Cosa faresti con un trilione di euro all`anno?
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Cosa faresti con un trilione di euro all`anno?
Cosa faresti con un trilione di euro all’anno? Costi di opportunità e alternative al complesso militare-industriale-scientifico-corporativo di Nanni Salio Centro Studi Sereno Regis La spesa militare è di fatto considerata un tabù in tutti i principali paesi, democratici o meno che siano. Eppure costituisce uno dei costi di opportunità più elevati. Negli anni del declino e della fine della guerra fredda la spesa militare mondiale era scesa significativamente e dopo il 1989 si diffuse la speranza di poter godere i frutti del “dividendo della pace”. La riduzione su scala mondiale fu consistente, dell’ordine del 30%. Ma durò poco e ben presto, già nella metà del decennio successivo, cominciò l’inversione di tendenza che in pochi anni riportò la spesa alla quota precedente, di circa un trilione di euro all’anno. Questa cifra è di poco inferiore a quella dell’intero debito estero dei paesi impoveriti, con la notevole differenza che il debito si è accumulato in circa vent’anni, mentre la spesa militare è annuale. La sua incidenza è quindi di almeno venti volte superiore. Analisi critica delle spese militari e dei costi di opportunità I dati sull’andamento della spesa militare nel mondo sono sufficientemente noti, pur nell’incertezza che sempre caratterizza questa materia. L’incertezza è dovuta a vari fattori: inaffidabilità dei dati di alcuni paesi, diversa contabilità tra un paese e l’altro, difficoltà di valutazione di alcune voci di spesa, segreto militare e industriale. Ciononostante, molti istituti di ricerca aggiornano di anno in anno tali dati, che pur presentando qualche diversità tra una ricerca e l’altra, descrivono uno scenario a grandi linee omogeneo. Tra gli istituti specializzati spicca il SIPRI i cui lavori sono considerati tra i più autorevoli. Ogni anno viene pubblicato un voluminoso studio, il SIPRI Yearbook, che permette di avere un quadro sufficientemente preciso delle tendenze in atto. (Le tabelle con i dati più importanti sono consultabili nel sito Internet http://www.sipri.org/contents/milap/milex/mex_data_index.html). Le tabelle riportate in Appendice contengono i dati essenziali delle spese militari su scala mondiale e per il nostro paese. Di queste spese, una quota variabile dal 60 all’80% a seconda dei paesi è destinata al personale. La parte restante va in equipaggiamenti, sistemi d’arma e R&S a fini militari. Ogni progetto di riconversione deve quindi tener conto dell’ingente numero di persone coinvolte nel complesso militare-industriale: occorre riconvertire uomini, strutture, culture. Si stima che ci siano nel mondo circa 25 milioni di uomini in armi (essenzialmente maschi, anche se una cattiva concezione di parità ha contribuito a creare una trappola per le donne) e altrettanti nei molti settori civili del complesso militare-industriale-scientifico-corporativo che sostiene la struttura militare. 1 Sono tanti, ma ancora più sono coloro che si oppongono, come si è visto nel corso delle manifestazioni contro la guerra di invasione e di aggressione degli USA/GB contro l’Iraq culminate il 15 febbraio 2003. Spese militari, riconversione corporativo e luoghi comuni del complesso militare-industriale-scientifico- Il dibattito sul ruolo, sul significato e sugli effetti della spesa militare è annoso e risale almeno alla fine della seconda guerra mondiale. Da un lato c’è chi sostiene la possibilità che un paese, soprattutto una grande potenza, possa produrre contemporaneamente “burro e cannoni”. Gli argomenti principali portati a sostegno di questa tesi sono ben noti, tanto da essere diventati dei “luoghi comuni”: la guerra c’è sempre stata; se vuoi la pace prepara la guerra; la guerra fa bene all’economia; la ricerca militare ha delle ricadute positive per la società civile; le spese militari fanno da volano per l’economia. Su ciascuna di queste affermazioni sono versati fiumi di inchiostro per smontarne la validità. Ma tant’è: la propaganda e la disinformazione sono essenziali per mantenere il potere e fanno leva sulla stupidità, l’avidità l’invidia e la paura. A conferma di queste affermazioni, vale la pena ricordare un testo che, quando fu pubblicato verso la fine degli anni '60, fece notevole scalpore: Rapporto segreto da Iron Mountain sulla desiderabilità della pace (a cura di L.C.Lewin, Bompiani, Milano 1968). La tesi centrale di questo libro al tempo stesso provocatorio e veritiero è la seguente: “la guerra è la base principale dell’organizzazione su cui sono costruite le società moderne”. Per scongiurare le conseguenze ritenute nefaste, per coloro che detengono il potere politico, economico e militare, di una pace duratura, gli estensori del rapporto raccomandavano di creare un clima di paura e inventare nuovi nemici. Col senno di poi, si potrebbe dire che non c’è nulla di nuovo e che questa è proprio la politica che l’attuale amministrazione USA sta attuando: un’atmosfera di tipo orwelliano. Nell’altro campo, ci sono i fautori della tesi opposta. Tra i critici più espliciti abbiamo nientemeno che un ex generale, diventato presidente degli USA, Dwight D. Eisenhower che in un famoso passo del suo messaggio di congedo del 17 gennaio 1961 metteva in guardia il popolo statunitense dal grave pericolo che il nascente complesso militareindustriale comportava per la democrazia USA. Egli denunciava con forza che “L’America deve vigilare contro l’acquisizione di un’ingiustificata influenza da parte del complesso militare-industriale e il pericolo di diventare prigioniera di un’elite scientifico-tecnologica” (http://web.peacelink.it/pace2000/webstoria/4evocon/pentag.html). Inoltre, in un discorso di alcuni anni prima, pronunciato il 15 aprile del 1953, aveva detto: “Ogni cannone che viene costruito, ogni nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene preparato rappresenta un urto a coloro che hanno fame, a coloro che hanno freddo e non hanno da coprirsi. Infatti un bombardiere pesante costa quanto trenta scuole o due centrali elettriche capace ognuna i fornire luce ad una città di 60 mila abitanti, o a due ospedali; un solo aeroplano da caccia costa come 150 mila quintali di grano; con i dollari necessari per allestire un cacciatorpediniere, si potrebbero costruire case per 8000 senzatetto…”. Nel corso degli anni, il dibattito fu alimentato da numerosi autorevoli interventi tra i quali spiccano i contributi di Seymour Melman (si veda: Mario Pianta, “Democrazia contro capitalismo”, http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMondearchivio/Aprile2002/0204lm22.01.html; Mario Pianta, “Un radicale disarmante”, http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_8948.html). Per oltre mezzo secolo, con la sua 2 opera pionieristica Melman ha sfidato i molti luoghi comuni e la cultura dell’establishment economico-politico-militare sull’interpretazione e le conseguenze della spesa militare, mettendo in evidenza i guasti anche per una società ricca come quella USA, diventata anch’essa sempre meno capace di produrre “burro e cannoni”, tanto da avere accumulato una serie di record negativi rispetto agli altri paesi occidentali nel campo della povertà relativa e assoluta, della popolazione carceraria, del debito interno e di quello estero. Nel suo ultimo lavoro egli ribadisce ancora una volta con molta chiarezza i guasti dell’economia militare: “Alla fine della seconda guerra mondiale la prospettiva internazionale del governo di Washington era quella di una competizione globale con l’Unione Sovietica. Lo sviluppo di capacità nucleari militari da parte dell’URSS portò a stringere i legami tra imprese e governo americano. L’economia di guerra permanente divenne la strategia chiave per combattere la guerra fredda; destra e sinistra concordavano che l’economia americana poteva produrre sia burro che cannoni. [...] Ma gli economisti si ingannavano e non riuscivano a distinguere uno sviluppo produttivo da una crescita parassitaria. Il primo è rappresentato dall’espansione di beni e servizi usati per il consumo o per nuove produzioni. La seconda riguarda prodotti inutili per il consumo e l’investimento che tuttavia sono associati a valori monetari e inclusi nel calcolo del prodotto interno lordo. Le produzioni di guerra hanno nascosto il declino delle produzioni civili; il risultato è stato devastante per l’industria (specie quella dei beni capitali), le infrastrutture e la società americana. [...] La lunga durata dell’economia di guerra permanente degli Stati Uniti, dalla fine della seconda mondiale a oggi, ha portato allo sviluppo di strutture amministrative e di politiche economiche che hanno formalizzato lo stretto legame tra i manager delle imprese, che puntano al massimo profitto, e i manager di stato, che puntano al massimo potere. I due stili di management si sono intrecciati ed essi si spostano senza difficoltà dal governo all’industria e di nuovo al governo…” (tratto dall’introduzione di War. Inc.: The Rise and Fall of America’s Permanent War Economy che sta per uscire negli Stati Uniti con la Common Courage Press, e sarà pubblicato in Italia da Città Aperta Edizioni http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_8947.html). Uno degli ultimi e più significativi contributi critici è quello di Chalmers Johnson nei suoi primi due volumi di una trilogia che sta per essere completata (Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, lavoro “profetico” pubblicato nell’originale nel 2000. L’autore “previde” gli attacchi alle “torri gemelle” e ne diede una chiara interpretazione attraverso la teoria del “blowback”. Il secondo volume, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, è anch’esso pubblicato da Garzanti, Milano 2005). Nei suoi lavori, l’autore analizza con una imponente quantità di dati il pericolo del complesso militare industriale USA non solo per la situazione internazionale ma anche per il futuro e la stabilità degli stessi Stati Uniti. Infine è doveroso segnalare il lavoro sistematico e continuativo sulla riconversione che viene svolto da alcuni anni dall’istituto di ricerca BICC (Bonn International Center for Conversion, www.bcc.de). Tra le pubblicazioni di questo centro di ricerca segnaliamo il BICC Bullettin (scaricabile dal sito http://www.bicc.de/publications/bulletin/bulletin.html) e il Conversion Survey, un annuario pubblicato a partire dal 1996. Le proposte e le denunce sui costi di opportunità e sulle priorità che l’umanità ha di fronte sono numerosissime e ricorrenti. Il Millennium Project lanciato dalle Nazioni Unite si propone di raggiungere importanti risultati entro il 2015. Ma senza concreti stanziamenti è improbabile, ancora una volta, che questi obiettivi vengano conseguiti. Persino la Banca Mondiale si associa oggi al coro di coloro che chiedono una drastica riduzione delle spese militari. Come afferma uno dei suoi esponenti, Lynn Brown, nella prefazione a un rapporto della FAO: “Il numero di affamati resta troppo alto, i progressi 3 inspiegabilmente bassi e il prezzo delle vite rovinate e delle risorse sprecate incalcolabilmente alto”. Ma, aggiungiamo noi, “se da oggi al 2015 anche solo il 10% della spesa militare mondiale fosse devoluto agli obiettivi del millennio, fame, povertà, analfabetismo e malattie come malaria e tubercolosi sarebbero completamente sradicati, per sempre. E’ un vecchio discorso… spesso tacciato di demagogia, ma mentre cresce la povertà, la vera demagogia, quella della “lotta al terrorismo”, ha aumentato la spesa militare sino a raggiungere e superare il trilione di euro all’anno (http://www.megachip.info/ modules.php?name=News&file=print&sid=409). L’esercizio numerico dei costi di opportunità può essere svolto da ognuno di noi, purché si abbia tempo e voglia per fare due conti: da un lato il costo dei vari sistemi d’arma, dall’altra quello che si potrebbe fare con quel denaro. Ne può venire fuori una sorta di “listino prezzi”, come quello riportato in appendice, che dimostra il cinismo del nostro modo di vivere e delle nostre istituzioni, indifferenti alla violenza e alla sofferenza di centinaia di milioni di esseri umani. Un utile esempio di questi esercizi è svolto da alcuni anni dalla campagna italiana Sbilanciamoci, che in occasione delle finanziaria propone alternative concrete alle spese militari, sia di riduzione sia di trasformazione verso modelli di difesa nonviolenti (si veda: Economia a mano armata, www.sbilanciamoci.org/docs/economia_a_mano_armata.pdf). Ma ancora più incisiva ed efficace sul piano della comunicazione è la proposta fatta dal World Game Institute. Immaginiamo di rappresentare l’intera spesa militare mondiale annua con un rettangolo costituito da mille quadratini, ognuno dei quali corrisponde a un miliardo di euro, come nella figura. Per avviare a soluzione tutti i principali problemi globali dell’umanità, dalla povertà estrema alla fame, dal degrado ambientale alla prevenzione delle principali malattie, sarebbe sufficiente solo una piccola parte delle risorse impiegate per scopi militari, indicata in figura dal rettangolo più piccolo, circa un quarto di quello grande. All’indirizzo Internet dell’UNESCO www.unesco.org/education/tlsf/theme_a/mod02/www.worldgame.org/wwwproject/index.sht ml si possono leggere le proposte specifiche formulate per ciascuno dei diciotto problemi globali di cui si propone la soluzione con solo il 25% circa della spesa militare mondiale annua. Nonostante questa ingente mole di studi, documenti, proposte, appelli, denunce, non si sono fatti molti passi avanti. Finita la guerra fredda è iniziata quella calda, che in realtà non era mai cessata (ma a noi eurocentrici le guerre combattute fuori dall’Europa sembravano irrilevanti). Quali sono le ragioni di tutto ciò? Per rispondere a questa domanda è necessario spostare la nostra attenzione dai meri dati quantitativi della corsa agli armamenti e del complesso militare-industriale all’esame delle dottrine militari che stanno a monte di tutto ciò. Difesa/offesa; sicurezza/insicurezza Lo schema proposto da Johan Galtung in Ambiente, sviluppo e attività militare (EGA, Torino 1984) è un utilissimo punto di partenza per individuare i “punti nodali di attacco per le misure di disarmo” e per capire perché molto spesso le azioni sia degli organismi internazionali (ONU) sia dei movimenti per la pace sono poco efficaci. Il più delle volte, il movimento per la pace interviene nell’ultima fase del processo, quando la potente macchina da guerra è già avviata, pronta per l’uso. Non ci si deve stupire se si fallisce, perché si interviene troppo tardi e solo nelle fasi ultime del processo, che diventa inarrestabile. Anche le misure di disarmo sortiscono risultati modesti. Si prenda il caso, pur 4 interessante, del trattato contro le mine antiuomo. E’ stato un successo (anche se alcuni dei paesi più importanti non l’hanno sottoscritto), ma oggi ci accorgiamo che una nuova categoria di armi, le cluster bombs, agiscono a tutti gli effetti come mine antiuomo, ma non sono messe al bando perché non previste dal trattato. Questo fatto è ricorrente in tutta la corsa agli armamenti. Se si lasciano immutate la dottrina militare e la ricerca militare, esse si industrieranno nel cercare nuovi sistemi d’arma con cui aggirare gli ostacoli posti dalle leggi e dai trattati internazionali. E’ una sorta di corsa tra guardie e ladri, con questi ultimi che corrono più veloci e non vengono quasi mai acciuffati. Se vogliamo realmente estirpare la guerra dalla storia umana, dobbiamo andare alle radici, culturali, teoriche, dei modelli di difesa e di sviluppo che stanno a monte dell’intera “catena di comando” della macchina da guerra. Le dottrine del falso realismo che vengono insegnate nelle accademie sia civili sia militari, nelle università, sono profondamente sbagliate e continuano a richiedere il sacrificio incessante di vite umane sia con la violenza diretta della guerra sia con quella strutturale dei modelli di sviluppo, delle spese militari, delle priorità che ignorano i bisogni fondamentali delle popolazioni. Gli attuali modelli di difesa adottati da gran parte dei paesi sono in realtà modelli di offesa, che si basano su sistemi d’arma oggettivamente offensivi (a largo raggio e ad alto potenziale distruttivo) che comprendono ogni possibile arma di distruzione di massa, senza alcuna soglia superiore che ne limiti la distruttività. Questi modelli creano insicurezza invece che sicurezza, instabilità invece che stabilità. TARA A queste quattro semplici lettere possiamo dar significati diversi, tutti pertinenti con quanto stiamo indagando. Un significato comune è quello di “fare la tara” che, nel nostro caso, significa assumere criticamente, come stiamo facendo, quanto ci viene detto e proposto con tanta convinzione dalla propaganda mediatica che mira a giustificare e glorificare la guerra. Un secondo significato l’ho scoperto di recente, nel corso di un mio splendido viaggio al Kailash, la montagna sacra, mitica e affascinante nel Tibet sud-occidentale (si veda: “La montagna di pace, in un oceano di guerre” Azione Nonviolenta, novembre 2004). Durante il kora (deambulazione) attorno alla montagna, si supera il Drolma La, ad un passo a poco meno di 5700 metri, dedicato a TARA, la veneratissima divinità femminile del pantheon buddhista-tibetano che, come l’analogo maschile, è la dea della compassione. Oggi abbiamo bisogno, più che mai, di coltivare la nostra compassione per affrontare positivamente i problemi globali e vedere attraverso gli occhi della compassione, della consapevolezza e della compresenza capitiniana “i mali invisibili” generati da una cultura incapace di porvi rimedio. TARA la compassionevole ci può essere di aiuto in questa impresa. Ma, fuori dalle metafore, TARA è anche l’acronimo positivo della speranza, che annuncia la possibilità di altri mondi possibili: There Are Realistic Alternatives (un importante testo di Gene Sharp con questo stesso titolo è scaricabile dalla pagina Internet 5 http://www.aeinstein.org/organizations.php3?action=printContentItem&orgid=88&typeID=1 6&itemID=56). Questo acronimo ha una storia che risale agli anni '80 del Novecento, quando in piena guerra fredda Johan Galtung pubblicò l’importante lavoro There Are Alternatives (traduzione italiana: Ci sono alternative, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984), nel quale l’autore conduceva una serrata analisi critica delle dottrine militari che avevano portato alla fase più acuta del confronto degli euromissili in Europa. Contrariamente alla tesi dominante riassumibile nell’acronimo TINA (There Is Not Alternatives) secondo cui non ci sono alternative, esse esistono, sono ben documentabili, possibili, realizzabili concretamente e in parte già realizzate. Si possono riassumere nella politica di transarmo verso modelli di difesa non aggressivi, intrinsecamente non offensivi, che consentano contemporaneamente di sperimentare forme di difesa popolare nonviolenta e di avviare una transizione ancora più radicale e profonda verso l’abolizione dell’intero sistema militare. (Per un aggiornamento si veda il libro di Antonino Drago, La difesa popolare nonviolenta, in corso di pubblicazione presso le edizioni PLUS di Pisa). Quando la ragione non basta Siamo di fronte a un evidente paradosso. Da un lato, è chiaro che l’attuale complesso militare-industriale costituisce un grave pericolo e uno sperpero immenso di risorse; dall’altra la ragionevolezza delle proposte alternative non sembra sufficiente per innescare un reale cambiamento. Si potrebbe sostenere che non c’è nulla di nuovo in tutto ciò. Sin dall’inizio del Novecento, Gandhi osservava qualcosa di simile: “Fino al 1906 mi sono affidato esclusivamente alla ragione. Ero un riformatore molto attivo e un ottimo redattore di petizioni, in quanto avevo sempre una chiara visione dei fatti, che mi proveniva da una rigorosa osservanza della verità. Tuttavia, quando giunse il momento critico, nel Sudafrica, dovetti scoprire che la ragione non era sufficiente… Mi trovai di fronte all’alternativa tra aderire anch’io alla violenza o trovare un metodo per risolvere la crisi e far cessare l’ingiustizia, e allora mi venne in mente l’idea di rifiutare di obbedire alle leggi discriminatorie, affrontando per questo anche la prigione. Nacque così l’equivalente morale della guerra… Da allora mi sono andato sempre più convincendo che la ragion non è sufficiente ad assicurare cose di fondamentale importanza per gli uomini, che devono essere conquistate attraverso la sofferenza. La sofferenza è la legge dell’umanità, così come la guerra è la legge della giungla. Ma la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla, ed è in grado di convertire l’avversario e di aprire le sue orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione” (M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, p. 5). Ci troviamo oggi in una situazione analoga: non sono sufficienti gli appelli, i convegni, gli studi, i rapporti delle commissioni internazionali dell’ONU. Per scuotere le coscienze, per convincere gli indifferenti e gli indecisi, per smuovere gli avversari, è necessaria l’azione. Occorre organizzare l’azione diretta nonviolenta in tutte le sue forme, per contrastare la struttura del complesso militare-industriale attraverso forme molteplici di obiezione di coscienza (al servizio militare, alle spese militari, al lavoro e alla ricerca militari), di disobbedienza civile (occupazione di basi, contestazione delle mostre e delle fiere di sistemi d’arma, trainstopping per impedire l’invio di armi) e di progetti di difesa nonviolenta (corpi civili di pace italiani, europei, internazionali; vedi in proposito www.berrettibianchi.org; www.nonviolentpeaceforce.org). E occorre anche cominciare una “riconversione dal basso”, che permetta di trovare quelle risorse economiche necessarie per organizzare progetti alternativi, sostenere le campagne 6 di obiezione e disobbedienza, raccogliendo come tante minuscole formichine lillipuziane “un euro al giorno per togliere la guerra di torno”. E’ necessario premere su quei settori delle istituzioni e delle forze politiche, dei sindacati, delle chiese, più sensibili e disponibili perché si facciano promotori della “modesta proposta del 5%” che si può formulare molto semplicemente come l’impegno quantitativo (e non generico) di riduzione del 5% annuo delle spese militari per un’intera legislatura, riconvertendo il denaro nelle alternative della difesa nonviolenta, della riconversione dell’industria bellica, nella promozione di tecnologie appropriate per uscire dalla dipendenza dal petrolio e creare un modello di sviluppo e uno stile di vita autenticamente sostenibili. Questo insieme di iniziative può contribuire a rompere il circolo vizioso della paura, della pigrizia, dell’ignoranza, dell’impotenza e creare il circolo virtuoso dell’empowerment, del potere individuale e collettivo (potere di e potere con, invece che potere su di dominio sugli altri) per avviare un processo di trasformazione che, nel tempo, permetta lo smantellamento integrale delle strutture di violenza che le nostre istituzioni hanno creato nel corso dei secoli: impresa grandiosa, ma possibile, oltre che indispensabile. 7 APPENDICE “Listino prezzi” di diffusi materiali militari (aerei, missili, elicotteri…) (Per confronto: 130 Euro sono sufficienti per un trattamento completo di cura, compresi gli alimenti, per salvare un neonato dall’AIDS in Africa) ● Bombardiere stealth F-117A Nighthawk: € 45 000 000 (345 000 bambini) ● Cacciabombardiere F-15 Eagle: € 15 000 000 euro (115 000 bambini) ● Cacciabombardiere F-16 Fighting Falcon: € 20 000 000 (155 000 bambini) ● Cacciabombardiere F/A-18 Hornet: € 35 000 000 (270 000 bambini) ● Bombardiere B-52 Stratofortress: € 74 000 000 (570 000 bambini) ● Bombardiere B-1B Lancer: € 200 000 000 (1 540 000 bambini) ● Bombardiere stealth B-2 Spirit: € 1 300 000 000 (10 000 000 bambini) ● Velivolo anticarro A-10/OA-10 Thunderbolt II: € 8 800 000 (65 000 bambini) ● Bombardiere per guerra elettronica EA-6B Prowler: € 52 000 000 (400 000 bambini) ● Missile da crociera Tomahawk: € 1 000 000 (7 500 bambini) ● Velivolo antisommergibile P-3C Orion: € 36 000 000 (275 000 bambini) ● Elicottero da trasporto CH-53E Super Stallion: € 26 000 000 (200 000 bambini) ● Elicottero da attacco AH-1W Super Cobra: € 10 700 000 (80 000 bambini) (http://www.inventati.org/ababilonia/lo_sapete%20che.htm) 8 Stima delle spese militari regionali e mondiali 1994 – 2003 I dati sono in miliardi di dollari USA, a prezzi costanti del 2000 e al tasso di scambio. I dati in corsivo sono percentuali. I totali non corrispondono sempre alla somma dei parziali a causa degli arrotondamenti. andamento % 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 1994 2003 Africa (9,2) (8,7) (8,4) 8,6 9,2 9,9 10,3 10,5 11,3 11,4 (+ 24) Nord (4,1) (3,9) (4,0) 4,2 4,4 4,3 4,7 4,8 5,4 5,5 (+ 35) SubSahariana 5,1 4,8 4,4 4,4 4,8 5,6 5,7 (5,8) 5,9 (5,9) (+ 15) America 365 347 328 329 321 323 334 339 376 451 + 24 Nord 344 324 306 304 298 299 310 313 350 426 + 24 Centro 3,5 3,1 3,2 3,3 3,2 3,4 3,5 3,6 3,4 3,3 –5 Sud 17,6 20,2 18,4 21,2 20,2 20,1 20,7 22,6 22,9 21,8 + 24 Asia ed Oceania 120 123 127 127 126 128 133 140 146 151 + 25 Asia centrale 0,4 0,4 0,4 0,5 (0,4) 0,5 Asia orientale 101 103 107 107 105 105 110 115 121 125 + 24 Asia meridionale 12,0 12,6 12,8 13,4 13,5 14,6 15,2 15,8 15,9 16,9 + 41 Oceania 7,3 7,0 7,0 7,1 7,4 7,7 7,7 8,0 8,3 8,5 + 17 Europa 200 187 186 186 184 188 191 191 194 195 –2 Europa centrale ed orientale 26,4 20,6 19,3 20,1 17,5 18,3 20,0 21,5 22,2 24,5 –8 Europa occidentale 174 166 166 166 167 170 171 170 172 171 –2 Medio oriente 47,1 43,8 43,8 48,1 51,9 50,3 58,0 63,1 63,8 70,0 + 48 Mondo 742 709 693 699 693 699 727 743 792 879 + 18 – 4,4 – 2,2 – 0,8 0,8 4,0 2,3 6,5 11,0 andamento % 0,9 (0,5) Fonte: SIPRI Yearbook 2004 I dati posti fra parentesi sono basati su dati nazionali comprendenti meno del 90% del totale regionale. Non sono riportati i dati per cui le stime sono basate su dati comprendenti meno del 60% del totale regionale. 9 Fonte: SIPRI Yearbook 2004, Table 10A.1,vedi anche SIPRI military expenditure database. La spesa militare in Italia Fonte: ministero della difesa (http://italy.peacelink.org/disarmo/articles/art_2440.html) Gruppo Solidarietà del liceo statale “Marie Curie” di Meda [email protected] 10