rubriche recensioni live interviste

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rubriche recensioni live interviste
NUMERO 45 | INVERNO 2013 | COPIA GRATUITA | WWW.BEAUTIFULFREAKS. ORG
INTERVISTE
LIVE
RECENSIONI
RUBRICHE
Sommario
INTERVISTE
5 Intervistadoble
5 Inner Ear
6 Red Cat Label
9 Intervista Omosumo
LIVE
11 Benjamin Petit Quartet
RECENSIONI
12 Full length
32 Ep
RUBRICHE
35 L’opinione dell’incompetente
36 Chi l’ha visti?
LE RECENSIONI
FULL LENGTH: Massimo Volume | Collettivo Ginsberg | Deadburger Factory | Eternal Zio | Monsieur
Voltaire | SignA | Portugnol Connection | Teatro Satanico | Losburla | Ku | Logout | Tango With Lions
| No Clear Minds | Hyaena Reading | Impression Materials | Diego De Gregorio | Io Monade Stanca |
Vietcong Pornsurfer | Badmotorfinger | Marcello Capozzi | Il Nido | Pico Rama | The 4Th Ward Afro
Klezmer Orchestra | KuTso | Diraq | Nicola Battisti | Morfema | Disorchestra | Kathryne Williams |
Muschio | Andrea De Luca | Carpacho! | Giöbia | Federico Cimini | GTO | El Bastardo Outlaw Picker | The
Snookys | Cani della Biscia | Chiara Atzeni | Sister in the Closet | Drama Emperor
EP: Asgeir Trausti | Kandma | Fine Before You Came | Le Gros Balon | Tiger Tsunami | Esperia | DPG |
Relazioni Pericolose | La Fortuna di Nashira
BEAUTIFUL FREAKS
Sito web: www.beautifulfreaks.org E-mail: [email protected]
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Direttore responsabile: Mario De Gregorio
Direttore editoriale: Andrea Piazza
Caporedattore: Agostino Melillo
Redazione: Maruska Pesce, Marco Petrelli, Fabrizio Papitto, Piergiorgio Castaldi, Pablo Sfirri, Luca
James, Bernando Mattioni, Marco Mazzinga.
Hanno collaborato: Plasma, Alberto Sartore, Ciceruacchio, Rubby, Anthony Ettorre, G. Montag,
Vincenzo Pugliano, Alesiton, Faber Pallotta, Marco Balzola. Un ringraziamento particolare a Marco M.
Le illustrazioni sono di Aenis (www.aenisart.com).
Beautiful Freaks è una testata edita da Associazione Culturale Hallercaul,
registrazione al Roc n° 22995
editoriale
La condizione umana dei nativi digitali. Potremmo provare a sottotitolare così la nostra copertina. Nel
dipinto La condizione umana, Magritte poneva la riflessione sulla conoscenza e sulla rappresentazione del
mondo reale, con questa nostra immagine il focus è piuttosto sull’esperienza reale e l’esperienza mediata
da un dispositivo digitale, sull’esistenza di molteplici livelli di realtà o di un livello unico, e su questo livello
guardare un concerto attraverso un tablet o guardare un tablet e trovarci dentro un concerto.
La mediazione nel nostro caso modifica l’ “apertura” del soggetto all’azione, all’esperienza. Agendo sul
dispositivo si può modificare la percezione del mondo (zoommare, inquadrare altri oggetti, ecc..) ma non
è possibile modificare il proprio stato nel mondo. In altri termini, se al concerto stai tutto il tempo con il
tablet in mano, ascolti e registri il concerto, ma non lo vivi attivamente, accogli passivamente ciò che hai
davanti come fosse chiuso, ma l’atteggiamento più appagante (altrimenti perché hai pagato per essere lì?
diventa fotografo e chiedi un pass...) è quello attivo, interattivo. Meno coinvolgimento, meno spettatori ai
concerti, in particolare a quelli di artisti poco conosciuti, dove l’ “io c’ero“ è un fattore irrilevante.
Cambiamenti tecologici portano con sé cambiamenti socio-culturali. E difatti, parallelamente alla digitalizzazione è avvenuto un cambiamento del “consumatore” di musica, che si inserisce in un fenomeno
socio-economico più generalizzato. Rifkin parla di una “era dell’accesso”, un nuovo stadio del capitalismo
che vede il passaggio da un’economia fondata sulla proprietà a una fondata sull’accesso ai servizi, alle
relazioni, alla conoscenza. Nella musica, in effetti, non si cerca più il prodotto, ma il servizio, l’accesso. Non
è la possibilità di acquistare il prodotto discografico che solletica la bramosia del futuro ascoltatore, ma il
mero accesso al contenuto musicale. Per questo possono imporsi e prendere piede piattaforme streaming
che offrono una stragrande quantità di musica digitale, volatile, impalpabile. Non supporti, ma servizi musicali... non è del tutto una novità. La radio è il servizio musicale per eccellenza, ti permette di ascoltare
musica che non hai acquistato, che non possiedi. E se volessimo tirare le somme, in fondo la differenza fra
radio e piattaforme per lo streaming musicale è tutta nella presenza della “guida umana”, lo speaker, che
ti accompagna nell’ascolto. Un’enorme differenza: il supporto dello speaker radiofonico è ben diverso dal
suggerimento automantico informatizzato “ascolti consigliati per te” o “artisti simili”. Un conduttore di
Radio 3, una notte, accostò Tricky a Tom Waits e la sua argomentazione a sostegno della scelta mi convinse,
ma avessi letto una cosa del genere su Spotify avrei disinstallato subito il programma.
I tempi cambiano e dobbiamo farci i conti per trovare lucidamente la soluzione più adeguata affinché non
si progredisca al ribasso, tenere alto il livello culturale nel campo musicale, almeno nel campo musicale.
Hyppolite Taine invitava a “vedere gli uomini nelle loro officine, negli uffici, nei campi, con il loro cielo, la
loro terra, le case, gli abiti, le culture, i cibi”... ma adesso anche davanti ai loro dispositivi per la navigazione
internet. L’uomo cambia e con lui la sua musica, che ha trasferito – lo dobbiamo accettare – ormai consistentemente online. Nel constatarlo, il nostro auspicio è che la scralità di certe occasioni d’ascolto resti inviolata al mutare dei tempi. L’augurio è di non ritrovarci un giorno ad abbassare l’ipad e accorgerci che lì sul
palco i musicisti non ci sono più... migrati tutti per sempre nella realtà virtuale del web. • Agostino Melillo
Moving Picture Expert Group-1/2 Audio Layer 31. MP3. Uno spettro si aggira per la rete. Anch’esso è
intangibile, volatile, germe germogliante e infinitamente replicabile di una rivoluzione giunta ormai al
compimento. Anche se piuttosto giovane da non farcene accorgere dobbiamo ammetterlo. È la controparte musicale di ogni alternativa digitale per la fruizione artistica dei giorni nostri ed è il cambio di orizzonti
di una generazione che può saziarsene a volontà, ma che molto spesso non ha forchetta e coltello per
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assaporarne le giuste quantità. Archiviato il millennium bug abbiamo capito che l’anno zerozerozero non
ci avrebbe spaventato e perchè non provare – ci siamo detti – a sperimentare senza supporto? Il supporto
ti aiuta ad iniziare a muovere i primi passi per farti conoscere ma è pur vero che ha dei grandissimi costi.
Nell’editoria lo “stampa solo se necessario” è una pratica che qualche foresta avrebbe volentieri ricordato
se non fosse che ogni anno qualcuno compie quindici anni nel mondo, come piace ripetersi Dan Brown ogni
mattina davanti allo specchio.
Nell’industria cinematografica, non tanto la stampa della pellicola, ma ogni nuovo supporto ancora più
“performante” cominciava ad essere pedissequo e non richiesto, tra vhs, hd-dvd, blu-ray, ultraviolet. Un
mercato che, di reazione, faceva affermare sempre con più tenacia l’idea dello streaming, una visione a pixelloni e buffering su buffering. Il vero punto debole del supporto è l’incredibile lentezza nella diffusione a
livello globale delle nuove uscite. In un mondo dove perfino le serie tv straniere vengono seguite in prima
visione anche senza bisogno di traduzione si aprono nuovi spazi di manovre commerciali e imposizioni
culturali, ridefinendo la distribuzione paese per paese.
La perdita del supporto è anche una sconfitta dell’arte però. Il flusso digitale di dati, essendo nervo infrastrutturale di un paese (e in Italia totalmente appassito), determina anche la qualità della fruizione e in certi casi l’avvento di una nuova uscita prende il sopravvento sulla fruizione della stessa, abbassando di fatto
la capacità di gustarne l’estetica da parte del pubblico... ma tant’è, contenti loro contenti tutti! E questa è
stata un pò la rovina dei giorni nostri. La fruizione non all’altezza, la sovrabbondanza della scelta ha convogliato il gusto sui grandi classici per non perdersi nel mare magnum o sui prodotti totalmente commerciali,
di fatto perdendo quella che era un’ottima opportunità per il settore artistico di valore. I blockbuster
hanno ridefinito con tutti i loro film di recente uscita la classifica ai botteghini italiani per incasso e non c’è
fan della boyband o regina del pop di turno che non ti dica che comunque “ha anche i Velvet Underground,
nel suo iPod”, e che usi una punta di commozione nel dirlo se è appena avvenuta la scomparsa dell’artista
universalmente riconosciuto. Di certo con la rivoluzione digitale ne giova la “persistenza” delle opere. Alla
fine quel che si ha tra le mani è un enorme schedario e se ne trae forza anche dalla cosidetta pirateria che
sradica, seppur non totalmente, la possibilità che un Oreste Del Buono voglia ritirare dalla circolazione
un suo libro che non lo convinceva più o che un violento incendio distrugga un archivio filmico di pellicole
di cellulosa (nel caso cinematografico anche il ben più resistente poliestere non ha resistito alla forza
dei tempi, con buona pace dei proiezionisti dei cinema, scomparsi anch’essi in maniera indiscriminata ma
soprattutto ingiustificata).
Si corre il rischio di abusarne di questo “schedario”: nella fotografia lo scatto veniva scelto, ora si scatta a
oltranza nel mare magnum, rimandando a un secondo momento la selezione delle cose migliori. Diventerà
certo difficile ritrovare le cassette delle prime registrazioni amatoriali di un artista, e magari non è totalmente un male se metterà fine anche al commercio postumo di B-sides. In realtà oggi è sempre più diffusa
la pratica di costruire album interi accumulando prime registrazioni amatoriali o di far uscire soltanto le
signole tracce, senza l’esigenza di concepirle all’interno di un album.
Mi è capitato di parlare con un paio di artisti americani circa una nota piattaforma di streaming e vendita
online di album. Questi artisti ogni due mesi o poco meno mi presentavano un nuovo singolo da recensire
e io ero seccato, dato che qui a Beautiful Freaks recensiamo solo album full-length o EP, niente singoli o
raccolte. La loro risposta è stata che l’idea è quella di creare una sorta di album compilation, come si confà
a una generazione cresciuta sin da piccola con gli mp3. Il loro “album” veniva portato a compimento solo
quando loro se lo sentivano, rispettando i tempi delle loro ispirazioni, senza dover buttare giù forzatamente quelle tre quattro canzoni giusto per arrivare a dodici ed alè, album finito, si può chiudere la registrazione. E questo è uno spettro che si aggira per l’America... • Andrea Piazza
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intervistaDOBLE
Solleticati dal nostro stesso editoriale abbiamo deciso di coinvolgere due etichette, la greca
Inner Ear e la fiorentina Red Cat Records, in una disamina sullo stato attuale della rivoluzione
digitale e sull’abbandono del supporto. Soltanto perdita o opportunità? Le numerose etichette
indipendenti hanno la possibilità di competere alla pari in questo nuovo campo da gioco con le
major? È solo una questione di forma o le regole sono cambiate? Vediamo cosa ne pensano.
1. INNER EAR
Etichetta greca, nata nel 2007 a Patrasso come one-man label, diventata
in questi anni un piccolo gruppo leader del settore indie in Grecia. Nel suo
roster annovera piccole realtà come artisti ellenici più affermati specializzandosi in alt-rock e modern folk con testi in inglese mentre, attraverso la
sottoetichetta Exostis, si focalizza su produzioni di vario genere con testi
in greco. Dopo vari riconoscimenti in patria la Inner Ear ha cominciato a
guardare oltre i confini per farsi conoscere attraverso internet ed esportare i propri artisti attraverso i social e i portali di ascolto in streaming e
vendita album. Risponde alle nostre domande Maria Paroussi.
Inner Ear nasce nel 2007 a Patrasso, Grecia.
Siamo nel pieno dell’esplosione su scala
internazionale dei social media, delle piattaforme per lo streaming, e della crisi dei
negozi di dischi. Dopo l’iniziale percezione
apocalittica del medium digitale, considerato come la distruzione del mercato del
disco fisico e di un’intera cultura ad esso
legata, si assiste oggi una maggiore apertura. In base alla vostra esperienza, come
può un’etichetta discografica beneficiare
del medium digitale e della Rete? Prevedete o auspicate evoluzioni future?
INNER EAR: Il medium digitale e la rete
hanno contribuito a diminuire le distanze e
aiutato la musica ad arrivare in ogni casa e a
diffondersi in giro per il mondo. Ogni giorno
carichiamo la nostra musica su Bandcamp in
modo che possa essere ascoltata in streaming ovunque e senza dubbio questi social
media hanno dato un potenziale senza limiti
alla promozione di un artista e la sua musica;
un ascoltatore giapponese può ora scoprire
un gruppo greco, italiano e così via.
Fino a qualche anno fa tutto ciò avrebbe
preso molto tempo, con dispendio di denaro
e avrebbe richiesto una particolare strate-
INTERVISTE
LIVE
gia per rendere disponibile una release
all’estero. Naturalmente questa evoluzione
ha portato i suoi naturali svantaggi come il
fatto che ora c’è troppa musica disponibile
rispetto a quanto ascolterà un fruitore medio. Chi è quindi l’ascoltatore, ci chiediamo.
Le persone sono ogni giorno più occupate a
fare altro e sfortunatamente la musica gioca
un ruolo secondario nella loro vita...
La promozione sul web si avvale spesso dello
streaming gratuito. L’ascoltatore in questo
modo ha la possibilità di valutare il disco in
mp3 prima di acquistarlo.
Perché comprare un disco fisico avendo la possibilità di ascoltare il disco gratuitamente in
digitale? La possibilità di migliorare la qualità
dell’ascolto acquistando il supporto fisico è un
fattore determinante nella scelta?
INNER EAR: Le persone che continuano a comprare dischi sono attaccate al formato fisico in una
maniera molto stretta. Molti di loro sono collezionisti e prestano molta attenzione al packaging,
alle informazioni che possono trovarci (ringraziamenti e testi per esempio) e, ovviamente, alla
qualità audio. Non ascoltano semplicemente un
album sul computer mentre fanno altre cose,
RECENSIONI
RUBRICHE
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bensì trattano un album come dovrebbe essere
e cioè come un lavoro artistico multiforme che
include musica, parole, testi e l’artwork ad esso
ispirato.
L’ascoltatore è più consapevole o il comportamento d’acquisto è legato per lo più a fattori
impulsivi, ovvero ci sono più cacciatori di perle
musicali o prede del marketing?
INNER EAR: Complice il momento economico non
riscontriamo un grande spazio per l’acquisto di
album su impulso. Gli ascoltatori ora sono totalmente consapevoli di quello che gli piace e di ciò
che vogliono acquistare. Internet ha aiutato molto in questo senso così chiunque può ascoltare in
streaming qualsiasi cosa ed essere sicuro che ciò
che sta per acquistare lo soddisferà sul serio...
Si assiste alla rinascita del vinile e anche Inner
Ear ha una buona proposta di opere musicali in
questo formato. A cosa è dovuta la riscoperta,
maggiore qualità, un oggetto più invitante, uno
status symbol…? Come è possibile far sviluppare nei nativi digitali la passione per il vinile?
INNER EAR: I vinili sono sempre stati un feticcio
per la musica. Ci piace vedere la loro rinascita
come un atto di resistenza dei fruitori contro la
rivoluzione digitale. La loro qualità audio è sicuramente migliore dei cd (per non parlare degli mp3)
e sono strettamente collegati a un rituale particolare che manifesta un modo di usufruire della
musica come forma d’arte e non come oggetto
di consumo come in un fast food. È così difficile
immaginare un futuro interesse comune tra i cosidetti “nativi digitali” e i collezionisti di vinili che
rappresentano i due estremi del mondo della musica ma non è detto, non si sa mai cosa succederà.
Dal nostro canto, così come molte nostre uscite
sono solo in vinile, proviamo ad approcciare i na-
tivi digitali includendo sia dei codici di download
nei nostri vinili sia nei cosidetti cd a portafoglio
(ndt. cd wallet), così tutti son felici.
Il web diminuisce le distanze e agevola le contaminazioni internazionali. Secondo la vostra
esperienza, ci sono delle differenze nel gusto
musicale degli ascoltatori greci e di quelli di
altri Paesi o la globalizzazione dei consumi è
giunta alle estreme conseguenze? Riescono
ancora a caratterizzarsi gli artisti mantenendo
un rapporto con la loro terra d’origine?
INNER EAR: Naturalmente ogni paese ha nella
propria cultura musicale, con peculiarità locali.
Per esempio c’è un repertorio popolare mainstream che i greci ascoltano e non attrarrà mai
molto un ascoltatore internazionale, non solo a
causa dei testi in greco ma soprattutto perché è
un modo di fare musica che non incontra il gusto
estero. La buona notizia è che in Grecia ci sono
nuovi artisti che cercano di combinare con successo le loro radici greche con le influenze di musica internazionale e molti di loro suonano scrivendo i testi in inglese... La lingua poteva essere
una barriera al tempo ma ora non lo è più, molti
giovani greci parlano un inglese perfetto.
L’identità locale di un artista è naturalmente collegata alla propria arte ma troviamo molto bello
quando la musica travalica i confini e raggiunge
ascoltatori in giro per il mondo. Come etichetta
stiamo muovendo i nostri primi timidi passi nel
calderone musicale internazionale e troviamo
frustrante quando le recensioni della stampa
internazionale si focalizzano troppo sulle origini
dell’artista (menzionando puntualmente la crisi
finanziaria greca e il nostro debito nazionale) che
sulla musica stessa. È ingiusto nei confronti di un
artista che mette tutto il suo sforzo e la sua energia nella realizzazione del suo album.
2. RED CAT
Lo sparring partner della Inner Ear è la Red Cat
Label. Al telefono rosso dell’etichetta fiorentina risponde Alice Cortella, la discografica più
giovane d’Italia. Alice è nella stanza dei bottoni
della Red Cat Label, ufficio stampa ed etichetta
fiorentina da lei fondata che si occupa di promozione di gruppi per lo più rock e metal. L’etichetta
cerca di portare avanti un percorso comune instaurando un rapporto continuativo, prediligendo una
comunione d’intenti per seguire i gruppi passo passo in ogni ambito della loro carriera. Un’etichetta
nativa digitale che ha trovato il coraggio di farsi strada in un momento economico-sociale non parti-
INTERVISTE
LIVE
RECENSIONI
RUBRICHE
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colarmente favroevole. Nell’intervista la giovane produttrice esprime le sue valutazioni sul rapporto
fra web e indie.
Com’è nata la scelta di impegnarti in questo
settore, in questo momento storico?
ALICE: Innanzitutto un caro saluto a tutti i lettori di Beautiful Freaks! L’intraprendere un lavoro
nel mondo della musica non è stata una vera e
propria scelta, quanto una necessità. La musica
è da sempre una mia grande passione, coltivata
esclusivamente in veste da ascoltatrice (non ho
mai suonato né cantato).
Ci troviamo sicuramente in un momento storico
molto difficile, che il più delle volte costringe i
giovani, e non solo, a rinunciare ai propri sogni
in favore di un’occupazione qualsiasi, spesso a
tempo determinato e senza assicurazioni per il
futuro.
La mia scelta è stata di guardare oltre questa
situazione, cercando di far crescere un’attività
lavorativa che rappresentasse al contempo anche ciò che avrei voluto fare nel mio futuro.
Gli ostacoli nel gestire un’etichetta continuano
ad essere molti, sia a livello economico che burocratico, ma ad oggi posso affermare che le soddisfazioni sono state e sono tantissime e ripagano
ogni sacrificio.
Ormai la proposta musicale indie è un mare in
piena, come ti orienti nella scelta dei gruppi
per la tua etichetta?
ALICE: I parametri con cui scelgo una band sono
semplici, ma per me fondamentali. Mi ritengo abbastanza esigente e cerco band che abbiano non
solo qualcosa da dire, ma che riescano a comunicarlo all’ascoltatore. L’originalità a mio parere è
una peculiarità di pochi eletti, ma riuscire a caratterizzare il proprio sound, rendendolo riconoscibile nella massa, sicuramente è fondamentale.
Infine presto molta attenzione alla produzione
artistica e alla qualità tecnica, che devono essere
ad alti livelli per valorizzare al massimo le potenzialità di un gruppo.
Era il nemico della cultura e dei diritti degli
artisti, ora il web sta diventando il principale
veicolo di promozione e in alcuni paesi la principale piattaforma di vendita degli album dei
gruppi. Ma è un terreno impervio, fatto di
nuovi compromessi, nuove eventualità, eterne
migrazioni. Come si orientano un produttore e
INTERVISTE
LIVE
Foto di Lorenzo Desiati
anche un ascoltatore in questa macchina infernale?
ALICE: Cercando di mantenere una propria etica
e fissando delle proprie regole, anche in questo
nuovo mercato.
Sono ad esempio a favore dello streaming, ma
solo su siti controllati.
Sono invece assolutamente contraria al download gratuito, considerato da molti un ottimo
veicolo promozionale. Dal mio punto di vista invece sminuisce di molto l’immagine della band e
dell’album e di conseguenza l’opinione che può
farsi il pubblico è quella di un disco che ha poco
valore, senza contare che i risultati di promozione
e di diffusione sono minimi, specialmente per i
gruppi emergenti.
In un momento in cui il supporto fisico ha perso
mercato, in cui in Italia il musicista è ancora visto
come un “dopolavorista”, in cui la tendenza è regalare la musica, credo che si debba invece lottare
per cercare di dare la giusta importanza e credito
alla figura dell’artista, cercando di far capire quanti sacrifici, quanto tempo ed anche quanto denaro siano stati investiti in ogni disco pubblicato.
La promozione sul web si avvale spesso dello
streaming gratuito. L’ascoltatore in questo
modo ha la possibilità di valutare il disco in
RECENSIONI
RUBRICHE
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mp3 prima di acquistarlo. Perché comprare un
disco fisico avendo la possibilità di ascoltare il
disco gratuitamente in digitale? La possibilità
di migliorare la qualità dell’ascolto o di godere
del relativo artwork acquistando il supporto fisico è un fattore determinante nella scelta?
ALICE: Sicuramente il piacere di avere un supporto fisico, il disco “vero”, completo di tutto. In
secondo luogo per poter ascoltare i brani quando
e come si vuole.
Il Web ha parzialmente sostituito il luogo
tradizionale dell’acquisto e scoperta degli album musicali: il negozio di dischi. Venendo
meno il contributo di una persona fisica esperta (come potrebbe essere il venditore di un
negozio di dischi) e considerando la decadenza
dell’autorità delle riviste di settore, come si
guida all’acquisto di un album musicale un ascoltatore sulle piazze telematiche?
ALICE: Purtroppo in Italia il problema
di cosa acquistare on line è ancora secondario: il primo sicuramente rimane
quello di far comprendere che ciò
che si trova sul web non dev’essere
per forza gratuito, ma va acquistato.
Quando ci si recava in un negozio di
dischi ovviamente questo problema
non sussisteva, perché si comprava
qualcosa di concreto, che si può vedere, toccare e non solo ascoltare:
un vinile o un compact disc. L’idea di
acquistare qualcosa che con un solo
click può scomparire e che non puoi
tenere fra le tue mani è ancora molto
lontana.
Inoltre, il più delle volte sul Web tutte
le proposte appaiono come messe
sullo stesso piano e, se da un lato una
band emergente può ritagliarsi un
proprio spazio, dall’altro ciò avviene
tra milioni di altri artisti, il che rischia
di vanificare ogni forma di promozione “low cost”.
Per riuscire a differenziarsi è assolutamente fondamentale per un’etichetta
pubblicare solo dischi di qualità: in
questo senso la label dovrebbe proprio assumere il ruolo che un tempo
era del negoziante, diventando quindi
una sorta di marchio da seguire e di
cui potersi fidare .
INTERVISTE
LIVE
Il web diminuisce le distanze e agevola le contaminazioni internazionali. Secondo la tua esperienza, ci sono delle differenze nel gusto
musicale degli ascoltatori italiani e di quelli
di altri Paesi o la globalizzazione dei consumi
è giunta alle estreme conseguenze? Riescono
ancora a caratterizzarsi gli artisti mantenendo
un rapporto con la loro terra d’origine?
ALICE: Direi assolutamente di sì. Molti paesi europei, e non solo, sono tutt’oggi legati alla propria tradizione musicale, sia nell’ascolto (e nelle
vendite) sia nelle nuove proposte musicali. Basti
pensare al Metal nel Nord Europa, al Pop britannico, all’Hard Rock americano...
• Interviste di Agostino Melillo e Andrea Piazza, traduzioni di Marco Petrelli e Andrea Piazza.
RECENSIONI
RUBRICHE
BF 9
OMOSUMO
Sul precedente numero di BF avevamo sottoposto alla vostra attenzione Ci proveremo a non
farci male, strepitoso Ep, vessillo della scuola elettronica siciliana, sound fra i più interessanti
negli ultimi anni. Ad oggi gli Omosumo hanno già alle spalle collaborazioni illustri ed esibizioni al cardiopalma… dai live a sostegno de L’Arsenale alla partecipazione all’ Ypsigrock…
pochi mesi dall’uscita del Ep hanno fatto piazza pulita. Tre musicisti con altrettanti progetti
sulle spalle, tre performer eccezionali: la voce è quella di Angelo Sicurella (maestro indiscusso
delle drum machine), con lui a dar vita agli Omosumo Antonio Di Martino (meglio conosciuto
come Dimartino) e la chitarra psicopatica di Roberto Cammarata (basta dire solo Waines).
Stavolta cerchiamo di capirne qualcosa in più dal loro punto di vista…
“Ci proveremo a non farci male” a mio avviso
è uno dei lavori più belli usciti quest’anno…
raccontateci di questo groove pazzesco… di
questo disco pazzesco…
OMOSUMO: Beh adesso non esageriamo… “Ci
proveremo a non farci male” è nato nel corso
dell’ultimo anno, diciamo che rappresenta
l’evoluzione della band da quando si è stabilizzata in questa formazione in trio drum machine
- chitarra - basso. Ad un certo punto abbiamo sentito l’esigenza di mettere nero su bianco questa
fase e quei brani ci sono sembrati rappresentativi
della cosa.
Un Ep molto fortunato
visti i feedback che ha
raccolto dall’uscita, ve
lo aspettavate?
Non proprio, abbiamo
scelto una strada poco
battuta in Italia, e avevamo messo in conto che
il nostro lavoro potesse
sembrare interessante
ed essere apprezzato,
o anche che risultasse invece superflo e inutile.
Siamo contenti del fatto che abbia raccolto molti
apprezzamenti, ma consideriamo questo Ep una
base di partenza e null’altro.
Tre diverse radici musicali come si uniscono per
dare vita ad un progetto così insolito?
In maniera molto naturale, ci si chiude a lavorare
e sperimentare insieme, senza porsi paletti o
regole, finchè il risultato non ci sembra convincente. Gli Omosumo non sono solo una band,
INTERVISTE
LIVE
ma dietro ci sono tre persone legate da rapporti
personali solidi, e dalla condivisione di molteplici
interessi. Non ci siamo mai dati dei riferimenti
precisi in scrittura, e questo ci dà una sensazione
di grande libertà, e a volte anche di grande smarrimento, ma è bello e stimolante costruire le proprie piccole certezze da zero.
Il termine Omosumo ha un non so che di orientale… da cosa deriva?
Ci suonava bene. Il nome è nato da un ragionamento partito dalla parola “sumo”, quindi in effetti qualcosa di orientale
c’è, ma non chiederci di
ricostruire come siamo arrivati a Omosumo perché
non saremmo più in grado di
farlo.
Un sound “internazionale”… è frutto dei vostri ascolti personali o costruito
proprio per risultare tale?
Il sound di “Ci proveremo a
non farci male” è il frutto
della collaborazione con Mario J McNulty, un giovane producer newyorkese che ha lavorato con
gente pazzesca (Nine Inch Nails, David Bowie,
Lou Reed, Raveonettes), questo di certo ha rappresentato un valore aggiunto, dato che Mario
è riuscito a trovare un bel mix tra le varie anime
che compongono il nostro suono. I riferimenti in
termini che sentivamo a noi più vicini per questo
Ep sono sicuramente internazionali, quindi se ci
fai questa domanda ci siamo andati quanto meno
vicini, meno male.
RECENSIONI
RUBRICHE
10 BF
Un Ep è un apripista per un album… quanto si
dovrà ancora aspettare?
Qualche mese, ci stiamo lavorando ma non abbiamo fretta. E abbiamo voglia di andare oltre l’Ep
quindi ci stiamo prendendo il nostro tempo per
maturare e mettere a fuoco le sensazioni che ci
attraversano in questo momento.
Qualche cambiamento in vista dal punto di
vista musicale?
Certo, siamo pronti a mettere in discussione e
ribaltare tutto ciò di cui abbiamo parlato fino ad
ora, l’unico obiettivo che teniamo a mente è che
quello che venga fuori ci rappresenti pienamente.
Per essere poi pronti a rimetterci in gioco al passaggio successivo. Non ci piace la stasi, preferiamo prenderci dei rischi.
In rete dove vi trovate?
Non ci cerchiamo spesso, ma se qualcuno volesse
INTERVISTE
LIVE
trovarci basterà cercare il nostro nome su motori
di ricerca, Facebook, Spotify ecc. e di certo troverà. Non penso ci siano molte altre band in giro
con tutte queste “o” nel nome.
E live?
Probabilmente entro fine anno faremo qualche
capatina live, ma penso che il grosso verrà dopo
l’uscita del nuovo disco. Fino ad allora preferiamo
stare concentrati sul lavoro alle cose nuove.
Eccovi tre righe di totale anarchia: dite e “fate”
ciò che volete…
Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora è assolutamente falso!
Adesso vi tocca metter play nel lettore e spaccarvi i
timpani con il groove che abbiamo cercato di raccontarvi… attenti a non farvi male! • Maruska Pesce
RECENSIONI
RUBRICHE
BF 11
BENJAMIN PETIT quartet
@ Parigi 9.10.2013
Progetto “Acousticollision” di Benjamin Petit’s Quintet: Un jazz per tutti.
Le strade di Parigi sono immerse nella pioggia. Le insegne rosse della Rue des Lombards, strada famosa per i suoi club di Jazz,
si riflettono sul marciapiede grigio creando
aloni intensi nella notte. Il Sunset-Sunside è
un locale su due piani. Ha due piccole sale da
concerto. Nel sottosuolo l’ambiente richiama
l’atmosfera di una stazione di metropolitana
parigina, mentre al piano terra troviamo un
piccolo ambiente, in stile newyorkese, capace di ospitare non più di 40-50 persone.
Pur arrivando con un certo anticipo, trovo la
sala quasi piena.
Mi siedo accanto ad uno dei tanti habitués
americani, che solitamente frequentano i
vari locali Jazz di Parigi in cerca del richiamo della loro “home sweet home”. Il pubblico è costituito in buona parte da persone
di mezz’età, all’apparenza molto austere,
sofisticate, difficili da impressionare. Mentre
attendo, le luci si fanno sempre più soffuse,
rosse ed arancioni. Manca solo del fumo e mi
sembra di stare in un jazz club newyorkese
degli anni ’50. E mentre tutti attendiamo i
musicisti, gli occhi fissi sul piccolo palco… la
prima che cosa che percepiamo non sono immagini, bensì suoni.
Nessuna parola, solo un coro di voci baritone, immerse nell’ombra, che dal retro del
locale entrano e ci prendono di spalle, inaspettatamente. Una cantilena profonda, che
riporta alla mente i cori degli schiavi neri
negli States. Così, senza fermarsi, Benjamin
Petit al Sax, Jerry Leonide al piano, Zacharie
Abraham al contrabasso, Yoann Schmidt alla
batteria e il trombettista Nicolas Girard salgono sul palco sfiorando i propri strumenti,
aprendo il primo dei classici tre set con “5
degrés Sud”. Essendo un ambiente piccolo,
l’acustica è perfetta, frontale, forte e nitida,
la voce del sax, che di tanto in tanto dialoga
con la tromba, arriva dritta al cuore.
Il pubblico parigino, glaciale e composto,
si scioglie rapidamente, seguendo il ritmo
di Mach Buffet . E come definirlo? è jazz? È
groove? Resto incantata dalla capacita del
quintet nel fondere i generi con genuina
semplicità, nel far sentire a fior di pelle la
nozione di convivenza e poliedricità di ogni
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suo membro . “Acousticollision” ora mi appare chiaro: una potente commistione di generi fusi in un sound diretto, fresco, naturale.
Ascoltandoli mi è subito venuto in mente
quel di cui parlava Winston Marsalis nel suo
libro “come il jazz può cambiarti la vita”:
ogni strumento riempie il vuoto dell’altro,
ogni musicista si libera e si definisce non
nel tecnicismo o nella solitudine del proprio
strumento, bensì nella totalità del gruppo.
E’ jazz perché non è solo improvvisazione e
tecnica… è jazz perché è una vera e propria
conversazione, perché c’è una impressionante gestione delle intensità. C’è un’anima
in esso. E finalmente posso dirlo: con loro
riscopro il vero Jazz, quello diretto a tutti,
senza neppure un velo di arroganza, senza
arie di sofisticatezza, di pavoneggiate elitarie. Un vero e proprio riorno alle “roots”
della nozione del Jazz. Melodie semplici (e
badate bene dico semplici ma sul punto di
vista tecnico non ho mai visto musicisti così
capaci) in grado di trasportare via gli spettatori con facilità..
Per chiudere il primo set invitano Balthazar,
un rapper francese. Su un jazz a due tempi
scopro una fusione meravigliosa tra Jazz
e Hip Hop Franco-americano. Il pubblico di
cinquantenni, composto e con espressioni
da bulldog ora oscilla la testa e tiene il ritmo. Difficile sentire il distacco tra palco e
pubblico. Nel secondo set l’aria sembra collegare tutte le anime, rilassate ed in catarsi
che vanno perdendosi nella voce intensa
ed evocativa del cantante senegalese Woz
Kaly accompagnato inizialmente dal piano di
Jerry Leonide e dal sax di Petit. Scopriamo
nel secondo set altre incredibili voci, tra cui
quella di Pascal Lafa, che nonostante qualche iniziale ritorno nel microfono ha continuato a dialogare con noi, tenendo stabile
l’unificante empatia nella sala. Benjamin
Petit sale sulle sedie, in mezzo al pubblico,
continuando a suonare.
A chiudere assistiamo a una improvvisazione
folle e rapsodica del violinista Christophe
Raymond. Terzo set: mi sento ricaricata, entusiasta, felice di scoprire che ci sono ancora
pochi ma eccelsi musicisti che preservano il
vero spirito del Jazz. • Aenis
RECENSIONI
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12 BF
RECENSIONI
Massimo Volume
ASPETTANDO I BARBARI
La Tempesta Dischi, 2013
Alcuni dischi portano con sé un carisma e una magia che difficilmente sono replicabili: era il caso di Cattive Abitudini, uscito più o meno tre anni fa, portava con
sé il peso di una storica reunion e le pretese di tante aspettative costruite in dieci
anni di assenza. E bene, quello fu un disco memorabile, il disco “perfetto”, il capolavoro assoluto, ma soprattutto difficile da rimpiazzare nella mente di chi lo aveva
apprezzato (fan e non dei Massimo Volume). Inizia a girare in rete il nuovo singolo
ed è subito panico, Aspettando i barbari è il capolavoro dopo il capolavoro, è come
il bis di un’opera prima e i commenti si possono sprecare. Nelle note che passano
frenetiche c’è il groove storico della band, la rabbia, la passione, il dolore. Ci sono i
cantautori che scrivono particolarmente bene, ci sono musicisti eccellenti che compongono capolavori musicali, ci sono band che lasciano impronte indelebili nel corso degli anni (e qui di anni ne sono
passati) …e poi ci sono i Massimo Volume …e Mimì, Emidio Clementi, che anche stavolta riesce a superare se stesso:
parla, scrive, racconta, legge… soffre, si esaspera, urla e canta, si canta! E quei barbari che ognuno di noi aspetta sono
le difficoltà della quotidianità, le persone cattive, gli errori commesse, gli amori sbagliati. A metà strada tra il sound
forte e rude dell’ultimo disco e l’ecletticità e la “sporcizia” dei primi lavori, questo disco è senza dubbio il DISCO, va
ascoltato, divorato, sudato, ci si deve sprofondare dentro, lasciarsi colpire ripetutamente in testa da quella impaziente
batteria e si deve rimanere a bocca aperta perché finisce apparentemente troppo in fretta. Il suono sembra rimanere
intrappolato in una gabbia di vetro, continuano a sbattere con forza sulle pareti ma rimangono chiusi in quello spazio
circoscritto, quasi senza aria.  Le chitarre battono e ribattono sentieri costanti, suoni ripetuti all’infinito che sembrano
scavare solchi profondi, sembrano campionature on loop, invece nulla di diverso dal grezzo e cupo sound di Mimì e
soci, pochi strumenti, sovrapposti e ridondanti e il suono di quelle consonanti pesanti, rimarcano quei semplicissimi
concetti ripetuti all’unisono, rendendo questo disco la colonna sonora perfetta per gli incubi di chiunque lo ascolti.
[9/10] • MARUSKA PESCE
Collettivo Ginsberg
ASA NISI MASA
Autoprodotto, 2013
Ho visto il Collettivo Ginsberg distrutto dalla pazzia. Affamati, nudi, isterici, questi
cinque romagnoli esagitati hanno registrato undici tracce che sono undici poemi
postmoderni all’insegna di confusione (controllata) e parole (incontrollate). Noise
e aggressivi a tratti, più morbidi e sognanti qui e là, l’impressione generale è comunque quella di trovarsi davanti a un enorme esperimento, una specie di live
art performance nella quale oggetti di ogni tipo vengono lanciati in una stanza e
ridotti a pezzi da questi cinque tipi coperti di catrame (fango?) sotto gli occhi del
pubblico impressionato. Vietato vietare, come dicono alcune magliette da centro sociale. Nessun limite espressivo in un’orgia elettrica decadente; come diceva
l’omonimo poeta da cui il collettivo ha preso il nome, «ho provato a volare senza
stampelle», esattamente la filosofia compositiva di questo disco, erratico e imprevedibile. Penso ai grandissimissimi
Mars Volta (“Io non ho mani”), evocati da questi affreschi di chitarra finto sgangherati da carillon con le lamelle spezzate, sostenuti da arpeggi a ottantotto tasti scollati il giusto da dare al tutto un’imperitura impressione di precarietà,
di casualità, di azzardo. Personalmente, apprezzo sempre moltissimo questo tipo di ibridi spokenword/avantgarde,
che riportano un po’ la poesia alla sua dimensione originaria di parola declamata sulla musica (lo diceva Ezra Pound,
non me lo sono inventato), aggiungendo un po’ all’una e un po’ all’altra in un moltiplicarsi di capacità espressiva raggiungibile solo violentando gli schemi preesistenti. “Papà morte”, cover ampiamente rimaneggiata di un’omonima
poesia-canzone del già citato Ginsberg, è un esempio notevole in questo senso. E allora gloria a quei pochi matti
sparsi per la penisola che ancora provano a deframmentare il reale per creare papiers collés che colpiscano con la
loro obliquità, mostrando prospettive allucinate e stimolanti, spingendo in là i confini e confondendo le definizioni.
Santi! Santi! Santi! Santi! Santi! Santi! Santi! (ecc ecc ecc). [7.5/10] • MARCO PETRELLI
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BF 13
Deadburger Factory
LA FISICA DELLE NUVOLE
Snowdonia, 2013
Il trittico di dischi dal poetico titolo La Fisica Delle Nuvole è un’opera inclassificabile composta da tre unità, distinte formalmente, seppur concettualmente partorite dalla stessa “madre”. L’unità estetica è frutto del prezioso lavoro di Paolo
Bacilieri, fumettista di culto oltre che poeta della china che, offrendo un sorprendente lavoro di artwork, rende ancor più pregevole il lavoro dei Deadbuger
e della loro singolare “factory in progress”. Svariate le collaborazioni che hanno
contribuito alla nascita di quest’anomalia discografica, frutto (tra l’altro) del sacrificio di Snowdonia e Godfellas!
Il primo album “Puro Nylon 100%”, tra elettronica, voci recitanti e musica “da
camera” è frutto del lavoro dei Deadburger al loro completo, impreziosito dagli
splendidi testi di Tony Vivona. Esecuzioni classiche cesellate da musica elettronica in modo tale da rendere il lavoro
un raffinato esperimento emozionale di rara efficacia. Poesia e piccole orchestrazioni senza tempo ne raccontano
il senso. Duchamp e Satie riprendono vita agilmente tra le articolate otto tracce del disco. Non mancano stimolanti
suggestioni post-rock, jazz o più genericamente rock, perfettamente distillate in un’opera di raffinata musica postcontemporanea.
Il secondo album è lo split Vittorio Nistri/Vittorio Casini “Microoonde e Vibroplettri”. Le prime 4 tracce sono ottenute con un unico mezzo, un comune forno a microonde De Longhi reso strumento, con l’ausilio di vocoder, distorsori, campionamenti e manipolazioni varie. Il risultato è un sorprendente esperimento sonico di cultura industriale,
inteso nel senso più “classico” del termine (Throbbing Gristle docet). Nistri è una sorta di Chu Ishikawa (ricordate le
meravigliose colonne sonore dei vari “Tetsuo” di Tsukamoto?) in chiave domestica. Lo dimostrano l’eccellente cyberpunk di Strategia Del Topo o il suggestivo abisso contemplato in Micronauta.
Le ultime 4 tracce sono realizzate con una chitarra suonata quasi unicamente da aggeggi vibranti (dildos, stimolatori clitoridei e... lecca lecca) e garantiscono per certo un ascolto... eccitante. Minimali orchestrazioni noise, da cui
emergono fantasmi di deviato blues e science fiction in bianco e nero. Una sorta di improbabile ibridazione tra Glenn
Branca e Mike Oldfield.
Il terzo album “La Fisica delle Nuvole”, che dà il nome all’intera opera, è per alcuni versi il lavoro più articolato e,
anche per questo, il più rappresentativo. Frutto di una “orchestra acustico-psichedelica di 8 elementi”, oltre vari
ospiti (tra cui anche il talentuoso Paolo Benvegnù). Le singole tracce sono insomma realizzate da un lavoro di improvvisazione di un collettivo di musicisti che si armonizza con un universo creativo in divenire. Nonostante ciò si tratta
del disco più, apparentemente convenzionale, e più facilmente fruibile vista la forma canzone delle singole tracce. I
Deadburger appaiono qui una band più riconoscibile che viaggia nel proprio universo con estrema agilità, senza mai
cadere nel banale o nello scontato. La ricchezza di suoni e suggestioni è permeata da un patina rassicurante grazie a
calibrate improvvisazioni, tappeto sonoro di straordinari testi.
Lode a un’iniziativa astratta come “La Fisica delle Nuvole” che corre solo il rischio di eccedere nell’autocompiacimento
rischiando per questo di non evadere, in futuro, dai propri parametri ideali di sperimentazione. Ma questa è probabilmente solo una paranoia di chi esige che l’arte della ricerca debba sempre andare oltre a ciò che è stato già sperimentato. Ma questo probabilmente le menti fluttuanti, e colte, dei Deadburger lo sanno già!
[7/10] • ANTHONY ETTORRE
Eternal Zio
ETERNAL ZIO
Boring Machines, 2012
Ulteriore gemma emersa dello scrigno Boring Machines è questa eterea opera
degli Eternal Zio. Quartetto milanese che ci propone attraverso 6 tracce il loro
universo musicale fatto di ambientazioni e scenari musicali in continua trasformazione. Gli strumenti acustici utilizzati sono ghironda (affascinante strumento
medievale), violino, mandola, organo, percussione, voci e chitarra. Disco acustico
quindi reso con spirito rigorosamente analogico.
Improvvisazione inequivocabilmente senza tempo, che ci trasporta attraverso una
sorta di trance estatica in un cosmo di mistica psichedelia. Le connotazioni folk,
seppur distillate con cura, avvolgono i sensi di chi ascolta favorendone il religioso
disorientamento. Lo spazio-tempo diventa pretesto per incastrare le sei tracce
senza nome. Il minimalismo armonico espresso nel disco fluttua tra i neuroni di chi ascolta per rimandare a sensazioni
di ancestrale bellezza. Quella priva di misure, lontana da parametri estetici. Abbandono e trance sopraggiungono
prima di affondare tra le braccia della terra ed essere travolti dai suoni da essa dettati. Le danze tribali giungono
nella sesta traccia, lì dove un misterioso sciamano celebra il culto degli Zii Eterni, senza i quali I’underground italiano
avvertirebbe un senso di non trascurabile irrequietezza. [8.5/10] • ANTHONY ETTORRE
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14 BF
Monsieur Voltaire
33
Noja Records/ White Bridge Records, 2013
Marcello Rossi si spoglia dei fronzoli cantautorati degli anni delle grandi band per
diventare Monsieur Voltaire, strampalato ed eclettico compositore, che si trova
ad avere a che fare con più stili e diverse ispirazioni musicali. Si districa tra omaggi
particolari ai propri idoli e chicche derivanti dall’estro del musicista. Questo è un
album assai particolare, omogeneo nell’ascolto, eppure così variegato e ricco di
cose. Suoni semplici, ma ben collocabili in base allo stile e c’è di tutto: del sano
rock, la più stramba psichedelica e alcune atmosfere più quiet del cantautorato
d’oltremanica, il tutto sporcato qua e là da accenni al punk degli anni settanta.
Non facilmente comprensibile come ascolto, perché sprovvisto di una certa educazione, di un filo logico, eppure così prezioso, curato nei minimi dettagli, nella
sua diversità. E’ un disco che non può appartenere ad un genere ben preciso, ma che può annoverarne diversi, che
non è niente ma allo stesso tempo è tutto. E’ elettronica ed è acustica, è punk ed è pop, è psichedelica ed è puro
cantautorato. Questo strano bagaglio dipende dalle esperienze musicali del passato e dall’approccio propriamente
“inglese” che Rossi ha sempre avuto, da quel tocco internazionale che lo contraddistingue e che lo rende diverso dai
tanti. Certo sarebbe bello poterlo apprezzare in un particolare segmento e vedere un po’ come se la cava spogliando
completamente la sua musica di quella mondanità, di tutti quegli stili, ma magari è solo questione di tempo. Per ora
non rimane che apprezzare la sua camaleontica natura di narratore dell’ensemble. [7/10] • MARUSKA PESCE
SignA
WALTZES FOR LILLIPUTIANS
Magmatiq Records, 2013
Waltzes For Liliputians è il primo album dei SignA, duo milanese composto da
Stefano Schiavocampo e Massimiliano Galli. Attivi dal 2008 con singoli ed ep,
presentano un lavoro completo e maturo, per certi versi sorprendente. Registrato
in due sole settimane tra le colline toscane, incuriosisce per l’abilità degli autori
nel mescolare impulsi e inserti elettronici minimal con toni e atmosfere folk. Operazione non originale (da Badly Drawn Boy a Four Tet passando per i Caribou,
con tutt’altro spessore compositivo) ma di certo declinata con attenzione e personalità. All’ascolto, Waltzes dà l’impressione di semplicità e immediatezza senza
divenire banale, forse per l’uso sicuro, ma non soverchiante, di synth e batterie
elettroniche in sottofondo, con le chitarre acustiche in primo piano, inquiete e
struggenti, forse per la voce leggermente acuta, dal timbro country di Stefano Schiavocampo. Il risultato è una miscela straniante, non sempre convincente, di composizioni a metà strada tra la ballata acustica risolutamente folk
come in Old Man, cover di un brano di Neil Young, o Morrowards con incursioni nel canterbury come in The Night
Will Go By As We Sing o in Bright Ideas, e pezzi dove la componente elettronica prende il sopravvento, come nelle
conclusive Waltzes For Liliputians e Where The Crickets Dig. La formula, a volte esile nelle melodie, riesce alla perfezione in Everything We Did Before We Got probabilmente il brano più riuscito del lavoro. Un album da ascoltare, se
non innovativo, di certo accurato e suggestivo. [6.5/10] • VINCENZO PUGLIANO
Portugnol Connection
PATCHANKA INNA PORTUGNOL CONNECTION STYLA
Autoprodotto, 2011
Variopinta banda randagia a bordo d’un caravan targato Milano, va basculando
tra i mille tiranti della ragnatela multietnica. È una tarantella di equilibri di frontiera, di un sud mondiale, di un folklore fisarmonico tutt’assieme, a braccetto
delle italiche articolazioni. Il gruppo respira un ossigeno creolo, poiché organismo che si nutre del biologico offerto dalla continua contaminazione, del gusto
meticcio per le radici in un liberale interrail e attinge alle diversità come vene
aurifere d’ispirazione. Coesistono idiomi e sonorità, cuciti assieme i Modena City
Ramblers, i Negrita e qualche isola balcanica da una Mano Negra di sottocultura;
questo drappo latino all’apparenza tanto disomogeneo ma poi così zingaresco
da essere uno stile solo, è sulla stessa bancarella etnica in tre continenti diversi e
tutti si mescolano, nel movimento della sagra-mondo. [6.5/10] • PABLO
BF 15
Teatro Satanico
XX
Nedac Editions, 2013
XX è più di un album è come spegnere delle candele sopra un torta di compleanno: XX è in numero romano venti come i venti anni di attività dei Teatro Satanico,
gruppo storico italiano che negli anni si è ritagliato la propria nicchia di ascoltatori.
Dalle cassette a internet a pensarci fa veramente effetto, era il 1993 per il trio
veneto capitanato dallo scrittore Devis Granziera. Per chiarirci subito le idee: il Teatro Satanico è, senza ombra di dubbio, uno dei progetti industrial più importanti
della storia italiana e le sue uscite sono vere e proprie opere di culto.
In questo mini-album più un omaggio ai fan che un nuovo percorso sperimentale
contro una società insulsa, contro l’ipocrisia strisciante, contro il mondo intero
con le sue storture e deviazioni. Veniamo accolti dal canto in francese Oh Mon
Dieu, oh Mon Diable... di Mondo Cane (à Yves Klein), che su distese di morbidi synth chiede protezione dalla massa
e meritato oblio, come un preghiera potrebbe fare facilmente da colonna sonora ad un finale di MondoMovie. La
seconda traccia Teatro Della Memoria (la prima cosa che ho pensato: è Lindo!) ricorda un salmodiare di ferrettiana
memoria e interpretazione, quasi un manifesto dei teatro satanico un manifesto al contrario però, non di intenti ma
contro una società insulsa, contro l’ipocrisia strisciante, contro il mondo intero con le sue storture e deviazioni contro
memoria e schemi mentali precostituiti. Decisamente poco “ortodossi”! Si regge con il synth e un sound inquietante.
Si sarebbe potuta chiamare anche Satanismo e Barbarie. “Satana non mi salverà, e nemmeno il loro Dio. Se ci sarà un
aldilà, sarà come l’aldiqua” è l’amara e triste costatazione de La Farmacia dell’Angelo. Nella seconda parte The owl
con sound oscuro, funeree ritmiche elettroniche per l’unico pezzo in inglese; chiude tutto il lavoro Occidente suoni
soffocanti e voce distorta invitano a diffidare di tutto quello che appunto l’occidente rappresenta con la sua idea
dominatrice ormai perduta da quasi un secolo e di quello che offre con la sua mentalità preconfezionata. Possiamo
solo augurare buon ventennale e auspicare che non sia ultimo. [7/10] • G. MONTAG
Losburla
I MASOCHISTI
Libellula, 2013
Iniziamo dal documento d’identità; dietro il progetto Losburla c’è l’astigiano (ma
trapiantato a Torino) Roberto Sburlati, qualcuno lo avrà già sentito come bassista
dei Madam, band che accompagna Marco Notari dal 2003. Nel suo primo lavoro da
solista racconta prendendola di petto (e con qualche parolaccia di troppo) una realtà e un disagio visti attraverso uno specchio che riflette prima di tutto se stessi.
Conservando un’ironia dissacrante («potrei provare a fare l’attore porno benché
potrei avere dei problemi con tutta quella gente intorno») si toccano con mano
temi e problemi importanti quanto attuali; la crisi economica, i compromessi per
arrivare al successo, la democrazia malata dei social network, la vigliaccheria che
ci spinge a fuggire, l’indifferenza con cui ci facciamo del male, la pietà trasmessa
per sms, l’arrivismo cieco, il narcisismo come risposta all’insicurezza, l’ipocrisia divenuta bandiera. Nella finale Masochisti? tutto questo viene riassunto ed esasperato; su una base musicale inquinata – come il nostro quotidiano – da
brandelli di notizie rigettate dai media, una spoken song indigesta che è la cronaca drammatica di una follia lucida e
autolesionista, un pugno nello stomaco autoinflitto («i masochisti siamo noi» ci dice chiaramente il cantautore) forse
per l’incapacità di far sì che la responsabilità scavalchi le nostre paure, perché bisogna essere responsabili anche per
poter essere felici. Gli arrangiamenti sono morbidi nonostante alcuni brani dall’impatto più ruvido (Amaro, Il mio
processo di beatificazione), con soluzioni musicali fresche e frizzanti soprattutto nei primi pezzi, come il meraviglioso
inserto d’archi che conclude il brano d’apertura L’imbucato o il piglio facile e orecchiabile del singolo Dilettanti (San
Salvario salva). La seconda parte del disco ha un accento più cantautoriale dove la prima veste più indie; se il cut-up
di Lettratura ricorda da vicino l’ermetismo del De Gregori più analogico e introverso, con Rossetto siamo a metà
strada tra Zampaglioni e Gazzè, e si rischia di stagnare in sonorità più grigie e malinconiche. Ma nel complesso lo
riteniamo davvero un buon esordio, che riusciremo ad inquadrare meglio di fronte ad una necessaria seconda prova.
Memorabile l’immagine di copertina in cui il nostro si tuffa come mamma l’ha fatto dentro le acque del Po in piena
città. Quando si dice mettersi a nudo. [7.5/10] • FABRIZIO PAPITTO
16 BF
Ku
FEATHERS
Inner Ear Records, 2013
Artefice del progetto KU è il compositore greco Dimitris Papadatos. L’artista,
sulla scena musicale ormai da un decennio, propone con Feathers il suo primo
lavoro da solista, assemblando con una spiccata sensibilità dark spunti elettronici
e richiami di antiche liturgie sacre, atmosfere ambient, minimali e crepuscolari,
con organi e synth ora elettro pop ora decisamente cinematografici. Ma la vera
cifra stilistica dell’album è data dalla voce ispirata e dolente di Dimitri capace di
condurre l’ascoltatore verso luoghi tribali e mistici come in Devotion In A Nutshell, o di creare atmosfere confidenziali, da crooner ironico e disilluso come
in Jerusalem, uno dei pezzi migliori dell’album, dall’atmosfera malinconica, per
così dire “berlinese”. Feathers appare in bilico tra intimo raccoglimento e movimento in crescendo, quasi rabbioso come dimostrano le inaspettate riprese di brani come In Certain Amounts In
Sun e la magnifica Millions, che si dischiude accelerando improvvisamente con energia e notevole impatto emotivo.
Se l’ispirazione di questo lavoro può forse trovarsi in alcune suggestioni industriali e decadenti degli Einstürzende
Neubauten meno rumorosi, nei fraseggi di organo di Vangelis, o nella voce spigolosa di Peter Murphy, il risultato
è originale e convincente. Non si tratta certo di un disco dalla ricezione semplice, gli echi e le influenze stilistiche
molteplici, così come il tono e le atmosfere notturne possono sconcertare e inibire un fruitore distratto, ma ascolto
dopo ascolto se ne coglie la ricchezza compositiva, l’uso sapiente degli effetti elettronici, la forza delle linee ritmiche
(ascoltate The New Grey Whistle Test). Non resta che metterlo nel lettore e riascoltarlo subito dopo!
[7.5/10] • VINCENZO PUGLIANO
LogOut
LITTLE THINGS BURIED IN CONCRETE
Inner Ear Records, 2013
Ok, lavoro facile, questa recensione. Sento puzza di capolavoro (cit.). Per curiosità, provate a sentirvi il disco precedente dell’ateniese LogOut (Paper Plane
Flight Recorder) per poi passare al disco di cui state leggendo la recensione,
registrato con l’ottima label greca Inner Ear. La produzione cucita su misura per
tutte le necessità di ogni singolo pezzo rende tutte e dieci le tracce un vero e
proprio piacere per le orecchie. Si spazia dal dream-pop alla Morrissey (forse un
po’ modaiolo nella sua veste 80s con tastierine a 8 bit e rullanti campionati) di
For You, probabile hit da festival scandinavo, alle atmosfere alla Hail to the Thief
di Censored Title, una canzone semplice ma che conquisterebbe milioni di fans
degli artisti più inflazionati di metà anni zero. L’influenza di Lou Reed è vivida nel
sangue di LogOut, mentre nelle sue corde vocali sembra risuonare un Paul Banks ellenicizzato. Il moniker così in linea
con i “tempi moderni” (chissà come se la rideranno del nostro futuro e delle nostre risoluzioni da social network nel
2050) nasce dall’esigenza di staccarsi da tutti i login di cui abbiamo necessità nella nostra vita quotidiana per incamminarsi al di fuori di tutto questo, mossi dalla volontà di vedere, di sentire. Un tema così ricorrente, così semplice, così
necessario. E da questo moniker, appunto, emerge il totale disinteresse per una comunicazione affidabile, proprio
perché possiamo limitarci a percepire, ad emozionarci, senza sapere nulla di chi ci sta di fronte. “A rose is a rose is a
rose”. Tutto parte dall’essenziale, chitarra e voce. Ma i mondi che vanno edificandosi sopra queste fondamenta sono
tutti da scoprire. Prendete coraggio e lasciatevi emozionare. [8/10] • BERNARDO MATTIONI
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BF 17
Tango With Lions
A LONG WALK
Inner Ear Records, 2013
C’è un gran bel lavoro dietro questo album. A long walk, un full length che esce tre
anni dopo il discreto successo di Verba Time e della malinconica In a Bar (quasi tre
milioni di visualizzazioni su YouTube).
Capire la provenienza geografica dei Tango With Lions ascoltando questo album
è pressoché impossibile. L’Inghilterra è nella lingua e nello stile musicale, ma la
Grecia è il Paese che dà loro i natali, e greca è anche la produzione.
Come nelle località balneari elleniche, la cultura inglese è assorbita e riproposta in
maniera piuttosto fedele, in un menu che contiene più hamburger e ketchup che
souvlaki e salsa tzatziki. Senza entrare nel merito delle questioni che soggiacciono
a tale fenomeno – competenza di studi antropologici culturali più che di una recensione musicale – quello che registriamo è una proposta musicale anglofila dei Tango With Lions curata e brillante,
di personalità, senza troppa sudditanza reverenziale nei confronti delle ineguagliabili patrie del rock.
Un album notturno, con grande vena narrativa e cura per gli arrangiamenti. I testi raccontano di storie d’amore e
separazione, stanche mattine solitarie, viaggi in auto fra buie strade di montagna. Il mare è poco presente, si affaccia
soltanto nella traccia finale dell’album: si preferiscono immagini che suggeriscono movimento, come lo scorrere di
un fiume o le carezze rapide della brezza marina. La voce calda e delicata di Kat Papachristou guida con decisione il
percorso, con sensualità, il trombone enfatizza i momenti più pregnanti.
È un passo ulteriore per questa band, che si affaccia senza timore alla scena rock europea senza provincialismi. Può
essere una buona scoperta anche per il pubblico italiano. [7/10] • ALBERTO SARTORE
No Clear Mind
METS
Inner Ear Records, 2013
Arrivano dalla Grecia questi No Clear Mind, e Mets è presentato come un prodotto diretto dell’omonimo quartiere ateniese. Le atmosfere sono dilatate fino
all’onirico, intessute e impreziosite a vari livelli da delicati accenni melodici in un
muro del suono tanto solido quanto etereo. Ricordano lo psych-folk degli anni
settanta, con qualche sotterranea nota di cupezza floydiana (evidentissima anche
nelle dinamiche dei pezzi, che si dilatano e si contraggono continuamente, come
respirassero). Dicono di aver voluto creare delle storie autobiografiche incentrate
sulla rappresentazione di diversi stati d’animo attraverso il tempo, e la forte presenza di stilemi postrock e shoegaze non fanno che sottolineare il coinvolgimento
emotivo richiesto per l’ascolto. Una specie di lucida allucinazione attraverso dieci
pezzi delicati e conturbanti, pervasi di malinconia e imbevuti di nostalgia per qualunque-cosa-vi-venga-voglia-d’avernostalgia. Dieci (quasi) strumentali finemente arrangiati e orchestrati, i cui titoli sono chiavi di lettura per capire
dov’è che i No Clear Mind ci stanno portando e cos’è che vogliono mostrarci. E poi ormai è autunno, e io sono sensibile a questi affreschi ad acquerello, mi affaccio alla finestra e faccio finta di essere il protagonista di un film un po’
tristone in uno di quei momenti introspettivi sottolineati dalle curve emotive della colonna sonora (sì, lo faccio. E lo
fate anche voi, non vergognatevene). “Escher’s waterfall carried us away”, una vera e propria partitura liquida, limpida e fredda che sa di cappotti e tramonti violacei nel mediterraneo, “Morning Rain in June”, altro pezzo agrodolce
che un po’ ti coccola e un po’ t’immusonisce. Nascosta qui e là, una certa impronta ellenica per lo più silente sulla
quale s’innestano le sconfinate architetture soniche dei cinque. Chiudono le università, chiude la tv, ma la musica
resiste, e vola alta. Bravi. [7.5/10] • MARCO PETRELLI
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18 BF
Hyaena Reading
EUROPA
SubTerra, 2013
Gli Hyeana Reading, formazione italofrancese, si presentano come un gruppo
“poco incline al compromesso gestionale quanto a quello artistico”, e concludono
la loro introduzione portando come vessillo il fatto di non avere brani tutelati dalla SIAE. Scelta giusta o sbagliata che sia, non sta a me giudicare, fa subito capire
di che pasta sono fatti i nostri. E se ad un primo ascolto non resto particolarmente
colpito dal cd, mentre faccio passare un po’ di tempo prima della seconda volta
[mi lascio sempre il tempo di assorbire un lavoro prima di giudicarlo ndr], mi rendo
conto che non sono riuscito a metabolizzare i concetti espressi. Apro il libretto ed
inizio a leggere bene i testi dei brani, alcuni in italiano, altri in francese. E ci trovo
dentro una profondità e una crudezza degna del miglior Lindo Ferretti. Adesso
posso risentire il cd. E adesso me lo godo.
E proprio pensando ai CSI e ai CCCP mi focalizzo sulla voce, lasciandomi trasportare dai riff di chitarra come in “In
netta ripresa”, ipnotizzare dal synth di “Vendetta”, scivolare nella nostalgia con la drum machine di “Atto d’amore”.
La linea rossa che unisce tutti i pezzi è il parlato, che si alterna tra bassi e alti come se non ci fosse un ordine preciso,
bensì come se Francesco Petetta decidesse la ritmica degli strumenti. Non ritengo particolarmente importanti le
sonorità in un lavoro tipo questo, dove se dovessimo metterci a cercare un genere in cui catalogare Europa sarebbe
limitante nei confronti della complessità e completezza dell’opera. Il progetto tuttavia si ispira alla musica dei Bachi
di Pietra ed è parecchio influenzato sia dai Massimo Volume che dagli Ulan Bator.
Un lavoro difficilmente catalogabile, posto ai margini dei vari generi, fatto di suoni violenti e momenti di riflessione
intima, capace di creare atmosfere e di distruggerle immediatamente. Io un’opportunità gliela darei.
[8/10] • LUCAJAMES
Impression Materials
IT SHOULDN’T BE A MATTER
Autoprodotto, 2013
Realizzare un disco multiforme ma omogeneo, alternando brani pop ad atmosfere puramente blues, il tutto condito da arpeggi alla Tommy Emmanuel e da riff
pescati direttamente dal Delta del Mississippi. Insaporire il tutto con un impercettibile velo di country. Forse proprio queste ambiziose aspirazioni hanno spinto
Stefano Elli, vero e proprio one man band del progetto Impression Materials, a
dar vita a It Shouldnt Be A Matter, disco d’esordio completamente autoprodotto
e registrato direttamente in casa del giovane artista. La domanda che sorge spontanea è: il gioco è riuscito?
Stefano Elli ha fatto un piccolo miracolo, imbrigliando in sole nove tracce tutte
quelle anime, tirando fuori un meraviglioso bastardo dai mille volti ma da una personalità nuova e unica? La risposta
purtroppo è no. Brano dopo brano, si ha la sensazione di ascoltare un disco a compartimenti stagni, rigidamente
diviso, dove una metà sembra respingere l’altra. Il disco sembra mancare di sfumature, o è bianco pop o è nero blues
(fatta forse eccezione per The Lamb e Narceine). Se uniamo a questa rigida distinzione una certa monotematicità
nelle linee vocali (soprattutto nella parte pop), il tutto perde di potenziale e fascino. Tuttavia sarebbe ingiusto non
apprezzare e citare gli aspetti positivi di It Shouldnt Be A Matter, che si notano e fanno ben sperare per il futuro:
nei brani blues Stefano Elli mostra maggiormente la sua personalità, la voce si fa più fluida, riff e fingerpicking sono
più sentiti e genuini (basta ascoltare Refusing Alone e Staring At The Kitchen per capire di cosa sto parlando). In effetti l’intero aspetto chitarristico del disco è più che positivo, il giovane musicista è bravo a citare e ad interpretare
quando imbraccia la sei corde. Insomma, passione e qualità non mancano, ciò che manca a questo disco è l’Armonia,
una sorta di bussola che guidi chi ascolta ma soprattutto chi compone. Confidiamo che Stefano Elli si interroghi
riguardo questa lacuna nei suoi prossimi lavori e che si risponda proprio come suggerisce il titolo dell’album: “non
dovrebbe essere un problema”.
[6/10] • MARCO BALZOLA
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BF 19
Diego De Gregorio
RESTAURANTE
Lapidarie Incisioni, 2013
Un disco acustico che suona distorto. De Gregorio è un cantautore romano che
pesca le proprie ispirazioni un po’ ovunque tra le molte facce del songwriting del
nostro paese, da Ivan Graziani (“Taglia la testa al gallo”, cover più che riuscita) alla
taranta, senza tralasciare un approccio obliquo che ha a che fare più con l’estetica
anarchica del Seattle sound che con le rifinitezze nostrane. È in effetti il sound di
questo lavoro ad essere interessante, ellittico e sperimentale, con un occhio sempre alla forma-canzone, qui omaggiata e là tradita e sfigurata in rantoli caciaroni
(“Restaurante”, “Del Male”). Ci sono dentro i Radiohead, i Quintorigo, Tom Waits,
Dylan, i Soundgarden, il già citato Ivan Graziani, i Neutral Milk Hotel, e volendo
potete trovarci graffi un po’ da tutte le parti, perché la cosa buona di questo Restaurante è che, pur utilizzando il modulo classico dell’acustico-percussivo, ne spinge canoni e possibilità al limite di
rottura, tentando d’infilare quanta più roba possibile nel plurinflazionato universo cantautoriale odierno. Il disco
vuole raccontare il percorso di un uomo che si restaura, riparando la propria integrità per ergersi contro un “fuori”
che pare premere nel tentativo di farsi strada e intossicare, e le dinamiche musicali sembrano essere uno specchio di
questo processo, azzardando e violando nel tentativo di assestarsi su corde che, saldamente attaccate all’esperienza
passata, si lanciano a occhi chiusi verso il nuovo. Niente male davvero. [7/10] • MARCO PETRELLI
Io Monade Stanca
THREE ANGLES
Goat Man/Canalese Noise/Only Fucking Noise/New Sonic Records/A Tant Rever Du
Roi/Whosbrain/Human Feather, 2013
Tre coetanei laureati in patafisica alle prese con avantnoise sfacciatamente non
orecchiabile (e che vi aspettavate?). Un’estetica a metà tra esoterismo e fantascienza portata in giro con 200 concerti per l’Europa, e buon pro gli faccia. I giochi di
ritmo sono interessanti, così come qualche momento in cui le intessiture chitarristiche sembrano tenere l’ascoltatore in sospeso, portandolo delicatamente in alto,
oltre la palude overdrive che è il nocciolo del pezzo, per cullarlo o farlo ricrollare
giù senza avvertimento. Per contro, non sono riuscito a capire una singola parola
del cantante, cavernoso e inarticolato; non so se sia una scelta fonica cosciente o
semplicemente un’equalizzazione criminale. Difficile riuscire a scrivere due righe
coerenti su questo disco, spesso le strutture vengono a mancare, non si capisce attorno a cosa s’avvitino i pezzi o
dove siano diretti. Un po’ un peccato, perché quando le nubi si diradano le aspettative s’illuminano e aspettano il momento di trovare un appiglio dove assestarsi (che non arriva). Però, se dobbiamo prendere seriamente tutto questo
parlare di patafisica (la “scienza delle soluzioni immaginarie”) da parte dei tre, di certo tutti questi elementi apparentemente sconnessi andrebbero a formare un esperimento sulle eccezioni, sul particolare, sull’”ascensione del vuoto verso una periferia” (Jarry). Io di questa roba non ne so molto (anche perché in fondo c’è poco da sapere, essendo
un gioco filosofico e logicolinguistico sull’assurdo e l’ironico), però alle medie ho recitato nell’Ubu Roi. Non mi ricordo
granché, solo che alla gente non piaceva che dei bambini dicessero Merdre. Sto divagando? È che non so proprio che
idea farmi, sono spiazzato, disorientato, confuso, sedottoeabbandonato. Boh. [5/10] • MARCO PETRELLI
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20 BF
Vietcong Pornsurfers
WE SPREAD DISEASE
Dangerous Rock Records, 2013
Avete presente quando siete colpiti da un colpo di fulmine? Ecco, è quello che mi
è successo ascoltando questo “We spread diseases”. Devo fare un grosso mea
culpa, perché non sapevo dell’esistenza di questo quartetto svedese che è giunto
già al secondo full-lenght, oltre ad un ep di esordio. E con rammarico ho anche
appreso che il loro tour italiano è terminato prima dell’estate. Quindi passo direttamente, e con un po’ di mestizia, alla recensione di quello che ritengo uno dei
migliori album del 2013.
Capiamoci, i nostri non apportano nulla di nuovo nel panorama musicale, ma ciò
non equivale a dare un segno negativo all’album. Infatti un disco trascinante e
completo come questo raramente capita, con sonorità tipicamente punk ma tendenti all’hard-rock ed influenze e
sfumature tipicamente glam. Volete un esempio a mo’ di paragone? La voce di Tom K., il suo carisma e il timbro graffiante ricordano moltissimo Pelle Almqvist dei connazionali The Hives. A dir la verità, però, i Vietcong Pornsurfers
abbandonano il filone più commerciale per andare alla ricerca di suoni più rudi, più grezzi e più diretti. Prova ne è la
costante presenza di un basso potente e prepotente, strumento un po’ accantonato nella musica contemporanea.
Ci sono pezzi alla Misfits o Hardcore Superstars, come “Dead track”, e tracce più tipicamente hard-rock, come “Make
you hate”, dove le chitarre ricordano i Motorhead, fino a canzoni con richiami espliciti a Billy Idol, come in “Marcel”.
Tutto l’album, composto da 12 tracce, ha un ben preciso motivo di fondo: fare musica divertente, immediata, che
ti faccia venire voglia di muoverti senza sosta. Ritengo azzeccata anche l’idea di non comporre brani troppo lunghi
(il massimo è 3 minuti e 30), perché permette al disco di scivolare via velocemente, senza lasciarci annoiare, grazie
anche ad un ottimo mixaggio.
In definitiva, mi trovo di fronte ad un lavoro composto da un buon sound che si ispira ai grandi gruppi senza però
imitarli, sfornando così un album veramente degno di nota. Il quartetto svedese è sicuramente solo agli inizi di quello
che potrebbe essere un grande futuro. [9/10] • LUCAJAMES
Badmotorfinger
IT’S NOT THE END
logic(il)logic Records / Andromeda Dischi, 2013
It’s not the end è l’album d’esordio dei BadMotorFinger. Un lavoro che i membri
della band amano definire “ispirato al sound live”. Il progetto nasce da un’idea
di cover band dei fratelli Federico “Heavyrico” e Alessandro “Alex” Mengoli che
nel 2006. In seguito ad uscite, produzioni parallele e rientri clamorosi, nel 2011
la lineup trova una forma definita e stabile: i sopracitati fratelli Mengoli alle chitarre, Stefano “il reverendo” Altobelli alla voce, Massimiliano “Tommy” Tommesani al basso e Stefano “Steve” Deguglielmo alla batteria. Nonostante il nome
richiami l’album del 1991 dei Soundgarden, i BadMotorFinger sono una di quelle
band che già al primo ascolto mostra senza indugi la propria vocazione. La strada
che vogliono percorrere è una ed inequivocabile: l’heavy metal e l’hard rock. It’s
not the end è un album dalla trama ben definita, con poche eccezioni, che testimonia una grande conoscenza del
genere ed un discreto modus nella stesura dei pezzi. Abbiamo apprezzato pezzi introspettivi come “Brand new day”
o la cover di chiusura dei Motorhead “Rock’n roll”. Allo stesso tempo tuttavia la prima impressione che ci da l’ascolto
ma soprattutto l’artwork (che non si distingue per l’ottima fattura) è che la cultura degli anni ‘80 sia ancora viva. Non
è così, almeno per il sottoscritto. Quello che ci si presenta è un concetto più che un lavoro musicale; una riproposizione molto ampia che spazia da assoli potenti e dinamici come quelli di Slash a riff rugginosi e trascinati come solo
possono ricordare i metallica post-Burton. Insomma, un lavoro egregio dal punto di vista del suono e della tecnica
ma ciò che personalmente manca (come a tantissime band che suonano altri generi) è l’espressione di una propria
identità. [5/10] • FABRIZIO PALLOTTA
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BF 21
Marcello Capozzi
SCIOPERO
Seahorse Recordings, 2013
C’è molta musicalità ma anche parecchia filosofia in questo lavoro, entrambi gli
aspetti più rilevanti della musica di Capozzi si fondono in questo primo disco ufficiale. Nato un po’ di tempo dopo un primo esperimento, un Ep di quattro tracce
che sono successivamente confluite nell’album in questione. Molta teatralità
spicca dal sipario musicale, l’autore canticchia come stesse recitando disavventure e brutture della vita. Siamo di fronte ad un tipo di cantautorato molto intellettuale, al di fuori dagli stereotipi affidati negli ultimi tempi a questa categoria
di musicisti. Il titolo dell’album non è stato scelto a caso: il disco è permeato di polemica sociale, protesta, disappunto, il tutto travestito da un certo velo di poesia.
I suoni sono cauti, precisi e ripetitivi, sempre gli stessi per ogni pezzo, lasciano
poco spazio a cambi di registro o stilistici, ognuno con la propria storia da raccontare e adattissimo a farlo. Ma tutto è
essenzialmente equilibrato, si regge in piedi tenendo i pezzi saldamente incastrati: la poesia fa da spalla alla musica
e quest’ultima si concede pochi e particolari momenti da protagonista. A tratti risulta molto debole nei contenuti,
quasi un po’ troppo scontato nelle espressioni e banale nel suono, forse perché le aspettative per quanto riguarda
l’autore sono parecchie. Nulla è fuori posto, tutto suona perfettamente, come un prodotto impachettato per benino
per far concentrare l’attenzione di chi lo ascolta direttamente al contenuto. E’ sicuramente un bel lavoro, solo pecca
un pochetto d’emozione, ma un teatrante sa benissimo come riparare a tutto ciò. Restiamo a guardare con curiosità.
[6.5/10] • MARUSKA PESCE
Il Nido
I PIEDI DELLA FOLLIA
Gaiden Records, 2013
Per capire meglio questo album bisogna partire dall’ultima traccia. Kazoo e
ukulele, dove tra ringraziamenti vari si spiega che il cd è stato scritto in 24 ore
e registrato in 33. Un instant cd di gioie e dolori testimone che, al netto di grandi
ispirazioni, il rischio di tirare la cinghia da qualche parte è reale, in questi casi.
Sono stato quindi a lungo indeciso se classificare “I piedi della follia” come EP
o LP considerati i vari siparietti teatrali di matrice umoristica tra una traccia e
l’altra. Ci sono vari esempi di gruppi italiani che la buttano sull’ironia, spesso sottovalutandosi per troppo tempo come abbiamo visto in passato, ma questo cd è
soprattutto per chi ha la risata troppo facile; evidentemente Il Nido non si sente
all’altezza delle proprie capacità tecniche. Umorismo locale e trasversale dalla
spontaneità romana alle “baleraggini” emiliane contrapposte alle loro composizioni, di ben più alta caratura, che
svariano dal funk al synth rock passando per la mazurka fino all’hip hop ma senza un perché, un qualcosa che le
tenga unite. Il Nido si svaluta da se ed è un peccato, dopo vari ascolti si erge quindi a summa finale l’ultima canzone
dell’album: Arrivederci e tante care cose. [5/10] • PLASMA
Pico Rama
IL SECCHIO E IL MARE
Ice Records, 2013
Pier Enrico ma davvero ti piace questo disco? Perchè a questo punto non so più ciò
che è vero. Questa produzione abbina meravigliosamente ad un’estetica iconica
un contenuto molto figurativo ma poco concreto. I tarocchi di Marsiglia e le antiche civiltà appaiono vanagloria dialettica su fogli a quadretti, filosofia prestata
alla matematica; perchè se la musica ancora possiede pulizia intellettuale non si
può parlare di conoscenza e malessere evolutivo con Dargen D’Amico, e lo sai. In
un pezzo, intendo, chiaro. Sono i suoi compagni di classifica, fulgida SPA del soldo
a sospingere le tue pur intelligenti citazioni verso un esoterismo pop inqualificabile; vera divinità di un epoca in disperata questua di cavalli di Troia, per la breccia,
per la gioia. Al termine delle 10 tracce di cui è composto ‘Il secchio e il mare’ riesco
solo a vagabondare in un labirinto di interviste doppie, domande da due emisferi
non ricomponibili. No, mi sbaglio, possono coesistere rasta e la moderna, puttana MTV, ed il figlio di Enrico Ruggeri
può aver i capelli. La critica non è al successo ma al compromesso con l’ego. Forse sei così, e allora si aprano le porte
di Babilonia a re Pico. [4/10] • PABLO
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22 BF
The 4th Ward Afro-Klezmer Orchestra
ABDUL THE RABBI
Autoprodotto, 2012
Ecco, questo è il risultato della mescolanza delle culture: un’orchestra di Israeliti
che suona musica tradizionale della propria cultura in chiave Funk o Afro-beat. Fa
ridere? Beh, gli ebrei sono sempre bravi a far ridere, vero Woody Allen? Anche la
cover art in copertina, una surreale striscia a fumetti, sembra voler unire facezie e
politica. Ma non lasciatevi deviare dall’apparente spensieratezza dipinta in faccia
a questo bel disco. Il risultato è seriamente interessante. Forse uno degli esempi
mondiali più celebri degli ultimi anni ad aver percorso la tratta Tel-Aviv-New York
è Avishai Cohen. L’operazione dei 4WAKO (che abbreviazione!) è simile, ma orchestrale, e passa anche per l’Africa. L’album contiene tre riarrangiamenti di brani
provenienti dalla tradizione musicale ebraica: Yemenite Janz, Yesh Li Gan e Die Silver Wedding Die. Quest’ultima è
un omaggio al celeberrimo inno pulp Misirlou, e ne ricalca anche le sonorità mex, con tremolo, annessi e connessi. In
Toco Hills Kiddush Club le sonorità più classiche e la batteria sembrano quasi voler avvicinare il progetto al jazz rock
anni ‘80. Fantastica Doina Blues, un blues per l’appunto, ma con il clarinetto a far la parte del leone. Insomma, questo
secondo album è un viaggio davvero lungo, con picchi di vera e propria eccellenza. Se dovessimo sintetizzare con
meno parole possibile la descrizione delle sonorità dell’album, per permettere all’ascoltatore di avvicinarsi all’idea
generale, probabilmente la fusion è il genere che sembra emergere maggiormente rispetto agli altri. Le frequenti incursioni negli altri due generi che caratterizzano il nome, tuttavia, sono una parte fondamentale di questo bel lavoro.
Bisogna anche sottolineare che il prodotto non è sicuramente mainstream, ma anche che se non siete dei jazzofili
incalliti non avrete difficoltà di sorta a mettervi a sedere ed ascoltare questo album (tra l’altro ascoltabile in streaming e scaricabile integralmente su bandcamp). Via, su, partite. Est o ovest? [7/10] • BERNARDO MATTIONI
KuTso
DECANDENDO (SU UN MATERASSO SPORCO)
Audioglobe/22mc, 2013
Continuano a rifilarmi dischi di gente fulminata. Eppure cerco di dare l’impressione
di una persona seria. Oppure il caos epistemologico contemporaneo produce follia a palate. In fondo, pazienza… Comunque questi KuTso sembrano avere avuto
una risposta notevole di pubblico e critica. Hanno aperto per mezzo mondo, hanno vinto il Martelive, il premio della tecnica al MEI e sono stati band della settimana su MTV New Generation (quest’ultima, a pensarci bene, non è una nota
positiva). Fanno ridere assai, su questo non c’è dubbio (“Celerini ma che cosa fate
nelle strade?/Quelli da pestare sono al Quirinale”, in Via dal mondo, che raccoglie
l’insoddisfazione dell’antipolitica odierna filtrandola attraverso un narratore delirante). C’è anche una cover punkeggiante di De André che è quasi quasi meglio
dell’originale, uptempo e distorta. A quel che vedo, questi quattro scheggiati amano presentarsi sul palco con i travestimenti più assurdi (polli, maiali, parrucche di ogni tipo), e se le foto live sono oneste, il pubblico impazzisce e giù
crowd surfing a tutta, tra risate e costole incrinate. Il gusto per il gioco è evidente, come pure una certe sindrome di
Peter Pan (“Eviterò la terza età”) che è però alquanto auto-caustica, cazzeggion-nichilista, un grido da generazione
X diventata generazione X-Box. (“Necessiti di endorfine/Comperi le patatine/Pensi troppo mattina e sera/Ma spegni
tutto, fatti una sega”. Altro da aggiungere?). Solido altrock sostenuto da una filosofia da campetto di periferia, mi
hanno fatto sorridere, e anche riflettere su questa generazione di falliti autocommiserevoli senza bussola di cui faccio parte, che alla fine lo prende sempre in culo ma senza risparmiarsi un’ultima, acidissima battuta. “Decidete voi per
me perché/Me so rottercazzo”. [6.5/10] MARCO PETRELLI
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BF 23
Diraq
FAKE MACHINE
Autoprodotto, 2013
Il suono puro e crudo del frastuono, del fragore del caos che irrompe nel silenzio
più assoluto, una luce improvvisa e colorata che spezza l’oscurità di una stanza
vuota. Il sound dei Diraq è fatto di questo, di caos puro, di confusione e disordine,
di rumore assordante. Forse sono proprio queste caratteristiche che li fanno peccare di poca originalità, ma nonostante ciò la band sa come catalizzare su di sé
l’attenzione. Dal puro stoner martellante e sconclusionato ad accenni di vero e
proprio punk, quattro strumenti stridono, battono, esagerano per dare vita ad
un sound prepotentemente sporco e assillante. Nei testi c’è denuncia, impegno,
posizioni ben precise, ma anche tanta psichedelica… alcuni chiarissimi e assolutamente precipitosi di arrivare al succo del discorso, altri vaneggianti, schizofrenici,
a tratti incomprensibili (e proprio questi ultimi sono quelli che ho apprezzato maggiormente). Stacchi improvvisi:
picchi di suoni aggrovigliati staccano all’improvviso su silenzi assoluti, alcune fini che sembrano solo pause nei pezzi,
alcuni stacchi appaiono come epiloghi. Tutto suona molto confuso, fatto a casaccio, piuttosto che suonato con cognizione di causa, perché si sa che anche il caos possiede un’identità, un ordine da seguire, altrimenti è solo rumore.
Interessante il progetto in sé, difficile l’ascolto, non per il genere, ma per come è eseguito. Il disco è composto di
dieci tracce, alcune catturano molto l’ascolto, altre lasciano indifferenti, un paio sono addirittura quasi fastidiose da
portare fino alla fine. Apprezzabile, ma non unico. [5/10] • MARUSKA PESCE
Nicola Battisti
NICOLA BATTISTI
Cabezon Records, 2013
C’è la freschezza delle passeggiate di primavera e la gioia degli occhi di una mamma che guarda il suo bambino, in ogni singola nota di questo disco. Un manuale
dell’ottimismo e dei buoni propositi, ma non quelli che si fanno e poi si perdono
nel vuoto, bensì quelli reali e concreti. Nicola Battisti è un aitante cantautore della
bella poesia, del bel canto, della narrativa leggera e spassionata, non impegnativa,
che alleggerisce l’animo di chi l’ascolta, di quella che in poche note sistema la giornata! Una voce calda e rilassante accompagna, la musica al centro di ogni cosa, di
ogni discorso, dai ritmi caldi del sud agli scorci del pop giovane e gioviale, dalle atmosfere delle canzonette italiane degli anni Sessanta alle schitarrate in stile rock
and roll (molto timido). Battisti vive per molti altri viaggiando per il mondo e sarà
proprio questa propensione al viaggio che lo porta ad immagazzinare tutte le esperienze musicali fatte qua e la e a riportarle in questo lavoro, composto da 12 tracce semplicemente deliziose. A tratti di un ingenuità disarmante, i testi
posseggono un fascino molto particolare, pochi giri di parole, piuttosto tutto sembra scritto a mo di racconto. La
forza sta proprio in questo, nella semplicità assoluta: pochi strumenti, tante parole, ma nessuna esagerata forzatura,
un equilibrio perfetto. Non ci si trova alla presenza di un disco di chissà quale spessore o originalità, ma la qualità è
indiscutibile. [6.5/10] • MARUSKA PESCE
Morfema
TUTTO BENE SULLA TERRA?
Milkhouse Soundfactory, 2013
Tutto bene sulla terra? Ottima domanda se a farla fosse un’entità estranea al
nostro pianeta, invece sono i Morfema a porgere il quesito, ma va bene lo stesso. Certo la risposta in questo momento non potrebbe che essere negativa... va
molto male sulla terra. Ma siamo ottimisti. Primo lavoro per questa band, con
molto Rock, Noise-Pop, Post-Rock... Tutto ben mixato in un equilibrio gradevole.
Si parte subito con Prop e Hassan nei quali chitarra e voce sono malinconici in un
crescendo post-rock notevole. Mentre Malibù rimane molto mielosamente pop,
“cercherò un po’ di sonno per aver visione ancora di te”. Hermione ricorda molto
gli anni novanta, riporta al grunge degli Alice in the chains, presente un’ottima
esplosione sonora con potente ritmica. Nel penultimo brano Montmartre voliamo
con la fantasia a Parigi in uno dei pezzi più energici ed intensi di tutto l’album.
12.13 è il brano che chiude l’album e nel quale troviamo ancora una volta una percezione malinconica del mondo
“non mi accorgo del rumore che conosco, diventa buio davanti a me, guardo avanti e non vedo niente”. Il cantante
Stefano Gamba, i chitarristi Virgilio Santonicola e Roberto Cucchi, il bassista Maurizio Nembrini e il batterista Matteo
Zorzi, hanno decisamente fatto un buon lavoro. Tutto si muove in chiave post-rock, pregevole sia i testi che la musicalità, lavoro soddisfacente ma non del tutto convincente. [6/10] • G. MONTAG
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24 BF
Disorchestra
UMANO/DISUMANO
Seahorse Recordings, 2013
Umano/Disumano, due categorie con cui misurare gli eventi del mondo.
L’osservatore è Giulio Marino, autore di testo e musica, è lui che possiede le lenti.
Nei testi condensa i suoi giudizi, dilettandosi nel riportare in versi timori e rabbia
per lo stato attuale delle cose (“In un giorno/un giorno d’autunno che sa di sconfitta/ eutanasia delle identità/ ecco il presente… eccolo”), senza portare folgorazioni nei nostri sistemi morali o scompiglio nelle coscienze.
Il cantato, come i testi, non ha impennate particolarmente rilevanti. Strofe spesso
intonate à la Godano a cui seguono ritornelli elementari. Tutto intorno c’è un
grande impegno nella ricerca di soluzioni musicali non banali, per illuminare come
lampi l’incedere pesante, poco aggraziato, di gran parte dei brani. Molte trovate
acute, una grande varietà nelle scelte, ma anche molte cadute. Il lavoro dei musicisti è preciso, ma l’impalcatura che
regge l’impianto musicale dell’album non è sempre stabile. La ricerca di originalità stride con la mancanza di smalto.
Emblematiche Furata e La camerata elettrica, con passeggiate fra differenti sentieri musicali molto ispirate, arrangiamenti importanti, ma che nel complesso creano disomogeneità, passaggi a volte goffi, una collusione/collisione
fra le parti, che – dando per scontato che sia voluta data la bravura dei musicisti – non genera un valore espressivo
ma mero stridore.
Anche per brani meno eccentrici la distanza fra i momenti migliori (Che fine ha fatto John Cazale) e i peggiori (Cabaret Rivolto) è enorme. Il potenziale non è stato sfruttato, Umano/disumano è un album di alti/bassi, attese/disattese.
Il nostro giudizio è sufficiente/insufficiente. [5/10] • ALBERTO SARTORE
Kathryn Williams
CROWN ELECTRIC
One Little Indian, 2013
Kathryn Williams, cantautrice inglese con un buon numero di dischi e discreto
successo in patria, ha una voce che a un primo ascolto ricorda Norah Jones, per
delicatezza e pulizia dell’intonazione. I suoi brani sono dominati dalla chitarra
acustica e dalla voce, con alcune eccezioni, come The Known o Darkness Light, in
cui invece è il piano ad emergere; in quest’ultima l’acuto del ritornello fa pensare
immediatamente a Bjork, siamo però in tutt’altro contesto musicale.
I brani rimandano ad atmosfere fluttuanti con testi che richiamano piccole
esperienze di vita vissuta (Monday Morning) o sensazioni molto personali
(Morning Twilight). Spesso la musica accompagna in maniera perfetta queste
sensazioni. Una particolare citazione meritano gli altri strumenti presenti nel
lavoro, che contribuiscono a creare questo sound, in particolar modo il violoncello e la batteria, molto soft, suonata
con le spazzole. L’album è molto coerente, forse troppo. Segue la sua linea, senza troppi sbalzi o cambiamenti: è
certamente un motivo ricercato e senza dubbio la musica scorre con leggerezza, ma non si distinguono bene le varie
parti del lavoro: tutto è molto simile. Se cercate della musica che faccia da sottofondo ai vostri momenti più intimi,
siano essi pensieri o azioni, Kathryn Williams fa sicuramente al vostro caso. È quel “soft” che non passa mai di moda.
[6/10] • PIERGIORGIO CASTALDI
Muschio
ANTENAUTS
Red Sound Records, 2013
Dei Muschio è molto difficile trovare informazioni. Con una pagina Facebook dove
snocciolare le loro date dei concerti e un presskit essenziale lasciano il fardello
della comunicazione al loro primo album, uscito per la Red Sound Records nel
settembre 2013. Granitico come loro si tratta, per i tre di Verbania, di un album
totalmente strumentale di matrice stoner con delle sonorità “spese” molto bene.
Seppure dai primi ascolti mi davano sempre l’impressione di una deriva shoegaze
imminente, i richiami vanno per lo più verso alcune produzioni degli Isis e dei Lento con qualche affinità maggiore verso quest’ultimi. Non me la sono mai sentita
di ascoltare questo album da solo, ho sempre avuto bisogno di creare un percorso
sonoro di album simili dopo l’ascolto di questo cd dei Muschio. Segno forse che
non è un album in grado di reggere la pressione da solo ma è un esordio sicuramente positivo. [ 7/10 ] • PLASMA
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BF 25
Andrea De Luca
VIA DIRETTISSIMA 2 e 1/3
Liquido Records, 2013
Vi è mai capitato di tirare su la coperta fino a coprirvi gli occhi e pensare per un
attimo di essere tornati bambini? Ecco, Via Direttissima, strada dell’infanzia nella
Bologna dov’è cresciuto Andrea De Luca, è questo viaggio indietro nel tempo,
album a tema del ragazzo che era e dell’Italia che fu. Dal momento magico in cui
impariamo a librarci sulla bicicletta alla due cavalli sull’Autostrada del Sole si viaggia attraverso gli anni ’70 e ’80 ripassati per tappe fondamentali in compagnia
delle persone e degli oggetti più cari. Il boomerang regalato dal nonno e il subbuteo, il guantone da baseball e la gamba di legno della nonna, il letto a castello e il
comodino azzurro, il giradischi e i fumetti, il chiodo e i libri di Jack London. E sullo
sfondo Pelè e Dino Zoff, Alì che batte Foreman, Senna e i 200 di Mennea, John
Lennon e poi John Travolta, l’austerity poi le stragi di Stato, la storia che passa sotto casa di I Clash in Piazza Maggiore
(era il 1980). Dietro tutto, quasi costante, una presenza femminile idealizzata, vagheggiata. Il tono è ora evocativo
ora più ironico, e nel complesso la dimensione intima prevale su quella corale, rispecchiate al meglio rispettivamente
dalla vibrante La vita tra le dita e dal ritratto generazionale di Yoko Ono che c’entra, il brano ritmicamente più coinvolgente. Detti i pregi va però segnalato anche il grosso limite dell’album, che non è, quasi mai, quello di chiudersi nel
perimetro ristretto di una realtà che non esiste più, ma è, quasi sempre, l’insufficienza dei mezzi espressivi. De Luca
non si è affacciato oggi sulla scena musicale: è stato il front man dei Radio City, storica formazione bolognese che ha
prodotto due bei dischi negli anni ’80; ha collaborato con Federico Poggipollini e Massimo Bubola; in prima linea nel
progetto Mama Grande che ha portato l’album Settembre e il sole (2010). Allora com’è possibile l’ingenuità tanto di
arrangiamenti quasi sempre deboli quanto di una prova vocale a tratti insufficiente? A conti fatti il punto di forza è
costituito dai testi, che qui e là brillano di ottimi guizzi anche se non sempre riescono a fuggire un sapore retorico.
Non tutti reggono una prova solistica, ed è possibile che De Luca funzioni meglio all’interno di progetti collettivi, ma
questo non toglie dignità ad una prova che riesce comunque a raccontarsi con sincerità.
[6/10] • FABRIZIO PAPITTO
Carpacho!
NON È PIU’ TEMPO DI ILLUDERSI
Autoprodotto, 2013
Un best of dopo appena due album e due EP - tutti in free download sul loro sito
internet – potrà sembrare forse un po’ prematuro. Una raccolta senza velleità,
niente bonus track né featuring, outtakes o alternative version messe lì a ingolosire (e dire che c’era almeno da ripescare la brillante cover di Nord Sud Ovest Est
dalla recente compilation di tributo agli 883 Con due deca o l’ancor più nascosta
rilettura degli Artemoltobuffa di Lacrime a biro contenuta nello split Cocomeri? di
ormai dieci anni or sono). Ma consideratelo piuttosto un riassemblaggio di pezzi
spostati e ridisposti; si vuole solo ripassare la propria firma per renderla visibile
quanto merita. Perché i Carpacho! sono bravi, e questa comoda raccolta ne riassume tutte le qualità. Le loro canzoni sono esempi riuscitissimi di pop agrodolce,
bittersweet symphonies (per dirla con chi pensava non fosse più tempo di illudersi già quindici anni fa) dai testi mai
banali e sibillini quanto basta a dirne l’intelligenza, dandysmo ballabile e nostalgie in stile Baustelle (che amano
molto) con quel tocco di brit-pop in più a renderli un po’ sbarazzini. La scaletta non segue l’ordine cronologico ma
sceglie di comporsi in un ritmo personale. Due i pezzi dall’esordio Funeral Buffet, cinque da La fuga dei cervelli,
l’album meglio accolto dalla critica (anche troppo, dicono loro), altrettanti dall’ottimo quanto trascurato La futura
classe dirigente, e uno dei tre che compongono l’ultimo EP L’oracolo e il fardello. Alla fine c’è (quasi) tutto; la riflessione critica di Il reale mi dà l’asma, la canzone manifesto Regole per un cervello difettoso, il conforto di Niente che
non va, la politica Assassino seriale sensibile, il corrosivo attacco ai cliché di Tappo di champagne, i conti con se stesso
nell’intima Canzone 7 (Winter), la denuncia di La classe diligente («gli eroi dei nostri tempi stanno male», si grida riuscendo quasi a commuovere), il delirio irresistibile di C.A.R.P.A.C.H.O. Chi scrive avrebbe fatto qualche sostituzione
con i titoli che abbiamo tralasciato di citare, ma i pezzi funzionano tutti, passano messaggi importanti, ci si diverte,
la qualità media è alta. Per Marco Catani e compagni, che già stanno lavorando al prossimo passo, non resta che continuare su questa strada, confidare in loro stessi e avere fiducia nel proprio progetto; se così sarà, presto molte altre
voci si uniranno alla loro. [7.5/10] • FABRIZIO PAPITTO
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26 BF
Giobia
INTRODUCING NIGHT SOUND
Sulatron Records, 2013
Terzo lavoro per il quartetto, Stefano Bazu Basurto (voce, chitarra, sitar, bouzouki), Paolo Detrji Basurto (basso), Stefano Betta (percussioni) e Saffo Fontana (organo, synth, violino, voce) di base a Milano che, dopo tre anni di attesa dal precedente Hard Stories, aggiunge una perla alla sua collezione con un lavoro di ottima
fattura, compatto ed estremamente gradevole. Ad un primo ascolto Introducing
Night Sound rivela tutto l’amore dei suoi autori per la psichedelia anni ‘60 ed il
brano d’apertura che porta lo stesso titolo è infatti un’onirica e travolgente cavalcata tra synth, strumenti orientali e linee ritmiche impetuose. Ma è solo l’inizio.
Se l’ispirazione sixties si mantiene intatta e il sound si fa caldo e lussureggiante
con l’ipnotica Can’t Kill e con la lisergica Karmabomb, emergono altre devozioni
e altre passioni, dal brit pop allo shoegaze, dal post rock al garage. Le chitarre si fanno più dure e distorte, la voce
tagliente elimina qualsiasi indulgenza verso memorie di epoche passate e i suoni diventano più sporchi e graffianti.
Certo siamo sempre in territori psichedelici, ma pezzi come l’avvincente e oscura Orange Camel o la cover di un brano
del ‘71 di Santana No One to Depend On mostrano come i Giobia interpretino in chiave moderna tutta la tradizione
dagli Electric Prunes, altra cover con Are You Lovin’ Me (But Enjoy It Less) ai Porcupine Tree, da Syd Barrett ai Flaming
Lips. Il viaggio psichedelico nel tempo finisce con Silently Shadows, con il suo imprevedibile violino e il malinconico
organetto, vagamente yiddish, con la voce distorta e in secondo piano di Stefano. Forse dopo i furori garage e i colori
lisergici c’è il deserto e un sole cocente dopo la notte. [7.5/10] • VINCENZO PUGLIANO
Federico Cimini
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI MICHELE
MKrecords, 2013
Federico Cimini s’inserisce nel filone tipicamente italiano di cantautorato plurifolk di protesta e denuncia fortemente politicizzate. Ska, ritmi pseudo balcanici,
canzoni popolari e una robusta iniezione di schitarrate rock sulla scia di Bandabardò, Mannarino et compagnia bella. Stupisce, in uno così giovane (classe 1988),
una certa rodata conoscenza delle dinamiche folk dell’urla-e-zompa, con coinvolgenti cavalcate di rullante e acustiche frenetiche. Il disco è un concept album su
un tal Michele, terrone ed espatriato, le sue esperienze, la sua visione del mondo,
i suoi sfoghi contro le brutture della società e gli sfregi della politica. È coinvolgente, non c’è che dire, e anche impeccabile nell’esecuzione e nella costruzione
dei pezzi, che sono tutti perfetti esempi di combat folk nostrano, con voce roca
d’ordinanza (Rino maniera) e aperture in levare come se piovesse. Messo in chiaro che a noialtri nati sul finire degli
anni ottanta ci girano le palle di brutto e che avremmo una gran voglia di fare un culo così a chi c’ha costretto in
questa condizione di perenne frustrazione esistenziale, è curioso che i canali della protesta passino (quasi) sempre
attraverso questo nuovo tipo di cantautorato dal sapore vagamente esotico. Strano? Non saprei, di certo qualcuno
deve pure incazzarsi, e questa musica solo apparentemente scanzonata è il medium perfetto per arrivare al cuore del
mortificato pubblico giovanile d’oggigiorno. Quadretti di contemporanea speranza e mediocrità ben scritti e bene
eseguiti, per portare avanti il songwriting italiano, oltre le incombenti e ingombranti eredità di quei pochi grandi
nomi che ci vengono continuamente portati ad esempio, ormai addestrati e addomesticati dalle dinamiche bugiarde
dell’intellighenzia educatamente “contro”. Forse è da queste parti che andrebbe cercata la “voce” dei tempi. Chissà.
[6/10] • MARCO PETRELLI
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BF 27
GTO
LITTLE ITALY
Music Force, 2013
Non tutti lo sanno, ma i GTO sono una delle realtà più prolifiche, longeve e vitali
della scena Folk‘n’roll italiana. Il loro ritorno, tre anni dopo l’ultimo Mondiàl, è la
continuazione di un modo di cantar storie che ha caratterizzato l’intera produzione del quintetto umbro, e celebra vent’anni di attività conditi da centinaia di date
in tutto il continente. Musica per sudare, musica da Festa Popolare, come ricorda
la canzone tributo alle radici dei GTO, ma anche invettiva contro un’Italietta sempre più grottesca, che “non sa dove sbattere la testa”. In tal senso, l’investitura di
canzone di protesta viene consegnata alla paradigmatica Little Italy, title track
decisamente adeguata per le figuracce che il Belpaese continua a riscuotere.
Granelli di Sabbia, invece, è il confronto con un mondo diverso, con la musicalità
da ballad ed atmosfere messicane infarcite di bigsby e tremolo, con qualche rimando alla canzone italiana anni ’60.
Se analizziamo più a fondo questo album, che indurrebbe a sentirsi di fronte all’ennesima folkata, scopriamo delle
scelte di produzione che regalano un respiro molto più ampio, con picchi di eccellenza in termini di sonorità. Oltre
alle sopra citate, in Barabba, che è la prima traccia dell’album, i fiati si intersecano con le tastiere, quando magari ci
si aspetterebbe una molto più consona fisarmonica. Divertente. Ben riuscito l’esperimento folk-pop Cielodivento,
che ci porta in giro per un intero anno, con le eterne incertezze di fronte a ciò che sarà di noi. Decisamente fruttuosa, dunque, la collaborazione con Leonardo “Fresco” Beccafichi in cabina di regia, collaboratore stabile di Lorenzo
Cherubini. Quello che va concludendosi, invece, sembra essere un anno decisamente fortunato per la scena umbra,
che va ad aggiungere un altro importante tassello alla propria sostanziosa offerta, nel campo della musica indipendente. Un ritorno gradito, quello dei GTO. [7/10] • BERNARDO MATTIONI
El Bastardo Outlaw Picker
WOOD AND STEEL
Autoprodotto, 2013
Quantificare la distanza che c’è fra la Val di Susa e i campi di cotone statunitensi dei primi del ‘900 non è facile, perchè oltre che fisico il divario è culturale, sociale, temporale. Ma basta ascoltare El Bastardo per capire che il vecchio detto “le distanze non contano” è veritiero più che mai. Wood and Steel
è un disco grezzo, sincero e privo di fronzoli, scanzonato e intenso. Registrato
in presa diretta con tanto di uccellini in sottofondo e piede che batte il tempo,
il disco ricorda quei 78 giri che dalla fine dell’Ottocento al 1945 suonavano
nei grammofoni e nelle case della gente. Wood and Steel conta di alcune canzoni originali e, come vuole la tradizione di genere, di varie cover interpretate
a dovere; si va da Out On The Western Plan a Hit the road jack a The Eintertainer, spaziando tra chitarre acustiche, dobro, ukulele, bottleneck e kazoo. La bellezza e l’intelligenza presente
nelle nove tracce che compongono l’album sta proprio nella volontà di ricreare una certa atmosfera più che
di incidere semplicemente delle canzoni, tanto che in un contesto del genere anche punti deboli come la scarsa
qualità della registrazione diventano invece elementi di forza che contribuiscono a formare un disco caldo, vivo.
E non sono solo il calore del legno e la forza dell’acciaio ad animare Wood and Steel ma anche le capacità tecniche de El Bastardo, che si muove comodamente fra fingerpicking e slide, citando con la voce e soprattutto con la sei corde Johnny Cash, Rory Gallagher, Jimmy Rodgers e tanti altri con naturalezza e
gigioneria, sempre in bilico tra il serio e lo scanzonato. El Bastardo vuole portarci nella sua epoca, nel
suo mondo preferito e lo fa con la semplicità e con la passione di chi ama e crede in quello che fa. E noi
non possiamo far altro che lasciarci coinvolgere e sentirci un po’ più bastardi e fuorilegge insieme a lui.
[7/10] • MARCO BALZOLA
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28 BF
The Snookys
AUTOMATIC STOMP
Night Fighter Records, 2013
Onesto? Quando mi arriva in mano il cd dei The Snookys e leggo che sono prodotti dall’americana Night Fighter Records, casa discografica che da anni lancia
sul mercato un’infinità di punk rock band, dando spazio a molti gruppi emergenti,
mi sono sentito di avere un album degno di nota. Purtroppo non è stato così.
Per carità, intendiamoci, non che sia un lavoro pessimo, ma non sento nulla di
nuovo al primo ascolto. Rimetto il cd per cambiare idea, ma, niente, resto della
stessa opinione. Questi ragazzi lombardi tecnicamente sono bravissimi, nulla da
eccepire, ma già autodefinirsi come gruppo garage punk è alquanto sviante, visto
che vuol dire tutto e nulla. Girano molto tra sonorità anni ’80/’90, alcune molto
rockabilly, come “I won’t go so far” e “The foosball song”, o attraverso un richiamo esplicito alle sonorità Chuckberryiane con “Pass by me”, o persino con una (molto ben fatta a dire il vero) cover
di “Get ready” di William Snokey Robinson, pezzo migliore del disco. Il disco va via molto veloce, con 11 pezzi che,
attraverso suoni lo-fi, voci ovattate e una registrazione comunque molto buona, purtroppo sembrano tutti molto
simili, anche nei riff introduttivi. Ribadisco, non è un lavoro malvagio, ma, viste le potenzialità del quartetto lombardo, penso si sarebbe potuto tirare fuori qualcosa di più rilevante nel panorama musicale, invece così si rischia di
far cadere nel dimenticatoio una serie di pezzi che, magari, in una performance live, potrebbero essere veramente
apprezzabili rispetto ad un ascolto digitale. [ 5.5/10 ] • LUCAJAMES
Cani della Biscia
FAI COME FARESTI
Autoprodotto, 2013
I Cani della biscia sono piacentini, e si sente in ogni nota di questo loro lavoro.Una
bella festa di paese negli anni ‘50, fra mazurke e canzoni sfrenate, testi spesso
goliardici (la voce del cantante mi ricorda l’amato Elio).
Molto belle in realtà sono anche le ballate, speciamente Malinconia, anche se
proprio non può essere definita così perchè all’iniziale violino segue una batteria
molto rullante, che è un inno alla vita e alle cose positive. Adunata d’amor sembra
invece una canzone di Celentano degli anni d’oro, con un ritornello molto molto
orecchiabile e che rimane in testa un bel po’. Mal d’Africa è invece velocissima,
e ha un sapore davvero mediorientale; Buon Natale è una ricetta tradizionale in
canzone di quello che si mangia nel periodo natalizio. L’unica cosa che mi ha lasciato spiazzato è stato il riff iniziale di 28 Marzo, che è davvero uguale a You’re gorgeous dei Babybird, ma è un peccato veniale. Il disco è davvero piacevole anche se ovviamente non perfetto ma si lascia ascoltare molto volentieri.
[6.5/10] • PIERGIORGIO CASTALDI
Chiara Atzeni
SOTTOTRACCIA
Autoprodotto, 2013
Prima di inserire il cd nel lettore diamo un’occhiata veloce ai titoli, così, per orientarci sulla carta prima di iniziare il viaggio, per il piacere di sbirciare prima di
entrare. Allora: Universo dentro, Tra il vuoto e il mare, Amore di cristallo, Dissonanze, Frammenti, Tutto passa. State pensando la stessa cosa? Avete un terribile
presentimento? Poi il disco scompare dentro la fessura, e tutte le paure che avevamo negli occhi ripassano per le orecchie. Ebbene sì: pensieri che hanno ancora
il sapore dei banchi di scuola, quando vagheggiavamo di parole che ci piaceva
guardare da lontano senza afferrare, come nuvole dalle forme più bizzarre. Penalizzati da una maturità espressiva lontanissima da raggiungere, si parla di sé e
della propria vita senza riuscire concretamente a rappresentarsi, costruendo un
autoritratto tanto generico da poter essere in definitiva quello di tutti (e di nessuno). Quando poi si abbraccia, più
per costume del pensiero che per esigenza espressiva, la riflessione critica, non ci si allontana di un passo dai più
infaticabili luoghi comuni. C’è anche, a mo’ di contorno, il “pezzo contro”, Il vostro Dio: retorica in libertà. Le cose
non migliorano quando si prova ad abbracciare l’inglese come nella conclusiva Flashback. E, su tutto, il tritume melodico di arrangiamenti che rendono impossibile distinguere un pezzo dall’altro. No, non ce l’abbiamo con la giovane
esordiente Chiara Atzeni, naturalmente, e non possiamo (e non vogliamo) giudicare la sincerità o la genuinità delle
sue emozioni. Ma della sua musica sì, e per il momento siamo decisamente sottotono, anzi, lasciamoci suggerire, sottotraccia. [4/10] • FABRIZIO PAPITTO
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BF 29
Sister In The Closet
INTROSPEZIONE EVASIVA
Autoproduzione, 2013
Introspezione Evasiva è composto da otto brani di caratura punk. Passiamo dallo
stile dei NOFX e Millecolin al post-grunge degli Staind e Nickelback, senza lasciarci mancare venature metal e post-hardcore. In generale la sezione ritmica è ben
arrangiata e non è affatto male. Mi piace l’idea coraggiosa di utilizzare l’italiano
sopratutto per un genere il punk che predilige l’inglese.
Nota dolente sono i testi molto adolescenziali e a tratti banali, ricchi di quel disagio giovanile sbandierato ai quattro venti, ormai da troppo tempo e da troppe
band. Non trovo l’originalità della band esordiente. Rimango perplesso e convito
che si poteva fare meglio. Il tutto si apre con Padre, bel pezzo di apertura che
sintetizza quello che troveremo nell’album. C’è tutto quello che rappresentano
Sister in the closet: forza e compattezza, distorsioni e ritornelli martellanti. Ancora come la prima volta è la traccia
scelta per il videoclip, lo trovate su youtube. Uno dei brani più interessanti è Odissea, imprevedibile e di grande forza
stilistica, pecca sempre nel testo. Un’altra crepa nel muro è un pezzo strumentale che rallenta tutto l’album, atmosfera riflessiva. Acido lattico e Fantasma continuano sulla strada intrapresa coi primi pezzi e si fanno ascoltare con
facilità. Il miglior pezzo del disco è senza dubbio Il Bersaglio, testo nostalgico e intriso di rancore e rabbia, sonorità di
genere alternative/post-rock melodico. Il brano si chiude con un’esplosione di suoni di stampo noise.
Si percepisce in questo album la voglia di emergere e la grande volontà che il gruppo ha speso in questo lavoro apprezzabile, ma la strada è ancora lunga, manca di esperienza e di maggiore profondità. Ma è pur sempre un disco di
esordio, ci sarà il tempo per rivalutarli e sinceramente non vedo l’ora perché il potenziale c’è e si sente!
[6/10] • G. MONTAG
Drama Emperor
PATERNOSTER IN BETRIEB
Seahorse Recordings, 2013
I marchigiani Drama Emperor ci avevano anticipato qualcosa della loro esistenza
grazie alla mitica Anomolo Records che ci mise gratuitamente a disposizione
il loro primo EP. Al biglietto da visita segue, dopo tre anni, il loro primo album
dall’impegnativo titolo “Paternoster in betrieb” (che dovrebbe significare qualcosa come “Cristo in action”).
Il risultato sono 27 minuti di convincente synth-pop indipendente dalle più svariate connotazioni. Da quella più rigorosamente post-punk di tracce come Other
Side, che apre l’intero disco, a espressioni più tradizionalmente industrial (atmosfere alla Pankow per intenderci) come Teknicolor. In Sing Sing Sing affiora
splendidamente una disperata metrica italiana che ricorda certo elettro-punk
marginale per adolescenti irrequieti dei bei tempi andati. Incalzante EBM in versione Young Gods nella teutonica
successiva Aber. Il suono si fa più freddo ma anche più avvolgente visto l’incrementare di bpm. Ma arriva Phrase Loop
che ci proietta verso una psichedelia pop di stampo marziale, saccheggiando attitudini estetiche appartenenti dalla
fine di un millenio che ci ha preceduto. Dead Of Technology esprime la loro devozione smodata per la new wave da
dancefloor anni 80. Segue l’elektroklash di Riversami che precede l’ottima Second Floor, meditazione minimalista di
stampo no wave che chiude l’intera opera lasciandoci nell’oscurità delle emozioni più remote. Un lavoro suggestivo,
nella sua interezza convincente ma che rischia di apparire anacronistico e privo di propulsione per un’evoluzione
futura. Attendiamo fiduciosi il seguito!
[6/10] • ANTHONY ETTORRE
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30 BF
BF 31
32 BF
EP
Ásgeir Trausti
THE TOE RAG ACOUSTIC SESSIONS Ep
One Little Indian, 2013
Immaginate un minuscolo locale con le tendine alle finestre, piccoli quadri
con le cornici di legno appesi alle pareti bianche e un tappeto su cui dieci
quindici persone silenziose e sorridenti ascoltano accovacciate l’esibizione
alla chitarra acustica di ragazzo con un cappello di lana e una voce suadente e
vibrante, leggera e quasi sommessa. Il tutto mentre fuori la penombra e il vento
dell’estremo nord avvolgono ogni cosa. Ed è proprio così che il giovane Ásgeir
Trausti si è esibito nella natia Islanda in occasione di Eldhús: The Little House
of Music. Le stesse atmosfere introspettive ed intime sono presenti in questo
breve Ep completamente acustico (chitarra e voce) registrato presso il Toe Rag
Studios di Londra nel febbraio di quest’anno. Folk acustico e melodico, dove la
chitarra suonata con maestria ed energia trascina, soprattutto in Summer Guest, in luoghi solitari da attraversare con
la nostalgia e la meraviglia nel cuore. Più malinconica e tenue l’iniziale Going Home, in cui la voce di Ásgeir ricorda
in maniera sorprendente quella di Jeff Buckley e il tono appare forse troppo confidenziale e chiuso. Gli orizzonti si
dischiudono verso ispirazioni più folk con On That day e il falsetto freme di emozione e intensità è proprio la carica
emotiva (ed evocativa) espressa dalla voce e dagli arpeggi a colpire in questo breve lavoro, espressione della fertilità
musicale dell’Islanda, della forza suggestiva dei suoi spazi infiniti e selvaggi. Dunque un’anticipazione acustica molto
interessante del prossimo disco di Ásgeir Trausti, da ascoltare con attenzione. [7/10] • VINCENZO PUGLIANO
Kandma
DEMUR Ep
Martiné Records, 2013
Demur, EP d’esordio dei pavesi Kandma, rilasciato sotto licenza Creative
Commons, è un interessante lavoro sperimentale con una notevole cura dei
dettagli (disponibile solo in formato digitale). Mi sento di consigliarlo unicamente
agli appassionati del genere, in quanto, nonostante la breve durata l’EP segue la
vena sperimentale di Nick Drave, aggiunge l’ennesima sensazione/emozione che
ti provoca ascoltare gli Explosions in The Sky.
L’EP di apre con Lambda, decisamente il pezzo migliore di tutto l’album, gradevole
inzio soft-ambient e ottimo mix di voce con energiche esplosioni post-rock nel
finale. Pushing cambia stile sia per l’aggiunta ulteriore di elettronica, a mio avviso
molto azzeccato, e voce tristemente maliconica. Ursa è più calma e più pop.
Chiude la cover Three Hours, di Nick Drave, artista che sicuramente ha influenzato notevolmente la band e questo Ep
in particolare. Buon EP, rimane all’ascolto molto intimo e personale. [6/10] • G. MONTAG
Fine Before You Came
COME FARE A NON TORNARE Ep
La Tempesta Dischi, 2013
Un time-lapse di nuvole, pregne di bagnate aspettative, agglomerate sulla città
ed invocate in ululati dalla triste, vuota quintessenza delle strade, dove il vento
disgrega le mondezze sulle uniche macchine in giro, i taxi (non gialli). Sulla scena
monta ‘Come fare a non tornare’, detto anche ‘il più post- di tutto’: post-rock,
post-grunge, post-punk, post-burrasca. Pre-regia cupa, procedente da tristezze
decennali di Joy Divisioniana memoria per i Fine Before You Came: piagnucolano
accordi in arpeggio, finchè questa pioggerella acidula tremi dall’effetto; sublima
una bruma rumorosa di ottave, in dialogo con la gregoriana solfa di Jacopo
Letti cantante.EP della maturità, e più della maturità fa scalpore la disillusione
affilata come tela di Hopper, testi che sono ‘cori’ che sono canti bianchi di una
‘sadness’ impermeabile all’ottimismo, alle prospettive. Ciò non è stupido, se guardo il marcescente spettacolo ecco,
eccoci, gusci d’uova bevuti dal pugile a colazione; non so cosa voglia dire emo esattamente, tuttavia c’è un vento
autolesionistico che spinge lontano, verso nulla o verso tutto quello che c’è da realizzare. Post-pettive.
[6/10] • PABLO
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BF 33
Le Gros Ballon
HEY! Ep
Casamedusa, 2013
Ecco un graditissimo ritorno. Dopo il riuscitissimo Orange, il visionario duo
milanese torna con Hey, un Ep tanto bello quanto coerente con il precedente
lavoro. Missione compiuta, ancora una volta. Questo lavoro è chiaramente
afferente al topos di Orange, nonostante non abbia la possibilità fisica di
sviluppare un discorso più ampio ed elaborato, come avveniva nel full length di
cui sopra. Inoltre, sebbene la continuità tra i due lavori esista e sia vibrante in
tutta la propria forza, la title track in apertura sembra quasi strizzare l’occhio
agli Animal Collective, ben consapevoli del fatto che ci troviamo su lunghezze e
forme d’onda diverse, meno sintetiche. Quattro tracce abbastanza brevi (solo
in un caso si superano i tre minuti), dove troviamo spazio per i grandi riverberi,
ma anche per la cacofonia improvvisativa (come in Sir Alfred Joseph Hitchcock). Ricordiamo che ai Le Gros Ballon
piace l’esplorazione, la creazione artistica, soprattutto in campo cinematografico. La composizione per il cinema è
ciò che caratterizza la loro musica. Non a caso il duo si è cimentato direttamente nella produzione di colonne sonore
(in particolare per il documentario “Ciao Italia”). I due sanno sfuggire alle classificazioni di genere, fregandosene
anche altamente delle stesse. Sarebbe inutile citare tutto ciò che questo Ep potrebbe ricordare. Fate una cosa:
ascoltatevelo e lasciate che ricordi qualcosa anche a voi. [7/10] • BERNARDO MATTIONI
Tiger Tsunami
RE: ANTARCTICA Ep
Autoprodotto, 2013
Il titolo di questo lavoro del producer britannico Christian Parker alias Tiger
Tsunami, Re: Antarctica, non deve ingannare: niente fredde elucubrazioni intorno
a impulsi e alterazioni elettroniche, né oniriche e minimali distese sonore, ma
calde ondate ritmiche, circolari e ricolme di groove. Parker gioca con le voci e
le linee di bassi e di percussioni, con i loop di chitarre lavorate sapientemente,
creando una musica pulsante e avvolgente, caratterizzata da una componente
melodica di ispirazione soul, che non tralascia al tempo stesso una spiccata base
dubstep e chillwave. Le atmosfere risultano ardenti senza bruciare, solcate da
venature e distorsioni, da ritmi ed echi ora etnici ora più industriali. Tiger Tsunami
sfrutta le influenze più disparate, dal glitch all’ambient house, per produrre un
lavoro che coinvolge l’ascoltatore in un viaggio fluttuante su sonorità palpitanti ed inquiete, mai banali. Nell’ep
trovano spazio anche i remix dei tre brani che lo compongono. Curati da Nuages, Koloto e Fxxxyblnt arricchiscono
l’ascolto di sfumature, anche consistenti come nel caso di Waves (Koloto remix), privilegiando la parte vocale in
Antarctica (Nuages remix), o quella percussiva in Blossom (Fxxxyblnt remix). Nel complesso una produzione molto
interessante che conferma la tendenza ad la sovrapposizione e il rimodellamento continui di stili e generi nella scena
elettronica attuale. [7.5/10] • VINCENZO PUGLIANO
Esperia
MOSÈ Ep
Autoprodotto, 2013
Nuovo Ep per gli Esperia, che va ad aggiungersi ai precedenti lavori Buster e
L’odore di vita. Il loro nome deriva da una farfalla molto atipica, caratterizzata da
un particolare volo “a scatti”. Ed è proprio uno stile rabbioso e nervoso, ma anche
dilatato in alcuni frangenti, che caratterizza l’album. Tuttavia, non possiamo
certamente parlare di un prodotto atipico, dato che è la band stessa ad indicare
le proprie fonti di ispirazione nei grandissimi del rock. Questa passione emerge
distintamente nella musica degli Esperia, con riff di chitarra ammiccanti ed
atmosfere da alt-rock anni ’90. Tutto è molto quadrato, eppure nell’insieme, capita
che il cantato non riesca ad emergere come dovrebbe, vuoi per le scelte dei testi,
vuoi per gli incastri di armonie ed accenti (a proprio agio nell’accattivantissimo
ritornello di Niente si fermerà, come nelle note più alte e graffiate, nulla da rimarcare). Un prodotto sanguigno, vero
e sicuramente genuino, quello dei quattro esperti musicisti (la band si forma nel 1995) la cui musica li ha portati a
fare esperienza nel panorama indie e mainstream italiano con alcuni partecipazioni degne di nota (e.g.,il leggendario
Roxy Bar di Red Ronnie). L’Ep è composto di tre brani più una suggestiva versione acustica della prima traccia, il
singolone Niente si fermerà. Si poteva fare meglio, ma la base c’è. [5/10] • BERNARDO MATTIONI
INTERVISTE
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34 BF
DPG
…AND PUNK WAS WITH GOD Ep
Autoprodotto, 2013
I fiorentini DPG (acronimo di Drunk Punk Girl) arrivano al loro secondo EP, che già
dal titolo si presenta come una continuazione del precedente “In the beginning
there was punk”. Questa associazione musical-religiosa già di per se mi mette di
buon umore, così mi preparo mentalmente all’ascolto e appena attacca lo stereo
mi sembra subito di sentire i Liars e il loro cantato urlato. Anche se c’è qualcosa
di diverso, qualcosa che mi attira. Ed è infatti questo metodo di espressione
alquanto usuale che i nostri provano e, devo dire, riescono a trasmettere, ovvero
una fusione tra post-punk ed elementi techno, grazie al sapiente lavoro del dj e di
chitarra e basso, ai quali si accompagna un live painter.
Le prime due canzoni “No place to land” e “The epic battle between Jakyll and
Hide” hanno un ritmo tutto personale, anche grazie al synth aggressivo che in certi momenti ricorda molto il sound
dei The Rapture. Però poi l’album non si evolve, restando fedele a questo stile techno-rock-punk, che sì, prende e in
certi momenti ipnotizza, ma che non ha un carattere ben preciso, per cui, le tre restanti canzoni dell’Ep hanno buone
prospettive ma sostanzialmente non si differenziano molto tra di loro.
È pur vero che nell’ambiente underground i DPG si stanno affermando sempre più, anche grazie alla loro presenza
scenica e al tipo di sonorità che attrae parecchio, quindi non mi sento assolutamente di bocciarli, anzi, spero che
facciano quel salto di maturità che li possa portare su palcoscenici molto più ampi. [ 6.5/10 ] • LUCAJAMES
Relazioni Pericolose
RELAZIONI PERICOLOSE Ep
Autoprodotto, 2013
Narrano, Les Liaisons Dangereuses, di una coppia di libertini fetenti e spietati che
organizzano trame velenose ai danni della casta società francese del diciottesimo
secolo. In queste relazioni non c’è nulla di degradante, a dire il vero, piuttosto
l’incontro-scontro carnale tra differenti approcci musicali che impattano ed esplodono creando cinque pezzi incazzosi e veloci, sostenuti da drumming implacabile,
chitarre grasse e un lavoro vagamente ansiogeno di synth. L’impressione generale
è quella del collage, con un lavoro vocale limato e bluesy (che non disdegna incursioni rap e spoken word) assestato su un tappeto musicale a volte minimale,
spesso solidissimo e granitico. Melodie straniate e non di rado votate a una passeggera cupezza che si scioglie regolarmente in passaggi più easy che ricordano
l’elettrorock di gente come Subsonica, Nine Inch Nails e compagnia bella. Mi sono piaciute, in particolare, “Libico”,
pezzo aggressivo e arabeggiante à la QOTSA, e la traccia di chiusura, “Deserto”, con la partecipazione del talentuosissimo rapper Rancore. Densi e aggressivi, passano il primo turno. Ora aspettiamo un long-playing, però.
[7/10] • MARCO PETRELLI
La fortuna di Nashira
È UN PAESE PER VECCHI
La fattoria maldestra, 2012
Certo l’aggressività non manca nell’ep d’esordio di questo giovanissimo gruppo
di Pisa; ma, sinceramente, sembra che non si sappia chi aggredire o, peggio, che
questa rabbia sia assunta come un cliché senza essere affatto ragionata. È ad
esempio il caso del brano Frida, dove l’omaggio alla tormentata figura femminile
(con ogni probabilità la famosa pittrice messicana) si risolve in un suono acido
e noise assai poco giustificato. Ma anche lasciando da parte la gratuità di certe
soluzioni musicali, pesa soprattutto in una prospettiva testuale la pochezza della
riflessione (Claustrofobia) l’ingenuità della scrittura («le mie parole di rabbia
sputate su di un foglio come emozioni vanno a formare un testo contro di te»
si canta in Spezza il pane per Giuda), la scarsa messa a fuoco di alcuni episodi
come nella prevedibile Hiroshima; emblematico in quest’ultima un verso come «le cicale continuano a starnire il
loro frastuono», dove oltre a una retorica poco efficace colpisce soprattutto “starnire” che è verbo inesistente nella
nostra lingua; forse si voleva dire “stormire” anziché “frinire”, ma resterebbe oltretutto da spiegare come regga un
complemento oggetto! Imbarazzante infine la conclusiva Dicono che: si vorrebbe essere dissacranti con ironia, si
riesce soltanto ad essere volgari. No, non è un paese per vecchi – altrimenti non saremmo qui a recensirli – ma un po’
d’esperienza senz’altro ci vuole. Nashira è una stella del Capricorno ed il suo significato arabo sta per “la portatrice
di buone notizie”: speriamo di riceverle presto. [4/10] • FABRIZIO PAPITTO
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BF 35
l’opinione
dell’incompetente
PANSY DIVISION, deflowered.
Boh!
Sarò incompetente ma a me questo album proprio non m’è piaciuto! Voce monotona, lagnosa,
canzoncine stile marcetta. Cantilenanti, noiose.
Non ce n’è una che m’abbia colpito in positivo o
che mi sia rimasta in testa per un riff originale.
Eppure questo gruppo risulterebbe essere tra i
più grandi esponenti del Queercore, movimento
musicale (ma non solo) a sostegno dei diritti delle
persone omosessuali.
Per carità, ogni sforzo fatto per l’affermazione
della dignità e dei diritti degli esseri umani tutti
è degno di lode, ma questo gruppo (venuto alla
ribalta dopo aver fatto da spalla in un tour ai più
famosi Green Day) non ritengo possa essere apprezzato anche per qualcos’altro (tipo per la musica che fanno).
INTERVISTE
LIVE
44 interminabili minuti di monotonia.
Terribile davvero. Pezzi infarciti di vocalizzi : “pa
pa pa “ e “ha ha ha” al posto di testo dal senso
compiuto.
Se uno volesse pensare male, si potrebbe ritenere
che le prese di posizione a favore del movimento
gay da parte di certi pseudo artisti con poco talento non siano altro che una “captatio benevolentiae” nei confronti di un vasto (nonché spesso
ricco) pubblico. Il tutto a compensazione di una
scarsa capacità artistico-professionale di base.
Chi sono?
4 ragazzi di S.Francisco che hanno formato questo gruppo negli anni 90 e che hanno come caratteristica quella di scrivere canzoni dal testo con
contenuti che trattano dei temi dell’omosessualità.
Proprio i testi, dal contenuto spesso ironico o,
meglio, autoironico, sono forse l’unica cosa meritevole di apprezzamento. La capacità di sapersi
prendere in giro è, probabilmente, il modo più
valido per vincere la diffidenza che il mondo
“etero” spesso manifesta nei confronti dei gay;
sicuramente ne favorisce l’avvicinamento. Chi
ironizza sui propri comportamenti, infatti, non
viene in genere percepito come un soggetto pericoloso. A fronte di questo presunto valore sociologico però, il disco, ed il gruppo in generale,
non mi pare che abbia un corrispondente valore
musicale.
12 pezzi in tutto ed io al decimo dormivo. Ma forse non ero in giornata. Fatemi sapere.
Felice vita a tutti!
RUBBY
RECENSIONI
RUBRICHE
“CHI L’HA VISTI?”
Ovvero: Breve scheda di identità di gruppi inutili
scomparsi nel nulla e che (per ora) ci hanno risparmiato una reunion ancora più inutile.
a cura di Mazzinga M.
Sleeper
GENERE: Britpop.
NAZIONALITÀ: inglese.
FORMAZIONE: Louise Wener (chitarra e voce); Jon Stewart (chitarra); Andy Maclure (batteria); Kenadiid
“Diid” Osman (basso); Dan “Rubber Gloves” Kaufmann (bassista dal 1997).
DISCOGRAFIA: Alice (1993, Ep); Smart (1995, Lp); The It Girl (1996, Lp); Pleased to Meet You (1997, Lp);
Greatest Hits (2007, Compilation postuma).
SEGNI PARTICOLARI: di cantante (carina) ce n’è uno e tutti gli altri non se li fila nessuno.
DATA E LUOGO DELLA SCOMPARSA: marzo 1998, dopo un ultimo concerto alla Brixton Academy.
MOTIVO PER CUI SARANNO (FORSE) RICORDATI: la partecipazione alla colonna sonora di
Trainspotting con una cover identica all’originale di Atomic dei Blondie e avere aperto i concerti dei
Blur durante il Parklife Tour.
MOTIVO PER CUI DOVREBBERO ESSERE DIMENTICATI E MAI PIÙ RIESUMATI: perché il Britpop ha
“fatto il suo tempo” e il tempo ha “fatto sua” Louise Werner. E degli altri “sleeperbloke” a noi non ce
ne frega niente…
Denim
GENERE: Indie Glam-Pop Rock.
NAZIONALITÀ: inglese.
FORMAZIONE: Lawrence Hayward (chitarra e voce) oltre a una serie infinita e indefinita di musicisti “usa
e getta”.
DISCOGRAFIA: Back in Denim (1992, Lp); Denim on Ice (1996, Lp); Novelty Rock (1997, Compilation di
B-sides).
SEGNI PARTICOLARI: “…occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio”.
DATA E LUOGO DELLA SCOMPARSA: 31/08/1997, davanti alla tv nel salotto di casa Hayward durante
un ultim’ora estiva del TG della BBC.
MOTIVO PER CUI SARANNO (FORSE) RICORDATI: il brano Summer Smash. La EMI ci puntava forte.
Radio 1 l’aveva già programmato come “singolo della settimana”. Tutto era pronto per lunedì 1 settembre.
La notte del 31 agosto Lady Diana si schianta contro un muro e muore. La EMI manda al macero tutte le
copie del disco. I DJ di Radio 1 si grattano e Camilla Parker Bowles diventa la piu’ grande fan dei Denim.
MOTIVO PER CUI DOVREBBERO ESSERE DIMENTICATI E MAI PIÙ RIESUMATI: Lunga vita alla Regina!
Perché anche se “God save(s) the Queen”, per i sudditi di Sua Maestà è meglio comunque non correre
rischi. You never know…