fisica e - Società Italiana di Fisica
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fisica e … La Farbenlehre di Goethe Marco Segala Università dell’Aquila, L’Aquila, Italia La Farbenlehre “Teoria dei colori” di Johann Wolfgang Goethe è un’opera difficile da collocare e da valutare: se Goethe non l’avesse scritta, la sua fama non ne sarebbe diminuita; e se non l’avesse scritta un autore tanto eminente, forse oggi di essa si parlerebbe molto meno. La sua principale tesi – che i colori sono fenomeni derivati dalla miscelazione di luce bianca e oscurità – si oppone alla concezione newtoniana secondo la quale i colori sono originari e il bianco è derivato, e per questo viene semplicisticamente considerata “sbagliata”. Tuttavia, proprio perché si tratta di un’opera di Goethe e poiché la natura del colore è qualcosa di complesso, i giudizi semplicistici vanno evitati. Esperimenti della metà del Novecento condotti da diversi studiosi (tra i quali Edwin Land, l’inventore dell’apparecchio fotografico Polaroid) hanno mostrato che due raggi monocromatici, entrambi gialli ma con sfumature diverse, possono dar luogo all’intera gamma dei colori, se fatti interagire con superfici bianche e nere in certe condizioni di luminosità. Goethe non ha “sbagliato”. Piuttosto bisogna tenere conto che scrisse un trattato di cromatologia, non di ottica – nonostante lo abbia presentato come alternativo all’Opticks di Newton. I suoi risultati non sono dunque direttamente comparabili con quelli di un’opera dedicata principalmente all’ottica e solo marginalmente ai colori. 1 La cromatologia di Goethe @ Städel Museum - U. Edelmann/Artothek Quando nel 1810 diede alle stampe la Farbenlehre [1], Goethe aveva 61 anni ed era un monumento della cultura tedesca ed europea. La pubblicazione del Faust nel 1808 mostrava che l’età non aveva limitato la vivacità del suo genio creativo e testimoniava la tenacia dell’uomo nel portare a compimento un progetto iniziato più di trent’anni prima. La “Teoria dei colori” era, in ambito scientifico, l’analogo del Faust: il completamento di un’impresa iniziata vent’anni prima, con la pubblicazione dei Beyträge zur Optik (“Contributi all’ottica”) [2], e perseguita con veemenza, convinzione e fervore. La Farbenlehre apparve in due volumi. Il primo raccoglie la parte “didattica” (“Abbozzo di una teoria dei colori”, pp. 1-352) – esposizione della cromatologia di Goethe – e la parte “polemica” (“Smascheramento della teoria di Newton”, pp. 353-650) – analisi e critica dell’ottica di Newton; il secondo ha per titolo “Materiali per una storia dei colori”: percorre la storia della ricerca sui colori dalla preistoria alla fine del Settecento (pp. xxiii-xxvii e 1-665) e si chiude con la “Confessione dell’autore” (pp. 666-692), che narra la storia dell’interesse di Goethe per i colori. Inizialmente Goethe aveva previsto anche una quarta parte, con integrazioni alle vol31 / no5-6 / anno2015 > 33 fisica e… Tavole originali tratte da Farbenlehre di J. W. Goethe. 34 < il nuovo saggiatore precedenti e con l’esposizione delle ricerche a lui coeve. Invece si limitò ad aggiungere una serie di saggi del fisico Thomas Seebeck – con la descrizione di nuovi esperimenti sugli effetti dell’illuminazione colorata su pietre, metalli e piante – sotto il titolo “In luogo della promessa parte supplementare” (pp. 693-724). Poiché il testo aveva richiesto già quattro anni per la stampa, era apparso consigliabile non attendere il completamento della quarta parte. Il volume si chiude con l’indice dei nomi (pp. 725-734) e l’indice analitico (pp. 735-757) per l’intera opera. Da un punto di vista terminologico, l’opera propone trasformazioni radicali rispetto ai “Contributi all’ottica” di vent’anni prima: non si parla più di scienza dell’ottica, ma esclusivamente di scienza dei colori; il termine newtoniano “raggio” luminoso (Strahl) viene sostituito da “luce” (Schein) e “immagine” (Bild). In questo modo Goethe rende evidente che la sua opera percorre un cammino profondamente diverso rispetto all’Opticks di Newton. Simile invece rimane la procedura di indagine, volta non alla teorizzazione bensì alla generalizzazione di risultati sperimentali. Nella sua prima opera dedicata alla cromatologia, Goethe non aveva voluto sfidare Newton sul piano teorico; bensì aveva inteso mostrare che se si guarda al mondo dei colori senza pretendere di verificare quanto stabilito dall’ottica newtoniana, novità e sorprese sono a portata di mano. Molteplici esperimenti con il prisma elaborati da Goethe svelavano fenomeni cromatici curiosi, in particolare in prossimità dei bordi dei corpi illuminati dalla luce che aveva attraversato il prisma stesso. Altrettanto interessanti variazioni cromatiche si manifestavano quando, pur senza cambiare la fonte di illuminazione, lo schermo bianco posto dietro gli oggetti illuminati veniva sostituito da uno nero. Inoltre era facile provare che l’apparire dei colori all’aperto era ben diverso da quello che si poteva esperire all’interno di un laboratorio. Goethe sosteneva che da questa molteplicità e complessità dell’esperienza e degli esperimenti non si doveva prematuramente ricavare una teoria; osservazione ed esperimenti erano da considerarsi come indicazioni per proseguire nella ricerca, come suggerimenti per dare attenzione a diversi “modi di rappresentazione” della realtà. L’aspetto più innovativo di questa ricerca era che il nero, tradizionalmente considerato come privo di colore, aveva un ruolo nella produzione dei colori e che l’oscurità, tradizionalmente considerato come assenza di luce, aveva un ruolo nella diffusione della luce. I “Contributi all’ottica” invitavano i lettori, e naturalmente i newtoniani, a mettere in questione il dogma che i colori fossero luce “purificata” dalla rifrazione nel prisma e a concedere che essi invece esprimessero la mescolanza di luminosità e oscurità. Ma per quanto stimolante, questo invito poneva più questioni di quante ne risolvesse. In particolare, pareva difficile spiegare in che senso l’oscurità ha a che fare con la luce, se non in senso puramente negativo. Negli anni successivi Goethe si rese conto che una definizione del colore che facesse riferimento soltanto a ciò che è fuori dall’occhio non poteva essere esaustiva. Poiché esperimenti con la medesima fonte luminosa potevano dare luogo a percezioni di colori differenti, se ne doveva concludere che i colori non avevano origine soltanto nell’interazione tra luce e oggetti ma anche nella visione stessa. Goethe aveva capito che la percezione dei colori è anche attività dell’occhio. L’idea di quelli che nella Farbenlehre saranno chiamati “colori fisiologici” venne sviluppata dopo la pubblicazione dei “Contributi” e indusse Goethe a chiedere consiglio a uno dei grandi fisiologi dell’epoca, Samuel Thomas Soemmerring. Negli anni successivi, la concezione che il colore originasse nella polarità luce-oscurità non venne meno, e anzi guidò anche la ricerca nell’ambito dei colori fisiologici. La nozione di polarità permise di spiegare come la percezione di un colore in determinate condizioni determini la visione del colore complementare o di ombre colorate. Da ultimo la polarità venne definita come il «fenomeno originario» (Urphänomen) della costituzione del colore, a partire dal quale Goethe costruì la tripartizione fondamentale dei colori in fisiologici (dove la polarità è m. segala: la Farbenlehre di goethe nell’attività dell’occhio), fisici (dove la polarità è data dalla contrapposizione tra trasparenza e torbidità del mezzo attraverso cui la luce passa) e chimici (dove la polarità viene dalla contrapposizione tra bianco e nero degli oggetti illuminati). L’analisi e la spiegazione dei tre tipi di colore occupa i primi tre capitoli della parte didattica della Farbenlehre. La scelta di iniziare dai colori fisiologici, «che appartengono in tutto o in parte al soggetto e all’occhio» (FL, I, §1; per la versione italiana cfr. [3]), specifica immediatamente la novità rispetto alla concezione newtoniana. Tradizionalmente «considerati inessenziali e casuali, alla stregua di illusioni e deficienze», invece sono manifestazioni delle «necessarie condizioni del vedere» (FL, I, § 3). Scaturiscono dalla naturale attività della retina, la quale «a seconda che su di essa agisca la luce o l’oscurità, si trova in due differenti condizioni, l’una interamente opposta all’altra» (FL, I, § 5): rilassato e non reattivo nell’oscurità, in una condizione di tensione estrema se la luce è abbagliante. La visione dei colori è possibile solo quando la luce stimola un’attività conciliante i due opposti: «la retina, durante ciò che chiamiamo vedere, si trova contemporaneamente in condizioni diverse e persino opposte. La chiarezza non abbagliante svolge la propria azione accanto alla piena oscurità» (FL, I, § 13). A sostegno di questa tesi fisiologica Goethe porta gli esperimenti che mostrano come la visione di un colore determini la propensione dell’occhio a «produrre i colori corrispondenti» ( FL, I, § 56). L’attività polare della retina, a seconda di come è stimolata, produce la totalità dei colori e le loro infinite sfumature; e i colori si manifestano secondo «leggi della visione» e dei colori che si possono così descrivere: «nel violetto richiamato dal giallo sono racchiusi il rosso e l’azzurro; nell’arancio, al quale corrisponde l’azzurro, stanno invece il giallo e il rosso; il verde infine riunisce azzurro e giallo e richiama il rosso» (FL, I, § 60). A differenza di Newton, che intendeva i colori come originari e li indentificava come raggi luminosi diversamente rifrangibili, Goethe sostiene che i colori non hanno una esistenza stabile e definitiva, indipendente dalle condizioni ambientali. Quando definisce i colori “fisici”, l’allontanamento dalla prospettiva newtoniana è palese: essi originano dall’interazione della luce con mezzi materiali che «di per sé non hanno alcun colore e possono essere trasparenti o torbidi o lucidi oppure, infine, completamente opachi» (FL, I, § 136). Mentre nel caso dei colori fisiologici «era l’occhio specialmente attivo, ed eravamo in grado di rappresentare i fenomeni di cui esso era sede soltanto in noi ma non fuori di noi, qui vengono fatti nascere nell’occhio attraverso oggetti incolori, […] qui non si tratta di colori già determinati, ma di colori che divengono e mutano» (FL, I, § 137). I colori fisici scaturiscono dalla relazione tra soggetto e oggetto e si distinguono in: 1) catottrici, quando la luce «viene riflessa dalla superficie di un mezzo»; 2) parottici, quando la luce «sfiora il margine di un mezzo»; 3) diottrici, quando la luce «attraversa un corpo traslucido o trasparente» e viene rifratta; 4) epottici, quando il colore «si presenta in diverse circostanze sulla superficie incolore dei corpi» (FL, I, § 140). Come si può vedere, la fenomenologia cromatica evocata da Goethe espande grandemente quella prospettata da Newton, che di fatto si era concentrata sui colori diottrici. Goethe non manca di far notare che anche nell’ambito di questo tipo di colori Newton ha indebitamente ristretto la procedura sperimentale a pochissimi casi, tanto da non notare che non sempre la rifrazione della luce determina l’insorgere dei colori (FL, I, § 196). Invece, gli esperimenti che Goethe descrive mostrano fenomenologie cromatiche molto più varie e portano alla conclusione che i colori non sono contenuti nella luce bianca ma sono invece prodotti dall’intorbidarsi della luce quando tocca oggetti o attraversa mezzi diversi dall’aria. Se per Newton il prisma permetteva di scomporre la luce bianca nei suoi costituenti originari, per Goethe il prisma intorbida la luce bianca e, a seconda delle diverse condizioni, fa sorgere i diversi colori, in tutte le sfumature e le tonalità. Quindi i colori non sono sette, ma sorgono dalla mescolanza di luce e torbidezza del mezzo. Gli esperimenti con vol31 / no5-6 / anno2015 > 35 fisica e… Fig. 1 La ruota dei colori dipinta da Goethe nel 1793. Positivo Negativo Giallo Blu Azione Privazione Luce Ombra Chiaro Scuro Forza Debolezza Caldo Freddo Prossimità Distanza Repulsione Attrazione Affinità acida Affinità alcalina Tab. 1 Fondamenti della fenomenologia cromatica secondo Goethe. il prisma confermano quanto emerso dallo studio dei colori fisiologici: vi sono tre colori primari (blu, rosso e giallo) le cui relazioni sono rappresentate dalla ruota dei colori (fig. 1) (FL, I, §§ 214-217)1. Le medesime conclusioni si traggono dallo studio dei colori chimici, quelli che si manifestano o si fissano sulle superfici del corpi e che pertanto sono permanenti e più stabili dei precedenti, anche in condizioni ambientali differenti (FL, I, § 486). Qui la polarità fondamentale è tra bianco (totale luminosità) e nero (totale assenza di luce). Giallo e blu sono le più immediate manifestazioni di colore a seguito della mescolanza, rispettivamente, di bianco con pochissimo nero e di nero con pochissimo bianco (FL, I, § 502). L’intensificazione degli opposti porta rispettivamente all’arancione e al violetto (FL, I, § 518) e l’acme dell’intensificazione porta al rosso (FL, I, § 523). Quando si combinano direttamente giallo e blu si ottiene il verde (FL, I, §§ 537-538). Nei due capitoli successivi, la parte didattica della Farbenlehre è dedicata a considerazioni generali sulla natura dei colori e sul rapporto tra la cromatologia e altre discipline (filosofia, matematica, tintura, fisica, fisiologia, teoria del suono). Ampio spazio è anche dedicato alla nozione di polarità, il cui ruolo a fondamento della fenomenologia cromatica viene da Goethe espressa come in tabella 1 (FL, I, § 696). La combinazione degli opposti non determina un antagonismo distruttivo bensì la realizzazione di un fenomeno nuovo, con caratteri propri, in un bilanciamento più o meno armonioso (FL, I, §§ 697-698 e 706-707). Sulla base di questa armonia Goethe procede con la trattazione dell’azione sensibile, morale ed estetica dei colori (FL, I, §6). Questa pur sommaria descrizione della parte didattica dell’opera rende chiaro perché, dal punto di vista dei newtoniani, la cromatologia di Goethe appariva eccessivamente elaborata, quasi barocca, nella sua attenzione alla pluralità delle manifestazioni del colore, ma non abbastanza rigorosa dal punto di vista della metodologia. La critica veniva poi resa ancora più severa dal risentimento 1 Le tre diverse combinazioni dei primari danno luogo ai tre colori secondari (verde, arancione, viola). 36 < il nuovo saggiatore m. segala: la Farbenlehre di goethe verso la durezza e l’intransigenza che Goethe espresse nei confronti dell’ottica newtoniana nella seconda parte della Farbenlehre, dedicata alla “messa a nudo” della teoria di Newton e alla “polemica” contro di essa.2 In effetti, le scelte terminologiche e retoriche di Goethe in quelle trecento pagine di analisi dell’Opticks non si conformano all’ideale di prosa scientifica impersonale e argomentativa. Senza contare che l’insistenza con la quale Goethe contesta la “verità” della concezione newtoniana, non senza scadere nell’insulto, stride fortemente con l’invito a considerare la complessità delle manifestazioni della natura e la pluralità dei modi di rappresentarle. Goethe aveva ben chiaro che quella di Newton non era una cromatologia ma una teoria dell’ottica che solo marginalmente si era occupata di colori: perché, allora, trattarla come un’antagonista da distruggere, invece che come un modo di guardare alla natura da un altro punto di vista e con finalità diverse? Perché usare il guerreggiante termine “polemica” invece che il più neutro e amichevole “critica”? La scelta risaliva ai primi anni dell’interesse di Goethe per i colori, quando si confrontò con testi e studiosi newtoniani che si mostravano arroganti e stolidi nel loro rifiuto di ammettere che al mondo dei colori ci si potesse avvicinare anche in modo diverso da quello di Newton. In quel periodo Goethe iniziò a utilizzare metafore di natura religiosa – ortodossia, chiesa, tradizione canonica, credenza, fede – per descrivere l’attaccamento dei newtoniani alla teoria dei colori nell’Opticks; e presto si sentì come un eretico di fronte ai detentori della verità rivelata. La critica alla concezione del colore in Newton diventava una polemica contro le pretese di definitività e completezza di una teoria idolatrata e auspicava uno sguardo più aperto da parte degli studiosi, fondato su un ritorno al confronto con i fenomeni. Si trattava di abbandonare la nozione scolastica di auctoritas e di ritrovare l’autentico spirito scientifico. Purtroppo Goethe non riuscì nell’intento. Il sarcasmo nei confronti dei fisici (Physiker) gli alienò le simpatie di coloro che avrebbero potuto apprezzare le sfide poste da una cromatologia non riducibile all’ottica newtoniana. Inoltre, la pretesa di Goethe di studiare i colori ignorando qualunque discorso sulla natura della luce e sull’ottica lo poneva al di fuori della comunità dei fisici. Goethe aveva ragione a sostenere che la riduzione operata da Newton dei colori a raggi di luce era impropria e non permetteva una buona comprensione dei colori. Ma una cromatologia al di fuori della scienza dell’ottica non poteva riscuotere successo nella comunità scientifica. 2 Il titolo della parte polemica è “Enthüllung der Theorie Newtons”, dove il termine Enthüllung esprime il senso del mettere a nudo e mostrare la pochezza della teoria di Newton. 2 Autobiografia e ricerca sui colori Il destino della Farbenlehre si giocò nei due anni che seguirono la sua pubblicazione. I pochi scienziati che la lessero la giudicarono come l’opera di un dilettante; e poiché si trattava di Goethe, questo parere si diffuse rapidamente in tutta Europa. Gli altri lettori la eressero a vessillo di una scienza non sottomessa alla rigidità del rigore e dell’impersonalità; un’opera nata dal fiore della cultura romantica, che mostrava la superiorità delle humanitates rispetto all’aridità delle scienze naturali. Non era certo questa l’intenzione di Goethe, il quale peraltro praticava il rigore nella ricerca scientifica e si era sempre tenuto lontano dal romanticismo, pur coltivando amicizie profonde con esponenti del mondo romantico (Schiller e Schelling, innanzitutto). Tuttavia la Farbenlehre risaltava come un contributo scientifico atipico. Anche la presenza della “Confessione dell’autore” al termine del secondo volume – un testo autobiografico così ricco di particolari e indicazioni sulle motivazioni e sul percorso che avevano condotto l’autore al tema dei colori – appariva non consona. Goethe invece riteneva che la storia del suo coinvolgimento nella ricerca sul colore fosse fondamentale. L’inserimento della “Confessione” al termine della parte storica della Farbenlehre chiarisce che Goethe si sentiva parte di quella storia, e avrebbe voluto che anche gli scienziati del suo tempo intendessero in questo modo il suo contributo alla cromatica. La “Confessione” non solo esplicita la natura e la profondità dell’interesse goethiano per la comprensione del rapporto tra luce e colori; essa permette anche di meglio comprendere la distanza tra la nozione goethiana di scienza, e di scienza dei colori in particolare, e quella dei suoi contemporanei. La prima tesi esposta da Goethe nella “Confessione” è che la biografia e le circostanze della vita di uno scienziato sono un elemento importante per comprendere la sua attività e interpretare i risultati scientifici. L’inclusione della storia delle idee e degli aspetti sociologici della ricerca nella storia della scienza, nel corso degli ultimi decenni, ha mostrato che la concezione storiografica di Goethe era promettente e apriva prospettive importanti; ma all’epoca prevaleva l’idea che la ricerca scientifica dovesse essere “pura”, avulsa da contesti, contingenze e biografie. Anche per questo gli scienziati che avvicinarono la Farbenlehre negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione la interpretarono come non ascrivibile, se non addirittura estranea, alla tradizione scientifica moderna. Un secondo aspetto che merita attenzione nella “Confessione” è quello dell’origine dell’interesse di Goethe per i colori: non la ricerca di una spiegazione scientifica del colore, bensì la constatazione della mancanza di consapevolezza nella produzione e nell’uso dei colori da parte dei pittori. Se vol31 / no5-6 / anno2015 > 37 fisica e… ne rese conto soprattutto durante il viaggio in Italia (1786-88), durante il quale la pittura ebbe un posto centrale, sia perché egli stesso vi si dedicò con passione sia perché frequentò numerosi pittori: «molti dei dipinti erano stati realizzati in mia presenza, molte delle loro parti erano state attentamente studiate nella loro posizione e forma, e nel merito di tutto questo gli artisti e io stesso potevamo dare spiegazione o perfino offrire consiglio. Quando però si trattava di colorito tutto sembrava lasciato al caso, a un caso determinato dal gusto, a un gusto determinato da una certa abitudine, a un’abitudine determinata da un certo pregiudizio, a un pregiudizio determinato dalla peculiarità dell’artista […] Gli artisti agivano in ragione di un’incerta tradizione o di qualche impulso, cosicché chiaroscuro, colorito, armonia dei colori, vorticavano confusamente» (FL, II, p. 671-672; per la versione italiana cfr. [4]). Quello che Goethe sta dicendo può sembrare curioso: dopotutto gli artisti riproducono i colori che vedono o li alterano creando effetti inaspettati; perché dovrebbero seguire regole “scientifiche”? Il punto di vista di Goethe appare però in tutta la sua cogenza se riflettiamo non sui colori nella pittura ma sull’impiego delle note in musica, regolate dalla dottrina dell’armonia e del contrappunto. In effetti Goethe stesso nella Farbenlehre dedica un paio di pagine alla comparazione tra dottrina musicale e teoria dei colori (FL, I, § 747-750, p. 281-282), e se seguiamo questa analogia possiamo fin da subito cogliere la profonda differenza dell’interrogarsi goethiano sui colori rispetto alla tradizione newtoniana: è la stessa differenza che intercorre tra la teorizzazione dell’espressione musicale e l’analisi dei suoni in termini di onde sonore e frequenza di vibrazione delle molecole dell’aria. Con la prima si stabiliscono le regole per manipolare i suoni e creare brani musicali; con la seconda si offre la “spiegazione fisica” dei fenomeni sonori. Se si torna ai colori, si può dire che Goethe pose la questione della possibilità di elaborare una dottrina dei colori ad uso degli artisti, qualcosa che non era derivabile dalla “spiegazione fisica” dei colori presente nell’Ottica di Newton. Secondo questa prospettiva, la polemica di Goethe contro Newton parrebbe fuori luogo, proprio perché si tratterebbe di teorizzazioni su piani diversi. Eppure la scontro ci fu, anche perché non sapendo dove e come iniziare una nuova dottrina del colore ad uso degli artisti, Goethe decise che bisognasse innanzitutto porre domande non tanto sull’uso dei colori quanto sulla loro natura: «ero giunto alla conclusione che per comprendere i colori nella loro evenienza fisica bisogna muovere dal lato della natura, e che per questa via si può scoprire qualcosa del loro nesso con l’arte». Per questo motivo Goethe ritenne doveroso partire dalla concezione 38 < il nuovo saggiatore newtoniana che «tutti i colori sono contenuti nella luce», sebbene tale nozione gli fosse nota solo per via teorica e non avesse mai assistito o realizzato «gli esperimenti attraverso i quali doveva venire dimostrata la teoria newtoniana» (FL, II, p. 674; [4], p. 408). Fu l’incontro con la letteratura scientifica dell’epoca che lo indusse a ripetere gli esperimenti newtoniani con il prisma: «quando cercai di avvicinarmi ai colori dal versante della fisica, mi capitò di leggere in un qualche compendio il relativo capitolo ma, trovandovi solo teoria, non riuscivo a cavarne nulla di utile per i miei scopi, cosicché mi proposi quanto meno di vedere io stesso i fenomeni» (FL, II, p. 675; [4], p. 408). In effetti all’epoca i manuali che nel titolo menzionavano termini come “fisica” o “teoria della natura” offrivano nozioni semplificate delle conoscenze scientifiche del tempo. Erano testi a supporto della didattica, ma non erano manuali come quelli odierni, dedicati alla formazione di uno scienziato. Spesso le trattazioni erano spurie, persino scorrette, e nel caso della fisica dei fenomeni luminosi l’assunzione delle concezioni newtoniane era fondata più sul prestigio del loro autore che sulla lettura e la comprensione dell’Opticks. La tesi di fondo era talmente nota che nella descrizione degli esperimenti con il prisma venivano sottostimate le condizioni fondamentali sotto le quali gli esperimenti potevano essere replicati con successo. La mancanza di rigore nell’esposizione delle procedure sperimentali rendeva meno convincente il passaggio dall’analisi dei risultati empirici all’elaborazione dell’interpretazione teorica; di fatto però i lettori già riconoscevano la validità della concezione newtoniana (come testimoniato dallo stesso Goethe: «come tutti anche io ero convinto del fatto che i colori sono contenuti nella luce» (FL, II, p. 674; [4], p. 408), e quindi una procedura argomentativa più convincente sarebbe sembrata pleonastica. Si prenda ad esempio uno dei manuali più diffusi dell’epoca, Anfangsgründe der Naturlehre (Fondamenti della toeria della natura), compendio di Johann Christian Polycarp Erxleben (1744-1777)[5]3 che Goethe certamente lesse nella fase di studio precedente la ricerca sui colori e la cui quinta edizione citò nei Beiträge zur Optik. I paragrafi centrali del capitolo ottavo (Vom Lichte, Della luce) sono dedicati all’esperimento newtoniano del prisma (Die Farben des Prisma, §§ 362-372)(fig. 2), alla spiegazione della 3 L’opera ebbe una seconda edizione (e un’immediata ristampa) nel 1777, anno in cui l’autore morì. In seguito fu Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), professore di fisica sperimentale a Gottinga, a curare le successive edizioni dell’opera: nel 1784 (III), nel 1787 (IV), nel 1791 (V, con una ristampa nel 1793), nel 1794 (VI, con una ristampa nel medesimo anno e nel 1801). m. segala: la Farbenlehre di goethe colorazione dei corpi (Wie die Körper Farben zeigen, §§ 373-382) e agli strumenti ottici come indispensabili per correggere gli “errori” e i difetti della visione oculare (Von den optischen Werkzeugen: das Auge und dessen Fehler, §§ 383-392)4. La descrizione di tre esperimenti newtoniani (con un prisma, con una lente e un prisma, con due prismi) e dei loro risultati è abbastanza accurata, ma non completa: non viene specificato che lo schermo deve essere posto non troppo vicino al prisma; che, per garantire il parallelismo dei raggi incidenti, il prisma va inclinato secondo un certo angolo; che la luce deve passare attraverso un foro molto piccolo prima di giungere al prisma, perché soltanto una superficie molto piccola del prisma sia toccata dalla luce incidente. Eseguire questi esperimenti senza tenere conto di queste condizioni non porta ai risultati descritti: eppure Erxleben sostiene che questi tre esperimenti hanno permesso a Newton di stabilire la concezione che la luce è un composto di «sette luci semplici e omogenee» e che ciascuna di queste sette luci «ha il suo proprio grado di rifrangibilità» ([5], V edizione, 1791, §366). Per Goethe tutto questo è inaccettabile, per due motivi. Innanzitutto perché è metodologicamente sbagliato usare un numero così esiguo di esperimenti per trarre conclusioni sulla natura: «un singolo esperimento o anche una serie di esperimenti collegati tra loro non provano nulla; di fatto niente è più pericoloso che voler provare una proposizione immediatamente per mezzo di esperimenti» [6]. Inoltre perché l’enfasi sugli “errori” della visione oculare e l’insistenza sull’uso di strumenti per fondare la scienza dell’ottica condanna la ricerca a un incontro mediato con la natura, e questo per Goethe significa l’annullamento della persona, il disconoscimento del ruolo attivo degli occhi nella produzione dei fenomeni visivi e dei colori, e da ultimo la negazione della ricerca scientifica stessa. Non si capacitava del fatto che la scienza avesse tradito l’empiria e amaramente ricordava che all’inizio delle sue ricerche «ancora nutrivo la follia di credere che tutti coloro che si occupano di scienze delle natura guardano ai fenomeni» (FL, II, p. 687-688; [4], p. 415). Anche questa considerazione epistemologica determinò Goethe nella polemica contro Newton, anche se in questo caso Newton fu molto più vicino alla posizione di Goethe che a quella dei newtoniani: sebbene riconoscesse l’imprecisione dell’osservazione a occhio nudo, non voleva però che questa fosse bandita dalla ricerca. A differenza degli estensori dei manuali newtoniani, egli aveva ben chiara la distinzione tra “errori” e “limiti” della visione, e riteneva che osservazioni ripetute e procedure sperimentali rigorose potevano produrre risultati affidabili. Fig. 2 I diversi risultati della sperimentazione di Goethe con i prismi paragonati a quello di Newton, nel disegno 4 (Goethe, “Teoria dei colori”, tavola XIII). 4 La numerazione dei paragrafi restò la medesima nelle sei edizioni dell’opera, mentre le variazioni e gli ampliamenti cambiarono la paginazione. vol31 / no5-6 / anno2015 > 39 fisica e… 3 Goethe sperimentatore Il lungo cammino che portò Goethe dai “Contributi all’ottica” alla “Teoria dei colori” fu sostanzialmente di carattere sperimentale. All’inizio si trattò di mettere alla prova manuali e testi scientifici imprecisi e talvolta persino scorretti nelle descrizioni degli esperimenti di Newton. Non si può biasimare Goethe, se iniziò a guardare attraverso il prisma in condizioni lontane da quelle richieste dall’Opticks di Newton: «mi trovavo in una stanza completamente bianca, e quando alzai lo sguardo mi attendevo, memore della teoria di Newton, di vedere la parete bianca colorarsi di tutte le gradazioni, di vedere la luce che raggiungeva l’occhio scomposta nelle sue luci colorate. Quale non fu però la mia meraviglia allorquando la parete che osservavo attraverso il prisma mi apparve bianca esattamente come prima, mentre il colore si manifestava in maniera più o meno decisa solo lì dove vi si opponeva una macchia scura, e soprattutto alla croce della finestra […] Non ebbi bisogno di molte riflessioni per accorgermi che era necessario un confine per produrre il colore, e del tutto istintivamente esclamai ad alta voce che la dottrina di Newton era falsa» (FL, II, p. 677-78; [4], p. 410). Goethe definì “aperçu” questa intuizione iniziale che «è come una malattia che ci abbia infettato e della quale non ci possiamo liberare finché non l’abbiamo vinta» (FL, II, p. 684; [4], p. 413). Il vasto programma sperimentale che ne seguì, sviluppato nel corso di anni e con la realizzazione di decine di esperimenti, aveva lo scopo di provare quanto le prime osservazioni gli avevano suggerito e di mostrare i limiti e gli errori della concezione newtoniana dei colori. Da altre letture e da conversazioni con alcuni fisici si rese conto che la fenomenologia del colore non suscitava reale interesse: tutti erano convinti che il problema stesse nell’eccessiva libertà degli esperimenti di Goethe. Inoltre gli scienziati con cui parlò insistevano sul fatto che tutto era comunque spiegabile a partire dalla teoria fisica della luce bianca come composta di colori originari. Anni dopo, con una punta di malinconia scrisse: «non avevo ancora idea della limitatezza della corporazione scientifica, che era certo in grado di conservare e tramandare qualcosa, ma non di promuoverla» ( FL, II, p. 686, [4], p. 414)). Dal punto di vista di Goethe, la concezione newtoniana dei colori era sbagliata e aveva ingenerato un atteggiamento, guidato dal principio di autorità, che impediva di modificare le nozioni accettate. Le parole e gli argomenti della polemica nella Farbenlehre suonano molto simili a quelle dei fondatori della scienza moderna contro la Scolastica e l’incapacità di guardare al mondo con gli occhi invece che attraverso le opere dell’autorità di allora, Aristotele. Goethe contestò, ad esempio, l’idea che i colori fossero esattamente sette: Newton lo aveva asserito, pur senza escludere che potessero essere riconosciuti molti colori intermedi, ma la tradizione 40 < il nuovo saggiatore aveva accolto quel numero come una verità. Invece Goethe riusciva a elaborare esperimenti in cui i colori erano molto più numerosi e meno marcate erano le differenze tra loro; soprattutto riteneva del tutto insufficiente la concezione newtoniana perché non poneva i problemi pertinenti alla colorazione dei corpi, del cielo, del cielo intorno al sole e attorno alla luna, delle ombre colorate, della capacità della natura di offrire innumerevoli sfumature di colore. La riduzione dell’infinita varietà delle fenomenologia cromatica a sette colori fondamentali gli sembrava la negazione della curiosità e del desiderio di comprensione che dovrebbe animare lo scienziato. Purtroppo questa posizione comportava anche l’impossibilità, per Goethe, di spiegare l’arcobaleno; e questo non fu passato sotto silenzio dai suoi critici. Il metodo di Goethe fu di elaborare decine di esperimenti che variavano indefinitamente il modello sperimentale newtoniano indicato dai manuali. Poiché anche i risultati variavano, e non sembrava ci fosse modo di spiegarli con la nozione di colore come componente semplice della luce bianca, Goethe si persuase che la teoria newtoniana non solo non dava ragione della pluralità dei fenomeni, ma persino rinnegava e nascondeva la vitalità della natura. Anche dopo che lesse l’Ottica, e verificò le restrizioni poste da Newton sulla realizzazione degli esperimenti, si rese conto che su molte procedure lo scienziato inglese aveva dato indicazioni vaghe o insufficienti; questo lo rafforzò nel convincimento che la concezione newtoniana dei colori non fosse empiricamente fondata, che gli esperimenti a suo sostegno non fossero esaustivi e probanti, e che la teoria derivata aveva il demerito di mortificare la natura: la pluralità delle esperienze e la proliferazione dei fenomeni per nessuna ragione dovevano essere limitati da vincoli sulla realizzazione di esperimenti. Illuminante a questo proposito è il riferimento al prisma ad acqua (fig. 3), sul quale aveva effettuato esperimenti già all’epoca del “Contributi all’ottica”: «ne riprodussi già allora l’immagine perché […] pensavo di liberare la natura dalla camera oscura e dai prismi di piccole dimensioni» (FL, II, p. 687; [4], p. 415). Forse all’inizio l’approccio di Goethe fu soprattutto guidato dall’entusiasmo, ma non bisogna dimenticare che in seguito egli seppe guadagnarsi il sostegno e la collaborazione di uno sperimentalista di prim’ordine, Thomas Johann Seebeck5. Questi iniziò a lavorare al progetto di Goethe nel 1806, 5 Critico dell’idea che la conoscenza scientifica dovesse essere innanzitutto matematizzazione della natura, Seebeck privilegiava la sperimentazione sull’elaborazione teorica. Professore di fisica a Jena, condivise l’interesse di Goethe per un approccio alla cromatica alternativo a quello di Newton e contribuì all’ideazione e alla realizzazione di molti esperimenti che avrebbero dato corpo alla parte didattica della Farbenlehre. Sul rapporto tra Goethe e Seebeck, cfr. [7]. m. segala: la Farbenlehre di goethe pubblicò alcune sue ricerche nell’appendice della Farbenlehre, e continuò a sperimentare sui colori fino al 1818, risvegliando l’interesse di Goethe dopo che questi, scoraggiato dall’insuccesso dell’opera presso la comunità scientifica, aveva abbandonato l’impresa. A partire dal 1812, Seebeck poté mostrare a Goethe che il modello newtoniano (fig. 4) stentava a spiegare i risultati degli esperimenti sull’interazione tra luce polarizzata e materia6. Gli inaspettati fenomeni cromatici mostrati da Seebeck, oggi interpretati come effetti dell’interferenza tra fasci di luce polarizzata, erano condotti con lenti e specchi riscaldati a diverse temperature. Anni dopo, la medesima procedura sperimentale di riscaldamento, questa volta sui metalli, lo avrebbe portato alla scoperta per la quale oggi egli è ricordato nella storia della fisica – l’effetto termoelettrico7; ma anche le ricerche ottiche nella scia della Farbenlehre riscossero interesse e successo in ambito scientifico, tanto che nel 1815 Seebeck venne premiato dall’Académie des Sciences di Parigi per i contributi allo sviluppo delle conoscenze sugli effetti della polarizzazione della luce. Fig. 3 Il prisma ad acqua (Goethe, “Teoria dei colori”, tavola XVI). 4 La riflessione di Goethe su scienza e natura Goethe non era uno scienziato dilettante. Si avvicinò allo studio della natura con nozioni diverse da quelle degli scienziati del suo tempo, ma non senza la consapevolezza della preparazione e dell’enorme lavoro richiesto al ricercatore. Prima di pubblicare le sue ricerche sui colori, aveva già compiuto studi di carattere naturalistico. Come ministro plenipotenziario del Ducato di Weimar, nel 1776 decise di riattivare le miniere di Ilmenau e la loro frequentazione lo determinò allo studio della geologia e alla stesura, nel 1784, 6 Il fenomeno della polarizzazione della luce fu scoperto dal fisico francese Étienne Malus nel 1808, cfr. [8]. 7 La manipolazione sperimentale di corpi riscaldati nel 1821 lo portò a scoprire che due metalli a differenti temperature posti in contatto determinano l’insorgere di potenziale elettrico nei punti di contatto: è questo l’effetto termoelettrico, chiamato anche effetto Seebeck, cfr. [9]. Fig. 4 Schematizzazioni degli esperimenti newtoniani nei manuali settecenteschi (Goethe, “Teoria dei colori”, tavola VII). vol31 / no5-6 / anno2015 > 41 fisica e… di un testo sulla formazione del granito [10]. Sempre nel 1784 pubblicò un breve testo di anatomia comparata nel quale mostrava l’esistenza dell’osso intermascellare negli esseri umani, ancora non riconosciuta dagli studiosi dell’epoca [11]. Del 1790 è il trattato di botanica “Metamorfosi delle piante” [12], nel quale si propose di spiegare la diversità del mondo vegetale a partire da un’unità morfologica originaria, «il vero Proteo che nasconde o rivela se stesso in tutte le forme vegetali» [13]. Pur nella diversità degli argomenti, queste ricerche furono animate da intenzioni e concezioni che Goethe esplicitò in numerosi testi di carattere metodologico e filosofico. La tesi di fondo è che la scienza debba privilegiare lo sguardo, la percezione, l’empirico nella sua fenomenicità. Comprendere la natura significa svelare la verità racchiusa nei fenomeni senza allontanarsi dai fenomeni stessi. La teoria e l’astrazione vanno impiegate con cautela, perché rischiano di spiegare il mondo perdendolo di vista: «un sistema naturale è un’espressione contraddittoria. La natura non ha un sistema, essa ha, essa è, vita e successione che parte da un centro sconosciuto e va verso un confine inconoscibile. Perciò la contemplazione della natura è senza fine» (GA, vol. 9, p. 295; per la versione italiana cfr. [14]). Non c’è bisogno di teorizzare, sostiene Goethe, basta guardare con attenzione il «fenomeno empirico, che ogni uomo percepisce nella natura», elevarlo a «fenomeno scientifico» per mezzo di molteplici esperimenti in circostanze diverse e sviscerare il «fenomeno puro», che permette una visione completa e una comprensione che supera quella che deriva dalla concatenazione causale. Il fenomeno puro «si presenta ora da ultimo come risultato di tutte le esperienze e gli esperimenti. Non può mai essere isolato, ma si mostra sempre in una serie continua di fenomeni. Per rappresentarlo lo spirito umano determina ciò che è incerto, esclude ciò che è casuale, separa ciò che è impuro, sviluppa ciò che è intricato, anzi scopre ciò che non è noto. Se l’uomo sapesse appagarsi si troverebbe qui 42 < il nuovo saggiatore forse il termine ultimo delle nostre forze. Infatti qui non si ricercano cause, ma condizioni sotto cui i fenomeni appaiono; viene intuita e assunta la loro successione conseguente, il loro eterno ritornare in migliaia di circostanze differenti, la loro uniformità e mutevolezza, riconosciuta la loro determinatezza a sua volta rideterminata dallo spirito umano» (ref. [14], pp. 50, 51). In queste parole, redatte nel 1798 in un testo preparatorio della Farbenlehre, si coglie il senso della ricerca non di meccanismi ma di un archetipo che, modificato infinitamente in forme sempre diverse, permetta di comprendere la natura nella sua unità e pienezza, varietà e concretezza, senza astrazioni. Tale archetipo si presenta come Urpflanze (pianta originaria) nella “Metamorfosi delle piante” e come principio di aggregazione e armonizzazione delle parti anatomiche nell’animale (il principio che permise a Goethe di vedere l’osso intermascellare laddove altri anatomisti non avevano saputo individuarlo). Nella Farbenlehre, l’archetipo è chiamato Urphänomen (fenomeno originario) e viene identificato nella contrapposizione tra luce e oscurità, trasparenza e torbidezza, attività e passività dell’occhio. Goethe nei suoi contributi scientifici non aspira a elaborare teorie derivate dai fenomeni tramite l’osservazione o l’esperimento, bensì esibisce un fenomeno ideale; prospetta una unità di fenomeno e idea che illumina la varietà e la molteplicità del mondo naturale. Una teoria scientifica è descrittiva ed esplicativa, mette in luce rapporti nascosti, permette di fare previsioni; ma non è produttiva della realtà che spiega: prima di tutto è un prodotto delle facoltà intellettive umane. Goethe non vuole una scienza che replichi la natura nel concetto, bensì una scienza che accolga ed esibisca la potenza creatrice della natura: fenomeno e idea, appunto, concretezza e idealità. «La scienza è propriamente il privilegio dell’uomo»: essa gli consente di cogliere il «grande concetto che il tutto è solo un Uno armonico», senza per questo illuderlo di poter «abbracciare l’intera natura» con un «sentimento oscuro», in un «comodo misticismo» immaginoso nel quale m. segala: la Farbenlehre di goethe «si accostano o si collegano cose infinitamente lontane»; d’altro canto non si dà scienza quando si isola «con un’incomprensione frammentante» ciò che è unità, separando «fenomeni segretamente affini, ponendo alla base di ciascuno una legge specifica da cui dovrebbero essere spiegati»8. Del 1792 è un saggio, centrale per comprendere l’epistemologia di Goethe, dal titolo emblematico “L’esperimento come mediatore tra soggetto e oggetto”. La sua lettura chiarisce che la metodologia scientifica di Goethe non è distante da quella degli scienziati suoi contemporanei: l’osservazione e la prova sperimentale sono la vera fonte del conoscere, non le ipotesi o le aspettative della persona; il rigore argomentativo è fondamentale, e per questo la matematica richiede di essere impiegata. Quello che appare diverso, nella concezione di Goethe, è la vastità dello sguardo; ogni fenomeno è connesso a miriadi di altri fenomeni, e teoria e esperimento non possono ritagliare un pezzo di realtà e renderla indifferente al resto: «l’esperienza può allargarsi all’infinito, la teoria non può allo stesso modo purificarsi e diventare perfetta. A quella l’universo è aperto in tutte le sue direzioni, questa rimane rinchiusa entro il confine delle capacità umane» (GA, vol. 9, pp., 504-676; [14], p. 24). Ecco perché ogni esperimento deve essere replicato introducendo variazioni, coinvolgendo altri aspetti dell’esperienza, perseguendo generalizzazioni sempre più ampie, e soprattutto cercando di elaborare più esperimenti correlati tra loro: «per quanto prezioso possa essere considerato un singolo esperimento, esso nondimeno riceve il suo valore solo attraverso l’associazione e la connessione con altri». Questa concezione riecheggia in un brano al termine della Farbenlehre: «dopo che avevo cercato di guardare in tutte le direzioni del mondo dei fenomeni e dopo aver organizzato molti esperimenti diversi, ritenni di aver ottenuto un primo vero successo allorquando fui in grado 8 Questi brani sono tratti dalla recensione redatta nel 1819 (pubblicata nel 1824) al libro di Jan Evangelista Purkinje, Ueber das Sehen in subjektiver Hinsicht: cfr. [15]. di conoscere la legge delle manifestazioni fisiologiche, l’importanza delle manifestazioni ottenute attraverso i mezzi torbidi, e infine la versatile costanza dell’azione e della reazione chimica. Avevo dinnanzi a me la suddivisione alla quale io, in ragione della sua affidabilità, rimasi sempre fedele. Senza un metodo non è però possibile né separare né connettere le esperienze che si compiono. Mi capitò così di trovarmi dinnanzi a una quantità di diverse spiegazioni teoriche, avanzando tra errori ipotetici e unilateralità varie. Non mancai tuttavia di notare che ovunque si mostrava un’opposizione, ovvero quella polarità di cui ho già detto. Ciò era importante perché attraverso questo principio mi sentivo in grado di collegare la teoria dei colori a questa o quella disciplina affine ovvero più remota» (FL, II, p. 688-689; [4], pp. 415-416). Il senso dell’avvertimento di Goethe è che non bisogna confondere le proposizioni sulla natura (e dunque le teorie) con gli esperimenti sulla natura. Le prime presentano un modo particolare di concepire la natura, i secondi sono parte della natura stessa, che si estende in un oceano smisurato di esperienze. Gli esperimenti, se bene sviluppati, possono dare certezze sulla natura, ma tali certezze devono poi essere raccolte e amalgamate, per riprodurre l’unità e la completezza della natura. A questo fine, non è preposta la teoria, ma l’esposizione rigorosa; non buoni argomenti, ma buoni ragionamenti – senza salti, senza vuoti, senza forzature. La precisione e il ragionamento ben costruito sono offerti dalla matematica: per orientarsi e mostrare le certezze raccolte con l’osservazione e l’esperimento bisogna attenersi al rigore della dimostrazione matematica, anche in quelle discipline dove il calcolo e le formule non sono possibili. Si tratterà allora di una matematica senza calcolo, garante della validità dell’esposizione dei contenuti della ricerca sperimentale. «Infatti è il metodo matematico quello che a causa della sua circospezione e purezza rivela subito qualsiasi salto nell’asserzione, e le sue prove sono propriamente soltanto esposizioni circostanziate che quanto vien posto in connessione sussisteva già nelle sue parti semplici e nella sua intera sequenza, ed è stato vol31 / no5-6 / anno2015 > 43 esaminato in tutta la sua estensione e trovato giusto sotto ogni condizione e inconfutabile. E così le sue dimostrazioni sono sempre più esposizione, ricapitolazioni, che argomenti» (GA, vol. 9, p. 853). La concezione della scienza prospettata da Goethe va in direzione diversa da quella della tradizione galileiana e newtoniana perché esige che proposizioni e teorie sulla natura non siano il contraltare della natura. Esse non devono arrogarsi la capacità di ordinare e sistematizzare l’esperienza, perché l’esperienza è vasta, variabile, polimorfica, e non può essere replicata dal pensiero. L’unico modo per fare scienza, dunque, è realizzare il processo teorico in armonia con la natura, dentro la fenomenicità, con l’intento di comprendere la totalità, perché solo attraverso il tutto è possibile cogliere il senso di ogni singolo ambito fenomenico. La scienza deve diventare parte della natura, e come tale si realizza essa stessa in un processo infinito attraverso il quale idee Bibliografia [1] J.W. Goethe, “Zur Farbenlehre” (Cotta, Tübingen) 1810 (in seguito citata come FL, I, prima parte e FL, II, seconda parte). [2] J.W. Goethe, “Beyträge zur Optik” (Industrie-Comptoir, Weimar) 1791-92. [3] J.W. Goethe, “La teoria dei colori” (Il Saggiatore, Milano) 2008. [4] J. W. Goethe, “La storia dei colori” (Luni Editrice, Milano-Trento) 1997, pp. 406-407. [5] J. C. P. Erxleben, “Anfangsgründe der Naturlehre” (Dieterich, Göttinge) 1772. [6] J. W. Goethe, Das Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt, in “Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche“, vol. 9, a cura di Paul Stöcklein (Artemis , Zürich) 1949, p. 849; in seguito citato come GA). [7]K. Nielsen, “Another kind of light: The work of T.J. Seebeck and his collaboration with Goethe”, Hist. Studies Phys. Biol. Sci., 20 (1989) 107; 21 (1991) 317. scientifiche si collegano alla natura e diventano parte del mondo fenomenico. L’idea, allora, è quella porzione di realtà che non varia nel vorticare dell’esperienza e che esprime rapporti costanti. Per questo essa ci guida, semplifica la nostra comprensione e garantisce la definizione di un sapere comunicabile; ma sempre e soltanto nella misura in cui è non è un’astrazione ma è intimamente legata alla fenomenicità. Perché soltanto nella fenomenicità si può trovare la verità. Goethe è un empirista, forse il più radicale, perché nell’esperienza e con l’esperienza vuole dare vita e sostanza al sapere e alla sua dimensione ideale e concettuale. Come proclama Mefistofele nel Faust (vv. 2038-39): Grau, theurer Freund, ist alle Theorie, Und grün des Lebens goldner Baum (Grigia, caro amico, è ogni teoria, E verde l’albero d’oro della vita). [8] E. Malus, “Sur une propriété de la lumière réfléchie par les corps diaphanes”, Nouveau Bulletin des Sciences, par la Société Philomatique de Paris, 16, (1809) 266; E. Malus, “Sur une propriété de la lumière réfléchie”, Mémoires de Physique et de Chimie, de la Société d’Arcueil, 2 (1809) 143. [9] T. J. Seebeck, “Ueber den Magnetismus der galvanischen Kette” (Berlin) 1822. [10] J. W. Goethe, “Ueber den Granit”, 1784; pubblicato postumo nel 1878. [11] J. W. Goethe “Versuch aus der vergleichenden Knochenlehre daß der Zwischenknochen der oberen Kinnlade dem Menschen mit den übrigen Thieren gemein sey” (Jena) 1784. [12] J. W. Goethe, “Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären” (Gotha, Ettinger) 1790. [13] J. W. Goethe, “Viaggio in Italia”, Napoli 17 maggio 1787; tr. it. E. Castellani (Mondadori, Milano) 1993. [14] J. W. Goethe, “Teoria della natura” (Boringhieri, Torino) 1958, p. 111. [15] J. W. Goethe, “Goethes Sämmtliche Werke, vol 40 (Cotta,Tübingen)1840, p. 406 (tr. it. [14], p. 24). Marco Segala Marco Segala insegna storia della filosofia all’Università dell’Aquila e svolge attività di ricerca al Centre Alexandre Koyré del CNRS, a Parigi. Si è laureato in filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e nel 1992 ha conseguito il dottorato in filosofia all’Università di Firenze. È stato borsista Humboldt in Germania e Marie Curie in Francia. Si occupa di storia della filosofia e delle scienze tra Settecento e Novecento, con particolare attenzione ai rapporti tra filosofia e scienze nell’età goethiana. Per un curriculum dettagliato, cfr. http://koyre.ehess.fr/index.php?414 44 < il nuovo saggiatore