LA MILITARIZZAZIONE DELLA MARGINALITÀ

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Loïc Wacquant (Università di Berkeley)
LA MILITARIZZAZIONE
DELLA MARGINALITÀ URBANA:
LEZIONI DALLA METROPOLI BRASILIANA
1. Penalità neoliberale. – 2. Il vortice della disuguaglianza e il colore della violenza.
– 3. Il disastro carcerario e l’impasse punitiva. – 4. Verso una militarizzazione delle gerarchie urbane.
Studi sulla questione criminale, I, n. 3, 2006, pp. 7-29
1. Penalità neoliberale
La penalità neoliberale appare paradossale nella misura in cui ricorre a un
“surplus di Stato” sul versante poliziesco, giudiziario e carcerario, per far
fronte a quell’aumento generalizzato dell’insicurezza oggettiva e soggettiva
che nei principali paesi del Primo Mondo costituisce di per sé una conseguenza del “dimagrimento dello Stato” sul versante economico e sociale. Tale penalità riafferma l’onnipotenza del Leviatano nell’ambito ristretto dell’ordine
pubblico – simboleggiato dalla guerra contro la delinquenza di strada e l’immigrazione clandestina, ormai ovunque al centro del dibattito pubblico –
proprio nel momento in cui lo Stato proclama la propria incapacità di arginare la decomposizione del lavoro salariato e di imbrigliare l’iper-mobilità di
un capitale che destabilizza l’intero tessuto sociale stringendolo in una tenaglia. E come ho dimostrato altrove, non si tratta di una pura coincidenza:
proprio in virtù del fatto che le élites di governo – convertite all’ideologia dominante dell’onnipotenza del mercato, proveniente dagli Stati Uniti – restringono le prerogative dello Stato dal punto di vista socio-economico, esse
si trovano ovunque costrette a rafforzarne una missione “sicuritaria” ridotta
alla pura dimensione criminale, perseguendo esclusivamente la criminalità di
strada delle classi inferiori, a fronte di una crescente illegalità dei potenti.
Perché l’espansione dello Stato penale permette loro di reprimere e contenere il caos urbano prodotto, ai livelli più bassi della struttura sociale, dalla deregolazione del mercato del lavoro e dalla destrutturazione delle reti di protezione sociale. E d’altra parte essa consente alla classe politica di far fronte
alla propria crisi di legittimazione, riaffermando l’autorità dello Stato nell’ambito ristretto in cui essa si ora si esercita, in un periodo in cui sembra esserci poco altro da offrire all’elettorato (L. Wacquant, 1999). Ma ancor più
la penalità neoliberale appare seducente e distruttiva quando essa si abbatte
su paesi attraversati da profonde disuguaglianze sociali, privi di ogni tradizione democratica e sprovvisti di istituzioni pubbliche capaci di compensa-
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re i traumi determinati dalle trasformazioni del lavoro, dei legami sociali e
del “sé” nella transizione al nuovo millennio.
Con questo si vuole dire che l’alternativa tra la gestione sociale della povertà nelle sue cause e implicazioni – radicata in una visione di lungo termine e ispirata a valori di giustizia civile e solidarietà – e il suo trattamento penale rivolto ai segmenti più destrutturati del sottoproletariato e sintonizzato
sulle frequenze dei cicli elettorali di breve termine, così come di un panico
morale orchestrato da mass media commerciali che traggono profitti dalla
drammaturgia del crimine, ebbene questa alternativa di fronte alla quale si
pone l’Europa (nel solco già tracciato dagli Stati Uniti) si presenta con particolare drammaticità ai paesi ex autoritari e neoindustriali dell’America Latina, come il Brasile e i suoi principali vicini – Argentina, Colombia e Venezuela – che sono stati i principali importatori di discorsi e politiche penali
made in USA.
Brasilia, Caracas, Buenos Aires: i pubblici ufficiali hanno fatto a gara nell’adottare misure analoghe a quelle esibite dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani (o a lui disinvoltamente ascritte); i politici si sono precipitati
per farsi fotografare assieme all’incarnazione vivente del rigore penale, quel
William Bratton dapprima profeta della religione virilista della “tolleranza zero” e poi globe-trotter prezzolato come “consulente sulla sicurezza urbana”,
dopo essere stato licenziato dalla posizione di capo della polizia di New York
nel 1994. E questo non certo perché tali politiche siano state efficaci
– al contrario, ora sappiamo che si sono rivelate del tutto improduttive se non
addirittura controproducenti, proprio nel contesto da cui sono emerse1 –
quanto perché esse sono particolarmente adatte a drammatizzare pubblicamente l’impegno proclamato a combattere il mostro della criminalità urbana,
soddisfacendo ampiamente gli stereotipi negativi dei poveri, alimentati da
pregiudizi etnici e di classe.
Ma al di là di questi vantaggi simbolici, l’adozione della retorica penale di
stampo statunitense, e delle politiche di penalizzazione preventiva della marginalità urbana che da essa discendono, minaccia conseguenze di lungo termine dal punto di vista del tessuto sociale, dei rapporti tra governo e società
e della fisionomia dello Stato post-keynesiano che emerge dalla rivoluzione
neoliberale. Tutto questo è particolarmente vero per un paese come il Brasile, tra i più convinti sostenitori di politiche anticrimine improntate al model1
Una complessiva rassegna della letteratura sul tema conclude che «non esistono prove del fatto che generiche trasformazioni dell’attività di polizia siano responsabili del calo della criminalità
violenta» negli anni Novanta, e annovera le misure di “tolleranza zero” di tipo newyorchese come
«i contributi meno probabili» alla recente diminuzione dei reati contro la persona nelle metropoli
statunitensi (J. E. Eck, E. R. Maguire, 2000, 245).
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lo newyorchese di Giuliani, e dunque laboratorio vivente dell’impatto disastroso della “tolleranza zero” nei paesi del Secondo Mondo.
2. Il vortice della disuguaglianza e il colore della violenza
In prima analisi, per ragioni legate alla lunga storia coloniale e alla conseguente posizione subordinata nella struttura delle relazioni economiche internazionali (una struttura di dominazione occultata dalla falsa categoria ecumenica di “globalizzazione”) – e ad onta dell’arricchimento collettivo comportato dai decenni dell’industrializzazione – la società brasiliana rimane
contrassegnata da profonde disuguaglianze sociali e da una povertà diffusa.
Dopo il “decennio perduto” degli anni Ottanta, caratterizzato da stagnazione economica e da un rapido deterioramento dei principali indicatori sociali, il Brasile ha dato avvio a una serie di riforme economiche e sociali che
hanno drasticamente ridimensionato il ruolo dello Stato, aprendo l’economia al commercio e ai capitali esteri (R. Bauman, 2002). Nel loro insieme, l’estrema disuguaglianza sociale, l’assenza o l’insufficienza di servizi pubblici e
la disoccupazione (e sottoccupazione) rampante nel contesto di un’economia
urbana sempre più polarizzata e di un sistema giudiziario corrotto hanno alimentato una violenza criminale ormai endemica nelle grandi città del Brasile come anche di altri paesi dell’America Latina. Così, si stima che circa
140.000 persone l’anno periscano di morte violenta nei centri urbani del continente, mentre 1 residente su 3 è vittima diretta o indiretta di aggressioni
personali (S. Rotker, 2002).
A partire dal 1989 la criminalità letale ha costituito la principale causa di
morte, con l’omicidio eletto al ruolo di «flagello della salute pubblica» negli
anni Ottanta: un decennio durante il quale il tasso nazionale di omicidi è raddoppiato raggiungendo la cifra di 20 su 100.000 – doppio rispetto al picco
massimo degli Stati Uniti nei primi anni Novanta, e circa quindici volte più
alto di quello registrato nelle società dell’Europa occidentale (E. Souza,
1994)2. L’incidenza degli omicidi a Rio de Janeiro, San Paolo e Recife supera oggi il tasso di 60 su 100.000, molto vicino a quello delle più violente metropoli americane negli ultimi anni (New Orleans, Detroit e Washington nel
Nord, e Caracas, Lima e Medellín nel Sud esibivano tassi superiori a 80 su
100.000 nei primi anni Novanta) e assai più elevato di quello sperimentato
in precedenza nelle città brasiliane.
La minaccia fisica e l’insicurezza personale si sono diffuse nella metropoli nella misura in cui gli scontri a fuoco tra le gang e le sparatorie tra polizia
2
Più in generale, sull’aumento verticale della violenza omicida nelle metropoli del continente
latinoamericano cfr. J. L. Neapolitan (1994).
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e bandidos armati si spingono fino ai quartieri adiacenti – in virtù della particolare prossimità spaziale tra ricchi e poveri nella città brasiliana (come nel
caso della Zona Sul e di Barra da Tijuca a Rio de Janeiro) –, mentre le rapine a mano armata sugli autobus, gli scippi nelle aree commerciali e i rapimenti di individui facoltosi sono diventati sempre più frequenti. I quartieri di
classe media e le residenze delle classi superiori sono ora enclavi fortificate e
protette da cancellate di ferro, video-citofoni, cani da guardia e vigilantes armati che fanno la ronda o presidiano le strade durante la notte; isolate dal resto della città grazie a mura elevate e tecnologie avanzate di sorveglianza, proliferano le gated communities, che costituiscono sempre più uno status symbol per le élites (T. Caldeira, 1996). In questo contesto è cresciuta un’imponente industria della sicurezza privata che offre protezione a condomini, distretti finanziari e club sociali, così come ai ricchi e alle loro famiglie.
In seguito alla pervasività della violenza nelle strade, nelle scuole, nelle feste popolari del fine settimana, durante gli incontri di calcio e in televisione,
due terzi degli adolescenti la considerano giustificata quale mezzo di autodifesa, mentre quattro su dieci ricorrerebbero ad essa per proteggere un amico
o per reagire a un affronto alla propria dignità; al contempo, quasi tutti concordano sul fatto che la violenza debba essere ridotta. E tuttavia, in assenza
di qualsiasi rete di protezione sociale i giovani dei quartieri poveri – schiacciati sotto il peso di una disoccupazione (e sottoccupazione) cronica – sono consapevoli di doversi rivolgere al “capitalismo di rapina” della strada (come direbbe Max Weber) per reperire mezzi di sussistenza e beni di consumo, come
anche per realizzare i valori dell’onore maschile e sottrarsi all’oppressione
della povertà quotidiana.
L’aumento spettacolare della repressione poliziesca negli ultimi anni,
esemplificata dall’occupazione militare preventiva delle favelas di Rio durante il Summit internazionale sulla Terra, promosso nel maggio del 1992 dalle
Nazioni Unite, o ancora nel marzo 2003 – quando l’esercito presidiava con
carri armati le principali autostrade del paese per proteggere le celebrazioni
del carnevale dai raid delle gang di spacciatori –, non ha sortito alcun effetto, poiché la repressione non ha presa su una criminalità predatoria orientata a creare un’economia parallela laddove l’economia ufficiale non esiste, o a
prevenire le aggressioni ricorrendo all’effetto deterrente della violenza (L. A.
Machado da Silva, 1995; A. Zaluar, A. I. Ribeiro, 1995; V. Malaguti Batista,
1998)3. E questo anche perché la polizia non costituisce affatto un’agenzia
esterna (e opposta) al vortice di violenza, droga e vendetta privata che corrode i quartieri poveri legittimandone la stigmatizzazione nel discorso pub3
Per una estensione di questo ragionamento al Venezuela, cfr. P. C. Màrquez (1999). Per un
confronto con l’Europa e gli Stati Uniti, L. Wacquant (1994).
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blico; al contrario, essa è parte integrante di ciò che i residenti di quei quartieri chiamano con rassegnazione «condominio del diavolo» (A. Zaluar,
1994). La stessa polizia è implicata nel traffico di droga, nella vendita di armi, nei rapimenti, nelle estorsioni e in ogni tipo di attività illegale da cui ricava guadagni in cambio di tolleranza o protezione. La polizia è temuta e
odiata dai residenti dei quartieri poveri quanto lo sono i banditi che si suppone essa debba combattere. Un’inchiesta del 1996 ha rilevato che quattro
brasiliani su dieci «non hanno alcuna fiducia nella polizia», mentre tre su dieci solo «qualche fiducia». Gli abitanti di Rio de Janeiro percepiscono i commissariati come luoghi pericolosi in cui i diritti, l’onore e l’integrità fisica sono particolarmente a rischio; e la conseguenza è che solo una vittima di rapina su cinque osa rivolgersi alle autorità per sporgere denuncia (P. S. Pinheiro, 2000)4.
In realtà, la peculiarità dell’insicurezza urbana in Brasile consiste nel fatto che essa non è attenuata, ma aggravata dall’operato delle forze dell’ordine. Il ricorso abituale alla violenza letale da parte della polizia militare competente per l’ordine pubblico, l’impiego sistematico da parte della polizia civile – munita di poteri investigativi – della tortura attraverso la pimentinha
(elettroshock) e il pau de arara (una sorta di crocifissione) per estorcere “confessioni” ai sospettati, l’estorsione di denaro agli imputati e ai loro parenti e
testimoni, nonché le esecuzioni sommarie e le misteriose “sparizioni”: tutto
questo alimenta un clima di terrore presso le classi popolari e normalizza una
brutalità situata al cuore dello Stato. Un dato statistico: nel 1992 la polizia
militare di San Paolo ha colpito a morte 1.470 civili – a fronte dei 24 uccisi
dalla polizia di New York e dei 25 di Los Angeles – totalizzando un quarto
delle vittime di morte violenta nella metropoli per quell’anno. Questo è un
record assoluto per le Americhe (P. Chevigny, 1995)5.
La violenza della polizia rientra in una tradizione secolare di controllo dei
poveri attraverso la forza, originata durante la schiavitù coloniale e le lotte
agrarie e poi consolidata dal regime autoritario di Getùlio Vargas (19371945) e da due decenni di una dittatura militare (1964-1985) appoggiata dagli Stati Uniti, durante la quale la lotta contro la “sovversione interna” è stata mascherata come repressione della criminalità. Tale violenza si rafforza poi
grazie a una concezione gerarchica e paternalista della cittadinanza, fondata
sull’opposizione culturale tra feras e doutores – tra i “selvaggi” e i “colti” –
che tende ad assimilare tra loro i marginais (“le vite da poco”), la classe ope4
L’abituale coinvolgimento della polizia nelle economie criminali è ammesso candidamente
dall’ex capo della polizia dello Stato di Rio de Janeiro: C. M. Nazareth Cerqueira (1997).
5
Questa cifra è diminuita annualmente sino a raggiungere il tasso di 700 nel 2000, a seguito
dello sforzo concertato del governo federale e delle amministrazioni locali di limitare gli omicidi da
parte della polizia.
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raia e i criminali, sovrapponendo così interamente la preservazione della
struttura di classe al mantenimento dell’ordine pubblico (R. Da Matta, 1991;
P. S. Pinheiro, 1983).
Ma un altro elemento complica ulteriormente le cose: l’allineamento perfetto tra gerarchia di classe e stratificazione razziale, con il corollario della dominazione fondata sul colore che in Brasile rappresenta un fattore endemico
nell’operato della polizia e della burocrazia giudiziaria. Sebbene il Brasile abbia sviluppato un sistema flessibile di relazioni etno-razziali basato sul fenotipo, con una molteplicità di categorie ambivalenti e compatibili con una mobilità infra e inter-generazionale lungo il continuum del colore – in questo del
tutto diverso dalla struttura binaria degli Stati Uniti, rigidamente fondata sulla discendenza –, che si è tradotto nell’assenza di segregazione e ghettizzazione, è comunque possibile riscontrarvi un’associazione di lungo termine tra
blackness e pericolosità, che risale alle lotte degli schiavi e alla paura diffusa
dei libertos in seguito all’emancipazione (G. Reid Andrews, 1991; N. Gizlene, 1995). Gli individui di discendenza africana sono stati storicamente percepiti come fisicamente e culturalmente predisposti alla criminalità, alla depravazione e all’immoralità, e ai neri si è ampiamente ascritta la responsabilità del disordine urbano, rendendoli così destinatari privilegiati della repressione penale. Al punto che a molti decenni di distanza dall’abolizione della
schiavitù «la funzione iniziale della polizia quale strumento di disciplinamento degli schiavi ha lasciato un’eredità persistente, rinvenibile tanto nelle pratiche poliziesche quanto nella reciproca ostilità tra la polizia e quei settori
della società che ne subiscono maggiormente l’impatto» (T. H. Holloway,
1993; C. M. Marinho de Azevedo, 1987).
All’inizio del XX secolo Raimundo Nina Rodrigues, professore di Medicina legale all’Università di Bahia, elaborò una famosa tipologia razziale che distingueva tra bianchi, mulatti e neri e attribuiva a questi ultimi una naturale
propensione alla delinquenza, tale da giustificare la previsione di criteri diversificati di responsabilità penale e dunque la compilazione di codici giuridici differenziati per ciascun gruppo (P. Fry, 2000). Successivamente, negli
anni tra le due guerre, i criminologi brasiliani si sono cimentati nell’acceso
dibattito nazionale sulla mescolanza razziale, discutendo l’ipotesi secondo
cui il meticciato costituiva la causa dell’elevato tasso di “delinquenza sociale” osservabile tra le masse, e fu in questa circostanza che il professor Laurindo Leão ebbe modo di pronunciare la famosa affermazione: «Una nazione di meticci è una nazione invasa dai criminali» (citato in L. Moritz
Schwarcz, 1999, 200).
Oggi la percezione negativa delle persone di pelle scura influenza l’operato dell’insieme di istituzioni deputate alla gestione della criminalità, dalla
polizia alle investigazioni, dalla raccolta delle denunce alle condanne e alla
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somministrazione dei castighi. Questo dato è prontamente riconosciuto dai
residenti delle grandi metropoli, tre quarti dei quali concorda che neri e mulatti siano «più colpiti dei bianchi» dalle operazioni di polizia.
Esiste prova che a San Paolo e in altre grandi città i detenuti di pelle scura “godano” di particolare vigilanza da parte della polizia, incontrino maggiori difficoltà nell’accesso alla difesa legale e – a parità di reato – siano puniti in modo più severo di quanto non avvenga per i loro connazionali bianchi6. Il risultato è che, proprio come avviene negli Stati Uniti, gli istituti di
detenzione brasiliani siano in misura predominante black e brown: a metà degli anni Ottanta, nelle carceri di Rio de Janeiro sette detenuti su dieci erano
pretos e pardos, quasi il doppio rispetto all’incidenza di queste due categorie
afro-brasiliane sul totale della popolazione. Analogamente, gli afro-brasiliani costituivano il 52% dei detenuti a San Paolo, ancora una volta più del doppio rispetto al loro peso demografico nella metropoli (22%) quell’anno (M.
Texeira, 1994)7. Una volta incarcerati, poi, i detenuti di pelle scura sono
esposti a condizioni di prigionia particolarmente dure e subiscono le violenze carcerarie più crudeli – se non altro, per la loro provenienza dai settori più
marginali e impoveriti della classe operaia. La penalizzazione della povertà
corrisponde qui ad una “invisibilizzazione” della questione del colore, e alimenta la dominazione etno-razziale garantendole l’imprimatur dello Stato (P.
R. Bodê de Moraes, M. Garcia de Souza, 1999; J. Da Silva, 2000).
Oltre che nella marginalità e nella disuguaglianza, la violenza urbana in
Brasile trova radici profonde in una cultura politica tuttora segnata dall’esperienza della repressione di Stato delle lotte agrarie e del movimento operaio,
come anche dalle ferite della dittatura militare (M. C. Paoli et al., 1982; J. E.
Méndez, G. O’Donnell, P. S. Pinheiro, 1999). A queste condizioni, il dispiegamento dello Stato penale – attraverso l’intensificazione dei mezzi, degli obbiettivi e della severità dell’azione giudiziaria e di polizia – per far fronte ai
disordini generati dalla deregolazione economica, dalla desocializzazione del
lavoro salariato e dall’impoverimento assoluto e relativo di ampie frange del
proletariato urbano, implica di fatto (ri)stabilire una vera e propria dittatura
sui poveri. E una volta che si sia affermata la legittimità di questa gestione autoritaria dell’ordine sociale, questa politica di limpeza da rua (pulizia della
strada) attraverso il ricorso sistematico alla violenza di Stato, chi sarà in gra6
Cfr. S. Adorno (1995). Sfortunatamente, lo studio di Sérgio Adorno non consente all’autore
di controllare la criminalità pregressa e di disaggregare gli effetti della classe e della razza; questo
gli impedisce di indicare fino a che punto quest’ultima sia “determinante” quale fattore di «discriminazione nell’amministrazione della giustizia».
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Dati di tendenza attendibili riguardo al colore non sono disponibili, ma tutto lascia pensare
che l’aumento della repressione penale si sia tradotto in un “annerimento” della popolazione carceraria del paese.
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do di tracciarne i confini? E come non vedere che – in assenza delle garanzie giuridiche minime che solo una burocrazia razionale (nel senso weberiano del termine) deputata all’amministrazione della giustizia può assicurare –
il ricorso alle tecniche e alle politiche di legge e ordine made in USA è radicalmente antitetico rispetto al consolidamento di una società pacifica e democratica, il cui fondamento deve consistere nell’uguaglianza di tutti di fronte
alla legge e alle agenzie incaricate di applicarla? L’attuale funzionamento della polizia e del sistema giudiziario brasiliano è a tal punto inefficiente, carente e disordinato, da un punto di vista strettamente giuridico, che sarebbe necessario riorganizzare il sistema da cima a fondo per avvicinarlo agli standard
minimi previsti dalle convenzioni internazionali, per non parlare dell’imparzialità e dell’equità rispetto alle coordinate di classe e razziali (P. S. Pinheiro,
1997; C. M. Nazareth Cerqueira, 1999; S. Adorno, 1999).
3. Il disastro carcerario e l’impasse punitiva
Un’ultima considerazione milita fortemente contro il ricorso all’apparato
carcerario quale strumento di controllo della marginalità urbana e del disordine sociale in Brasile, nel solco della deregolazione neoliberale: la condizione spaventosa delle prigioni e degli istituti di detenzione del paese, che somigliano più a campi di concentramento per i derelitti o a imprese pubbliche
per lo smaltimento industriale dei rifiuti sociali che non a istituzioni giuridiche orientate a qualche scopo penologico – si tratti di deterrenza, neutralizzazione o retribuzione, per non parlare della risocializzazione. In effetti, il sistema penitenziario brasiliano esibisce i difetti tipici delle peggiori galere del
Terzo Mondo, ma con indicatori paragonabili a quelli del Primo Mondo dal
punto di vista delle sue dimensioni, del suo radicamento urbano e della cosciente indifferenza mostrata dalla classe politica e da un’opinione pubblica
ormai assuefatta agli eccessi punitivi.
Rispetto ai canoni occidentali, i penitenziari brasiliani offrono un’immagine che ricorda le segrete medievali. Gli edifici sono generalmente decrepiti, insalubri e privi di qualsiasi manutenzione, con muri pericolanti e scalcinati, tubature e impianti elettrici in rovina, acque di scolo che allagano i pavimenti e impregnano i soffitti – nella prigione “modello” di Lemos de Brito, a Rio de Janeiro, il tanfo dei rifiuti era tale che nell’autunno del 2001 uno
dei privilegi maggiormente richiesti dai detenuti era la possibilità di usare del
deodorante per contrastare l’odore pestilenziale delle celle. Alla totale rovina fisica si associa poi un grottesco sovraffollamento che determina condizioni di vita abominevoli e catastrofiche dal punto di vista dell’igiene e dell’assenza di spazio, aria, luce, acqua e a volte perfino cibo. Nel 1987 le autorità penali del paese stimavano una carenza di 50.000 posti-letto; nel 2003 lo
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scarto tra capienza e popolazione carceraria si era portato a 104.000 unità,
nonostante quasi la metà dei detenuti fosse in qualche modo latitante: il Ministero della Giustizia stima che i casi di mandados não cumpridos – sentenze non eseguite perché i condannati sono irreperibili o in clandestinità – siano superiori al totale dei detenuti! E a dispetto di una continua costruzione
di prigioni – intensificatasi ulteriormente a seguito di alcune rivolte carcerarie nel 1997 – non è raro che gli istituti penali brasiliani ospitino una popolazione da quattro a sei volte superiore alla capienza massima. Rispetto ai fermi di polizia, i detenuti – in maggioranza assoluta non ancora sottoposti a
processo – sono ammassati per mesi o addirittura per anni in condizione di
assoluta illegittimità, fino a otto in una cella singola. All’interno della Casa de
Detenção della prigione di Carandiru a San Paolo, alla fine degli anni Novanta, i residenti del blocco disciplinare vedevano la luce del sole così di rado
che il loro aspetto e il colorito «itterico» era valso loro il soprannome di os
amarelos, «i gialli» (Human Rights Watch, 1998). Molti detenuti brasiliani
dormono sul pavimento ammassati l’uno sull’altro, su coperte o sottili materassi di gommapiuma forniti dai familiari o acquistati da altri detenuti; ma
molti sono costretti a sonnecchiare appoggiati alle sbarre delle loro celle o su
amache sospese, per mancanza di spazio. Il sovraffollamento è esacerbato ulteriormente dall’inettitudine burocratica che costringe ogni anno migliaia di
detenuti a rimanere in custodia ben oltre i termini della loro sentenza; ed è
proprio l’umiliazione inaccettabile che ne deriva a costituire il principale motivo dei periodici tumulti che scuotono furiosamente il sistema carcerario
brasiliano (Jocenir, 2001, 56-82).
A tutto questo si aggiunge il generalizzato diniego di assistenza legale e
sanitaria di base, che si traduce in una rapida diffusione della tubercolosi,
dell’AIDS e di altre patologie contagiose tra le classi povere urbane. Diversi
studi hanno dimostrato che più di un quinto della popolazione carceraria
brasiliana è sieropositivo, mentre un numero imprecisato di detenuti soffre
di infezioni respiratorie gravi, affezioni batteriche e patologie dermatologiche aggravate da una detenzione insalubre (F. I. Bastos, C. Landmann
Szwarcwald, 2000). A fronte delle precarie condizioni di salute dei loro occupanti, pochi istituti di pena usufruiscono dei servizi di un medico a tempo
pieno; quasi tutti portano avanti le infermerie grazie al lavoro volontario di
infermieri e detenuti; le uniche cure che i prigionieri ricevono sono quelle
fornite dai familiari (tranne nello Stato di Rio de Janeiro, che di recente ha
migliorato l’approvvigionamento di medicinali per i detenuti), proprio come
accade per i vestiti, i letti e i prodotti per l’igiene personale. Raramente i detenuti in gravi condizioni vengono trasferiti per essere curati all’esterno: nella maggior parte dei casi essi muoiono all’interno di istituti che non hanno i
mezzi o la disponibilità a prendersene cura. Come spiegava un detenuto af-
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fetto da AIDS conclamato e sprovvisto di qualsiasi forma di cura in una prigione di San Paolo: «Quando chiediamo alla polizia di portarci al PS (Pronto soccorso) ci dicono che noi ladri ci meritiamo di morire» (Human Rights
Watch, 1998, 29). Questo atteggiamento costituisce una palese deviazione
dalla politica correzionale ufficiale, ma l’assistenza legale è fuori dalle possibilità di gran parte dei detenuti, gli avvocati d’ufficio sono pochi e difficilmente raggiungibili, mentre gli osservatori dei diritti umani sono sovraccarichi di lavoro e impossibilitati a intervenire.
E tuttavia la carenza di assistenza sanitaria e legale non è nulla di fronte
alla violenza pandemica che si consuma tra i detenuti in forma di maltrattamenti, estorsioni, pestaggi, stupri e omicidi: una violenza alimentata dal sovraffollamento, dalla promiscuità tra diverse popolazioni carcerarie, dalla
inattività forzata (sebbene il codice penale stabilisca che tutti i prigionieri
debbano prendere parte a programmi educativi e di orientamento al lavoro)
e dall’assenza di supervisione. La violenza letale costituisce ormai la norma
negli istituti di detenzione brasiliani, al cui interno sono le aggressioni, gli assalti e le vendette a scandire ciclicamente la vita quotidiana (E. Campos
Coelho, 1987; E. Alcides da Silva, 1997). Nel 1994 il censimento nazionale
delle prigioni riportava 131 omicidi e 45 suicidi tra i detenuti, riconoscendo
tuttavia che le cifre erano sottostimate. Alla fine degli anni Novanta, nella Casa de Detenção di San Paolo in media dieci detenuti perivano annualmente in
seguito ad accoltellamenti, e la maggior parte degli episodi si verificava di lunedì: il “giorno di riscossione” in cui – in seguito alle visite domenicali dei
familiari – si pagano i debiti accumulati in prigione. Altri detenuti sono stati vittime di impiccagioni, soffocamenti, avvelenamenti e overdose procurate per far passare gli omicidi come casi di suicidio8. Le violenze e le minacce
di morte tra detenuti si verificano nell’indifferenza (se non con il consenso)
delle autorità carcerarie – in alcuni casi questi comportamenti sono perfino
guardati con favore dai secondini, che se ne servono come ulteriori strumenti di mantenimento dell’ordine.
Il ricorso alla violenza omicida tra i prigionieri è poi favorito dalla grave
insufficienza di personale nelle strutture detentive, come anche dalla scarsa
remunerazione dei secondini, i quali si lasciano facilmente corrompere per
consentire non solo l’ingresso di cibo, telefoni cellulari e visitatori, ma anche
di armi e droghe. Nel 2001 la Casa de Detenção di San Paolo impiegava solo
una dozzina di poliziotti per supervisionare circa 1.700 detenuti (ancora meno il lunedì, quando l’assenteismo raggiunge il massimo), e la situazione è ad8
Per una descrizione della caotica quotidanità nella più infame delle prigioni brasiliane (chiusa nel 2002), cfr. il resoconto di D. Varella (2000). Il complesso di Carandiru costituiva il più grande istituto penale dell’America Latina, con 6.500 detenuti nel 1998.
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dirittura peggiore nei commissariati delle grandi città, dove non è raro che
una sola guardia sia responsabile di duecento arrestati. In molti istituti il personale penitenziario si tiene a distanza dalle galerias in cui sono ospitati i detenuti, per il timore di aggressioni; questo determina un vuoto di potere che
i gruppi criminali e gli individui più spietati riempiono immediatamente. Così, le gang e i detenuti più aggressivi, chiamati “sceriffi”, esercitano di fatto il
controllo sull’accesso al cibo, al lavoro, ai programmi di istruzione, alle visite, alle droghe e ad ogni altro bene che entra nel circuito del contrabbando.
In molti luoghi di detenzione di San Paolo la sicurezza delle celle si deve acquistare o “noleggiare” dagli “sceriffi” locali per diverse centinaia di dollari,
il che costringe i detenuti più deboli e poveri a dormire nei corridoi dove sono esposti immancabilmente a molestie e aggressioni. Nelle galere di Rio de
Janeiro, le gang o “fazioni” che dominano l’economia criminale radicata nelle favelas della città impongono il proprio comando anche dietro le sbarre:
nell’ottobre del 2001, nel corso di una prolungata visita all’unità di media-sicurezza dell’infame complesso carcerario di Bangui, tutti i miei movimenti e
ogni mia richiesta (parlare con i detenuti, scattare fotografie, entrare in una
cella o in un braccio particolare dell’istituto) dovevano essere autorizzati non
solo dal direttore, ma anche dal capo del Comando Vermelho che ci seguiva
ovunque.
Ma ancora una volta, l’aspetto peggiore della reclusione in Brasile è dato
dalla violenza soffusa delle autorità, che va dalla brutalità quotidiana alla tortura istituzionalizzata, fino alle esecuzioni sommarie e alle uccisioni di massa in occasione delle rivolte che periodicamente si determinano in risposta a
condizioni di detenzione disumane; e l’apoteosi di tutto questo rimane tuttora il massacro consumatosi nella prigione di Carandiru nel 1992, quando
la polizia militare uccise 111 prigionieri in un’orgia di violenza di Stato degna di altre epoche. In alcuni penitenziari i nuovi arrivati sono sistematicamente picchiati in una sorta di rito di benvenuto finalizzato a trasmettere le
locali regole di disciplina, mentre il saccheggio delle celle e degli averi personali costituisce una norma della vita carceraria. I tentativi di evasione e la
cattura di ostaggi sono repressi con particolare crudeltà, e vedono le guardie
infliggere punizioni corporali che sorprendono anche i medici legali di consumata esperienza9. Come accade per altre forme di violenza dall’alto, questi abusi incontrano la calcolata indifferenza delle autorità – compreso il Juiz
da vara de execução penal, l’organo incaricato di vigilare sull’esecuzione della sentenza – e si perpetrano con assoluta impunità anche nei casi in cui attirano l’attenzione dei mass media, le proteste dei gruppi a difesa dei diritti
9
Cfr., in proposito, il meticoloso resoconto di Human Rights Watch (1998) sulla brutale violenza conseguente ai tentativi di fuga e di ribellione nelle prigioni di 7 Stati brasiliani.
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umani o la preoccupazione internazionale. «Solo i decessi di detenuti – i cui
cadaveri difficilmente si possono ignorare – sembrano meritare qualche forma di indagine e procedimento, e anche in quel caso la condanna e il successivo arresto dei colpevoli sono eventi del tutto improbabili», dal momento
che, nei pochi casi in cui sono celebrati, questi processi si trascinano senza
esito per anni presso i tribunali militari (Human Rights Watch, 1998, 61-5)10.
La ferocia carceraria è pubblicamente tollerata quando non invocata, in virtù
della diffusa convinzione che i detenuti siano immeritevoli di qualsiasi protezione poiché si tratta di marginais i cui diritti sono venuti meno in ragione
della loro bassa estrazione sociale, del colore della loro pelle e di una condizione culturale degradata. Sono gli stessi operatori del sistema penale a riconoscere questa circostanza, come il capo del terzo commissariato di zona di
San Paolo chiarisce agli osservatori di Human Rights Watch nell’avvertirli di
quanto li attende: «Vedrete, è un deposito di spazzatura: i detenuti qua sono
stati buttati via come spazzatura. Le condizioni sono sub-umane. Andate,
scrivete: sub-umane» (ivi, 54-5; cfr. anche C. Barros Leal, 1999).
Alle attuali condizioni di crisi ed emergenza cronica, quindi, il sistema
carcerario brasiliano serve unicamente a concentrare la violenza e ad alimentare la criminalità attraverso il disprezzo esplicito della legge, la violazione
generalizzata dei diritti fondamentali e una virulenta cultura della sfiducia
verso lo Stato e l’autorità che esso consolida. L’adozione di politiche made in
USA di “pulizia” delle strade e di incarcerazione di massa dei marginali, degli
inutili e di quanti si sottraggono alla legge del mercato senza regole dispiegherebbe, quindi, un vero e proprio «diritto penale del terrore» (R. A. Dotti, 2003, 425) verso coloro che mancano del capitale economico e culturale
necessario a proteggersi dall’illegalità strutturale dello Stato penale brasiliano. Ed è certo che quelle politiche aggraveranno i mali di cui il Brasile già
soffre nel suo difficile cammino verso il consolidamento di una democrazia
che non sia solo di facciata, in particolare «la delegittimazione delle istituzioni legislative e giudiziarie, un incremento della criminalità violenta e degli
abusi di polizia, la criminalizzazione dei poveri, un significativo sostegno a
misure illegittime di controllo sociale, un pervasivo impedimento al principio di legalità e una distribuzione iniqua dei diritti di cittadinanza» (T. Caldeira, J. Holston, 1999, 692).
Guardando a una precedente fase di disorganizzazione sociale in America
Latina, in cui il penitenziario fu considerato una soluzione efficace alla criminalità e al disordine urbano crescenti, si può osservare come «l’importazione
10
La brutalità penale può risultare politicamente profittevole: il comandante delle truppe d’assalto responsabili del massacro nella prigione di Carandiru nel 1992 fu successivamente eletto all’assemblea legislativa dello Stato di San Paolo, circostanza che gli assicurò l’immunità parlamentare.
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delle innovazioni europee e nordamericane fosse il risultato di una generale
fascinazione delle élites latinoamericane, indipendente dalla loro reale efficacia», e l’adesione a politiche e discorsi penali provenienti dai paesi più avanzati che simboleggiavano la “civilizzazione” rivelava più le ossessioni e le delusioni della classe dominante latinoamericana di quando non rispecchiasse
la condizione della loro società (R. D. Salvatore, C. Aguirre, 1996, XII).
Le stesse considerazioni si possono formulare oggi. Analizzando dal punto di vista teorico e in una prospettiva internazionale le origini e gli obbiettivi della diffusione di una penalità neoliberale elaborata negli Stati Uniti a presidio del nuovo regime del lavoro deregolato e a difesa di strutture etno-razziali di lungo corso, questo contributo intende allora supportare quei discorsi sediziosi su crimine, diritto e società nella società brasiliana e in quelle vicine11, che – opponendosi alla strumentalizzazione mediatica delle fantasie
di legge e ordine ormai condivise in tutto il mondo dalla destra e dalla sinistra di governo – tentano di riconnettere la questione penale e la questione
sociale, l’insicurezza fisica veicolata dalla violenza di strada e l’insicurezza sociale generata ovunque dalla desocializzazione del lavoro salariato, dall’assottigliamento delle reti di protezione sociale e dalla mercificazione integrale delle relazioni umane.
4. Verso una militarizzazione delle gerarchie urbane
Numerose analogie strutturali e spirali politiche paragonabili emergono tra
le metropoli statunitensi e brasiliane nell’intreccio di povertà, violenza quotidiana e trattamento punitivo – nonostante il profondo divario economico,
burocratico e tecnologico che separa i due paesi. Queste similitudini meritano di essere sottolineate, poiché suggeriscono che il modello analitico inizialmente elaborato per spiegare l’iper-incarcerazione degli afro-americani, e
successivamente esteso per illuminare la sproporzionata presenza di migranti post-coloniali nelle prigioni dell’Unione Europea, può essere ulteriormente articolato per comprendere le diverse fisionomie assunte dalla penalizzazione della marginalità urbana nell’ampio ventaglio delle società post-sovietiche e del cosiddetto Secondo Mondo: società investite dalle convulsioni
della rivoluzione neoliberista globale, prima ancora di poter godere dei benefici del sistema fordista.
In prima analisi, in entrambi i contesti i quartieri marginali e stigmatizzati sono diventati l’obbiettivo principale di una violenta azione di polizia, non11
Mi riferisco qui alla rivista “Discursos Sediciosos. Crime, Direito e Sociedade”, pubblicata
dall’Instituto Carioca de Criminología di Rio de Janeiro, che ha tentanto di contrastare i dogmi di
“legge e ordine” che ipotecano il dibattito pubblico su criminalità e pena in Brasile.
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ché luoghi privilegiati per la sperimentazione e l’esibizione di modalità aggressive di mantenimento dell’ordine, attraverso le quali lo Stato ribadisce ritualmente la propria capacità di intervento. Di conseguenza, l’azione penale vi
ha raggiunto un’intensità e una distruttività di tipo militare senza precedenti in entrambe le società e inimmaginabile in qualsiasi altro contesto urbano,
soprattutto nella misura in cui il lavoro di polizia tende ovunque ad esibire
crescenti livelli di disciplina e decoro. Nella città brasiliana la policía militar
compie abitualmente delle incursioni nelle shantytown, durante le quali gli
elicotteri a bassa quota divelgono i tetti e le squadre abbattono porte e finestre, saccheggiano le case e abusano dei residenti, aprono il fuoco indiscriminatamente, chiudono scuole e negozi e procedono ad arresti in massa per
“vagabondaggio” (catturando i favelados che non portano documenti d’identità, come richiesto dalla legge), che si traducono in detenzione a tempo indeterminato e torture: il tutto, indistinguibile nelle tattiche e nei risultati da
un’incursione militare in un territorio occupato12. Analogamente, nelle inner
city americane le agenzie di controllo penale federali, statali e municipali effettuano imboscate, retate e raid nelle case popolari o agli angoli delle strade, attanagliando i quartieri segregati; in questo modo limitano la circolazione e contrastano ogni forma di aggregazione, invadono la sfera privata e calpestano senza scrupoli lo spazio familiare; sottopongono i passanti a modalità umilianti di perquisizione e ad arresti abusivi; infine, eludono ogni garanzia giuridica violando i diritti costituzionali fondamentali e trattando i residenti come se appartenessero a un paese straniero.
Le tattiche di saturazione, la sorveglianza generalizzata e la coercizione
arbitraria imposte dallo Stato alle macerie del ghetto e della favela – con la
motivazione ufficiale di «imporre l’ordine» a favore degli stessi residenti –
risulterebbero intollerabili se non dittatoriali, qualora fossero dirette ai
quartieri di classe media o elevata. L’omicidio di un residente disarmato con
41 colpi di arma da fuoco esplosi dalla polizia nella lobby di un edificio lussuoso sarebbe inimmaginabile nell’Upper East Side di Manhattan o a Tribeca; nel 1999 questo è invece accaduto ad Amadou Diallo nel suo palazzo fatiscente del South Bronx, e il Tribunale ha giudicato l’omicidio come legittimo e del tutto conforme alle regole di polizia. Eppure, nonostante il loro
carattere strutturalmente discriminatorio e arbitrario, questi metodi hanno
trovato esplicito sostegno in tutto l’arco politico – inclusa la sinistra – e sono stati prontamente legittimati da giuristi che si autodefiniscono “progressisti”13.
12
Cfr. in proposito i «resoconti di guerra» di J. Resende (1995), che ricordano i raid periodicamente effettuati da Israele nella Striscia di Gaza o contro le città della West Bank occupata.
13
In Brasile, i governatori e i sindaci metropolitani del Partito dos Trabalhadores (come per
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Una seconda analogia risiede nel fatto che la transizione dall’industria fordista ai servizi finanziari quale principale motore economico della metropoli
ha destrutturato la base materiale tanto del ghetto nero americano quanto
della favela, sfibrandone la struttura sociale e imponendo al loro interno una
drastica riorganizzazione delle strategie di sopravvivenza. La contrazione e la
deregolazione del mercato del lavoro hanno congiurato con l’assottigliamento delle reti sociali e il disinvestimento pubblico precipitando questi quartieri in un vortice di insicurezza sociale e sospingendo ulteriormente i loro residenti verso l’economia informale. Ma la fisionomia e il tenore dello stesso
commercio di strada sono mutati nella misura in cui le attività e le reti criminali si sono diffuse estendendo il proprio dominio sulle comunità marginali.
Allo stesso modo in cui l’universo sotterraneo dell’iperghetto americano è
stato conquistato da gang imprenditoriali che competono per monopolizzare
i mercati illegali, ricorrendo all’intimidazione fisica e allo scontro – con la distribuzione di droghe su grande scala che ha sostituito la “politica” e altri “affari protetti” come principale generatore di denaro e prestigio –, così il traffico di armi e cocaina da parte dei comandos (i gruppi coordinati che controllano gli affari criminali nelle shantytown brasiliane) hanno sostituito le lotterie
popolari del jogo do bicho come baricentro della vita e del commercio di strada nella favela (E. Leeds, 1996; A. Zaluar, A. I. Ribeiro, 1995; Z. Ventura,
1994).
In entrambi i contesti, dunque, la violenza economica ufficiale del lavoro
salariato desocializzato alimenta l’economia informale di violenza che giustifica il dispiegamento della rete penale, ma con una torsione che al contempo
stimola e inibisce l’attivismo delle agenzie di controllo penale. L’espansione
e la razionalizzazione dell’economia criminale invoca un incremento delle intrusioni e delle violenze di Stato, e terrorizza i residenti locali; ma contemporaneamente, essa fornisce a questi ultimi un insieme di risorse indispensabili per la sussistenza. Perché molte famiglie povere che vivono nel cuore del
South Side di Chicago o a Rio de Janeiro nel Vigário Geral, nella Rocinha, a
Jacarezinho o Mangueira sarebbero ancora più povere e abbandonate a se
stesse se non potessero contare sul flusso di lavoro e di reddito garantito dal
traffico di droga, dalla ricettazione di beni rubati, dal gioco d’azzardo e da
altre attività illecite. A fronte delle carenze strutturali del mercato del lavoro
e dell’assistenza sociale, la partecipazione ai commerci e alle attività illegittiesempio José Genoìno per lo Stato di Rio e Marta Suplicy per la città di San Paolo) hanno perseguito tattiche brutali di law and order per far fronte alla violenza crescente. Negli Stati Uniti, i giuristi aderenti alla cosiddetta “New Chicago School” hanno assicurato una legittimazione giuridica
agli abusi nei confronti dei residenti del ghetto attraverso la dottrina della «condivisione comunitaria dei costi» e della «discrezionalità orientata» (T. L. Meares, D. M. Kahan, 1999): una teoria la
cui validità è evidentemente circoscritta soltanto ad alcune specifiche “comunità”.
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me è diventata una componente sempre più irrinunciabile delle strategie di
riproduzione familiare e di sostegno comunitario. Al punto che – per quanto lo Stato intervenga periodicamente a contrastare l’economia criminale e
limitarne la diffusione – nella metropoli americana, come in quella brasiliana, le autorità hanno un vero e proprio interesse a tollerarne il funzionamento, quanto meno entro i confini dei quartieri marginali14.
In terzo luogo, le gerarchie etno-razziali consolidatesi nell’era della schiavitù africana hanno giocato un ruolo decisivo – per quanto differenziato –
nell’intreccio letale tra l’avvento dello Stato penale e l’implosione dei centri
urbani in America e delle shantytown brasiliane. Nel primo caso, una marcata distinzione categoriale fondata sulla discendenza e sulla regola della one
drop ha tracciato una «linea del colore» inflessibile e invalicabile che ha declinato tutte le politiche pubbliche in senso costrittivo, concentrando e intensificando la povertà urbana e orientando l’apparato repressivo contro un
unico gruppo sociale isolato, visibile e stigmatizzato: quello del (sotto)proletariato urbano di colore. Nella grande città brasiliana, uno sfocato «continuum del colore» articolato intorno al fenotipo (tono della pelle, aspetto dei
capelli e caratteristiche del viso) e qualificato da attributi sociali secondari
(ricchezza, istruzione e residenza) ha coniugato e accentuato il ventaglio di
disuguaglianze, consolidando la violenza di Stato contro coloro che si trovano alla base di una complessa scala di deprivazione. In entrambe le società,
discriminazioni di casta e colore avvolgono lo spazio urbano e continuano a dirigere il funzionamento dell’insieme delle istituzioni deputate al mantenimento dell’ordine, dalla polizia ai tribunali, dalle amministrazioni penitenziarie
alle loro diramazioni ulteriori. In entrambi i paesi, la penalizzazione della
marginalità urbana si fonda su associazioni simboliche tra blackness e pericolosità, vizio e violenza, elaborate durante la schiavitù. Ma il modo in cui la
“razza” interagisce con il mercato e con lo Stato penale è diverso nei due contesti. Nella metropoli brasiliana le discriminazioni basate sul colore esasperano una repressione di Stato che in loro assenza si abbatterebbe sui residenti delle aree povere e stigmatizzate; il colore, insomma, accelera e intensifica
l’attacco penale, ma non lo determina in sé. Negli Stati Uniti, al contrario, lo
smantellamento graduale dell’atrofico Stato sociale ereditato dal New Deal
e la crescita improvvisa di uno Stato penale ipertrofico sulla scia del movi14
Un’analoga simbiosi tra insicurezza del lavoro salariato ed estrema vulnerabilità fisica si registra nelle città del Sudafrica – dove lo Stato post-apartheid deve a un tempo reprimere e gestire
l’esplosiva criminalità economica (J. Western, 1996; M. Shaw, 2002) – come anche in Venezuela e
nei paesi confinanti (Y. Pedrazzini, M. Sánchez, 1992). Questa connessione è presente anche nelle
banlieues della classe operaia in declino, sebbene in misura molto attenuata in virtù di una presenza più forte dello Stato sociale e di una maggiore capacità di organizzazione collettiva da parte dei
residenti (M. Kokoreff, 2003).
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mento per i diritti civili non avrebbero avuto luogo, se non si fosse verificata quella ribellione degli afro-americani che negli anni Sessanta tentarono di
abbattere le istituzioni deputate al mantenimento del regime castale, e se una
rigida segmentazione etno-razziale dello spazio sociale, fisico e mentale non
avesse consolidato un’indifferenza collettiva della cittadinanza verso il soffocamento penale del sottoproletariato nero.
Un ultimo elemento di convergenza tra l’iperghetto americano e la favela
brasiliana consiste nel fatto che entrambi sono entrati in simbiosi con il sistema carcerario dei rispettivi paesi, per mezzo di un intervento aggressivo della polizia e del sistema giudiziario (sul versante dello Stato) e di un’accelerata «carcerizzazione» della vita sociale e delle forme di organizzazione ecologica (sul versante della città). Questo accoppiamento è sempre più stretto, al
punto da delineare quasi un’unica rete istituzionale nei centri urbani statunitensi; rimane invece comparativamente più debole e meno avvolgente nella città brasiliana, in virtù del funzionamento caotico delle burocrazie penali locali e di un livello maggiore di fluidità sociale, differenziazione interna e
capacità collettiva dei favelados di deviarne l’azione, soprattutto attraverso le
risorse clientelari (M. Alvito, 1998; R. Gay, 1994). E tuttavia, in entrambi i
contesti sono state le gang di tipo imprenditoriale ad assumere un ruolo-guida
nel consolidamento dei sempre più intensi legami di tipo culturale e sociale
che oggi connettono le discariche urbane e i depositi carcerari, le une e gli
altri traboccanti di gruppi sociali resi materialmente e simbolicamente superflui dalla ristrutturazione neoliberista della metropoli, sebbene da direzioni
opposte.
In Brasile e negli Stati Uniti il ritiro (o l’assenza storica) dello Stato sociale e il concomitante sviluppo dello Stato penale nelle zone di maggior concentrazione della marginalità – dove lo Stato manca di ogni legittimazione –
non possono che perpetuare e perfino aggravare gli stessi problemi che questo processo bidirezionale si propone di affrontare. La militarizzazione dell’intervento di polizia, la repressione penale senza limiti e la deportazione in
massa verso prigioni situate nelle zone suburbane o rurali sono causa di un’ulteriore destrutturazione del tessuto urbano. Questi processi contribuiscono ad
aggravare la marginalità nella misura in cui piegano le traiettorie esistenziali
dei loro destinatari, pregiudicano la stabilità delle famiglie, indeboliscono le
strutture sociali locali e la loro capacità di esercitare qualsiasi controllo informale, alimentando ancora l’illegalità e la violenza interpersonale da parte (e
nei confronti) delle forze dell’ordine. Essi producono scarsi effetti sulla criminalità di strada perché non intervengono sul suo motore principale, cioè il
piccolo capitalismo predatorio e distributivo che riempie i vuoti lasciati dal
declino dell’economia del lavoro salariato. Inoltre, gli stessi processi contribuiscono a consolidare un clima asfissiante di paura e sfiducia verso le auto-
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rità nei quartieri più degradati. Catturandone i residenti all’interno di una fitta rete di vigilanza e intervento preferenziale da parte del proprio braccio repressivo, lo Stato contribuisce così direttamente ad acuire il divario sociale e
simbolico che li separa dal resto della società urbana.
In linea con un paradigma ben conosciuto nella storia carceraria, la natura patogena del trattamento penale della marginalità e dello stigma nella metropoli brasiliana, come anche negli Stati Uniti e in Europa, non produce alcun ripensamento dal punto di vista della sua implementazione. Al contrario, proprio il fallimento della criminalizzazione sembra riprodurre le condizioni sociali, gli incentivi politici e i destinatari adeguati alla sua continua e
crescente applicazione15.
Inoltre, il contenimento punitivo non è perseguito esclusivamente in nome dei suoi effetti strumentali di neutralizzazione e deterrenza nei confronti degli esclusi del nuovo ordine metropolitano – e ancor meno in virtù dei
benefici economici che esso assicura allo Stato o agli operatori economici
coinvolti nella gestione della reclusione, come vorrebbero i critici del «complesso carcerario-industriale». Esso è perseguito in maniera inseparabile per
la sua capacità a breve termine di perimetrare i disordini all’interno dei confini dei quartieri marginali e delle loro appendici carcerarie, e per la valenza
teatrale che esso assume agli occhi dell’opinione pubblica di classe medio-alta. A quest’ultima lo Stato propone dunque una vivida performance pubblica di «politica criminale come spargimento di sangue» nei confronti dei poveri detestabili (N. Batista, 1998, 77): gli “individui” senza radici, inutili e
senza volto che rappresentano plasticamente l’opposto della rispettabile e riconosciuta incarnazione brasiliana della “persona” – proprio come negli Stati Uniti l’underclass è stata dipinta nel dibattito accademico e politico come
precipitato collettivo di tutti i vizi morali e i pericoli fisici con i quali l’inner
city minaccia l’integrità di una nazione americana essenzialmente costituita
di decorose, ligie e suburbane «famiglie che lavorano» (D. J. Hess, R. Da
Matta, 1995)16.
La relazione ricorsiva e reciproca tra dominio incontrastato del mercato,
ristrutturazione dello Stato e profonda instabilità sociale alla base della gerarchia della metropoli neoliberale vincola le autorità a una spirale di penalizzazione che non solo promuove la chiusura verso l’interno delle zone povere, la fortificazione esterna dei distretti di classe media e la secessione del15
Secondo una logica ben dimostrata da M. Foucault (1975).
Cfr. anche K. Auletta (1982) per il resoconto giornalistico che ha definito il tono stigmatizzante del dibattito statunitense degli anni Ottanta, con tutto il calderone di tipologie sociali negative (compresi, in posizione chiave, gli “aggressivi criminali di strada”) sufficiente a dimostrare che
«l’underclass in genere agisce al di fuori dei confini accettati della società».
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le aree in cui si condensano il potere e il privilegio delle classi superiori, ma
si risolve da ultimo in una complessiva militarizzazione delle gerarchie urbane17. Questo è il significato esemplare del caso brasiliano: l’evoluzione della
favela nel suo controverso commercio con l’apparato locale di controllo sociale e amministrazione della giustizia funziona come cartina di tornasole delle tendenze sotterranee e delle conseguenze di lungo termine della politica di
smaltimento penale dei rifiuti umani prodotti da una società che precipita
nell’insicurezza fisica e sociale. Priva dell’effetto di ammortizzazione garantito dalla razionalità burocratica e dall’umanitarismo borghese, l’articolazione tra disuguaglianza estrema, violenza di strada e penalità fuori controllo
nella metropoli brasiliana – secondo il modello del «duplice consenso di Washington», economia di mercato e controllo della criminalità – alimenta la
concreta reductio ad absurdum dello Stato alla sua funzione repressiva e la
convergenza delle forze civili e militari verso il suo consolidamento. Tale articolazione trasforma la sicurezza pubblica in un’impresa marziale, e la lotta
alla criminalità in un banco di prova per una leadership politica virilmente
orientata verso “risultati” immediati e tangibili. E traduce l’applicazione della legge all’interno dei quartieri poveri stigmatizzati in una vera e propria
guerra ai loro residenti, con tanto di scontri a fuoco e manovre armate, spionaggio ed esecuzioni, controlli alla frontiera e conteggio dei morti, impressionanti “danni collaterali”, nonché demonizzazioni del “nemico” da parte
dei mezzi di comunicazione e delle autorità che si spingono a «rifiutare qualunque riferimento ai diritti dei criminali» (C. M. Nazareth Cerqueira, 2001,
60-1).
Questo accade tanto per il contenimento punitivo della marginalità urbana quanto per la contaminazione di popolazioni e culture occidentali e non:
lungi dal costituire un esempio di arretratezza, il Brasile «può offrire ai nordamericani e agli europei un’immagine del loro futuro» (D. J. Hess, R. Da
Matta, 1995, 2), rivelando in che modo la penalizzazione senza limiti conduca all’assimilazione tra le frontiere socio-spaziali interne alla metropoli e i
confini esterni. In base a questo approccio, le agenzie deputate al controllo
urbano agiscono analogamente a polizie di frontiera e forze di occupazione
che operano in zone povere, trattandole come “aree di guerra” domestiche,
in cui trova rifugio una popolazione aliena, privata dei diritti e delle protezioni garantite dalla legge ordinaria. E proprio come le «escalation di polizia» che si verificano in zone internazionali sensibili – come al confine tra gli
17
Nel caso del Brasile si tratta di una “ri-militarizzazione” che perpetua i peggiori abusi della
dittatura militare, come ben dimostra C. M. Nazareth Cerqueira (2001). Questa escalation marziale da parte delle autorità è a sua volta alimentata dalla militarizzazione del traffico di droga nei quartieri degradati.
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Stati Uniti e il Messico o tra l’Europa e il Nordafrica – «hanno meno a che
vedere con la deterrenza che non con l’immagine», in quanto sono orientate
a consolidare simbolicamente la pretesa dello Stato di esercitare il proprio
dominio territoriale e la gestione di uno spazio unificato post-nazionale, in
un periodo in cui lo Stato ha rinunciato a entrambe queste dimensioni nella
ricerca spasmodica di nuovi mercati (P. Andreas, 2000, 143)18, così la militarizzazione dei malfamati quartieri della povertà urbana serve a proiettare la
nuova fisionomia di questo peculiare «trascendentale storico» che è lo Stato
neoliberale, drammatizzando la sua capacità di governare le popolazioni e le
zone problematiche della metropoli, e di ristabilire attraverso la legge e l’ordine le gerarchie che nelle classificazioni di Stato sono racchiuse (P. Bourdieu, 1997). Questo ci riporta al paradosso centrale del progetto neoliberale: la promozione del mercato come strumento ottimale di organizzazione
delle attività umane non invoca soltanto un “governo minimo” e minimalista
sul versante economico e sociale, ma anche – e senza contraddizione – uno
Stato allargato e ordinato, capace di presidiare con la forza l’ordine pubblico e di tracciare fondamentali confini sociali ed etnici.
Lungi dal passare in secondo piano, come alcuni discorsi sull’«esclusione» sembrano suggerire, i quartieri di segregazione urbana – la favela degradata in Brasile, l’iperghetto statunitense, le decadenti banlieues parigine e le
desolate inner cities olandesi o scozzesi – si rivelano spazi fondamentali al cui
interno lo Stato penale neoliberale viene concretamente assemblato, rodato e
testato. Alla fine del XIX secolo i poveri che si ammassavano nei distretti degradati della metropoli in espansione garantivano, da una parte, una forza lavoro utilizzabile per l’espansione dell’industria e, dall’altra, una popolazione
adatta al braccio protettivo del nascente Stato sociale, con l’invenzione dell’assistenza sociale, la generalizzazione dell’istruzione primaria, l’introduzione dei sistemi pensionistici e le aziende pubbliche nei campi della sanità, dell’edilizia popolare e dei servizi alla persona. Alla fine del XX secolo, quelle popolazioni sono state ridotte a materiale grezzo per la realizzazione delle proteiche istituzioni penali che compongono il volto feroce di uno Stato penale
neoliberale che volge il suo sguardo minaccioso sui reietti della società di
mercato.
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Per un’ulteriore esempio del ricorso brutale alla militarizzazione del confine a presidio dell’omogeneità etno-razziale del corpo nazionale, cfr. A. Bonstein (2002).
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