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fisica e …
La Farbenlehre di Goethe
Marco Segala
Università dell’Aquila, L’Aquila, Italia
La Farbenlehre “Teoria dei colori” di Johann Wolfgang Goethe è un’opera difficile da
collocare e da valutare: se Goethe non l’avesse scritta, la sua fama non ne sarebbe
diminuita; e se non l’avesse scritta un autore tanto eminente, forse oggi di essa si
parlerebbe molto meno. La sua principale tesi – che i colori sono fenomeni derivati
dalla miscelazione di luce bianca e oscurità – si oppone alla concezione newtoniana
secondo la quale i colori sono originari e il bianco è derivato, e per questo viene
semplicisticamente considerata “sbagliata”. Tuttavia, proprio perché si tratta di un’opera
di Goethe e poiché la natura del colore è qualcosa di complesso, i giudizi semplicistici
vanno evitati. Esperimenti della metà del Novecento condotti da diversi studiosi (tra
i quali Edwin Land, l’inventore dell’apparecchio fotografico Polaroid) hanno mostrato
che due raggi monocromatici, entrambi gialli ma con sfumature diverse, possono dar
luogo all’intera gamma dei colori, se fatti interagire con superfici bianche e nere in
certe condizioni di luminosità. Goethe non ha “sbagliato”. Piuttosto bisogna tenere
conto che scrisse un trattato di cromatologia, non di ottica – nonostante lo abbia
presentato come alternativo all’Opticks di Newton. I suoi risultati non sono dunque
direttamente comparabili con quelli di un’opera dedicata principalmente all’ottica e
solo marginalmente ai colori.
1 La cromatologia di Goethe
@ Städel Museum - U. Edelmann/Artothek
Quando nel 1810 diede alle stampe la Farbenlehre [1], Goethe aveva 61 anni ed era un
monumento della cultura tedesca ed europea. La pubblicazione del Faust nel 1808 mostrava
che l’età non aveva limitato la vivacità del suo genio creativo e testimoniava la tenacia
dell’uomo nel portare a compimento un progetto iniziato più di trent’anni prima. La “Teoria
dei colori” era, in ambito scientifico, l’analogo del Faust: il completamento di un’impresa
iniziata vent’anni prima, con la pubblicazione dei Beyträge zur Optik (“Contributi all’ottica”) [2],
e perseguita con veemenza, convinzione e fervore.
La Farbenlehre apparve in due volumi. Il primo raccoglie la parte “didattica” (“Abbozzo
di una teoria dei colori”, pp. 1-352) – esposizione della cromatologia di Goethe – e la parte
“polemica” (“Smascheramento della teoria di Newton”, pp. 353-650) – analisi e critica dell’ottica
di Newton; il secondo ha per titolo “Materiali per una storia dei colori”: percorre la storia della
ricerca sui colori dalla preistoria alla fine del Settecento (pp. xxiii-xxvii e 1-665) e si chiude
con la “Confessione dell’autore” (pp. 666-692), che narra la storia dell’interesse di Goethe per
i colori. Inizialmente Goethe aveva previsto anche una quarta parte, con integrazioni alle
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Tavole originali tratte da Farbenlehre
di J. W. Goethe.
34 < il nuovo saggiatore
precedenti e con l’esposizione delle ricerche
a lui coeve. Invece si limitò ad aggiungere
una serie di saggi del fisico Thomas Seebeck –
con la descrizione di nuovi esperimenti sugli
effetti dell’illuminazione colorata su pietre,
metalli e piante – sotto il titolo “In luogo della
promessa parte supplementare” (pp. 693-724).
Poiché il testo aveva richiesto già quattro
anni per la stampa, era apparso consigliabile
non attendere il completamento della quarta
parte. Il volume si chiude con l’indice dei nomi
(pp. 725-734) e l’indice analitico (pp. 735-757)
per l’intera opera.
Da un punto di vista terminologico, l’opera
propone trasformazioni radicali rispetto ai
“Contributi all’ottica” di vent’anni prima:
non si parla più di scienza dell’ottica, ma
esclusivamente di scienza dei colori; il termine
newtoniano “raggio” luminoso (Strahl) viene
sostituito da “luce” (Schein) e “immagine”
(Bild). In questo modo Goethe rende evidente
che la sua opera percorre un cammino
profondamente diverso rispetto all’Opticks di
Newton.
Simile invece rimane la procedura di
indagine, volta non alla teorizzazione bensì alla
generalizzazione di risultati sperimentali. Nella
sua prima opera dedicata alla cromatologia,
Goethe non aveva voluto sfidare Newton sul
piano teorico; bensì aveva inteso mostrare
che se si guarda al mondo dei colori senza
pretendere di verificare quanto stabilito
dall’ottica newtoniana, novità e sorprese sono
a portata di mano. Molteplici esperimenti
con il prisma elaborati da Goethe svelavano
fenomeni cromatici curiosi, in particolare
in prossimità dei bordi dei corpi illuminati
dalla luce che aveva attraversato il prisma
stesso. Altrettanto interessanti variazioni
cromatiche si manifestavano quando, pur
senza cambiare la fonte di illuminazione,
lo schermo bianco posto dietro gli oggetti
illuminati veniva sostituito da uno nero. Inoltre
era facile provare che l’apparire dei colori
all’aperto era ben diverso da quello che si
poteva esperire all’interno di un laboratorio.
Goethe sosteneva che da questa molteplicità e
complessità dell’esperienza e degli esperimenti
non si doveva prematuramente ricavare una
teoria; osservazione ed esperimenti erano da
considerarsi come indicazioni per proseguire
nella ricerca, come suggerimenti per dare
attenzione a diversi “modi di rappresentazione”
della realtà. L’aspetto più innovativo di questa
ricerca era che il nero, tradizionalmente
considerato come privo di colore, aveva
un ruolo nella produzione dei colori e che
l’oscurità, tradizionalmente considerato come
assenza di luce, aveva un ruolo nella diffusione
della luce.
I “Contributi all’ottica” invitavano i lettori,
e naturalmente i newtoniani, a mettere in
questione il dogma che i colori fossero luce
“purificata” dalla rifrazione nel prisma e a
concedere che essi invece esprimessero la
mescolanza di luminosità e oscurità. Ma per
quanto stimolante, questo invito poneva
più questioni di quante ne risolvesse. In
particolare, pareva difficile spiegare in che
senso l’oscurità ha a che fare con la luce,
se non in senso puramente negativo. Negli
anni successivi Goethe si rese conto che una
definizione del colore che facesse riferimento
soltanto a ciò che è fuori dall’occhio non
poteva essere esaustiva. Poiché esperimenti
con la medesima fonte luminosa potevano
dare luogo a percezioni di colori differenti, se
ne doveva concludere che i colori non avevano
origine soltanto nell’interazione tra luce e
oggetti ma anche nella visione stessa. Goethe
aveva capito che la percezione dei colori è
anche attività dell’occhio.
L’idea di quelli che nella Farbenlehre saranno
chiamati “colori fisiologici” venne sviluppata
dopo la pubblicazione dei “Contributi”
e indusse Goethe a chiedere consiglio a
uno dei grandi fisiologi dell’epoca, Samuel
Thomas Soemmerring. Negli anni successivi,
la concezione che il colore originasse nella
polarità luce-oscurità non venne meno, e anzi
guidò anche la ricerca nell’ambito dei colori
fisiologici. La nozione di polarità permise di
spiegare come la percezione di un colore in
determinate condizioni determini la visione
del colore complementare o di ombre colorate.
Da ultimo la polarità venne definita come il
«fenomeno originario» (Urphänomen) della
costituzione del colore, a partire dal quale
Goethe costruì la tripartizione fondamentale
dei colori in fisiologici (dove la polarità è
m. segala: la Farbenlehre di goethe
nell’attività dell’occhio), fisici (dove la polarità
è data dalla contrapposizione tra trasparenza
e torbidità del mezzo attraverso cui la luce
passa) e chimici (dove la polarità viene dalla
contrapposizione tra bianco e nero degli
oggetti illuminati). L’analisi e la spiegazione dei
tre tipi di colore occupa i primi tre capitoli della
parte didattica della Farbenlehre.
La scelta di iniziare dai colori fisiologici,
«che appartengono in tutto o in parte al
soggetto e all’occhio» (FL, I, §1; per la versione
italiana cfr. [3]), specifica immediatamente la
novità rispetto alla concezione newtoniana.
Tradizionalmente «considerati inessenziali e
casuali, alla stregua di illusioni e deficienze»,
invece sono manifestazioni delle «necessarie
condizioni del vedere» (FL, I, § 3). Scaturiscono
dalla naturale attività della retina, la quale
«a seconda che su di essa agisca la luce o
l’oscurità, si trova in due differenti condizioni,
l’una interamente opposta all’altra» (FL, I,
§ 5): rilassato e non reattivo nell’oscurità,
in una condizione di tensione estrema se
la luce è abbagliante. La visione dei colori
è possibile solo quando la luce stimola
un’attività conciliante i due opposti: «la
retina, durante ciò che chiamiamo vedere, si
trova contemporaneamente in condizioni
diverse e persino opposte. La chiarezza non
abbagliante svolge la propria azione accanto
alla piena oscurità» (FL, I, § 13). A sostegno
di questa tesi fisiologica Goethe porta gli
esperimenti che mostrano come la visione di
un colore determini la propensione dell’occhio
a «produrre i colori corrispondenti» ( FL, I,
§ 56). L’attività polare della retina, a seconda
di come è stimolata, produce la totalità dei
colori e le loro infinite sfumature; e i colori si
manifestano secondo «leggi della visione» e
dei colori che si possono così descrivere: «nel
violetto richiamato dal giallo sono racchiusi
il rosso e l’azzurro; nell’arancio, al quale
corrisponde l’azzurro, stanno invece il giallo e il
rosso; il verde infine riunisce azzurro e giallo e
richiama il rosso» (FL, I, § 60).
A differenza di Newton, che intendeva i
colori come originari e li indentificava come
raggi luminosi diversamente rifrangibili,
Goethe sostiene che i colori non hanno una
esistenza stabile e definitiva, indipendente
dalle condizioni ambientali. Quando definisce i
colori “fisici”, l’allontanamento dalla prospettiva
newtoniana è palese: essi originano
dall’interazione della luce con mezzi materiali
che «di per sé non hanno alcun colore e
possono essere trasparenti o torbidi o lucidi
oppure, infine, completamente opachi» (FL, I,
§ 136). Mentre nel caso dei colori fisiologici
«era l’occhio specialmente attivo, ed eravamo
in grado di rappresentare i fenomeni di cui
esso era sede soltanto in noi ma non fuori
di noi, qui vengono fatti nascere nell’occhio
attraverso oggetti incolori, […] qui non si
tratta di colori già determinati, ma di colori
che divengono e mutano» (FL, I, § 137). I colori
fisici scaturiscono dalla relazione tra soggetto
e oggetto e si distinguono in: 1) catottrici,
quando la luce «viene riflessa dalla superficie
di un mezzo»; 2) parottici, quando la luce
«sfiora il margine di un mezzo»; 3) diottrici,
quando la luce «attraversa un corpo traslucido
o trasparente» e viene rifratta; 4) epottici,
quando il colore «si presenta in diverse
circostanze sulla superficie incolore dei corpi»
(FL, I, § 140).
Come si può vedere, la fenomenologia
cromatica evocata da Goethe espande
grandemente quella prospettata da Newton,
che di fatto si era concentrata sui colori
diottrici. Goethe non manca di far notare
che anche nell’ambito di questo tipo di
colori Newton ha indebitamente ristretto la
procedura sperimentale a pochissimi casi,
tanto da non notare che non sempre la
rifrazione della luce determina l’insorgere dei
colori (FL, I, § 196). Invece, gli esperimenti che
Goethe descrive mostrano fenomenologie
cromatiche molto più varie e portano alla
conclusione che i colori non sono contenuti
nella luce bianca ma sono invece prodotti
dall’intorbidarsi della luce quando tocca
oggetti o attraversa mezzi diversi dall’aria. Se
per Newton il prisma permetteva di scomporre
la luce bianca nei suoi costituenti originari,
per Goethe il prisma intorbida la luce bianca
e, a seconda delle diverse condizioni, fa
sorgere i diversi colori, in tutte le sfumature
e le tonalità. Quindi i colori non sono sette,
ma sorgono dalla mescolanza di luce e
torbidezza del mezzo. Gli esperimenti con
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fisica e…
Fig. 1 La ruota dei colori dipinta da Goethe nel 1793.
Positivo
Negativo
Giallo
Blu
Azione
Privazione
Luce
Ombra
Chiaro
Scuro
Forza
Debolezza
Caldo
Freddo
Prossimità
Distanza
Repulsione
Attrazione
Affinità acida
Affinità alcalina
Tab. 1 Fondamenti della fenomenologia cromatica secondo Goethe.
il prisma confermano quanto emerso dallo
studio dei colori fisiologici: vi sono tre colori
primari (blu, rosso e giallo) le cui relazioni sono
rappresentate dalla ruota dei colori (fig. 1)
(FL, I, §§ 214-217)1.
Le medesime conclusioni si traggono
dallo studio dei colori chimici, quelli che
si manifestano o si fissano sulle superfici
del corpi e che pertanto sono permanenti
e più stabili dei precedenti, anche in
condizioni ambientali differenti (FL, I, § 486).
Qui la polarità fondamentale è tra bianco
(totale luminosità) e nero (totale assenza
di luce). Giallo e blu sono le più immediate
manifestazioni di colore a seguito della
mescolanza, rispettivamente, di bianco con
pochissimo nero e di nero con pochissimo
bianco (FL, I, § 502). L’intensificazione
degli opposti porta rispettivamente
all’arancione e al violetto (FL, I, § 518) e l’acme
dell’intensificazione porta al rosso (FL, I, § 523).
Quando si combinano direttamente giallo e
blu si ottiene il verde (FL, I, §§ 537-538).
Nei due capitoli successivi, la parte didattica
della Farbenlehre è dedicata a considerazioni
generali sulla natura dei colori e sul rapporto
tra la cromatologia e altre discipline (filosofia,
matematica, tintura, fisica, fisiologia, teoria del
suono). Ampio spazio è anche dedicato alla
nozione di polarità, il cui ruolo a fondamento
della fenomenologia cromatica viene da
Goethe espressa come in tabella 1 (FL, I, § 696).
La combinazione degli opposti non
determina un antagonismo distruttivo bensì
la realizzazione di un fenomeno nuovo, con
caratteri propri, in un bilanciamento più o
meno armonioso (FL, I, §§ 697-698 e 706-707).
Sulla base di questa armonia Goethe procede
con la trattazione dell’azione sensibile, morale
ed estetica dei colori (FL, I, §6).
Questa pur sommaria descrizione della parte
didattica dell’opera rende chiaro perché, dal
punto di vista dei newtoniani, la cromatologia
di Goethe appariva eccessivamente elaborata,
quasi barocca, nella sua attenzione alla
pluralità delle manifestazioni del colore,
ma non abbastanza rigorosa dal punto di
vista della metodologia. La critica veniva
poi resa ancora più severa dal risentimento
1
Le tre diverse combinazioni dei primari danno luogo
ai tre colori secondari (verde, arancione, viola).
36 < il nuovo saggiatore
m. segala: la Farbenlehre di goethe
verso la durezza e l’intransigenza che Goethe espresse nei
confronti dell’ottica newtoniana nella seconda parte della
Farbenlehre, dedicata alla “messa a nudo” della teoria di
Newton e alla “polemica” contro di essa.2 In effetti, le scelte
terminologiche e retoriche di Goethe in quelle trecento
pagine di analisi dell’Opticks non si conformano all’ideale di
prosa scientifica impersonale e argomentativa. Senza contare
che l’insistenza con la quale Goethe contesta la “verità” della
concezione newtoniana, non senza scadere nell’insulto,
stride fortemente con l’invito a considerare la complessità
delle manifestazioni della natura e la pluralità dei modi
di rappresentarle. Goethe aveva ben chiaro che quella di
Newton non era una cromatologia ma una teoria dell’ottica
che solo marginalmente si era occupata di colori: perché,
allora, trattarla come un’antagonista da distruggere, invece
che come un modo di guardare alla natura da un altro punto
di vista e con finalità diverse? Perché usare il guerreggiante
termine “polemica” invece che il più neutro e amichevole
“critica”?
La scelta risaliva ai primi anni dell’interesse di Goethe per
i colori, quando si confrontò con testi e studiosi newtoniani
che si mostravano arroganti e stolidi nel loro rifiuto di
ammettere che al mondo dei colori ci si potesse avvicinare
anche in modo diverso da quello di Newton. In quel periodo
Goethe iniziò a utilizzare metafore di natura religiosa –
ortodossia, chiesa, tradizione canonica, credenza, fede – per
descrivere l’attaccamento dei newtoniani alla teoria dei colori
nell’Opticks; e presto si sentì come un eretico di fronte ai
detentori della verità rivelata. La critica alla concezione del
colore in Newton diventava una polemica contro le pretese di
definitività e completezza di una teoria idolatrata e auspicava
uno sguardo più aperto da parte degli studiosi, fondato
su un ritorno al confronto con i fenomeni. Si trattava di
abbandonare la nozione scolastica di auctoritas e di ritrovare
l’autentico spirito scientifico.
Purtroppo Goethe non riuscì nell’intento. Il sarcasmo nei
confronti dei fisici (Physiker) gli alienò le simpatie di coloro
che avrebbero potuto apprezzare le sfide poste da una
cromatologia non riducibile all’ottica newtoniana. Inoltre,
la pretesa di Goethe di studiare i colori ignorando qualunque
discorso sulla natura della luce e sull’ottica lo poneva al
di fuori della comunità dei fisici. Goethe aveva ragione a
sostenere che la riduzione operata da Newton dei colori a
raggi di luce era impropria e non permetteva una buona
comprensione dei colori. Ma una cromatologia al di fuori
della scienza dell’ottica non poteva riscuotere successo nella
comunità scientifica.
2
Il titolo della parte polemica è “Enthüllung der Theorie Newtons”, dove
il termine Enthüllung esprime il senso del mettere a nudo e mostrare la
pochezza della teoria di Newton.
2 Autobiografia e ricerca sui colori
Il destino della Farbenlehre si giocò nei due anni che
seguirono la sua pubblicazione. I pochi scienziati che
la lessero la giudicarono come l’opera di un dilettante;
e poiché si trattava di Goethe, questo parere si diffuse
rapidamente in tutta Europa. Gli altri lettori la eressero a
vessillo di una scienza non sottomessa alla rigidità del rigore
e dell’impersonalità; un’opera nata dal fiore della cultura
romantica, che mostrava la superiorità delle humanitates
rispetto all’aridità delle scienze naturali.
Non era certo questa l’intenzione di Goethe, il quale
peraltro praticava il rigore nella ricerca scientifica e si era
sempre tenuto lontano dal romanticismo, pur coltivando
amicizie profonde con esponenti del mondo romantico
(Schiller e Schelling, innanzitutto). Tuttavia la Farbenlehre
risaltava come un contributo scientifico atipico. Anche
la presenza della “Confessione dell’autore” al termine del
secondo volume – un testo autobiografico così ricco di
particolari e indicazioni sulle motivazioni e sul percorso che
avevano condotto l’autore al tema dei colori – appariva non
consona.
Goethe invece riteneva che la storia del suo coinvolgimento
nella ricerca sul colore fosse fondamentale. L’inserimento
della “Confessione” al termine della parte storica della
Farbenlehre chiarisce che Goethe si sentiva parte di quella
storia, e avrebbe voluto che anche gli scienziati del suo
tempo intendessero in questo modo il suo contributo alla
cromatica. La “Confessione” non solo esplicita la natura e la
profondità dell’interesse goethiano per la comprensione
del rapporto tra luce e colori; essa permette anche di
meglio comprendere la distanza tra la nozione goethiana di
scienza, e di scienza dei colori in particolare, e quella dei suoi
contemporanei.
La prima tesi esposta da Goethe nella “Confessione” è che
la biografia e le circostanze della vita di uno scienziato sono
un elemento importante per comprendere la sua attività e
interpretare i risultati scientifici. L’inclusione della storia delle
idee e degli aspetti sociologici della ricerca nella storia della
scienza, nel corso degli ultimi decenni, ha mostrato che la
concezione storiografica di Goethe era promettente e apriva
prospettive importanti; ma all’epoca prevaleva l’idea che la
ricerca scientifica dovesse essere “pura”, avulsa da contesti,
contingenze e biografie. Anche per questo gli scienziati che
avvicinarono la Farbenlehre negli anni immediatamente
successivi alla sua pubblicazione la interpretarono come
non ascrivibile, se non addirittura estranea, alla tradizione
scientifica moderna.
Un secondo aspetto che merita attenzione nella
“Confessione” è quello dell’origine dell’interesse di Goethe per
i colori: non la ricerca di una spiegazione scientifica del colore,
bensì la constatazione della mancanza di consapevolezza
nella produzione e nell’uso dei colori da parte dei pittori. Se
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fisica e…
ne rese conto soprattutto durante il viaggio in Italia (1786-88),
durante il quale la pittura ebbe un posto centrale, sia perché
egli stesso vi si dedicò con passione sia perché frequentò
numerosi pittori: «molti dei dipinti erano stati realizzati in mia
presenza, molte delle loro parti erano state attentamente
studiate nella loro posizione e forma, e nel merito di tutto
questo gli artisti e io stesso potevamo dare spiegazione o
perfino offrire consiglio. Quando però si trattava di colorito
tutto sembrava lasciato al caso, a un caso determinato dal
gusto, a un gusto determinato da una certa abitudine, a
un’abitudine determinata da un certo pregiudizio, a un
pregiudizio determinato dalla peculiarità dell’artista […] Gli
artisti agivano in ragione di un’incerta tradizione o di qualche
impulso, cosicché chiaroscuro, colorito, armonia dei colori,
vorticavano confusamente» (FL, II, p. 671-672; per la versione
italiana cfr. [4]).
Quello che Goethe sta dicendo può sembrare curioso:
dopotutto gli artisti riproducono i colori che vedono o li
alterano creando effetti inaspettati; perché dovrebbero
seguire regole “scientifiche”? Il punto di vista di Goethe
appare però in tutta la sua cogenza se riflettiamo non sui
colori nella pittura ma sull’impiego delle note in musica,
regolate dalla dottrina dell’armonia e del contrappunto.
In effetti Goethe stesso nella Farbenlehre dedica un paio di
pagine alla comparazione tra dottrina musicale e teoria dei
colori (FL, I, § 747-750, p. 281-282), e se seguiamo questa
analogia possiamo fin da subito cogliere la profonda
differenza dell’interrogarsi goethiano sui colori rispetto alla
tradizione newtoniana: è la stessa differenza che intercorre
tra la teorizzazione dell’espressione musicale e l’analisi dei
suoni in termini di onde sonore e frequenza di vibrazione
delle molecole dell’aria. Con la prima si stabiliscono le regole
per manipolare i suoni e creare brani musicali; con la seconda
si offre la “spiegazione fisica” dei fenomeni sonori. Se si torna
ai colori, si può dire che Goethe pose la questione della
possibilità di elaborare una dottrina dei colori ad uso degli
artisti, qualcosa che non era derivabile dalla “spiegazione
fisica” dei colori presente nell’Ottica di Newton.
Secondo questa prospettiva, la polemica di Goethe contro
Newton parrebbe fuori luogo, proprio perché si tratterebbe
di teorizzazioni su piani diversi. Eppure la scontro ci fu, anche
perché non sapendo dove e come iniziare una nuova dottrina
del colore ad uso degli artisti, Goethe decise che bisognasse
innanzitutto porre domande non tanto sull’uso dei colori
quanto sulla loro natura: «ero giunto alla conclusione che
per comprendere i colori nella loro evenienza fisica bisogna
muovere dal lato della natura, e che per questa via si può
scoprire qualcosa del loro nesso con l’arte». Per questo
motivo Goethe ritenne doveroso partire dalla concezione
38 < il nuovo saggiatore
newtoniana che «tutti i colori sono contenuti nella luce»,
sebbene tale nozione gli fosse nota solo per via teorica e non
avesse mai assistito o realizzato «gli esperimenti attraverso i
quali doveva venire dimostrata la teoria newtoniana» (FL, II,
p. 674; [4], p. 408).
Fu l’incontro con la letteratura scientifica dell’epoca che lo
indusse a ripetere gli esperimenti newtoniani con il prisma:
«quando cercai di avvicinarmi ai colori dal versante della
fisica, mi capitò di leggere in un qualche compendio il relativo
capitolo ma, trovandovi solo teoria, non riuscivo a cavarne
nulla di utile per i miei scopi, cosicché mi proposi quanto
meno di vedere io stesso i fenomeni» (FL, II, p. 675; [4], p. 408).
In effetti all’epoca i manuali che nel titolo menzionavano
termini come “fisica” o “teoria della natura” offrivano nozioni
semplificate delle conoscenze scientifiche del tempo. Erano
testi a supporto della didattica, ma non erano manuali come
quelli odierni, dedicati alla formazione di uno scienziato.
Spesso le trattazioni erano spurie, persino scorrette, e nel
caso della fisica dei fenomeni luminosi l’assunzione delle
concezioni newtoniane era fondata più sul prestigio del
loro autore che sulla lettura e la comprensione dell’Opticks.
La tesi di fondo era talmente nota che nella descrizione
degli esperimenti con il prisma venivano sottostimate
le condizioni fondamentali sotto le quali gli esperimenti
potevano essere replicati con successo. La mancanza di
rigore nell’esposizione delle procedure sperimentali rendeva
meno convincente il passaggio dall’analisi dei risultati
empirici all’elaborazione dell’interpretazione teorica; di fatto
però i lettori già riconoscevano la validità della concezione
newtoniana (come testimoniato dallo stesso Goethe:
«come tutti anche io ero convinto del fatto che i colori sono
contenuti nella luce» (FL, II, p. 674; [4], p. 408), e quindi una
procedura argomentativa più convincente sarebbe sembrata
pleonastica.
Si prenda ad esempio uno dei manuali più diffusi
dell’epoca, Anfangsgründe der Naturlehre (Fondamenti
della toeria della natura), compendio di Johann Christian
Polycarp Erxleben (1744-1777)[5]3 che Goethe certamente
lesse nella fase di studio precedente la ricerca sui colori e
la cui quinta edizione citò nei Beiträge zur Optik. I paragrafi
centrali del capitolo ottavo (Vom Lichte, Della luce) sono
dedicati all’esperimento newtoniano del prisma (Die Farben
des Prisma, §§ 362-372)(fig. 2), alla spiegazione della
3
L’opera ebbe una seconda edizione (e un’immediata ristampa)
nel 1777, anno in cui l’autore morì. In seguito fu Georg Christoph
Lichtenberg (1742-1799), professore di fisica sperimentale a Gottinga,
a curare le successive edizioni dell’opera: nel 1784 (III), nel 1787 (IV), nel
1791 (V, con una ristampa nel 1793), nel 1794 (VI, con una ristampa nel
medesimo anno e nel 1801).
m. segala: la Farbenlehre di goethe
colorazione dei corpi (Wie die Körper Farben zeigen, §§ 373-382) e
agli strumenti ottici come indispensabili per correggere gli “errori”
e i difetti della visione oculare (Von den optischen Werkzeugen:
das Auge und dessen Fehler, §§ 383-392)4. La descrizione di tre
esperimenti newtoniani (con un prisma, con una lente e un
prisma, con due prismi) e dei loro risultati è abbastanza accurata,
ma non completa: non viene specificato che lo schermo deve
essere posto non troppo vicino al prisma; che, per garantire il
parallelismo dei raggi incidenti, il prisma va inclinato secondo un
certo angolo; che la luce deve passare attraverso un foro molto
piccolo prima di giungere al prisma, perché soltanto una superficie
molto piccola del prisma sia toccata dalla luce incidente. Eseguire
questi esperimenti senza tenere conto di queste condizioni non
porta ai risultati descritti: eppure Erxleben sostiene che questi tre
esperimenti hanno permesso a Newton di stabilire la concezione
che la luce è un composto di «sette luci semplici e omogenee»
e che ciascuna di queste sette luci «ha il suo proprio grado di
rifrangibilità» ([5], V edizione, 1791, §366).
Per Goethe tutto questo è inaccettabile, per due motivi.
Innanzitutto perché è metodologicamente sbagliato usare un
numero così esiguo di esperimenti per trarre conclusioni sulla
natura: «un singolo esperimento o anche una serie di esperimenti
collegati tra loro non provano nulla; di fatto niente è più pericoloso
che voler provare una proposizione immediatamente per mezzo
di esperimenti» [6]. Inoltre perché l’enfasi sugli “errori” della visione
oculare e l’insistenza sull’uso di strumenti per fondare la scienza
dell’ottica condanna la ricerca a un incontro mediato con la natura,
e questo per Goethe significa l’annullamento della persona, il
disconoscimento del ruolo attivo degli occhi nella produzione
dei fenomeni visivi e dei colori, e da ultimo la negazione della
ricerca scientifica stessa. Non si capacitava del fatto che la scienza
avesse tradito l’empiria e amaramente ricordava che all’inizio delle
sue ricerche «ancora nutrivo la follia di credere che tutti coloro
che si occupano di scienze delle natura guardano ai fenomeni»
(FL, II, p. 687-688; [4], p. 415). Anche questa considerazione
epistemologica determinò Goethe nella polemica contro Newton,
anche se in questo caso Newton fu molto più vicino alla posizione
di Goethe che a quella dei newtoniani: sebbene riconoscesse
l’imprecisione dell’osservazione a occhio nudo, non voleva però
che questa fosse bandita dalla ricerca. A differenza degli estensori
dei manuali newtoniani, egli aveva ben chiara la distinzione tra
“errori” e “limiti” della visione, e riteneva che osservazioni ripetute
e procedure sperimentali rigorose potevano produrre risultati
affidabili.
Fig. 2 I diversi risultati della sperimentazione di Goethe con i
prismi paragonati a quello di Newton, nel disegno 4 (Goethe,
“Teoria dei colori”, tavola XIII).
4
La numerazione dei paragrafi restò la medesima nelle sei edizioni dell’opera,
mentre le variazioni e gli ampliamenti cambiarono la paginazione.
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fisica e…
3 Goethe sperimentatore
Il lungo cammino che portò Goethe dai “Contributi
all’ottica” alla “Teoria dei colori” fu sostanzialmente di
carattere sperimentale. All’inizio si trattò di mettere alla
prova manuali e testi scientifici imprecisi e talvolta persino
scorretti nelle descrizioni degli esperimenti di Newton. Non
si può biasimare Goethe, se iniziò a guardare attraverso il
prisma in condizioni lontane da quelle richieste dall’Opticks
di Newton: «mi trovavo in una stanza completamente bianca,
e quando alzai lo sguardo mi attendevo, memore della
teoria di Newton, di vedere la parete bianca colorarsi di tutte
le gradazioni, di vedere la luce che raggiungeva l’occhio
scomposta nelle sue luci colorate. Quale non fu però la mia
meraviglia allorquando la parete che osservavo attraverso il
prisma mi apparve bianca esattamente come prima, mentre
il colore si manifestava in maniera più o meno decisa solo
lì dove vi si opponeva una macchia scura, e soprattutto alla
croce della finestra […] Non ebbi bisogno di molte riflessioni
per accorgermi che era necessario un confine per produrre il
colore, e del tutto istintivamente esclamai ad alta voce che la
dottrina di Newton era falsa» (FL, II, p. 677-78; [4], p. 410).
Goethe definì “aperçu” questa intuizione iniziale che «è
come una malattia che ci abbia infettato e della quale non ci
possiamo liberare finché non l’abbiamo vinta» (FL, II, p. 684;
[4], p. 413). Il vasto programma sperimentale che ne seguì,
sviluppato nel corso di anni e con la realizzazione di decine
di esperimenti, aveva lo scopo di provare quanto le prime
osservazioni gli avevano suggerito e di mostrare i limiti e
gli errori della concezione newtoniana dei colori. Da altre
letture e da conversazioni con alcuni fisici si rese conto che la
fenomenologia del colore non suscitava reale interesse: tutti
erano convinti che il problema stesse nell’eccessiva libertà
degli esperimenti di Goethe. Inoltre gli scienziati con cui parlò
insistevano sul fatto che tutto era comunque spiegabile a
partire dalla teoria fisica della luce bianca come composta
di colori originari. Anni dopo, con una punta di malinconia
scrisse: «non avevo ancora idea della limitatezza della
corporazione scientifica, che era certo in grado di conservare
e tramandare qualcosa, ma non di promuoverla» ( FL, II,
p. 686, [4], p. 414)).
Dal punto di vista di Goethe, la concezione newtoniana dei
colori era sbagliata e aveva ingenerato un atteggiamento,
guidato dal principio di autorità, che impediva di modificare
le nozioni accettate. Le parole e gli argomenti della polemica
nella Farbenlehre suonano molto simili a quelle dei fondatori
della scienza moderna contro la Scolastica e l’incapacità di
guardare al mondo con gli occhi invece che attraverso le
opere dell’autorità di allora, Aristotele. Goethe contestò,
ad esempio, l’idea che i colori fossero esattamente sette:
Newton lo aveva asserito, pur senza escludere che potessero
essere riconosciuti molti colori intermedi, ma la tradizione
40 < il nuovo saggiatore
aveva accolto quel numero come una verità. Invece Goethe
riusciva a elaborare esperimenti in cui i colori erano molto
più numerosi e meno marcate erano le differenze tra loro;
soprattutto riteneva del tutto insufficiente la concezione
newtoniana perché non poneva i problemi pertinenti alla
colorazione dei corpi, del cielo, del cielo intorno al sole
e attorno alla luna, delle ombre colorate, della capacità
della natura di offrire innumerevoli sfumature di colore.
La riduzione dell’infinita varietà delle fenomenologia
cromatica a sette colori fondamentali gli sembrava la
negazione della curiosità e del desiderio di comprensione che
dovrebbe animare lo scienziato. Purtroppo questa posizione
comportava anche l’impossibilità, per Goethe, di spiegare
l’arcobaleno; e questo non fu passato sotto silenzio dai suoi
critici.
Il metodo di Goethe fu di elaborare decine di esperimenti
che variavano indefinitamente il modello sperimentale
newtoniano indicato dai manuali. Poiché anche i risultati
variavano, e non sembrava ci fosse modo di spiegarli con
la nozione di colore come componente semplice della luce
bianca, Goethe si persuase che la teoria newtoniana non
solo non dava ragione della pluralità dei fenomeni, ma
persino rinnegava e nascondeva la vitalità della natura.
Anche dopo che lesse l’Ottica, e verificò le restrizioni poste
da Newton sulla realizzazione degli esperimenti, si rese
conto che su molte procedure lo scienziato inglese aveva
dato indicazioni vaghe o insufficienti; questo lo rafforzò nel
convincimento che la concezione newtoniana dei colori
non fosse empiricamente fondata, che gli esperimenti a
suo sostegno non fossero esaustivi e probanti, e che la
teoria derivata aveva il demerito di mortificare la natura: la
pluralità delle esperienze e la proliferazione dei fenomeni
per nessuna ragione dovevano essere limitati da vincoli sulla
realizzazione di esperimenti. Illuminante a questo proposito
è il riferimento al prisma ad acqua (fig. 3), sul quale aveva
effettuato esperimenti già all’epoca del “Contributi all’ottica”:
«ne riprodussi già allora l’immagine perché […] pensavo di
liberare la natura dalla camera oscura e dai prismi di piccole
dimensioni» (FL, II, p. 687; [4], p. 415).
Forse all’inizio l’approccio di Goethe fu soprattutto guidato
dall’entusiasmo, ma non bisogna dimenticare che in seguito
egli seppe guadagnarsi il sostegno e la collaborazione di uno
sperimentalista di prim’ordine, Thomas Johann Seebeck5.
Questi iniziò a lavorare al progetto di Goethe nel 1806,
5
Critico dell’idea che la conoscenza scientifica dovesse essere
innanzitutto matematizzazione della natura, Seebeck privilegiava
la sperimentazione sull’elaborazione teorica. Professore di fisica a
Jena, condivise l’interesse di Goethe per un approccio alla cromatica
alternativo a quello di Newton e contribuì all’ideazione e alla
realizzazione di molti esperimenti che avrebbero dato corpo alla parte
didattica della Farbenlehre. Sul rapporto tra Goethe e Seebeck, cfr. [7].
m. segala: la Farbenlehre di goethe
pubblicò alcune sue ricerche nell’appendice
della Farbenlehre, e continuò a sperimentare
sui colori fino al 1818, risvegliando l’interesse
di Goethe dopo che questi, scoraggiato
dall’insuccesso dell’opera presso la comunità
scientifica, aveva abbandonato l’impresa. A
partire dal 1812, Seebeck poté mostrare a
Goethe che il modello newtoniano (fig. 4)
stentava a spiegare i risultati degli esperimenti
sull’interazione tra luce polarizzata e materia6.
Gli inaspettati fenomeni cromatici mostrati
da Seebeck, oggi interpretati come effetti
dell’interferenza tra fasci di luce polarizzata,
erano condotti con lenti e specchi riscaldati a
diverse temperature. Anni dopo, la medesima
procedura sperimentale di riscaldamento,
questa volta sui metalli, lo avrebbe portato alla
scoperta per la quale oggi egli è ricordato nella
storia della fisica – l’effetto termoelettrico7;
ma anche le ricerche ottiche nella scia della
Farbenlehre riscossero interesse e successo in
ambito scientifico, tanto che nel 1815 Seebeck
venne premiato dall’Académie des Sciences
di Parigi per i contributi allo sviluppo delle
conoscenze sugli effetti della polarizzazione
della luce.
Fig. 3 Il prisma ad acqua (Goethe, “Teoria dei colori”, tavola XVI).
4 La riflessione di Goethe su scienza e
natura
Goethe non era uno scienziato dilettante. Si
avvicinò allo studio della natura con nozioni
diverse da quelle degli scienziati del suo
tempo, ma non senza la consapevolezza della
preparazione e dell’enorme lavoro richiesto
al ricercatore. Prima di pubblicare le sue
ricerche sui colori, aveva già compiuto studi
di carattere naturalistico. Come ministro
plenipotenziario del Ducato di Weimar, nel
1776 decise di riattivare le miniere di Ilmenau
e la loro frequentazione lo determinò allo
studio della geologia e alla stesura, nel 1784,
6
Il fenomeno della polarizzazione della luce fu
scoperto dal fisico francese Étienne Malus nel 1808,
cfr. [8].
7
La manipolazione sperimentale di corpi riscaldati
nel 1821 lo portò a scoprire che due metalli a differenti
temperature posti in contatto determinano l’insorgere
di potenziale elettrico nei punti di contatto: è questo
l’effetto termoelettrico, chiamato anche effetto
Seebeck, cfr. [9].
Fig. 4 Schematizzazioni degli esperimenti newtoniani nei manuali
settecenteschi (Goethe, “Teoria dei colori”, tavola VII).
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41
fisica e…
di un testo sulla formazione del granito [10].
Sempre nel 1784 pubblicò un breve testo
di anatomia comparata nel quale mostrava
l’esistenza dell’osso intermascellare negli
esseri umani, ancora non riconosciuta dagli
studiosi dell’epoca [11]. Del 1790 è il trattato
di botanica “Metamorfosi delle piante” [12],
nel quale si propose di spiegare la diversità
del mondo vegetale a partire da un’unità
morfologica originaria, «il vero Proteo che
nasconde o rivela se stesso in tutte le forme
vegetali» [13].
Pur nella diversità degli argomenti, queste
ricerche furono animate da intenzioni
e concezioni che Goethe esplicitò in
numerosi testi di carattere metodologico
e filosofico. La tesi di fondo è che la
scienza debba privilegiare lo sguardo, la
percezione, l’empirico nella sua fenomenicità.
Comprendere la natura significa svelare
la verità racchiusa nei fenomeni senza
allontanarsi dai fenomeni stessi. La teoria
e l’astrazione vanno impiegate con
cautela, perché rischiano di spiegare il
mondo perdendolo di vista: «un sistema
naturale è un’espressione contraddittoria.
La natura non ha un sistema, essa ha,
essa è, vita e successione che parte da un
centro sconosciuto e va verso un confine
inconoscibile. Perciò la contemplazione della
natura è senza fine» (GA, vol. 9, p. 295; per la
versione italiana cfr. [14]).
Non c’è bisogno di teorizzare, sostiene
Goethe, basta guardare con attenzione
il «fenomeno empirico, che ogni uomo
percepisce nella natura», elevarlo a «fenomeno
scientifico» per mezzo di molteplici
esperimenti in circostanze diverse e sviscerare
il «fenomeno puro», che permette una visione
completa e una comprensione che supera
quella che deriva dalla concatenazione
causale. Il fenomeno puro «si presenta ora da
ultimo come risultato di tutte le esperienze e
gli esperimenti. Non può mai essere isolato,
ma si mostra sempre in una serie continua di
fenomeni. Per rappresentarlo lo spirito umano
determina ciò che è incerto, esclude ciò che è
casuale, separa ciò che è impuro, sviluppa ciò
che è intricato, anzi scopre ciò che non è noto.
Se l’uomo sapesse appagarsi si troverebbe qui
42 < il nuovo saggiatore
forse il termine ultimo delle nostre forze. Infatti
qui non si ricercano cause, ma condizioni
sotto cui i fenomeni appaiono; viene intuita
e assunta la loro successione conseguente, il
loro eterno ritornare in migliaia di circostanze
differenti, la loro uniformità e mutevolezza,
riconosciuta la loro determinatezza a sua volta
rideterminata dallo spirito umano» (ref. [14],
pp. 50, 51).
In queste parole, redatte nel 1798 in un
testo preparatorio della Farbenlehre, si coglie
il senso della ricerca non di meccanismi ma
di un archetipo che, modificato infinitamente
in forme sempre diverse, permetta di
comprendere la natura nella sua unità
e pienezza, varietà e concretezza, senza
astrazioni. Tale archetipo si presenta come
Urpflanze (pianta originaria) nella “Metamorfosi
delle piante” e come principio di aggregazione
e armonizzazione delle parti anatomiche
nell’animale (il principio che permise a Goethe
di vedere l’osso intermascellare laddove altri
anatomisti non avevano saputo individuarlo).
Nella Farbenlehre, l’archetipo è chiamato
Urphänomen (fenomeno originario) e viene
identificato nella contrapposizione tra luce e
oscurità, trasparenza e torbidezza, attività e
passività dell’occhio.
Goethe nei suoi contributi scientifici non
aspira a elaborare teorie derivate dai fenomeni
tramite l’osservazione o l’esperimento, bensì
esibisce un fenomeno ideale; prospetta una
unità di fenomeno e idea che illumina la
varietà e la molteplicità del mondo naturale.
Una teoria scientifica è descrittiva ed
esplicativa, mette in luce rapporti nascosti,
permette di fare previsioni; ma non è
produttiva della realtà che spiega: prima di
tutto è un prodotto delle facoltà intellettive
umane. Goethe non vuole una scienza che
replichi la natura nel concetto, bensì una
scienza che accolga ed esibisca la potenza
creatrice della natura: fenomeno e idea,
appunto, concretezza e idealità. «La scienza è
propriamente il privilegio dell’uomo»: essa gli
consente di cogliere il «grande concetto che
il tutto è solo un Uno armonico», senza per
questo illuderlo di poter «abbracciare l’intera
natura» con un «sentimento oscuro», in un
«comodo misticismo» immaginoso nel quale
m. segala: la Farbenlehre di goethe
«si accostano o si collegano cose infinitamente
lontane»; d’altro canto non si dà scienza
quando si isola «con un’incomprensione
frammentante» ciò che è unità, separando
«fenomeni segretamente affini, ponendo alla
base di ciascuno una legge specifica da cui
dovrebbero essere spiegati»8.
Del 1792 è un saggio, centrale per
comprendere l’epistemologia di Goethe, dal
titolo emblematico “L’esperimento come
mediatore tra soggetto e oggetto”. La sua
lettura chiarisce che la metodologia scientifica
di Goethe non è distante da quella degli
scienziati suoi contemporanei: l’osservazione
e la prova sperimentale sono la vera fonte
del conoscere, non le ipotesi o le aspettative
della persona; il rigore argomentativo è
fondamentale, e per questo la matematica
richiede di essere impiegata.
Quello che appare diverso, nella concezione
di Goethe, è la vastità dello sguardo; ogni
fenomeno è connesso a miriadi di altri
fenomeni, e teoria e esperimento non possono
ritagliare un pezzo di realtà e renderla
indifferente al resto: «l’esperienza può allargarsi
all’infinito, la teoria non può allo stesso modo
purificarsi e diventare perfetta. A quella
l’universo è aperto in tutte le sue direzioni,
questa rimane rinchiusa entro il confine delle
capacità umane» (GA, vol. 9, pp., 504-676;
[14], p. 24). Ecco perché ogni esperimento
deve essere replicato introducendo variazioni,
coinvolgendo altri aspetti dell’esperienza,
perseguendo generalizzazioni sempre più
ampie, e soprattutto cercando di elaborare
più esperimenti correlati tra loro: «per quanto
prezioso possa essere considerato un singolo
esperimento, esso nondimeno riceve il suo
valore solo attraverso l’associazione e la
connessione con altri». Questa concezione
riecheggia in un brano al termine della
Farbenlehre: «dopo che avevo cercato di
guardare in tutte le direzioni del mondo dei
fenomeni e dopo aver organizzato molti
esperimenti diversi, ritenni di aver ottenuto un
primo vero successo allorquando fui in grado
8
Questi brani sono tratti dalla recensione redatta nel
1819 (pubblicata nel 1824) al libro di Jan Evangelista
Purkinje, Ueber das Sehen in subjektiver Hinsicht: cfr. [15].
di conoscere la legge delle manifestazioni
fisiologiche, l’importanza delle manifestazioni
ottenute attraverso i mezzi torbidi, e infine la
versatile costanza dell’azione e della reazione
chimica. Avevo dinnanzi a me la suddivisione
alla quale io, in ragione della sua affidabilità,
rimasi sempre fedele. Senza un metodo non
è però possibile né separare né connettere le
esperienze che si compiono. Mi capitò così di
trovarmi dinnanzi a una quantità di diverse
spiegazioni teoriche, avanzando tra errori
ipotetici e unilateralità varie. Non mancai
tuttavia di notare che ovunque si mostrava
un’opposizione, ovvero quella polarità di
cui ho già detto. Ciò era importante perché
attraverso questo principio mi sentivo in grado
di collegare la teoria dei colori a questa o quella
disciplina affine ovvero più remota» (FL, II,
p. 688-689; [4], pp. 415-416).
Il senso dell’avvertimento di Goethe è che
non bisogna confondere le proposizioni sulla
natura (e dunque le teorie) con gli esperimenti
sulla natura. Le prime presentano un modo
particolare di concepire la natura, i secondi
sono parte della natura stessa, che si estende
in un oceano smisurato di esperienze.
Gli esperimenti, se bene sviluppati, possono
dare certezze sulla natura, ma tali certezze
devono poi essere raccolte e amalgamate, per
riprodurre l’unità e la completezza della natura.
A questo fine, non è preposta la teoria, ma
l’esposizione rigorosa; non buoni argomenti, ma
buoni ragionamenti – senza salti, senza vuoti,
senza forzature. La precisione e il ragionamento
ben costruito sono offerti dalla matematica:
per orientarsi e mostrare le certezze raccolte
con l’osservazione e l’esperimento bisogna
attenersi al rigore della dimostrazione
matematica, anche in quelle discipline dove
il calcolo e le formule non sono possibili. Si
tratterà allora di una matematica senza calcolo,
garante della validità dell’esposizione dei
contenuti della ricerca sperimentale. «Infatti
è il metodo matematico quello che a causa
della sua circospezione e purezza rivela subito
qualsiasi salto nell’asserzione, e le sue prove
sono propriamente soltanto esposizioni
circostanziate che quanto vien posto in
connessione sussisteva già nelle sue parti
semplici e nella sua intera sequenza, ed è stato
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esaminato in tutta la sua estensione e trovato giusto sotto
ogni condizione e inconfutabile. E così le sue dimostrazioni
sono sempre più esposizione, ricapitolazioni, che argomenti»
(GA, vol. 9, p. 853).
La concezione della scienza prospettata da Goethe va
in direzione diversa da quella della tradizione galileiana e
newtoniana perché esige che proposizioni e teorie sulla
natura non siano il contraltare della natura. Esse non devono
arrogarsi la capacità di ordinare e sistematizzare l’esperienza,
perché l’esperienza è vasta, variabile, polimorfica, e non può
essere replicata dal pensiero. L’unico modo per fare scienza,
dunque, è realizzare il processo teorico in armonia con la
natura, dentro la fenomenicità, con l’intento di comprendere
la totalità, perché solo attraverso il tutto è possibile cogliere
il senso di ogni singolo ambito fenomenico. La scienza
deve diventare parte della natura, e come tale si realizza
essa stessa in un processo infinito attraverso il quale idee
Bibliografia
[1] J.W. Goethe, “Zur Farbenlehre” (Cotta, Tübingen) 1810 (in seguito
citata come FL, I, prima parte e FL, II, seconda parte).
[2] J.W. Goethe, “Beyträge zur Optik” (Industrie-Comptoir, Weimar)
1791-92.
[3] J.W. Goethe, “La teoria dei colori” (Il Saggiatore, Milano) 2008.
[4] J. W. Goethe, “La storia dei colori” (Luni Editrice, Milano-Trento)
1997, pp. 406-407.
[5] J. C. P. Erxleben, “Anfangsgründe der Naturlehre” (Dieterich,
Göttinge) 1772.
[6] J. W. Goethe, Das Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt, in
“Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche“, vol. 9, a cura
di Paul Stöcklein (Artemis , Zürich) 1949, p. 849; in seguito citato
come GA).
[7]K. Nielsen, “Another kind of light: The work of T.J. Seebeck and his
collaboration with Goethe”, Hist. Studies Phys. Biol. Sci., 20 (1989)
107; 21 (1991) 317.
scientifiche si collegano alla natura e diventano parte del
mondo fenomenico. L’idea, allora, è quella porzione di realtà
che non varia nel vorticare dell’esperienza e che esprime
rapporti costanti. Per questo essa ci guida, semplifica la
nostra comprensione e garantisce la definizione di un sapere
comunicabile; ma sempre e soltanto nella misura in cui è non
è un’astrazione ma è intimamente legata alla fenomenicità.
Perché soltanto nella fenomenicità si può trovare la verità.
Goethe è un empirista, forse il più radicale, perché
nell’esperienza e con l’esperienza vuole dare vita e sostanza
al sapere e alla sua dimensione ideale e concettuale. Come
proclama Mefistofele nel Faust (vv. 2038-39):
Grau, theurer Freund, ist alle Theorie,
Und grün des Lebens goldner Baum
(Grigia, caro amico, è ogni teoria,
E verde l’albero d’oro della vita).
[8] E. Malus, “Sur une propriété de la lumière réfléchie par les
corps diaphanes”, Nouveau Bulletin des Sciences, par la Société
Philomatique de Paris, 16, (1809) 266; E. Malus, “Sur une propriété de
la lumière réfléchie”, Mémoires de Physique et de Chimie, de la Société
d’Arcueil, 2 (1809) 143.
[9] T. J. Seebeck, “Ueber den Magnetismus der galvanischen Kette”
(Berlin) 1822.
[10] J. W. Goethe, “Ueber den Granit”, 1784; pubblicato postumo nel
1878.
[11] J. W. Goethe “Versuch aus der vergleichenden Knochenlehre daß
der Zwischenknochen der oberen Kinnlade dem Menschen mit den
übrigen Thieren gemein sey” (Jena) 1784.
[12] J. W. Goethe, “Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären”
(Gotha, Ettinger) 1790.
[13] J. W. Goethe, “Viaggio in Italia”, Napoli 17 maggio 1787; tr. it.
E. Castellani (Mondadori, Milano) 1993.
[14] J. W. Goethe, “Teoria della natura” (Boringhieri, Torino) 1958, p. 111.
[15] J. W. Goethe, “Goethes Sämmtliche Werke, vol 40
(Cotta,Tübingen)1840, p. 406 (tr. it. [14], p. 24).
Marco Segala
Marco Segala insegna storia della filosofia all’Università dell’Aquila e svolge attività
di ricerca al Centre Alexandre Koyré del CNRS, a Parigi. Si è laureato in filosofia alla
Scuola Normale Superiore di Pisa e nel 1992 ha conseguito il dottorato in filosofia
all’Università di Firenze. È stato borsista Humboldt in Germania e Marie Curie in
Francia. Si occupa di storia della filosofia e delle scienze tra Settecento e Novecento,
con particolare attenzione ai rapporti tra filosofia e scienze nell’età goethiana. Per un
curriculum dettagliato, cfr. http://koyre.ehess.fr/index.php?414
44 < il nuovo saggiatore