezione
molto più vasta che in patria, senza soluzione di continuità con i
capolavori di Rossellini, Visconti e De Sica, e come sinonimo di cinema d’autore e «impegnato») era particolarmente apprezzato e
diffuso oltrecortina: lo straordinario successo del film di Loy nei
Paesi del blocco sovietico costituì un’ennesima e palese conferma
di questa tendenza, e – di riflesso – dei timori coltivati alla vigilia
dell’uscita del film nella Germania di Bonn, sulla quale gravava una
ferita dolorosa e calda come il Muro di Berlino, edificato dalla Germania orientale appena un anno prima. È sintomatico che John
Francis Lane, firma della prestigiosa rivista britannica «Films and
Un film «marcatamente antitedesco»
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Filming», titolasse proprio Il muro di Berlino il suo articolo del gennaio ’63 sulla polemica della stampa di Bonn contro Le Quattro Giornate di Napoli…
Parafrasando lo slogan fascista che campeggiava sulla Cinecittà
inaugurata da Mussolini, il cinema italiano costituiva davvero, all’estero, «l’arma più forte» di un Paese in impetuosa crescita ma ricco
ancora di contraddizioni e non annoverabile tra le superpotenze
mondiali. Anche nella fase più acuta della querelle anti-italiana, come
si è visto, fra i numerosi bersagli di «Die Welt» o «Der Spiegel»
(che presentano il popolo italiano come «inaffidabile» e «parassita»
e la sua classe politica come imbelle e disunita) non compare alcun riferimento polemico alla tradizione ed alla qualità del cinema
italiano, di cui Nanni Loy viene accreditato come un erede degenere e non all’altezza degli illustri predecessori.
Un altro fattore decisivo della polemica tedesca è la distanza
temporale dalla guerra. Emblematica è una dichiarazione del direttore di «Stern» all’inviato de «L’Europeo» Gianni Roghi: «I tedeschi si vergognano, si capisce, delle cose orrende che durante la guerra sono
state fatte in loro nome. Ma un popolo non può vergognarsi in eterno», è
la dolente autodifesa di Joachim Steinmayr, condivisa dalla maggioranza dei lettori. Questo diffuso stato d’animo spiegherebbe la
tolleranza (ma forse sarebbe più opportuno dire: la rassegnata accettazione) dell’opinione pubblica della Germania Federale verso
tanti film marcatamente antitedeschi dell’immediato dopoguerra,
peraltro prodotti più a Hollywood e nei Paesi del blocco sovietico
che in Italia, e la sorprendente levata di scudi contro le pellicole
di guerra più recenti.
È illuminante, a conferma di questa tendenza, la parabola di
due film tedeschi del primo decennio post-bellico.
Il primo lungometraggio prodotto all’indomani del crollo del
Reich, Die Mörder sind unter uns (Gli assassini sono tra noi), di Wolfgang Staudte, è un atto d’accusa coraggioso e talmente esplicito
(fin dal titolo) contro la persistenza del retaggio nazista nella società tedesca da indurre persino le autorità sovietiche – in una Germania occupata dagli Alleati e non ancora smembrata in due distinte unità statali – ad imporre a Staudte un finale più patriottico
e conciliante.
Con la divisione del Paese in due repubbliche, e del mondo in-
78
Paolo Speranza
tero in due blocchi politico-militari, lo scenario cambia rapidamente.
I film di guerra si diffondono nella RDT alleata dell’Urss, che ha
fatto della vittoria contro Hitler una gloriosa epopea, e parallelamente sono visti con crescente disagio nella Germania Federale,
che rappresenta la maggioranza del popolo tedesco e la sua volontà
di superare il terribile lascito del nazismo.
Un documento importante, in tal senso, è l’episodio di censura
del 1954 a cui dedica un ampio reportage (Proibito in Germania il
film dei ricordi) nel numero dell’8 luglio il settimanale «Film d’oggi»:
in alcuni Stati della RFT le autorità proibirono la proiezione di un
documentario, Cinque minuti dopo le ore 12, il cui pezzo forte erano
le immagini di repertorio di un cortometraggio girato dalla sorella
di Eva Braun sulla villeggiatura di Hitler nella sua casa di campagna sulle Alpi bavaresi.
«Un solo cinema a Monaco – scrive da Berlino Edith Arnaldi –
proietta attualmente il film, che invece in altri «Lander» della Germania è
vietato».
Non era facile per il popolo tedesco fare i conti con un passato
così ingombrante e tragico. La Germania democratica e moderata
di Adenauer le aveva provate tutte per ricostruire, oltre al tessuto
economico e all’identità culturale, un’immagine diversa e più rassicurante, e i film di De Sica e Loy dovettero apparire alla stregua
di un sabotaggio (calcolato ed eterodiretto: lo «Spiegel» non lesinò
insinuazioni contro gli accordi di coproduzione tra Goffredo Lombardo e la sovietica Mosfilm) ai danni di questo paziente processo
di tessitura ed alle ambizioni della Germania di Bonn nella costruenda Comunità Europea.
«Un film onesto, sincero, nobile»
La «sentenza» definitiva sull’annosa e vibrante querelle sul film
della Titanus, che in questo saggio abbiamo provato a ricostruire
nelle sue linee essenziali, fu pronunciata nel corso del 1963 dall’opinione pubblica internazionale, che al film di Nanni Loy riservò
un’accoglienza entusiastica, di gran lunga superiore alle aspettative.
Una vittoria su tutta la linea, per dirla in gergo militare, per il
regista e per la coraggiosa casa di produzione del napoletano Gof-
Un film «marcatamente antitedesco»
79
fredo Lombardo, e per l’intero cinema italiano. Le Quattro Giornate
di Napoli rappresentò uno dei maggiori successi internazionali del
1963, dagli Usa al Giappone, dalla Francia alla Jugoslavia, dalla Turchia alla Polonia, dalla Gran Bretagna alla Romania. E alla stessa
Germania, dove un anonimo redattore di «Der Spiegel», nel n. 9
del ’64, rilevava con evidente amarezza: «Le proteste a Bonn e il verdetto del visto-censura hanno enormemente pubblicizzato il film anti-tedesco
del regista italiano Nanni Loy».
Un esito sorprendente per gli opinion maker della RFT, che avevano sottovalutato il vento nuovo che cominciava a soffiare nel Paese
(dove alla lunga stagione politica di Adenauer stava per sostituirsi
la nuova e più aperta Ostpolitik di Willy Brandt) e l’ansia sempre
più diffusa, soprattutto nelle giovani generazioni, di verità storica e
libertà artistica.
Sul fronte della critica cinematografica, per restare nel contesto
europeo, le recensioni più lusinghiere giunsero dalla stampa britannica. Su «Films and Filming» del gennaio 1963, il già citato John
Francis Lane presentò il film di Loy come l’alfiere del giovane cinema italiano, che aveva individuato nella Resistenza «the idealistic
beginning of a new epoch, the birth of a new country» e il riferimento
più alto per una coraggiosa presa di coscienza storica del popolo
italiano. Intervistato dal periodico inglese, Nanni Loy aveva finalmente buon gioco nel ribadire, anche a nome di molti colleghi:
«Questi nostri film non sono anti-tedeschi. Sono contro tutti i fascismi».
Mentre il pubblico di tutto il mondo sembrava in sintonia con l’entusiastica accoglienza riservata al film, fin dalla «prima», dall’autorevole «Times» di Londra: «È il più bel film sulla Resistenza italiana
dopo Roma città aperta (…) Il film è onesto, sincero, nobile e pieno di
profondo calore umano (…) Questo è uno dei migliori film italiani dell’anno e uno dei più bei film di guerra che sia mai stato fatto».
MAURIZIO ZINNI
Il passato che ritorna.
Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
Uno dei fenomeni più interessanti nella storia del cinema italiano e, in ambito politico e sociale, nel processo di formazione di
una memoria collettiva sul ventennio fascista, sulla Seconda Guerra
Mondiale e sulla lotta di Liberazione, si verificò in maniera tanto
repentina quanto inaspettata tra il 1959 ed il 1962. In soli tre anni,
infatti, il paludato cinema italiano passò da «strumento dell’oblio»
a «luogo della memoria» in grado di portare all’attenzione pubblica i nodi irrisolti della storia recente del Paese. Questo ritorno
al reale, inteso sia come cronaca che come storia, venne compiuto
alla luce delle istanze più vive e feconde del cinema italiano del
dopoguerra, richiamando quell’ansia di «vissuto» che aveva nutrito
la stagione neorealista e che le contingenze politiche e gli insuccessi commerciali della prima metà degli anni Cinquanta avevano
messo per circa un decennio a tacere.
Subito dopo le prime elezioni libere del 18 aprile 1948, i risultati elettorali avevano sancito non solo la vittoria indiscussa della
Democrazia cristiana sui partiti riuniti sotto le insegne del Fronte
popolare (comunisti e socialisti), ma anche la collocazione ed il
ruolo che l’Italia avrebbe svolto a livello internazionale nel nuovo
conflitto che si andava profilando all’orizzonte: la guerra fredda.
Stato di frontiera con il più grande partito comunista d’Europa, l’Italia divenne il terreno per uno scontro politico-ideologico fra forze
di governo e di opposizione che investì tutti i campi della società,
che caratterizzò il dibattito sul passato ed il presente del Paese ed
ebbe ripercussioni profonde nella produzione artistica negli anni
della Ricostruzione. In questo clima il cinema apparve ai governi
centristi come un potente strumento di propaganda politica che
era indispensabile controllare al fine di trasformarlo in mezzo di
pacificazione e coesione sociale sul modello del cinema americano
e non luogo di contestazione e denuncia alla mercé dei registi di
82
Maurizio Zinni
sinistra. Le politiche messe in campo per permetterne la rinascita
se, da un lato, ottennero indubbi risultati dal punto di vista economico, dall’altro furono un tangibile elemento di pressione sui
produttori in grado, insieme alle commissioni di censura, di «anestetizzare» i filoni più fecondi e problematici della cinematografia
italiana, su tutti proprio un certo tipo di produzione, discendente
diretta del neorealismo ed attenta alla storia italiana degli ultimi
trent’anni, la quale, agli occhi della classe politica di governo, sembrava fornire le frecce acuminate all’arco delle forze di opposizione
nella loro campagna di delegittimazione del nuovo assetto politico1.
La stessa società italiana pareva, al pari di molti intellettuali ed
artisti, bisognosa di un periodo di riflessione, per certi versi di una
vera e propria «tregua» che permettesse di fuggire, almeno momentaneamente, i fantasmi di un passato luttuoso in attesa di tempi
migliori e di un ripensamento collettivo in grado di collocare quelle
vicende nella giusta prospettiva storica2.
La destalinizzazione, l’ascesa alla presidenza americana di John
Fitzgerald Kennedy e l’elezione di Papa Giovanni XXIII al soglio
pontificio furono le premesse necessarie per una evoluzione della
situazione politica italiana che permise non solo di guardare con
coraggio alle nuove sfide che la società dei consumi portava con
sé, ma anche di confrontarsi con un passato problematico che le
esigenze della ricostruzione e della pacificazione sociale avevano volutamente rimosso.
La fine del clima da guerra fredda che aveva caratterizzato la
battaglia politica in Italia nei primi anni Cinquanta e la conseguente
progressiva scomparsa dei vincoli censori così rigidi e presenti su
1
Cfr. M. ZINNI, Fascisti di celluloide. La memoria del ventennio nel cinema italiano (1945-2000), Marsilio, Venezia 2010, pp. 43-49.
2
In questo decennio si riscontra da parte degli intellettuali, in generale,
e degli autori di cinema, in particolare, la necessità di far raffreddare la materia oggetto di analisi e di sostituire la foga della rappresentazione fotografica, che aveva caratterizzato il neorealismo, con la fase della storicizzazione
degli eventi trascorsi e di una loro revisione critica più meditata e articolata.
Cfr. E. DI NOLFO, La Repubblica delle speranze e degli inganni, Ponte alle Grazie,
Firenze, 1996, pp. 381-382 e P. SCOPPOLA, La Repubblica dei partiti, il Mulino,
Bologna 1991, pp. 251 ss.
Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
83
temi di possibile propaganda antigovernativa come il fascismo stesso3;
il diffuso benessere economico portato dallo sviluppo industriale e
la percezione sempre più avvertita nelle fasce intermedie del corpo
sociale di una sicurezza acquisita che permetteva di guardare indietro senza timori o complessi ma, anzi, pronti a voltar pagina in
maniera definitiva4; la sempre più concreta possibilità di realizzare
un progetto di governo basato sulla collaborazioni tra DC e Psi; la
sconfitta dell’ultimo tentativo centrista di bloccare l’apertura a sinistra con il fallimento del governo Tambroni a seguito di imponenti manifestazioni di piazza scoppiate a Genova nel luglio del
1960 e poi allargatesi al resto del paese5; l’emersione dell’antifascismo dopo molti anni come un orientamento radicato nell’opinione
pubblica indipendentemente dalle appartenenze politiche e l’ingresso definitivo della Resistenza nella più consacrata ufficialità6; l’affacciarsi sul proscenio della vita nazionale della prima generazione
sostanzialmente post-fascista, ora giunta alla maggiore età, con le
sue domande sul passato dei genitori e del paese7; tutti questi fat3
Cfr. M. ARGENTIERI, La censura nel cinema italiano, cit., pp. 167-168 e G.P.
BRUNETTA, Storia del cinema italiano. Vol. IV. Dal miracolo economico agli anni Novanta, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 32.
4
Lino Micciché ha sottolineato questo processo, per certi versi inconscio,
da parte del pubblico soprattutto di estrazione piccolo-borghese senza nascondere, tuttavia, una decisa critica di questo confronto mediatico con il passato compiuto attraverso pellicole satirico/farsesche atte soprattutto ad esorcizzare e riconciliare lo spettatore con le scelte compiute molti anni prima
(L. MICCICHE, Cinema italiano: gli anni Sessanta e oltre, cit. p. 50). Non così severa la posizione di Brunetta, il quale, nonostante alcune doverose osservazioni, ha evidenziato l’importanza di un simile «ritorno al passato» non solo
per il cinema ma per tutta la società (G.P. BRUNETTA, Cent’anni di cinema italiano. 2. Dal 1945 ai giorni nostri, Laterza, Bari, 2000, pp. 187-189).
5
Per un quadro esaustivo della nuova fase politica si veda P. SCOPPOLA, La
Repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 334-353.
6
Cfr. E. GALLI DELLA LOGGIA, La perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta politica nell’Italia repubblicana, in L. DI NUCCI
e E. GALLI DELLA LOGGIA (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione
nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna, 2003, p. 249.
7
Immediatamente dopo la caduta del governo Tambroni, il ministro della
Pubblica Istruzione Giacinto Bosco dispose che l’insegnamento della storia
nelle ultime classi delle scuole secondarie inferiori e superiori giungesse fino
84
Maurizio Zinni
tori in maniera egualmente rilevante contribuirono a fare della seconda guerra mondiale e della Resistenza due dei principali temi
di discussione sui media e a riportare il confronto fascismo/antifascismo al centro dell’attenzione non solo cinematografica.
Fu ancora una volta Roberto Rossellini, con il film Il generale
Della Rovere (1959), a spalancare le porte sulle ferite tutt’altro che
rimarginate della guerra di Liberazione, del secondo conflitto mondiale, della pesante eredità lasciata al Paese da vent’anni di dittatura fascista. Un ritorno ai temi che avevano fatto grandi Roma città
aperta e Paisà che ottenne un successo di pubblico e critica in grado
di fare da traino a tutta la produzione di ambientazione resistenziale e fascista realizzata nel biennio a venire. Non solo parlare di
quella stagione non era più considerato un tabù dalla classe politica al potere, ma la stessa società italiana dimostrava un’attenzione
e una curiosità per quei temi tale da spingere i produttori, prima
restii ad investire in opere possibili oggetto di ostracismo governativo, a realizzare pellicole che rileggevano attraverso il filtro dei generi le zone d’ombra all’origine dell’identità repubblicana. Questo
ritorno al passato fu, dunque, il frutto maturo di una stagione storica in cui alla domanda crescente di conoscenza di una società
culturalmente ed economicamente più sviluppata, rispondevano sia
le istituzioni, con aperture significative, sia i grandi mezzi di comunicazione, cinema in prima fila8.
Si affermò, così, sugli schermi una produzione numerosa dai caratteri diversi e, in alcuni casi, contrastanti. I filoni che presero maggiormente piede in questo vasto panorama furono, da un lato, le
pellicole drammatiche e di denuncia, realizzate da registi di sinistra
desiderosi di recuperare lo spirito antifascista delle opere neorealiste arricchendolo, però, degli umori della nuova temperie politica
all’approvazione della Costituzione (cfr. L. AMBROSOLI, La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, il Mulino, Bologna, 1982, pp. 101-102). A questa apertura si
accompagnò, a livello universitario, l’organizzazione di seminari di studio sul
fascismo caratterizzati da grande partecipazione.
8
Vale la pena sottolineare come per questa generazione di studenti il
primo contatto con il ventennio fascista si ebbe non sui banchi di scuola ma
nelle sale cinematografiche. Cfr. P. IACCIO, Il cinema rilegge cent’anni di cinema
italiano, in G. DE VINCENTI (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X. 19601964, Marsilio, Venezia 2001, p. 202.
Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
85
(tra i nomi più noti Carlo Lizzani, Florestano Vancini, Nanni Loy,
Giuliano Montaldo); dall’altro, il genere delle commedie e dei film
comici, quantitativamente il più numeroso ed economicamente il
più redditizio, realizzato da autori affermati della commedia all’italiana e da vecchi artigiani del cinema di intrattenimento (ricordiamo Dino Risi e Luigi Comencini, ma anche Luciano Salce, Giorgio Bianchi, Camillo Mastrocinque), portatore di una lettura meno
rigida e forse più corriva ma, a ben vedere, ugualmente ricca di
spunti, rispecchiante sentimenti molto diffusi fra la popolazione che
miravano ad una lettura più moderata e «tollerante» del ventennio
e costruito su un modello iconografico che molta fortuna avrà negli anni a venire.
Esemplare di questa lettura militante ed antifascista proprio il
film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43, distribuito indicativamente proprio pochi mesi dopo lo scoppio dei moti popolari a
Genova. Il regista, autore di sinistra alla sua prima opera, prende
spunto da una delle cinque storie ferraresi di Bassani per denunciare, attraverso il personaggio del fascista protagonista del film, il
gerarca di provincia Carlo Aretusi detto «Sciagura» (Gino Cervi),
non solo il fascismo violento di Salò, ma un’Italia colpevole sia di
aver accettato la dittatura, rimanendone «contagiata» in maniera irrimediabile (si veda la figura metaforica del farmacista malato di sifilide Pino Barilari, giovanissimo squadrista durante la marcia su
Roma ammalatosi a seguito di un rapporto sessuale forzato proprio
dal suo comandante Sciagura), sia di aver dimenticato tutto per interesse e quieto vivere. Il palese intento politico della pellicola9 si
manifesta nella scelte rappresentative ed interpretative che accompagnano la costruzione del personaggio di Aretusi, vera e propria
personificazione dell’anima più verace e profonda del fascismo. Egli
non è un fascista di Salò, ma uno squadrista della prima ora che
è stato costretto a mordere il freno negli anni della «normalizzazione» per l’ascesa di quelli che lui definisce «burocrati» e «giovani
dei Guf», a suo dire i veri responsabili della caduta del fascismo,
9
Lino Micciché celebrava l’uscita del film sull’«Avanti» del 30 agosto 1960
nell’articolo intitolato Un coraggioso film di Vancini sull’Italia del ’43 sottolineando,
fra i molti meriti, quello di aver compiuto una critica decisa del «fascismo strisciante odierno».
86
Maurizio Zinni
tutta gente che «quando si rischiavano in camicia nera le revolverate non c’erano mica». L’animo violento e sanguinario di questo
fascista viene esaltato ancor di più dal confronto con il federale di
Ferrara, da lui stesso chiamato ironicamente «ragioniere». Con i
suoi modi compiti e ligi alle direttive superiori, il federale impersona la faccia «ripulita» del regime, quella dei politici abituati più
ad amministrare che a menar le mani, ma non per questo meno
responsabili dei loro fratelli maggiori. L’impossibilità di conciliare
queste due anime del fascismo appare evidente fin dall’inizio, e che
a spuntarla sia quella primigenia, violenta incarnata da Sciagura è
la logica conseguenza, all’interno della pellicola, di uno sviluppo
storico che porta il fascismo, negli ultimi giorni del suo potere, a
riscoprire la componente sanguinaria e vendicativa che ne aveva
propiziato l’affermazione. Che sia questo il fascismo nella sua forma
più pura e che come un contagio incontrollabile abbia contaminato nel profondo la coscienza del paese in maniera duratura, ben
oltre i confini temporali della sua affermazione, lo dimostrano le
ultime scene ambientata nella grigia Ferrara del 1943 quando, nominato federale a seguito della morte del suo predecessore (ucciso
su ordine dello stesso Sciagura) e dopo aver comandato una rappresaglia contro un gruppo di antifascisti per vendicarlo, Aretusi dichiara dal palco della cerimonia funebre del «presunto» martire fascista di fronte ad una folla silente, fra gagliardetti e marce trionfali: «Ora Ferrara è purificata. Il passato sarà cancellato, i peccati
redenti. Dobbiamo ferrarizzare l’Italia!». Un monito che più che
preconizzare l’agonia e la futura sconfitta del fascismo, sembra il
manifesto programmatico di una vittoria inappellabile. A confermarlo proprio la conclusione della pellicola, situata nella stessa cittadina, ma nel «coevo» 1960. Ora Aretusi è un anziano signore in
maniche di camicia che guarda la partita della nazionale al bar che
l’aveva visto ordire il proprio ritorno al potere bagnato nel sangue.
Nessuno intorno a lui pare ricordarsi o soltanto ipotizzare il ruolo
da lui avuto in quei giorni luttuosi, l’oblio sembra essere calato su
un Italia più concentrata a vivere i giorni spensierati del boom che
a fare i conti con i fantasmi del passato. Quando anche il figlio di
una delle vittime della rappresaglia gli stringe la mano definendolo,
alla domanda della moglie sull’identità dell’anziano sconosciuto:
«un gerarca di Ferrara. Nella Repubblica di Salò aveva ricoperto
Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
87
qualche carica importante. Un poveraccio, non credo che abbia
mai fatto niente di male», lo spettatore comprende che la targa
commemorativa dell’eccidio, sulla quale stacca l’ultimo fotogramma
del film, non rimarrà altro che un appello inascoltato a fare giustizia e ad impedire che una simile vicenda possa accadere nuovamente.
Il fascista ritratto da Vancini non è uno spettro del passato sconfitto per sempre, ma una minaccia ancora incombente su un paese
che pare non aver imparato nulla dagli errori passati. La brumosa
Ferrara dell’inverno del ’43, attraversata di notte da fascisti in camicia nera armati fino ai denti ebbri di vino e violenza, luogo dell’arbitrio e della sopraffazione, in cui innocenti sono mandati a morire sotto lo sguardo vile e, per questo, complice di loro concittadini, diviene, nella prospettiva del regista, un microcosmo cinematografico indicativo di una realtà ben più ampia e compromessa,
quella di una nazione corrotta nel profondo dal morbo fascista ed
incapace di fare un serio esame delle proprie responsabilità.
Su terreni diametralmente opposti si mosse la rappresentazione
farsesca di film come Il federale (1961) di Luciano Salce, Il corazziere
(1961) e Gli eroi del doppiogioco (1962) di Camillo Mastrocinque, Il
mio amico Benito (1962) e Il cambio della guardia (1962) di Giorgio
Bianchi. In queste pellicole anch’esse popolate di fascisti, gerarchi,
federali e podestà, quello che interessava non era tanto giudicare
le colpe degli esponenti del partito e degli italiani che li avevano
seguiti e tollerati al potere, quanto raccontare le vicende di uomini
comuni costretti spesso ad adeguarsi e sopportare per cercare di rivendicare i propri diritti negli anni di regime o per salvare la ghirba
in quelli della seconda guerra mondiale. In questi film, l’ottica era
quella angusta, ma condivisibile da molti, dell’italiano medio che
valuta gli eventi storici in cui si trova giocoforza coinvolto attraverso
il buonsenso e il proprio codice morale. In questa maniera i casi
personali diventavano specchio di un travaglio collettivo nel quale
venivano riassorbiti e, in ultima istanza, giustificati. Una prospettiva
spiccatamente morale che spostava l’asse della critica storica da un
piano più o meno ideologico ad un altro privato e individuale in
cui il dolore, le difficoltà e i sentimenti sopperivano ad una vera
maturazione politica dei protagonisti. Il risultato ultimo di questo
confronto con il passato era quello di risolvere i legami del singolo
88
Maurizio Zinni
con il regime in una visione del ventennio in cui, se colpevoli vi
erano stati, questi dovevano essere ricercarti nella classe dirigente
– fra l’altro derisa utilizzando gli stereotipi iconografici e tematici
classici della satira più facile sulle sue manie e debolezze – e non
fra quanti, ed erano la maggioranza della popolazione, si erano
adattati a quella situazione senza nessun particolare coinvolgimento
o avevano appoggiato il regime in buona fede.
Si disegnava, così, l’immagine di un fascismo che era stato denominatore comune della vita di molti italiani, come evidenziava
in una battuta Urbano, il protagonista del film Il corazziere (Renato
Rascel), di fronte ad un gerarca voltagabbana e ad un ufficiale dei
carabinieri che lo vuole arrestare per le sue smanie trasformiste:
«qui, se arresta lui, ne deve arrestare una quarantina di milioni!».
Molti dei protagonisti di quelle pellicole potevano, così, essere definiti come dei fascisti «per cause di forza maggiore». La camicia
nera per loro era solo il pedaggio inevitabile per il raggiungimento
di determinati obiettivi, spesso neanche coronati da successo: nel
caso di Urbano, ad esempio, entrare nelle grazie del suocero gerarca per ottenere la mano della figlia. Alla stessa maniera, l’impiegato pubblico Di Gennaro (Peppino De Filippo) nel film Il mio
amico Benito si finge fascista di provata fede per poter incontrare
Mussolini (forte anche di una foto che lo ritrae in trincea durante
la prima guerra mondiale al fianco del duce) ed ottenere da lui la
tanto agognata promozione. Come dice lui stesso: «Sotto questa roboante divisa c’è un povero impiegato che vuole solo l’avanzamento
a capoufficio! Se aspetto la promozione per merito campa cavallo!».
Entrambi i personaggi interpretano il comportamento dei tanti che
avevano indossato la divisa al sabato fascista continuando, tuttavia,
a comportarsi nella vita di tutti i giorni come se nulla fosse cambiato. Un rapporto in molti casi superficiale, quindi, che si spezza
definitivamente quando il regime compie delle scelte che vanno
apertamente contro il buonsenso e gli interessi della collettività.
Valga per tutte la scena conclusiva proprio de Il mio amico Benito,
nella quale il povero Di Gennaro riesce ad arrivare fin dentro la
stanza del mappamondo a palazzo Venezia proprio quando il duce
dichiara l’entrata in guerra dell’Italia. Ad un commissario di polizia che, scopertolo, lo accusa di essere un pazzo, risponde: «Si,
siamo proprio diventati matti…». Le figure di questi due fascisti
Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
89
senza convinzione, più che quelle ampiamente derise dei più tronfi
e risibili esponenti di partito, forti della loro autorità ma pronti, al
primo momento di difficoltà, a cambiare bandiera (un’accusa che
accomuna la classe dirigente fascista a quelle delle altre stagioni
della storia nazionale in un topos rappresentativo che attinge direttamente al disincanto popolaresco anche di matrice qualunquista),
rendevano visibile il rapporto tutt’altro che marginale intercorso fra
gli italiani ed il regime. Il fascismo diventvaa parte ineliminabile
della storia collettiva e individuale, una parte importante del passato nazionale con cui confrontarsi e verso cui non provare eccessivi sensi di colpa per una adesione data in condizioni comunque
limite.
La discriminante nel valutare i fascisti, ma in queste pellicole sarebbe più corretto parlare di «italiani in camicia nera», ed il loro
agire diveniva così la dirittura morale, la coerenza nelle scelte e nell’agire. Sempre Il corazziere distilla, con le parole del protagonista
Urbano, la morale di questi «uomini della strada» travolti da una
storia più grande di loro. A chi lo definisce un antifascista, nei
giorni che precedono l’8 settembre, il protagonista risponde: «non
ci credevo [al fascismo] ma ho sempre fatto il mio dovere». Attraverso questa prospettiva si arrivava alla creazione di alcune figure
di fascisti assolutamente impensabili soltanto qualche anno prima.
Si veda, ad esempio, il gerarca de Gli eroi del doppiogioco, il quale segue il suo destino nella Repubblica sociale comandando i rastrellamenti della Guardia nazionale repubblicana. Con il teschio sulla
divisa, rivendica di fronte alla figlia, sempre meno convinta delle
sue spiegazioni, «una legge dell’onore, il rispetto di alcuni principi
per i quali tuo padre ha sempre combattuto» mentre si appresta a
dare la caccia ai partigiani (fra le cui fila si trova anche l’uomo da
lei amato). Nonostante agisca con la divisa «portatrice di morte»
(come gli viene rinfacciato) della Gnr, nella pellicola appare come
un uomo fedele al proprio ruolo e alle proprie convinzioni. Quando
avvisa la figlia dei rastrellamenti che si compiranno di lì a poco,
così da permetterle di avvertire il suo innamorato, più che un carnefice violento come molti repubblichini del cinema italiano, il gerarca si qualifica come un padre di famiglia che viene meno al proprio dovere pur di proteggere lei e quello a cui più tiene. L’incontro inevitabile con il giovane partigiano è, per certi versi, ancor
90
Maurizio Zinni
più indicativo. I due si minacciano reciprocamente armi in pugno,
ma poi il bene della ragazza ha la meglio sulle passioni politiche
e l’odio viscerale. Dopo aver cercato inutilmente di convincere il
giovane a passare dalla loro parte, così il gerarca lo saluta: «Va bene
ragazzo, tu hai la tua fede, io ho la mia. Forse non lascerò nulla a
mia figlia ma almeno un po’ di coerenza: ho indossato questa divisa tutta la vita»10.
Questa rappresentazione del fascista a volte indulgente, altre volte
comprensiva o, quantomeno, tollerante, trovava nel protagonista del
più grande successo di quella stagione cinematografica11, il federale
Arcovazzi (interpretato da Ugo Tognazzi) dell’omonimo film di Luciano Salce, la sua manifestazione più discussa ed evidente. Per la
prima volta in un film comico, protagonista era un fascista di Salò
che non rinnegava i propri ideali ma che, anzi, si segnalava nella
sua ostinata volontà di eseguire gli ordini per il coraggio e lo sprezzo
del pericolo (si veda ad esempio la scena in cui salva dall’attacco
di un caccia alleato due bambini) con cui andava incontro al proprio destino. Questo personaggio talmente convinto della propria
fede da entrare nella Roma liberata dagli americani vestito da federale, dopo aver portato a compimento la sua missione, non abdica ai propri valori neanche di fronte alla violenza di una folla inferocita e vendicativa che cerca di linciarlo e, anzi, salvato dal suo
stesso prigioniero, viene lasciato andare via con una frase che suggella una conversione impossibile: «Va, sei libero, anche se la libertà non ti piace». Una conferma, se mai ce ne fosse stato biso10
Non stupisce che una simile professione di coerenza messa in bocca ad
un fascista di Salò scatenasse le ire della critica di sinistra, come dimostra la
recensione al film uscita a firma Vice su «l’Unità» del 12 agosto 1962: «Nemmeno questo torrido agosto può giustificare la presenza in circuito di Gli eroi
del doppiogioco, uno squallido filmetto che narra le vicende del podestà di
un piccolo paese dell’Emilia che, preso tra due fuochi, tenta di barcamenarsi
tra brigatisti neri e tedeschi da un lato, e partigiani dall’altro. […]. Ne salta
fuori un grossolano pasticcio zeppo di qualunquismo, di retorica ma soprattutto di menzogne («anche noi abbiamo un onore» dice spudoratamente un
brigatista nero)».
11
Con circa 850 milioni Il federale è il film italiano con il maggior incasso
nella stagione 1961. Cfr. Termometro degli incassi, in «Cinemasessanta», nn. 4243, giugno-luglio 1964.
Il passato che ritorna. Il cinema del boom dalla cronaca alla storia
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gno, della «statura morale» di un personaggio che, nonostante tutto,
non rinnega il proprio passato in un paese in cui tutti pensano a
salvare il salvabile e a saldare conti in sospeso.
Se La lunga notte del ’43 gettava più di qualche ombra sulla effettiva volontà antifascista della nuova Italia repubblicana, accusando
colpevoli vuoti di memoria e paventando una non definitiva rottura con l’esperienza passata, i film di Bianchi, Mastrocinque e Salce,
pur guardando con diffidenza ad ogni effettivo od ipotizzato processo di cambiamento, raccontavano il trapasso dalla vecchia stagione alla nuova con la convinzione che solo dall’unione dei due
estremi che così strenuamente si erano combattuti nel biennio di
guerra civile si potesse compiere una effettiva rinascita dell’Italia e
degli italiani. In queste pellicole la fine del conflitto non celebrava
la sconfitta del fascismo e la vittoria della democrazia, ma la conclusione di una lotta fratricida e l’inizio di una nuova stagione di
tolleranza e collaborazione, umana ancor prima che politica. A confermare questa prospettiva «pacificante» i due protagonisti del film
Il cambio della guardia di Bianchi, il podestà di un piccolo borgo
(Gino Cervi) e l’oste antifascista futuro sindaco (Fernandel), i quali,
nonostante anni di incomprensioni e dispetti, si aiutano l’un l’altro al fine di traghettare i loro concittadini incolumi fuori dalle tragedie della seconda guerra mondiale in una stanca ripetizione degli schemi comici caratteristici delle pellicole su Don Camillo e Peppone.
Quella che si mostrava agli occhi del pubblico in sala all’epoca
e che oggi si delinea di fronte agli studiosi era, così, una memoria
cinematografica del confronto fascismo/antifascismo profondamente
divisa e, per certi versi, inconciliabile. Un mosaico interpretativo dai
colori contrastanti che, da un lato, cercava di chiudere i conti con
il fascismo in maniera indolore una volta per tutte, ma, dall’altro,
li riapriva per denunciare gli errori passati e quanto di quelli sopravviveva nell’Italia ormai immemore degli anni del boom. Una
sguardo «strabico» che, evolvendosi nel corso dei decenni, accompagnerà la società italiana nel suo confronto con il passato fino ai
giorni nostri, con tutto il suo portato di semplificazioni, stereotipi
rappresentativi e banalizzazioni ad uso politico della storia nazionale.
Giuseppe Ghigi, La memoria inquieta. Cinema e resistenza, Cafoscarina 2009,
pp. 358.
Pur indicando un momento di totale e drammatica disgregazione, la
data dell’8 settembre 1943 rappresenta indubbiamente uno spartiacque
nella storia italiana del Novecento: in uno dei periodi più bui di tutta la
vicenda dello stato unitario, sia pur per l’azione di gruppi minoritari, cominciò a manifestarsi la nascita di uno spirito nuovo che, come autorevolmente sottolineato, trovò espressione, nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, nel sacrificio dell’intera guarnigione italiana che rifiutò di arrendersi ai Tedeschi nell’isola greca di Cefalonia (episodio che
R. Battaglia indica come inizio della Resistenza e del riscatto del paese,
non solo atto di coraggio disperato ma meditata ribellione antifascista),
nella mobilitazione popolare per la difesa di Roma, nell’organizzazione
delle prime formazioni partigiane al Nord, fino alle «quattro giornate» di
Napoli. Che la si consideri, come Piero Calamandrei, non un semplice
«fatto storico», ma come il primo atto della costruzione di un nuovo stato
e la manifestazione della «volontà di creare una società retta sulla collaborazione di uomini liberi ed uguali» (Uomini e città della Resistenza, Laterza, Bari 1955), una rivoluzione mancata o «la sanguinosa gestazione di
un’Italia diversa» (G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1977),
o ancora «una spontanea guerra di popolo, nata dal popolo», secondo la
definizione di Ferruccio Parri (A. Galante Garrone, Aspetti politici della guerra
partigiana in Italia, in «L’Acropoli», n. 16, 1946) o, al contrario, l’opera di
una minoranza, con scarso valore militare, incapace di compensare la disfatta morale e la «morte della patria» determinata dal crollo dell’identità
nazionale (De Felice – Galli Della Loggia), l’interpretazione e l’analisi di
questo movimento si caratterizzano per essere ancora oggi nodi centrali
nel dibattito storico dell’Italia contemporanea.
Il susseguirsi delle diverse stagioni della storiografia resistenziale, dalla
memorialistica dei decenni immediatamente successivi alla cesura del 1989,
con gli anni Novanta aperti dal «saggio storico sulla moralità nella resistenza» di Claudio Pavone (che distinse tra guerra patriottica, di classe e
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guerra civile), si è intrecciato con discussioni e scontri sempre più accesi
sulla scena pubblica, caratterizzati da contrapposizioni frontali tra le forze
politiche, polemiche strumentali, tentativi revisionistici e mitologie retoriche. Testi come Resistenzialismo versus Resistenza di Giovanni Di Capua (Rubbettino Editore, 2005) dimostrano, comunque, il tentativo da parte di esponenti di una cultura non ispirata ai valori della sinistra di riappropriarsi
della memoria resistenziale, contrastando una visione acritica e di parte
della guerra di liberazione, troppo spesso – a loro dire – identificata esclusivamente quale lotta di classe connessa all’internazionalismo comunista e,
quindi, rivendicata da una sola fazione politica.
D’altro canto, le tendenze revisioniste, come pure il successo di opere
di carattere divulgativo a cominciare dai saggi del giornalista Gianpaolo
Pansa, da Il sangue dei vinti (2003) in poi, non fanno altro che sottolineare come una indagine scientifica obiettiva, scevra da condizionamenti
ideologici, che riesca a porre le basi di una memoria condivisa ricorrendo
a nuovi paradigmi interpretativi o vagliandone l’applicabilità (si veda al riguardo il numero 76 del 2013 della rivista «Meridiana» dedicato alle guerre
civili) risulti ancora necessaria.
In quest’ottica, il cinema è fonte imprescindibile, soprattutto per comprendere quanto di quella stagione sia entrato nel «visibile» degli italiani,
utilizzando l’espressione con cui Pierre Sorlin in Sociologia del cinema (1979)
indica «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo, e ciò che gli spettatori accettano senza stupore», al fine di verificare
come la lettura offerta da scrittori e artisti abbia influenzato la percezione
di un evento storico che avrebbe potuto e dovuto rinsaldare l’identità nazionale.
Per orientarsi nel corpus di film di finzione prodotti dalla nostra cinematografia dal 1945 ai giorni nostri, il volume di Giuseppe Ghigi, La memoria inquieta. Cinema e resistenza, (Cafoscarina, 2009, pp. 358) è uno strumento prezioso poiché fornisce un ampio quadro d’insieme del cinema
resistenziale, ripercorrendo le posizioni della critica specializzata, le trasformazioni storiografiche nonché, in filigrana, la storia del nostro paese,
attraverso l’analisi dei lungometraggi che fanno riferimento al movimento
politico e armato sviluppatosi nell’Italia centro-settentrionale all’indomani
dell’8 settembre 1943. Rispettando tali limiti cronologici e tematici, il testo circoscrive il campo d’indagine a una sessantina di pellicole raggruppate, seguendo una periodizzazione oramai consolidata, in quattro diverse
stagioni. La prima, che si apre con Roma città aperta di Rossellini (1945)
per concludersi all’inizio degli anni Cinquanta con Achtung! Banditi! (1951)
di Carlo Lizzani, è quella dei capolavori neorealisti, della visone unitaria
della resistenza e soprattutto di uno sguardo su episodi e personaggi offerto da coloro che avevano direttamente vissuto quell’esperienza.
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La seconda fase, nuovamente inaugurata nel 1959 da Roberto Rossellini con Il generale Della Rovere, Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, ex aequo con La grande guerra di Monicelli, copre i primi anni Sessanta: una stagione d’oro per la nostra industria cinematografica in cui la
narrazione di quanto avvenuto dopo l’armistizio fu affidata soprattutto alla
commedia all’italiana. Non mancarono, tuttavia, esempi significativi anche
nel genere drammatico come dimostra «uno dei più problematici ed intensi film resistenziali», Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963) che Ghigi
pone a conclusione di questo ciclo: di fronte al timore di involuzioni autoritarie generato dal governo Tambroni, il cinema storico si preparava a
celebrare il centenario dell’Unità d’Italia cimentandosi nuovamente con
le vicende più recenti, mentre gli storici di professione si concentravano,
al contrario, sulla nascita e l’avvento del fascismo.
Una ripresa del tema si registra ancora tra il Sessantotto (con I sette
fratelli Cervi di Gianni Puccini) e la prima metà del decennio successivo –
consegnandoci opere di notevole interesse e concludendosi con L’Agnese
va a morire (1976) di Giuliano Montaldo tratto dal romanzo di Renata Viganò – per poi ripresentarsi all’attenzione del pubblico sia cinematografico che televisivo negli anni più recenti, giungendo fino ai giorni nostri
anche attraverso fiction di coproduzione Rai – il riferimento è, ad esempio, a Salvo D’Acquisto (2007) e a Il sangue dei vinti (2008), per la regia rispettivamente di Alberto Sironi e di Michele Soave.
Tale scansione non riveste, tuttavia, il valore di mera classificazione cronologica: offre bensì notevoli spunti di riflessione sul legame tra queste
fioriture e il periodo storico in cui esse ebbero luogo, fornendo indicazioni sulle funzioni svolte dal cinema resistenziale nell’evoluzione culturale del secondo Novecento italiano. La non casuale concentrazione di
queste produzioni in periodi particolari della storia del nostro paese – precisa l’autore – conferma la capacità del cinema di farsi «agente» di storia,
contribuendo a formare e a diffondere, secondo quanto sostenuto dallo
storico Giovanni De Luna, i paradigmi interpretativi dell’antifascismo, salvo,
poi, addirittura precorrere nuovi orientamenti storiografici. Il riferimento
esplicito dello studioso, che Ghigi richiama puntualmente è, a questo proposito, ai casi rappresentati da La lunga notte del ’43 (1960), opera prima
del regista ferrarese Florestano Vancini, e a La notte di San Lorenzo (1982)
dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, che avrebbero anticipato l’interpretazione della resistenza come guerra civile, affermata in ambito storiografico
soltanto all’inizio degli anni Novanta da Claudio Pavone nel citato volume
Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza (Bollati Boringhieri, Torino, 1991). Il cinema resistenziale «[…] ha svolto, soprattutto
nel primo periodo del dopoguerra e almeno fino alla fine degli anni cinquanta, anche una funzione suppletiva sul piano culturale nei confronti
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delle istituzioni centrali dello stato. Esso si è fatto carico di costruire lo
statuto politico e non solo memorialistico della resistenza in presenza di
blocchi di potere che hanno cercato in tutti i modi di attutirne la portata o di ricordarla solo in vuote celebrazioni ufficiali». La resistenza deve,
dunque, molto al cinema nonostante se ne sottolinei inevitabilmente l’incapacità di creare fino in fondo un’epica paragonabile alla «frontiera» del
western americano.
Ma se è vero che il cinema resistenziale (e non solo) «parla comunque sempre più al presente che al passato», il libro, concepito per il corso
di Storia del cinema italiano tenuto dall’autore presso l’Università veneziana di Ca’ Foscari, si rivolge anche agli insegnanti e agli operatori culturali che intendano proporre le opere sulla resistenza o usarle didatticamente come «documento» della storia, fornendo anche una filmografia
opportunamente calibrata, con schede dettagliate e sinossi più ampie per
le pellicole ritenute più importanti e decisive, nonché una bibliografia tematica che comprende tanto testi generali sul rapporto tra cinema e storia, che studi più specifici sulla produzione resistenziale.
IMMACOLATA DEL GAUDIO
L’immagine ritrovata: il nuovo dvd del film
Bisogna dare atto alla Mustang Entertainment (collana Il Grande Cinema) di aver reso un notevole servigio alla comunità cinefila realizzando
il dvd de Le Quattro Giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy (distribuzione
CG Home Video, € 12,99), dato che l’ultima edizione home video di cui
abbiamo memoria era un vecchio vhs datato anni ’90.
È già tanto perché negli ultimi venti anni il capolavoro resistenziale
del regista sardo, ma napoletano d’adozione, a parte un paio di passaggi
televisivi spesso in orari improbabili, era rimasto ai margini del mercato
dell’home video. È già tanto anche se l’edizione è piuttosto ordinaria e
si limita ad un riversamento pulito da buoni materiali visivi e sonori di
partenza nonostante i 50 anni e passa trascorsi dalla realizzazione; il buon
lavoro di ottimizzazione digitale rende giustizia alla fotografia cinegiornalistica del maestro Marcello Gatti (non a caso pochi anni dopo Gillo Pontecorvo lo sceglierà per la fotografia di un altro celebre film «resistenziale», La battaglia di Algeri), i fenomeni digitali residui sono pochi e solo
su schermi grandi si avverte qualche movimento ‘scattoso’ delle immagini;
la resa della colonna sonora di Carlo Rustichelli è buona, nella filologica
conservazione del mono.
Sorprende invece la scarsità di contributi extra e materiali di accompagnamento: il film di Loy avrebbe meritato sicuramente di più di un cinegiornale Luce di pochi minuti con immagini della première e alcune sequenze dal film; trattandosi di un’opera complessa da inquadrare negli
anni del post-Neoralismo e tra i non molti esempi di melodramma storico corale del nostro cinema, avrebbero sicuramente giovato degli approfondimenti (a partire dai contributi alla sceneggiatura di penne del calibro di Carlo Bernari e Vasco Pratolini), testimonianze (alcuni dei non
attori presenti nel film, come il bambino che interpretava lo scugnizzo di
guerra Gennarino Capuozzo, sono ancora vivi), ritorni on location per sottolineare alcuni strategici spostamenti rispetto ai luoghi originari degli
eventi di quei convulsi giorni di fine settembre 1943 (lo Stadio «Vestuti»
di Salerno al posto del «Collana» al Vomero, l’ingresso dell’Accademia di
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Belle Arti al posto dell’Università «Federico II»), quando il popolo napoletano scacciò, dopo quattro giorni di guerriglia urbana costati la vita a
molti civili e militari tra italiani e tedeschi, l’esercito nazista in ritirata dopo
lo sbarco alleato prima ancora che questi giungessero in città. Sarebbero
stati utili anche un’introduzione critica e qualche altro materiale d’archivio. Confidiamo in un’edizione futura più succulenta da questo punto di
vista.
Per il resto, può sembrare perfino superfluo soffermarsi sull’importanza storico-artistica del film di Loy: un impianto corale dall’afflato giustamente epico, che immette i flussi delle singole vicende individuali nella
corrente della Storia, mette in primo piano l’eroismo talvolta inconsapevole dei napoletani che spesso si esprime anche nelle forme della loro peculiare ironia (si ricordi la sequenza del vicolo in cui gli abitanti ostacolano il passaggio della Wermacht subissandola con una pioggia di masserizie), ricorre a un cast all-star (Gian Maria Volonté, Lea Massari, Regina
Bianchi, Jean Sorel, Pupella Maggio, Aldo Giuffré) perfettamente integrato
nella folla di figuranti e comparse reclutati sul posto e spesso tra chi realmente aveva partecipato agli eventi.
SALVATORE IORIO
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