La generazione delle immagini sui social secondo Michele Neri

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La generazione delle immagini sui social secondo Michele Neri
5 ottobre
2016
La generazione delle immagini sui social
secondo Michele Neri
Photo Generation, riflessioni su una rivoluzione visiva in cui si gioca la nostra identità: ma
oggi perché tutti vogliono condividere immagini su Instagram e Facebook?
Di Marta Cervino 5 Ottobre 2016-16:19
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Quante immagini ci passano davanti agli occhi in una giornata?
Quante volte nutriamo il web con i nostri scatti? Quante volte commentiamo campagne vedi la polemica delle ultime settimane sul Fertility Day - o leggiamo in cronaca di video e
foto che hanno provocato tragedie?
In questa esondazione visiva forse è il caso di fermarsi. Bloccare l'automatismo che ci
trasforma in homini fotografici solo per il fatto di avere in tasca lo strumento che ce lo
permette. Prendersi il tempo di riflettere prima di quel condividi che rischia invischiarci in
eterno.
A fare il punto su questa rivoluzione epocale e sulla nostra condizione ci ha
pensato Michele Neri - per anni direttore di Grazia Neri, una delle più importanti agenzie
fotogiornalistiche internazionali - con il suo nuovo Photo Generation (Gallucci), un libro
che ci accende lampadine critiche nel cervello. Un saggio/riflessione scaturito dalla mente e
dalla penna di chi per anni ha occupato un "luogo privilegiato, una postazione unica" da cui
ha assistito al tramonto di un'epoca e al conclamarsi di una fase nuova su cui ci dobbiamo
interrogare.
Perché scrive «proprio oggi che tutti si improvvisano fotografi, e sono diventati,
consapevolmente o no, soggetti fotografici, all'epoca dell'abbuffata di selfie, la storia e lo
sguardo dei fotogiornalisti, il loro insegnamento, sarebbero più utili che mai». Perché in
gioco c'è la fotografia - «tra qualche anno la marmellata d'immagini avrà fatto dimenticare
la fotografia oppure l'avrà assorbita dentro di sé come il latino nell'italiano?» e ancora «c'è
una possibilità di contagio, di connessione virtuosa, che accorci le distanze tra Sebastião
Salgado capace di interpellare direttamente il pianeta e Kim Kardashian che si ritrae allo
specchio con il proprio smartphone?» - ma soprattutto ci siamo noi come essere umani. C'è
«l'integrità della nostra identità» come ci racconta in questa conversazione. E la necessità di
recuperare «un senso progressista dell'immagine, che ci porti fuori dalla gabbia dei cliché
imposti».
Partiamo dall'inzio, quando hanno iniziato a cambiare le cose? La tecnologia è arrivata
ad accelerare un processo inconscio e latente. Nel senso che all'inizio degli anni Duemila i
primi cellulari con fotocamera e poi dieci anni fa smartphone e Social Network hanno dato
uno sfogo immane, imprevedibile e caotico a un reale bisogno pregresso: comunicare
attraverso immagini più che con le parole. Il cervello fa meno fatica ed è più rapido a
elaborare un'immagine che una parola.
Qual è nel profondo la differenza tra foto e immagine? La prima è ciò che per 150 anni e
più ha raccontato, documentato, illustrato il mondo, gli altri, guai e bellezze, ed era
accompagnata, nel caso dei fotografi professionisti e poi dai fotogiornalisti, da premesse,
accorgimenti, pensieri, criteri non tanto o almeno non soltanto tecnici, ma soprattutto umani,
etici, intellettuali. L'immagine - ci vorrebbe un nuovo nome ma non sappiamo ancora quale
possa essere - è il pulviscolo che avvolge il pianeta, noi in ogni momento, e dove conta
soltanto il fatto di scattare, quasi fosse un gesto fisico, come il respiro. Non ci si pone e non
si pongono più domande etiche come con la fotografia. La vera differenza tra le due è che
nella seconda, per ora, manca l'essere umano (o se c'è spesso è oggetto di violenza di ricatto
di indifferenza, o di adesione a un cliché che è un'altra forma di violenza).
Troppe immagini è come nessun’immagine? Sì, se le immagini restano così, vuote di
premesse, non scelte, non ricordate, non dedicate moralmente a un altro ma soltanto a se
stessi. Non è tanto una questione di numero.
Qual è il vero fraintendimento riguardo alle immagini? Il più grave è pensare che si stia
facendo un piacere, un dono, un'offerta al soggetto, quando in realtà spesso è soltanto un
accondiscendere alle proprie necessità. Un atto di orgoglio, narcisismo, potere.
Chi è la Photo Generation? E tu ne fai parte? Sono quelli avvolti passivamente o
attivamente nel flusso infinito, caduti dentro la marmellata di post-it visivi del presente.
Quindi, salvo gli eremiti, tutti. Io ne faccio parte, ma mi accorgo delle cose che possono
infastidire. Non è una cosa brutta in sé, se ne fa un uso non abbastanza etico o creativo. I
cosiddetti Millennials hanno lo svantaggio di non poter fare confronti, non capire che
l'immagine dovrebbe liberare la persona, e non incarcerarla, in cliché, mode, nell'adeguarsi
ai modelli aspirazionali del presente. Conoscono e praticano, salvo che siano interessati alla
fotografia, soltanto foto noiose.
Come facciamo a salvarci (penso alla ragazza che si è suicidata per il video porno
virale, o alle ragazzine che hanno postato foto di violenza, in una sorta di dilagante
amoralità)? Salvarci tutti, è dura. Il controllo da parte dei genitori o della polizia serve
raramente. Ci vorrebbe forse un'educazione sentimentale nuova, che smantelli il principio
che apparire è fondamentale, e che si è amati solo se ci si adegua a un modello. Capire come
soddisfare in altri modi il violento bisogno degli adolescenti di essere notati, guardati, di
diventare degni di attenzione. Ma anche con i più grandi. Pensando al sexting, ci può essere
quella volta che è necessario, ma più spesso credo che basterebbe capire che chi ti ama o
desidera non ha bisogno di una foto. E che farlo è accondiscendere a una moda, a una
debolezza condivisa, a un'insicurezza imposta dall'esterno, più che la rivelazione della
propria orgogliosa bellezza.
Scattare è lecito invece condividere necessiterebbe di una riflessione critica? Il
problema è che le due azioni avvengono senza soluzione di continuità? Anche scattare
non dovrebbe essere sempre lecito (non intendo vietato, ma controllato da se stessi). Non è
soltanto una questione di privacy, anche se è fondamentale. Occorre riportare il senso di
consapevolezza di ciò che si sta facendo, una consapevolezza che ora manca nell'azione
dello scatto. Scattiamo perché? Se manca un destinatario, fisico o morale, si riempie la
nostra memoria di cartelle vuote, di istanti nulli e che ingombrano, non sono innocenti
anche se inutili o apparentemente dimenticati. Smaltire il peso, l'impronta visiva che si
lascia o raccoglie.
Cosa non abbiamo capito e stiamo sottovalutando in nome della smania del click? Che
abbiamo in mano uno strumento che permetterebbe davvero di sentirci meno soli sul
pianeta, e che potrebbe aiutarci a raccontare la nostra esistenza, quella dell'amore o della
mancanza, se solo ne facessimo un uso "umanistico", dignitoso. Se si capisse che un
progetto narrativo è anche qualcosa che ci può guarire in questo tempo di indifferente corsa
a fare, o meglio, a trovare un'alternativa al fare, che è già in gran parte perduto. E poi
sottovalutiamo la libertà del soggetto di essere se stesso e non come lo vogliamo. E la natura
ribelle e non conformista della fotografia.
Cosa dovremmo recuperare? Libertà, un senso progressista dell'immagine, uscire dalla
gabbia dei cliché imposti. La famosa crepa nel muro da cui entra la luce. Ci sono i primi
esempi anche dentro Instagram, di chi non vuole restare dentro il flusso del qualunquismo,
dell'ostentazione.
Quale dovrebbe essere il “movente" quando facciamo una foto?Difficile. Direi soltanto
che non deve esserci, salvo casi eccezionali, un'assenza di movente. Le immagini che
nascono orfane sono le più soggette a manipolazioni, a fraintendimenti. Sono parti di noi
che non amiamo. Peggio se dentro c'è l'immagine di una persona a noi cara. Più che
movente, occorre credo inserire nello spazio tra "me "e"te" e che con la fotocamera diventa
spesso pubblico ed eternamente visibile, qualcosa di "buono", non mi viene parola più
adatta. Non certo la tecnica ci salverà.
In questo mare magnum di immagini siamo attori/autori inconsapevoli? E qual è il
rischio se perdiamo la consapevolezza? Sì in gran parte è questo il problema. Rischiamo
di perdere l'integrità della nostra identità. E perdiamo una grande opportunità di legame tra
noi e gli altri, tra noi e le passioni della nostra vita.
Il fotografo con il suo lavoro voleva descrivere il mondo, cambiarlo e se possibile
educarlo. E noi possessori di smartphone che inondiamo il mondo di scatti, cosa
vogliamo fare? Credo e mi auguro che alla base, anche se non ancora ben capito, ben
gestito, ci sia il desiderio di suscitare emozioni. Oppure quello di dire: io sono qui, sono
così, e mi aspetto che questo gesto di coraggio nel descrivermi, trovi dall'altra parte, chi
sappia rispettarlo. Non è impossibile, anche se ora sia nelle emozioni che nell'affermazione
della propria identità predominano atti gratuiti, incontrollati, conformisti, spaventati, gregari
o violenti.