Policromia centroamericana

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Policromia centroamericana
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O C C I D E N T E
Policromia centroamericana
Reportage di un lungo viaggio da Città del Messico a Portobelo
Paolo Brovelli
Portobelo, Panama, chiesa di
San Felipe. La statua è a sinistra dell’altare, dietro un vetro
e qualche scarna fila di ceri votivi. Pellegrino fuori stagione,
nell’eco della chiesa vuota mi è
difficile immaginare l’atmosfera
del 21 ottobre, quando vengono
da ogni parte del Paese e dall’estero per rendere omaggio al
Cristo Nero (o El Nazareno),
non l’unico, ma certo il più importante del centro America.
Quel giorno si commemora
l’arrivo della statua nella città
che all’epoca (il 1658 pare) era
seconda solo a Panama. «El Naza», dicono, capitò per caso,
portato da un bastimento diretto in Colombia rifugiatosi nella
baia a causa del maltempo. «E
ogni volta che ripartiva con la
statua, si scatenava una tempesta così violenta da farlo rientrare. Così, alla fine, decisero di
lasciarla qui», mi spiega il señor
José, un vecchino allegro con
cui ho attaccato bottone.
Il Cristo Nero pare abbia
sconfitto almeno un’epidemia
di colera e miracolato diversa
gente, e ora è venerato come
patrono dei cantanti, soprattutto dei salseros. «C’è chi striscia
come un serpente fino a qui, o
chi si fa chilometri in ginocchio!» racconta José, nero anche lui, proprio come il Cristo e
come molti, in città. Dopo un
po’ se ne va, con un sorriso, ed
è allora che, solo, al fresco sacro di quel cattolicesimo, co-
NELLE FOTO: in senso orario, un collage di visi centroamericani; tipici tessuti
mole fabbricati dalle donne Kuna; Antigua, un tempo capitale coloniale del
Guatemala; una strada di
Colón, Panama, città «nera» del Caribe; il vulcano
Masaya in Nicaragua;
Portobelo, la città afroamericana più meridionale
del Caribe panamense.
mincio a perdermi sul filo dei
José, dei Juan, delle Rosa, dei
Ramon, delle Marcela e dei mille volti incrociati per via in questo lungo viaggio attraverso
tanti, quasi tutti i Paesi dell’America centrale. E tra quegli
occhi, un’intuizione, un balenio
tanto affascinante quanto inaspettato. Una visione dove i visi
si compongono in un collage etnico che cerco d’afferrare ed
elaborare, pian piano, attento a
che non sfugga, intrecciandolo
con cura alla mia lunga strada.
Le tessere del mosaico – Penso così agli oltre quattromila
chilometri percorsi da Città del
Messico fin qui, ai sei Paesi attraversati con pullman, battelli,
treni, a piedi. E osservo l’insie-
me dall’alto, lasciando che la
tempesta etnica si scateni nel
mio cervello. Occhieggiando tra
le nubi, vedo ora una linea che
prima del mio viaggio non vedevo. Saltabecca da nord a sud,
lungo il crinale delle tante piccole catene montuose che costituiscono gli ultimi filamenti
della Sierra Madre messicana, e
divide questa porzione di continente in due sezioni, come se
spezzasse in due ogni paese.
Una diversità morfologica che
s’ordisce con quella etnica e
storica, che sempre vanno a
braccetto.
Da un lato vedo, allora, un
versante pacifico, scosceso e
montuoso, con laghi, altipiani e
vulcani; sull’altro lato, il versante caraibico, o atlantico, con
fiumi lunghi e sinuosi, pianure
erbose e foreste lussureggianti.
È verso il Pacifico che guardano
quasi tutte le capitali, dove la
progenie bianca, perlopiù ispanica, si tinge con sangue indigeno. Cala poi dai monti anche
sull’altro lato del crinale, ma si
arresta prima della costa caraibica, casa delle varie e numerose comunità nere, proprio come
qui a Portobelo. E quei Paesi
che sempre mi erano apparsi
esclusiva filiazione ispanica, latina, si fan complessi, e variopinti.
In principio era l’indio, quello
di cui si piange la scomparsa,
ma che è per fortuna ancora
presente in ogni angolo quaggiù, puro (raramente), mestizo
(mistura bianco-indio) o zambo
(mistura indio-nero). Nel Messico meridionale e in Guatemala è la famiglia Maya, a tutti nota, testimoniata fino all’Honduras del nord, con l’antico sito di
Copán, il più meridionale. Le
loro comunità sono dappertutto, e ancora piuttosto conservate, dalle verdi montagne del
Chiapas alle spiagge yucateche,
dalle rive azzurre del lago Atitlán alle foreste e alle savane
del Petén. Più a sud, il centro
America diviene terra Chibcha,
fino all’arcipelago panamense
dei Kuna: 365 isole e isolotti
tropicali dove le case sono capanne di paglia e bambù, ravvivate solo dai colori briosi degli
abiti ricamati (i mole) delle
donne. Genti ora ignote ai più, i
Chibcha un tempo furono qualcuno e, migrati a sud, si dice
che abbiano partecipato alla ci-
viltà incaica del Perù, come gli
Aymará e i Quechua delle Ande. A essi giustapposti, e pure
sul versante caraibico, i popoli
di stirpe Misumalpa, come i fieri Miskito delle foreste honduregne della Mosquitia e del
nord Nicaragua, nel XVII e
XVIII secolo preziosi alleati dei
britannici contro il retroterra
ispanico e invasore. Ultima,
geograficamente, la famiglia
Choco degli Embera, immersi
nelle profondità del Darién panamense e oltre il confine colombiano: indios seminudi che
vivono in capanne di paglia nella foresta primaria.
Una striscia d’Africa – Base
razziale della maggior parte
della popolazione di quasi tutti
i Paesi della regione, l’elemento
nativo americano si è mescolato
anche con le comunità nere
giunte sulle coste caraibiche
dopo l’inizio della colonia, a
ondate, a seconda delle zone.
Fatto sta che dal Belize (il più
nero) a Colón, bollente porto
panamense, eccetto il Salvador,
tutto rivolto al Pacifico, ogni
stato dell’istmo possiede la sua
comunità afroamericana, più o
meno “diluita”. Tutte, però, rigorosamente limitate al litorale
caraibico, che spesso sembra
costituire un Paese a sé (per
esempio la zona costiera nicaraguense è stata collegata al resto del Paese con una strada solo una cinquantina d’anni fa).
Le varie fasi storiche e provenienze hanno fatto sì che parlassero anche lingue diverse,
tutte o quasi basate sull’inglese.
L’influenza britannica nella zona dei Caraibi è sempre stata
piuttosto invadente, vuoi attraverso le guerre di corsa (Francis
Drake, Henry Morgan) o i militari veri, vuoi attraverso i commerci e i coloni. L’esempio più
eclatante è il Belize, ex Honduras Britannico, dove la lingua
ufficiale è proprio l’inglese. Allora, da sud a nord, nera è Colón, e anche Limón, in Costa Ri-
ca, e diversi
piccoli centri
intermedi, come Bocas del
Toro. Di neri
prima schiavi,
poi lavoratori
liberi dalle ex
colonie britanniche di Giamaica e Barbados, un po’ per
il canale di Panama, un po’
per la ferrovia
lungo il litorale
costaricano, un po’ per le piantagioni, soprattutto quelle del
colosso USA United Fruit, la
Chiquita, per intenderci. Parlano un inglese creolo simile, e si
capiscono tra loro, ma non coi
«cugini» più su, quelli di Bluefields e della costa centro settentrionale del Nicaragua, il cui
creolo è un po’ diverso. Hanno
però una storia simile: «importati» nel XVIII secolo, all’epoca
del controllo britannico sulla
costa della Mosquitia (tra Honduras e Nicaragua), qui sono rimasti, rinvigoriti dal continuo
apporto di «fratelli» neri liberi
dalle altre ex colonie britanniche caraibiche, proprio come in
Costa Rica.
La mescolanza con i locali è
stata forte e ha creato comunità
culturalmente interessanti. Ultimi della mia rassegna, i Garífuna, i più settentrionali: hanno
una storia particolare, con una
mitologia che parla di una nave
negriera naufragata nel 1635 al
largo di Saint Vincent, i cui
scampati furono accolti dalle comunità indie dell’isola, alle quali
si integrarono. Più tardi gli inglesi li deportarono, insediandoli sull’isola di Roatán, ora paradiso balnear-turistico nell’attuale Honduras, da cui poi si trasferirono sulla terraferma, lungo il
litorale honduregno, in Belize e
a Livingston, nel Guatemala
estremo orientale. La loro lingua, l’unica di base caraibica
(arawak, e per questo sono anche detti i «caribe neri») mescolata con francese, swahili e bantu, è tanto particolare che nel
2001 è stata dichiarata patrimonio orale e immateriale dell’umanità dall’UNESCO.
Il mondo è piccolo dall’alto,
ma nella polvere si fa enorme.
Anche stavolta annaspo e sento
la solita vecchia frustrazione.
Quel rammarico per non aver
bevuto tutto. Ma è sempre così.
Un viaggio è sempre un inizio.
È quel che spinge a non fermarsi mai.