Il problema fondamentale della vita economica

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Il problema fondamentale della vita economica
IL PROBLEMA FONDAMENTALE DELLA VITA ECONOMICA Rudolf Steiner (conferenza tratta da “La realtà dei mondi superiori”) Oslo, 30 novembre 1921 Ringrazio l’egregio presidente per le sue cordiali parole e prego anzitutto i presenti di voler tener conto della profonda soddisfazione che provo per poter esporre anche in questa sede alcuni aspetti principali dei problemi sociali ai quali ho dedicato gran parte del mio tempo. Debbo però naturalmente e subito scusarmi, perché è cosa ben difficile parlare oggi del problema sociale. In una breve conferenza non si può in effetti dare che una direttiva generica e forse qualche indicazione; prego di voler tenere conto di questi limiti. Qualcuno potrebbe poi forse supporre che se una persona dedita essenzialmente alla diffusione della scienza dello spirito antroposofica affronta il tema dei problemi sociali, non possa esporre che concetti remoti, forse anche fantastici o addirittura utopistici. Senonché i risultati ai quali sono pervenuto sul problema sociale, proprio in quanto fondati sul pensiero antroposofico si distinguono da molte idee proposte di recente, proprio in quanto quei risultati aderiscono strettamente alla realtà della vita, e si oppongono all’esposizione di mere teorie sociali. Io stesso mi sono conquistato, nel corso di decenni, la concezione del problema sociale di cui oggi vorrei esporre le linee principali, partendo dall’osservazione diretta della vita sociale. Ne ho tratto realmente la convinzione che il nostro problema sociale, e in particolare il suo aspetto economico, è oggi un problema universalmente umano. Se lo si studia conforme alla vita stessa, e non teoricamente, esso si mostra come un problema scaturito niente affatto da fattori economici, bensì da realtà umane: e sono queste a farlo emergere ai nostri giorni in modo così vulcanico. Si potrà quindi affrontare in pratica questo problema (o meglio, tentarne almeno una soluzione parziale) soltanto partendo da punti di vista rigorosamente umani. Dovrò quindi designare come il problema cardinale dell’economia qualcosa di assai diverso da ciò che ci si aspetta di solito. Poiché la vita è assai più ricca di qualsiasi teoria o idea, io non potrò in alcun modo rispondere a quel problema con qualche breve formulazione, ma lo farò piuttosto trasparire come un filo conduttore nelle mie considerazioni odierne. Vorrei però esporre prima un punto di vista del tutto astratto: noi viviamo in un tempo nel quale i pensieri della gente, i principi che vengono elaborati, estraniano quanto mai l’uomo dalla vita, in particolare dalla vita economica. Ho acquistato tale convinzione soprattutto dopo avere operato per anni in mezzo ai lavoratori proletari, come insegnante sia di materie storiche, sia di materie economiche. Ho avuto modo di conoscere la vita del proletariato moderno * principalmente grazie all’insegnamento e alle esercitazioni di libera oratoria, da me tenute per diversi anni. In tali condizioni si impara a conoscere il modo di pensare e di sentire della gente. Sapendo che oggi il problema economico dipende essenzialmente dalla necessità di far accostare il proletariato al lavoro in un modo che corrisponda alle esigenze economiche dell’umanità, ci si sentirà costretti a considerare i problemi economici proprio da questo lato umano. La mia esperienza personale mi ha mostrato che se oggi si cerca di destare nel proletariato operaio qualsiasi specie di interessi culturali, si scopre che i veri problemi economici concreti, la reale comprensione pratica della vita economica, non suscitano in fondo alcun interesse fra gli operai. Essi sono lontanissimi da qualsiasi interessamento per singoli concreti problemi economici. Nei milioni di persone che oggi fanno parte, in ogni paese, del proletariato industriale vive realmente solo una teoria economica, astratta però, che costituisce il contenuto stesso della vita del proletario. Al suo lavoro, vale a dire al vero e proprio contenuto del suo lavoro, il lavoratore proletario si sente in fondo totalmente estraneo: gli è indifferente in che cosa consista il suo lavoro. Quello che gli importa è il modo in cui viene trattato nell’azienda in cui presta la sua opera: eppure, quando parla di tale trattamento lo fa da punti di vista del tutto generici ed astratti. Lo interessa il rapporto del suo salario col ricavo dei prodotti alla cui fabbricazione egli collabora, mentre la qualità dei prodotti stessi è del tutto estranea all’ambito dei suoi interessi. Nel corso del mio insegnamento agli operai ho cercato spesso di destare in loro l’interesse per concreti aspetti della produzione e dell’azienda, ricorrendo ad argomenti storici o scientifici. Ma tutto questo esula dall’interesse del proletario in quanto tale. Quello che lo interessa è la lotta di classe o il cosiddetto plusvalore (di cui non è certo necessario spiegare qui oggi il significato). Lo interessa l’evoluzione della vita economica, in quanto egli le attribuisce le cause dell’intera storia dell’umanità; e parla in fondo di una regione teorica che si trova completamente al di fuori e al di sopra della sua attività quotidiana, e secondo la quale egli vorrebbe conformare la realtà. Possiamo affermare che la teoria che egli ritiene valida per la vita economica scaturisce a sua volta da considerazioni teoriche. La maggior parte dei proletari oggi è composta da marxisti puri, o più o meno modificati, vale a dire da seguaci di una teoria che in fondo non si occupa affatto delle condizioni della vita economica in se stessa, ma opera appunto nella direzione che ho ora caratterizzata. Questo è quanto oggi si può apprendere in vaste cerchie proletarie, frequentandole in pratica e lavorando in mezzo a loro. Tutto questo però non è altro che il riflesso del progressivo estraniamento verificatosi nel corso degli ultimi secoli fra gli interessi puramente umani e quelli della vita pratica. Vorrei dire che il progressivo complicarsi della nostra vita economica ha prodotto una specie di ottundimento, per cui non è più possibile immergersi nei singoli campi della vita economica divenuti troppo complicati con i valori morali del bene, e neppure con i valori del diritto. Quando però si parla partendo non dalla pratica della vita, bensì da punti di vista astratti e generici, allora qualunque siano le esigenze poste, o i principi enunciati, non si giunge più affatto a contatto con il lavoro quotidiano, con i compiti concreti della giornata. Queste osservazioni, scaturite dalla mia esperienza personale della vita, possono trovare conferma nei più svariati esempi tratti dalla storia. Vorrei citarne uno addirittura grottesco. Nel 1884 Bismarck, nell’esporre davanti al parlamento tedesco i principi della sua politica economica, affermò di riconoscere che ogni persona ha diritto al lavoro. Poi apostrofò a questo modo i deputati: si faccia in modo che lo Stato assicuri ad ogni uomo sano il lavoro necessario a nutrirlo, e l’assistenza a ogni persona debole o malata: vi assicuro che a queste condizioni il proletariato abbandonerà i suoi caporioni socialdemocratici e che le teorie socialiste non troveranno più nessun seguace! Queste dunque sono parole dette da Bismarck, il quale ammette sì nelle sue Memorie di avere nutrito in gioventù simpatie repubblicane, ma del quale non si può certo dubitare che sia stato un vero monarchico. Né possiamo immaginare Bismarck inneggiante al trionfo della socialdemocrazia internazionale! Ora vorrei ricordare un’altra personalità che espresse gli stessi concetti quasi con le stesse parole, pur partendo da un atteggiamento umano del tutto diverso: si tratta di Robespierre. * Nei suoi “diritti dell’uomo”, del 1792 il Robespierre enunciò pressappoco, anzi esattamente, lo stesso pensiero che Bismarck espose nel 1884 al parlamento tedesco, affermando che è dovere della comunità l’assicurare il lavoro ad ogni uomo sano e l’assistenza ai malati, agli invalidi e ai vecchi che non possono più lavorare. Affermazioni identiche, dunque, di Robespierre e di Bismarck, certo però scaturite da una base umana del tutto diversa! Ma c’è anche un’altra circostanza, non meno interessante da rilevare: nell’esporre quel suo pensiero robespierriano (che certo non aveva attinto a Robespierre!) Bismarck si richiamava al fatto che quelle esigenze si trovavano già nel diritto prussiano, fin dal 1796. Naturalmente non se ne potrà dedurre che il codice prussiano abbia accolto quelle idee di Robespierre già soli quattro anni dopo la loro enunciazione in Francia, e neppure che lo Stato prussiano abbia voluto realizzare le idee di Robespierre per quasi un secolo, prima che Bismarck enunciasse nuovamente quelle esigenze sociali nel 1884. Ecco dunque che, di fronte a questi fatti storici, si solleva la questione: come è possibile che due personalità tanto differenti tra loro quanto Robespierre e Bismarck affermino letteralmente la stessa cosa, mentre ognuno di loro aveva certo davanti a sé un ideale sociale del tutto diverso? lo non riesco a vedere la cosa altrimenti che così: quando nei tempi moderni si parla di problemi concreti della vita (divenuta complicata nel corso degli ultimi secoli), se ne parla in modo talmente astratto che in fondo noi tutti (il Bismarck da destra, il Robespierre dall’estrema sinistra) siamo d’accordo sui principi generali. Nei principi generali ci ritroviamo tutti. Nella vita però cominciamo subito a trovarci nei più estremi contrasti, appunto perché i nostri principi generali sono lontanissimi dall’attività concreta che siamo costretti a svolgere giorno per giorno. Proprio quando si tratta della pratica della vita, noi oggi non abbiamo la possibilità di applicare in concreto quello che pensiamo sul piano generale. Più astratta di tutto il resto è poi l’esigenza economica che si manifesta nella teoria proletaria, per le ragioni che ho cercato di caratterizzare. Questa è la situazione che ci si presenta oggi: essa è venuta formandosi per effetto di tutto lo sviluppo dei tempi moderni. Noi vediamo che quella parte della vita economica che conosciamo come il processo produttivo è divenuta sempre più complessa, per effetto della crescente complicazione della tecnica. Per usare un termine già diventato quasi un luogo comune, possiamo dire che la vita produttiva è diventata sempre più collettivistica. Quale può essere oggi il ruolo del singolo individuo nel processo produttivo, dato l’attuale organismo sociale? Il singolo si trova inserito in un’attività che necessariamente coinvolge anche altri; il nostro sistema produttivo è diventato talmente complicato che il singolo si trova inserito in un grande meccanismo produttivo. La sfera della produzione è diventata collettiva, ed è proprio questo ad attirare l’interesse dei proletari. Nella loro concezione economica fatalistica essi si ripromettono che il collettivismo diventi sempre più forte, che i diversi rami della produzione s’intreccino sempre più, sì che poi venga il momento in cui il proletariato internazionale stesso assumerà la funzione produttiva. I proletari vivono in questa attesa, abbandonandosi al grave errore che il collettivismo della produzione sia una necessità naturale, poiché considerano quanto è necessario nell’ambito economico quasi come una necessità naturale. Ritengono che il collettivismo vada sempre più sviluppato, e che il proletariato sia destinato ad occupare un giorno i posti occupati oggi dai produttori: ciò che è diventato collettivo dovrà allora essere amministrato collettivamente. Quanto il proletariato aderisca a tale idea, a causa del suo interesse economico, si può constatare dai tristi risultati dell’esperimento economico in corso nell’oriente europeo, dove si sta cercando di configurare l’economia in questo senso: certo, non nelle condizioni sognate dai teorici proletari, ma in quelle imposte dalla guerra. Già oggi si può constatare, e lo si vedrà sempre più chiaramente: prescindendo del tutto dai valori morali o d’altro genere, nonché dalla simpatia o antipatia che l’esperimento può ispirare, esso fallirà miseramente per effetto delle sue intrinseche forze distruttive e porterà mali indicibili all’umanità. Alla sfera della produzione si contrappone quella del consumo la quale non può mai diventare collettiva per forza propria. In questa sfera, il singolo è presente come individuo, per necessità naturale. I bisogni complessivi della sfera del consumo scaturiscono dalla personalità dell’uomo, dall’individuo umano. Perciò accanto alla collettivizzazione della produzione è rimasto inalterato l’aspetto individualistico del consumo. L’abisso fra la produzione (che tendeva al collettivismo) e gli interessi sempre più imperiosamente affermantisi del consumo, si è fatto sempre più profondo e più incolmabile. Per chi osservi la vita d’oggi senza preconcetti non è un’astrazione, ma una realtà, che i tremendi contrasti nei quali ci troviamo impigliati sono dovuti proprio allo squilibrio venuto a formarsi tra gli impulsi dominanti nella sfera produttiva e i bisogni della sfera del consumo. Certo, non è possibile percepire tutta l’infelicità che a causa di questi contrasti domina fin nel profondo delle anime umane, se non ci si è approfonditi per decenni nelle cause di tali disarmonie nei diversi campi dell’esistenza: e non solo con lo studio, ma con la pratica della vita. Il contenuto del mio libro I punti essenziali della questione sociale non è certo scaturito da considerazioni teoriche, ma da esperienze vissute che in nessun modo mi ispirarono la volontà di suggerire soluzioni utopistiche della questione sociale. Certo, ho dovuto fare l’esperienza che il pensiero dei nostri contemporanei tende involontariamente verso l’utopia. Per realizzare quel libro, io dovetti naturalmente riassumere sotto forma di pensieri generali una quantità di diversissime esperienze, mentre avrei preferito esporre esempi concreti; i giudizi generali da me espressi si possono a loro volta condensare nella formula della “triplice struttura dell’organismo sociale”. Tuttavia non potei fare a meno di esemplificare il contenuto almeno secondo certe linee generali, e spiegare il modo in cui si pensa che i problemi debbano essere affrontati. Perciò diedi alcuni esempi di come debba procedere l’evoluzione del capitalismo, o di come si possa risolvere il problema operaio, e così via. In tali casi cercai di fornire singole indicazioni concrete. In seguito partecipai a molte discussioni su quel mio libro, e sempre trovai che la gente (partendo dalla diffusa mentalità utopistica) chiedeva: ma come sarà in futuro questo o quest’altro? Prendevano le mosse dagli accenni da me fatti a diversi aspetti particolari, accenni ai quali però avevo sempre dato soltanto il valore di esempi. Nella vita concreta infatti si può sempre eseguire naturalmente anche in un modo diverso qualcosa che pur si è cercato di realizzare nel modo migliore, al fine di inserirlo nella realtà. La realtà non è tale che un’unica concezione teorica le si possa applicare. È naturale che ogni cosa può essere fatta in modi diversi. L’utopista invece vorrebbe che ogni cosa si potesse caratterizzare in formule rigide, fin nei minimi particolari. Accadde così che quei miei punti essenziali della questione sociale siano stati interpretati in senso utopistico proprio dagli altri. Sono stati spesso trasformati in utopie, mentre in essi non vi era la minima intenzione utopistica: sono infatti scaturiti dall’osservazione del collettivismo che è venuto affermandosi nel processo della produzione: dall’osservazione che da parte della produzione si presenta una certa tendenza obbligata a finire nel collettivismo, mentre d’altra parte ogni capacità produttiva dipende a sua volta dalle facoltà dell’individuo umano. Proprio dall’osservazione del moderno processo produttivo risalta cioè con tremenda intensità che l’impulso fondamentale che deve stare a base di ogni produzione, cioè la capacità personale, viene in certo modo assorbito dal collettivismo che è scaturito dalle forze economiche stesse e che continua ad imporsi sempre più. Da un lato ci si imbatte nelle tendenze insite nella vita economica stessa, e dall’altro nell’esigenza altrettanto naturale di valorizzare proprio nella vita economica le forze individuali della singola personalità umana. Sorge così il dovere di riflettere sull’organismo sociale in modo da chiedersi come l’esplicazione delle capacità individuali (esigenza fondamentale del progresso economico) possa sussistere entro il processo produttivo che si fa sempre più complicato per il solo effetto delle condizioni tecniche. Da un lato dunque ci si presentano vivissimi i problemi del processo economico reale e le esigenze che necessariamente si debbono porre alla vita economica perché questa possa prosperare. D’altra parte tutto ciò che oggi va sotto il nome della questione sociale, in pratica non scaturisce affatto dagli interessi della produzione. Il fatto che nella sfera produttiva si tenda al collettivismo dipende in fondo dalle possibilità e dalle necessità tecniche della vita economica. Quella che di solito viene chiamata la questione sociale è impostata esclusivamente sopra interessi della sfera del consumo, i quali alla loro volta non possono fondarsi che sulla individualità umana. Anche se in apparenza accade qualcosa di diverso, ne risulta il fatto strano che l’appello alla socializzazione risuona per tutto il mondo partendo da interessi dei consumatori. Si può constatarlo anche seguendo praticamente le discussioni e la vita h genere. Io ho potuto constatarlo nelle discussioni che seguivano le conferenze da me tenute su tali argomenti, a partire dall’aprile del 1919. * Coloro che partecipano praticamente alla vita economica in qualità di produttori, o imprenditori, accettano con una certa antipatia la discussione della cosiddetta questione sociale, quale viene predicata oggi partendo dagli interessi del consumatore. Invece è evidente che ogni volta che si leva l’appello al socialismo, si tratta sempre solo degli interessi del consumatore; quindi proprio negli ideali del socialismo si esprime un impulso di volontà dell’individualismo! In fondo, tutti quelli che aspirano al socialismo lo fanno mossi da emozioni assolutamente individuali. L’aspirazione al socialismo in fondo non è altro che una teoria aleggiante al di sopra delle emozioni individuali. D’altra parte però, a un’osservazione seria di quello che da secoli è venuto sviluppandosi sempre più nella vita economica, risulta anche l’importanza rilevante di ciò che nella scienza economica si esprime come divisione del lavoro. Io sono convinto che sulla divisione del lavoro sono state dette e scritte moltissime cose intelligenti, ma non credo che ne sia mai stata riconosciuta a pieno l’importanza per la vita economica, fino alle sue ultime conseguenze. Non lo credo, perché altrimenti si dovrebbe riconoscere che, in fondo, dal principio della suddivisione del lavoro scaturisce di necessità la conseguenza che in un organismo sociale in cui quel principio domini in pieno nessuno è più in grado di produrre qualcosa per se stesso. Oggi possiamo ancora vedere gli ultimi resti della produzione autonoma, soprattutto nelle aziende agricole di piccole dimensioni: qui il produttore trattiene in sostanza la parte necessaria al consumo suo e della sua famiglia. E quale conseguenza nasce dal fatto che quel contadino possa ancora provvedere al proprio bisogno? Ne risulta che egli in fondo produce in modo del tutto sbagliato, nel contesto di un organismo sociale che per tutto il resto si fonda sulla divisione del lavoro. Chiunque oggi confezioni un abito per se stesso, o si rifornisca da sé degli alimenti prodotti sulla sua terra, in fondo si rifornisce in modo troppo costoso; siccome regna la divisione del lavoro, ogni prodotto viene infatti a costare meno di quando lo si produce per se stessi. Basta riflettere su questa realtà per doverne trarre la conseguenza che in fondo oggi nessuno può produrre in modo che il suo lavoro venga a fluire nel prodotto finito. Eppure ci troviamo di fronte al fatto singolare che per esempio Karl Marx considera il prodotto come “lavoro cristallizzato”. Invece le cose oggi non stanno affatto così: il valore del prodotto dipende oggi in misura minima dal lavoro; del resto nella vita economica il prodotto conta proprio solo per il suo valore. Il prodotto è determinato dalla sua utilizzabilità pratica, vale a dire dall’interesse del consumatore, dalla sua utilizzabilità nel sistema sociale fondato sulla divisione del lavoro. Tutto ciò contribuisce a porre i grandi problemi attuali nell’ambito economico, e da tali problemi mi è risultato che nel momento presente dell’evoluzione umana ci troviamo di fronte alla necessità di configurare l’organismo sociale in modo che esso metta sempre più chiaramente in luce i suoi tre elementi costitutivi naturali. Uno di questi tre elementi va senz’altro riconosciuto nella vita dello spirito, fondata essenzialmente sulle capacità dell’uomo. Nel parlare della triplice struttura dell’organismo sociale, io non assegno alla sfera spirituale soltanto la più o meno astratta vita dello spirito, bensì tutto quello che si basa sulle capacità spirituali o fisiche dell’uomo. Se non sottolineassi esplicitamente questo criterio, si potrebbero fraintendere completamente i confini della vita spirituale entro l’organismo sociale. Anche chi esegue soltanto un’attività manuale ha bisogno di una certa abilità per tale compito; gli occorrono anche varie altre qualità, per cui non è lecito assegnare sotto questo aspetto il singolo solo alla sfera economica: bisogna invece inserirlo anche in quella dello spirito.Il secondo ambito dell’organismo sociale è quello puramente economico: qui si ha a che fare con la produzione, con il consumo e con la circolazione fra produzione e consumo. Ciò però significa in sostanza che nella sfera puramente economica abbiamo a che fare soltanto con la circolazione dei beni prodotti: circolando, essi diventano merce, e si tratta quindi della circolazione di merci. In quanto viene usato nell’organismo sociale, un bene acquista un certo valore che si esprime poi nel suo prezzo; in questo senso quel bene diventa una merce. Da tale rapporto deriva poi qualcosa d’altro. Naturalmente io non posso qui esporre le cose che nelle loro linee generali, altrimenti l’esposizione diventerebbe assai troppo lunga. Ne risulta dunque che tutto ciò che è merce può assumere un reale valore oggettivo non solo nelle connessioni della vita economica, ma anche nella vita sociale complessiva. Semplicemente per il fatto di avere un certo significato nella sfera del consumo, un prodotto acquista un determinato valore che possiede senz’altro un significato oggettivo. Ora però debbo spiegare che cosa intendo dire con queste parole. Parlando di “significato oggettivo” non intendo affermare che il valore di una merce (del quale sto ora parlando) si possa determinare direttamente con metodi statistici o simili. Le condizioni che contribuiscono a determinare il valore di una merce sono troppo complesse e numerose perché questo sia possibile. Ma ogni merce ha un suo ben determinato valore, prescindendo da quanto si sia in grado di conoscerne le condizioni. Se una certa merce ha sul mercato un determinato prezzo, questo può essere troppo alto o troppo basso, in confronto al vero valore oggettivo, o può anche corrispondergli. Come però il prezzo non serve a conoscere il valore reale (perché potrebbe risultare falsato da molti fattori estrinseci), così d’altra parte si potrebbe indicare il valore oggettivo di una merce, se fossimo in condizione di indicare le innumerevoli condizioni particolari che influiscono sulla produzione e sul consumo. Da ciò deriva che la merce si trova inserita nella vita economica in un modo del tutto particolare. Infatti, quello che io chiamo ora il valore economico oggettivo può essere applicato soltanto alla merce: non si può invece applicarlo ad altre cose che oggi sono presenti nella nostra vita economica in modo simile alla merce. Non si può applicarlo né ai terreni, né al capitale. Non vorrei essere frainteso. Io non mi esprimerò certo mai sul capitalismo nei termini che oggi vengono usati tanto spesso, e che non sono che luoghi comuni. È così evidente che non occorre neppure spiegarlo, che nella vita economica moderna non si può realizzare nulla senza capitali, e che il lanciar fulmini contro il capitalismo è, puro dilettantismo economico. Quello che adesso debbo dire sul capitale e sulla proprietà terriera non ha dunque nulla a che fare con i luoghi comuni oggi tanto diffusi: si tratta di qualcosa d’altro. Di qualsiasi merce si può indicare se il suo prezzo sia superiore o inferiore a una certa media oggettivamente esistente e realmente giusta, anche se non è così senz’altro definibile; non è invece possibile indicarlo per altre cose, che oggi vengono trattate come fossero merci. Il prezzo dei terreni, il loro valore è oggi effettivamente soggetto alla speculazione, cioè ad altri impulsi sociali. Nel caso dei terreni non vi è una necessità economica di fissarne il prezzo o il valore. Infatti, una volta prodotta, una merce (prescindendo dalla sua qualità, migliore o peggiore) è in grado di stabilire da sé il proprio valore oggettivo, a seconda del modo e del grado in cui ne esista il bisogno. Non lo si può affermare né dei terreni, né del capitale. Nel loro caso il valore e il modo stesso in cui si inseriscono nell’intero contesto sociale ed economico dipende veramente dalle capacità umane; e queste non sono mai qualcosa di finito. Se io ho da amministrare un terreno o un altro bene immobile, potrò farlo solo secondo le mie capacità: quindi il suo valore è molto variabile. Lo stesso vale per un capitale che si debba amministrare. Se si studia in pratica questa realtà in tutto il suo significato, si dovrà riconoscere l’esistenza di tale differenza fra una merce qualsiasi, da un lato, e un terreno o un capitale, dall’altro. Ne risulta che certi fenomeni della vita economica, che chiaramente si manifestano come sintomi morbosi dell’organismo sociale, debbono essere collegati con gli effetti di una certa realtà della sfera economica. Alludo al fatto che si applica la stessa unità di misura, cioè il denaro, a cose tra loro del tutto incommensurabili: si confondono cioè e si scambiano tra loro (passando per il denaro), si fanno interagire fra loro cose che per la loro natura intrinseca sono del tutto diverse, e che pertanto dovrebbero essere trattate in modo diverso anche nella vita economica. Si dovrà poi studiare in pratica in che modo sia penetrata nel nostro organismo sociale quell’identità di trattamento, cioè il fatto di pagare con lo stesso denaro le merci (vale a dire dei beni di consumo) e i terreni, nonché il capitale che, come sa chiunque conosca un po’ la vita economica, è diventato anch’esso oggetto di commercio. Chiedendosi l’origine storica di questo comportamento, si scopre che nell’organismo sociale operano oggi disorganicamente tre diverse sfere della vita, derivate in fondo da radici del tutto differenti, e il cui nesso entro la vita sociale dipende esclusivamente dal singolo individuo umano. Si tratta prima di tutto della sfera dello spirito, nella quale si esplicano le capacità umane, quelle capacità che l’uomo propriamente porta sulla Terra da altri mondi: esse sono in lui predisposte, dipendono da ciò che egli sa imparare in base alle proprie disposizioni individuali, le quali si esplicheranno tanto più intensamente, quanto più la singola individualità umana potrà affermarsi nella vita sociale. Si potrà essere materialisti o di qualunque altra opinione, ma si dovrà pur riconoscere che tutto ciò che si esplica in questo campo l’uomo lo porta con sé nascendo in questo mondo: dall’abilità fisica del lavoratore manuale, fino alle più alte manifestazioni del genio inventivo, si tratta di qualcosa che per dare i suoi frutti deve essere affidato alla singola individualità umana. Diversamente stanno le cose nel campo della vita economica: vorrei metterlo in evidenza citando un fatto. È noto che nel secolo scorso, a un certo momento, fu proclamato l’ideale della valuta aurea unitaria. Se si esamina ciò che allora è stato detto da uomini d’affari, da economisti, da parlamentari si trovano affermazioni assai intelligenti (e lo dico senza alcuna ironia). Può capitare di rimanere profondamente impressionati, leggendo ciò che, sul tema della valuta aurea e dei suoi benefici, si è detto nei parlamenti, nelle Camere di commercio, o in altre istituzioni. Una di tali affermazioni, fatta proprio da alcune delle persone più importanti, è quella che con la valuta aurea dovrà fiorire dappertutto il libero commercio (tanto benefico per l’economia), mentre i confini politici (tanto dannosi per l’economia) perderanno la loro importanza. E quanto sono acuti gli argomenti, le ragioni, le dimostrazioni portate a favore di queste affermazioni! Che cosa è poi accaduto nella realtà? È accaduto che proprio nei campi in cui ci si aspettava dalla valuta aurea l’effetto di far cadere le barriere economiche, queste si sono dimostrate necessarie, o almeno molti le hanno dichiarate necessarie. Dalla vita economica reale è cioè risultato il contrario di quanto era stato preveduto dalle persone più intelligenti. Si tratta qui di un fatto storico molto importante, non molto lontano da noi nel tempo, e del quale occorre soltanto trarre le necessarie conseguenze. Quali conseguenze? Sono quelle che risultano ogni volta che si esamini oggettivamente la pratica economica reale: nella sfera economica (che consta della produzione, della circolazione e del consumo di merci) l’intelligenza del singolo non serve proprio a niente: mi sia consentita questa affermazione paradossale che io ritengo esprimere una verità. Per quanto si sia intelligenti, per quanto acute siano le considerazioni svolte sui problemi economici, per quanto convincenti risultino le prove addotte, nella vita economica esse non si avvereranno mai. Perché? Perché la vita economica non può affatto venire afferrata dalla riflessione del singolo: l’esperienza economica, la conoscenza economica potrà pervenire a giudizi validi solamente grazie all’accordo fra persone impegnate in modi diversi nella vita economica. Il singolo non può mai acquistare un giudizio effettivo sul modo di gestire l’economia, neppure con metodi statistici; vi si potrà pervenire solo grazie all’accordo, diciamo, fra produttori e consumatori, riuniti in appositi sodalizi, nei quali gli uni esporranno agli altri i bisogni del consumo, gli altri le possibilità della produzione. Un giudizio valido per la vita economica potrà scaturire solo da un giudizio collettivo, scaturito da comunità costituite nell’ambito della vita economica. A questo punto la conoscenza economica sfiora i confini di quella che vorrei chiamare la psicologia economica. La vita, infatti, è qualcosa di unitario, e se si vuol parlare veramente della vita pratica, non si può per l’appunto fare a meno delle anime della gente! Si tratta dunque di questo: un giudizio economico reale può nascere solo dall’accordo fra coloro che sono attivi nell’ambito economico, solo dalle conoscenze parziali, specifiche, acquistate dai singoli nei rispettivi campi d’azione, e che possono portare a giudizi adeguati soltanto armonizzandosi vicendevolmente. Nella vita economica soltanto la reciproca spiegazione può condurre a giudizi validi. Con ciò si delineano però due sfere della vita umana radicalmente diverse fra loro: questa diversità risulterà tanto più evidente, quanto più pratico sarà il modo di considerare la vita. Nell’ambito della produzione sono necessarie certe conoscenze tecniche e certe capacità umane: qui si fa dunque appello proprio all’individuo umano. Invece tutto quel che accade alla merce, ai beni ormai prodotti, è sottoposto al giudizio collettivo. Fra queste.due sfere se ne trova una terza; in essa l’individuo singolo non si trova inserito al fine di esplicare le proprie facoltà (portate con sé dalla nascita), e neppure può associarsi con altri, al fine di armonizzare col loro il proprio giudizio economico, e pervenire a un giudizio collettivo valido per la valutazione pratica della vita economica. In quella terza sfera l’individuo si trova di fronte al suo prossimo in un rapporto puramente umano, da uomo a uomo. Questo rapporto racchiude tutti gli altri nei quali ogni persona viene a trovarsi nei confronti di ogni altra: non in quanto impegnato nella sfera economica, e neppure dal punto di vista delle facoltà personali innate, ma in funzione dei suoi diritti e dei suoi doveri entro l’organismo sociale. Questo costituisce la terza sfera dell’organismo sociale. Potrebbe forse sembrare che queste tre sfere siano state escogitate artificiosamente, ma non lo sono affatto. Sembra che non siano ricavate dall’esperienza pratica, e invece lo sono proprio! Infatti i loro caratteri specifici sono direttamente attivi nella pratica della vita. Quando questi tre ambiti dell’organismo sociale interagiscono in modo sbagliato, esso ne riporta certi danni. Nei miei punti essenziali della questione sociale ho esposto un’analogia con l’organismo umano: e non l’ho fatto certo per dimostrare qualcosa, poiché so bene che con le analogie non si dimostra nulla, ma vi sono ricorso per chiarire il mio pensiero. L’organismo umano costituisce certo un’unità, ma analizzandone a fondo la fisiologia, si scopre che esso sì fonda sopra una triplice struttura. Nell’organismo umano si distingue chiaramente il sistema neuro-­‐sensoriale, che pur compenetrando l’uomo intero, si trova localizzato principalmente nel capo. Un secondo organismo, relativamente autonomo, è poi quello del ritmo, che si esplica nelle funzioni della respirazione e della circolazione. Abbiamo poi come terzo l’organismo del ricambio e degli arti: esso comprende le funzioni metaboliche interne, nonché il ricambio muscolare, quale si esplica nell’attività umana che ha inizio appunto con movimenti degli arti. Come si è detto, l’uomo rappresenta una unità, ma lo è proprio perché quei tre sistemi relativamente autonomi interagiscono fra loro in modo armonico. Se al posto di tale cooperazione organica si volesse instaurare nell’uomo una astratta “unità”, questo sarebbe un desiderio sciocco. Ognuno dei tre sistemi si apre a suo modo verso il mondo esterno.In relativa autonomia: i sensi, gli accessi al sistema respiratorio e quelli dedicati all’alimentazione. Proprio grazie a tale relativa autonomia i tre sistemi collaborano in modo organico e armonico: ciascuno di essi sviluppa la sua forza specifica, e così nasce qualcosa di unitario. So perfettamente che con le analogie non si dimostra niente: io però non intendo qui dimostrare, ma solo spiegare. Infatti, è possibile osservare l’organismo sociale con la stessa oggettività con cui questa fisiologia descrive la triplice struttura dell’organismo umano. Si scoprirà allora che per le sue qualità essenziali, l’organismo sociale esige una posizione relativamente autonoma della sfera economica, di quella politico-­‐giuridica, e di quella spirituale, delimitate nel modo che ho accennato. A questa triplice strutturazione dell’organismo sociale è stato spesso obiettato che in fondo tale separazione non può mai aver luogo, perché ad esempio i rapporti giuridici interferiscono continuamente nella sfera economica, e così pure le facoltà spirituali, e quindi sarebbe assurdo il voler realizzare nell’organismo sociale tale triplice struttura. Anche nell’organismo umano però i tre sistemi collaborano a realizzare una unità, proprio esplicando ciascuno di essi le loro qualità specifiche: così il sistema neuro-­‐sensoriale ha, le sue esigenze nutritizie e i suoi processi nutritizi, e a sua volta esso ha importanza anche per l’organismo preposto al ricambio. A una sana fisiologia risulta tuttavia che i tre sistemi sono dotati di una relativa autonomia. Una sana fisiologia sociale mostrerà similmente che le tre sfere indicate potranno collaborare unitariamente nel modo migliore, proprio se saranno poste in grado di esplicare le loro qualità essenziali in relativa autonomia: la sfera spirituale; quella in cui ogni uomo sta di fronte al suo prossimo semplicemente come essere umano, vale a dire la sfera giuridico-­‐
statuale-­‐politica; e la sfera economica, nella quale si dovrà procedere ad associarsi in comunità, nel senso sopra accennato. Non si tratta qui affatto di una riesumazione dell’antica suddivisione platonica nelle tre classi dei mercanti, dei guerrieri e dei filosofi. Le condizioni moderne non consentono certo una simile suddivisione: parlando di una triplice strutturazione dell’organismo sociale, si intende solamente parlare di una diversificata amministrazione e configurazione delle tre sfere indicate. L’ambito spirituale dovrà essere amministrato esclusivamente in base ai suoi fondamenti. Per esempio dovranno essere gli insegnanti stessi ad amministrare le scuole, in modo da evitare che operi separatamente, da un lato la scienza didattico-­‐pedagogica, e dall’altro intervenga con le sue disposizioni l’organismo politico. L’intera amministrazione della sfera culturale-­‐spirituale dovrà scaturire direttamente dall’ambito spirituale, cioè dalla scienza didattico-­‐pedagogica. Nella sfera politico-­‐statuale i competenti organi amministrativi e costituzionali opereranno in base agli accordi che via via saranno presi fra le singole personalità umane. (Contratti.) Per le ragioni che ho già svolte qui oggi, nell’ambito economico si dovranno invece formare delle associazioni, costituite da uomini in quanto soggetti dell’economia. Quale sarà il compito principale di tali associazioni, nell’ambito economico? Proprio nella configurazione di questi compiti si metterà in evidenza il carattere specifico di quanto ho svolto nel mio libro I punti essenziali della questione sociale. In nessun punto di quel libro sono indicati i modi in cui dovrebbero formarsi istituzioni sociali, né vengono preconizzate le soluzioni migliori. Un tale procedimento sarebbe secondo me già prossimo all’utopia. Chi infatti conosce la vita moderna, sa che, anche elaborando le teorie più brillanti, la pratica ne ricava ben poco vantaggio. Personalmente sono persuaso che mettendo insieme una dozzina di persone (o poco più, o anche poco meno!) non particolarmente intelligenti, si possono escogitare dei bellissimi programmi, diciamo per esempio sull’organizzazione delle scuole elementari: programmi che, con i loro punti primo, secondo, terzo, e così via sembreranno anche eccellenti. Nascerebbe addirittura una scuola ideale, se quei punti si realizzassero tutti. Ma la cosa non può affatto realizzarsi, perché anche se si elaborano strutture ideali, la loro realizzazione dipende da condizioni del tutto differenti. Con la Scuola Waldorf di Stoccarda noi abbiamo cercato di inaugurare, nella misura in cui risulta possibile oggi, qualcosa che non si fonda affatto su programmi, ma che scaturisce direttamente dalla pedagogia, dalla didattica. La Libera Scuola Waldorf ha un certo numero di insegnanti i quali certo potrebbero riunirsi al fine di escogitare dei programmi scolastici ideali (ma io non li loderei certo, se lo facessero!). Questa occupazione ci viene risparmiata; nel corpo insegnante sono però presenti esseri umani viventi che hanno il compito di sviluppare il meglio di loro stessi. Nessun programma ideale viene preso in considerazione, qualsiasi prescrizione è esclusa: ogni cosa è affidata all’impulso diretto della capacità individuale. Nessuna prescrizione intralcia il lavoro di chi deve intervenire attivamente in quel campo della vita spirituale, partendo dalla pedagogia e dalla didattica stesse, vale a dire dalle sue capacità personali. Naturalmente oggi cose di questo genere si possono realizzare solo fino a un certo grado. Nella vita pratica non è mai possibile realizzare un certo ideale: bisogna fare quello che consentono le circostanze. In modo analogo si procede anche per i rimanenti campi, partendo dai miei punti essenziali: in nessun campo si cerca di mostrare come debbano realizzarsi le diverse disposizioni. Le considerazioni svolte in quel libro non hanno il significato di esigenze, o di ideali, ma sono la descrizione di quello che l’uomo vuole nella fase attuale della sua storia. Viene messo in evidenza che gli uomini (sebbene siano come appunto sono!), se messi al loro giusto posto, potrebbero operare in modo diverso da come agiscono oggi. Perciò io non do disposizioni sul modo di realizzare le diverse istituzioni, ma mi rivolgo direttamente agli uomini, rilevando che se essi collaborano nel giusto modo e trovano i giusti punti di vista, dai quali affrontare il problema sociale, potrà nascere il meglio di quanto è possibile. Sono appunto convinto che la migliore cornice per la strutturazione dell’organismo sociale sia quella che prende le mosse dall’uomo stesso: ogni singolo individuo dovrebbe poter deliberare, agire e operare in tre separate sfere, nella sfera spirituale, in quella giuridico-­‐
politica e in quella economica. L’organismo sociale non è organizzato in ceti, per cui ogni individuo può anche essere presente fra i rappresentanti di tutte e tre le sfere (se possiede la forza necessaria!). Ciò che importa non è che un certo individuo sia attivo in uno dei tre ambiti, piuttosto che in un altro. Quel che importa è che tutte e tre le sfere vengano amministrate oggettivamente, in modo autonomo, fondandosi sulle loro esigenze fondamentali; il singolo individuo potrà essere presente in tutte e tre, o in due, o in una sola, purché operi partendo dai principi propri di ciascuna sfera. Procedendo in questo modo si manifesterà proprio l’armonia dei tre ambiti: e si vedrà che in questa triplice strutturazione l’essenziale è proprio l’unità che ne scaturisce, e non la separazione, come erroneamente è stato rilevato dai critici. In particolare, nella sfera economica le soluzioni dei diversi problemi non debbono essere trovate mediante accertamenti, per esempio con lo studio statistico, bensì partendo dalla vita reale e concreta. Mi richiamerò a un esempio. Tutti sanno che il prezzo di un dato articolo, di una merce diventa troppo basso sul mercato, se un numero eccessivo di persone lo producono, cioè quando se ne produce in eccesso; e similmente il prezzo di una merce aumenta troppo, se essa viene prodotta da un numero insufficiente di persone. Questa constatazione ovvia ci consente di scoprire dove si trovi quella media oggettiva, di cui ho parlato. Questo valore medio oggettivo, questo prezzo “oggettivo” non può venire fissato come tale. Se però verranno istituite delle associazioni il cui compito sia la conoscenza pratica della vita economica, la sua osservazione pratica continua, uno dei suoi problemi principali sarà l’analisi continua dell’andamento dei prezzi. Di conseguenza si potrà ottenere mediante trattative che un numero sufficiente di persone si dedichino a un determinato ramo della produzione. Questo non è un dato che si possa stabilire su base teorica, ma soltanto ponendo le persone ai posti loro spettanti nella società, soltanto affrontando questi problemi partendo dall’esperienza umana diretta. Non si può affatto dire quale sia il “valore oggettivo” di una merce. Se però ci saranno associazioni operanti nella vita economica, col compito, tra l’altro, di scoraggiare certe aziende da un’eccessiva produzione di una data merce, e di incoraggiare invece altri rami di produzione, allora si troverà un numero adeguato di persone che si dedicheranno ai diversi rami della produzione. Ciò potrà realizzarsi solo mediante un’effettiva organizzazione associativa; e in tali condizioni il prezzo delle diverse merci si avvicinerà al “prezzo oggettivo”. Non si può mai affermare che il “prezzo oggettivo” debba essere questo o quest’altro, in base a queste o queste altre condizioni. Si può invece affermare che il giusto prezzo si formerà grazie ad associazioni adeguate, il cui lavoro si rivolga concretamente alla vita dell’organismo sociale. Non si tratta di dare delle direttive sulle istituzioni necessarie a una retta gestione della società; si tratta invece di avviare una cooperazione fra gli uomini, tale che dalla loro associazione possa scaturire gradualmente la soluzione dei problemi sociali. Una giusta comprensione del problema sociale non consente di considerarlo suscettibile di una qualsiasi soluzione utopistica: la questione sociale è infatti il frutto della collaborazione moderna, e si farà sempre più acuta nell’avvenire. È necessario che la gente impari a seguire le correnti sociali dal punto di vista economico, e che la vita economica venga avviata sui suoi giusti binari, grazie ad associazioni che sole possono produrre un giudizio economico valido: e la giusta direzione non verrà conseguita mediante leggi, ma appunto partendo dalla vita concreta, mediante trattative dirette fra gli uomini. La vita sociale va posta in modo pratico su basi umane. I punti essenziali della questione sociale non si propongono dunque di descrivere una struttura sociale, ma piuttosto di mostrare che occorre creare un rapporto fra gli uomini, tale che essi collaborino nei diversi momenti affinché la questione sociale venga affrontata nel giusto modo, e non “risolta” come talora ci si illude di poter fare. Già da questa impostazione si vede che quelle “associazioni” dovranno occuparsi principalmente della vera vita economica. In questa sfera ha luogo la circolazione di merci: perciò le associazioni dovranno soprattutto identificare nell’immediata realtà della vita la tendenza che condurrà al giusto prezzo, sì che ciascuno possa effettivamente acquistare ciò che gli occorre per sostentarsi, come frutto di ciò che egli stesso produce. Ho cercato una volta di coniare una formula che esprime le caratteristiche di quel “giusto prezzo”: naturalmente non si intende affatto di determinarlo in modo astratto. Come ho accennato, esso va determinato partendo dalla vita reale, e l’ho espresso nel modo seguente: il “giusto prezzo” di un prodotto qualsiasi, cioè di una merce, è quello che consente all’uomo di soddisfare tutti i bisogni propri e della sua famiglia per il tempo necessario a produrre un’altra volta quello stesso prodotto. Questa però non vuol essere un’enunciazione dogmatica; io non affermo che si debba realizzarla, perché non sarebbe possibile: tali teorie non si possono tradurre in realtà. Io dico soltanto che è in quella direzione che si muoverà la determinazione del giusto prezzo, quale risulterà alla sopraccennata collaborazione associativa: indico soltanto un risultato, non intendo enunciare un dogma economico. È mio convincimento che il pensiero economico moderno vada posto su fondamenta umane; occorre riconoscere che deve essere sempre l’uomo il motore della vita economica. Non bisogna pensare a fondare un organismo sociale su mere teorie, ma bisogna al contrario cercare di scoprire come debba configurarsi la convivenza umana affinché ne nasca la giusta organizzazione economica. Vorrei ancora chiarire questa mia convinzione con un’analogia. Nel campo della natura certe premesse, certe condizioni create dall’uomo scaturiscono sì da una sensazione umana elementare, ma non contribuiscono a fissare degli effetti che si esplichino nella vita sociale. Si è parlato infatti di recente della possibilità di influenzare lo sviluppo embrionale umano, nel senso di poter predeterminare il sesso dei nascituro. Ora, io non mi propongo certo di trattare qui oggi teoricamente questo problema: ritengo però che sia una fortuna che questo problema non venga del tutto risolto in pratica, poiché anche se non è possibile stabilire in astratto quale sia la percentuale ottimale della distribuzione dei due sessi nel mondo, essa si realizza tuttavia approssimativamente, senza che l’uomo possa intervenire in proposito. Esistono infatti leggi oggettive che si realizzano quando l’uomo si comporta in modo corrispondente ai suoi impulsi elementari, partendo da premesse del tutto diverse. Analogamente se quelle associazioni opereranno in modo adeguato, fondandosi sulle conoscenze della vita, senza nessuna presunzione dogmatica su come determinare quel “giusto prezzo”, esso si formerà proprio per effetto dell’attività associativa. Parlo di “attività associativa” in quanto l’individualità umana dovrà essere salvaguardata nell’associarsi: le forze dell’uno dovranno cioè unirsi alle forze dell’altro, senza perdita dell’individualità, come invece accade nei consorzi, nelle cooperative. Ecco dunque l’atteggiamento che secondo me porta a un pensiero economico reale, e non dogmatico. Si possono poi attribuire a quelle associazioni anche altri compiti. Ricorrendo ancora una volta all’analogia con l’organismo umano, possiamo rilevare dalla comparsa di questo o quel sintomo che l’organismo umano è ammalato. Da un certo complesso di sintomi è possibile ricavare una conoscenza del processo morboso stesso. Lo stesso vale per l’organismo sociale nel quale oggi si rilevano chiari segni di malattia. Ora, le associazioni rappresentano il fattore curativo: esse agiscono nel senso di armonizzare i diversi interessi, per esempio quelli dei produttori con quelli dei consumatori; la collaborazione in seno alle associazioni contribuirà soprattutto ad armonizzare gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei prestatori d’opera. Noi oggi constatiamo che da un organismo economico malato scaturisce il contrario della vita associativa: vi si manifestano la resistenza passiva, lo sciopero, la serrata, il sabotaggio, e perfino le rivolte. Nessuno che pensi in modo sano può negare che tutto questo agisca nel senso opposto al principio associativo, e che rappresenti i sintomi patologici dell’organismo sociale, che andrebbero combattuti con istituzioni armonizzanti. A questo fine occorre però una configurazione veramente sensata dell’organismo sociale, come ci si presenta saviamente funzionante l’organismo umano naturale, nella sua triplice struttura. Qui torno a menzionare il punto che ho già messo in rilievo, cioè che né i terreni, né il capitale sono assimilabili alle merci, in quanto il loro valore è condizionato dalle facoltà dell’uomo. In una struttura astrattamente unitaria (come quella della società moderna, che però mostra anche i sintomi patologici prima elencati, e altri ancora) si è finito invece per valutare come una merce anche i terreni, il capitale, e da ultimo perfino il lavoro. In un organismo sociale strutturato nelle tre sfere descritte, nell’ambito della vita spirituale agisce l’individualità, con le sue peculiari forze. Perciò tutto quello che nella vita economica deve trovarsi congiunto con l’esplicazione dell’individualità, e che pertanto sta in rapporto con i terreni e col capitale, dovrebbe razionalmente essere inserito nella parte spirituale dell’organismo sociale. Questa è la ragione per la quale io ho descritto appunto come l’amministrazione del capitale e quella dei terreni debba svolgersi nella parte spirituale dell’organismo sociale. Certi critici affermano che io separo artificiosamente quelle tre sfere, ma non prestano attenzione al fatto che, purché ogni essere umano si trovi al posto che gli spetta, l’organismo spirituale (fondato appunto sulla forza dell’individuo) assume da se stesso l’amministrazione dei terreni e del capitale. Invece ciò che entro l’organismo sociale si presenta come “lavoro” è una prestazione che l’uomo fornisce al suo prossimo: è cioè qualcosa che non potrà mai prosperare rimanendo inserito esclusivamente nell’ambito economico. Perciò la regolamentazione del lavoro spetta allo stato di diritto, all’ambito politico. Qualcosa di estremamente importante nascerà proprio se la durata e le modalità del lavoro verranno regolate dalle condizioni esistenti fra uomo e uomo, prescindendo dai contratti economici che saranno invece conclusi dalle associazioni, nella sfera economica. La vita economica verrà posta su basi sane, inserita come sarà fra la natura, con le sue esigenze, e l’uomo con le sue. Sarebbe sicuramente molto strano se noi oggi ci riunissimo in un comitato ristretto, per stabilire quanti giorni di pioggia dovranno esserci nel prossimo anno affinché l’economia si sviluppi favorevolmente! La natura va presa come è, e la vita economica può venire edificata solo sulla base della natura, accettata quale è. Questo, da un lato. Nell’organismo sociale dotato della sua triplice struttura, alla vita economica caratterizzata da associazioni relativamente autonome (fino alla configurazione della realtà monetaria), si contrappone l’uomo: egli sta di fronte al suo prossimo, non come soggetto economico, ma proprio come essere umano, e in quanto tale elabora le leggi del lavoro. A questo punto il lavoro non verrà determinato in base a ragioni economiche, che servono solo per determinare i prezzi delle merci, i reciproci rapporti di valore delle merci, vale a dire soltanto entità economiche: il lavoro umano non si può determinare in base a criteri economici, come non si può determinare su questa base la produttività della natura. Solo a queste condizioni però si sarà posta la vita economica tanto su basi prettamente umane, quanto su basi prettamente naturali. In questo modo non si sarà certo realizzata una utopia. Quale sarebbe l’utilità di proporsi di configurare l’uomo meglio di come lo è per sua natura? Non possiamo che studiarlo così com’è! Similmente possiamo dire che sarebbe una bellissima cosa parlare di un mondo futuro, nel quale le cose per l’uomo vadano nel modo migliore possibile: sarebbe una cosa bellissima, ma inutile, perché si possono escogitare le condizioni più diverse per configurare l’organismo sociale. Non è questo però il modo di porre il problema; l’unico modo è di chiedersi come l’organismo sociale possa sussistere. In che modo possano cooperare le sue singole parti, affinché esso diventi non già il migliore, ma quello possibile in base alle sue forze; quello che sappia svilupparsi nel modo più sano possibile, col minor numero possibile di sintomi morbosi. Proprio se si avrà la volontà di raggiungere a poco a poco una conoscenza vera delle condizioni vitali della società, io ritengo che si arriverà ad accordarsi sul problema cardinale della vita economica: quel problema che non ho cessato di mettere in evidenza in ogni occasione e che non intendo affatto definire come una formula astratta e dogmatica. Le terribili lotte che sconvolgono oggi la vita economica nascono però perché non la si studia con la stessa buona volontà con cui si studia invece l’organismo naturale: non si osservano le condizioni insite nell’organismo sociale. Solo quando si procederà nei confronti dell’organismo sociale in modo simile a come si procede nella biologia, nella fisiologia e nella terapeutica, si riconosceranno le possibilità esistenti: solo allora potranno venir posti in modo corretto i problemi che oggi si chiamano sociali. Essi verranno allora riportati al loro fondamento umano. Perciò a me sembra la cosa più importante che molte menti e molti cuori si convincano di questa comprensione conforme a natura dell’organismo sociale: che essi si aprano ad una comprensione dell’organismo sociale secondo i criteri di sanità e di malattia, come la scienza cerca di farlo nei riguardi dell’organismo umano. Credo proprio che, anche nei confronti del problema cardinale della vita economica, si debba riconoscere che l’introduzione nell’organismo sociale della triplice struttura che distingue la sfera puramente economica, quella della vita giuridico-­‐politica e quella spirituale, possa gettare una luce decisiva su quel problema. Le tre sfere infatti non andranno separate, ma al contrario ciascuna di esse potrà cooperare armonicamente con le altre due, proprio perché le sarà concesso di sviluppare le sue grandi forze in una relativa autonomia. Il problema fondamentale della vita economica è: come debbono operare autonomamente sulla pura sfera economica la vita politico-­‐statuale e la vita spirituale, nei riguardi del capitale, dei terreni e della valutazione del lavoro umano, affinché nell’ambito economico l’esplicazione delle associazioni possa produrre, non dico un paradiso terrestre, ma almeno un organismo sociale possibile? Ritengo che solo quando si sarà cominciato a considerare tali problemi in un modo così naturale, si potrà porre il problema fondamentale della vita economica in un modo corretto, pratico e rispondente alle esigenze della vita. I più grossi errori non vengono commessi con l’accettare in un primo momento soluzioni sbagliate (che per lo più sono utopie), ma impostando i problemi stessi in modo sbagliato, senza tener conto della vera osservazione e conoscenza della vita. A me sembra che proprio questo sia il problema fondamentale della vita economica: impostare i problemi nel giusto modo, rinunciando a trovare risposte teoriche, e facendo in modo che siano la vita umana concreta stessa e la realtà storica stessa a fornire le risposte ai problemi posti in modo corretto. I problemi debbono essere impostati in base alle premesse storiche, e le soluzioni debbono essere offerte dalla vita stessa. Nessuna teoria può dare la risposta a questi problemi, ma solo la piena realtà pratica della vita.