Le prospettive della politica agricola europea
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Le prospettive della politica agricola europea
SOMMARIO Introduzione pag. 3 Le prospettive della politica agricola europea Franz Fischler ” 5 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles Fabrizio De Filippis ” 13 Il futuro delle politiche agricole Bertrand Hervieu Hervé Guyomard Jean-Christophe Bureau ” 27 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue Luis Miguel Albisu Azucena Gracia ” 55 Multifunzionalità: un quadro di riferimento Leo Maier Mikitaro Shobayashi ” 87 Esiste una “nuova politica rurale”? John M. Bryden ” 117 La rintracciabilità dei prodotti agricoli Lauro Panella ” 141 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici Jules Pretty ” 165 L’azione multilaterale contro la fame nel mondo Piero Conforti ” 201 2003: anno internazionale dell’acqua Marjoleine Hennis ” 209 1 INTRODUZIONE Questa prima pubblicazione della serie dei “quaderni” del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, promosso ogni anno dalla Coldiretti in collaborazione con Ambrosetti, è dedicata al tema della rigenerazione dell’agricoltura così come essa viene studiata e percepita nella migliore pubblicistica internazionale. Il nostro obiettivo è quello di “sprovincializzare” il dibattito italiano proprio sulla scia del forte impulso che la Coldiretti ha dato in Italia al tema della “rigenerazione” come pre-condizione di una riforma della politica agricola europea che finalmente ponga al centro dei suoi obiettivi i temi della sicurezza e della qualità alimentare. In questo primo quaderno, come negli altri che seguiranno, abbiamo privilegiato senza alcun dubbio la qualità e la completezza dei contributi rispetto ad esigenze, che pure sentiamo necessarie, di coerenza ed organicità politico-culturale. Questo a testimonianza del carattere aperto di un’iniziativa editoriale che si ispira allo spirito del confronto che è base ed alimento indispensabile del Forum. 3 Le prospettive della politica agricola europea Franz Fischler La politica agricola, nel XXI secolo, deve certamente tenere conto di tutta la catena alimentare, da coloro che sono a monte dell’attività di produzione agricola, fino ai singoli consumatori e alle loro richieste ed esigenze. Solo prendendo in considerazione il quadro globale potremo comprendere pienamente il ruolo che l’agricoltura deve svolgere nella società moderna, un ruolo che include il rispetto dell’ambiente, le preoccupazioni etiche e sociali, oltre alla funzione economica più tradizionale di produrre alimenti e di fornire un reddito ai coltivatori. In questa sede cercherò di analizzare la situazione generale dalla prospettiva politica dell’Unione Europea; esaminerò inoltre il quadro internazionale e in particolare la nostra posizione nel Wto e nei prossimi incontri a Doha. Infine, farò riferimento alla sfida posta dall’allargamento dell’Unione Europea dei 15 ad altri 12 Stati membri. Il progresso scientifico e tecnologico sta spingendo le frontiere dell’agricoltura sempre più in avanti a grande velocità, il caso degli Ogm indica quanto questo mutamento possa essere rapido e controverso. La questione sollevata dagli Ogm rappresenta anche un ottimo esempio dell’importanza che dobbiamo attribuire all’opinione pubblica e alle preoccupazioni dei cittadini. Si rileva una chiara spaccatura fra il desiderio del settore imprenditoriale agroindustriale di diventare più redditizio e più efficiente, e la convinzione di alcuni consumatori che un certo numero di pratiche agricole non sono necessarie e potrebbero mettere in discussione la sicurezza degli alimenti o la sostenibilità ambientale. Le esperienze fatte con la Bse, a proposito dell’uso di alimenti di origine animale per il Intervento al Convegno Rigenerando l’agricoltura nella nuova società, Cernobbio, 19-20 ottobre 2001. Franz Fischler è Commissario europeo per l’Agricoltura, lo Sviluppo Rurale e la Pesca. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 5 bestiame, hanno fatto ben poco per rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che le ragioni del profitto non debbano portare a trascurare la sicurezza alimentare. In particolare, nel caso del mercato del bestiame bovino, in Italia quest’anno il consumo è diminuito in maniera rilevante. Ci si augura che le lezioni della Bse siano state apprese. Tuttavia, la nostra più recente indagine dell’Eurobarometro dimostra che i consumatori nell’Unione Europea sono ancora ansiosi e confusi. Tale mancanza di fiducia nei cosiddetti “metodi industriali” ha avuto come risultato la domanda sempre più diffusa di particolari tipi di produzione, come ad esempio l’agricoltura biologica, anche qui in Italia, dove già si conta il più alto numero di aziende agricole biologiche dell’Unione Europea. Ritengo sia essenziale che i coltivatori rispondano alla domanda dei consumatori, ma riconosco anche che determinati tipi di produzione di qualità potranno riempire soltanto delle nicchie di mercato. Indipendentemente da quali possano essere i metodi di produzione, in qualità di responsabili politici dobbiamo accertarci che tutti i prodotti siano sicuri. A tale riguardo la tracciabilità svolge un ruolo importante. L’equilibrio che è necessario raggiungere fra il progresso tecnologico e le opinioni e le esigenze dei consumatori deve essere visto nel contesto della Pac, come definito in Agenda 2000. Vorrei ricordare gli obiettivi definiti a Berlino: • creare un settore agricolo competitivo, che possa far fronte progressivamente ai mercati mondiali senza essere eccessivamente sovvenzionato; • promuovere metodi di produzione ecocompatibili che portino alla realizzazione di prodotti di qualità - e in questa definizione intendiamo far rientrare anche i prodotti “sicuri”; • garantire livelli di vita equi e stabilità di reddito alla comunità agricola; • garantire la diversità delle forme di agricoltura, conservando il paesaggio e sostenendo le comunità rurali; • giustificare il sostegno dato ai settori agricoli attraverso l’offerta di servizi che l’opinione pubblica si aspetta vengano forniti dai coltivatori. Quando parliamo di una “agricoltura che possa far fronte progressivamente ai mercati mondiali senza essere eccessivamente sovvenzionata”, occorre sottolineare l’importanza del concetto: “eccessivamente sovvenzionata”. In passato avevamo una politica che garantiva la fornitura di alimenti prodotti a livello nazionale, pagando i coltivatori per le quantità di alimenti che essi producevano. Si attribuiva poca importanza al modo in cui i coltivatori producevano questi alimenti, e al fat- 6 Le prospettive della politica agricola europea to che i metodi moderni di coltivazione avevano un impatto negativo sull’ambiente. Negli ultimi dieci anni la nostra politica ha abbandonato il sostegno alla produzione in favore di una forma più disaccoppiata di sostegno, che riconosce l’importanza del ruolo dei coltivatori nella comunità rurale, ma che può anche imporre condizioni produttive dietro pagamento. Oggi, il 70 per cento del bilancio agricolo va direttamente ai coltivatori; secondo la vecchia Pac, il 90 per cento veniva speso per montagne di cibo e laghi di vino. Ciò che abbiamo fatto è stato costruire una vera politica di sviluppo rurale, definita anche il “secondo pilastro” della Pac. Con questa politica stiamo sostenendo le comunità rurali e le misure ambientali, e la sua importanza è cresciuta in maniera rilevante e certamente continuerà a crescere. Per quanto riguarda l’Italia, la Commissione europea ha approvato i programmi di sviluppo rurale preparati dalle Regioni italiane. Tocca alle Regioni mettere in evidenza gli elementi particolarmente importanti per loro. L’Unione Europea non interferisce in tali questioni. Ciò che essa fa è contribuire ampiamente al bilancio dei programmi: dal 2000 al 2007, saranno erogati 7,5 miliardi di Euro in favore dello sviluppo rurale in Italia. LA REVISIONE DI MEDIO TERMINE Se prendiamo in considerazione le preoccupazioni dei cittadini europei e le confrontiamo con gli obiettivi di Agenda 2000, possiamo mettere in evidenza un’assoluta coincidenza e non è quindi necessario modificare gli obiettivi. Tuttavia dobbiamo chiederci se i nostri strumenti sono adeguati a raggiungere questi obiettivi ed è lo scopo della revisione di medio termine del prossimo anno. Se ci renderemo conto che alcuni dei nostri strumenti non stanno funzionando abbastanza bene, suggeriremo rettifiche affinché la nostra politica possa funzionare in modo più efficiente. Quando esaminiamo gli strumenti attuali, dobbiamo rivolgerci in particolare le seguenti domande: stiamo facendo abbastanza per lo sviluppo rurale? Stiamo facendo abbastanza per migliorare la qualità dei prodotti? Oppure la Pac si sta ancora concentrando troppo sulla quantità? Le nostre risorse di bilancio vengono distribuite in maniera appropriata fra i diversi settori? Oppure dovremmo spostare una parte maggiore del nostro bilancio a sostegno di misure che non distorcano il commercio, in modo che esse siano accettabili anche nel contesto internazionale? Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 7 La revisione di medio termine non sarà guidata dal Wto o dall’allargamento. Tuttavia, se le modifiche che ci proponiamo di attuare faciliteranno il negoziato Wto o saranno utili per risolvere i problemi del processo di allargamento, tanto meglio. A prima vista, alcune delle nostre priorità per il futuro dell’agricoltura potrebbero sembrare incompatibili fra loro. Una grande apertura ai mercati potrebbe sembrare in conflitto con il nostro obiettivo di mantenere il reddito degli agricoltori. Anche il fatto di imporre ai coltivatori condizioni di benessere ambientale e animale potrebbe sembrare in contrasto con la necessità di ridurre i costi di produzione per essere più competitivi. Ciononostante ritengo che, se l’agricoltura vuole abbandonare l’impostazione di base seguita negli anni ’70 e negli anni ’80, dovrebbe essere consentito ai mercati di funzionare in maniera più libera. Le ricompense per aver risposto alla domanda di prodotti di qualità, espressa dai consumatori, sono già state ottenute dai coltivatori di tutta Europa. I nostri vini, i nostri formaggi e gli altri prodotti di qualità come ad esempio l’olio di oliva - vengono esportati in tutto il mondo. Un settore economicamente sostenibile, che non si preoccupi costantemente della prossima sovvenzione che potrebbe ottenere, si troverà anche nelle condizioni migliori per rispondere alle domande ambientali ed etiche dei nostri cittadini. Realizzare prodotti di qualità rappresenta solo una parte del lavoro, dobbiamo anche garantire che la qualità dei prodotti possa essere riconosciuta dal consumatore. È per questo motivo che abbiamo bisogno di regole di etichettatura chiare. Abbiamo anche bisogno di proteggere i nomi che identificano metodi di produzione particolari, legati ad una certa zona geografica. I prodotti alimentari italiani si sono conquistati una reputazione solida in tutto il mondo con i nomi Chianti, Parmigiano, Prosciutto di Parma o Prosciutto di San Daniele. L’Unione Europea avrà cura che alla dicitura “formaggio parmigiano” corrisponda effettivamente un formaggio parmigiano, e non un formaggio prodotto in una qualsiasi altra parte del mondo. POLITICA PER LO SVILUPPO RURALE È necessario considerare l’agricoltura come parte del più ampio sistema economico rurale e promuovere un’agricoltura sostenibile. Ciò significa un’agricoltura che sia sostenibile non soltanto sul piano ecologico, ma anche a livello economico e sociale. Dobbiamo usare la nostra politica di sviluppo rurale affinché i coltivatori producano in modo ecocompatibile e contribuiscano alla conservazione dei nostri paesaggi 8 Le prospettive della politica agricola europea - paesaggi essenzialmente fatti dall’uomo, creati da generazioni di coltivatori in centinaia di anni -. Questo paesaggio è parte della nostra eredità culturale, così come lo sono le città e i centri storici. Basti pensare al paesaggio collinare delle coltivazioni in Toscana, ai terrazzamenti della Sicilia e ai pascoli montani del Trentino o dell’Alto Adige. Se vogliamo che la nostra politica agricola sia accettata dalla maggior parte dei cittadini, essa deve offrire una risposta seria ai problemi e alle sfide che il mondo rurale si trova ad affrontare. I timori riguardo alla sicurezza alimentare e ai metodi di produzione devono essere mitigati incoraggiando l’industria agricola ad intraprendere un cammino che la metta in condizione di rispondere alla domanda di metodi di coltivazione ecologicamente validi. Ritengo che si stiano già facendo passi rilevanti in questa direzione, e ritengo che potremo essere da esempio per tutte le altre Nazioni del mondo. Avviarsi verso un’agricoltura sostenibile, tuttavia, non va confuso con il ritorno a metodi superati e inefficienti. Dobbiamo certamente allontanarci dall’uso, dannoso all’ambiente, dei fertilizzanti o dei pesticidi, che ha caratterizzato l’agricoltura moderna, ma se vogliamo sviluppare ulteriormente i nostri metodi di coltivazione è necessario approfittare delle tecnologie e delle ricerche più recenti. Ad esempio, dovremmo incoraggiare e favorire l’uso di tecniche sofisticate ma naturali di lotta agli insetti, ai parassiti, senza ricorrere ai pesticidi chimici. La rotazione agricola e l’uso intelligente del letame possono sostituire i fertilizzanti inorganici, almeno in una certa misura. Il trasporto degli animali, fatto nel rispetto del loro benessere, riduce al minimo i fattori di stress e migliora la qualità della carne. Le Università e gli Istituti agricoli, così come le Organizzazioni agricole, possono svolgere un ruolo di importanza vitale per aiutare i coltivatori a rigenerare l’agricoltura, abbandonando il passato e muovendosi verso un futuro che sia sostenibile e che risponda alle esigenze morali dei cittadini, i quali non sempre vedono le cose dallo stesso punto di vista dei coltivatori. Wto Vorrei approfondire alcuni aspetti internazionali della Pac. Abbiamo tutti un interesse reale affinché il commercio internazionale segua regole chiare e giuste. Come maggiore importatore e secondo maggior esportatore di prodotti agricoli, l’Unione Europea condivide pienamente questo interesse. Naturalmente, non è sufficiente liberalizzare gli scambi e ignorare questioni importanti, quali l’ambiente, la protezione dei consumatori e Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 9 regole migliori di concorrenza e investimento. Il libero commercio non può durare senza un sistema di scambio basato su regole condivise e rispettate. Dobbiamo inoltre prendere in considerazione gli interessi dei Paesi in via di sviluppo, molto più di quanto non abbiamo fatto in passato. Sono favorevole al lancio di una nuova fase che affronti questioni di tale importanza. Esaminando alcuni sviluppi attuali, non nascondo la preoccupazione che si possano ripetere alcuni errori del passato. Benché l’Unione Europea abbia espresso una posizione giusta e bilanciata nei negoziati agricoli, molti dei nostri partner sembrano fermi su posizioni inflessibili. Mi chiedo in che modo il round potrà raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi se il Congresso Usa dà il via ad un altro pacchetto di aiuti agli agricoltori, che porterà a sovvenzioni dirette pagate ai coltivatori Usa quattro volte più alte di quelle pagate ai coltivatori dell’Unione Europea. Isolare i coltivatori Usa dai segnali del mercato ci riporta indietro e non può essere un fattore positivo per il negoziato Wto. Per quale ragione, inoltre, il Gruppo di Cairns insiste nel trattare l’agricoltura come tutti gli altri settori industriali, quando è del tutto evidente che l’agricoltura non è mai stata - e non sarà mai - un settore come gli altri? Ogni società democratica deve, comunque, poter scegliere il proprio modello di politica agricola. Nella nostra posizione negoziale all’interno del Wto, ci dichiariamo disponibili ad una ulteriore liberalizzazione, a condizione che tutti i Paesi progrediscano insieme e traggano profitto da un miglioramento del commercio. Diciamo «sì» anche ad ulteriori riduzioni delle sovvenzioni alle esportazioni, a condizione che tutte le altre forme di aiuti all’esportazione che distorcono il commercio - e che sono usate dai nostri partner commerciali - siano sottoposte a regole Wto equivalenti. Ciò include i crediti all’esportazione, le imprese commerciali di Stato e l’abuso di aiuti alimentari. Possiamo anche prendere in considerazione ulteriori tagli ai sostegni all’agricoltura che provocano distorsioni al commercio interno, ma solo a condizione che sia possibile continuare a finanziare i servizi forniti dall’agricoltura non direttamente legati alla produzione alimentare, quali ad esempio la protezione ambientale, la conservazione del paesaggio e il ruolo positivo svolto dagli agricoltori nell’ambiente rurale. Il commercio mondiale porta ad una situazione “vincitore - vincitore” quando tutte le parti in causa traggono vantaggio dall’aumento degli scambi. Un negoziato che produce vincitori e perdenti, generalmente non riesce a portare ad un accordo o non riesce ad essere ratificato. Tuttavia, ritengo che saremo in grado di rispondere presto alle condizioni preliminari per avviare colloqui produttivi. 10 Le prospettive della politica agricola europea ALLARGAMENTO Mentre i negoziati del Wto comprendono i partner di tutto il mondo, stiamo conducendo contemporaneamente negoziati con i nostri immediati vicini, negoziati per l’allargamento storico dell’Unione Europea ad Est e a Sud. Se tutto andrà bene, vivremo in una comunità che accoglierà fino a 12 nuovi Stati membri, la maggior parte dei quali ha forti interessi agricoli. Ciò rappresenta non solo una sfida, ma anche un’opportunità per i coltivatori e per le imprese agroindustriali dell’Europa unita, dell’Est e dell’Ovest. I Paesi candidati dovranno prima adottare la legislazione Pac esistente, o il cosiddetto acquis communautaire. Ciò significa che dovranno anche adeguare il loro settore agroalimentare alle norme sanitarie dell’Unione Europea. Il passaggio richiede dunque una considerevole volontà politica e una notevole capacità amministrativa. La data d’ingresso dipende dall’adozione dell’acquis, dalla creazione del necessario quadro istituzionale richiesto per la sua applicazione, e dall’implementazione effettiva. Un altro passo in questo processo è la rimozione delle barriere al commercio agroalimentare fra l’Unione Europea e i Paesi candidati. Abbiamo concluso i cosiddetti “accordi a doppio zero”, che portano ad una liberalizzazione graduale, in varie fasi, tra i vecchi Stati membri e i futuri Stati membri. Tale apertura dei confini significa che entrambe le parti possono trarre vantaggio dal miglioramento del commercio. Non bisogna dimenticare che i nuovi Stati membri rappresentano mercati importanti per i prodotti agroalimentari europei, e un numero sempre crescente di prodotti italiani troverà nuovi consumatori nei Paesi candidati. Inoltre, gli “accordi a doppio zero” non saranno positivi soltanto per i commerci reciproci, faciliteranno anche l’allargamento in sé, preparando le parti ad un’apertura completa dei mercati. Le considerazioni sin qui esposte potrebbero essere sintetizzate nella frase: “tastare il polso della Pac”; sarebbe un titolo appropriato per questa relazione poiché il nostro ruolo può benissimo essere paragonato a quello di un buon medico. Come un buon medico esamina il suo paziente, noi dobbiamo esaminare il corpo e la mente della Pac alla luce della sua interazione con la società. La mia diagnosi medica è che la situazione della Pac sta migliorando. Il processo di rigenerazione è cominciato all’inizio degli anni ’90, ed è continuato sotto Agenda 2000, con una chiara risposta da parte dei coltivatori e dei politici di tutta Europa alle preoccupazioni espresse dai cittadini. Tuttavia, anche se il paziente ha il polso forte, dobbiamo prepararlo come prepareremmo un atleta ad affrontare una sfida. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 11 Le misure che dovremo prendere serviranno a potenziare gli strumenti disponibili per raggiungere meglio gli obiettivi decisi a Berlino. Dobbiamo compiere altri passi in avanti e abbandonare il mercato tradizionale in favore delle misure di sviluppo rurale, in modo da rafforzare il secondo pilastro della Pac. Dobbiamo, in particolare, rivolgere maggiore attenzione alle preoccupazioni ambientali, ai temi della qualità e della sicurezza alimentare. Se non saremo buoni medici, c’è il rischio di decretare la fine dell’agricoltura europea. La scelta spetta a noi. Il prossimo appuntamento è la revisione di medio termine: non sarà una riforma, bensì un aggiornamento. In questo contesto, non dimentichiamo: “l’Unione fa la forza”. 12 Le prospettive della politica agricola europea La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles Fabrizio De Filippis LA CRISI DELL’AGRICOLTURA E DELLA POLITICA AGRARIA 1 L’agricoltura dei paesi più sviluppati - ed in particolare l’agricoltura europea - è stata protagonista nell’ultimo mezzo secolo di un processo di crescita e di modernizzazione senza precedenti: massicci fenomeni di esodo dalle campagne, ristrutturazione e riconversione produttiva, assorbimento di progresso tecnico a ritmo accelerato, aumenti spettacolari della produttività per ettaro e per addetto, crescente integrazione con i settori a monte e a valle. L’insieme di questi fenomeni ha letteralmente cambiato il volto dell’agricoltura, aumentando il benessere degli agricoltori, assicurando ai cittadini un flusso crescente e differenziato di derrate alimentari, creando o mantenendo in molte zone rurali a rischio di abbandono un tessuto socio-economico vitale. Tutto ciò è avvenuto anche grazie ad un robusto intervento pubblico che, con una pervasiva azione di stabilizzazione dei mercati agricoli volta a difendere le ragioni di scambio del settore e a sostenere i redditi degli agricoltori, ha contribuito a ridurre i costi di aggiustamento ed il grado d’incertezza insiti in tutti i grandi processi di cambiamento sociale ed economico. Nel caso specifico dell’Unione Europea, inoltre, la politica agricola comune (Pac) ha avuto anche un ruolo fondante nel processo di inteLavoro realizzato nell’ambito del Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse Nazionale sul tema “Il nuovo negoziato agricolo nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ed il processo di riforma delle politiche agricole dell’Unione Europea”, co-finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica; Unità di Ricerca: Università degli studi Roma Tre (coordinatore scientifico: Prof. Fabrizio De Filippis). Fabrizio De Filippis è professore di Economia Agraria all’Università degli Studi Roma Tre, Facoltà di Economia. (1) Il testo di questo paragrafo è in larga parte tratto da De Filippis, 2002b. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 13 grazione comunitaria assumendo, fin dai primi anni sessanta, la veste di politica-pilota, una sorta di laboratorio in cui sperimentare la gestione di un intervento settoriale forte a livello sovra-nazionale (De Filippis e Salvatici 1997). Nonostante questo glorioso passato, è noto come, già negli anni ottanta, l’evoluzione dell’agricoltura e (soprattutto) della politica agraria abbia incominciato a creare problemi sempre più gravi: eccedenze di produzione, spesso associate ad evidente spreco di risorse, costi crescenti per il bilancio pubblico, lamentele da parte degli stessi agricoltori sugli squilibri e sull’eccessiva complicazione dell’intervento pubblico nel settore, contenziosi internazionali in seno al Gatt ed al Wto, dispute interne all’Unione Europea. Inoltre, le crisi alimentari che si sono succedute negli anni più recenti e la crescente sensibilità ambientale dell’opinione pubblica, hanno messo esplicitamente sotto accusa la sempre più spinta intensificazione produttiva dell’agricoltura, alimentando una preoccupante crisi di fiducia sulle capacità del settore di produrre cibi sani e di qualità, con metodi rispettosi dell’ambiente. E la politica agraria - in particolare la Pac - è stata spesso indicata come la principale responsabile di una tale evoluzione tecnologica e produttiva dell’agricoltura, percepita come pericolosa ed indesiderabile. Come è stato efficacemente argomentato, queste accuse alla politica agraria sono, almeno in parte, frutto di semplificazioni eccessive, che possono alimentare pericolose confusioni (Salvatici 2001; Buckwell 2002); è infatti difficile pensare che la politica agraria - per quanto distorsiva ed inefficiente essa possa essere - sia la causa principale di un processo di intensificazione e standardizzazione produttiva che ha radici ben più profonde: un processo che non interessa solo il settore agricolo, che si diffonde su scala planetaria anche in paesi dove la politica agraria è molto più leggera e che alligna, all’interno dell’agricoltura, anche in comparti poco o nulla sostenuti dall’intervento pubblico 2. Nonostante questa precisazione, è comunque giusto accusare la politica agraria di non avere sufficientemente contrastato o governato le conseguenze indesiderabili di tale processo di intensificazione, e di aver fatto troppo poco per mantenere o ristabilire la fiducia tra produttori e consumatori; ed è più che legittimo accusarla, anche su questo fronte, di essere troppo a lungo rimasta ancorata ad un modello di so(2) Nel caso dell’Ue basti pensare agli allevamenti di suini e di pollame che, pur non essendo sostenuti e protetti dalla Pac, sono tra le produzioni più interessate da processi d’intensificazione produttiva e da fenomeni di inquinamento. 14 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles stegno obsoleto e non più rispondente alle domande provenienti dalla società. Dunque, è proprio questo il nocciolo della crisi attuale, che in questo senso non è azzardato definire epocale: la coscienza ormai consolidata di essere nel mezzo di una lunga e difficile fase di transizione da un vecchio ad un nuovo paradigma di politica agraria; di dover modificare nel profondo l’impianto di un intervento pubblico chiaramente inefficiente ed obsoleto, in un contesto in cui molti dei beneficiari della vecchia politica ergono robuste difese al cambiamento ed i contenuti della nuova politica appaiono ancora incerti e tutti da sperimentare (De Benedictis e De Filippis 1998). Questo travaglio è chiaramente leggibile nel lungo processo di revisione della Pac, iniziato già nella seconda metà degli anni ottanta, confermato e rafforzato dal cosiddetto pacchetto MacSharry del 1992, proseguito con le decisioni del vertice di Berlino del marzo 1999 di Agenda 2000, ed oggi in pieno svolgimento con il dibattito sulle proposte presentate dalla Commissione (Commissione Europea 2002b) nel quadro della cosiddetta Mid-term review (revisione di medio termine) 3 . LA RIFORMA DELLA PAC ED IL RUOLO SCOMODO DEI RIFORMISTI Nell’intenso dibattito che da anni accompagna il processo di revisione della Pac, sembra ormai esservi un certo accordo su quali dovrebbero essere i suoi nuovi obiettivi; anche se (o forse proprio perché…) essi sono formulati in termini molto generici, e genericamente associati alla difesa del “modello di agricoltura europeo” e ad una non bene identificata “multifunzionalità” dell’agricoltura 4: concetti, entrambi, molto ambigui, al cui interno può starci un po’ di tutto, e dai quali non è facile far discendere specifiche azioni di politica agraria. Molto meno chiari e condivisi sono, infatti, gli strumenti con cui perseguire i nuovi obiettivi, anche perché per alcuni dei nuovi obiettivi - si pensi al rispetto di standard ambientali o di requisiti di sicurezza alimentare - è molto dubbio che il loro perseguimento sia di competenza della politi(3) La Mid-term review è un passaggio che era esplicitamente indicato nelle decisioni di riforma della Pac di Agenda 2000, valide fino al 2006; queste, appunto, prevedevano che la Commissione presentasse nel 2002 un documento sulla “revisione di medio termine”, volto a monitorare il percorso di riforma della Pac ed eventualmente a proporre ulteriori modifiche. (4) Sulle diverse definizioni e sull’ambiguo significato della multifunzionalità, anche in riferimento alla trattativa agricola in seno al Wto, si rimanda a Velazquez, 2001 ed al contributo di Maier e Shobayashi pubblicato a pag. 87. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 15 ca agraria, ed è ancora più difficile pensare che esso debba tradursi nell’erogazione di sussidi agli agricoltori. Più in particolare, nel dibattito europeo sulla riforma della Pac, la consapevolezza della crisi del vecchio modello di politica agraria, ormai ampiamente diffusa tra tutti gli attori in gioco, genera tre diversi atteggiamenti. In primo luogo, vi è un atteggiamento che si potrebbe definire vetero-ruralista, che si traduce nella strenua difesa dello status quo, volta ad annacquare e a rinviare il più possibile ogni cambiamento, nella convinzione che qualunque riforma della Pac sarebbe l’inizio della fine, destinato ad accelerare un processo irreversibile di perdita secca di risorse finanziarie a danno dell’agricoltura. È comprensibile che questa posizione difensiva sia sostenuta dai paesi grandi beneficiari della Pac e dai gruppi di interesse più tradizionali, le cui rendite di posizione rischierebbero effettivamente di essere messe in discussione; tuttavia si può notare come essa - in nome di un’ambigua solidarietà all’interno del “mondo agricolo” - sia spesso condivisa anche da chi, avendo sempre lamentato gli squilibri e le contraddizioni dell’attuale Pac, dovrebbe essere obiettivamente interessato ad una riforma seria, capace di intaccare tali contraddizioni e tali squilibri. All’estremo opposto, c’è una posizione di spinto neo-liberismo, fatta propria da alcuni paesi dove l’agricoltura ha un ruolo modesto e dai gruppi di interesse ad essa estranei, di chi vede nella crisi del vecchio modello di politica agraria l’occasione storica per smantellare la Pac il più presto possibile, per liberarsi di una politica costosa, inutile ed inefficiente, restituendo completamente e finalmente alle forze del mercato la regolazione degli equilibri economici e sociali del settore. Paradossalmente, questi due atteggiamenti estremi sembrano accomunati dalla convinzione che la Pac sia una politica, di fatto, non riformabile, e che dunque la partita stia tutta nel riuscire a fiaccare o rinforzare - a seconda del punto di vista - la sua capacità di sopravvivenza, in vista di una resa dei conti più o meno lontana nel tempo, ma comunque ineluttabile. Tra questi due estremi, c’è un ampio spettro di posizioni che si possono definire “riformiste”, nel senso letterale del termine, sostenute da parte di chi pensa che la riforma della Pac sia non solo possibile, ma anche opportuna; di quanti - in verità, molti a parole, ma pochi nei fatti - intendono raccogliere la sfida, rivendicando l’esigenza di non smantellare la Pac, ma di lavorare ad una sua riforma più o meno profonda e radicale, capace di mettere la politica agraria europea al passo con i tempi. Si tratta di una posizione difficile e scomoda, ovviamente non omo- 16 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles genea, che nella sostanza è in aperto contrasto con entrambe le posizioni estreme prima descritte, delle quali spesso subisce i veti incrociati, ma che pure rischia, a seconda dei casi, di essere strumentalizzata dall’una o l’altra di esse. È chiaro, infatti, che sia i più strenui difensori dello status quo, sia i più accaniti fautori dello smantellamento tout court della Pac, difficilmente si dichiarano per quello che sono, mentre assai più spesso parlano in nome di una riforma, si mischiano con i riformisti, stringono con essi alleanze spurie e provvisorie, rendendo in ultima analisi più difficile l’emergere di un progetto coerente e convincente di cambiamento. Inoltre, siccome la nuova Pac non si può scrivere a tavolino, al di fuori del contesto che la genera e nel quale essa deve essere calata, anche tra i riformatori più sinceri pesa l’eredità conservatrice della vecchia Pac, il suo lento metabolismo, la sua tradizionale vischiosità ed il suo inveterato gradualismo: l’abitudine a considerare le rendite di posizione come diritti acquisiti; l’incertezza associata al varo di nuovi strumenti, e la conseguente preferenza per l’adattamento - invero non sempre felice - di misure già almeno in parte collaudate; la paura di tirare troppo la volata alla posizione neo-liberista, rischiando di buttare il bambino con l’acqua sporca; la difficoltà, infine, di proporre cambiamenti che spesso scambiano sacrifici immediati con benefici a lungo termine e che, dunque, sono inevitabilmente sgraditi nel “mercato politico”, dove il tasso di sconto che si applica ai benefici futuri è in genere molto alto. Qui, infatti, le regole dell’azione collettiva fanno della miopia una virtù, ed “un uovo oggi” è sempre considerato preferibile ad “una gallina domani”: e ciò perché gli attori rilevanti - in particolare i policy makers - tendono (legittimamente e razionalmente, dal loro punto di vista) a ragionare in un orizzonte temporale relativamente breve, quasi sempre troppo breve rispetto alla possibilità di assorbire i costi associati al cambiamento e di percepire e raccogliere i frutti di una buona riforma. LA MID-TERM REVIEW Un esempio delle difficoltà che un approccio realmente riformista è destinato ad incontrare sul terreno della Pac è offerto dal dibattito innescato dalle proposte presentate dalla Commissione nel luglio del 2002, nel quadro della revisione di medio termine di Agenda 2000. Un dibattito che, grazie ad una proposta della Commissione decisamente coraggiosa e molto più radicale di quanto ci si aspettasse, poteva costituire, anche a prescindere dai suoi esiti immediati, una buona occasio- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 17 ne per un confronto di alto profilo sul futuro della Pac: una riflessione a tutto campo, in un orizzonte di lungo periodo, per definire le linee della sua transizione verso una politica agraria più moderna, meglio adattabile alle esigenze di una Comunità a 25 paesi e compatibile con una posizione non soltanto difensiva da parte dell’Unione Europea nel negoziato in corso in seno al Wto. In particolare, i punti più forti e qualificanti della proposta della Commissione del luglio 2002 erano tre (Commissione Europea 2002b). • Il disaccoppiamento degli aiuti diretti erogati dalla Pac a partire dalla riforma Mac Sharry del 1992, con l’istituzione di un pagamento unico per azienda basato sugli aiuti storici ricevuti e con totale libertà di produrre (o non produrre), con l’unica eccezione di produrre ortofrutticoli. • La cosiddetta “modulazione dinamica”, obbligatoria, consistente in un meccanismo di riduzione progressiva degli aiuti ricevuti da ogni azienda al di sopra di una certa franchigia e di completo taglio di quelli eccedenti un dato tetto 5, volto a trasferire risorse finanziarie dal primo pilastro della Pac (misure di mercato ed aiuti diretti) al secondo pilastro, cioè alle politiche di sviluppo rurale. • Il potenziamento delle politiche di sviluppo rurale, oltre che con l’aumento della sua dotazione finanziaria, anche con l’inserimento al suo interno di tre nuovi capitoli dedicati rispettivamente alla qualità, alla cross-compliance ed audit aziendale, ed al benessere degli animali. Non si vuole qui proporre una valutazione esaustiva del pacchetto di riforma proposto dalla Commissione nel luglio del 2002, ma solo alcuni spunti di riflessione 6. Ovviamente, in esso non tutto è pienamente convincente, ed anzi alcuni punti destano non poche perplessità, come il trattamento della cross-compliance, la scarsa finalizzazione degli aiuti disaccoppiati, l’estensione del disaccoppiamento anche agli aiuti destinati a colture ritenute strategiche in alcune aree (grano duro). Ma si tratta sicuramente di una proposta che andava nella giusta direzione e che costituiva una buona base di partenza per discutere. Inoltre, nel valutare le proposte della Mid-term review, va tenuto ben presente che esse non sono, e non vogliono essere, il punto di arrivo del processo di (5) Nella proposta della Commissione la franchigia era fissata a 5000 euro e a due unità di lavoro a tempo pieno, elevabile di altri 2000 euro per ogni unità di lavoro aggiuntiva; il tetto era fissato a 300.000 euro di aiuti effettivamente percepiti dopo l’applicazione della franchigia e della modulazione. (6) Per una descrizione più dettagliata della proposta della Commissione del luglio 2002 e per alcune prime valutazioni, si rimanda ad Inea, 2002, cap. 9. 18 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles riforma ma, piuttosto, il modo con cui gestire una delicata fase di passaggio dalla vecchia alla nuova Pac. È chiaro, quindi, che il documento della Commissione non va giudicato come pacchetto in sé, al di fuori del contesto di transizione in cui esso stesso si colloca, ma come strumento per avviare un processo di cambiamento reale della Pac verso la direzione giusta. Un esempio illuminante in questa direzione è dato dalla proposta di disaccoppiamento degli aiuti diretti, che a molti è apparsa troppo generica e frettolosa, poco attenta al rischio di repentini spostamenti di colture ed abbandono di intere aree, scarsamente finalizzata ad una riqualificazione del sostegno verso un sistema di aiuti più selettivo: insomma, più che lo strumento di una nuova politica agraria, il disaccoppiamento è apparso a molti come una misura di rottamazione del vecchio sistema di sussidi semi-accoppiati, il primo passo verso la loro definitiva abolizione. Al riguardo, va chiarito che molte di queste critiche sono ingiuste, giacché il disaccoppiamento, in sé, non è né vuole essere uno strumento di politica agraria, ma solo un modo di effettuare una redistribuzione del reddito, minimizzandone gli effetti distorsivi sui comportamenti degli agenti economici; non è un caso che la stessa definizione di disaccoppiamento sia data dagli economisti “in negativo”: un pagamento è disaccoppiato se non ha effetti sulle decisioni circa cosa e quanto produrre. Dunque, il disaccoppiamento non può essere giudicato come strumento in sé, perché ha senso solo come misura di passaggio: dopo aver disaccoppiato il sostegno dalla produzione, o lo si “accoppia” a qualcos’altro, o lo si trasferisce alla politica sociale, o lo si abolisce, magari gradualmente. Visto nella sua giusta accezione di misura transitoria, il disaccoppiamento proposto dalla Commissione andrebbe nella direzione giusta: perché ridurrebbe le distorsioni indotte dai pagamenti accoppiati, interrompendo la “caccia ai sussidi” da parte degli agricoltori e consentendo loro scelte imprenditoriali più libere; semplificherebbe il sistema di pagamenti, facilitando la sua estensione ai nuovi stati membri; migliorerebbe la posizione dell’Ue nel negoziato del Wto, giacché i pagamenti disaccoppiati andrebbero nella scatola verde, totalmente esente da ogni impegno di riduzione; ma soprattutto il disaccoppiamento sarebbe un passaggio positivo perché, rendendo più trasparente il sistema di sussidi, renderebbe ancora più necessaria una chiara definizione degli obiettivi perseguiti e dei condizionamenti da imporre ai beneficiari dei sussidi, in direzione di una maggiore selettività del sostegno stesso. In altre parole, poiché non è possibile pensare che nel 2013 gli agricoltori continuino ad essere compensati per una riduzione dei prezzi avvenuta 20 anni prima, e probabilmente su- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 19 bita dai loro padri 7, è necessario esplicitare con chiarezza quali sono i servizi o gli handicap che si intende remunerare o compensare con l’erogazione di tali pagamenti. E questo è vero a maggior ragione se i pagamenti saranno erogati in forma disaccoppiata: senza, cioè, alcun obbligo di produrre un dato prodotto. Tornando alla Mid-term review nel suo insieme, nonostante tutte le precisazioni ed i distinguo possibili, ci sembra si possa concludere che la proposta della Commissione del luglio 2002 è stata un passo avanti estremamente positivo: pur non rappresentando la soluzione finale ai problemi della Pac, con essa la Commissione ha iniziato a spingere nella giusta direzione e, soprattutto, ha avuto il grande merito di smuovere le acque ferme del dibattito sulla riforma della Pac, costringendo tutti a prendere posizione su scelte di lungo periodo. Purtroppo, questo dibattito rischia di essere stroncato sul nascere, e non è troppo paradossale affermare che ciò è avvenuto per l’azione congiunta delle due posizioni estreme prima descritte - quelle dei difensori dello status quo e dei paesi fortemente insofferenti alla Pac posizioni che, se non altro, la proposta della Commissione ha contribuito a far uscire allo scoperto. Da un lato, è emersa subito la ferma opposizione ad ogni riforma prima del 2006 da parte di un gruppo nutrito di paesi guidati dalla Francia 8. I ministri dell’agricoltura di questi paesi, comunque in grado di formare una minoranza di blocco in seno al Consiglio, il 23 settembre del 2002 hanno inviato ad alcuni quotidiani europei una lettera che si può considerare una sorta di manifesto della posizione vetero-ruralista prima descritta: in questa lettera, dopo un’appassionata difesa del ruolo storico insostituibile svolto dalla Pac negli ultimi trent’anni e dopo aver sdegnosamente respinto le “false accuse” circa gli effetti negativi della Pac sull’ambiente, la sicurezza alimentare, lo sviluppo dei paesi poveri ed il bilancio comunitario, i ministri dell’agricoltura (7) È forse il caso di ricordare che la motivazione con cui i pagamenti diretti della Pac sono stati introdotti nel 1992 con il pacchetto Mac Sharry, e successivamente rafforzati con Agenda 2000, era la necessità di compensare la riduzione dei prezzi d’intervento imposta dalla riforma delle organizzazioni comuni di mercato della Pac. Da qualche anno a questa parte si preferisce parlare di generici “aiuti diretti al reddito”, ma riguardo alle motivazioni di tali aiuti non sono state ancora date spiegazioni sostanzialmente diverse da quella della compensazione. D’altra parte, nel corso della trattativa sull’allargamento, molti stati membri dell’Ue a 15 si sono a lungo opposti all’estensione degli aiuti diretti ai nuovi stati membri, proprio con l’argomento che per gli agricoltori di questi paesi, non avendo essi subito le riduzioni di prezzo imposte della riforma Mac Sharry e da Agenda 2000, non c’era nulla di cui essere compensati. (8) Si tratta, oltre alla Francia, di Spagna, Austria, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo ed una delle due regioni del Belgio. 20 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles di tali paesi hanno argomentato l’illegittimità di andare oltre il mandato di una revisione di medio termine di taglio tecnico, e l’inutilità di svendere anticipatamente la Pac nel negoziato del Wto, soprattutto dopo il “buon esempio” dato dal nuovo Farm Bill statunitense 9. Dall’altro lato, le possibili conseguenze finanziarie dell’estensione della Pac a 10 nuovi Stati membri in conseguenza dell’imminente allargamento - per giunta di una Pac probabilmente non ancora riformata, dato il profilarsi di una maggioranza nel complesso sfavorevole alle modifiche proposte della Commissione - hanno indotto i paesi contributori netti, con la Germania in testa, a chiedere precise garanzie sul futuro: non tanto sulla necessità di fare sul serio con la Mid-term review, per mettere mano il più rapidamente possibile ad una riforma profonda della Pac per avviare a soluzione, tra gli altri, anche i suoi squilibri finanziari; quanto - più brutalmente - sulla necessità di porre un tetto alla crescita della spesa agricola, a prescindere da ogni altra considerazione. IL DIBATTITO SULLA PAC DOPO IL COMPROMESSO DI BRUXELLES Insomma, ancora una volta, sembra che la logica vincente sia stata quella dei veti incrociati, una logica che ha prodotto il compromesso franco-tedesco dello scorso 24 ottobre, alla vigilia del Consiglio di Bruxelles: con esso, l’imposizione di un vincolo alla crescita della spesa del primo pilastro della Pac dal 2006 al 2013, come voluto dalla Germania e dagli altri paesi contributori netti, è stato scambiato con l’impegno più o meno implicito a rinviare qualunque riforma a dopo il 2006, come auspicato dalla Francia e dagli altri paesi difensori dello status quo. In particolare, il Consiglio di Bruxelles ha approvato il piano di graduale introduzione nei nuovi Stati membri degli aiuti diretti della Pac, proposto a suo tempo dalla Commissione (Commissione Europea 2002a), che prevede l’erogazione di tali aiuti in misura progressivamente crescente rispetto all’ammontare ricevuto dai paesi dell’Ue a 15, e pari al 25% nel 2004, 30% nel 2005, 35% nel 2006 e 40% nel 2007. Successivamente, gli aiuti cresceranno con incrementi del 10% l’anno «in modo da garantire che i nuovi Stati membri raggiungano (9) Il nuovo Farm Bill statunitense (la cui denominazione precisa è Farm Security and Rural Investment Act) è stato approvato nel maggio del 2002. Esso rappresenta una sorta di ritorno al passato, con un cospicuo aumento della spesa a favore dell’agricoltura e, soprattutto, con la riattivazione di strumenti di sostegno “accoppiati” alla quantità prodotta, che erano stati aboliti dal precedente Fair Act del 1996. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 21 nel 2013 il livello di sostegno allora applicabile nell’Ue attuale». Inoltre - ed è questo il punto più rilevante - la spesa annua totale per azioni di mercato e pagamenti diretti in un’Unione a 25 «non potrà superare, nel periodo 2007-13, l’importo in termini reali del massimale della categoria 1.A per il 2006 stabilito a Berlino per l’Ue a 15 e il corrispondente massimale di spesa proposto per i nuovi Stati membri per il 2006» 10. Più in particolare «la spesa complessiva, in termini nominali, per azioni di mercato e pagamenti diretti, per ciascun anno nel periodo 2007-13, sarà mantenuta al di sotto di detta cifra per il 2006, maggiorata dell’1% annuo» (Consiglio Europeo 2002, p. 5). È chiaro che questa decisione, nella misura in cui ha contribuito a rimuovere il veto dei paesi contributori netti all’estensione della Pac ai nuovi stati membri, è da considerarsi un risultato politico importantissimo, che ha spianato la strada ad un allargamento dell’Unione Europea senza precedenti, sia per dimensioni che per rilevanza geo-politica. Tuttavia, dal punto di vista dei suoi effetti sul processo di riforma della Pac, bisogna riconoscere che si è trattato di un compromesso di basso profilo, che lancia segnali poco rassicuranti sulla futura evoluzione delle politiche agricole: ciò che sembra contare, infatti, non è il contenuto della nuova Pac, quanto la spesa che essa genera; quindi, si può anche mantenere in piedi una politica inefficiente, distorsiva ed obsoleta, a patto che la sua voracità finanziaria sia tenuta sufficientemente sotto controllo. Un tale messaggio è suonato come musica per le orecchie dei sostenitori dello status quo perché, almeno apparentemente, ha indebolito il principale argomento usato da Franz Fischler, il Commissario responsabile dell’agricoltura, per sostenere le ragioni di una riforma forte, che andasse oltre il mandato della Mid-term review, da decidere in tempi brevi. In base a tale argomento, l’opportunità di non aspettare la scadenza del periodo di applicazione di Agenda 2000 e di anticipare una riforma che comunque si sarebbe prima o poi dovuta fare, derivava dalla necessità di “prenotare” per tempo la dotazione finanziaria agricola per il periodo successivo al 2006, evitando che questa potesse essere, nel frattempo, erosa dall’esito del negoziato sulla ripartizione dei nuovi fondi strutturali per lo stesso periodo, che dovrebbe concludersi entro il 2004. In altre parole, ammoniva Fischler, il rinvio della riforma proposta con la Mid-term review avrebbe consentito il mantenimento dello status quo per altri tre anni, ma avrebbe anche comportato (10) Poiché la categoria 1A del Feoga Garanzia è quella che finanzia le politiche di mercato ed i pagamenti diretti, ciò significa che la spesa per sviluppo rurale, anche per la sua parte che ricade nel Feoga Garanzia, non è soggetta ad alcun vincolo. 22 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles il rischio di dover poi riformare la Pac in tempi stretti, con un vincolo di bilancio più severo, e probabilmente anche sotto la spinta di vincoli derivanti dal negoziato del Wto, destinato a chiudersi entro il 2005 (De Filippis 2002a). Ora, invece, la direttrice finanziaria è già decisa. Il vincolo di bilancio per la direttrice 1A del Feoga Garanzia, corrispondente alla gestione dei mercati ed alla erogazione degli aiuti diretti, è stato definito ad un livello che corrisponde ad una leggera riduzione in termini reali della dotazione del periodo 2000-06, con la non banale differenza che con tale dotazione finanziaria bisognerà gestire una Pac applicata a 25 paesi anziché a 15 e bisognerà trovare le risorse per avviare e completare la riforma dei comparti del latte e dello zucchero. Apparentemente questo vincolo di bilancio è molto stringente; dunque, anche in assenza di decisioni associate alla Mid-term review, potrebbe comportare la necessità di qualche taglio all’ammontare degli aiuti diretti, sempre che non si decida - ma la cosa sembra davvero improponibile - di cancellare qualunque riforma di comparti importanti quali latte e zucchero. Tuttavia, come sempre, è questione di punti di vista: il vincolo certamente è stringente rispetto al trend del passato, in cui la spesa agricola è aumentata ad un ritmo solo di poco inferiore a quello dell’intero bilancio comunitario, conservando in esso una quota largamente maggioritaria. Ma c’era davvero qualcuno che pensava che questo trend potesse continuare all’infinito? Non era largamente previsto o paventato che, nel quadro delle nuove direttrici finanziarie per il periodo 2007-13, la Pac avrebbe perso quote significative di spesa rispetto ad altre politiche? E che ciò sarebbe avvenuto soprattutto sul versante degli aiuti diretti, difficili da giustificare e mantenere inalterati nel lungo periodo? Rispetto ad una tale previsione, il vincolo imposto dal Consiglio di Bruxelles non è poi così drammatico, anche in considerazione del fatto che l’impatto finanziario dell’allargamento, a trattativa conclusa, si è rivelato molto meno devastante di quanto spesso ipotizzato e temuto in passato. In particolare, la tanto paventata estensione degli aiuti diretti della Pac ai nuovi stati membri comporterà un esborso certamente significativo in termini assoluti, ma relativamente modesto rispetto a quanto continueranno a ricevere gli agricoltori degli attuali 15 stati membri: in assenza di qualsiasi riforma, con la semplice continuazione di Agenda 2000, si tratterebbe di poco più di 5,3 miliardi di euro, contro gli oltre 30,7 miliardi riservati ai 15; mentre, se passassero le proposte di riforma della Mid term review, che comporterebbero un aumento dei pagamenti diretti per compensare la ulteriore riduzione dei prezzi di intervento e la riforma del settore latte, tali cifre salirebbero Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 23 rispettivamente a 5,8 e 36 miliardi di euro, con un rapporto comunque di circa 6 a 1 tra vecchi e nuovi stati membri 11. Non è certo questa l’occasione in cui fare conti precisi, anche perché l’informazione a riguardo è ancora molto confusa e carente. D’altra parte, non è neanche troppo importante, perché ci sono buoni argomenti per sostenere - facendo eco al commissario Fischler, che giustamente ha più volte insistito che la Mid-term review è viva e vegeta che una riforma della Pac da decidere prima del 2006 è oggi più che mai necessaria ed opportuna, qualunque sia la reale incidenza del vincolo di bilancio deciso con il vertice di Bruxelles. Del resto, nella risoluzione finale del Consiglio non vi è una parola che impedisca di procedere ad una decisione sul futuro della Pac prima del 2006; né è pensabile che ciò possa ragionevolmente accadere, dato che nei prossimi tre anni l’Ue dovrà concludere il negoziato agricolo nel Wto, sottoscrivendo impegni che comporteranno, implicitamente o esplicitamente, la necessità di portare qualche modifica alla attuale Pac. Inoltre, tornando al vincolo di bilancio, il fatto stesso di conoscerne con largo anticipo l’ammontare fino al 2013 è un elemento di grande importanza, che - se si volesse - consentirebbe di disegnare la nuova Pac con un minore grado d’incertezza riguardo alla variabile politicamente più importante. Se, infatti, il vincolo è destinato a rivelarsi davvero stringente, allora è necessario agire per tempo, mettendo ordine nelle misure e nei conti della Pac e stabilendo le giuste priorità d’azione, prima che una riforma dolorosa sia repentinamente imposta da un’emergenza finanziaria; se, invece, il vincolo non si rivelasse poi così severo come appare a prima vista, meglio ancora, perché si avrebbero più margini per gestire il processo di transizione dalla vecchia alla nuova Pac, con la possibilità di minimizzare i costi di aggiustamento che comunque bisogna mettere in conto. La recentissima presentazione della proposta di revisione di medio termine della Pac in forma di testi giuridici, mostra che la Commissione sembra essere proprio su questa linea, e che non intende recedere dall’approccio fortemente riformatore del documento presentato nel luglio 2002. La nuova versione della revisione di medio termine, infatti, a meno di qualche aggiustamento e di una diversa articolazione della modulazione, conserva pressoché intatto l’impianto delle proposte iniziali, ed anzi ad esse aggiunge l’avvio della riforma del (11) Questi conti si limitano ai dieci nuovi stati membri per i quali la trattativa è conclusa, e che entreranno a partire dal maggio 2004; dunque, non comprendono gli esborsi - certamente tutt’altro che irrilevanti - relativi all’eventuale ingresso di Romania e Bulgaria, per il quale la data indicativa è il 2007. 24 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles settore lattiero 12. Insomma, la Mid-term review va avanti, e nei prossimi mesi sapremo in che misura gli equilibri in seno al Consiglio consentiranno a Fischler di conservare la forte carica riformatrice della sua proposta; sapremo, in altre parole, se davvero può esserci dietro l’angolo un cambiamento di alto profilo, e se il dibattito sulla riforma della Pac è destinato a decollare o a languire ancora per qualche anno. In ogni caso, senza peraltro illudersi troppo, è necessario contribuire a mantenere comunque alta la tensione di tale dibattito che oggi - quanto, e forse più, di ieri - avrebbe molte buone ragioni per non essere abbandonato, come invece vorrebbero i difensori dello status quo. Infatti, per chi crede ancora che fare politica agraria sia un esercizio necessario e possibile nell’Ue, sarebbe troppo frustrante lasciare trascorrere inutilmente questi importanti anni di passaggio, rinunciando ad ogni tentativo di rigenerazione della Pac e rassegnandosi ad assistere malinconicamente al suo lento crepuscolo; con l’unica prospettiva di tirare a campare finché dura, aspettando che la resa dei conti sia imposta all’agricoltura dall’esterno. Riferimenti bibliografici Buckwell A., “Food Safety, Food Quality and the Cap”. Contributo al gruppo di lavoro dell’Akademie für Raumforschung und Landesplanung (Arl), su The Future role of Agriculture in Europe: Food Production versus Agri-environmental Responsibility, Hannover, 2002. http://www.arl-net.de/indexieeag.html. Coldiretti, La revisione di medio termine della politica agricola europea - prime valutazioni, Edizioni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, marzo 2003. Consiglio Europeo, Conclusioni della Presidenza - Consiglio Europeo di Bruxelles 24 e 25 ottobre 2002, SN 300/02, Bruxelles, 2002. http://europa.eu.int/council/off/conclu/index.htm. Commissione Europea, Ampliamento e agricoltura: una strategia di integrazione per i nuovi Stati membri dell’Ue, IP/02/176, Bruxelles, 30 gennaio 2002a. Commissione Europea, Revisione intermedia della politica agricola comune - Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, Com (2002) 394 def., Bruxelles, luglio 2002b. De Benedictis M., F. De Filippis, “L’intervento pubblico in agricoltura tra vecchio e (12) Per una descrizione ed una valutazione della versione più recente della proposta di revisione di medio termine presentata nel gennaio 2003, si veda Coldiretti (2003). Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 25 nuovo paradigma: il caso dell’Unione Europea”, La Questione Agraria, n. 71, 1998. De Filippis F. (a cura di), Le vie della globalizzazione: la questione agricola nel Wto, FrancoAngeli, Milano, 2002a. De Filippis F., “Un passaggio inevitabile”, Dossier Europa, n. 31, novembre 2002b. De Filippis F., L. Salvatici, “La politica agricola comunitaria: una riforma incompiuta”, Politica internazionale, 3, 1999; ripubblicato in Aa. Vv., Agricoltura e diritto, Milano, Giuffrè, 2000. Inea, Le politiche agricole dell’Ue, Rapporto 2001-02, Osservatorio sulle politiche agricole dell’Ue, Inea, Roma, 2002. Salvatici L., “Politica agricola comunitaria e (in)sicurezza degli alimenti”, AE, n. 0, ottobre 2001. Velazquez B., “Il concetto di multifunzionalità in agricoltura: una rassegna”, La Questione Agraria, n. 3, 2001. 26 La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles Il futuro delle politiche agricole Bertrand Hervieu Hervé Guyomard Jean-Christophe Bureau INTRODUZIONE Settore cruciale per numerosi paesi, settore atipico per i suoi legami con la natura, settore sensibile perché legato alla sicurezza dell’approvvigionamento alimentare nazionale e alla sicurezza degli alimenti, l’agricoltura è oggetto di particolari attenzioni da parte di quasi tutti i governi. In maniera a prima vista paradossale, i paesi in via di sviluppo, dove l’agricoltura è uno dei settori maggiori in termini di impiego e di valore aggiunto, intervengono meno dei paesi sviluppati. Per di più, i primi hanno la tendenza a tassare il settore agricolo mentre i secondi lo sostengono, spesso in maniera considerevole, con un complesso ventaglio di barriere all’importazione, di sostegno interno dei redditi e di sussidi alle esportazioni. L’agricoltura dei paesi sviluppati, ciononostante, sembra sempre più un settore economico come gli altri. Il suo contributo all’impiego nazionale e al prodotto interno lordo è molto debole oggi, e, per di più, in regressione (v. tabella 1). L’integrazione nel 1994 dell’agricoltura nel quadro generale del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) ha accelerato il processo di offuscamento delle sue peculiarità sul piano commerciale. Una tale banalizzazione economica si accompagna ad una banalizzazione culturale. Anche nell’Europa Occidentale, dove le radici rurali della popolazione urbana restano profonde e il legame con il territorio solido, i problemi agricoli non trovano più la stessa cassa di risonanza politica di vent’anni fa. Il ghiotto boccone fiTradotto da: B. Hervieu, H. Guyomard e J.C. Bureau, “L’avenir des politiques agricoles”, Ramses, Les Grandes Tendances du monde, 2001. Bertrand Hervieu, Hervé Guyomard e Jean-Christophe Bureau sono rispettivamente presidente, direttore di dipartimento e direttore di unità dell’Inra (Institut National de la Recherche Agronomique), Francia. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 27 TABELLA 1 Importanza dell’agricoltura nell’economia dei paesi dell’Ocse (in percentuale) Media 1986-1988 Media 1992-1994 1997 Peso dell’agricoltura nel Pil 2,8% 2,4% 2,1% Peso dell’impiego agricolo nella popolazione civile attiva occupata 8,7% 8,9% 8,2% Fonte: Ocse, Politiche agricole dei paesi dell’Ocse, monitoraggio e valutazione, 1999. nanziario della Politica Agricola Comune (Pac) è spesso percepito come un freno alla costruzione europea, privando di risorse settori almeno altrettanto strategici. Tutto ciò contribuisce a rendere difficilmente comprensibile l’attenzione dedicata all’agricoltura dalle politiche pubbliche dei paesi sviluppati. È questa, allora, la morte annunciata delle politiche agricole? Se il forte disimpegno dello Stato in Italia, nei Paesi Bassi o in Svezia ha dell’aneddotico, dal momento che le agricolture di questi paesi sono amministrate essenzialmente su scala comunitaria, non è così in altri paesi sviluppati, in particolare quelli del Pacifico. Il governo australiano non si occupa più di svolgere funzioni commerciali, uno degli ultimi settori dove ancora interveniva. In Nuova Zelanda, la riforma iniziata alla fine degli anni Ottanta ha praticamente soppresso ogni intervento pubblico. In Canada, il sostegno ai cereali, compresi gli aiuti al trasporto destinati a correggere gli squilibri naturali fra province, è praticamente scomparso e la dimensione dell’amministrazione agricola è stata notevolmente ridotta. Anche nei paesi più protezionisti e più attivi nel sostegno dei mercati interni (Stati Uniti, Giappone, Unione Europea, ecc.) l’impossibilità politica di sottrarre l’agricoltura alla disciplina generale del Gatt, conformemente agli impegni assunti a Marrakesh nel quadro dell’Accordo Agricolo dell’Uruguay Round (Aaur), ha generato riforme significative delle politiche agricole che hanno avuto come prima conseguenza la maggiore esposizione del settore alle regole del mercato. Molte organizzazioni internazionali tendono a sottolineare tale disimpegno dello Stato e a vedervi il modello verso cui si dovrebbero inesorabilmente evolvere tutti i paesi. Pure, giocoforza, si constata che il livello globale di sostegno pubblico all’agricoltura è rimasto pratica- 28 Il futuro delle politiche agricole GRAFICO 1 Stima del sostegno ai produttori (Pse in percentuale) per prodotto, 1998 Unione Europea 70 % 60 % 50 % 40 % 30 % 20 % 10 % 0% Grano Semi Zucchero Latte oleosi Carne bovina Carne Pollame Uova suina Semi Zucchero Latte oleosi Carne bovina Carne Pollame Uova suina Semi Zucchero Latte oleosi Carne bovina Carne Pollame Uova suina Stati Uniti 70 % 60 % 50 % 40 % 30 % 20 % 10 % 0% Grano Australia 70 % 60 % 50 % 40 % 30 % 20 % 10 % 0% Grano Nota: I Pse per prodotto sono soggetti a importanti fluttuazioni nel corso delle annate. Fonte: Commissione Europea, Direzione generale dell’agricoltura, L’agricoltura nell’Unione Europea, informazioni statistiche ed economiche, 1999. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 29 mente invariato nell’insieme dell’Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economico (Ocse) dall’inizio degli anni Ottanta. Questo livello può essere stimato in una equivalente sovvenzione alla produzione (Pse - Producer Subsidy Equivalent) di 274 miliardi di dollari nel 1998 (v. tabella 2). TABELLA 2 Valutazione del sostegno ai produttori agricoli nei paesi dell’Ocse (a) 1997 1998 (b) 1986-1988 1991-1993 1996-1998 Australia Milioni di dollari Pse in % 945 7 1.277 8 1.316 6 1.375 7 1.239 7 Canada Milioni di dollari Pse in % 5.641 34 5.738 30 3.262 15 2.988 14 3.176 16 Unione Europea (c) Milioni di dollari Pse in % 99.619 46 131.028 47 116.271 39 109.670 38 129.808 45 Giappone Milioni di dollari Pse in % 52.073 65 55.628 58 55.639 63 52.640 61 49.059 63 Nuova Zelanda Milioni di dollari Pse in % 478 11 86 2 85 1 105 2 44 1 Stati Uniti Milioni di dollari Pse in % 41.428 26 34.981 19 35.838 17 30.616 14 49.960 22 Totale Ocse Milioni di dollari Pse in % 246.561 41 292.005 39 258.984 33 245.546 32 273.649 37 (a) Il livello globale di sostegno ai produttori agricoli è qui misurato in Pse (Producer Subsidy Equivalent). Esso corrisponde al valore monetario dei versamenti lordi dei consumatori e dei contribuenti in favore dei produttori agricoli. Il Pse in percentuale rapporta questa grandezza al valore totale dei ricavi agricoli, compresi gli aiuti diretti. (b) Provvisorio. (c) Unione Europea dei 12 per gli anni dal 1986 al 1994, dei 15 a partire dal 1995. Fonte: Ocse, Politiche agricole dei paesi dell’Ocse, monitoraggio e valutazione, 1999. 30 Il futuro delle politiche agricole Nell’Unione Europea, le modalità dell’intervento pubblico sono certo mutate (aumento del sostegno grazie ad aiuti diretti finanziati dal contribuente e diminuzione dei prezzi di sostegno che penalizzano il consumatore), ma i livelli dei versamenti sono sempre molto elevati. In Canada, alcuni prodotti, il latte in particolare, restano fortemente amministrati e sostenuti. Negli Stati Uniti, la legge agricola del 1996 è stata integrata da misure di aiuto eccezionali in ragione di calamità agricole e dei ribassi dei prezzi mondiali. In questo paese, il sostegno pubblico ai produttori agricoli è aumentato di più del 50% fra il 1997 e il 1998, passando da 30,6 miliardi di dollari nel 1997 a quasi 42 miliardi di dollari nel 1998. Il calo della protezione e del sostegno interno, al quale si sono impegnati i paesi sviluppati firmatari dell’Aaur, è rimasto così assai limitato. Le acrobazie statistiche e giuridiche che i paesi hanno fatto per ridurre la portata dei loro impegni mostrano chiaramente la loro reticenza a riformare significativamente le politiche agricole. I fatti sembrano dimostrare che le politiche agricole pubbliche restano di attualità. Inoltre, si evidenziano in maniera crescente nuove preoccupazioni dei consumatori e dei cittadini in tema di ambiente, di sicurezza alimentare o di considerazioni etiche come il benessere animale. Questi aspetti, largamente trascurati in passato nella definizione delle politiche agricole, sono oggi in primo piano, come hanno mostrato diverse mobilitazioni di organizzazioni non governative, in particolare in occasione della riunione ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) a Seattle nel novembre 1999. Esse pongono ai responsabili di decisioni pubbliche nuove sfide che richiederanno un intervento, non fosse altro perché i conflitti sui metodi di produzione richiedono l’arbitrato dello Stato. GLI STRUMENTI TRADIZIONALI DELLE POLITICHE AGRICOLE VENGONO RIMESSI IN DISCUSSIONE I negoziati internazionali sul commercio costituiscono una forte pressione esterna per la rimessa in discussione dell’intervento dello Stato nel settore agricolo, e in particolare delle modalità di tale intervento. L’Aaur del 1994 rappresenta infatti la fine di un periodo in cui le politiche agricole erano, con l’eccezione di qualche concessione puntuale, elaborate indipendentemente dal Gatt. In futuro non sarà più così. L’accordo ha infatti segnato l’inizio di una nuova era nella concezione dell’intervento pubblico in agricoltura, sottoponendo que- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 31 st’ultima alla disciplina generale del Gatt e vincolando i livelli e le modalità delle politiche. Tutti i paesi sviluppati hanno dovuto adattare le loro politiche agricole, nel senso generale di un passo indietro dello Stato nell’amministrazione dei mercati. L’Aaur ha così messo fine ad alcune prerogative commerciali del presidente degli Stati Uniti in materia agricola. È stato inoltre un determinante essenziale della struttura della legge agricola americana del 1996, che svincola gli aiuti ordinari (vale a dire non straordinari) dalle scelte di produzione, e consacra, almeno in teoria, la volontà politica di una agricoltura retta essenzialmente dalle leggi della domanda e dell’offerta. L’Uruguay Round ha ugualmente obbligato l’Unione Europea a limitare le sovvenzioni all’esportazione verso paesi terzi e a rivedere i meccanismi di protezione all’importazione per la trasformazione delle barriere tariffarie e non tariffarie, in particolare i prelievi variabili in equivalenti tariffari, e la riduzione progressiva di questi ultimi. Ha fortemente condizionato le modalità della riforma della Pac del 1992, in particolare la diminuzione del sostegno attraverso i prezzi e la compensazione dei redditi attraverso aiuti diretti legati alla superficie coltivata e ai capi di bestiame. Dato che le possibilità di sovvenzionare le esportazioni dovrebbero nuovamente essere ridotte in occasione del Millennium Round, l’Unione Europea ha proseguito, in occasione della riforma Agenda 2000 del 1999, il movimento iniziato nel 1992 di ribasso dei prezzi garantiti e di compensazione attraverso gli aiuti diretti. L’immobilismo sarebbe infatti approdato ad un aumento insostenibile delle riserve comunitarie per molti prodotti agricoli, riserve che non sarebbe stato possibile indirizzare verso paesi terzi a causa dei limiti alle sovvenzioni all’esportazione e delle differenze tra i prezzi europei e quelli mondiali 1 (v. grafico 2). Esattamente come durante l’Uruguay Round, il dossier agricolo sarà al cuore dei negoziati multilaterali del Millennium Round. È presumibile che le discussioni verteranno su nuove diminuzioni delle sovvenzioni alle esportazioni e delle misure di sostegno interno quando questo è legato ai prodotti (sostegno diretto della scatola gialla), e su ulte(1) Per una sintetica presentazione dell’Aaur e delle sue implicazioni, si veda, per esempio, Bureau e Bureau (1999). La legge agricola americana del 1996 e le sue conseguenze per l’Unione Europea in termini di definizione di una posizione negoziale all’Omc sono descritte in Guyomard et al. (2000). La riforma della Pac del maggio 1999 e le sue conseguenze per l’Unione Europea in termini di compatibilità con i negoziati agricoli del Millennium Round sono descritte in Desquilbet et al. (1999). 32 Il futuro delle politiche agricole GRAFICO 2 Spese del Feoga Garanzia per settore, 1998, in milioni di Euro 20.000 16.000 12.000 8.000 4.000 0 Seminativi Latte e prodotti caseari Carne bovina Di cui restituzioni all'esportazione Carne suina Zucchero Di cui aiuti diretti Fonte: Commissione Europea, Direzione generale dell’agricoltura, L’agricoltura nell’Unione Europea, informazioni statistiche ed economiche, 1999. riore ampliamento delle possibilità di accesso ai mercati. Inoltre, è più che verosimile che numerosi paesi cercheranno di rendere più severi i criteri di definizione degli strumenti di sostegno utilizzabili, affinché abbiano effetti distorsivi molto deboli sugli scambi (sostegno disaccoppiato, detto della scatola verde). Le sovvenzioni americane ed europee all’esportazione (nel caso degli Stati Uniti, in una forma indiretta attraverso la politica dei crediti all’esportazione e la politica di aiuto alimentare internazionale) sono osteggiate da quasi tutti i paesi terzi. Nel 1996, l’Unione Europea rappresentava così quasi l’84% del valore mondiale delle sovvenzioni (propriamente dette) agricole e agroalimentari all’esportazione, il secondo paese era il Sud Africa (che ha messo fine a questa pratica nel 1997), e gli Stati Uniti che contavano solo l’1,4%. Ma questo paese concentra quasi l’80% delle misure mondiali messe in atto per le politiche dei crediti all’esportazione. Tale 80% consiste in 5 miliardi di dollari circa, e costituisce il 10% del valore delle esportazioni agricole americane. L’abilità politica degli Stati Uniti ha permesso di escludere finora questi crediti all’esportazione dagli impegni internazionali di riduzione. Lo stesso dicasi delle misure di aiuto alimentare, nazio- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 33 nale ed internazionale, attraverso vendite con crediti agevolati o donazioni. Questi due punti saranno verosimilmente oggetto di difficili discussioni durante il Millennium Round. Consideriamo inoltre che il tema delle Imprese Commerciali di Stato (Ics) deve essere esaminato in modo da evidenziare i loro effetti distorsivi sugli scambi, e, se necessario, prendere misure restrittive qualora tali effetti risultino chiaramente. Le sovvenzioni all’esportazione (definite in senso lato) portano all’immissione sul mercato mondiale di prodotti a prezzi inferiori ai costi di produzione degli agricoltori locali. La loro eliminazione progressiva sembra dunque ineluttabile, dal momento che essa è la condizione primaria della definizione di un commercio agricolo mondiale basato prima di tutto su vantaggi comparati. Per la stessa ragione, le restrizioni di accesso ai mercati devono essere ridotte progressivamente, in particolare nei paesi sviluppati esportatori che oggi proteggono e sostengono la loro agricoltura. Il problema è più delicato nei casi di politiche di sostegno interno. Numerosi paesi difendono la posizione secondo la quale le politiche agricole di sostegno contribuiscono a generare un’agricoltura multifunzionale che, oltre a produrre beni, contribuisca ugualmente al mantenimento e allo sviluppo del mercato del lavoro, alla pianificazione rurale, alla tutela delle risorse e alla protezione dell’ambiente, così come alla sicurezza alimentare. Per questi paesi, tali diverse funzioni sono indissociabili. All’opposto, molti paesi sviluppati non sostengono affatto (o sostengono poco) la loro agricoltura (ad esempio, l’Australia e la Nuova Zelanda) e molti paesi in via di sviluppo ritengono che la difesa della multifunzionalità non sia che un protezionismo mascherato. La pressione esterna dell’Omc non è l’unico fattore che spinge ad una riforma delle politiche agricole. Nell’Unione Europea, vi si aggiungono i vincoli di bilancio e l’allargamento ai paesi dell’Europa centrale ed orientale. In maniera più generale, la trasparenza delle politiche di sostegno è tanto maggiore quanto più tale sostegno è assicurato tramite versamenti diretti finanziati dai contribuenti. Questa accresciuta visibilità è certo un punto positivo. Porta tuttavia in germe la possibile rimessa in discussione della legittimità delle politiche agricole, tenuto conto della posta in gioco e del legame sempre più debole tra sostegno e attività di produzione, causato dal necessario disaccoppiamento. Tale visibilità mette in luce la questione degli effetti redistributivi delle politiche agricole, fra agricoltori in primo luogo e fra questi ultimi e le altre categorie socio professionali in secondo luogo. Essa induce allora, naturalmente, a mettere in dubbio la legittimità dell’intervento pubblico. 34 Il futuro delle politiche agricole GLI OBIETTIVI DELLE POLITICHE AGRICOLE Le spese agricole dell’Europa dei 15 (sezione garanzia del Fondo europeo d’orientamento e di garanzia agricola) ammontano oggi a circa 40 miliardi di Euro. Esse rappresentano più della metà del budget comunitario. Le somme destinate dagli Stati Uniti al sostegno finanziario della loro agricoltura sono solo leggermente inferiori. A questi versamenti monetari si aggiungono un sostegno da parte dei consumatori - i quali, molto spesso, acquistano i beni agricoli e agroalimentari a prezzi nettamente più elevati rispetto ai prezzi mondiali (è il caso dei prodotti caseari, dello zucchero o della carne bovina nell’Unione Europea) - e anche i costi, spesso trascurati, di amministrazione e di gestione 2. Le politiche agricole sono sempre state giustificate sulla base di un insieme assai vasto di obiettivi, insieme variabile nel tempo e nello spazio. L’articolo 39 del Trattato di Roma associava in tal modo alla Pac nascente quattro obiettivi principali, nel caso specifico quello di incrementare la produttività agricola, assicurare un equo livello di vita alla popolazione agricola, stabilizzare i mercati e garantire un approvvigionamento del mercato a prezzi ragionevoli per il consumatore. La riforma della Pac del maggio 1999 ha allargato lo spettro degli obiettivi, poiché intendeva contemporaneamente incrementare la competitività del settore agricolo, promuovere un’agricoltura di qualità rispettosa dell’ambiente e del territorio, proteggere i redditi degli agricoltori, consentire un maggior margine di manovra agli Stati membri in applicazione del principio di sussidiarietà, e semplificare i meccanismi di regolamentazione pubblica in materia agricola. La legge d’orientamento agricolo francese del 9 luglio 1999 è ancora più ambiziosa, definendo quindici obiettivi che prendono in considerazione gli aspetti economici, ambientali, territoriali e sociali dell’attività agricola (v. appendice 1). Gli obiettivi espliciti delle politiche agricole dei paesi sviluppati includono l’incremento della competitività e della produttività del settore agricolo, la garanzia di un livello di vita soddisfacente ed equo per gli agricoltori, la stabilizzazione dei redditi e dei prezzi, il mantenimento di un numero sufficiente di imprese agricole e la difesa del carattere familiare di queste ultime, la sicurezza degli approvvigionamenti per i consumatori nazionali a prezzi ragionevoli e stabili, la protezione dell’ambiente, la gestione del territorio, lo sviluppo delle zone (2) Il sostegno totale alla produzione agricola è, negli Stati Uniti, inferiore di circa 2,5 volte rispetto all’Unione Europea (cfr. tabella 2). I sostegni in rapporto al numero di agricoltori sono equivalenti (circa 15.000 dollari negli Stati Uniti ed un po’ più di 16.000 dollari nell’Unione Europea). Sono invece nettamente inferiori negli Stati Uniti rispetto all’Europa se il calcolo è fatto per ettaro di terra agricola (nel 1996-97, rispettivamente 85 e 801 dollari). Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 35 rurali, ecc. In molti paesi sviluppati, gli obiettivi legati alle funzioni non strettamente produttive dell’agricoltura, essenzialmente quelle ambientali e territoriali, acquistano oggi un’importanza crescente. Le misure concrete destinate a soddisfarli sono tuttavia ancora molto deboli, rispetto a quelle messe in atto per gli obiettivi del sostegno e della stabilizzazione. Come mostrano gli esempi seguenti, gli obiettivi delle politiche agricole sono spesso definiti in maniera imprecisa: quale produttività si cerca di promuovere: la produttività totale dei fattori, la produttività del lavoro, un’altra forma di produttività? Quale variabile si cerca di stabilizzare: l’offerta, i prezzi, i ricavi, i redditi? In che modo deve essere garantita la sicurezza degli approvvigionamenti: attraverso la ricerca dell’autosufficienza, la diversificazione delle fonti delle importazioni, lo sviluppo delle capacità di stoccaggio? ecc. Malgrado tale imprecisione, e anche se non c’è una gerarchizzazione esplicita degli obiettivi delle politiche, il sostegno dei redditi agricoli è stato, ed è ancora, la motivazione fondamentale. Il sostegno dei redditi agricoli Senza affrontare la questione della legittimità e della fondatezza dell’obiettivo del sostegno dei redditi agricoli, ci si può solo interrogare sulle misure attuate: gli strumenti utilizzati sono i migliori possibili (nel senso che non esistono altri strumenti, o combinazioni di strumenti, che permettano di raggiungere l’obiettivo ad un costo inferiore per l’insieme della società)? L’analisi è resa più difficile dal fatto che una stessa politica può essere utilizzata per la realizzazione, esplicita o implicita, di più obiettivi. Il meccanismo dell’intervento, utilizzato nell’Unione Europea, cioè l’acquisto da parte degli organismi pubblici delle quantità offerte ad un prezzo minimo, permette simultaneamente di sostenere e stabilizzare i prezzi agricoli. Può darsi anche, ed è spesso questo il caso, che la politica attuata allo scopo di sostenere i redditi agricoli determini effetti negativi sulla realizzazione di un altro obiettivo. La specializzazione dell’agricoltura europea, sia in senso estensivo (riconversione delle praterie) sia in senso intensivo (incremento degli erbicidi chimici, concimi e prodotti di trattamento delle colture, utilizzati per ettaro), è stata chiaramente favorita dal sostegno dei prezzi agricoli. Dal punto di vista strettamente economico, se l’obiettivo primario del regolatore pubblico è quello di assicurare un certo livello di reddito ai produttori agricoli, allora lo strumento più efficace è presumibilmente un trasferimento dai contribuenti ai produttori. Un trasferimento che non abbia l’effetto di aumentare i prezzi alla produzione e al consumo, 36 Il futuro delle politiche agricole svincolato il più possibile dalle condizioni di produzione (tipologie, quantità e prezzi). Gli effetti distorsivi sugli scambi di un tale strumento sono deboli, almeno rispetto a quelli provocati da strumenti alternativi, come l’aiuto accoppiato alla produzione o il sostegno diretto del prezzo. L’appendice 2 dell’Aaur definisce precisamente i diversi criteri che un trasferimento diretto deve rispettare per un impatto distorsivo minimo sugli scambi, almeno in teoria. La realtà è naturalmente più complessa, non foss’altro perché le misure di sostegno dei redditi agricoli sono raramente applicate a partire da una situazione iniziale di laissez-faire o perché sono messe in atto congiuntamente ad altre politiche, per altri obiettivi, che aprono la via subottimale ad una politica di trasferimenti diretti disaccoppiati (cfr., ad esempio, Bourgeon e Chambers 2000). La stabilizzazione Se c’è un ambito in cui l’agricoltura non è affatto un settore produttivo come gli altri è senza dubbio quello dei rischi, siano essi climatici, biologici, economici, ecc. I rischi economici sono essenzialmente legati alla scarsa elasticità della domanda, così che variazioni deboli dell’offerta hanno impatti molto forti sul prezzo. Un argomento tradizionale a favore dell’intervento pubblico nel settore agricolo è difatti quello della gestione dei rischi e del contenimento dell’instabilità che ne consegue. L’obiettivo della stabilizzazione può essere rappresentato dai redditi, i prezzi, le quantità, i mercati, ecc. Esiste quindi un ventaglio molto ampio di strumenti di stabilizzazione. Sul piano della teoria economica in senso stretto, la giustificazione di un intervento pubblico per un obiettivo di stabilizzazione è l’incremento del benessere collettivo che essa genera rispetto ad un regime di laissez-faire. Siamo chiaramente in presenza di un fallimento di mercato che apre la via a politiche pubbliche destinate a correggerla. A questo stadio, è importante sottolineare che il fallimento di mercato non è costituito dal rischio o dall’instabilità dei mercati agricoli, notoriamente più elevati qui che in altri settori produttivi. Essa è legata all’incompletezza dei mercati a termine e contingenti, vale a dire alla difficoltà, se non all’impossibilità, di gestire i rischi. Tale incompletezza è senza dubbio uno degli argomenti più convincenti per rimettere in discussione la supposta efficienza dei mercati sulla quale si fonda il movimento di liberalizzazione degli scambi. Questo punto è particolarmente importante per i paesi in via di sviluppo che non dispongono di mezzi istituzionali e finanziari sufficienti per mettere a punto degli strumenti efficaci di lotta contro l’instabilità. La relazione di Stiglitz (1999) che invitava a tenere conto delle specificità dei paesi in via di Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 37 sviluppo e a non applicare loro delle ricette precostituite in materia di politica economica e di liberalizzazione degli scambi è particolarmente valida per le politiche agricole 3. Nei paesi sviluppati, il problema è soprattutto quello dell’efficacia degli strumenti di gestione dei rischi utilizzati attualmente. La prima Pac basata sui meccanismi d’intervento, sui prelievi variabili e sulle restituzioni variabili permetteva di mirare simultaneamente all’obiettivo del sostegno dei prezzi agricoli e a quello della loro stabilizzazione, isolando il mercato europeo da quello mondiale. Negli scenari di liberalizzazione/disaccoppiamento delle politiche agricole si riproporrà un problema analogo. Di qui la necessità per l’Unione Europea di politiche di stabilizzazione nuove e complete. La sicurezza alimentare Il timore di una interruzione negli approvvigionamenti è, storicamente, uno dei principali argomenti per giustificare l’intervento dello Stato nel settore agricolo. La Pac, per esempio, è stata messa in atto all’indomani della seconda guerra mondiale in un contesto in cui il ricordo delle tessere di razionamento era ancora molto vivo. È opportuno distinguere nuovamente paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. La ricerca della sicurezza alimentare è un obiettivo centrale di numerosi paesi in via di sviluppo importatori di prodotti agricoli e agroalimentari. Sottolineiamo subito che sicurezza alimentare e autosufficienza alimentare non sono sinonimi. Il primo concetto è più ampio, dal momento che corrisponde alla combinazione di tre elementi: la crescita e la regolarità dell’offerta domestica, la sicurezza e la diversificazione delle importazioni, lo sviluppo delle capacità nazionali di stoccaggio per fronteggiare situazioni di crisi. L’obiettivo di sicurezza alimentare è inoltre giustificato da quanto hanno dimostrato le esperienze passate, e cioè che i paesi in via di sviluppo che non hanno sacrificato i loro approvvigionamenti agricoli hanno avuto, salvo rare eccezioni, maggiore successo di quelli che hanno invece trascurato questo aspetto. I lavori della Banca Mondiale evidenziano che i paesi in via di sviluppo che hanno concordato una protezione leggera alla loro agricoltura sono cresciuti, nei decenni 60, 70 e 80, due volte più velocemente di (3) «We know that developing countries face greater volatility, that opening to trade in fact contributes to that volatility, that developing countries have weak or non-existent safety nets, and that high unemployment is a persistent problem in many if not most developing countries. The developed and less developed countries play on a playing field that is not level. Thus, provisions that look fair on the surface may have very different and unequal consequences for the developed and less developed countries» (Stiglitz 1999). 38 Il futuro delle politiche agricole quelli che hanno tassato il loro settore agricolo (Schiff e Valdes 1993). Bisogna distinguere due aspetti nella sicurezza alimentare, quello dell’approvvigionamento a livello nazionale, in cui sono importanti le considerazioni geopolitiche, e quello della distribuzione dei beni alimentari a tutti i consumatori del paese preso in considerazione, che rimanda alle questioni del prezzo degli alimenti e delle politiche ridistributive macroeconomiche. Basandosi sull’argomento della sicurezza alimentare nazionale è tuttavia difficile giustificare i gradi attuali di sostegno e di protezione rilevati nei paesi sviluppati. Anche condividendo il punto di vista del Generale de Gaulle secondo il quale «un paese che non è in grado di alimentarsi da solo non è un grande paese» e soprattutto se si considera che questo principio ha una portata universale, ciò non implica il fatto di spendere molti miliardi di Euro o di dollari in sovvenzioni alla produzione e all’esportazione. Già dalla fine degli anni 60, alcune voci minoritarie in Europa avevano denunciato il paradosso insito nel difendere il sostegno dei prezzi alla produzione, per eliminare carenze alimentari in un insieme geografico che in realtà risultava sempre più eccedente di prodotti agricoli di zona temperata (Rapporto Vedel in Francia, Memorandum Mansholt a livello della Comunità Europea). Più in generale, Winters (1989) mostra l’inconsistenza dell’argomento dell’autoapprovvigionamento alimentare come giustificazione delle politiche di protezione e sostegno nei paesi sviluppati. Per la maggior parte dei paesi dell’Ocse, l’autoapprovvigionamento è reso possibile solo grazie a delle importazioni di prodotti energetici e chimici (concimi, prodotti di trattamento delle colture, ecc.). Se è opportuno relativizzare l’argomento della sicurezza alimentare nazionale, o più precisamente dell’autoapprovvigionamento, nei paesi sviluppati, è tuttavia necessario insistere sul ruolo potenziale delle politiche attuate a questo fine in termini di stabilità internazionale delle quantità e dei prezzi. Le riforme delle politiche agricole dei paesi sviluppati di questi ultimi anni hanno permesso di ridurre le eccedenze e i costi di stoccaggio corrispondenti. Ma in realtà bisogna considerare che le riserve mondiali di cereali basterebbero appena per una ventina di giorni di consumo, se cessassero le produzioni. L’incertezza sul cambiamento climatico non mette al riparo dai rischi di una impennata dei tassi di cambio, che metterebbe in serio pericolo l’approvvigionamento dei paesi meno solvibili del pianeta. I paesi ricchi devono avere un ruolo maggiore sulla stabilizzazione dei corsi mondiali, e gli strumenti devono essere definiti chiaramente a livello internazionale in maniera concertata. Questo punto meriterebbe di essere al centro dei negoziati internazionali. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 39 Lo sviluppo rurale Una giustificazione delle politiche agricole, sostenuta in modo particolare dall’Unione Europea, è il loro contributo allo “sviluppo rurale”. Questa definizione include una serie di aspetti che vanno dalla ripartizione equilibrata della popolazione sul territorio allo sviluppo economico delle zone rurali. Le ricerche in geografia economica hanno mostrato l’importanza degli effetti di scala e di sinergia nella localizzazione delle attività economiche. Se la popolazione di una zona rurale scende al di sotto di una soglia, si innesca allora un circolo vizioso che porta alla scomparsa dei servizi collettivi (posta, scuola, ecc.), delle infrastrutture (mancanza di manutenzione, mancanza di introiti fiscali, ecc.), delle attività di produzione e all’esodo delle popolazioni. La politica agricola può, a un costo ragionevole, permettere il mantenimento di una popolazione sufficiente ad evitare questa dinamica negativa. Tuttavia, la giustificazione delle politiche agricole in nome dello sviluppo rurale solleva un certo scetticismo da parte di molti paesi, poiché l’argomento può essere utilizzato anche per giustificare politiche agricole che hanno un impatto trascurabile su determinate regioni. Questa osservazione si adatta in modo particolare alle politiche di sostegno dei prezzi e degli aiuti accoppiati alla produzione. Se l’impatto economico del declino delle zone rurali marginali non deve essere sopravvalutato, non più delle conseguenze ambientali legate all’abbandono dei terreni agricoli (del resto spesso più positive che negative), l’attaccamento ai valori culturali e al mantenimento dei paesaggi è forte nelle “vecchie” società sviluppate. C’è qui materia per giustificare un intervento dello Stato. Ma esso passa attraverso strumenti specifici e mirati di politica agricola (promozione delle denominazioni di origine, protezione delle competenze tradizionali, politiche di qualità e di differenziazione dei prodotti), e, ancor più, non agricola (sviluppo delle infrastrutture, del turismo, dell’artigianato, delle piccole industrie, ecc.). Più in generale, questi obiettivi possono essere raggiunti solo attraverso un riorientamento significativo delle politiche agricole, verso un insieme di funzioni più ampio rispetto alla sola produzione di beni alimentari. L’offerta di beni pubblici La remunerazione dei servizi territoriali e ambientali costituisce un’altra giustificazione delle politiche di sostegno all’agricoltura. Questi servizi hanno spesso le caratteristiche proprie dei beni pubblici e pertanto non sono forniti in maniera ottimale sul libero mercato. C’è 40 Il futuro delle politiche agricole dunque un fallimento del mercato potenziale e la legittimazione economica di un intervento dello Stato. La specificità del settore agricolo risiede nel fatto che l’attività di produzione è in grado, secondo le tecnologie impiegate, di creare o al contrario di distruggere questi servizi, siano essi la biodiversità, il mantenimento dei paesaggi, la qualità delle falde freatiche, persino il benessere animale. Tuttavia, l’affermazione secondo la quale l’agricoltura produce più beni pubblici di quanti non ne degradi, utilizzata per giustificare il livello di sostegno attuale in numerosi paesi sviluppati, non è realmente documentata (o, perlomeno, non è stabilita con sufficiente certezza). In Francia, per esempio, tutti i rapporti dell’Istituto francese dell’ambiente mostrano la gravità dei rifiuti inquinanti dell’agricoltura. La contaminazione delle acque di superficie ad opera dei nitrati si generalizza; l’inquinamento di fiumi e falde da parte dei pesticidi è difficilmente reversibile; le pratiche malcondotte dell’irrigazione, favorite tra l’altro da un basso costo dell’acqua, sono una minaccia per le falde; i tassi di materia organica dei suoli agricoli si abbassano significativamente, in particolare nella Beauce, la Brie, l’Aquitaine e il Roussillon; le zone delle grandi colture cominciano a soffrire di fenomeni di erosione, ecc. Considerazioni analoghe possono essere fatte per la maggioranza dei paesi (El Feki 2000). Tali effetti negativi sono molto spesso esacerbati dalle politiche agricole, che non hanno saputo responsabilizzare gli agricoltori rispetto ai costi sociali che essi generano, e addirittura lo stesso inquinamento è indirettamente sovvenzionato, se si considerano i contributi all’irrigazione, il sostegno dei prezzi che spinge all’utilizzazione dei concimi e dei prodotti di trattamento, i differenziali nei contributi fra il mais insilato e i pascoli estensivi, ecc. QUALE AVVENIRE PER LA POLITICA AGRICOLA COMUNE? La Pac è più che mai sotto i riflettori della scena internazionale. Al giorno d’oggi, non è più possibile pretendere di perseguire certi obiettivi legittimi, come la protezione dell’ambiente o il sostegno alle regioni più disagiate, mantenendo strumenti incoerenti con questi obiettivi. Numerosi fattori, interni (efficacia economica delle politiche, vincoli di bilancio, ecc.) ed esterni (negoziati internazionali dell’Omc, allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa centrale ed orientale), inducono a limitare l’uso degli strumenti tradizionali di politica agricola, come il sostegno dei prezzi a dei livelli elevati o la pratica si- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 41 stematica delle sovvenzioni all’esportazione. Ma ciò non significa per nulla la fine della politica agricola. Di fronte alle nuove attese della società, lo Stato è il solo ad essere in grado di attuare gli incentivi necessari perché siano remunerati efficacemente i servizi ambientali e territoriali prodotti dagli agricoltori. Di fronte alle rivoluzioni scientifiche in corso (biotecnologie), lo Stato deve più che mai assicurare la sua funzione primaria di garante della sicurezza dei cittadini. Di fronte alle sfide da raccogliere (per esempio, la gestione sostenibile delle risorse naturali come l’acqua), lo Stato deve giocare un ruolo essenziale nella creazione di condizioni favorevoli ad una innovazione che produca benefici per tutti e preservi il futuro. Gli strumenti classici di politica agricola possono inoltre mantenere un ruolo importante, poiché è necessario accompagnare la transizione, che non può che essere progressiva. Quest’ultima passa attraverso la concessione di sovvenzioni e di compensazioni, in nome dell’equità prima di tutto, ma anche, e forse soprattutto, per far accettare agli agricoltori le riforme che è opportuno attuare. Inoltre, fra gli strumenti tradizionali, alcuni sono necessari a correggere le disfunzioni dei mercati. Una politica di prezzi base non troppo alti, mirante a stabilire una «rete di sicurezza” è senza dubbio una soluzione abbastanza buona per lottare contro l’instabilità. Quattro principi devono oggi guidare la politica agricola dell’Unione Europea: stabilizzare, proteggere il consumatore, assicurare la fornitura dei beni pubblici e permettere l’evoluzione equa ed equilibrata del settore verso un modello agricolo europeo multifunzionale e accettato dai nostri partner commerciali. Stabilizzare L’analisi economica normativa raccomanda l’uso di strumenti diversi per garantire un reddito equo ai produttori, da un lato, per remunerare ed allocare efficacemente le risorse, dall’altro. Essa suggerisce di fare ricorso a trasferimenti quanto più possibile forfettari (cioè disaccoppiati dalle produzioni) per l’obiettivo di ridistribuzione, e di fondarsi sul sistema di prezzo di mercato concorrenziale per raggiungere l’efficacia allocativa delle risorse. Questo paradigma, valido per ogni attività economica, non può essere ignorato quando è in discussione la regolarizzazione dei mercati agricoli. Nonostante ciò, esso trova i suoi limiti nei problemi di informazione e di incompletezza dei mercati, i cui rischi sono molto evidenti in agricoltura. Una delle funzioni dello Stato è offrire una stabilità economica soddisfacente alle imprese agricole. È necessario mettere in atto strumenti specifici miranti a ridurre le 42 Il futuro delle politiche agricole fluttuazioni dei corsi. Gli strumenti finanziari, quali i mercati a termine, sono senza dubbio un mezzo appropriato ad assicurare la ripartizione di tale rischio. Permettono infatti di coprire una operazione di vendita futura, che comporta rischi di prezzo, attraverso delle operazioni in senso inverso. Dispositivi di assicurazione del reddito e di assicurazione del raccolto possono ugualmente rivelarsi utili nei confronti di rischi a più lungo termine, rispetto a quello della campagna. Simili assicurazioni funzionano oggi in numerosi paesi sviluppati, nella maggior parte dei casi con la partecipazione finanziaria dello Stato. Ma, come mostra l’esempio recente degli Stati Uniti, non è certo che questi strumenti specifici siano sufficienti. Prezzi garantiti elevati sono costosi per la collettività e socialmente ingiusti poiché fanno gli interessi di un gruppo particolare, quello dei grandi produttori. Essi sono fonte di eccedenze che devono essere vendute sottocosto sui mercati mondiali, procedimento, questo, che a lungo termine non è sostenibile, non fosse altro che per il rispetto da parte dell’Unione Europea delle regole multilaterali del commercio. Ciononostante, un prezzo garantito permette agli operatori economici di prendere decisioni con meno incertezze riguardo al futuro. Il ruolo della stabilizzazione dei prezzi, che richiede un certo livello di protezione alle frontiere, produce quindi vantaggi per la collettività nazionale riducendo l’indennità di rischio richiesta dai produttori e pagata, alla fine, dai consumatori. Inoltre, la situazione relativa degli agricoltori nella scala dei redditi, ed ancor più la variabilità di tali redditi a seconda degli anni, mostrano il bisogno di reti di protezione su una base permanente per ragioni sociali, salvo immaginare degli strumenti che oltrepassino il quadro settoriale, come una eventuale assegnazione di reddito uguale per tutti sulla quale il dibattito non fa progressi. In definitiva, il mantenimento di un prezzo base, come il prezzo di intervento europeo, è senza dubbio una saggia soluzione a medio termine. Difendere questa idea sul piano internazionale rende necessario accettare un ribasso adeguato dei prezzi garantiti, così come è stato fatto nel caso dei cerali. Gli Stati Uniti, che hanno conservato il loro sistema di prezzi base (il loan rate) condividerebbero certo questa idea senza troppe difficoltà. Proteggere i consumatori È difficile immaginare l’avvenire senza il ricorso alle biotecnologie. Al traguardo del 2020, l’International Food Policy Research Institute ritiene che sarà necessario aumentare del 40% l’offerta di cereali per fronteggiare i bisogni del pianeta, in particolare nei paesi in via di svi- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 43 luppo. Non è certo che il mercato possa assicurare tale aumento, e inoltre in modo permanente, senza le biotecnologie. Infatti, il crescente impiego di erbicidi, alla base delle rivoluzioni verdi, trova il suo limite principale nei danni provocati alla risorsa acqua e più in generale all’ambiente 4. A livello mondiale, quasi il 20% delle terre irrigue, che producono il 40% dei prodotti alimentari di origine agricola, soffrono oggi della salinizzazione (El Feki 2000). Ma le biotecnologie fanno paura. La loro innocuità non è dimostrata e il loro sviluppo non può essere lasciato al solo controllo del settore privato, che non ha la visione a lungo termine necessaria per compiere le scelte più appropriate per l’insieme della società; è anche noto che il loro sviluppo può avvenire creando situazioni di monopolio inaccettabili nella gestione delle risorse genetiche e delle filiere delle sementi. Più in generale, le nuove aspettative dei consumatori e dei cittadini nei confronti della politica agricola fanno affidamento alla funzione di protezione esercitata dallo Stato. Nel Regno Unito, coloro che trovano esorbitante il budget agricolo dell’Unione Europea sono le stesse persone che domandano ai poteri pubblici di intervenire di più per regolamentare la qualità sanitaria dei prodotti agricoli (uova, pollame, ecc.), limitare l’utilizzazione dell’ingegneria genetica o regolamentare il trasporto e la macellazione degli animali. In tempi recenti, l’Unione Europea ha preso numerose misure per rafforzare i dispositivi che garantiscono la sicurezza degli alimenti, in particolare stabilendo alcune direttive comunitarie in questo settore. Molti Stati membri, tra cui la Francia e il Regno Unito, si sono dotati di un’agenzia specifica. Ciononostante, le analisi economiche sulla protezione dei consumatori evidenziano che combinazioni di incentivi possono essere più efficaci del semplice vincolo di legge per assicurare uno sforzo di qualità da parte delle imprese. Tali combinazioni possono includere aiuti o procedure di responsabilità. La certificazione delle imprese agricole merita di essere analizzata alla luce della posta in gioco. Riorientare il sostegno dalla quantità verso la qualità, tramite incentivi alle imprese agricole e agli enti di certificazione, deve essere una componente essenziale della Pac del domani. Remunerare l’offerta di amenità e di beni pubblici Come sostengono Mahé e Laroche-Dupraz (2000), la nuova legittimità di una politica agricola e rurale va trovata negli obiettivi di soli(4) Cfr. anche il contributo di Pierre-Alain Roche, L’eau au XXIe siècle: enjeux, conflits, marché, in Ramses, Les Grandes Tendances du monde, 2001. 44 Il futuro delle politiche agricole darietà per la coesione sociale europea e di remunerazione dei servizi pubblici offerti. Questi comprendono il mantenimento e il miglioramento dei paesaggi agrari nazionali, così come la partecipazione attiva del settore agricolo alla tutela dell’ambiente, della flora e della fauna. L’offerta di servizi territoriali e ambientali deve essere stimolata da incentivi economici mirati, rappresentativi del loro valore per la società. Tali incentivi devono naturalmente favorire l’offerta dei servizi collettivi, devono anche scoraggiare l’inquinamento, facendo ricadere sugli operatori il costo dei danni che provocano. Molto più che in passato, la nuova Pac deve combinare la tassazione delle esternalità negative e la concessione di sovvenzioni accoppiate alle esternalità positive generate (vale a dire ai benefici indotti), in conformità ai principi base dell’economia dell’ambiente. La politica agricola deve evolversi verso la soppressione delle sovvenzioni indirette all’inquinamento, ad esempio gli aiuti che spingono all’uso di erbicidi chimici o all’ampliamento degli spazi irrigui. Essa deve, al contempo, tassare gli inquinamenti residui degli allevamenti e delle decantazioni di concimi, così come i prelievi dalle falde freatiche. Gli ostacoli sono qui di natura redistributiva. Saranno superati più facilmente se la regolamentazione delle esternalità negative e la remunerazione delle amenità (cioè dei beni e dei servizi non quantificabili in termini economici, come la qualità del paesaggio o dell’ambiente) e dei beni pubblici verranno applicate contestualmente. I principi sopra definiti sono in linea con la teoria “del bastone e della carota” raccomandata da molti economisti generali che si occupano di incentivi finalizzati alla tutela dell’ambiente. Sono ugualmente coerenti con le proposte elaborate per la Commissione Europea da molti economisti agrari (Buckwell et al. 1997). La Francia ha cominciato ad orientarsi in questa direzione con l’adozione della Legge di Orientamento Agricolo del luglio 1999 e l’instaurazione dei Contratti Territoriali d’Impresa (Contrats Territoriaux d’Exploitation, Cte - v. appendice 2). Il passo è ancora timido, i sostegni tradizionali, troppo accoppiati alla produzione, continuano a dare un messaggio contraddittorio. Ma il percorso da seguire è tracciato. Come osservano Mahé e Laroche-Dupraz (2000), la sostituzione completa degli strumenti tradizionali di politica agricola con strumenti contrattuali di tipo Cte potrebbe regolare contemporaneamente le questioni di equità, nella ripartizione delle sovvenzioni, e quelle di incentivazione, mettendo l’eco-condizionalità e la fornitura di servizi ambientali al centro del dispositivo di sostegno all’agricoltura e non al suo margine, come è ancora il caso oggi. Il principale ostacolo resta l’opposizione alle redi- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 45 stribuzioni nel mondo agricolo, prima di tutto, e fra gli Stati membri dopo. La remunerazione delle esternalità positive e dei beni pubblici pone un delicato problema di valutazione. Non è certo facile stimare il valore di un paesaggio. Si presentano inoltre problemi di gestione. Le misure da prendere dipendono naturalmente dalle condizioni locali, poiché una politica uniforme non avrebbe senso in una Unione Europea che si estende dalla Sicilia a Capo Nord. Le soglie tecniche, i disciplinari di produzione, le procedure di gestione, ecc. devono necessariamente essere decentralizzati e modulati a livello locale. L’approccio contrattuale trova qui un terreno privilegiato di applicazione poiché consente contemporaneamente l’adattamento alle condizioni locali e la definizione di azioni che generano benefici per la collettività, in una data zona. Tuttavia, malgrado i progressi teorici degli economisti per definire contratti che prevedano gli incentivi più efficaci, resta difficile proporre tabelle di remunerazione degli impegni ambientali e territoriali che non possano essere aggirate dagli operatori. Nelle procedure decentralizzate, i costi di acquisizione dell’informazione e i costi di controllo diventano subito proibitivi. Tutto ciò porta in sé il rischio del clientelismo o della collusione tra gli operatori economici e i loro diretti supervisori (in questo caso le autorità decentralizzate). Questi problemi, già analizzati nel quadro degli aiuti agroambientali (Bontems e Bureau 1996), sono, in gran parte, all’origine della scarsa efficacia del Programma di gestione dell’inquinamento di origine agricola in Francia, programma nel quale il controllo dello Stato si è rivelato inadeguato. La definizione di meccanismi di incentivazione efficaci e poco dispendiosi è una delle principali sfide poste agli economisti agricoli. Accompagnare il riorientamento Il riorientamento del sostegno pubblico all’agricoltura verso la fornitura di amenità e di beni pubblici non è in contrasto con i vincoli internazionali, in particolare quelli dei negoziati del Wto. Il concetto di multifunzionalità, al cuore della posizione comunitaria nel Millennium Round, non convince ancora tutti i nostri partner. Ciò che i paesi terzi rimproverano all’Unione Europea, è soprattutto il fatto di nascondersi dietro una concezione ampia della multifunzionalità, per difendere gli strumenti tradizionali di sostegno e protezione. I tentativi dei poteri pubblici europei di costruire un discorso che parte dalla multifunzionalità ma cerca al contempo di difendere la “vocazione” esportatrice dell’Unione Europea, in pratica largamente basata su sovvenzioni al- 46 Il futuro delle politiche agricole l’esportazione e aiuti accoppiati alla produzione, non contribuiscono alla credibilità. Come sottolineano Jacquet, Messerlin e Tubiana (2000), i negoziati del Millennium Round dovrebbero piuttosto incoraggiare l’Unione Europea ad adottare una politica agricola più coerente con le dichiarazioni sul sostegno ai piccoli agricoltori o sul ruolo ambientale e territoriale dell’agricoltura europea. In prospettiva, una politica agricola orientata principalmente verso la remunerazione delle amenità e dei beni pubblici, e più giusta nei suoi effetti distributivi, è verosimilmente il modo migliore di legittimare, all’interno come all’esterno, un sostegno specifico e significativo agli agricoltori. D’altra parte, è immaginabile che la remunerazione dei servizi collettivi resi dagli agricoltori passi attraverso il mercato. La certificazione e la promozione dei prodotti che rispondono a specifiche richieste dei consumatori permettono già, attraverso i sistemi di denominazione ed etichettatura, di assicurare la sostenibilità economica di imprese che operano nelle nicchie dei prodotti regionali o dei prodotti di agricoltura biologica. Queste politiche di qualità contribuiscono agli obiettivi di gestione del territorio e dello sviluppo rurale. La partecipazione diretta dell’agricoltura ad un’attività economica basata sui servizi può fondarsi anch’essa sul mercato (è il caso dell’agriturismo). Tuttavia, il mercato non può garantire da solo la remunerazione della produzione di tutti i beni pubblici. Anche se, in prospettiva, questo sarebbe il caso, la transizione non potrebbe essere immediata. L’adattamento delle strutture è necessariamente lento. L’agricoltura è una “industria pesante”, almeno nei paesi sviluppati: il tasso di capitalizzazione è elevato e gli investimenti specifici non possono essere facilmente trasferiti verso altri settori. Lo stesso capitale umano è specializzato, per sua formazione, e poco mobile. Uno dei ruoli dello Stato è quello di accompagnare le trasformazioni, quando l’ambiente economico risulta modificato dai mutamenti delle condizioni di mercato o dai cambiamenti di politica. Accompagnare l’adattamento presuppone di perseguire, per un periodo transitorio, politiche tradizionali corrette progressivamente al ribasso. In numerosi settori (lo zucchero, i prodotti caseari, e anche la stessa carne bovina), il sostegno dei prezzi è ancora molto elevato. Un rapido calo della protezione e dei prezzi istituzionali ridurrebbe senza alcun dubbio a mal partito le organizzazioni comuni di mercato corrispondenti. Risulta quindi chiaramente necessario pianificare su più anni l’uscita dal regime attuale. Anche le sovvenzioni alle esportazioni, misure inadatte al nuovo ambiente economico internazionale e strumenti particolarmente poco efficaci per trasferire reddito, non possono essere sop- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 47 presse dall’oggi al domani. Trasformazioni rapide della Pac verso la remunerazione di funzioni ambientali e territoriali implicano la necessità di offrire, per ragioni di equità (mantenimento del valore del patrimonio), una compensazione ai produttori che hanno fortemente investito in prospettiva di un mantenimento delle politiche passate. Non è dunque concepibile una riforma brusca della Pac, così come non è auspicabile allineare questo settore con gli altri settori produttivi retti dalle sole leggi del mercato, non foss’altro che per considerazioni di rischio e di instabilità (v. supra). Ma la necessità di una transizione controllata non deve far dimenticare quella di una evoluzione chiara e significativa della politica agricola dell’Unione Europea verso la remunerazione dei servizi pubblici resi dagli agricoltori. CONCLUSIONI I motivi che hanno condotto, durante la seconda metà del XX secolo, le grandi potenze economiche ad elaborare politiche agricole e a destinarvi, in conseguenza, risorse pubbliche, si stanno trasformando. Gli obiettivi, i metodi, e forse, in futuro, le somme stanziate si modificheranno. Tuttavia, le politiche agricole resteranno un punto di forza delle politiche pubbliche. Non soltanto nessuno dei paesi, fra quelli in cui i sostegni pubblici rappresentano la metà del reddito disponibile degli agricoltori, saprebbe concepire e gestire la soppressione brutale di tali sostegni, ma inoltre in queste stesse società sviluppate vengono fuori nuove esigenze, di ordine qualitativo, in materia di creazione, manutenzione o gestione dei beni pubblici che presuppongono, per essere soddisfatte, di venir retribuite. Il configurarsi di una domanda di beni “non commerciali” obbliga a inventare nuove risposte politiche. Il riconoscimento della multifunzionalità dell’agricoltura, vale a dire della capacità da parte di questo settore di produrre nello stesso tempo beni materiali e beni immateriali, beni commerciali e beni non commerciali, conduce implicitamente a giustificare la retribuzione della produzione di beni pubblici non commerciali, attesa dai consumatori, dagli abitanti, dai cittadini. Si può pertanto dire che vedremo le politiche pubbliche occuparsi di trattare e retribuire ciò che non è commerciale e lasciare che il mercato da solo gestisca tutto ciò che riveste, invece, un carattere mercantile? Non solo, come abbiamo ricordato, gli obiettivi delle politiche pubbliche agricole restano interessati agli aspetti tradizionali quali la formazione del reddito, la stabilità, la sicurezza, ma inoltre non saremmo in grado di governare simili rivolgi- 48 Il futuro delle politiche agricole menti di prospettiva senza lunghe transizioni, tenuto conto della posta in gioco in termini di reddito. In Europa, il 1992 ha segnato l’ingresso delle politiche agricole in questa fase di riformulazione. Gli accordi di Agenda 2000 conclusi a Berlino nel marzo 1999 rappresentano un nuovo passo in questa direzione. Affermano chiaramente che la politica agricola comune si fonda su due pilastri: quello delle organizzazioni comuni di mercato da una parte, quello dello sviluppo rurale e della multifunzionalità dell’agricoltura dall’altra. I lavori dell’Ocse sulla multifunzionalità, così come il farsi avanti, nel Wto, del tema degli aiuti disaccoppiati, fanno pensare che la riformulazione delle politiche pubbliche, tanto nei loro principi quanto nelle loro modalità di applicazione, è avviata. Al di là di questa riformulazione delle politiche agricole, tre argomenti restano in sospeso: • Il primo riguarda la modernizzazione dell’attuazione di queste politiche. Uno dei principali rimproveri rivolti alle politiche agricole è ancora la loro complessità, che le mette sotto accusa almeno quanto il loro costo. Lo strumento contrattuale sembra la via di questa modernizzazione. Esso obbligherà i poteri pubblici a tradurre meglio le aspettative della società e gli agricoltori a tenere più in considerazione l’opinione dei loro concittadini. L’approccio contrattuale dovrebbe approdare inoltre ad una maggiore trasparenza nell’assegnazione dei crediti e ad una maggiore responsabilizzazione dell’agricoltore, firmatario del contratto. Inoltre, questo dispositivo permette una rivalorizzazione simbolica della nozione di contratto che lega una nazione ai suoi agricoltori, quale esso appare nella maggior parte dei grandi testi politici che trattano l’argomento. • Il secondo argomento da affrontare è quello della dimensione geostrategica della sicurezza alimentare. Arbitrare i rapporti di forza, su scala mondiale, dell’offerta di cereali resta l’ambizione dei nostri partner d’oltreoceano. Disarmare le politiche classiche di regolamentazione diventa impossibile per l’Europa, in queste condizioni. In un contesto post guerra fredda, la questione agricola e alimentare è un dato strutturale della costruzione di un mondo multipolare. I dibattiti e i conflitti di interessi multilaterali, esattamente come le politiche agricole regionali e nazionali riformulate, contribuiscono a questa costruzione necessaria. L’obiettivo è proprio quello di favorire un’autonomia e una sicurezza crescenti dei paesi e delle regioni, sapendo che si tratta di un elemento determinante di stabilità politica. In una tale prospettiva, la ricerca, su scala planetaria, della sicurezza alimentare non potrebbe tollerare l’attuazione di una situazione di monopolio da parte di un paese o di un’azienda. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 49 • Infine, poiché è accertato che i tassi di crescita economica dei paesi in via di sviluppo che hanno accordato una lieve protezione alla loro agricoltura sono stati superiori a quelli dei paesi che non l’hanno fatto, la protezione, pianificata, ha tutta la sua legittimità in questi paesi. Laddove ciò si impone, questo elemento di politica pubblica deve essere preso in considerazione, tanto più che questi stessi paesi non hanno le capacità finanziarie di cui hanno beneficiato le grandi potenze agricole nella loro fase di decollo, e di cui continuano a beneficiare nella loro fase di riorientamento. Predominanti nella costruzione della dimensione regionale, riproposte e reindirizzate a livello nazionale, presenti nel dibattito multilaterale, le politiche agricole si ridefiniscono e perdurano, impegnandosi a risolvere nuove sfide che palesemente le sole regole di mercato non possono affrontare. APPENDICE 1 GLI OBIETTIVI DELLA LEGGE DI ORIENTAMENTO AGRICOLO FRANCESE DEL 9 LUGLIO 1999 L’articolo 1 della Legge di Orientamento Agricolo (Loa) definisce i differenti obiettivi della politica agricola (francese): • l’insediamento in agricoltura, in particolare dei giovani, la sostenibilità delle imprese agricole, la loro trasmissione e lo sviluppo dell’occupazione in agricoltura, il cui carattere familiare deve essere preservato, nell’insieme delle regioni francesi in funzione della loro specificità; • il miglioramento delle condizioni di produzione, di reddito e del livello di vita degli agricoltori, così come il rafforzamento della protezione sociale degli agricoltori, perseguendo la parità con il regime generale; • la rivalutazione progressiva e la garanzia di pensioni minime agli agricoltori, in funzione della durata della loro attività; • la produzione di beni agricoli, alimentari e non alimentari di qualità e diversificati, rispondenti ai bisogni dei mercati nazionali, comunitari e internazionali, adempiendo agli obblighi di sicurezza sanitaria, soddisfacendo i bisogni delle industrie e delle attività agroalimentari, rispondendo alle esigenze dei consumatori e contribuendo alla sicurezza alimentare mondiale; • lo sviluppo dell’aiuto alimentare e la lotta contro la fame nel mondo, nel rispetto delle agricolture e dei paesi in via di sviluppo; 50 Il futuro delle politiche agricole • il rafforzamento del potenziale di esportazione agricola ed agroalimentare della Francia verso l’Europa e i mercati solvibili, facendo leva sulle imprese dinamiche; • il rafforzamento dell’organizzazione economica dei mercati, dei produttori e delle filiere, perseguendo una equa ripartizione della valorizzazione dei prodotti alimentari fra gli agricoltori, i trasformatori e le imprese di commercializzazione; • la valorizzazione delle produzioni di biomasse a scopi energetici o non alimentari al fine di diversificare le risorse energetiche del paese e gli sbocchi della produzione agricola; • la valorizzazione dei territori attraverso sistemi di produzione adatti alle loro potenzialità; • il mantenimento di condizioni favorevoli all’esercizio dell’attività agricola nelle zone di montagna, conformemente alle disposizioni dell’articolo L. 113-1 del codice rurale; • la protezione delle risorse naturali e della biodiversità e il mantenimento dei paesaggi, evitando che gli obblighi che ne derivano, in particolare in tema di tutela della fauna selvatica, mettano in pericolo l’equilibrio economico delle imprese agricole e senza che ne risultino spese supplementari per lo Stato; • il perseguimento di azioni di interesse generale a vantaggio di tutti gli utilizzatori dello spazio rurale; • la promozione e il rafforzamento di una politica della qualità e dell’identificazione dei prodotti agricoli; • il rafforzamento della ricerca agronomica e veterinaria nel rispetto degli animali e del loro benessere; • l’organizzazione di una coesistenza equilibrata, nel mondo rurale, fra gli agricoltori e gli altri agenti rurali, nel rispetto di una concorrenza leale fra i differenti settori economici. APPENDICE 2 I CONTRATTI TERRITORIALI D’IMPRESA La nuova Legge di Orientamento Agricolo (Loa) francese del 9 luglio 1999 afferma esplicitamente il carattere multifunzionale dell’agricoltura e il suo riconoscimento nell’ambito della definizione della politica agricola (v. appendice 1). In un contesto di ampliamento sostanziale degli obiettivi di politica agricola, rispetto a quelli del Trattato di Roma o delle anteriori leggi di orientamento agricolo francesi, il Contratto Territoriale d’Impresa (Cte) appare indiscutibilmente come lo Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 51 strumento principale, innovatore almeno nei principi, di promozione del modello agricolo multifunzionale perseguito. Il Cte ha come obiettivo quello di spingere le imprese agricole a sviluppare un progetto economico globale che integri le differenti funzioni dell’agricoltura menzionate all’articolo 1 della Loa. Il progetto riguarda l’insieme delle attività d’impresa. Comporta una serie di impegni che vertono sugli orientamenti produttivi dell’impresa, l’occupazione e i suoi aspetti sociali, il contributo delle attività d’impresa alla tutela delle risorse naturali, all’occupazione dello spazio o alla realizzazione di attività di interesse generale e allo sviluppo di progetti collettivi di produzione agricola. Definisce la natura e le modalità dei contributi dello Stato versati come contropartita di questi impegni. Il progetto comprende due aree. La prima area - socioeconomica descrive gli impegni dell’imprenditore nell’ambito economico dell’occupazione. La seconda - territoriale ed ambientale - definisce le responsabilità dell’imprenditore in materia di gestione e sviluppo dello spazio rurale e di tutela dell’ambiente. Come controparte di questi due impegni sono istituiti due tipi di finanziamento: • aiuti legati a investimenti o a costi di carattere socioeconomico (investimenti per la riduzione dei costi di produzione, per il miglioramento o il riorientamento della produzione, per il miglioramento della qualità, per la tutela o il miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di igiene e benessere degli animali; aiuti alla diversificazione delle attività d’impresa, a determinate attività forestali o alla commercializzazione di prodotti agricoli di qualità), o a costi rilevanti dell’area territoriale e ambientale (aiuti alla protezione e alla conservazione del patrimonio rurale, alla gestione delle risorse idriche, alla protezione dell’ambiente, ecc.); • aiuti annuali versati per ettaro o per unità bovina adulta (Uba) finalizzati a compensare le perdite di reddito risultanti da impegni agroambientali o i sovracosti legati a tali impegni. Anche se i Cte non mirano a finanziare direttamente l’occupazione, gli impegni in merito sono incoraggiati, vale a dire sono calcolati come obiettivi espliciti dei Cte che danno diritto ad un finanziamento pubblico in controparte, con maggiorazione possibile degli aiuti per i progetti che prevedono la creazione netta di posti di lavoro. Il Cte è un contratto individuale che si rivolge a tutti gli agricoltori (agricoltori a titolo principale o secondario, imprenditori individuali o in società) manifestando tuttavia la volontà politica esplicita, perlomeno al livello nazionale del Ministero dell’Agricoltura e della Pesca, di accordare i sostegni pubblici in priorità ai progetti di piccole e medie imprese. Si inscrive in un percorso di sviluppo collettivo, nel senso 52 Il futuro delle politiche agricole che, nella maggior parte dei casi, gli obiettivi dei progetti individuali devono ritagliare sul territorio dell’impresa le poste in gioco identificate. Il Cte deve permettere un migliore radicamento della politica nel territorio. Le approvazioni al sostegno vengono accordate solo dopo il parere di una commissione locale (Commissione Dipartimentale di Orientamento Agricolo, Cdoa), formata da agricoltori, rappresentanti del territorio eletti dai cittadini, consumatori e rappresentanti di associazioni per la protezione della natura e dell’ambiente. Sommario Durante la seconda metà del XX secolo, diversi fattori hanno contribuito ad una graduale trasformazione delle politiche agricole in Europa. Da un lato, gli strumenti tradizionali delle politiche agricole sono stati messi in discussione, sia in ambito Wto, riguardo al livello di protezione, sia all’interno della stessa Unione Europea, in merito al costo della Pac. D’altro lato, è aumentata l’attenzione dell’opinione pubblica e delle Istituzioni verso i problemi di natura ambientale e i consumatori hanno espresso preoccupazioni crescenti in materia di sicurezza alimentare e maggiore interesse per la qualità dei prodotti. Nel contributo si analizza il modo in cui i policy makers cercano di rispondere a tali pressioni, tenendo conto dei diversi fattori, quale, ad esempio, il riconoscimento della multifunzionalità dell’agricoltura. Risulta, in conclusione, evidente che, sebbene gli obiettivi, i metodi e le risorse finanziarie stanziate per le politiche agricole tendano a modificarsi, queste ultime conserveranno un ruolo di primaria importanza nell’ambito delle politiche pubbliche. Riferimenti bibliografici Bourgeon J.M., R.G. Chambers, “Stop and Go Agricultural Policies”, American Journal of Agricultural Economics, vol. 82, n. 1, 2000. Bontems P., J.C. 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Winters A.L., “Les objectifs dit ‘non économiques’ du soutien à l’agriculture”, Revue économique, Ocse, n. 13, inverno, 1989-1990. 54 Il futuro delle politiche agricole Il consumo di prodotti alimentari nella Ue Luis Miguel Albisu Azucena Gracia INTRODUZIONE L’Unione Europea (Ue) è un’area caratterizzata da una situazione di alto sviluppo e da un processo di integrazione interno, ma anche da un processo di internazionalizzazione. Ogni processo continuo di integrazione comporta convergenze ma esistono tuttora differenze di consumo fra i diversi Paesi e regioni d’Europa (Gil e Gracia 1998). È importante far luce sulla misura di queste diversità e sui loro motivi. Il benessere dei consumatori è in aumento e ha raggiunto un livello tale che essi scelgono i prodotti alimentari non solo per motivi di nutrimento, ma anche di divertimento o, in base alle preferenze, per motivi di etica, di cultura, di sicurezza, di prestigio o per scelte d’impulso e per altri fattori che si sono dimostrati molto importanti nella scelta finale dei prodotti alimentari. Per comprendere meglio le peculiarità dei consumatori europei di prodotti alimentari occorre esaminare le loro caratteristiche economiche, sociali e demografiche, oltre che il loro comportamento e le loro scelte. In questo lavoro presentiamo diverse comparazioni quantitative e interpretazioni qualitative, al fine di conoscere meglio il consumo dei prodotti alimentari nei diversi Paesi dell’Unione Europea. L’analisi, a livello europeo, si basa su lavori precedenti di diversi autori e sulla nostra conoscenza dell’argomento. La prima parte è dedicata alle tendenze statistiche generali e a mettere in luce le differenze fra i Paesi. Tradotto da: L. M. Albisu, A. Gracia, “Food Consumption in the European Union: Main Determinants and Country Differences”, Agribusiness, XVII, 4, 2001. Luis Miguel Albisu e Azucena Gracia sono rispettivamente direttore e ricercatrice dell’Unidad de Economia y Sociologia Agrarias, Servicio de Investigatiòn Agroalimetaria di Saragozza, Spagna. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 55 La seconda parte presenta alcune interpretazioni dei motivi e dei modelli effettivi di consumo dei prodotti alimentari in Europa. L’ultima parte è dedicata ad alcune osservazioni conclusive. I CONSUMI ALIMENTARI NELL’UNIONE EUROPEA: TENDENZE, STATISTICHE GENERALI E DIFFERENZE PER PAESE Negli ultimi 15 anni, l’evoluzione dei consumi alimentari nei Paesi Europei è stata analizzata da vari autori (Besch 1993; Blandford 1984; Caiumi 1992; Combris 1991; Frank e Wheelock 1988; Gracia e Albisu 1994; Meulenberg e Viane 1993; Ritson e Hutchins 1991; Wheelock e Frank 1989), e da tali lavori è possibile trarre alcune conclusioni generali. I consumi alimentari nei Paesi dell’Unione Europea si possono riassumere in quattro tendenze principali: 1) un’ulteriore riduzione della percentuale di spesa riservata ai consumi alimentari, già bassa; 2) un livello massimo del consumo totale di alimenti, in termini quantitativi; 3) un cambiamento della struttura del consumo alimentare; 4) un aumento della percentuale dei pasti consumati fuori casa. La prima tendenza non sorprende, ed è conseguente a tutte le crescite macro-economiche, come è avvenuto per tutti i Paesi Europei. La seconda è il risultato di una situazione che si verifica nei Paesi ricchi, in cui il fattore quantità viene superato da considerazioni di qualità; man mano che la quantità quotidiana di cibo diminuisce, la gente vuole mangiare meglio. La terza tendenza non è altrettanto omogenea quanto le altre due e varia da un Paese all’altro, assumendo aspetti caratteristici, ma si basa anche sull’evoluzione culturale e storica dei singoli Paesi. L’ultima tendenza è anch’essa comune a tutti i Paesi Europei, ma la sua intensità varia da un Paese all’altro, e anche in base alle circostanze lavorative. Il consumo alimentare totale nell’Unione Europea è aumentato meno del 2% in un quinquennio (dal 1991 al 1996), e secondo le previsioni dovrebbe registrare un aumento analogo durante i cinque anni successivi (dal 1996 al 2001) (v. tabella 1). I prodotti alimentari che hanno fatto registrare l’aumento maggiore sono stati il pesce e i frutti di mare (6%), lo yogurt e i dessert (9%), il cioccolato (8%) e gli snacks (15%). Nel prossimo futuro, si prevede un aumento del consumo di tutti i prodotti alimentari, che però dovrebbe essere più moderato rispetto al periodo precedente (con l’eccezione della carne fre- 56 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue TABELLA 1 Consumo di alimenti nell’Unione Europea per categoria di prodotto (migliaia di tonnellate) 1991 1996 2001 (a) 1996/1991 % 2001/1996 % Prodotti freschi e prodotti di altro tipo 91.535 92.007 92.898 0,52 0,97 Carne fresca 19.699 19.349 20.143 -1,78 4,10 Carne lavorata 9.624 10.020 10.572 4,11 5,51 Pesce e frutti di mare 7.485 7.921 8.133 5,8 2,68 Cereali 61.958 63.237 63.767 2,06 0,84 Latte da bere 28.533 28.850 29.152 1,11 1,05 Latte in polvere 2.571 2.461 2.522 -4,28 2,48 Grassi gialli 4.175 4.142 4.177 -0.79 0,85 Formaggio 5.575 5.940 6.096 6,55 2,63 Panna 2.243 2.293 2.334 2,23 1,79 Yogurt e dessert 6.320 6.921 7.158 9,51 3,42 Dolciumi di cioccolato 1.825 1.976 2.068 8,27 4,66 Prodotti dolciari 1.439 1.378 1.433 -4,24 3,99 Snack 1.091 1.254 1.335 14,94 6,46 Minestre, salse e oli 9.032 9.358 9.570 3,61 2,27 253.105 275.107 261.358 1,58 1,65 Totale prodotti alimentari Fonte: Agra Europe (1997). (a) Previsione sca, il cui consumo aumenterà soltanto quando la crisi della Bse sarà finita). Oltre alle tendenze generali è possibile presentare un’analisi più dettagliata. Può verificarsi che, mentre un gruppo di prodotti alimentari segue una tendenza all’aumento o alla diminuzione, alcuni prodotti alimentari specifici, all’interno di ciascun gruppo, registrino una forte reazione opposta. Inoltre, l’evoluzione del consumo alimentare differisce da un Paese all’altro. Vi sono Paesi dell’Unione Europea in cui il consumo totale di ali- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 57 TABELLA 2 Consumo di prodotti alimentari suddiviso per Paesi nell’Unione Europea (migliaia di tonnellate) 1991 1996 Austria 5.472 5.544 Belgio-Lussemburgo 7.774 Danimarca Finlandia (a) 1996/1991 % 2001/1996 % 5.572 1.32 0,51 8.168 8.347 5,07 2,19 4.451 4.644 4.761 4,34 2,52 3.547 3.588 3.664 1,16 2,12 Francia 39.039 39.492 40.295 1,16 2,03 Germania 49.598 51.081 52.359 2,99 2,50 Grecia 8.899 8.871 8.975 -,031 1,17 Irlanda 3.093 3.138 3.176 1,45 1,21 Italia 41.244 43.123 43.610 4,56 1,13 Olanda 11.498 11919 12.243 3,66 2,72 7.451 7.877 8.056 5,72 2,27 Spagna 30.318 29.490 29.864 -2,73 1,27 Svezia 5.803 5.957 5.998 2,65 0,69 34.918 34.211 34.438 -2,02 0,66 Portogallo Regno Unito Fonte: Agra Europe (1997). 2001 (a) Previsione menti è lievemente aumentato (1-5% dal 1991 al 1996) (v. tabella 2). In altri Paesi si è registrata invece una diminuzione, come ad esempio in Grecia (-0,3%), in Spagna (-3%) e in Gran Bretagna (-2%). È sorprendente notare che nell’ultimo gruppo sono compresi due Paesi il cui reddito pro capite è fra i più bassi d’Europa. Nei diversi Paesi si osservano tendenze differenti per i vari prodotti. Le cifre relative ai consumi alimentari per prodotto e per Paese, dal 1991 al 1996, sono state raccolte da Agra Europe (1997). Le variazioni percentuali corrispondono all’evoluzione dell’intero periodo. La tabella 3 illustra il consumo alimentare pro capite nel 1996 suddiviso per prodotto e per Paese. TIl consumo medio di carne fresca nell’Unione Europea è sceso del 2% (soprattutto a causa della malattia bovina), mentre il consumo di 58 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue TABELLA 3 Consumo alimentare pro capite nell’Unione Europea per prodotto e per Paese nel 1996 (chilogrammi) AUSTRIA BEL./LUSS. DANIMARCA FINLANDIA FRANCIA Carne fresca 91,23 104,71 119,77 65,29 65,99 Prodotti a base di carne 35,43 22,06 31,18 29,22 25,68 Pesce e frutti di mare 10,62 17,94 87,83 18,82 21,76 Cereali 95,43 178,04 138,78 117,06 144,10 Latte intero 74,81 85,59 120,34 177,65 84,61 Formaggio 9,01 17,16 15,59 12,75 22,78 Yogurt e dessert 15,31 13,73 22,05 24,90 29,40 Dolciumi e snack 14,07 16,27 21,86 10,39 10,12 Totale oli 29,14 33,04 30,61 23,14 17,88 Minestre, salse e sottaceti 10,12 21,86 10,84 8,43 12,27 Frutta fresca 91,23 80,59 54,94 46,27 58,70 5,31 6,47 4,18 5,29 3,89 78,77 39,80 88,78 47,45 61,77 Verdura in scatola 8,77 31,18 5,32 3,33 18,55 Verdura e frutta surgelata 3,21 5,39 7,22 4,71 7,37 60,49 61,76 68,82 62,35 37,53 Legumi 0,99 4,22 0,76 1,57 1,11 Conserve e marmellate 1,36 1,96 2,47 3,33 2,05 Totale zucchero 35,56 44,31 37,64 35,69 33,79 Uova 13,58 14,71 13,88 5,88 14,57 684,44 800,78 882,89 703,53 673,92 Alimenti per l’infanzia 0,62 1,67 1,71 1,57 2,13 Alimenti per animali 9,51 13,04 8,75 4,90 16,57 364,20 366,57 348,67 184,90 253,55 1.058,77 1.182,06 1.242,02 894,90 946,18 Frutta conservata Verdura fresca Totale patate Totale prodotti alimentari Bevande Totale cibo e bevande Segue a pag. 60 Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 59 Segue tabella 3 GERMANIA GRECIA IRLANDA ITALIA OLANDA Carne fresca 45,65 79,71 79,17 47,04 28,85 Prodotti a base di carne 34,43 7,12 29,44 25,46 23,69 Pesce e frutti di mare 13,69 12,69 23,33 18,69 17,83 137,18 157,21 140,56 265,59 142,29 Latte intero 81,25 78,27 150,28 62,36 137,71 Formaggio 18,58 21,54 6,77 21,44 15,61 Yogurt e dessert 23,17 11,92 13,61 8,51 39,62 Dolciumi e snack 15,84 7,21 15,83 5,81 16,82 Totale oli 23,01 31,25 21,11 14,90 29,68 Minestre, salse, sottaceti 12,22 2,98 13,61 23,15 33,57 Frutta fresca 63,08 98,08 50,56 119,96 103,63 6,77 11,06 8,06 2,21 4,71 Verdura fresca 33,13 184,13 166,39 52,19 31,08 Verdura in scatola 11,48 16,63 14,72 3,85 11,72 4,41 2,50 7,22 4,99 3,06 53,33 79,52 86,67 27,53 66,05 Legumi 1,43 5,10 4,17 3,63 2,55 Conserve e marmellate 2,74 1,15 2,22 1,05 1,46 Totale zucchero 29,82 32,88 26,94 34,73 39,17 Uova 13,26 12,02 11,11 12,12 10,06 Totale prod. alimentari 624,46 852,98 871,67 755,22 759,17 Alimenti per l’infanzia 1,31 0,87 2,22 1,42 1,59 Alimenti per animali 8,20 2,69 8,06 5,62 12,04 417,52 184,33 288,33 271,70 233,50 Cereali Frutta conservata Verdura e frutta surgelata Totale patate Bevande Totale cibo e bevande 60 1.051,49 1.040,87 1.170,28 1033,96 1.006,31 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue PORTOGALLO SPAGNA SVEZIA REGNO UNITO Carne fresca 74,34 41,07 36,74 34,70 Prodotti a base di carne 14,85 21,12 26,97 28,00 Pesce e frutti di mare 30,40 43,48 33,37 14,01 163,13 243,20 122,02 133,01 Latte intero 69,06 76,85 126,52 119,97 Formaggio 5,56 6,70 16,40 8,62 Yogurt e dessert 9,60 15,33 21,80 10,53 Dolciumi e snack 4,95 7,41 13,82 18,29 14,65 26,12 26,74 15,23 5,45 7,03 10,22 20,65 102,02 89,09 57,87 32,14 1,52 7,92 4,83 5,50 145,45 49,24 37,75 34,72 Verdura in scatola 2,32 2,97 8,65 11,92 Verdura e frutta surgelata 2,22 5,51 4,38 7,66 95,35 57,34 65,96 47,66 Legumi 6,87 5,56 1,24 2,31 Conserve e marmellate 1,21 1,07 5,28 1,39 38,48 29,11 38,76 28,96 8,18 12,39 10,00 5,59 Totale prod. alimentari 795,66 748,48 669,33 580,83 Alimenti per l’infanzia 0,81 0,81 1,35 1,60 Alimenti per animali 1,72 3,88 7,64 23,74 Bevande 198,79 261,27 187,64 288,35 Totale cibo e bevande 996,97 1.014,44 865,96 894,52 Cereali Totale oli Minestre, salse e sottaceti Frutta fresca Frutta conservata Verdura fresca Totale patate Totale zucchero Uova Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 61 carne lavorata è aumentato del 4%, in particolare in Austria (12%), in Belgio-Lussemburgo (11%), in Grecia (7%) e in Italia (4%). Tuttavia, il consumo di entrambi i tipi di carne è aumentato in Danimarca (rispettivamente 2 e 9% per la carne fresca e la carne lavorata), in Germania (2 e 9%), in Irlanda (7 e 4%), nei Paesi Bassi (11 e 5%), in Portogallo (4 e 20%) e in Svezia (12 e 10%). Il consumo totale di carne è diminuito soltanto in due Paesi, la Finlandia e la Spagna, 3 e 8% rispettivamente per la carne fresca, e 6 e 2% per quella lavorata. L’unico risultato chiaro che emerge da queste cifre è che l’eterogeneità in Europa è la caratteristica più marcata. Non vi sono relazioni chiare fra il livello assoluto di consumo della carne e le tendenze del consumo. Tuttavia, la percentuale relativa alla carne lavorata rispetto al consumo totale di carne è aumentata in tutti i Paesi, con l’eccezione di Finlandia, Irlanda, Paesi Bassi e Svezia, anche se questa percentuale varia secondo i diversi Paesi, e i valori più alti si registrano nei Paesi Bassi (46%), Gran Bretagna (43%) e Germania (41%), mentre quelli più bassi riguardano la Grecia (8%) e il Portogallo (15%). In ciascun Paese si rilevano circostanze e movimenti particolari riguardo ai diversi tipi di carne, che sono più importanti del consumo globale di carne. Di conseguenza, il consumo di pollame e di carne suina è aumentato a causa dei problemi legati alla carne e anche perché il pollame gode di un’alta considerazione per motivi riguardanti la salute. Il consumo di pesce nell’Unione Europea è aumentato del 6%, soprattutto grazie agli attributi di salubrità sottolineati dagli specialisti dell’alimentazione e al crescere della consapevolezza dei consumatori. Il consumo di pesce è diminuito soltanto in due Paesi, la Finlandia e la Svezia, rispettivamente dell’8 e dell’11%. L’aumento, nel resto dei Paesi, è piuttosto rilevante, e va dall’8 al 19%, con l’eccezione della Francia, della Spagna e della Gran Bretagna dove il consumo è aumentato rispettivamente del 3, del 2 e del 6%. Si ritiene che alcuni Paesi, contraddistinti da alti livelli di consumo, abbiano raggiunto un apice, come nel caso della Svezia, della Spagna e della Francia, mentre in altri Paesi, come ad esempio la Danimarca e il Portogallo, il consumo di questo prodotto, grazie agli effetti benefici ad esso attribuiti, è ancora in aumento. L’evoluzione del consumo dei prodotti caseari differisce a seconda del tipo di prodotto. Mentre il consumo di latte nell’Unione Europea è rimasto stabile, il consumo dei formaggi e quello di yogurt e dessert è aumentato rispettivamente del 6,6 e del 9,5%. Il consumo di latte è addirittura diminuito in Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Svezia e Gran Bretagna mentre, in tutti i Paesi, è aumentato il consumo di 62 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue latte scremato. In linea di massima, si prevede che il consumo di prodotti caseari continuerà ad aumentare rispetto al latte da bere e ad essere contraddistinto da un’offerta più varia, legata alla ricerca di convenienza da parte dei consumatori. L’espansione delle maggiori società multinazionali del settore agroalimentare e di quello della distribuzione, ha reso i prodotti caseari accessibili a gran parte della popolazione. Nell’insieme, il consumo di cereali e di prodotti da forno nell’Unione Europea è lievemente aumentato, del 2%, e la stessa tendenza è stata registrata in tutti i Paesi, escluse l’Irlanda, dove il consumo è diminuito (4,3%), e la Danimarca, dove l’aumento del consumo ha raggiunto l’11%. Una scomposizione più dettagliata potrebbe dare alcune indicazioni su queste tendenze generali. In linea di massima, il consumo di pane è diminuito in molti Paesi, mentre gli aumenti maggiori corrispondono ai cereali da colazione, ai dolci, alla pasta e al riso. Il consumo di cereali può essere incrementato introducendo prodotti che rafforzino alcuni attributi di salubrità e le caratteristiche nutritive del prodotto, come ad esempio: alto contenuto di fibra, basso contenuto di calorie, ecc. Quest’ultima tendenza potrebbe essere un elemento di primo piano nel cambiamento. Il consumo di dolciumi e snack è aumentato rispettivamente del 3 e del 15%. Tale tendenza di crescita è un modello generalizzato in tutti i Paesi e i tassi più alti sono stati registrati in Portogallo (36%), in Spagna (30%), in Danimarca (17%), in Grecia (10%), in Italia (10%) e in Francia (10%). Questo gruppo di prodotti alimentari presenta anch’esso una tendenza positiva e, in linea di massima, lo sviluppo maggiore si è registrato nei Paesi in cui sono presenti le industrie agro-alimentari più deboli. In generale, il consumo di minestre e salse nell’Unione Europea è aumentato del 3%. La crescita è stata registrata in tutti i Paesi, e l’aumento maggiore si è avuto in Grecia (20%), in Portogallo (23%) e in Spagna (14%). In questo caso, è chiaro che l’espansione maggiore si è verificata nei Paesi del Mediterraneo meridionale, come conseguenza del passaggio dai prodotti fatti in casa a quelli industriali. Il consumo di olio nell’Unione Europea è rimasto stabile, ma nei diversi Paesi è possibile osservare una varietà di tendenze. È lievemente diminuito in Danimarca, Francia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna; nel resto dei Paesi è rimasto stabile o è aumentato leggermente (eccetto il caso del Portogallo, che ha registrato un aumento del 9%). In questo gruppo di Paesi si verifica una situazione analoga a quella del consumo di carne, in cui il mutamento del consumo fra i diversi oli è più importante del consumo globale. Una tendenza comune è il passaggio Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 63 dagli oli animali a quelli vegetali, accompagnata dall’introduzione di nuovi oli vegetali. Per esempio, l’olio di oliva ha conquistato quella quota di mercato che in precedenza era riservata agli altri oli, perché è noto che esso è più salutare. Il consumo medio di uova nell’Unione Europea è diminuito del 3,5%, soprattutto per il timore che esse facciano aumentare il colesterolo, ma in Irlanda, in Italia e in Portogallo il loro consumo è aumentato. La diminuzione del consumo di uova in Spagna (14%) è un dato rilevante. È inoltre aumentato il consumo di uova prive di colesterolo e recentemente si è registrata anche una espansione delle multinazionali verso Sud. Il consumo di frutta, verdura e legumi nell’Unione Europea è aumentato, con l’eccezione della frutta conservata. Tuttavia, anche se il consumo di frutta e verdura fresca è aumentato rispettivamente del 2 e dello 0,6%, il consumo della frutta e della verdura congelata è aumentato del 13%. Questa tendenza alla crescita si può osservare in tutti i Paesi (con l’eccezione della Gran Bretagna), e in alcuni casi l’aumento del consumo di frutta e verdura congelata è stato superiore al 30%. Il consumo di legumi è aumentato in tutti i Paesi, con l’eccezione dell’Austria, della Francia e della Svezia. Il consumo di frutta e verdura fresca è aumentato in tutti i Paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia, la Svezia e la Gran Bretagna per quanto riguarda la verdura, e con la sola eccezione della Spagna, dove il consumo sia di verdura sia di frutta è diminuito rispettivamente del 15 e del 17%. L’andamento del consumo della verdura e della frutta in scatola varia in modo notevole da un Paese all’altro, ma segue una tendenza al ribasso. Sembra che, in un certo senso, i Paesi mediterranei stiano abbandonando la tipica dieta mediterranea, mentre altri Paesi si avvicinano a quel modello, aumentando il consumo di frutta e di verdura. Riassumendo, in linea generale, il consumo di alcuni prodotti alimentari è rimasto stabile (latte e olio) o è diminuito lievemente (carne fresca e uova), mentre il consumo di altri prodotti è aumentato (formaggio, yogurt, dolciumi, snack, minestre, frutta e verdura). Tutto sommato, i consumi alimentari sono rimasti stabili in termini quantitativi, anche se la dieta sta cambiando. I consumatori non possono e non vogliono mangiare di più, ma la loro domanda alimentare si sta spostando verso altri prodotti. Al giorno d’oggi, il consumo alimentare è una questione di scelta, e occorre fare grandi sforzi per attrarre i consumatori. La situazione dell’industria agro-alimentare e dei canali di distribuzione in ciascun Paese influenza anch’essa i modelli e le tendenze di consumo in Europa. 64 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue FATTORI DETERMINANTI DEI CONSUMI ALIMENTARI EUROPEI I fattori determinanti dei consumi alimentari sono moltissimi e la loro importanza nello spiegare i modelli di consumo alimentare, nel tempo e nello spazio, sta cambiando rapidamente. Questi fattori provengono da diversi livelli della catena alimentare: consumatori, produttori e rivenditori. Consumatori I consumatori sono gli agenti finali del processo di scelta degli alimenti e le loro caratteristiche, le loro attitudini e i loro comportamenti sono fattori di grande importanza che determinano il consumo alimentare. Si possono elencare diverse questioni relative ai consumatori europei di prodotti alimentari. Eterogeneità e omogeneità C’è un grande dibattito riguardo alla “eterogeneità e omogeneità” dei consumatori europei di prodotti alimentari. Sin dal lavoro pionieristico di Blandford (1984), il quale affermava che le diete degli europei erano convergenti o, per essere più precisi, si stavano avvicinando sempre di più, un numero rilevante di ricerche ha cercato di stabilire se le strutture del consumo alimentare stiano diventando più simili. Blandford era giunto alla conclusione che, nonostante le relative differenze di reddito e di prezzo, la composizione delle diete mostrava notevoli analogie, e le differenze fra i modelli di consumo nei vari Paesi andavano diminuendo col tempo. Gracia e Albisu (1994) hanno affermato che le differenze nei consumi alimentari dei vari Paesi europei stavano diminuendo, e Reig (1992) è giunto alle stesse conclusioni. Gil et al. (1995) e Hermann e Röder (1995) hanno utilizzato impostazioni diverse per chiarire la convergenza o l’avvicinamento fra le strutture dei consumi alimentari nei diversi Paesi. Questi lavori di ricerca hanno studiato solo l’evoluzione della struttura del consumo di cibo per categorie aggregate di prodotti alimentari nei diversi Paesi. Inoltre, questi dati non sono sufficienti per l’esecuzione di analisi disaggregate, che potrebbero offrire risultati molto più chiarificatori. Askegaard e Madsen (1995) hanno fatto un altro passo avanti. Hanno infatti analizzato in che misura gli europei sono omogenei o eterogenei rispetto ai comportamenti e alle attitudini verso i prodotti alimentari, utilizzando questionari a livello nazionale. I risultati evidenziano che i Paesi più omogenei sono il Belgio, il Portogallo, la Grecia Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 65 e l’Italia. Paesi come la Spagna, l’Irlanda, la Norvegia e l’Austria rimangono invece piuttosto eterogenei. Tuttavia, l’eterogeneità è provocata da circostanze diverse nei vari Paesi. Per esempio, in Grecia, si riscontrano grandi differenze dovute alle caratteristiche dei prodotti, mentre in Portogallo e in Spagna, la differenza principale riflette lo stile di vita che il prodotto alimentare rappresenta. La conclusione principale è che, nonostante il processo di globalizzazione del cibo, l’Europa non può, in definitiva, essere considerata un blocco omogeneo rispetto alla cultura del cibo. I confini nazionali insieme ai confini linguistici sono tuttora i migliori indicatori per le differenze di comportamento in relazione al cibo. Caratteristiche economiche e socio-demografiche Dal 1991 al 1996, il consumo di cibo, in termini quantitativi, è aumentato lievemente, ma la spesa totale per l’alimentazione è aumentata di circa il 7% (Agra Europe 1997). La causa di questa diversa evoluzione sta nel fatto che l’aumento della vendita di cibi precotti e/o pronti si è verificato ad un tasso più alto (6,8%) di quello della vendita di altri prodotti alimentari. Questo aumento è stato più alto anche in Portogallo, Spagna e Danimarca. I consumatori europei si rivolgono con sempre maggiore frequenza al cibo pronto e precotto, e quindi a prodotti a maggior valore aggiunto. Tale tendenza dipende non solo dal benessere dei consumatori, ma anche dai mutamenti demografici e dai mutamenti delle caratteristiche sociali dei consumatori europei. Il consumo alimentare pro capite, in termini quantitativi, non è molto cambiato nell’Unione Europea. Anche se i consumatori non mangiano di più, acquistano più valore aggiunto. La crescita della popolazione europea è rimasta stabile, con meno consumatori potenziali e più persone anziane. Il fattore demografico più importante è il tasso di crescita della popolazione, che era in media dello 0,3% dal 1991 al 1996. Tuttavia, la previsione di crescita della popolazione dell’Unione Europea si aggira intorno a un aumento del 3,7% per l’intero periodo dal 1995 al 2010. I mutamenti più significativi si verificheranno nel gruppo di età compreso tra i 20 e i 29 anni, con un ampio declino della popolazione, pari a -18,2%, e nel gruppo di età dai 65 anni in su, con un notevole aumento, pari al 20,9%. Tuttavia, il numero delle persone di età compresa fra i 30 ed i 44 anni diminuirà in maniera notevole e l’aumento maggiore corrisponderà al gruppo di età da 75 anni in su (Agra Europe 1997). I consumatori più anziani tendono a ridurre il valore energetico della loro dieta, sono più conservatori e preferiscono i prodotti alimentari che consumavano abitualmente in passato. Cercano raramente nuo- 66 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue vi prodotti alimentari o pasti già pronti, e mangiano di rado fuori casa. Inoltre, per preoccupazioni legate alla salute, consumano più frutta e più verdura, e meno grassi. Il loro reddito pro capite è relativamente alto, ed essi utilizzano una parte notevole del loro reddito per l’acquisto dei prodotti alimentari, anche se mangiano di meno rispetto ai giovani. La dimensione media delle famiglie nell’Unione Europea è in diminuzione, anche se il numero totale di nuclei familiari è in crescita. Perciò, il numero di nuclei familiari composti da una sola persona è in aumento, e, secondo i dati del 1995, varia dall’11% in Spagna al 41% in Svezia. Questi nuclei familiari si possono dividere in due categorie: pensionati che vivono da soli o giovani single. Questi ultimi generalmente mangiano più spesso fuori casa o nel posto di lavoro, e acquistano più spesso pasti pronti o provano prodotti nuovi. La percentuale di donne lavoratrici è in aumento, e nella maggior parte dei Paesi, eccettuati Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna, supera il 40% della popolazione. Di conseguenza, i livelli di reddito dei nuclei familiari sono aumentati, e la quantità di tempo a disposizione per cucinare è diminuita. L’effetto principale di questi cambiamenti è l’aumento dell’uso di cibi precotti, dei pasti pronti per essere consumati, e il numero sempre crescente di pasti consumati fuori casa (nel posto di lavoro, o a scuola, nel caso dei ragazzi). Steenkamp (1997) ha rilevato una correlazione positiva tra la percentuale di donne lavoratrici e il consumo di alimenti surgelati. Lo stesso potrebbe applicarsi ad altri prodotti alimentari che consentono di risparmiare tempo. Nonostante il gran numero di donne impegnate in attività professionali, queste ultime sono tuttora largamente responsabili della nutrizione della famiglia e restano le principali organizzatrici dei pasti familiari. I mutamenti delle caratteristiche dei consumatori (aumento del reddito, invecchiamento della popolazione, minore dimensione dei nuclei familiari, partecipazione delle donne al lavoro, ecc.) hanno provocato la domanda di maggior valore aggiunto nei prodotti alimentari. In particolare, i consumatori europei chiedono una migliore qualità e prodotti più diversificati. In effetti, essi sono esposti ad una quantità sempre crescente e ad una qualità sempre più diversificata di prodotti alimentari. Le preoccupazioni dei consumatori e la domanda di qualità Le definizioni di “qualità” sono molte, ma noi abbiamo seguito un’impostazione che tiene conto di un maggior numero di aspetti rispetto ai semplici parametri di qualità tecnici o obiettivi. Nel nostro Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 67 caso, la valutazione di qualità da parte dei consumatori dipende dal loro parere su quanto i prodotti rispondono alle loro esigenze. In tal senso, ci sono molte caratteristiche che possono contribuire alla qualità di un prodotto alimentare, soddisfacendo le esigenze dei vari consumatori. Molte di esse possono non essere strettamente legate al prodotto e dipendere dal luogo in cui il prodotto viene venduto o dai numerosi servizi inclusi nel prodotto. Il parere finale del consumatore è strettamente legato al prezzo di acquisto, che costituisce un buon barometro per determinare il grado di accettazione da parte dei consumatori. I consumatori basano la loro scelta sui diversi attributi del prodotto alimentare. Gli attributi che più spesso vengono indicati come quelli che influenzano le scelte di consumo sono i valori di salubrità e capacità nutritiva, l’aspetto, il sapore, la comodità, l’imballaggio e la sicurezza (Jensen e Basiotis 1993). D’altro canto, i consumatori sono sempre più interessati, sono più informati e diventano pertanto più critici riguardo agli alimenti (Wheelock 1992). Inoltre, i consumatori si preoccupano sempre di più dei diversi aspetti dell’assunzione di cibo, ma soprattutto dei problemi di salute associati alla dieta e alla sicurezza dei prodotti alimentari. La qualità è un requisito di mercato, e tutti i componenti della catena agro-alimentare dichiarano che il mercato richiede prodotti di qualità. Ma, nello stesso tempo, la parola qualità è un termine complesso, che coinvolge aspetti diversi. Presentiamo qui gli attributi di qualità relativi allo sviluppo dei prodotti, alla comodità, all’origine della produzione, alla salute e alle preoccupazioni relative alla sicurezza. Tutti questi attributi influenzano l’opinione del consumatore. Migliorare la qualità attraverso lo sviluppo del prodotto: i prodotti alimentari riuniscono molte componenti diverse, che vengono costantemente migliorate per dare soddisfazione al consumatore. Per rispondere alle esigenze del consumatore vengono introdotti sul mercato nuovi prodotti alimentari, attraverso trasformazioni fisiche (nuovi ingredienti, sapori diversi, odore migliore, ecc.). Per esempio, i consumatori potrebbero desiderare una versione più leggera di un determinato prodotto, nella quale però sia mantenuto il sapore originale. Il mercato europeo sembra non essere predisposto ai nuovi prodotti come lo è il mercato statunitense, ma si continuano ad introdurre costantemente prodotti nuovi, anche se molti di essi non hanno successo. In Europa si riscontra la tendenza, dovuta alle numerose esposizioni a culture diverse, ad introdurre prodotti alimentari provenienti da altre culture; questi prodotti vengono poi adattati a ciascun Paese particolare. I movimenti di massa degli emigranti e dei turisti favoriscono l’in- 68 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue troduzione di nuovi prodotti in base ad altre esperienze culturali. Esiste una nuova cultura di fusione delle ricette, che include ingredienti e metodi di cottura caratteristici di gruppi etnici diversi. Per quanto riguarda la creazione di nuovi prodotti, l’innovazione dei processi è stata una fonte più importante dell’innovazione vera e propria dei prodotti stessi (Grunert et al. 1992). Ciò significa che le industrie fornitrici e i loro progressi tecnologici hanno rappresentato un fattore determinante. I miglioramenti tecnologici vengono rapidamente acquisiti dalle grandi aziende, ma anche da quelle piccole e medie, nella misura in cui esse dispongono del capitale necessario per inserirli. Le grandi multinazionali distribuiscono i loro nuovi prodotti in tutta Europa e l’innovazione dei prodotti è controllata dalle industrie agroalimentari. Tuttavia, il contributo delle catene di distribuzione alimentare attraverso i loro marchi non è molto rilevante. I miglioramenti della qualità si ottengono anche attraverso confezioni nuove o migliorate, poiché queste ultime stanno diventando una componente importante per l’apprezzamento del prodotto. Per esempio, i prodotti alimentari vengono modificati, per migliorare la loro qualità, con una confezione speciale che dipende dal loro uso finale, come ad esempio una confezione di piccole dimensioni per le esigenze individuali, o contenitori riutilizzabili che tengono conto delle preoccupazioni ambientali. Tra gli elementi capaci di generare attrazione rientrano anche i prodotti nuovi oppure quelli vecchi che contengono messaggi nuovi. Altri aspetti che aggiungono qualità al prodotto sono: la freschezza, che ha favorito l’agricoltura in aree adiacenti ai centri urbani in molti Paesi europei e ha reso obbligatorio l’uso del trasporto refrigerato, e l’uso di metodi tradizionali di produzione per dare l’idea di un risultato di sicurezza. È per questo motivo che i prodotti biologici, l’agricoltura a lotta integrata e gli organismi non geneticamente modificati trovano migliore accoglienza in Europa che altrove. I nuovi sviluppi dei prodotti tengono conto di tutte queste considerazioni sui prodotti stessi e sulle percezioni dei consumatori. Migliorare la qualità attraverso la convenienza: il valore crescente del tempo, dovuto soprattutto alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ha creato la domanda di un maggior numero di prodotti pronti. Perciò, il consumo di alimenti pronti all’uso, sottoposti a lunga preparazione (prodotti da forno, yogurt e cibi surgelati) è aumentato in modo rilevante. Dal 1991 al 1996, il tasso di crescita del consumo di cibi trasformati o elaborati è aumentato di 4 volte rispetto al consumo totale dei prodotti alimentari, e si prevedeva che, nei cinque anni successivi, sarebbe aumentato con rapidità doppia (Agra Europe 1997). Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 69 La spesa per i cibi pronti rappresenta il 43,5% della spesa alimentare totale nell’Unione Europea e si prevedeva che essa sarebbe aumentata del 7,4% (a tasso di cambio costante) dal 1996 al 2001. Il consumo più ampio, in volume, corrisponde ai prodotti caseari, seguiti dalle carni trasformate e dai cereali. Gli aumenti maggiori sono stati previsti per il consumo degli snack (15%), della verdura surgelata (10,8%), e dei cereali (8%). Il più alto consumo di cibi trasformati, dal 1991 al 1996, è stato registrato in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e in Italia. Tuttavia, il maggiore aumento del consumo di cibi trasformati si è avuto in Portogallo (14,8%), in Danimarca (9,8%), in Grecia (9,6%), in Italia (9,6%) e in Spagna (8,7%). Si prevede inoltre che, entro il 2001, l’aumento maggiore si avrà in Portogallo (8,3%), in Irlanda (7,2%), in Spagna (6,8%) e in Grecia (6,5%). Questa tendenza tuttavia ha alcuni limiti, che dipendono non solo dalla disponibilità di reddito dei consumatori o dalle loro abitudini alimentari, ma anche dallo spazio che sarebbe necessario nelle abitazioni per ospitare i surgelatori o i forni a microonde. Gli edifici moderni contengono già tutte queste attrezzature, ma per gli appartamenti costruiti negli anni passati ci sono maggiori difficoltà. È importante tenere presente che gli appartamenti europei sono piuttosto piccoli, e che gran parte della popolazione vive in zone urbane e non intorno alle città. Le catene di distribuzione adattano quindi la loro offerta alle attrezzature di cui dispongono i loro consumatori. Migliorare la qualità attraverso l’origine della produzione. Per loro natura, i prodotti alimentari hanno un’origine legata alla terra e quindi un’origine regionale o geografica (Kuznesov et al. 1997). I fattori socio-culturali e la disponibilità dei prodotti hanno dato forma alle abitudini di consumo alimentare. Anche se la globalizzazione, la crescita dei commerci e l’esposizione dei consumatori a prodotti nuovi attraverso i viaggi e l’informazione hanno eroso la relazione fra il cibo e il territorio, l’interesse per il cibo che abbia una precisa località o regione di origine si è rinnovato. Se i progressi tecnici in agricoltura hanno indubbiamente portato benefici enormi alla produzione di cibi in Europa, è anche vero che si riscontra una tendenza alla scomparsa dei prodotti associati alle tradizioni locali e derivati da un lungo processo di evoluzione selettiva (Peri e Gaeta 1999). Tuttavia, questo interesse è stato mantenuto nei Paesi dell’Europa mediterranea, soprattutto in Francia, in Italia e in Spagna. Le normative dell’Unione Europea consentono la richiesta di una designazione mediante una Denominazione di Origine Protetta (Dop) o un’Indicazione Geografica Protetta (Igp) per i prodotti alimentari a- 70 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue venti una determinata origine geografica. Dal 1996, tutti i Paesi dell’Unione Europea, esclusa l’Irlanda, hanno ottenuto, per diversi prodotti alimentari, la Designazione di Origine dell’Unione Europea (Eudo). La Francia ha il più alto numero di prodotti alimentari Eudo (101), seguita dall’Italia (99), dal Portogallo (76), dalla Grecia (72) e dalla Spagna (40). È importante notare che la presenza di denominazioni di origine è strettamente legata ai Paesi mediterranei. Altri Paesi hanno un numero minore di prodotti alimentari Eudo: Gran Bretagna (23), Austria (11), Olanda (4), Belgio (3), Danimarca (3), Finlandia (1) e Svezia (1) nel 1998 (Commissione Europea 2000). L’obiettivo è che questi alimenti siano considerati di alta qualità, prodotti in un’area specifica, seguendo metodi di produzione certificati, che garantiscono la qualità e la tracciabilità. Anche se una media del 30% dei consumatori europei tende ad acquistare prodotti con Denominazione di Origine, la percentuale varia da un Paese all’altro. In Francia e in Spagna questi prodotti vengono acquistati rispettivamente dall’85 e dal 79% dei consumatori, mentre in Svezia la percentuale è solo dell’8%. In media, il 39% dei consumatori europei ritiene che i prodotti tipici siano anche prodotti di qualità. In alcuni Paesi, la percentuale dei consumatori che considera i prodotti tipici legati ad un’alta qualità è superiore al 50% (ad esempio, il 58% in Francia e il 62% in Italia). In una ricerca condotta in cinque Paesi europei, Trognon et al. (1999) hanno riscontrato che, per spiegare i modelli di comportamento verso i prodotti alimentari regionali, la conoscenza, l’opinione e l’attitudine dei consumatori sono tanto importanti quanto lo sono i fattori socio-demografici. Negli ultimi anni, si sono verificate alcune frodi alimentari che hanno rafforzato l’apprezzamento dei consumatori nei confronti del controllo totale della qualità, dalla produzione al consumo. I produttori in grado di vendere i loro prodotti direttamente sul mercato si trovano in una posizione migliore nel comunicare ai consumatori l’intero processo. La Denominazione di Origine, insieme alla tracciabilità, rappresenta un valore importante per i produttori di materie prime in grado di trasformare i prodotti. I produttori europei ne sono consapevoli e sia i vini sia molti altri prodotti tipici hanno già tratto vantaggio dalla nuova situazione. Migliorare la qualità attraverso la salubrità: l’informazione, sempre più diffusa, in merito ai problemi relativi alla salubrità degli alimenti ha accresciuto le preoccupazioni dei consumatori riguardo al tipo di prodotti che essi consumano. Inoltre, l’attenzione rivolta alle questioni della nutrizione si è concentrata sul rapporto fra la dieta e le principali malattie croniche. Di conseguenza, i consumatori hanno ottime ragioni Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 71 per seguire una dieta adeguata e varia, onde mantenere la buona salute e prevenire le malattie legate all’alimentazione. L’individuazione delle diete più adeguate ha dato adito a controversie e uno degli approcci è stato il confronto con le diete tradizionali, ritenute sane. Le diete tradizionali, mediterranea e asiatica, sono modelli eccellenti di alimentazione sana (Trichopoulou e Lagiou 1997). Entrambe sono collegate alla bassa incidenza di un certo numero di malattie, generalmente collegate all’assunzione di cibo, come ad esempio le malattie coronariche e alcuni tipi di cancro. Entrambe le diete prevedono un alto contenuto di cereali, di verdura e di frutta, e sono quindi ricche di antiossidanti e di fibre, e povere di grassi saturi e prodotti animali. Roza (1997) ritiene che una dieta sana debba prevedere: «un alto consumo di frutta e di verdura fresca, un equilibrio fra proteine e grassi insaturi, un alto consumo di pesce e un basso consumo di grassi saturi, di sale e di zucchero». In linea di massima, gli studi riguardanti la relazione tra la salute e le diete sono aumentati in Europa, ma fra di essi si riscontrano diversità di opinioni. Tuttavia, la crescente consapevolezza delle caratteristiche di salubrità della dieta sta influenzando la scelta alimentare dei consumatori. Esiste un legame chiaro fra gli aspetti nutritivi, la consapevolezza degli aspetti sanitari e l’aggiunta di componenti farmaceutiche ai prodotti alimentari. Di conseguenza, si verificano vari mutamenti nel consumo alimentare: (1) mutamento delle strutture del consumo alimentare (ad esempio, aumento del consumo di frutta e verdura fresche); (2) acquisto di alimenti modificati dal punto di vista nutritivo; e (3) acquisto di alimenti che offrono benefici per la salute. All’inizio degli anni ’60, il tipo di alimentazione tradizionale dei Paesi dell’Europa mediterranea (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) era considerato sano e rappresentativo della dieta mediterranea. Tuttavia, la tendenza del consumo alimentare in questi Paesi si è allontanata da questo tipo di dieta (Gracia e Albisu 1999). Le istituzioni pubbliche e private di questi Paesi sono preoccupate per il mutamento nelle preferenze dei consumatori in favore di diete non sane, e si sforzano di informare e istruire i consumatori in merito alle caratteristiche di salubrità della dieta mediterranea. Inoltre, alcuni Paesi del Nord stanno modificando la loro domanda alimentare, orientandosi verso caratteristiche più sane. Per esempio, le carni non sono più così gradite dai consumatori quanto lo erano in passato, e i grassi animali non vengono più consumati con molta frequenza. I consumatori europei richiedono una varietà di prodotti più sani, come quelli biologici, gli alimenti prodotti in casa, i prodotti naturali, quelli a basso contenuto di grassi, quelli fortificati e gli alimenti fun- 72 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue zionali. I prodotti alimentari biologici rappresentano una piccola quota di mercato. I prodotti dell’agricoltura a lotta integrata sembrano avere un futuro più promettente, ma la mancanza di una regolamentazione chiara ne impedisce un’ampia diffusione. Le catene di distribuzione stanno lavorando sodo per compensare questa carenza e migliorare la copertura del mercato con i loro marchi distributivi. Migliorare la qualità attraverso la sicurezza: le questioni relative alla sicurezza alimentare, e in particolare la relazione fra la sicurezza alimentare e i problemi della salute, rappresentano una preoccupazione crescente in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Questo disagio è rimasto latente, ma si è rivelato nella sua importanza quando si sono verificati alcuni incidenti relativi alla sicurezza, ad esempio nel caso della Bse e in quello della diossina. Dopo questi incidenti, si è avuto un aumento dell’informazione sui rischi legati alla sicurezza alimentare; i consumatori hanno perduto fiducia nella produzione alimentare e sono molto preoccupati per tutto ciò che è legato al cibo. Una questione collegata, e cioè gli effetti ambientali della produzione agricola e della trasformazione agro-alimentare, rappresenta anch’essa una priorità per i consumatori. L’apprezzamento della sicurezza da parte dei consumatori dipende dalla loro valutazione dei rischi e richiede una evidenza scientifica valida e l’interpretazione degli standard di sicurezza, che generalmente sono differenti nei diversi Paesi Europei (McCrea 1998). Negli ultimi anni, la fiducia dell’opinione pubblica nella sicurezza dei prodotti alimentari è stata messa alla prova da numerosi timori: l’epidemia di Bse, la scrapie, la salmonella e la peste suina. Uno studio mirato, condotto nell’ambito di una indagine dell’Eurobarometro, che ha previsto una serie di domande sull’argomento, ha chiesto agli intervistati di dichiarare il loro parere sulla sicurezza di alcuni prodotti alimentari. Il pane e i prodotti da forno sono considerati i più sicuri (86% degli intervistati). La fiducia è risultata alta anche nei confronti della frutta, della verdura e dei prodotti caseari. Gli intervistati si sono dimostrati meno propensi a ritenere che i prodotti animali, come il pesce e la carne, sono sicuri, e una percentuale rilevante della popolazione sembra mettere in discussione la sicurezza dei prodotti surgelati e di quelli in scatola. La preoccupazione più diffusa si registra nei confronti dei pasti precotti (39%) e degli altri alimenti preconfezionali (42%) (Commissione Europea 1998). Si riscontrano notevoli variazioni fra i diversi Stati membri. In media, in Svezia, in Olanda, in Gran Bretagna e in Finlandia, più di otto persone su dieci considerano sicuri i prodotti alimentari. In Grecia, in Germania e in Portogallo, questa opinione è condivisa da meno di sei persone su dieci. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 73 Al giorno d’oggi, i consumatori europei hanno perso fiducia nella produzione alimentare e si preoccupano soprattutto di due aspetti della sicurezza alimentare: la contaminazione alimentare e la sicurezza delle nuove tecnologie (prodotti alimentari derivati da organismi geneticamente modificati - Ogm). Nel primo caso, il manifestarsi di alcuni incidenti relativi alla sicurezza, come nel caso della Bse, ha provocato un rapido mutamento nelle scelte alimentari (nel 1996, il consumo di carne bovina è diminuito di circa il 30% in tutti i Paesi dell’Unione Europea ). Inoltre, questi incidenti hanno dato origine anche a richieste, da parte dei consumatori, di informazioni legate alla produzione e al controllo alimentare, in particolare per quanto riguarda le nuove tecnologie. In questo caso, per i consumatori europei, la biotecnologia è stata un argomento importante. Quando l’opinione pubblica europea è venuta a conoscenza dei prodotti derivati da organismi geneticamente modificati, la prima reazione è stata negativa. I prodotti alimentari Ogm hanno dato origine ad un importante dibattito fra i consumatori europei. Alla base di questa reazione vi sono diversi motivi. Alcuni consumatori collegano strettamente questi prodotti alle grandi multinazionali, le quali non si preoccupano granché degli interessi dei consumatori. In molti Paesi europei, il controllo sugli alimenti non è stato intrapreso con efficacia e sugli Ogm esiste il rischio che non sia stata condotta una sperimentazione scientifica sufficiente. Tale opinione è diversa a seconda dei vari Paesi, poiché i Paesi del Nord non sono propensi alla certificazione degli alimenti ed è esattamente il contrario di ciò che avviene al Sud. Molti consumatori sono estremamente ignoranti riguardo al significato dei termini “organismi geneticamente modificati”, ma i media hanno diffuso una opinione permissiva su questo argomento. Viviamo nella cosiddetta società dell’informazione. I consumatori chiedono maggiori informazioni. L’etichettatura degli alimenti è, da lungo tempo, uno degli interessi principali dei responsabili politici dell’Unione Europea, fin dall’emanazione della direttiva 79/112/Cee riguardante l’etichettatura degli alimenti. Ogni ricerca svolta nell’Unione Europea rivela che i consumatori desiderano avere maggiori informazioni. Le informazioni nutrizionali sulle confezioni sono ritenute di grande valore, ma sembra esservi mancanza di fiducia. Secondo Davies (1998) i consumatori si affidano sempre di più alle indicazioni in etichetta perché consumano una maggiore quantità di alimenti trattati; gli ingredienti non sono più quelli che il consumatore si aspetta; l’acquisto viene fatto in fretta; l’interesse per gli aspetti sanitari è in aumento; le richieste sono più complesse, così come i metodi di commercializzazione, e un maggior numero di persone richiede diete parti- 74 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue colari. Vi sono molti modi attraverso cui i consumatori possono ottenere informazioni (telefono, e-mail, siti Internet, appositi dispositivi di informazione con schermo tattile all’interno dei punti vendita, lettori di codici a barre collegati ai computer all’interno dei punti vendita, ecc.). Tuttavia, l’etichetta del prodotto è ancora il mezzo più potente per informare i consumatori sugli attributi dei prodotti, per quanto non dovrebbe essere sovraccaricata (Hunt 1998). Preferenze, stili di vita e modelli di consumo alimentare Le preferenze e le attitudini hanno avuto un grande effetto sul consumo alimentare. Hanno creato differenze nei comportamenti alimentari fra i diversi Paesi e i diversi segmenti di consumatori. I valori culturali, le preferenze acquisite e i diversi stili di vita hanno ciascuno un impatto rilevante sul consumo alimentare. Gli atteggiamenti e le preferenze per i prodotti alimentari si definiscono durante il processo di formazione delle abitudini, e queste abitudini continuano nel tempo. Molte differenze internazionali nei modelli delle diete sono la diretta conseguenza della disponibilità e della produzione locale esistenti nel passato (Ritson e Hutching 1991). Per esempio, la cucina mediterranea comprende l’olio d’oliva, mentre quella norvegese no, per via dell’ubicazione geografica della produzione degli ulivi. I consumatori sviluppano una preferenza per i prodotti alimentari che sono abituati a consumare, e anche quando sono disponibili altri prodotti, essi persistono nel loro modello di consumo. L’olio d’oliva è ormai disponibile in tutta l’Europa del Nord, a prezzi analoghi a quelli praticati nei Paesi mediterranei, ma i livelli di consumo non sono aumentati di molto, a causa di gusti e preferenze diversi. Nel 1995, in Spagna, il prezzo dell’olio di oliva è aumentato all’improvviso per una carenza di raccolto, ma il consumo è sceso solo di poco, poiché l’olio di oliva è un ingrediente tradizionale della cucina spagnola. Gli stili di vita e il modo in cui le persone vivono e utilizzano il loro tempo e il loro denaro determinano i modelli di consumo alimentare e caratterizzano i segmenti dei consumatori. Per individuare i vari segmenti di consumatori europei sono stati sviluppati diversi programmi. Seguendo lo schema Euro-Sociostyles (Agb/Europanel) sono stati pubblicati i risultati relativi alle risposte dei consumatori di 15 Paesi europei. È stato così possibile individuare cinque principali segmenti di stili di vita: “mordi e fuggi”, “elitari misurati”, “neo-tradizionalisti”, “tradizionalisti” e “esploratori” (Steenkamp 1997). I “tradizionalisti” sono, in media, più anziani e preferiscono gli alimenti tradizionali. Questo segmento, insieme a quello dei “neo-tradizionalisti”, è più Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 75 propenso ad essere ricettivo ai prodotti della propria regione. Per contro, il profilo degli “elitari misurati” fa ritenere che questo segmento possa essere particolarmente aperto ai prodotti e ai marchi globali, e ai prodotti di alta qualità. I consumatori “mordi e fuggi” e quelli “esploratori” sembrano più aperti ai prodotti nuovi. Grunert et al. (1993) hanno sviluppato un modello per correlare stili di vita e alimentazione. Questo modello è stato applicato a diversi Paesi europei e ha permesso di trarre le seguenti conclusioni generali: i consumatori francesi sono molto attenti alla qualità, mentre quelli tedeschi sono più interessati alla salute e all’ambiente (Bredahl e Grunert 1997; Brunso et al. 1996). Brunso et al. (1996) hanno classificato i consumatori di alimenti (francesi, tedeschi, inglesi e danesi) in cinque segmenti: “non impegnato”, “indifferente”, “razionale”, “conservatore”, e “avventuroso”. Il comportamento di acquisto dei “non impegnati” è caratterizzato da un basso grado di stabilità, da una bassa fedeltà ai marchi e da un’alta suscettibilità al prezzo. I consumatori “disattenti” si dimostrano molto interessati ai nuovi prodotti, che sono facili da cucinare. Non sono interessati a caratteristiche dei nuovi prodotti, quali la salubrità, il gusto o la freschezza. I consumatori “razionali” sono più ricettivi ai prodotti alimentari di qualità elevata in termini di caratteristiche, salubrità, freschezza e naturalità/ecologia. La qualità deve anche essere legata al prezzo. I consumatori “conservatori” amano osservare ed acquistare, ma sono contrari a cambiare le abitudini alimentari e a cercare prodotti nuovi. I consumatori “avventurosi” sono interessati alle caratteristiche e al prezzo dei prodotti, ma sono particolarmente inclini a tenere conto del proprio appagamento, della creatività e degli eventi sociali. I modelli di consumo alimentare stanno cambiando in tutti i Paesi dell’Unione Europea. In primo luogo, si consuma un maggior numero di pasti fuori casa, specialmente nel caso dei giovani e, in secondo luogo, i modelli di consumo alimentare in casa stanno cambiando anch’essi. Come conseguenza del mutamento delle caratteristiche sociodemografiche, il numero dei pasti consumati a casa sta diminuendo, mentre aumenta, per contro, il consumo nei ristoranti, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Per quanto riguarda i modelli di consumo in casa, i consumatori alimentari europei possono essere suddivisi in due gruppi: i consumatori nordici, i cui pasti consistono in un piatto unico, principalmente composto da carne, accompagnata da verdura, e i consumatori dell’Europa meridionale, i cui pasti sono generalmente composti da diverse portate (Askegaard e Madsen 1995). Benché questa distinzione sia tuttora valida, negli anni ’90 in alcuni Paesi i modelli di consumo alimentare hanno incominciato a cambiare. Per esempio, in Gran Bretagna, la prima colazione tradizionale sta diventando simile 76 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue alla colazione continentale e, durante il week-end, il brunch all’americana sostituisce a volte il tradizionale pranzo domenicale (roastbeef). Tuttavia, in Spagna, in Italia e in Francia, i modelli di consumo alimentare non sono cambiati in maniera rilevante. Le famiglie spagnole preferiscono mangiare insieme e consumare un pasto principale, a pranzo, formato da diverse portate (insalata, carne e dessert). In Italia, la prima colazione è leggera, come avviene in Spagna, e si consuma generalmente un pasto principale formato da diverse portate (pasta, carne e insalata). Gli Italiani sono tradizionalisti, e i fast food non hanno avuto grande penetrazione nella loro cultura. La maggioranza dei consumatori francesi segue il tradizionale modello di consumo alimentare (tre pasti: prima colazione, pranzo e cena), con una composizione molto strutturata dei due pasti principali (antipasto, piatto forte, formaggio e dessert) (Yon e Bernaud 1993). Ma il numero di questo gruppo di persone sta diminuendo e si registra l’aumento dei consumatori che non segue questo modello di consumo alimentare. Quest’ultima tipologia spesso salta uno dei pasti (81 %), beve fra i pasti (84 %), o consuma “prodotti leggeri” (82 %). I consumatori tedeschi non sono molto tradizionalisti, e adottano facilmente piatti provenienti da altre culture. Mangiano molta frutta e prodotti biologici perché sono particolarmente attenti alla salute. Il consumatore tipico non esiste più; vi sono invece consumatori che si comportano in modo diverso a seconda delle circostanze (Giannetto 1998). Inoltre, il loro normale comportamento di acquisto potrebbe essere totalmente differente da quello che adottano allorché acquistano gli alimenti in un punto vendita a prezzi scontati, oppure durante il week-end o in occasioni particolari. È importante determinare l’importo di denaro che il consumatore spende nelle diverse circostanze. Ad esempio, le stazioni di servizio potrebbero ottenere un reddito interessante dai prodotti alimentari esposti nei loro punti vendita. Le aziende di trasformazione e i rivenditori al dettaglio europei cercano di adeguarsi ad una nuova tipologia di consumatori, che vive in Paesi benestanti e in mercati saturi. Produzione e vendita al dettaglio dei prodotti alimentari Negli ultimi anni, in Europa, le strutture e le strategie dei produttori e dei rivenditori al dettaglio di prodotti alimentari sono cambiate in maniera rilevante. Sia gli uni che gli altri diventano sempre più concentrati e debbono far fronte ad una concorrenza sempre più forte in mercati alimentari saturi. Inoltre, le loro attività sono fortemente correlate, ma il rapporto di potere sta passando dai produttori ai rivendito- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 77 ri al dettaglio. Uno dei motivi principali di questo nuovo equilibrio di potere è la crescita dei prodotti identificati con private labels, a spese di quelli di marca (Poole 1997). L’estrema concentrazione, che si è verificata di recente, presenta un nuovo scenario in cui la grande distribuzione si serve di un numero molto ridotto di fornitori, in grado di far fronte alle sue esigenze. Ciò comporta una situazione nuova nella quale pare impossibile che si verifichino aspri confronti, ma è necessario raggiungere accordi e pianificare insieme il futuro. In Europa, l’importanza dei prodotti private label varia notevolmente da un Paese all’altro: dal 2,6% del mercato in Grecia, al 29,7% in Gran Bretagna nel 1999 (tabella 4). Si calcola che in media, in Europa, il prezzo dei prodotti alimentari private label sia del 25% più basso di quello dei prodotti di marca. Anche se i consumatori europei richiedono prodotti con più valore aggiunto, e in particolare una migliore qualità, molti di essi non sono disposti a pagare un prezzo alto per la qualità migliore. In questo contesto, i rivenditori al dettaglio offrono prodotti private label, che vengono ritenuti di alta qualità, con prezzi più bassi. Si prevede che la quota di mercato per i prodotti alimentari private label aumenterà, grazie ai loro prezzi bassi e al fatto che sono di qualità analoga a quelli di marca (Steenkamp 1997). Tuttavia, nel mercato europeo si registra un numero crescente di segmenti di consumatori che richiedono tipi diversi di prodotti alimentari; in particolare ancora oggi alcuni gruppi di consumatori attribuiscono valore ai nomi di marca e li collegano con una qualità ed un prestigio più elevati. Di conseguenza, in Europa, i produttori più grandi possono ancora investire per rafforzare il marchio privato della loro azienda, e questo vale soprattutto per i marchi leader. Il settore della produzione di alimenti e bevande è il più grande in Europa in termini di valore di produzione e il secondo in termini di occupazione. Tuttavia, oltre l’80% delle aziende di produzione di alimenti impiega meno di 10 lavoratori, e soltanto lo 0,3% ne impiega più di 500 (Traill 1998). Perciò, la maggioranza delle aziende alimentari è costituita da aziende medie e piccole (Pme, con meno di 250 dipendenti secondo la definizione della Commissione Europea), ma le aziende più grandi impiegano il 29% dei lavoratori e rappresentano il 40% del fatturato. Inoltre, vi sono differenze strutturali fra i vari Paesi. In Gran Bretagna, Danimarca e Svezia le industrie sono ad alta concentrazione (oltre il 50% della produzione proviene da grandi aziende), in Germania e in Francia il livello di concentrazione è medio (30-50% della produzione proviene da grandi aziende), e in Italia, Portogallo, Belgio, Grecia e Irlanda il livello di concentrazione è basso (meno del 30% della produzione proviene da grandi aziende) (Traill 1997). 78 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue Il gruppo di aziende alimentari di medie e piccole dimensioni deve concentrare le strategie sul raggiungimento dei vari consumatori europei. Le aziende di medie dimensioni, per trarre vantaggio dalle economie di scala, possono fabbricare prodotti per le private label delle aziende di vendita al dettaglio, ma possono anche vendere i loro prodotti alimentari di marca. In quest’ultimo caso, i produttori alimentari devono diventare orientati ai consumatori e rispondere alle loro esigenze, anziché indurre modelli di consumo. I piccoli produttori europei devono concentrarsi sulla produzione di prodotti molto specifici destinati ad un particolare segmento di consumatori (Gilpin e Traill 1999). Un altro dei motivi importanti che hanno provocato l’aumento del potere dei dettaglianti nel mercato alimentare è la crescente concentrazione dei punti vendita. L’indice di concentrazione, calcolato per i tre più importanti rivenditori al dettaglio in ciascun Paese, dimostra che il settore della distribuzione alimentare è caratterizzato da un’alta concentrazione. In Danimarca, Belgio, Austria e Francia, più della metà delle vendite va attribuita ai tre più importanti rivenditori al dettaglio (v. tabella 4). I dati più recenti mostrano addirittura un aumento dei tassi di concentrazione, a causa della continua fusione fra le società di vendita al dettaglio. In passato, i consumatori europei dovevano fare acquisti in una serie di piccoli negozi alimentari indipendenti (droghiere, fornaio, macellaio, ecc.). Tuttavia, durante gli anni ’70, nei Paesi del Nord (in alcuni Paesi, come ad esempio la Germania, anche prima di quel periodo), e più di recente nei Paesi meridionali, la struttura di vendita al dettaglio di prodotti alimentari ha subito grandi cambiamenti e il numero dei negozi alimentari è diminuito, mentre le loro dimensioni sono aumentate. Questo processo è avvenuto secondo fasi e momenti diversi nell’insieme dell’Europa (Meulenberg 1993). In Germania, la transizione verso il sistema self-service è avvenuta all’inizio degli anni ’50, e i supermercati hanno fatto la loro comparsa negli anni ’60 (Besch 1993). Il processo di concentrazione della vendita al dettaglio in Olanda e in Gran Bretagna è avvenuto verso la metà degli anni ’70, mentre in Francia si è verificato all’inizio degli anni ’80 (Dawson 1995). Nei Paesi dell’Europa meridionale, questo processo, essendo iniziato più tardi, è ancora in corso. Per esempio, in Spagna nel 1975 esistevano soltanto otto ipermercati e 400 supermercati; la loro importanza è aumentata rapidamente: nel 1999 il numero degli ipermercati era arrivato a 279, e quello dei supermercati a 4.310. L’attrattiva di questi grandi punti vendita è basata sui prezzi convenienti, i lunghi orari di apertura, la grande varietà di prodotti alimentari e la comodità di acquisto (risparmio di tempo). Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 79 La maggior parte dei punti vendita al dettaglio in Europa si trova in cinque Paesi: Italia (25%), Germania (14%), Spagna (14%), Francia (12%), e Gran Bretagna (11%), anche se due terzi delle vendite sono attribuibili ad aziende tedesche, francesi e inglesi (Davada 1997). La fusione fra le due più importanti aziende francesi, Promodes e Carrefour, ha creato il secondo maggior gruppo del mondo, ed è stata una chiara reazione contro l’entrata di Wal-Mart. Dopo la fusione, i dieci maggiori dettaglianti europei di alimentari sono capeggiati dal gruppo Carrefour (v. tabella 4). Si può osservare che il 46% delle vendite è attribuibile a cinque aziende tedesche, il 38% a tre aziende francesi e il rimanente 16% ad aziende inglesi. Questi ultimi tre Paesi hanno creato diversi sistemi di distribuzione, che si sono diffusi nel resto d’Europa. I canali di distribuzione in Europa si stanno spostando, in modo omogeneo, verso la concentrazione, l’internazionalizzazione e la modernizzazione, ma i sistemi di distribuzione sono ancora diversi da un Paese all’altro. La prima differenza consiste nel numero dei punti vendita al dettaglio per abitante (v. tabella 4). Il più alto numero di rivenditori al dettaglio corrisponde ai Paesi meridionali (Portogallo, Italia, Spagna e Grecia) e all’Irlanda. La seconda differenza consiste nell’importanza dei vari punti vendita al dettaglio nei diversi Paesi dell’Unione Europea. In Germania gli hard discount sono i punti vendita più numerosi (v. tabella 4). Questi punti vendita minimizzano la quantità di servizi offerti, e vendono un numero limitato di prodotti alimentari a basso costo. Gli ipermercati o i grandi supermercati si sono molto sviluppati in Francia (v. tabella 5). Essi offrono una grande varietà di prodotti alimentari e di servizi per gli acquisti, ma il prezzo rimane la loro attrattiva principale. Molto spesso, l’attrattiva principale dei centri commerciali sono gli ipermercati. In Inghilterra i supermercati hanno avuto un impatto relativo; le maggiori catene di supermercati sono molto attente ai servizi e i marchi privati dei rivenditori al dettaglio sono molto usati. Le centrali di acquisto europee hanno un potere straordinario, grazie alla grande quantità dei supermercati e degli altri tipi di punti vendita che rientrano nella loro sfera di influenza. Si è ritenuto che la scelta alimentare dei consumatori consista nella decisione di scegliere un prodotto specifico; tuttavia, sembra più ragionevole pensare che il consumatore decida innanzitutto il luogo dove effettuare gli acquisti e soltanto dopo, una volta entrato nel punto vendita, il prodotto alimentare da acquistare tra quelli disponibili nel negozio (Albisu e Gracia 1998). I consumatori hanno la tendenza a recarsi in un determinato negozio per la sua vicinanza, comodità e per i servizi che offre, ma i rivenditori al dettaglio cercano di conquistare la 80 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 81 6,7 16,8 11,3 2,6 12,0 8,4 17,8 11,9 16,2 9,7 29,7 Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Paesi Bassi Portogallo Spagna Svezia Regno Unito Fonte: AC Nielsen 19,1 25,08 Belgio Danimarca 6,9 Austria VENDITE MARCHIO PROPRIO (%) Tesco/Sainsbury/Asda Ica/Kf/D group Promodes/Eroski/Pryca Sonae/Jmr/Auchan Ahold/Superunie/Vendex Coop/Intermedia/Euromadis Tesco/Dunnes/Supervalue Marinopoulus/Veropoulus/Sklkavenitis Edeka/Rew/Aldi Intermarché/Leclerc/Auchan Kesko/Sok/Suemonen/Spar Fob/Dansksuper/Dagrofa Gib/Delhaize/Colruyt Bml/Spar/Adeg TRE MAGGIORI RIVENDITORI TABELLA 4 Caratteristiche dei rivenditori al dettaglio europei per Paese nel 1998 52 95 35 55 80 38 54 25 53 44 80 63 62 56 VENDITE DEI TRE MAGGIORI RIVENDITORI (%) 0,6 0,7 1,8 3,1 0,4 2 2,5 1,6 0,9 0,7 0,8 0,7 1,2 0,9 NUMERO DI PUNTI VENDITA PER 1000 ABITANTI 3,4 - 1,3 9,2 7,6 2,7 n.d. 1,6 8 11 7,8 - 4,9 7,7 n.d. - 9,2 - 11,5 15,5 13,2 5,5 VENDITE NEI NEGOZI SOFT DISCOUNT (%) n.d.: non disponibile 20,3 7,4 - 4,5 11,5 11 VENDITE NEI NEGOZI HARD DISCOUNT (%) TABELLA 5 Percentuale di vendite di prodotti alimentari nel 1998, per tipo di punto vendita nei Paesi dell’Unione Europea IPERMERCATI GRANDI PICCOLI SUPERMERCATI SUPERMERCATI A B SELFSERVICE DETTAGLIO TRADIZIONALE Austria 12 15 40 29 4 Belgio 15 43 30 8 5 Danimarca 17 22 36 22 2 Finlandia 23 25 26 22 4 Francia 51 24 20 5 0 Germania 25 18 36 16 6 Grecia 9 14 32 22 23 Irlanda 11 32 10 41 6 Italia 14 18 21 24 22 Paesi Bassi 5 29 54 11 1 Portogallo 41 18 11 11 19 Spagna 34 11 15 19 21 Svezia 13 35 32 17 3 Regno Unito 45 29 13 8 5 Fonte: AC Nielsen, 1998. A: da 1.000 a 2.500 mq B: da 400 a 1.000 mq fedeltà dei clienti offrendo non soltanto “tessere fedeltà” personali, ma anche prodotti di qualità tipici della loro regione ed altri incentivi. La classe sociale e l’età sono due variabili fondamentali per distinguere i profili dei consumatori fra i negozi di distribuzione (Gentles 1997). I sistemi di distribuzione variano secondo i diversi Paesi Europei, e i consumatori dei vari Paesi sembrano adattarsi ai differenti negozi e ai prodotti da essi offerti. Di conseguenza, le scelte alimentari dei consumatori dipendono dalle strategie dei rivenditori al dettaglio. Probabilmente ciò non ha molta influenza sulla loro dieta, poiché la varietà di prodotti alimentari è ampia in tutta l’Europa, mentre ha un impatto sull’assortimento, i servizi e i prezzi. Il nuovo commercio elettronico (e-commerce), che consiste nel vendere prodotti alimentari attraverso il web, in Europa non ha anco- 82 Il consumo di prodotti alimentari nella Ue ra raggiunto un impatto notevole. Nel 1998, la Andersen Consulting ha condotto un’inchiesta presso i dirigenti d’azienda americani ed europei riguardo alle loro opinioni e atteggiamenti nei confronti del commercio elettronico. Dai risultati è emerso che il 77% degli americani contro il 39% dei dirigenti europei dichiara che il commercio elettronico è una parte importante delle proprie attività lavorative. Tuttavia, in Europa, il commercio elettronico è usato principalmente per fare pubblicità ai prodotti alimentari, anche se i prodotti alimentari tipici e regionali contano di potersi espandere grazie a questo nuovo punto vendita. Inoltre, le più importanti catene di distribuzione stanno allestendo una rete di servizi finalizzati alla clientela. Sino ad oggi, il rapporto tra le aziende è molto più diffuso che il rapporto tra aziende e consumatori. I rivenditori al dettaglio che riforniscono il mercato interno degli acquisti dovranno mantenere canali paralleli di acquisto nei negozi tradizionali e capacità di consegna a casa (Röhm 1997). I prodotti tipici provenienti da zone rurali lontane basano la loro espansione anche sulla vendita per corrispondenza, perché non sono in grado di usare pienamente i moderni canali di distribuzione (Mai e Ness 1997). CONCLUSIONI I mercati dell’Unione Europea sono altamente saturi. Nella maggior parte dei Paesi, le quantità consumate hanno raggiunto l’apice e il sistema agro-alimentare cerca costantemente nuovi prodotti e nuovi servizi che aggiungano valore. In questo ambiente competitivo, il punto centrale è rappresentato dai consumatori e la conoscenza dei loro modelli di consumo è di importanza fondamentale. La globalizzazione ha favorito la concentrazione delle aziende agroalimentari e di quelle di distribuzione. Attualmente, la scena aziendale è dominata dalle multinazionali, le quali cercano di diffondere le loro esperienze da un Paese all’altro. Esse desiderano replicare i loro modelli organizzativi e produttivi in diversi Paesi. L’Unione Europea è un’area eccellente per l’espansione delle loro attività nel settore alimentare, ma esse hanno bisogno di una buona conoscenza del consumo di prodotti alimentari nei diversi Paesi. Obiettivo di questo studio era descrivere le somiglianze e le differenze esistenti nei diversi Paesi. Alcune di esse sono collegate ai fattori economici classici, altre agli stili di vita reali e molte altre ancora alle caratteristiche socio-demografiche. I modelli di consumo differiscono da un Paese europeo all’altro, anche se esistono tendenze comuni, Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 83 che costituiscono un buon esempio di compromesso tra le tendenze globali e quelle locali. Probabilmente, il sistema di distribuzione ha in sé gli elementi più potenti per rendere omogenee le reazioni dei consumatori rispetto ad un’offerta di prodotti simili nei diversi Paesi Europei. La percezione della qualità da parte dei consumatori, in un ambiente così complesso, sarà di importanza fondamentale e nel breve periodo permarranno differenze sostanziali tra i Paesi. Di conseguenza, le industrie agroalimentari adegueranno le loro linee di produzione non solo ad una domanda più comune, ma anche alle esigenze specifiche dei Paesi. I consumatori cercheranno le specialità e la convenienza attraverso nuovi mezzi di commercio elettronico ed altri canali di distribuzione delle novità. Considerata nel suo insieme, l’Unione Europea dimostra quanto sia complesso affrontare consumatori benestanti e diversi fra loro. Sommario I consumatori dell’Unione Europea sono coinvolti in processi di integrazione che portano verso l’omogeneizzazione dei modelli di consumo alimentare. I fattori che incoraggiano queste tendenze sono diversi e dipendono sia dalle somiglianze fra i consumatori che dalle attività delle aziende. Il presente lavoro esamina la struttura del consumo alimentare nei vari Paesi dell’Unione Europea, descrivendo innanzitutto le tendenze del consumo alimentare nei vari Paesi e presentando i fattori che determinano le scelte dei consumatori. Sebbene i consumatori europei incontrino condizioni di mercato più omogenee nel settore alimentare, esistono differenze nei loro consumi alimentari, perché le loro preferenze e abitudini sono ancora distinte e il mercato è frammentato. Riferimenti bibliografici “European food and drink market”, Agra Europe, Bruxelles, 1997. 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Il Comunicato Ministeriale redatto in tale occasione (Ocse 1998a) riconosce infatti che l’attività agricola, oltre a fornire alimenti e fibre, modella il paesaggio, produce benefici ambientali quali la conservazione del suolo, la tutela della biodiversità, la gestione sostenibile delle risorse naturali rinnovabili e contribuisce alla vitalità socio economica di molte aree rurali. Gli obiettivi individuati e condivisi dai Ministri agricoli Ocse tengono in debita considerazione il carattere multifunzionale dell’agricoltura, ma si orientano anche verso la realizzazione di un settore agricolo più sensibile ai segnali del mercato, e sempre più integrato nel sistema Tratto dal capitolo riassuntivo del Rapporto Ocse Multifunctionality - Towards an analytical Framework (Copyright Ocse 2001). La traduzione è stata curata da Procom Agr. L’Ocse non è responsabile della qualità della traduzione italiana e della sua conformità all’originale. Leo Maier e Mikitaro Shobayashi lavorano per la Direzione per l’Alimentazione, l’Agricoltura e la Pesca dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), Parigi. Catherine Moreddu, Jennifer Fellows ed altro personale della Direzione per l’Alimentazione, l'Agricoltura e la Pesca dell'Ocse hanno contribuito alla redazione del rapporto. (1) Si veda l’Appendice 1 per una descrizione della terminologia adottata nel presente lavoro. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 87 di commercio multilaterale. Secondo tale approccio, dunque, le politiche agroalimentari dovrebbero cercare di valorizzare l’intrinseca complementarità degli obiettivi individuati ed assicurare che le questioni relative alla sicurezza e all’approvvigionamento degli alimenti, alla protezione dell’ambiente e alla vitalità delle aree rurali, vengano affrontate in modo da massimizzare i benefici al minor costo possibile, evitando distorsioni della produzione e del commercio. Il dibattito sulla multifunzionalità, all’Ocse come altrove, è stato complicato dal fatto che il concetto stesso di multifunzionalità non è ben definito e si presta ad interpretazioni diverse. Il Segretariato ha perciò concentrato gli sforzi iniziali verso l’elaborazione di una terminologia comune, identificando le questioni normative fondamentali e sviluppando un quadro analitico che potesse essere accettato da tutti i Paesi, chiarire il significato del termine ‘multifunzionalità’ e il modo in cui questo viene usato in tali Paesi. Le reazioni a tali lavori preliminari hanno rafforzato l’impressione che i Paesi Ocse abbiano idee e posizioni sostanzialmente diverse riguardo alla definizione di multifunzionalità, al suo utilizzo nel dibattito sulle politiche agricole, e alle sue implicazioni nel processo di riforma di tali politiche. Nonostante tali diversità di vedute, il dibattito ha finito per convergere su tre punti distinti ma connessi, che hanno rappresentato il nucleo del programma di lavoro sulla multifunzionalità. Il primo punto concerne i rapporti di produzione alla base della produzione multipla del settore agricolo e la natura di esternalità e di bene pubblico di tali prodotti. Il secondo punto riguarda le questioni metodologiche ed empiriche legate alla stima della domanda di prodotti non materiali, i criteri e le procedure per individuare nuovi obiettivi di politica interna, e gli strumenti per misurarne l’evoluzione. Il terzo punto concerne gli aspetti di politica economica della multifunzionalità, incluse le implicazioni che essa può avere sulle riforme dell’intervento pubblico e sulla liberalizzazione del commercio. È stato deciso di avviare i lavori con un esame degli aspetti di produzione e di esternalità e di bene pubblico dei diversi prodotti non materiali del settore agricolo. Tale analisi si propone di far luce sugli aspetti di domanda e offerta che riguardano gli output positivi e negativi dell’agricoltura, e di esplorare sistemi alternativi, agricoli e non agricoli, per soddisfare la domanda sociale di beni non materiali. I risultati dovrebbero fornire la base analitica per un successivo dibattito sulle implicazioni della multifunzionalità per la riforma delle politiche agricole e la liberalizzazione del commercio (v. appendice 2 - Multifunzionalità e sostenibilità). 88 Multifunzionalità: un quadro di riferimento UNA “DEFINIZIONE DI LAVORO” DELLA MULTIFUNZIONALITÀ Nel dibattito sulle politiche agricole, a seconda del Paese e del contesto, il termine “multifunzionalità” è stato utilizzato con significati diversi. Se, da un lato, l’articolazione di una definizione precisa di multifunzionalità non è l’obiettivo di questo lavoro (anche se effettivamente una definizione potrebbe scaturire dai risultati dell’analisi), è necessario adottare una “definizione di lavoro” che permetta di dotare il dibattito di un punto di riferimento e di definire la prospettiva da cui esaminare la questione. Una tale definizione deve includere gli elementi chiave evidenziati dai Paesi Ocse in materia di multifunzionalità, e cioè: 1) l’esistenza in agricoltura di produzione congiunta di beni materiali e non materiali; 2) il carattere di esternalità o di bene pubblico di alcuni di tali prodotti non materiali, con la relativa assenza o funzionamento imperfetto dei mercati di tali beni. Prima di giungere a conclusioni di politica economica, le caratteristiche attribuite alla multifunzionalità dell’agricoltura vanno dunque esaminate alla luce di questa “definizione di lavoro”. Per illustrare gli elementi portanti della discussione, la ricerca fa riferimento a specifici prodotti non materiali dell’agricoltura 2. La “definizione di lavoro” presentata associa la multifunzionalità a particolari caratteristiche del processo produttivo agricolo e dei suoi output. Interpretazioni alternative che si registrano nei dibattiti in corso, tendono a fare della multifunzionalità un obiettivo piuttosto che una caratteristica (cfr. appendice 4). Nell’analisi che segue tale approccio non verrà però considerato. Il fatto che un’attività produca output multipli interconnessi acquista rilevanza economica se ciò influenza il modo in cui le risorse limitate sono impiegate dal sistema economico per soddisfare le esigenze della società. Il carattere multifunzionale può inoltre assumere rilevanza di politica economica se gli output multipli generati influenzano positivamente o negativamente il benessere sociale e se, per questi, non esiste un mercato concorrenziale. In tal caso, se un intervento mirato ad internalizzare l’esternalità viene considerato necessario, le caratteristiche dell’attività in questione influenzano il modo in cui programmare ed attuare l’azione correttiva (v. appendice 3 - Multifunzionalità: una caratteristica specifica dell’agricoltura?). (2) Gran parte degli esempi presentati si riferisce ad attività agricole o ad attività non agricole in competizione con l’agricoltura per la produzione di beni non alimentari. L’enfasi posta sulle attività agricole trae origine dal ruolo assegnato al Segretariato Ocse dai Ministri per l’Agricoltura per il raggiungimento degli obiettivi comuni per il settore agroalimentare e del programma del Comitato per l’agricoltura. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 89 IL CONTESTO DI POLITICA ECONOMICA Il contesto di politica economica entro cui si svolge l’analisi sulla multifunzionalità è dato dagli impegni che i Paesi Ocse hanno preso per ridurre progressivamente sostegno all’agricoltura e protezione doganale, e di riorientare le politiche che accrescono la produzione alimentare e l’utilizzo dei fattori di produzione verso interventi meno distorsivi del mercato e del commercio. Inoltre, data la crescente consapevolezza del ruolo degli output non materiali positivi e negativi del settore agricolo, i governi stanno intensificando le attività mirate a rendere tali prodotti corrispondenti per quantità, composizione e qualità a quelli richiesti dalla società. Alcuni Paesi membri temono che, riducendo gli aiuti alla produzione e liberalizzando il commercio, il declino della produzione alimentare possa far scendere al di sotto dei livelli desiderati dalla società la produzione di alcuni beni non materiali positivi generati congiuntamente alla produzione alimentare per i quali non esiste mercato. D’altra parte, però, i loro partner commerciali temono che tali Paesi tendano a salvaguardare la produzione di beni non materiali, o addirittura ad aumentarne l’offerta, continuando a proteggere i mercati agroalimentari interni attraverso misure che incrementano la produzione alimentare. Alla base del dibattito sulla multifunzionalità si ritrovano dunque molte considerazioni presenti in quello sulle “questioni non commerciali” dei negoziati multilaterali sul commercio. Tali questioni non commerciali possono avere effetti rilevanti sul commercio e sulla produzione in Paesi terzi. In genere, nelle situazioni in cui si è in presenza di una combinazione di beni pubblici e privati, si raccomanda di lasciare al mercato la determinazione del livello di produzione, consumo e commercio dei beni privati, e di risolvere i problemi di produzione insufficiente di beni pubblici e le situazioni di esternalità positive o negative adottando politiche disaccoppiate mirate. Le questioni relative a beni pubblici o esternalità andrebbero inoltre trattate individualmente, attraverso strumenti di politica economica che influenzano direttamente la variabile obiettivo. Tale raccomandazione corrisponde alla nota teoria economica secondo cui il numero di strumenti di politica economica deve essere uguale o maggiore al numero degli obiettivi che si perseguono (Tinbergen 1952). La sfida consiste dunque nel verificare la validità delle raccomandazioni di politica economica alla luce delle caratteristiche della multifunzionalità o, in altri termini, l’analisi simultanea degli effetti positivi e negativi dell’attività agricola, della loro produzione congiunta, e dei loro aspetti di esternalità e di bene pubblico. 90 Multifunzionalità: un quadro di riferimento L’obiettivo finale è quello definire delle linee guida per la realizzazione di politiche basate su principi “sani” che permettano di perseguire in maniera efficiente dal punto di vista della spesa obiettivi multipli, alimentari e non alimentari, e che tengano in dovuta considerazione le ripercussioni economiche, dirette ed indirette, sui mercati internazionali. A livello più generale, il lavoro sulla multifunzionalità si inserisce in un filone di ricerca del Segretariato Ocse teso ad analizzare in modo coerente le cosiddette questioni non commerciali dei negoziati multilaterali (fra cui equità e stabilità) e la liberalizzazione del commercio (v. appendice 4 - Multifunzionalità: una caratteristica o un obiettivo?). Vi sono essenzialmente due approcci all’analisi della multifunzionalità. Il primo interpreta la multifunzionalità come caratteristica di un’attività economica. Ciò che rende un’attività economica multifunzionale è la possibilità di produrre output ed effetti multipli e congiunti. Tali output ed effetti possono essere positivi o negativi, voluti o non voluti, complementari o in conflitto, si possono sommare o annullare tra loro. Alcuni hanno un valore di mercato riconosciuto, altri no. In base a questa accezione, la multifunzionalità non è specifica dell’agricoltura, ma è caratteristica di molte attività economiche, che possono assumere caratteri multifunzionali in modi diversi. Una data attività può quindi essere multifunzionale, ma non è detto che vada implicitamente considerata tale. Questa impostazione rappresenta l’approccio “positivo” alla definizione della multifunzionalità. La seconda interpretazione è fondata sulle molteplici funzioni che vengono attribuite all’agricoltura. Secondo quest’altro approccio, l’agricoltura viene vista come un’attività che deve soddisfare specifiche richieste della società. Ne consegue che la multifunzionalità non è semplicemente una caratteristica del processo produttivo, ma assume un valore intrinseco. Mantenere il carattere multifunzionale di un’attività o rendere un’attività “più” multifunzionale può divenire un obiettivo di politica economica. Tale impostazione può essere definita l’approccio “normativo” alla definizione della multifunzionalità. La presente analisi si basa sul concetto positivo di multifunzionalità. L’approccio positivo scelto dal Segretariato Ocse non esclude politiche che «(...) permettano all’agricoltura di manifestare il suo carattere multifunzionale (...)» (Ocse 1998a). Inoltre, mettere in relazione la multifunzionalità con le caratteristiche economiche del processo produttivo agricolo e dei suoi output fornisce una cornice di lavoro entro cui esaminare problemi che interessano produttori, consumatori e contribuenti. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 91 La scelta dell’approccio positivo non esclude l’esame dell’aspetto normativo della multifunzionalità. Entrambe le impostazioni vengono riconosciute dal Comunicato Ministeriale dell’Agricoltura del 1998 (Ocse 1998a). Riferirsi all’aspetto normativo della multifunzionalità porterebbe a concentrare il dibattito sugli obiettivi sociali associati all’agricoltura nei vari Paesi, fra cui gli obiettivi di equità e stabilità. Gli aspetti normativi della multifunzionalità potrebbero quindi essere esaminati in modo adeguato in un contesto di ricerca empirica sulla multifunzionalità e sulle relative implicazioni di politica economica. GLI ASPETTI LEGATI ALLA PRODUZIONE Concetti chiave e domande Quando si osserva la multifunzionalità dal punto di vista della produzione, la questione più rilevante riguarda la natura e il grado di congiunzione dei processi produttivi di beni materiali e non materiali. Se la produzione fosse disgiunta, i prodotti non materiali potrebbero essere forniti in modo indipendente dagli altri beni agricoli e le questioni non commerciali interne potrebbero essere trattate indipendentemente dalle considerazioni sul commercio. La produzione congiunta introduce due nuovi elementi: in primo luogo, qualsiasi cambiamento nel processo produttivo di beni materiali, dettato sia dal mercato sia dalle politiche, conduce ad una variazione nei livelli di produzione dei beni non materiali prodotti congiuntamente a quelli materiali; in secondo luogo, la produzione congiunta può creare economie di scopo, e cioè una riduzione dei costi generata dal fatto che diversi beni sono prodotti congiuntamente piuttosto che separatamente. Gran parte dell’analisi sugli aspetti produttivi della multifunzionalità si è concentrata su questi due elementi. Per quanto riguarda il primo, una riforma delle politiche nel settore dei beni materiali in presenza di legami tra prodotti materiali e non materiali si ripercuoterà sulla produzione di questi ultimi; analogamente, misure che perseguono obiettivi non alimentari avranno ripercussioni sulla produzione dei beni materiali e sul commercio. Uno degli sforzi più rilevanti di questa analisi è stato il tentativo di determinare se i prodotti non materiali dell’agricoltura siano effettivamente congiunti alla produzione di quelli materiali o se invece possano essere ottenuti separatamente. Ciò ha importanti conseguenze sul processo di formulazione di politiche mirate e disaccoppiate. 92 Multifunzionalità: un quadro di riferimento Il secondo aspetto esaminato riguarda le possibili riduzioni di costo dovute alla produzione congiunta. Le economie di scopo si manifestano quando la produzione di due o più prodotti è intrinsecamente meno costosa della produzione separata degli stessi prodotti. Il secondo principale indirizzo di ricerca affrontato nel lavoro riguarda quindi i fattori che determinano l’esistenza o meno di economie di scopo nella produzione congiunta di beni materiali e non materiali nell’agricoltura. Un’altra importante questione riguarda l’influenza delle caratteristiche di luoghi o aree diverse sulle interazioni del processo produttivo. Anche gli aspetti territoriali, incluse le differenze nelle dimensioni geografiche dei prodotti non materiali, sono stati esaminati nello svolgimento dell’analisi. Infine, un punto importante nello studio della multifunzionalità dal lato dell’offerta è stabilire se determinati beni non materiali possano essere prodotti ad un costo inferiore in settori diversi da quello agricolo. In questo contesto è importante capire se i beni non materiali possano essere prodotti in modo indipendente dalla produzione agricola e dall’uso di risorse agricole, e se esistano economie di scopo che conferiscono un vantaggio, in termini di costo, ai produttori agricoli rispetto a produttori non agricoli. L’attività di ricerca si è occupata di questi ed altri fattori che influenzano il costo di produzione di tali beni in agricoltura ed in altri settori. L’analisi degli aspetti produttivi della multifunzionalità non permette di trarre conclusioni in termini di interventi di politica economica. A ciò saranno dedicati futuri lavori di indagine sulle politiche, nei quali si esamineranno ulteriori fattori che influenzano i benefici relativi di diversi approcci di mercato e di politica economica. La natura della produzione congiunta in agricoltura Il fenomeno della produzione congiunta di beni non materiali in agricoltura è molto vario ed è dovuto a diversi tipi di interdipendenza tecnica, di risorse comuni o condivise, e a legami di varia natura di non sempre facile classificazione (cfr. appendice 5). La produzione di beni materiali e non materiali non avviene quasi mai in proporzioni fisse ed in genere ci sono ampie possibilità di alterare la combinazione fra beni materiali e non materiali in risposta a cambiamenti nei prezzi relativi e ad incentivi di politica ecomica. Nel caso di output ambientali, si possono ottenere miglioramenti modificando le tecnologie e le pratiche di coltivazione. Alcuni output ambientali ed elementi paesaggistici sono separabili nell’uso del suolo Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 93 dalla produzione materiale; determinati valori culturali legati alla tradizione possono essere completamente dissociati dalle attività agricole 3. In agricoltura, l’occupazione è legata alla produzione materiale, ma la crescente diffusione dell’agricoltura part time e dell’occupazione extra agricola ha modificato il rapporto tra agricoltura e vitalità delle aree rurali. Le questioni relative alla sicurezza alimentare riguardano essenzialmente la sfera del consumo ma, entro certi limiti, il commercio permette di svincolare il luogo in cui il bene è consumato dal luogo in cui è stato prodotto. Nel processo produttivo i prodotti materiali e non materiali possono essere complementari o sostituti, a seconda delle caratteristiche del processo stesso. Ridurre un’esternalità negativa causata da una interdipendenza tecnica può far diminuire l’offerta del prodotto, mentre incrementare un’esternalità positiva può farla aumentare. Dove output materiali e non materiali sono in competizione per l’uso del suolo, un aumento della produzione non materiale comporta generalmente una riduzione di quella materiale. Sostenere la produzione agricola con l’obiettivo di ottenere beni non materiali genera quasi certamente effetti indesiderati nei confronti della produzione di altri output non materiali. Focalizzando l’intervento direttamente sull’offerta di beni non materiali, piuttosto che sul sostegno dei prodotti agricoli, si ottengono livelli di output non materiali superiori e minori effetti indesiderati, in linea con quanto richiesto dalla società. Utilizzando incentivi orientati alla produzione di beni non materiali si ottiene, entro i limiti imposti dalle sottostanti relazioni di produzione, la massima dissociazione possibile tra output materiali e non materiali con il minimo effetto distorsivo possibile sul commercio. L’uso mirato di politiche economiche incrementa la precisione e riduce le distorsioni con cui operano i mercati dei beni materiali. I benefici così ottenuti andranno comunque valutati al netto degli eventuali aumenti nei costi di transazione. Poiché molti beni agricoli non materiali sono legati alle attività o all’uso delle risorse agricole, predisporre programmi nazionali per raggiungere obiettivi di produzione non materiale si ripercuoterà - positivamente o negativamente - sulla produzione dei beni agricoli materiali. Nel valutare i costi ed i benefici relativi al raggiungimento di obiettivi non materiali interni vanno tenuti in considerazione gli inevitabili (3) Tali affermazioni si riferiscono alla separabilità “tecnica”. La separabilità di un servizio dalla produzione alimentare non implica che gli agricoltori non possano fornire tale servizio al minor costo. 94 Multifunzionalità: un quadro di riferimento effetti sul commercio e le loro conseguenze sul benessere di altri Paesi. Nel comparare misure di politica economica alternative, vanno tenute dunque in considerazione anche le ripercussioni sulle economie degli altri paesi Paesi. Le relazioni tra prodotti materiali e non materiali vanno esaminate in un contesto dinamico. Al fine di modificare il rapporto tra beni materiali e non materiali prodotti, l’intensità produttiva può subire infatti variazioni. L’esperienza degli agricoltori, ed informazione e tecnologie innovative, sono tutti fattori che creano nuove soluzioni per l’uso delle risorse agricole e che possono influenzare la composizione del paniere di beni non materiali generati nei processi in esame. Ricerca e sviluppo in agricoltura e formazione professionale degli agricoltori possono dimostrarsi strumenti efficaci per modificare le relazioni produttive che portano alla formazione dei prodotti non materiali dell’agricoltura. In futuro, i rapporti fra gli output prodotti congiuntamente potrebbero subire modificazioni 4. Le dimensioni di spazio, tempo e scala degli output non materiali La qualità ed il costo di produzione dei beni non materiali può variare in modo significativo fra Paesi diversi, così come all’interno dei Paesi stessi; ciascun bene non materiale, inoltre, è caratterizzato da una propria dimensione territoriale. Le differenze nella produttività e nelle dimensioni di aree diverse, combinate con i diversi livelli domanda per beni non materiali, indicano come non esista una risposta unica ed ottimale per le diverse questioni non commerciali che si adatti a qualsiasi zona di produzione. Al contrario, differenze geografiche e di dimensione riducono l’utilità di interventi basati su politiche di mercato che non prevedono la possibilità di essere adattate localmente. Ignorare le differenze logistiche di produttività e le dimensioni scalari che caratterizzano i beni non materiali può portare ad un’offerta di tali beni eccessiva o insufficiente nelle diverse aree. Se le varie funzioni dell’agricoltura fossero completamente separabili, ogni singolo prodotto non materiale potrebbe essere gestito nella sua giusta dimensione geografica. Tuttavia, la produzione congiunta richiede che i prodotti multipli vengano trattati simultaneamente. Ciò (4) Argomenti pertinenti sono stati trattati nel seminario Ocse su “Sistemi e tecnologie per un’agricoltura sostenibile”, organizzato dal Joint Working Party del Comitato per l’Agricoltura ed il Comitato per le Politiche Ambientali, tenutosi nei Paesi Bassi nel luglio 2000 (Ocse 2001b). Anche la conferenza Ocse su “Sistemi di conoscenza ed informazione in Agricoltura al servizio della sicurezza alimentare e di questioni ambientali”, svoltasi nel gennaio 2000, ha toccato argomenti relativi ai temi in discussione (Ocse 2000b). Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 95 può rendere difficile adottare un approccio che mantenga i vantaggi di soluzioni individuate sulla base della dimensione scalare, permettendo nello stesso tempo di tenere in considerazione le differenze geografiche di produttività dei beni non materiali. Una soluzione potrebbe essere quella di identificare i principali usi del suolo da adottare nelle diverse aree sulla base della richiesta dei beni non materiali in tali aree, o di quali beni non materiali possano essere prodotti nel modo più efficiente date le condizioni locali. Una volta effettuata tale esplorazione andrebbe verificato se dimensioni produttive simili permettono di risolvere diverse questioni non alimentari sulla stessa scala. In questo contesto, inoltre, è importante identificare il livello amministrativo più appropriato per coordinare azioni di politica e di mercato. Oltre alle questioni spaziali, anche la dimensione temporale assume particolare rilevanza per i prodotti non materiali. Pur non essendo possibile nella presente analisi esplorare in dettaglio tali aspetti, è bene non sottovalutare questioni quali il tempo impiegato per la produzione di un bene non materiale, il processo di sviluppo che il bene segue in tale lasso di tempo, la velocità di adattamento di sistemi e pratiche agricole, e la dimensione permanente o temporanea dei beni non alimentari. Nel processo di analisi di politica economica è dunque importante considerare anche le dimensioni temporali dei beni non materiali. L’offerta di beni non materiali extra agricola La contrapposizione tra offerta di beni non materiali dal settore agricolo e da altri settori ruota attorno alle tre seguenti domande: è possibile separare l’offerta di beni non materiali dalla produzione agricola? Fino a che punto i beni non materiali forniti da altre attività possono sostituire quelli forniti dal settore agricolo? E come può il sistema economico nazionale e internazionale soddisfare la domanda di beni non materiali al minimo costo possibile in termini di risorse? Riguardo alla possibilità di un’offerta non agricola di beni non materiali, l’analisi rivela una situazione piuttosto complessa. L’offerta da parte di gruppi o aziende non agricole di beni non materiali legati alla terra ad uso agricolo, inclusi determinati servizi ambientali e di attrazione turistica, si rende possibile solo dove tali entità abbiano accesso alla terra e le loro funzioni non contrastino con l’attività agricola. Tali condizioni si verificano più facilmente nei casi in cui beni materiali e non materiali sono separabili nell’uso della terra. Se la produzione separata non è realizzabile, le possibilità che agricoltori ed operatori non agricoli svolgano parallelamente funzioni diverse sono limitate. 96 Multifunzionalità: un quadro di riferimento Per quel che attiene ai servizi non direttamente legati al terreno agricolo, non vi è praticamente nessun limite all’offerta proveniente dagli altri settori. Ciò riguarda, ad esempio, la vitalità delle comunità rurali o la manutenzione e il restauro di costruzioni di interesse storico nelle aree rurali. In termini di occupazione, l’agricoltura non è più in grado di offrire un numero rilevante di posti di lavoro ma, ove non vi siano alternative economiche proponibili, il semplice rallentamento della crescita della disoccupazione agricola può essere utile ad attenuare i problemi di spopolamento. Nelle aree dove effettivamente esistono impieghi alternativi, ci si può chiedere se trasferire posti di lavoro verso attività non agricole comporti una perdita in termini di tradizioni, valori e stili di vita. Assicurandosi che le tradizioni più significative vengano salvaguardate in modi diversi, un certo grado di transizione può comunque essere accettabile. Per quando riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, il dibattito è imperniato sulla contrapposizione tra offerta interna ed offerta estera, e tra il ricorso, nei periodi critici, a scorte alimentari o all’attivazione di potenziali produttivi aggiuntivi. Contributi non agricoli al problema della sicurezza alimentare includono politiche macroeconomiche per innalzare il livello generale del reddito e rendere gli alimenti meno costosi, e misure che rendono più facile l’accesso al cibo, quali, ad esempio, lo sviluppo di un sistema di trasporto e distribuzione affidabile. Garantire approvvigionamenti adeguati mantenendo la produzione alimentare nazionale al di sopra della domanda genera costi per i contribuenti, i consumatori ed i produttori esteri, e potrebbe avere un impatto negativo sulla sicurezza alimentare a livello globale. D’altro canto la possibilità di affidarsi a fonti alternative alla produzione nazionale per garantire l’approvvigionamento alimentare è una questione da verificare caso per caso. La sicurezza alimentare non è esclusivamente un prodotto congiunto del processo produttivo alimentare nazionale, né un prodotto congiunto del commercio agricolo. Una situazione particolare si verifica quando, in determinate aree, l’attività agricola non è più profittevole, ma alcuni degli output non materiali da essa forniti vengono considerati essenziali. In questi casi ci si domanda se gli agricoltori siano gli operatori più adatti per continuare a produrre tali beni. Il reddito degli agricoltori potrebbe essere basso e in progressiva riduzione, tanto da non permettere loro di accettare un profitto sulla produzione dei beni non materiali inferiore rispetto a quello guadagnato dagli operatori non agricoli. Produttori esterni più efficienti potrebbero quindi entrare in competizione con gli agricoltori per l’uso della terra sulla base degli incentivi diretti forniti Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 97 per la produzione di beni non materiali. Le possibili differenze nella qualità di quegli stessi beni, quando forniti da operatori extra agricoli, ed il loro effetto sulle valutazioni dei consumatori sono questioni da tenere in debita considerazione. Riepilogando, l’analisi della multifunzionalità dal punto di vista della produzione suggerisce che i vari prodotti non materiali dell’agricoltura, positivi e negativi, si differenziano in modo sostanziale rispetto: al loro legame con l’attività agricola ed alle interazioni reciproche; alla misura in cui sono legati alla produzione di output materiali; ai legami con luoghi specifici di produzione; all’estensione geografica; alla possibilità di essere prodotti al di fuori del settore agricolo. A causa di tali differenze, è improbabile che si possano raggiungere specifici obiettivi non alimentari intervenendo con azioni correttive sulla produzione materiale, lasciando che quella non materiale si assesti di conseguenza. Tale modalità di intervento porterebbe invariabilmente ad una situazione di eccesso o difetto di offerta di alcuni dei prodotti non materiali, trascurando al contempo la possibilità di raggiungere gli obiettivi desiderati tramite incentivi diretti specifici, con minore impatto sul mercato dei beni materiali e sul commercio. GLI ASPETTI DI ESTERNALITÀ E DI BENE PUBBLICO DELLA MULTIFUNZIONALITÀ Qualora tutti i beni non materiali fossero beni privati scambiati su mercati funzionanti, le transazioni tra privati assicurerebbero un uso efficiente delle risorse e l’equilibrio tra domanda ed offerta su tutti i mercati. Inoltre, se la produzione non è congiunta, incluso il caso in cui esistono sostituti efficaci dei beni non materiali, il bene non materiale può essere prodotto indipendentemente da quelli materiali. Per affrontare un dibattito completo sulle possibili soluzioni di politica economica da adottare è dunque necessario discutere sia della mancanza dei mercati, sia della produzione congiunta fra output ed esternalità. L’analisi che si occupa degli aspetti di esternalità e bene pubblico della multifunzionalità esamina quando e come esattamente i mercati falliscono per la presenza di esternalità e mostra come i beni non materiali che assumono i caratteri di esternalità positive non provochino necessariamente il fallimento del mercato. In teoria, un’esternalità positiva conduce al fallimento del mercato in quanto i produttori non tengono in conto dei benefici socio-economici dell’esternalità, e finiscono per ridurre l’offerta del bene che la genera. In realtà, il fallimen- 98 Multifunzionalità: un quadro di riferimento to del mercato è un processo più articolato, ed è funzione della distribuzione della domanda per l’esternalità. Ad esempio, si supponga che una certa esternalità sia prodotta in proporzioni fisse rispetto al bene materiale, indipendentemente dal luogo o dal costo di tale produzione, e che la domanda sia totalmente soddisfatta dalla quantità prodotta in modo congiunto dai produttori che hanno i costi più bassi. In tal caso, non si verifica fallimento del mercato, poiché la quantità di esternalità richiesta dalla società è pienamente soddisfatta senza la necessità di accrescere l’offerta del bene materiale. Se i prezzi interni scendono e si è in presenza di scambi commerciali, il tipo di fallimento del mercato che risulta da una variazione nella esternalità positiva sarà diverso da quello che si verifica in assenza di commercio. Il risultato positivo o negativo, in termini di benessere sociale, dipende da diversi parametri. I guadagni derivano dai minori costi privati ottenuti dalla riduzione del numero di aziende agricole con alti costi di produzione, nonché dalla maggiore soddisfazione dei consumatori conseguente ad un maggiore consumo. Le possibili perdite derivano invece dalla diminuzione dell’offerta dell’esternalità positiva generata della riduzione della produzione interna. Considerando inoltre anche le esternalità negative, la possibilità della presenza di fallimento del mercato si riduce in quanto una diminuzione di una esternalità positiva può essere bilanciata da una diminuzione di quella negativa. Il risultato finale potrebbe anche essere influenzato da possibili legami di consumo tra esternalità. L’esistenza di esternalità negative potrebbe addirittura ridurre la domanda di esternalità positive, riducendo così il rischio di fallimento del mercato. Anche l’ipotesi che riduzioni nei prezzi dei beni comportino una riduzione nella produzione va esaminata in un contesto dinamico. I livelli di produzione potrebbero essere mantenuti grazie ad aumenti della produttività nelle imprese più efficienti. Gli agricoltori potrebbero anche riorientare la produzione verso merci diverse, più profittevoli, ma che presentino la stessa esternalità positiva desiderata. Tale flessibilità di percorso riduce il rischio del fallimento del mercato, che si verifica quando l’offerta di una esternalità positiva si riduce in seguito ad una caduta dei prezzi. È importante comprendere che il modo in cui i benefici delle esternalità sono legati alla produzione può essere uno dei fattori che influenzano il grado di fallimento del mercato, anche se gran parte degli esempi teorici ipotizzano benefici marginali costanti. Le esternalità legate al luogo (benefici marginali discontinui) o quelle che provocano la diminuzione del valore marginale del prodotto all’aumentare della quantità prodotta (benefici marginali decrescenti) hanno minori proba- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 99 bilità di essere associate ad un fallimento del mercato di quelle con benefici marginali costanti (ipotizzando che i benefici totali siano gli stessi). Alcune delle esternalità discusse in relazione alla multifunzionalità appartengono molto probabilmente a tali categorie. L’effettiva presenza di un fallimento del mercato è dunque questione da valutare empiricamente. L’appartenenza della sicurezza degli approvvigionamenti e dell’occupazione rurale alla multifunzionalità dell’agricoltura è questione dibattuta. Innanzitutto andrebbero esaminate attentamente le relazioni di produzione, così da stabilire quali siano i legami con la produzione agricola nazionale e valutare la possibilità di un’offerta non agricola più efficiente. Solo nel caso in cui la produzione nazionale di beni materiali si dimostri più efficiente, ci si deve occupare di esternalità e beni pubblici. L’occupazione rurale in agricoltura è solamente un fattore di produzione e non può essere considerata un’esternalità della produzione agricola. Essa può avere tuttavia importanti conseguenze sociali, come ad esempio quella di contribuire ad arginare lo spopolamento delle aree rurali (allo stesso modo, un fertilizzante può causare un’esternalità ma non è tale di per sé). Se questi impatti, positivi o negativi, non sono incorporati nei prezzi di mercato dei beni, possono definirsi esternalità. Per quel che riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti, la produzione interna potrebbe influenzare (in modo positivo o negativo) il rischio di una carenza nella disponibilità di alimenti, e ciò spesso non si rispecchia nei prezzi di mercato dei beni materiali. Tali impatti sulla sicurezza degli approvvigionamenti possono quindi essere considerati esternalità (positive o negative) del processo produttivo di beni agricoli. Il saldo fra effetti positivi ed effetti negativi è però questione da valutare empiricamente (ad esempio, un Paese che si affida esclusivamente alla produzione interna non diversifica le fonti di approvvigionamento attraverso le importazioni ed è quindi particolarmente vulnerabile nei confronti di shock di offerta dovuti ad condizioni meteorologiche avverse). Beni pubblici Anche se determinati beni non materiali possono essere classificati come esternalità positive all’origine di fallimenti di mercato, l’intervento correttivo dello Stato non è necessariamente la soluzione migliore. A seconda delle caratteristiche specifiche di bene pubblico dei prodotti non materiali, vi sono diversi modi per ridurre il divario tra costi privati e costi sociali; molte di queste soluzioni richiedono poco 100 Multifunzionalità: un quadro di riferimento o nessun intervento pubblico per agevolare la formazione dei mercati. Senza un’adeguata classificazione dei beni pubblici si corre il rischio che beni diversi tra loro come strade a pedaggio, difesa nazionale, risorse naturali appartenenti a comunità, servizi comunali antincendio ed allevamenti ittici vengano discussi insieme trascurando la necessità di sviluppare soluzioni di politica economica diverse a fronte di caratteristiche di bene pubblico diverse. Un altro elemento che dimostra la necessità di un’accurata classificazione dei beni pubblici è rappresentato dal possibile insuccesso di politiche economiche basate su stime della domanda per beni pubblici errate. Essendo simili errori probabili, è forse bene preferire all’offerta regolata dal governo soluzioni che non si basano su stime della domanda di beni pubblici (ad esempio, il mercato), anche se tali alternative possono talvolta generare inefficienza (offerta insufficiente). Nell’analizzare le diverse alternative vanno tenuti in conto i costi amministrativi e di transazione connessi. Sulla base delle loro caratteristiche di beni pubblici puri o imperfetti, sono state individuate sei categorie di esternalità positive. Ognuna di queste categorie richiederebbe un intervento di politica economica completamente diverso da quello richiesto dalle altre o, in alcuni casi, nessun intervento. Una classificazione sommaria delle esternalità più rilevanti dal punto di vista di bene pubblico viene proposta nell’appendice 6. Sebbene tale classificazione vada verificata empiricamente, facendo soprattutto attenzione a fattori come gli aspetti tecnici ed istituzionali dei meccanismi di esclusione (es. diritti di proprietà), essa indica la possibilità che molte esternalità appartengano a categorie che richiedono un intervento pubblico nullo o marginale. Solamente alcune vengono classificate fra i beni pubblici puri o fra le risorse di pubblico accesso, difficilmente prodotte a livelli ottimali senza l’intervento dello Stato. Molte esternalità vengono invece classificate fra le risorse condivise o fra i beni di club che, rispetto ai beni pubblici puri e alle risorse di pubblico accesso, possono essere gestite più agevolmente in assenza dell’intervento pubblico (o con un ruolo dello Stato limitato ad incoraggiare la formazione di associazioni, a svolgere attività informativa, ecc.). La caratterizzazione di molte esternalità come beni pubblici locali contribuisce inoltre a rendere più vasta la scelta fra le politiche economiche disponibili. È bene anche evidenziare la dinamicità dei beni non materiali riguardo il tipo di bene pubblico puro o imperfetto. La natura di bene pubblico di determinate esternalità può infatti modificarsi nel tempo, ed alcune di queste potrebbero arrivare anche a convertirsi in beni pri- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 101 vati. Se l’analisi delle alternative di politica economica non prende in considerazione tali aspetti dinamici ne potrebbe derivare un intervento pubblico superfluo o addirittura dannoso. È probabile che anche i rapporti nel consumo di diverse esternalità possano essere tutelati più efficacemente senza l’intervento dello Stato. Ad esempio, nel caso in cui il consumo di un bene pubblico puro sia complementare a quello di un bene pubblico imperfetto o di un bene privato, il rischio che tale bene non venga offerto in misura adeguata può essere ridotto dalla possibilità che si generi un’offerta volontaria o di mercato. I rapporti nel consumo tra esternalità sono anche rilevanti per stabilire se esse sono causa di fallimento di mercato. La domanda per esternalità può variare a seconda che esse siano sostituti o complementi; anche la possibilità che vi siano legami di consumo tra esternalità positive e negative ha rilievo in tal senso. Una possibilità per evitare di dover stimare la domanda per esternalità multiple è rappresentata dalla costituzione di club (associazioni multiprodotto) che forniscono beni pubblici imperfetti con caratteristiche comuni. I potenziali membri dei club decidono se associarsi o meno a seconda del costo (la quota associativa) e dei vantaggi garantiti dall’essere associati. I benefici ricevuti associandosi al club rappresentano un indice della disponibilità a pagare per usufruire simultaneamente delle diverse esternalità, che quindi riflette le relazioni di sostituzione o complementarità esistenti tra le varie esternalità. Anche questioni di stabilità ed equità insite nell’offerta di diversi beni pubblici imperfetti possono assumere rilevanza nel processo di formulazione delle politiche economiche. Le soluzioni che si rivelano più efficaci per generare offerta di determinati beni pubblici imperfetti potrebbero infatti non risultare ottimali dal punto di vista della stabilità e dell’equità dell’intervento. Le diverse soluzioni istituzionali per l’offerta di beni pubblici (ad esempio, offerta volontaria, offerta da parte del governo centrale o di quello locale, offerta basata sulla produzione congiunta, offerta da parte di club, offerta da parte della comunità locale, ecc.) possono presentare diversi gradi di stabilità. La cessazione dell’offerta di un determinato bene pubblico non solo può portare ad una situazione di offerta insufficiente (o nulla), ma anche ad una perdita d’efficienza complessiva maggiore che non nel caso in cui cessi l’offerta di un altro bene pubblico. La multifunzionalità può avere implicazioni in termini sia di equità, a livello nazionale ed internazionale, sia di distribuzione del reddito. Sul fronte interno, le questioni di equità in materia di multifunziona- 102 Multifunzionalità: un quadro di riferimento lità sono più articolate rispetto a quelle relative ai singoli prodotti. Oltre alle interazioni fra prodotti multipli, ogni bene (esternalità) ha infatti proprie implicazioni in materia di equità. La sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, ad esempio, se non viene perseguita tramite il sostegno dei prezzi, risulterà più utile alla popolazione povera che non a quella ricca. In caso di una carenza d’offerta, le persone abbienti possono infatti permettersi di continuare ad acquistare alimenti anche a prezzi più alti. D’altra parte, la tutela del paesaggio rurale può rappresentare il caso di benefici apprezzati dai più ricchi, poiché la domanda di tali attrattive aumenta in genere con il reddito. Nel contesto della multifunzionalità, ed in materia di equità e distribuzione del reddito, le questioni cruciali sono due: 1) gli effetti della multifunzionalità sui beneficiari (l’aspetto del beneficio); 2) in quali modi i costi della tutela della multifunzionalità influenzano o meno la distribuzione del reddito (l’aspetto del costo). In virtù dell’esistenza dei vantaggi comparati, il commercio internazionale può accrescere il benessere di tutti i Paesi. Tuttavia, la presenza di esternalità positive e negative associate ai prodotti scambiati, insieme alle politiche messe in atto per internalizzarle, può influenzare la distribuzione del reddito dei Paesi coinvolti negli scambi. Ciò potrebbe quindi portare a casi in cui il commercio non accresce il benessere di tutti i Paesi. Il modo in cui la distribuzione del reddito cambia in risposta al commercio e alle esternalità è un problema empirico, che dipende in gran parte dal numero e dalla natura delle esternalità di ciascun Paese, e dagli effetti sui rapporti di scambio per un determinato bene generati dalle politiche nazionali mirate ad internalizzare le esternalità. La multifunzionalità può avere effetti diversi fra Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, ma il quadro analitico adottato nel presente lavoro dovrebbe, in linea di principio, adattarsi ad entrambe i gruppi. Quando si discute di multifunzionalità, gran parte delle differenze relative alle due categorie di Paesi riguardano l’intensità dei fenomeni piuttosto che la loro natura. Tali differenze si riferiscono, ad esempio, ai livelli ed alla struttura della domanda di beni non materiali, al quadro istituzionale richiesto per la creazione del mercato e dell’offerta volontaria, ai costi di transazione ed alla capacità della pubblica amministrazione. Le differenze in questione potrebbero comunque avere implicazioni di politica economica in relazione, soprattutto, a questioni di distribuzione del reddito nazionale ed internazionale (v. appendice 6 - Classificazione esemplificativa delle categorie di beni pubblici). DALL’ANALISI ALLA POLITICA ECONOMICA Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 103 Le analisi della multifunzionalità dal punto di vista della produzione e delle caratteristiche di esternalità e bene pubblico sono complementari fra loro in quanto si occupano rispettivamente degli aspetti dell’offerta e della domanda. Per poter procedere nella discussione delle implicazioni di politica economica della multifunzionalità è necessario combinare i risultati emersi dalle diverse analisi. Ad esempio, l’esame delle caratteristiche di bene pubblico dei beni non materiali richiede informazioni sulle modalità di produzione e di consumo di tali beni. Per determinare costi e benefici marginali di una esternalità bisogna infatti conoscere sia la struttura dell’offerta (come viene prodotta congiuntamente ad un bene materiale), sia le caratteristiche della domanda (come viene valutata dalla società). Le analisi sulle interazioni produttive e sulle caratteristiche di esternalità e di bene pubblico della multifunzionalità possono anche essere viste come un quadro di riferimento che fornisce indicazioni per la formulazione delle politiche di intervento. Le risposte alle domande che emergono nel procedere dell’analisi possono essere considerate linee guida per lo sviluppo delle soluzioni di politica economica. Va precisato tuttavia che, a causa della presenza di interrelazioni complesse, non sempre è possibile dare risposte univoche alle domande che emergono; nonostante ciò, tali domande possono comunque servire ad indirizzare il dibattito e a mantenerlo centrato sui punti chiave identificati nell’analisi. Tale processo permette inoltre di eliminare dalla discussione i casi in cui non sono necessari specifici interventi, di identificarne altri in cui un intervento può apportare benefici, e di fare luce sulla natura degli interventi di politica economica che possono raggiungere la maggiore efficienza. Tale quadro analitico, infine, garantisce una trattazione rigorosa, obiettiva e coerente degli interessi e dei prodotti non materiali identificati. Lo schema concettuale proposto esaminerà in prima istanza se un bene non materiale viene prodotto congiuntamente ad un bene materiale e, in tal caso, se tale relazione produttiva può essere disgiunta. Qualora ciò fosse possibile, il bene non materiale potrebbe essere prodotto in modo indipendente. Analogamente, se la produzione di un bene non materiale può essere separata a costo zero da quella del bene materiale, il bene non materiale può essere prodotto in maniera indipendente. In tal caso, potrebbe non esserci alcun legame d’intervento tra liberalizzazione del commercio agricolo e offerta di beni non materiali sul mercato interno. Politiche che perseguono esclusivamente l’offerta di beni non materiali possono essere attuate indipendentemente dalla produzione agricola. In tale prospettiva sarebbe comunque 104 Multifunzionalità: un quadro di riferimento necessario formulare politiche che sostengano in modo efficiente la produzione di beni non materiali, ma ciò non avrebbe ripercussioni sul commercio. Esistono molti modi per rendere meno vincolanti i legami tra beni materiali e beni non materiali. Modifiche nelle tecnologie e nelle pratiche agricole, ad esempio, possono ridurre la dipendenza dei beni ambientali dalla produzione di beni materiali. Vi sono inoltre diverse possibilità di produrre al di fuori del settore agricolo beni non materiali a minor costo. La produzione di molti beni non materiali, tuttavia, non può essere completamente disgiunta dalla produzione materiale. A tale proposito, va evidenziato che, pur essendo esternalità per definizione, i beni non materiali prodotti congiuntamente ai beni materiali non sempre provocano fallimento del mercato. Nel caso in cui tali beni non materiali non siano dunque all’origine di fallimenti del mercato, non esiste la necessità di predisporre interventi, né di tipo commerciale né sul mercato interno. Casi in cui le esternalità positive non provocano fallimento di mercato sono stati effettivamente identificati. Ad esempio, l’offerta di beni non materiali da parte di agricoltori che producono a costi inferiori al prezzo di mercato può essere sufficiente a soddisfare la domanda esistente. In tal caso, nonostante il beneficio dell’esternalità non sia stato internalizzato nel processo decisionale degli agricoltori, non si verifica inefficienza. Inoltre, anche la valutazione delle esternalità negative può ridurre il rischio di fallimento del mercato associato alle esternalità positive. Proseguendo nella rassegna dei casi possibili, resta da esaminare l’eventualità in cui i beni non materiali siano effettivamente prodotti congiuntamente ad altri beni e siano all’origine di fallimento di mercato. In tale situazione, va innanzitutto verificata la possibilità di minimizzare i fallimenti del mercato senza ricorrere all’intervento dello Stato. Nei casi di fallimento del mercato associati ad esternalità è comunque necessario adottare misure per incentivare i produttori ad incorporare gli effetti sociali nelle decisioni di produzione. Le ricerche fino ad ora condotte indicano che, a seconda della caratteristica di bene pubblico dell’esternalità, esistono numerose alternative per fornire tali incentivi; per alcuni tipi di beni pubblici, le soluzioni alternative al coinvolgimento dello Stato potrebbero essere le più indicate. Applicando il processo analitico elaborato è possibile identificare le linee di intervento pubblico che entrano in conflitto con la liberalizzazione del commercio. In sintesi, le domande cui rispondere sono le seguenti: Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 105 • Il processo che porta alla produzione congiunta di beni non materiali è caratterizzato da relazioni così strette tra beni materiali e non materiali, tali da non poter essere alterate, ad esempio, introducendo modifiche nella tecnologia e nelle pratiche agricole, o approvvigionandosi di beni non materiali di fonte extra agricola a minor costo? • In caso affermativo, esiste un fallimento del mercato associato a tali beni non materiali? • In caso affermativo, sono state esaminate alternative all’intervento dello Stato (come la formazione del mercato o l’offerta volontaria) quali strategie più efficienti? Nel caso in cui le risposte alle tre domande siano tutte affermative, si può dunque procedere nel definire le modalità di intervento più efficienti. Ciò va fatto prendendo in esame, dal lato dell’offerta, la natura della produzione congiunta e, dal lato della domanda, le caratteristiche di bene pubblico dei beni non materiali. Le diverse alternative possibili, fra cui l’offerta generata da interventi della pubblica amministrazione centrale o locale, l’offerta fondata sui rapporti di consumo fra diversi beni, l’offerta di fonte associativa e l’offerta proveniente da comunità dovranno essere esaminate attentamente. Vanno inoltre considerati con attenzione gli aspetti legati ai costi di transazione e ai costi amministrativi associati alle diverse possibili opzioni. Alcune di tali opzioni potrebbero richiedere un intervento pubblico molto limitato. Questioni di stabilità, equità ed effetti di ripercussione internazionale possono inoltre influenzare le scelte di politica economica. È bene sottolineare che l’insieme di informazioni necessarie per rispondere alle domande presentate sopra è molto vasto, e che, comunque, non sempre è possibile individuare risposte univoche. La stessa reperibilità delle informazioni può quindi influenzare le scelte di politica. Va inoltre considerato che non sempre è possibile rispondere alle domande nell’ordine assegnato. La risposta alla terza domanda, ad esempio, potrebbe emergere solo dopo aver comparato i costi e i benefici di ciascuna opzione. In tal caso, alla luce della nuova informazione, la risposta alla prima domanda andrebbe riconsiderata come nel caso in cui, per ipotesi, la produzione agricola di beni non materiali si riveli più costosa di quella ottenuta al di fuori del settore agricolo. Nonostante tali difficoltà applicative, il quadro di riferimento presentato (e cioè un’accurata indagine esplorativa guidata dai tre quesiti) può rivelarsi, in sede di formulazione delle politiche, un utile strumento per comprendere gli elementi essenziali dell’analisi teorica. L’appli- 106 Multifunzionalità: un quadro di riferimento cazione di tale processo di analisi può essere d’aiuto nell’evitare la formulazione di politiche inefficaci, inefficienti, costose, ed in conflitto con gli accordi internazionali. In aggiunta all’analisi degli impatti di mercato di politiche che perseguono obiettivi non materiali interni, una valutazione completa delle ripercussioni economiche internazionali di tali politiche deve necessariamente includere gli effetti legati alle esternalità positive e negative generate in Paesi terzi attraverso il commercio. APPENDICE 1 UNA NOTA TERMINOLOGICA Nel redigere il rapporto Ocse sulla multifunzionalità è stato necessario prendere alcune decisioni circa la terminologia da utilizzare. Fino ad ora la multifunzionalità non è stata oggetto di indagini economiche approfondite e non si è quindi ancora sviluppata una terminologia specifica per descriverne gli elementi fondanti. In alcuni casi, esiste più di un termine per descrivere un particolare aspetto, ma nessuno si adatta perfettamente allo scopo *. Un esempio a riguardo è l’uso dei termini “prodotti materiali” e “non materiali” (commodity e non-commodity). In precedenti lavori sulla multifunzionalità sono stati impiegati i termini “prodotti alimentari” e “non alimentari” (food e non-food). La ragione risiedeva nel fatto che la produzione alimentare è normalmente la funzione primaria dell’agricoltura e gli output prodotti congiuntamente al cibo, come il paesaggio agricolo, sono beni non alimentari. Tuttavia, è stato fatto notare che una percentuale rilevante terreno agricolo produce beni non alimentari, come fiori e fibre, energia rinnovabile o materie prime per la produzione industriale. In tali casi il paesaggio agricolo sarebbe un bene derivato non della produzione alimentare, ma di quella non alimentare. Come alternativa sono stati presi in considerazione i termini “beni di mercato” e “beni non di mercato” (market e non-market goods) in quanto permetterebbero a materie prime alimentari e non alimentari di essere raggruppate sotto un termine unico. Con tale soluzione sorge tuttavia un altro problema: uno dei principali obiettivi del presente lavoro è stabilire fino a che punto i prodotti non alimentari dell’agricol(*) NdT: La mancanza di una terminologia specifica per la trattazione della multifunzionalità vale anche per la lingua italiana. Per maggior chiarezza, in questa sezione sulla terminologia sono stati riportati accanto alla versione italiana i termini utilizzati nella versione originale. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 107 tura siano commerciabili o meno. Il distinguere a priori tra beni di mercato e beni non di mercato significherebbe condizionare il risultato dell’analisi. La soluzione finale è stata dunque quella di optare per i termini “beni materiali” e “beni non materiali”, che non presentano i problemi citati. I termini “sottoprodotti” (by-products), “prodotti” o “effetti secondari” (side effects) e “output multipli” (multiple outputs) sono simili per certi aspetti, ma non sono sempre ugualmente adatti ai diversi contesti. Per esempio, si può affermare con una certa sicurezza che gli effetti negativi dell’agricoltura sull’ambiente sono prodotti secondari non desiderati, o sottoprodotti. Un bel paesaggio può anche essere un prodotto secondario se è il risultato involontario della produzione alimentare, tuttavia se gli agricoltori sono consci del suo valore e disposti a prendere in considerazione gli aspetti paesaggistici nelle loro decisioni produttive, non si potrebbe più considerarlo un sottoprodotto o un prodotto secondario. L’analisi sulla multifunzionalità predilige una visione che riconosca la natura integrata dei prodotti (pur ammettendo che il grado di integrazione tra i diversi prodotti è significativamente diverso). Per questo motivo si preferisce in genere il termine output multipli, poiché esso permette di includere anche i prodotti voluti, e non solo i prodotti secondari non desiderati. Si deve però sottolineare come il termine output multipli abbia una connotazione positiva e possa quindi essere considerato inadatto quando si esaminano gli effetti negativi dell’attività agricola, come ad esempio l’inquinamento delle acque. Per aggirare tale ostacolo, il termine output multipli è sostituito da “effetti multipli” (multiple effects) nel caso di impatti negativi. Un’altra distinzione riguarda i termini “output multipli” (multiple outputs) e “prodotti congiunti” (joint products). Fra gli obiettivi principali del presente lavoro vi anche quello di esaminare fino a che punto gli output multipli agricoli siano prodotti congiunti. Il termine prodotti congiunti suggerisce una interconnessione tra i prodotti che deriva dal processo produttivo agricolo. Nell’accezione adottata in questo lavoro l’espressione “produzione congiunta” (jointness) include beni pubblici e privati. Nel redigere il rapporto sulla multifunzionalità si è cercato di rendere la terminologia semplice e il testo comprensibile, con il principale obiettivo di descrivere in modo chiaro gli aspetti analitici trattati. La terminologia adottata può forse non essere ancora ideale, ma con l’evolversi del dibattito e con lo sviluppo di nuovi spunti teorici si andrà progressivamente perfezionando. 108 Multifunzionalità: un quadro di riferimento APPENDICE 2 MULTIFUNZIONALITÀ E SOSTENIBILITÀ Un problema sorto nella fase preparatoria dell’indagine sulla multifunzionalità è la sua relazione con la sostenibilità. Lo sviluppo sostenibile, ed in particolare l’agricoltura sostenibile, sono stati oggetto di numerose conferenze e dibattiti negli ultimi dieci anni, e sono stati inseriti quali principi guida in numerosi accordi internazionali e piani d’azione. L’Ocse stessa ha prodotto un considerevole numero di lavori sul tema dell’agricoltura sostenibile (ad esempio, Ocse 1995a). La sostenibilità si riferisce al modo in cui le risorse, naturali, umane o realizzate dall’uomo, vengono impiegate dalle presenti generazioni per soddisfare i propri bisogni, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro. Come tale, la sostenibilità è un concetto di lungo periodo, globale e legato all’uso delle risorse. È legato all’uso delle risorse, in quanto non possiamo sapere oggi quale utilizzo faranno le generazioni future di tali risorse, né quale attività economica queste intraprenderanno; è per definizione di lungo periodo, in quanto prende in considerazione gli interessi delle generazioni future; è per natura globale, poiché sarebbe arduo realizzare l’uso sostenibile delle risorse in un settore, un paese o una regione geografica, se ciò non avviene anche in altri settori, paesi o regioni geografiche. La multifunzionalità si riferisce al fatto che un’attività economica può generare prodotti multipli e, quindi, contribuire a più di un obiettivo economico-sociale contemporaneamente. La multifunzionalità ha senso solo in relazione all’attività cui si riferisce e riguarda le caratteristiche specifiche del processo produttivo e dei suoi molteplici prodotti. Essenzialmente, la sostenibilità rappresenta un obiettivo da raggiungere, intendendo con ciò che le risorse dovrebbero essere impiegate in modo da non ridurre il valore complessivo dello stock di capitale (incluso il suo option-value, o valore di opzione), e da poter ottenere da questo un flusso illimitato di benefici. L’obiettivo di lungo periodo può non essere sempre evidente, come quando, ad esempio, ci si propone di stabilire se un certo tipo di agricoltura sia in un dato momento sostenibile o meno. Tuttavia, l’ipotesi di base è sempre rappresentata dalla sostenibilità quale obiettivo finale. Se un’attività economica non è compatibile con l’uso sostenibile delle risorse, evidentemente vi è un Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 109 problema da risolvere, se invece un’attività economica non è multifunzionale, non è necessario che lo diventi. Secondo la definizione proposta nel presente lavoro, la multifunzionalità è una caratteristica del processo produttivo, che può avere ripercussioni sul modo in cui i diversi obiettivi economico-sociali vengono perseguiti. Si potrebbe argomentare che tale distinzione è piuttosto artificiale. La sostenibilità non è un concetto esclusivamente basato sul traguardo a cui si tende; può essere anche impiegata in un contesto “positivo”. Allo stesso modo, si potrebbe far assumere alla multifunzionalità un aspetto “normativo”: come nel paragrafo 15 del Comunicato Ministeriale Ocse del 1998, che elenca tra i principi adottati per le politiche economiche quello di «(...) preservare e rafforzare il carattere multifunzionale dell’agricoltura (...)»; e nel paragrafo 13 che afferma che «(...) le politiche agroalimentari dovrebbero (...) [permettere] all’agricoltura di manifestare il suo carattere multifunzionale (...)» (Ocse 1998a). Il programma di lavoro sulla multifunzionalità e le ricerche sull’agricoltura sostenibile avviati dall’Ocse rispecchiano queste diverse visioni. Il lavoro sulla sostenibilità esamina le ragioni per cui alcune pratiche agricole non sono sostenibili, ed esplora le possibilità di adottare azioni correttive. Il lavoro sulla multifunzionalità si sofferma sugli aspetti di produzione congiunta, sulla natura di esternalità (positive e negative) e di bene pubblico degli output multipli del settore agricolo, e sulle implicazioni di questi nella formulazione di nuove politiche. APPENDICE 3 MULTIFUNZIONALITÀ: UNA CARATTERISTICA SPECIFICA DELL’AGRICOLTURA? Se la multifunzionalità è prima di tutto una caratteristica di un’attività economica, ci si può chiedere perché essa abbia assunto rilevanza per le politiche agricole e non per quelle di altri settori economici. L’esistenza di produzione congiunta di beni e servizi in misura tale da conferire all’agricoltura uno status speciale non pare una spiegazione credibile. Qualunque sia la definizione di “output” adottata, molte sono le attività economiche che, accanto ai beni e servizi programmati (il loro obiettivo principale), generano (spesso involontariamente) prodotti o effetti secondari. L’esistenza di output multipli congiunti non basta quindi di per sé a distinguere tra attività agricole e non. 110 Multifunzionalità: un quadro di riferimento Analogamente, il fatto che alcuni dei beni e servizi siano esternalità o beni pubblici, non serve a spiegare come mai il dibattito sul concetto di multifunzionalità non si sia esteso al di là dell’ambito agricolo. Si possono elencare molti casi in cui attività non agricole producono benefici secondari di cui tutti possono usufruire liberamente ed ugualmente (beni pubblici). Ne segue che, se ci si basa sulla presenza o meno di output congiunti, tra i quali alcuni sono beni pubblici, non c’è ragione di credere che la multifunzionalità sia un fenomeno specifico dell’agricoltura. In realtà, molti punti concettualmente simili a quelli dibattuti per la multifunzionalità in agricoltura sono stati considerati per altri settori economici, pur se sotto una veste diversa e in diversi contesti di politica economica. La maggior parte degli esempi di produzione congiunta riportati in letteratura si riferisce alla silvicoltura, con alcuni riferimenti al settore ittico e alle attività di produzione familiare. Dati i molteplici punti in comune tra agricoltura e silvicoltura (fra i quali l’offerta di beni pubblici e privati, l’importanza della terra come fattore di produzione, il ruolo dei processi biologici nella produzione, la stretta relazione con l’ambiente, l’impatto sull’economia rurale) tali esempi sono particolarmente rilevanti. È interessante notare come la produzione congiunta di beni e servizi sia divenuta parte del dibattito sulle politiche agricole e forestali, le due attività che più di ogni altra nei Paesi Ocse utilizzano il fattore terra. Spesso ci si chiede se il produrre congiuntamente beni e servizi costi meno (o più), e se i prodotti siano di qualità superiore (o inferiore) rispetto a quelli ottenuti da processi produttivi separati. La produzione congiunta viene considerata preferibile quando sussiste un alto grado di complementarità tra i prodotti e quando, grazie ad appropriate decisioni manageriali, si possono aumentare le sinergie e ridurre gli ostacoli. Un’attenta valutazione e interpretazione dell’esperienza maturata in altri campi dell’economia può risultare utile al lavoro sulla multifunzionalità in agricoltura ed assicurare che le questioni più importanti vengano trattate in modo coerente nei diversi settori economici. Restano comunque alcuni aspetti specifici dell’attività agricola che in altri settori potrebbero non assumere la stessa rilevanza, e che darebbero ragione dell’importanza della multifunzionalità per le politiche agricole. Alcuni di questi riguardano le caratteristiche del settore agricolo, come ad esempio la dispersione geografica delle imprese, altri il processo politico decisionale e l’alto livello di aiuti e sussidi che continuano ad essere concessi al settore agricolo. APPENDICE 4 Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 111 MULTIFUNZIONALITÀ: UNA CARATTERISTICA O UN OBIETTIVO? Vi sono essenzialmente due approcci all’analisi della multifunzionalità. Il primo interpreta la multifunzionalità come caratteristica di un’attività economica. Ciò che rende un’attività economica multifunzionale è la possibilità di produrre output ed effetti multipli e congiunti. Tali output ed effetti possono essere positivi o negativi, voluti o non voluti, complementari o in conflitto, si possono sommare o annullare tra loro. Alcuni hanno un valore di mercato riconosciuto, altri no. In base a questa accezione, la multifunzionalità non è specifica dell’agricoltura, ma è caratteristica di molte attività economiche, che possono assumere caratteri multifunzionali in modi diversi. Una data attività può quindi essere multifunzionale, ma non è detto che vada implicitamente considerata tale. Questa impostazione rappresenta l’approccio “positivo” alla definizione della multifunzionalità. La seconda interpretazione è fondata sulle molteplici funzioni che vengono attribuite all’agricoltura. Secondo quest’altro approccio, l’agricoltura viene vista come un’attività che deve soddisfare specifiche richieste della società. Ne consegue che la multifunzionalità non è semplicemente una caratteristica del processo produttivo, ma assume un valore intrinseco. Mantenere il carattere multifunzionale di un’attività o rendere un’attività “più” multifunzionale può divenire un obiettivo di politica economica. Tale impostazione può essere definita l’approccio “normativo” alla definizione della multifunzionalità. La presente analisi si basa sul concetto positivo di multifunzionalità. L’approccio positivo scelto dal Segretariato Ocse non esclude politiche che «(...) permettano all’agricoltura di manifestare il suo carattere multifunzionale (...)» (Ocse 1998a). Inoltre, mettere in relazione la multifunzionalità con le caratteristiche economiche del processo produttivo agricolo e dei suoi output fornisce una cornice di lavoro entro cui esaminare problemi che interessano produttori, consumatori e contribuenti. La scelta dell’approccio positivo non esclude l’esame dell’aspetto normativo della multifunzionalità. Entrambe le impostazioni vengono riconosciute dal Comunicato Ministeriale dell’Agricoltura del 1998 (Ocse 1998a). Riferirsi all’aspetto normativo della multifunzionalità porterebbe a concentrare il dibattito sugli obiettivi sociali associati all’agricoltura nei vari Paesi, fra cui gli obiettivi di equità e stabilità. Gli aspetti normativi della multifunzionalità potrebbero quindi essere esaminati in modo adeguato in un contesto di ricerca empirica sulla multifunzionalità e sulle relative implicazioni di politica economica. APPENDICE 5 112 Multifunzionalità: un quadro di riferimento L’ORIGINE DELLA PRODUZIONE CONGIUNTA La produzione si dice congiunta quando un’impresa produce due o più prodotti in modo interconnesso, così che un aumento o una diminuzione nell’offerta di uno dei due prodotti alteri il livello di produzione dell’altro. I diversi casi di produzione congiunta vengono tradizionalmente classificati in tre categorie: 1) interdipendenza tecnica dei processi produttivi; 2) fattori di produzione non frazionabili; e/o 3) fattori di produzione frazionabili di cui l’azienda dispone in quantità fisse. Le interdipendenze tecniche sono all’origine di molti effetti negativi dell’attività agricola, tra cui l’erosione del suolo, la presenza di residui chimici e la lisciviazione delle sostanze nutritive. Anche le emissioni di gas serra ed i problemi associati al benessere degli animali sono legati alle caratteristiche tecniche o biologiche del processo produttivo. Tra gli effetti positivi legati all’interdipendenza tecnica si possono citare, ad esempio, il controllo di parassiti ed infestanti generato da determinati schemi colturali adottati nella lotta integrata e l’impatto delle rotazioni colturali sul bilancio nutrizionale e sulla produttività del suolo. Il secondo tipo di produzione congiunta si riscontra nei casi in cui i prodotti multipli originano dallo stesso fattore di produzione non frazionabile. L’esempio classico è la produzione di carne di pecora e lana, prodotti congiunti dell’allevamento ovino. La produzione di carne e letame o il legame tra paesaggio e determinati metodi produttivi (terrazzamenti, pascoli alpini con bestiame, campi di girasole) sono altri esempi di produzione congiunta generata da fattori di produzione non frazionabili. Se è dunque vero che tali prodotti sono ottenuti congiuntamente, va anche sottolineato come essi siano raramente prodotti in proporzioni fisse, proporzioni che possono variare sulla base dei diversi metodi di produzione adottati. Molti casi di produzione congiunta, fra cui ad esempio cacciagione-legname e cibo-paesaggio, possono essere attribuiti sia a fattori di produzione non frazionabili (in quanto vengono prodotti sullo stesso appezzamento agricolo), sia ad interdipendenze tecniche. La produzione congiunta può inoltre essere generata dall’utilizzo di fattori fissi frazionabili. Le imprese dispongono di tali fattori in quantità fisse e li allocano tra i vari prodotti nell’organizzare il processo produttivo. Un aumento o una diminuzione nella produzione di un prodotto fa variare la quantità di un dato fattore disponibile per gli altri prodotti, creando così un legame tra i prodotti stessi. I terreni ad uso agricolo e il lavoro autonomo rientrano fra i fattori frazionabili fissi e ciò spiega perché questo particolare tipo di produzione congiunta è stato oggetto di grande attenzione da parte degli economisti agrari. Per Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 113 l’analisi sulla multifunzionalità, tuttavia, questo tipo di produzione congiunta è forse meno rilevante degli altri due tipi discussi sopra. Gli output frutto di produzione congiunta derivano spesso da una combinazione delle diverse categorie descritte sopra, la cui importanza relativa può essere difficile da stabilire. Nel dibattito sulla multifunzionalità si citano inoltre prodotti che non corrispondono esattamente a nessuno dei tre casi di produzione congiunta descritti. Uno di questi è il contributo dell’agricoltura all’occupazione rurale, legato all’uso del lavoro come fattore di produzione agricola. Un altro esempio è il contributo dell’agricoltura alla sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, dove il legame è con il cibo stesso, che è prodotto primario e merce commerciabile, mentre altri output della multifunzionalità sono “non commerciabili”. APPENDICE 6 CLASSIFICAZIONE ESEMPLIFICATIVA DELLE CATEGORIE DI BENI PUBBLICI Beni pubblici puri (es. difesa nazionale): per la loro natura di beni fruibili liberamente ed ugualmente da tutti, tali beni sono di solito forniti dai governi dei singoli Paesi. Ciò spesso comporta un eccesso di offerta dovuto alla difficoltà nello stimare l’effettivo livello della domanda. L’offerta volontaria, l’unica alternativa privata, risulterebbe probabilmente insufficiente. Valutare se l’inefficienza legata all’eccesso di offerta sia minore dell’inefficienza insita nel difetto di offerta, provocato dall’offerta volontaria, è una questione empirica. Esempi in questo senso possono essere il valore del paesaggio non legato all’uso; l’habitat naturale; la biodiversità. Beni pubblici puri locali (es. protezione antincendio locale): i benefici sono circoscritti all’area amministrativa. Un eccesso di offerta da parte del governo locale o un’offerta volontaria insufficiente saranno probabilmente meno gravi che nel caso di beni pubblici puri. Esempi in tal senso possono essere il controllo degli straripamenti; le conseguenze positive dell’occupazione rurale; il valore del paesaggio legate all’uso. Risorse di pubblico accesso (es. pesca in mare aperto): data la loro natura di beni fruibili liberamente da tutti ma per i quali vi è rivalità nel consumo, tali beni tendono ad essere sfruttati eccessivamente. Una soluzione per il raggiungimento dell’efficienza è quella di convertire tali beni in risorse della comunità locale. In alternativa è richiesto l’intervento dello Stato. Esempi di ciò potrebbero essere la sicurezza del- 114 Multifunzionalità: un quadro di riferimento l’approvvigionamento alimentare ed il valore d’uso del paesaggio da parte dei turisti. Risorse condivise (es. irrigazione in comune): per la loro natura di beni esclusivi e per i quali vi è rivalità nel consumo, tali beni possono essere amministrati in modo efficiente dalla comunità locale se essa è in grado stabilire regole per l’uso di tali risorse. Esempi di ciò possono essere il ripristino di riserve idriche ed il valore d’uso dell’habitat naturale e della biodiversità. Beni il cui accesso è esclusivo e non vi è rivalità nel consumo (es. autostrade non congestionate): tali beni potrebbero essere forniti dal settore privato facendo pagare gli utilizzatori. Ciò tuttavia risulterebbe inefficiente in quanto escluderebbe utenti potenziali con disponibilità a pagare positiva. Nel caso in cui l’offerta pubblica possa risultare eccessiva, il ricorso all’offerta privata potrebbe rappresentare comunque una soluzione più adatta. I beni in oggetto diventano “beni di club” quando si verifica sovraffollamento. Esempi di ciò possono essere il valore dell’habitat naturale non legato all’uso e la biodiversità (nel caso in cui si possano creare soluzioni istituzionali come i fondi fiduciari ambientali). Beni di club (es. circolo di golf): per la loro natura di beni esclusivi per cui si potrebbe creare sovraffollamento, tali beni saranno probabilmente forniti dal settore privato o da quello pubblico attraverso quote associative. Esempi di ciò possono essere il valore dell’habitat naturale non legato all’uso e la biodiversità (nel caso in cui si possano creare soluzioni istituzionali come i fondi fiduciari ambientali). Sommario Nel dibattito sulle politiche agricole il termine multifunzionalità viene utilizzato con sempre maggior frequenza. Esso si presta ad interpretazioni diverse, sia negli aspetti definitori, sia nella formulazione degli interventi tesi a valorizzarla. La rassegna prende in esame la multifunzionalità dell’attività agricola nei suoi aspetti produttivi, di esternalità e di bene pubblico. Diverse questioni vengono esaminate. La prima riguarda la dimensione della produzione congiunta degli output multipli in agricoltura. La seconda identifica le circostanze per le quali si è in presenza di un fallimento del mercato. La terza analizza i diversi tipi di bene pubblico in cui è possibile classificare gli output multipli dell’agricoltura. Gli interrogativi cui conduce l’analisi vengono proposti come linee guida per la formulazione di interventi di politica economica ispirati a criteri di efficienza. Per maggior chiarezza, il contributo presenta approfondimenti e note terminologiche in appendici separati dal testo. Riferimenti bibliografici Ocse, The contribution of amenities to rural development, Parigi, 1994. 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In particolare, cambiamenti specifici riguardano: • uno spostamento della politica da settoriale a territoriale, con il tentativo di integrare le varie politiche settoriali a livello regionale e locale, definendo obiettivi di ampio respiro, particolarmente riguardo ad uno “sviluppo rurale sostenibile”; • il decentramento dell’amministrazione politica e, entro certi limiti, un disegno politico riferito ai suddetti livelli; • una maggiore collaborazione tra i settori pubblico, privato e del volontariato, con lo scopo di sviluppare e mettere in atto le politiche locali e regionali; • l’introduzione di meccanismi che assicurino ai diversi livelli del governo centrale un migliore coordinamento delle differenti politiche riguardanti le aree rurali e le persone che vi abitano; Tradotto da: J. M. Bryden, “Is there a ‘New Rural Policy’?”, relazione presentata alla Conferenza internazionale European Rural Policy at the Crossroads, 29 giugno-1° luglio 2000, The Arkleton Centre for Rural Development Research, King’s College, Università di Aberdeen, Scozia. Il presente studio prende spunto da un lavoro sulle politiche dei Paesi membri dell’Ocse, svolto per conto dell’Ocse nel 1999, e da un lavoro eseguito per conto del Comitato per gli Affari Rurali dell’Ufficio Scozzese su una nuova strategia rurale dal 1997 al 1999, da un articolo sul Libro Bianco Irlandese del 1999 sullo Sviluppo Rurale, e da un esame dell’attuazione delle politiche rurali dell’Ue, fatto nel corso di due conferenze tenute in Finlandia nel marzo 2000. J. M. Bryden si assume la responsabilità per l’esattezza delle informazioni qui contenute. John M. Bryden è co-direttore dell’Arkleton Centre for Rural Development Research e professore di Geografia Umana all’Università di Aberdeen, Scozia. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 117 • lo sviluppo di nuovi meccanismi più flessibili in grado di sostenere le politiche regionali e locali; • la tendenza a favorire un approccio bottom-up allo sviluppo rurale; • lo sviluppo di mezzi in grado di mettere a frutto le esperienze e le capacità maturate nelle iniziative decentralizzate, mentre i livelli centrali acquistano un ruolo primario nell’organizzare ed incoraggiare scambi e reti di informazioni; • un maggior rilievo dato alla diversificazione delle economie rurali, ponendo l’accento, in particolare, sugli aiuti diretti e indiretti alle piccole e medie imprese e alle iniziative locali che si basino su risorse e capacità preesistenti e che stimolino gli scambi di conoscenze tra le imprese stesse; • una maggiore attenzione alle specificità locali in grado di creare nuovi vantaggi competitivi, come ad esempio attrattive ambientali o culturali; • una maggiore attenzione alle infrastrutture riguardanti i trasporti e le comunicazioni, all’istruzione e alla formazione professionale, intesi come beni quasi-pubblici che possano essere di aiuto indiretto alle imprese; e • più in generale, il passaggio da un approccio basato su settori in progressivo declino, come l’agricoltura, la pesca e l’industria mineraria, ad uno basato su investimenti strategici che sviluppino nuove attività. Il processo di cambiamento riguarda dunque questioni di governance e di assetti istituzionali; la definizione di “sviluppo”; il contenuto e gli scopi delle politiche. Presi in esame congiuntamente, tali elementi potrebbero effettivamente essere considerati come i costituenti di una “nuova politica rurale”. Tuttavia, ci si può chiedere fino a che punto i cambiamenti nel linguaggio o nella retorica della politica rurale coincidano con la realtà e per questo è importante non sopravvalutare i mutamenti avvenuti. Inoltre, è necessario comprendere le ragioni di tali cambiamenti, per poterli considerare temporanei o destinati a perdurare. In molti paesi le politiche settoriali e la loro amministrazione centralizzata mantengono grande impatto. Tra queste politiche, molte si risolvono in sussidi che sostengono attività preesistenti piuttosto che in investimenti in grado di adattarsi e trarre vantaggio dal mutato contesto economico. In alcuni casi, alla fine degli anni Novanta, le politiche di taluni paesi sembrano essere tornate ad un carattere più settoriale (Freshwater 1997; Deavers 1996). Inoltre, sebbene l’apparente aumento di interesse nei confronti della società rurale potrebbe far pensare ad un incremento di risorse destinate allo “sviluppo rura- 118 Esiste una “nuova politica rurale”? le”, non sempre è così, se si considera la questione in termini “reali”. Tuttavia, quanto detto rappresenta un’interpretazione diffusa del trend generale. In questo lavoro vengono valutati i cambiamenti politici e le loro motivazioni a fronte dei risultati finora ottenuti. Offrono spunto, principalmente, le recenti esperienze nei Paesi dell’Unione Europea, soprattutto in attuazione di Agenda 2000, e vengono considerati i cambiamenti nella politica rurale di alcuni Stati membri. In conclusione, alcune domande chiave riguardano i recenti sviluppi delle politiche rurali, con qualche osservazione riguardo al loro sviluppo futuro. MOTIVAZIONI PER UN APPROCCIO TERRITORIALE INTEGRATO ALLA POLITICA RURALE Le motivazioni su cui si fonda l’approccio territoriale alla politica rurale vengono espresse in vari modi, di cui i seguenti sono i più comuni: • le aree rurali stanno affrontando un periodo di intenso cambiamento sociale ed economico, provocato dalla globalizzazione e dalle conseguenti restrizioni nella spesa pubblica, ed hanno bisogno di sostegno per adeguarsi alle nuove condizioni; • le aree rurali sono eterogenee per storia, cultura, condizioni naturali, decentramento, densità di popolazione, insediamenti, struttura economica, risorse umane e di altro genere, caratteristiche ambientali e ulteriori aspetti che permettono loro di adeguarsi ai cambiamenti, sviluppando nuove basi per la vita economica e sociale; le politiche devono adattarsi alle situazioni specifiche, attingendo a conoscenze locali e ad altre risorse che non sono generalmente accessibili ai livelli centrali; • gli interessi della maggior parte degli abitanti delle aree rurali, persino della maggioranza delle famiglie agricole, non sono più favoriti (se mai lo sono stati) da politiche settoriali, dato che dipendono in modo crescente dall’occupazione e dalle entrate generate da un mix di attività economiche, fondate esse stesse su considerazioni legate alla qualità della vita, alle condizioni ambientali, alla cultura e agli stili di vita; • molte aree rurali, anche se non tutte, sono ancora caratterizzate da basso reddito, disoccupate o sottoccupate, con scarsa qualità del lavoro, migrazione dei giovani, scarsa qualità dei servizi, con conseguenti problemi di equità e di coesione sociale; Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 119 • essendo spesso caratterizzate da importanti beni pubblici o quasipubblici - come un ambiente incontaminato, paesaggi attraenti, un patrimonio culturale e comunità “sicure” e relativamente integrate socialmente -, le aree rurali contribuiscono ad innalzare la qualità della vita della società nel suo insieme, ed è difficile, se non impossibile, attribuire a tali caratteristiche valori di mercato appropriati 1; • le aree rurali producono alimenti basilari e molte materie prime di vitale importanza; • lo sviluppo delle aree rurali è parte essenziale degli sforzi tesi a promuovere la coesione economica e sociale tra Paesi (ad esempio nell’ambito dell’Ue) e al loro interno; • l’agricoltura dovrà confrontarsi sempre più con nuove sfide, sia per diventare più competitiva, sia per soddisfare le richieste di salute, qualità, migliori caratteristiche ambientali e di benessere animale, e tutte le altre esigenze dei consumatori. Tutto ciò, in un contesto di struttura oligopolistica delle industrie a monte e a valle del settore agricolo; • le famiglie di agricoltori devono poter fare affidamento su di una “campagna viva”, dove possano avere accesso ai servizi, alle infrastrutture e alle forme di occupazione integrativa di cui hanno necessità; • l’accettazione dell’obiettivo politico prioritario di uno sviluppo (rurale) sostenibile in termini economici, sociali e ambientali pone gli individui come il fine ultimo dello sviluppo, il che comporta sia un loro coinvolgimento attivo sia uno sviluppo di tipo olistico, sebbene su scala “locale”, affinché le persone possano essere coinvolte e venga rispettata la diversità dei loro obiettivi e delle loro condizioni. In alcuni casi, queste argomentazioni si riferiscono a fallimenti del mercato: gli esempi più noti riguardano i beni pubblici e quasi-pubblici, e tra questi i più noti sono quelli legati al patrimonio ambientale e a quello culturale. In altri casi le argomentazioni vengono formulate in termini di conoscenze ed informazioni imperfette, di restrizioni di accesso alle risorse naturali o di altro tipo e altre “imperfezioni di mercato”, oltre che in relazione ad obiettivi sociali di equità, politici di coesione, e “olistici” di sostenibilità. L’approccio territoriale implica un’altra questione: a quale livello di (1) Ciò avviene a causa dell’assenza di mercati specifici (di difficile o impossibile creazione), e in quanto le “utilità” generate non possono essere considerate e misurate solo dal punto di vista economico. 120 Esiste una “nuova politica rurale”? governance deve essere gestita la politica di sviluppo rurale? Nell’ambito Ue il problema porta a chiedersi se e in che modo la politica rurale sia competenza comunitaria, nazionale, regionale o locale. Domande simili si possono anche porre nell’ambito di stati federali o unitari. Ad esempio, il problema è stato cruciale in Canada nell’ambito dei dibattiti costituzionali, compresi quelli che hanno avuto per oggetto i First Nations Agreements. Approfondiamo adesso il caso dell’Ue, prendendo in considerazione, in modo particolare, la questione dello sviluppo della politica rurale contrapposta a quella agricola e valutando fino a che punto la retorica politica produca effettivamente risultati concreti. LO SVILUPPO DELLA POLITICA RURALE NELL’UNIONE EUROPEA, RETORICA E REALTÀ Prendendo in esame la politica dell’Unione Europea, un approccio territoriale integrato e decentrato fu affrontato seriamente solo dopo “l’allargamento al Sud”, le mini-riforme della Pac (Politica agricola comunitaria) e l’Atto Unico Europeo a metà degli anni Ottanta. Questi eventi, insieme alle questioni legate al negoziato sul commercio internazionale dell’Uruguay Round hanno portato ad una fondamentale riforma dei Fondi strutturali dell’Unione Europea e delle Politiche strutturali e di coesione nel 1987, e ad una riforma radicale della Pac nel 1992. Nel 1988 un importante Discussion Paper della Ce, The Future of Rural Areas, ha delineato una nuova visione e un nuovo modo di affrontare lo sviluppo rurale spostando l’enfasi della politica rurale sull’“approccio territoriale”. Nel 1991, l’Ue ha promosso l’Iniziativa Leader destinata a finanziare, con programmi di sviluppo rurale integrato e “bottom-up”, partnership rurali nelle regioni prioritarie degli Obiettivi 1 e 5b, definite nella riforma delle Politiche strutturali e di coesione. Uno dei principi chiave del funzionamento dei fondi strutturali, nelle regioni prioritarie, riguardava il ruolo delle cooperazioni regionali nel progettare ed attuare i Programmi Regionali. A differenza della politica di mercato della Pac, totalmente finanziata dal Fondo europeo agricolo d’orientamento e di garanzia, sezione garanzia (Feoga), i Programmi Regionali e i Leader venivano cofinanziati dagli Stati membri, riconoscendo, in tal modo, che la politica strutturale e di coesione deve essere un’iniziativa congiunta sia della Commissione Europea sia delle regioni e nazioni dell’Ue, da considerare quindi una competenza condivisa. I Programmi Regionali finanziati dall’Ue, e l’Iniziativa Leader, venivano inoltre considerati Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 121 come strumenti di “sviluppo integrato”, in quanto sovvenzionati dai tre principali Fondi strutturali dell’Ue per lo sviluppo regionale (Fesr), per le risorse umane (Fse) e per le strutture agrarie e il loro sviluppo (Feoga - Orientamento). La riforma della Pac del 1992 introduce inoltre ulteriori disposizioni di carattere strutturale: le misure di accompagnamento agroambientali, agroforestali e di pensionamento degli agricoltori, cofinanziate dagli Stati membri. Tuttavia, queste misure sarebbero state finanziate dalla sezione Garanzia del Feoga, tradizionalmente riservata alla politica di mercato. Le forze trainanti che spingevano per la riforma delle politiche strutturali e di coesione erano principalmente interne 2, mentre quelle che hanno portato alle riforme della Pac erano sia interne che esterne. Le pressioni esterne prendevano in considerazione soprattutto la connessione tra sussidi, aumento di produzione, eccedenze ed esportazioni sovvenzionate, in concorrenza con le esportazioni alimentari di esportatori tradizionali, soprattutto Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda e America del Sud. L’accordo in seno all’Ue di ridurre tali sussidi è stato basilare per la positiva conclusione dell’Uruguay Round (Gatt 1994). L’accordo raggiunto nel 1994 (l’Uraa) accettava le riforme della Pac, assegnando alla cosiddetta “scatola blu” i pagamenti compensativi disaccoppiati destinati agli agricoltori, esentandoli quindi temporaneamente dalle misure di riduzione dei sussidi ma lasciando aperta la questione del loro destino definitivo. Le misure di accompagnamento, assieme alle altre disposizioni Feoga relative allo sviluppo strutturale e rurale, venivano collocate nella cosiddetta “scatola verde”, in cui sono classificate le misure non legate direttamente alla produzione, e pertanto escluse dagli accordi sulla riduzione dei sussidi. L’accordo dell’Uruguay Round ha fissato l’agenda dei successivi negoziati commerciali, iniziati alla fine del 1999, vincolando i partecipanti a procedere verso un’ulteriore riduzione dei livelli di protezione e dei relativi sussidi, soprattutto per quanto concerne gli aiuti direttamente collegati alla produzione, che, nel caso dell’Ue, rappresentano una parte preponderante della politica di mercato della Pac. Ciò avrebbe dovuto generare ulteriori riduzioni degli aiuti all’agricoltura. Le successive riforme della Pac di Agenda 2000 anticiparono, di fatto, tale tendenza riducendo in parte la portata dei negoziati commerciali. I (2) In modo particolare riguardavano gli effetti del mercato comune Europeo e il libero scambio di merci, servizi, capitali e manodopera in seno a questo, ed un allargamento verso Sud a comprendere le regioni agricole relativamente povere di Grecia, Spagna, Portogallo. 122 Esiste una “nuova politica rurale”? preparativi in vista dell’“Allargamento ad Est” dell’Ue, con la possibile adesione di dieci Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est all’inizio del nuovo millennio, rappresentarono un’ulteriore spinta verso la revisione del modello di sostegno agricolo. La preoccupazione era che gli Stati già facenti parte dell’Ue, significativamente più ricchi, dovessero affrontare quasi da soli il peso di finanziare la Pac nei confronti dei nuovi Stati membri, e che tale peso si sarebbe rivelato insostenibile. Questi due fattori cruciali portarono la Commissione ad elevare lo sviluppo rurale al rango di “secondo pilastro della Pac” inducendola a dare maggior rilievo alle politiche di sviluppo rurale. Il fondamento logico di tale orientamento è che, in primo luogo, le misure di “sviluppo rurale” vengono collocate nella “scatola verde”, diventando così più facili da difendere nell’ambito dei negoziati commerciali e, in secondo luogo, che sono cofinanziate dagli Stati membri, e quindi è di più difficile attivazione da parte dei paesi più poveri, specialmente i Peco. Dagli anni Ottanta, la somma destinata al cofinanziamento da parte degli Stati membri, nell’ambito della Pac, è andata aumentando. In altri tipi di spese per lo sviluppo, soprattutto per il Fesr e per il Fse, di norma vi è un cofinanziamento con partner nazionali e regionali. Dato che, dagli anni Ottanta, è progressivamente aumentata anche la parte dello stanziamento comunitario destinata al Fesr e al Fse, è chiaro che la quota complessiva del budget della Ce destinata a misure interamente finanziate dalla Commissione è andata diminuendo. È evidente che si tratta di un trend destinato a proseguire nel tempo. Nell’ambito di questo scenario, si può facilmente comprendere come lo sviluppo rurale, in grado di fornire risposte adeguate alle sfide interne ed esterne che devono essere affrontate dalla gestione finanziaria e dalle politiche Ue, avrà in futuro una parte sempre maggiore della spesa Pac. In cosa consiste quindi la politica di sviluppo rurale dell’Ue del “secondo pilastro”? In primo luogo, è legata alla nuova legislazione sullo sviluppo rurale, scaturita da Agenda 2000, ma fa anche riferimento agli Obiettivi 1 e 2 della Politica strutturale e di coesione, così come modificati da Agenda 2000 e dal programma Leader+, che segue i Leader I e II. Il Piano per lo sviluppo rurale Franz Fischler, Commissario per l’Agricoltura, attribuisce grande importanza allo sviluppo rurale. Nel 1996, ha promosso la Conferenza sullo sviluppo rurale, a Cork, in Irlanda, con l’obiettivo di dare al tema rinnovata attenzione, provocando, di fatto, reazioni contrastanti sia da Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 123 parte delle organizzazioni agricole, che lo ritenevano un attacco alla politica agricola tradizionale, sia da parte dell’allora Commissario per la Politica regionale e di coesione, Wulf-Mathies, che, invece, era contraria ad ulteriori trattamenti di favore nei confronti delle aree rurali, considerando i possibili effetti sugli obiettivi di coesione e i relativi principi di concentrazione. Agenda 2000 propone però un compromesso (Commissione Europea 1997), con una sezione sulla necessità di portare avanti gli “strumenti per la politica rurale”, in vista di ulteriori inevitabili mutamenti nella situazione del mercato, nella politica di mercato e nelle regole sul commercio (cioè, il Wto). Affermando inoltre che «(…) le aree rurali devono svolgere funzioni sempre più importanti in campo ambientale e ricreativo (…) Al contrario, la maggiore importanza data alle questioni ambientali e ricreative offrirà nuove opportunità di sviluppo, dalle quali gli agricoltori e le loro famiglie potranno trarre vantaggio», prevedendo misure di sviluppo rurale «per accompagnare e integrare le politiche di mercato» che avrebbero compreso «tutti i tipi di provvedimenti a supporto di cambiamenti strutturali e di uno sviluppo rurale come quelli attualmente cofinanziati dal Feoga, sezione Orientamento». Sebbene il nuovo “Fondo agricolo” auspicato a Cork (Commissione Europea 1996), fosse completamente assente in Agenda 2000, le proposte per la nuova legislazione sullo sviluppo rurale furono adottate al Vertice di Berlino del 1999. Le misure previste dai nuovi regolamenti verranno sostenute dalla sezione Garanzia del Feoga, tradizionalmente dedicata alle politiche di mercato, e non dalla sezione Orientamento, concepita per finanziare le misure di natura strutturale. L’unica eccezione riguarda le Regioni dell’Obiettivo 1, dove il Piano di sviluppo rurale (diversamente dalle misure di accompagnamento e dalle misure per le zone svantaggiate) verrà finanziato dalla sezione Orientamento. Il Psr (Piano di sviluppo rurale) interessa tutte le regioni dell’Ue, e consiste quasi integralmente in un riassemblamento di misure finanziate nell’ambito della politica delle strutture rurali (Obiettivo 5a), misure agricole nell’ambito delle politiche regionali (Obiettivo 5b), e le vecchie misure di accompagnamento introdotte nel 1992 con la riforma della Pac (misure agroambientali, rimboschimento delle zone agricole e pensionamento degli agricoltori), incluse quindi le attuali misure dell’Obiettivo 5a. Viene presentato come una lista di misure possibili, delle quali solo quella agroambientale è obbligatoria. I principali elementi sono i seguenti: 1.Investimenti nelle aziende agricole (cap. I). 124 Esiste una “nuova politica rurale”? 2.Insediamento dei giovani agricoltori (cap. II). 3.Formazione (cap. III). 4.Prepensionamento (cap. IV). 5.Misure a favore di zone svantaggiate o soggette a vincoli ambientali (cap. V). 6.Misure agroambientali (cap. VI). 7.Miglioramento delle condizioni di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli (cap. VII). 8.Silvicoltura (cap. VIII). 9.Promozione dell’adeguamento e dello sviluppo delle zone rurali (cap. IX). Quest’ultimo include le misure dell’articolo 33, fra cui iniziative orientate a problemi e beneficiari anche al di fuori del settore agricolo (in corsivo nell’elenco): • opere di miglioramento fondiario; • ricomposizione fondiaria; • avviamento di servizi di sostituzione e di assistenza alla gestione delle aziende agricole; • commercializzazione di prodotti agricoli di qualità; • servizi essenziali per l’economia agricola e la popolazione rurale; • rinnovamento e miglioramento dei villaggi e protezione e tutela del patrimonio rurale; • diversificazione delle attività del settore agricolo e delle attività affini allo scopo di sviluppare attività plurime o fonti alternative di reddito; • gestione delle risorse idriche in agricoltura; • sviluppo e miglioramento delle infrastrutture rurali connesse allo sviluppo dell’agricoltura; • incentivazione di attività turistiche e artigianali; • tutela dell’ambiente in relazione all’agricoltura, alla silvicoltura, alla conservazione delle risorse naturali nonché al benessere degli animali; • ricostituzione del potenziale agricolo danneggiato da disastri naturali e introduzione di adeguati strumenti di prevenzione; • ingegneria finanziaria. Nelle regioni dell’Obiettivo 1, le misure adottate nel Piano e finanziate dalla Sezione Orientamento entreranno a far parte dei Programmi Regionali, sotto l’ordinamento dei Fondi strutturali. Nelle regioni dell’Obiettivo 2, tutte le misure contenute nel Psr, con l’eccezione delle preesistenti misure di accompagnamento e di quelle destinate alle zone svantaggiate, possono entrare a far parte dei Programmi Regionali. Altrimenti, azioni per uno sviluppo rurale saranno conseguite «al li- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 125 vello geografico ritenuto più adatto», e il più possibile integrate in un unico piano della durata di 7 anni. Tuttavia, lo sviluppo rurale non può essere considerato un mero complemento della politica di mercato 3. La vera spinta verso questa trasformazione nelle modalità di finanziamento di tali misure è una questione di bilancio 4. Il Psr ha un bilancio annuale di 4,3 miliardi di Euro, mentre la politica di mercato raggiunge in media i 38 miliardi di Euro. Al momento sussiste una certa confusione in seno alla Commissione sulla distinzione tra sviluppo rurale e regionale: secondo la Commissione la nuova misura di sviluppo rurale orizzontale non può essere intesa come politica regionale. Da una parte, questo comporta il timore che il gruppo di riferimento per le misure di “sviluppo rurale” continui ad essere limitato agli agricoltori e, dall’altra. rappresenta un campanello d’allarme riguardo all’istituzione di possibili altri programmi di natura territoriale separati e distinti, non integrati alle politiche regionali territoriali o programmatiche. Inoltre, la natura orizzontale di tale politica solleva problemi su quale sia il nesso tra questo aspetto di “politica rurale” e la politica strutturale e di coesione dell’Ue, che mira a privilegiare le zone (e, in certa misura, anche le persone) in stato di maggiore bisogno. La Politica strutturale: Obiettivi e Fondi Dopo Agenda 2000, il numero degli Obiettivi è stato ridotto da sette a tre. I Fondi esistenti sono rimasti invariati. La quota di popolazione che rientra nei fondi definiti su base territoriale è stata ridotta dal 51% (3) È preoccupante la tendenza della Commissione e del Consiglio a riferirsi allo sviluppo rurale come ad un semplice “complemento alla politica dei mercati” dato che così si omettono molte altre giustificazioni e motivazioni per una politica di sviluppo rurale. Tuttavia, questa può essere una tattica necessaria in vista delle “regole” sull’utilizzo dei Fondi per l’agricoltura (devono essere direttamente o indirettamente connessi all’agricoltura o agli obiettivi del Trattato). Un’altra tendenza preoccupante è quella di considerare la politica agroambientale un tutt’uno con la politica di sviluppo rurale! Questo risulta, ad esempio, dal contenuto del comunicato stampa seguito alla riunione del Consiglio dei giorni 17-18-19 novembre 1997. Le due tendenze sono poi collegate alla posizione tenuta dall’Ue riguardo “il modello rurale europeo”, durante il Millennium Round. (4) I cambiamenti hanno avuto l’effetto di spostare alcune spese dalla voce “Strutture” contenuta nelle “prospettive finanziarie”, alla Pac, dove si suppone che ci sarà una certa flessibilità all’interno dell’“Orientamento”. Fischler può anche ritenerla una via per evitare tagli all’orientamento e poter disporre così di un bilancio Pac maggiore. Tuttavia, molti Stati membri (ad esempio il Regno Unito), stanno cercando un modo per diminuire a medio termine gli stanziamenti a favore della Pac, e non è detto che eventuali risparmi nelle misure di sostegno dei prezzi e nei pagamenti diretti vengano trasferiti automaticamente alle misure di accompagnamento. 126 Esiste una “nuova politica rurale”? al 43% del totale dell’Ue. Il nuovo Obiettivo I 5 resta essenzialmente invariato, con l’aggiunta del vecchio Obiettivo 6. Il Fondo regionale, il Fondo sociale e il Feoga - Orientamento continueranno a finanziare programmi integrati, come fanno attualmente. Il nuovo Obiettivo II include sia zone urbane in difficoltà che zone agricole in declino: prende così il posto degli Obiettivi 2 e 5b 6. Le regioni comprese negli Obiettivi 1, 5b e 2 che non rientrano nei nuovi criteri di ammissibilità avranno piani transitori. La popolazione compresa nelle zone rurali dell’Obiettivo II è nettamente inferiore a quella compresa nelle zone del precedente Obiettivo 5b. Il nuovo Obiettivo III è “orizzontale”, si applica nelle regioni che non rientrano negli Obiettivi I e II, e mira allo «sviluppo delle risorse umane». Sebbene, in linea di principio, l’Obiettivo III avrebbe potuto essere compreso tra le misure di sviluppo rurale sovvenzionate dal Feoga al di fuori delle regioni degli Obiettivi I e II, di fatto non lo sarà. Le “misure rurali” dell’Obiettivo II dovrebbero favorire la diversificazione economica, con un aumento degli aiuti destinati all’innovazione e alle aziende di piccola e media dimensione, ponendo maggiore attenzione all’orientamento professionale, allo sviluppo del potenziale locale, alla salvaguardia dell’ambiente ecc. «Lo sviluppo delle aree rurali dovrebbe creare migliori rapporti tra le cittadine e le campagne circostanti: ciò dovrebbe facilitare la diversificazione delle attività industriali, culturali, dell’artigianato e dei servizi». Il programma Leader+, le cui basi poggiano sui principi generali di innovazione introdotti dal Leader, integrazione e partnership bottomup, riceverà poco più di 2 miliardi di Euro, a fronte di 1,7 miliardi di Ecu ricevuti nel periodo 1994-1999. Tuttavia, con le nuove regole, tutte le aree rurali dell’Ue sono potenziali destinatarie di tali fondi che corrono il rischio di venire dispersi tra molti soggetti, a meno che gli Stati membri e l’Ue non riescano nell’intento di ridurre il numero dei gruppi Leader. Attuazione del Piano di sviluppo rurale È evidente che la maggior parte dei finanziamenti per il Psr verrà assorbita da misure già in vigore, in particolare le misure di accompa(5) L’Obiettivo 1 interessa quelle regioni il cui Pil medio pro capite è inferiore al 75% della media dell’Ue. L’Obiettivo 6 era destinato alle regioni artiche della Svezia e della Finlandia a bassa densità di popolazione. Pertanto l’Obiettivo I include molte regioni e zone rurali, ma non si limita solo a queste. (6) L’Obiettivo 5b interessava le zone rurali in declino. L’Obiettivo 2 riguardava le regioni industriali in crisi. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 127 gnamento, che ora includono le misure per le zone svantaggiate. In molti Paesi, l’entusiasmo per le misure dell’articolo 33, che includono destinatari non solo agricoli, è frenato dall’opposizione delle lobby degli agricoltori, dalle limitazioni di bilancio e dal ruolo dei Ministeri dell’Agricoltura. Una analisi delle bozze dei programmi di Francia, Danimarca, Finlandia e Scozia (riportate in appendice), mostra l’importanza dei programmi a livello nazionale per le principali voci in uscita, soprattutto le misure di accompagnamento (che non sono nuove) e gli investimenti aziendali. Le misure che riguardano l’economia rurale in senso lato sono poche e rientrano tutte nell’articolo 33, ma sono poste in secondo piano, con meno del 10% del budget totale a disposizione in tutti i casi esaminati 7. Se ciò risulterà essere una tendenza generale, allora vorrà dire che meno dell’1% delle spese della Pac saranno destinate agli aspetti “non agricoli” dello sviluppo rurale nell’ambito del Psr - altro che “secondo pilastro”! La creazione di una lista di misure ha permesso ad alcuni Paesi di scegliere quali adottare tra queste e a cosa destinare le risorse, e ciò si è risolto in larga parte nell’adozione di misure a livello nazionale piuttosto che regionale, con le priorità decisamente concentrate in campo agricolo. Le proposte della Commissione, contenute in Agenda 2000, riguardo allo sviluppo rurale rappresentavano già un passo indietro rispetto alla Dichiarazione di Cork. Da un lato, la Commissione ha dato l’impressione di avere “mollato” temporaneamente la politica rurale, sia sotto la pressione delle lobby degli agricoltori sia per i dissapori interni tra Dg6 e Dg16 8. Dall’altro, ha collocato con fermezza la politica di sviluppo rurale nell’ambito delle politiche del settore agricolo, in linea con la strategia di valorizzazione degli aspetti multifunzionali dell’agricoltura, in vista dei prossimi negoziati del commercio mondiale, ed anche per limitare l’impatto dell’allargamento ad altri paesi sul budget della Pac. Il risultato finale sembrerebbe ricondurre ad una serie di provvedimenti per le regioni rurali chiaramente insufficienti in vista dell’allargamento dell’Ue. La politica territoriale, attuata attraverso i Fondi Strutturali e rivolta ad un obiettivo cruciale di coesione sociale ed economica, resta inadeguata ad affrontare le disparità regionali attuali, e tanto più quelle del dopo-allargamento e post-Unione monetaria europea. La politica agraria resta in gran parte immutata e difficilmente in (7) Sinora sono riuscito ad avere valutazioni preliminari sulle proposte di attuazione del Psr in Danimarca, Finlandia, Francia, Irlanda, Scozia e Spagna, grazie alla collaborazione di colleghi in questi Paesi. (8) Direzione Generale Agricoltura, sviluppo rurale e pesca e Direzione Generale Politica regionale. Ndr. 128 Esiste una “nuova politica rurale”? grado di soddisfare le esigenze dei negoziati commerciali nell’ambito del Millennium Round. Sebbene la Commissione abbia ribadito che: «Lo sviluppo rurale non è una semplice appendice della Pac ma deve essere uno strumento forte, efficace e coerente, di accompagnamento e integrazione alla politica di mercato», è chiaro che non ci sarà, nella maggior parte dei casi, una politica di sviluppo rurale integrato al di fuori di Leader+, e che quegli elementi della cosiddetta politica rurale, che vanno oltre il settore agricolo, resteranno marginali rispetto alle spese destinate allo stesso settore agricolo, sia che si parli di politiche di mercato o di Psr. È mia opinione che la politica più “integrata” destinata a zone povere e rurali sia quella dell’Obiettivo 1, per lo più nel Sud dell’Europa; per il resto, almeno a livello di Ue, una politica rurale davvero integrata appare di là da venire. Ho rappresentato la situazione dell’Ue in dettaglio poiché ritengo che illustri la tendenza della retorica politica ad andare oltre la realtà. Ciò nonostante, è anche possibile indicare alcune nuove politiche nazionali per lo sviluppo rurale, in seno e al di fuori dell’Ue, e rilevare delle interessanti novità. ORIENTAMENTI NELLA POLITICA RURALE A LIVELLO NAZIONALE Oltre alle normative dell’Ue, molti Stati membri hanno politiche di sviluppo rurale proprie. In alcuni casi, queste politiche hanno un ruolo predominante nello sviluppo territoriale. Inoltre, negli ultimi anni, sono stati apportati alcuni cambiamenti di rilievo in tali politiche nazionali, sia per quanto riguarda il loro contenuto sia a livello di strutture istituzionali. Contenuto delle politiche Le politiche agricole di natura territoriale spesso comprendono tutti o alcuni dei seguenti elementi: • tentativi di rafforzare le economie rurali, principalmente attraverso la diversificazione delle attività economiche, soprattutto utilizzando sussidi indiretti per infrastrutture inerenti ai trasporti e alle comunicazioni, promuovendo reti di conoscenze e competenze, sostenendo istruzione e formazione, favorendo la creazione di nuove imprese; • tentativi di ristrutturare l’agricoltura attraverso l’intensificazione, l’ammodernamento e l’aumento del valore aggiunto nelle regioni produttive, l’estensivizzazione e lo sviluppo di un’agricoltura multifunzionale nelle regioni meno produttive, e, in zone ad agricoltura Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 129 • • • • • • • • “tradizionale”, la promozione della diversificazione interna e dei prodotti di qualità; potenziamento delle infrastrutture riguardanti i trasporti e le comunicazioni, incluse le telecomunicazioni; incremento dell’assistenza alle imprese, rivolta soprattutto alla diffusione delle nuove tecnologie attraverso la ricerca, lo sviluppo e la creazione di istituti o centri regionali specializzati; potenziamento dei servizi alle imprese; creazione di reti commerciali interregionali e internazionali e promozione di iniziative “endogene” innovative; sviluppo di risorse umane attraverso l’orientamento professionale, il miglioramento di capacità imprenditoriali e iniziative che facilitino il passaggio dalla scuola al lavoro; creazione di competenze a livello locale; sviluppo e commercializzazione delle “attrattive” naturali e culturali attraverso l’utilizzo diretto di risorse per attività di svago, turismo ecc. e, indirettamente, attraverso la creazione di condizioni capaci di favorire lo sviluppo economico; creazione di prodotti locali, con identità locale e destinati a nicchie di mercato, di solito in relazione al “capitale” locale naturale e culturale, che comprendono lo sviluppo di marchi di qualità e di garanzia, con denominazione d’origine, speciali tecniche di produzione, ecc.; strumenti di finanziamento innovativi o adattati, che includono schemi di perequazione fiscale con l’obiettivo di trasferire fondi di bilancio dagli Stati e le regioni più ricchi a quelli più poveri; sussidi e pagamenti diretti a favore di specifici settori occupazionali o gruppi sociali (agricoltori, pescatori, disoccupati, malati, indigenti, anziani, ecc.), aiuti indiretti per “servizi universali” messi a disposizione in ogni singolo Stato a tariffe e/o livelli più o meno uniformi (uffici postali, trasporti, telecomunicazioni, servizio sanitario, istruzione, rete idrica, ecc.) e varie forme di assistenza per lo sviluppo sia di investimenti statali nelle infrastrutture e in beni pubblici e quasi-pubblici, sia di investimenti privati e iniziative comunitarie. Queste ultime possono includere sovvenzioni, prestiti, partecipazioni azionarie, agevolazioni sugli interessi, agevolazioni tributarie e fideiussioni, di norma accordati su base selettiva; nuovi sistemi per portare servizi pubblici in aree rurali, a volte abbinati a centri di servizi 9 e a volte utilizzando le nuove tecnologie di (9) Il Governo Federale Australiano ha messo a disposizione oltre 70 milioni di dollari in 5 anni per la creazione di transaction centres in piccoli centri rurali, che offrono servizi di carattere generale e servizi commerciali di base. 130 Esiste una “nuova politica rurale”? comunicazione, come nel caso della telemedicina e dell’insegnamento a distanza; • un uso sempre maggiore di procedure di valutazione dei programmi sia come strumento di controllo sia come meccanismo di apprendimento. Per quel che riguarda il contenuto delle politiche, Freshwater rileva che le zone rurali hanno una proporzione maggiore di politiche di sussidi anziché politiche di investimenti, come invece avviene nelle aree urbane 10. Questa distinzione, espressa anche da Saraceno 11 e riferita al contesto europeo, diviene problematica nel nuovo contesto della globalizzazione e degli sforzi volti a promuovere uno sviluppo rurale più sostenibile e politiche rurali più efficaci. Il quadro istituzionale Nei Paesi dell’Unione Europea si possono trovare diversi ordinamenti istituzionali preposti alla realizzazione della politica rurale, che presentano, tuttavia, alcune caratteristiche comuni: • decentramento a livello di regioni e località, che a volte richiede una delega di poteri alla comunità, per andare incontro ai diversi bisogni e condizioni delle aree rurali e sfruttare al meglio conoscenze e altre risorse locali; • sostegno a favore di iniziative di sviluppo bottom-up, ad esempio attraverso i programmi comunitari Leader, ma anche per mezzo di schemi nazionali similari tipo Pomo, Proder e Scottish Rural Partnership; • tentativi di ottimizzare il coordinamento a livello centrale delle politiche destinate alle zone rurali, attraverso gruppi di lavoro o comitati interdipartimentali e interministeriali, a volte affiancati nei parlamenti nazionali da comitati per gli affari rurali, facendo ricorso, ove possibile, a varie forme di verifica delle politiche per accertare che queste tengano conto della dimensione rurale; • cooperazione e coordinamento migliori a livello regionale e locale, effettuati di solito attraverso partnership che coinvolgano i diversi dipartimenti ed enti pubblici e che prendano in considerazione gli interessi del settore privato e del volontariato. (10) Freshwater D., “Farm Production Policy versus Rural Life Policy”, Staff Paper 371. Department of Agricultural Economics, Università del Kentucky, Facoltà di Agricoltura, Lexington 40546, giugno 1997. (11) Saraceno E., “Recent Trends in Rural development and their Conceptualisation”, Journal of Rural Studies, vol. 10, n. 4, pp. 321-330, 1994. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 131 In Irlanda un Libro Bianco dell’Agricoltura del 1999 preannunciava un ruolo maggiore per le autorità locali che avrebbero operato con i Comitati provinciali per lo sviluppo (County Development Boards). Sono previsti sussidi destinati alle iniziative locali tese a promuovere la delega di poteri alle comunità e la loro partecipazione nelle decisioni e nel controllo delle risorse. È stato designato un “dipartimento-guida” col nome di Dipartimento per lo Sviluppo agricolo, rurale e alimentare (Dafard). È stato inoltre istituito un Sottocomitato presieduto dal Primo Ministro (An Taoiseach) che comprende i Ministri le cui attività interessano lo sviluppo rurale, al fine di realizzare un loro coordinamento ai livelli più alti. Questo sarà coadiuvato da un Comitato per la Politica interdipartimentale presieduto da Dafard e sarà composto di alti funzionari provenienti da Dipartimenti interessati. Il Forum nazionale per lo sviluppo rurale (Nrdf) comprenderà rappresentanti dei dipartimenti governativi, agenzie di Stato, assemblee regionali, autorità regionali, autorità locali, partner sociali, enti per lo sviluppo locale, oltre al settore del volontariato (Libro Bianco, 23-24). In più, procedimenti amministrativi di “verifica delle politiche rurali” verranno introdotti in tutti i Dipartimenti. In Scozia il nuovo Governo decentrato ha introdotto nel Parlamento un Comitato per gli Affari rurali, omologo del Comitato per l’Agricoltura del Parlamento inglese, e un Comitato interdipartimentale di controllo delle politiche. Nel Regno Unito, in seno alla Presidenza del Consiglio esiste una nuova Performance and Innovation Unit che porta avanti un progetto sulle economie rurali, e che lavora alla preparazione di un nuovo Libro Bianco sul mondo rurale. Un gruppo di deputati laburisti ha di recente condotto una inchiesta su tutti gli aspetti della vita rurale, mettendo in evidenza la necessità di un approccio integrato, locale e regionale alla politica rurale. Inoltre, l’effetto delle implicazioni pratiche suscitate dal più ampio obiettivo di uno sviluppo urbano e rurale sostenibile ha portato ad una più forte connessione tra interessi rurali ed ambientali a livello pratico e politico. Una tendenza di rilievo consiste nell’apparente crescita dei poteri di governo sovranazionale, da una parte, e regionale dall’altra, rispetto a quello nazionale. Ciò accade non solo a causa dei cambiamenti nell’assegnazione degli incarichi amministrativi tra i vari livelli, ma anche per le riforme politiche e istituzionali, come l’ampliamento dei poteri dell’Ue, la creazione di un Comitato delle Regioni a livello europeo, la devolution scozzese, e la creazione, in molti Paesi dove prima non esistevano, di strutture di governo a carattere regionale. Inoltre, in alcuni Paesi si stanno realizzando nuove strutture istituzionali per lo sviluppo locale, che prescindono dai tradizionali ambiti amministrativi, geografici, settoriali, come, ad esempio, i Parchi Naturali 132 Esiste una “nuova politica rurale”? Regionali in Francia, i gruppi Leader di azione locale, le attività locali di Agenda 21 (Buller 1999). A livello di governo centrale, spesso sarebbe possibile migliorare il coordinamento dei vari Ministeri e Dipartimenti cui fanno capo le politiche per lo sviluppo rurale. A giudicare da recenti sviluppi, alcuni punti chiave sembrano essere: • la “verifica” delle politiche da parte di un autorevole gruppo interdipartimentale o interministeriale. Questo gruppo deve aver seguito gli effetti delle politiche sulle aree rurali dagli inizi, essere in grado di riconoscerne i possibili problemi e formulare correttivi. Per esempio, il gruppo potrà controllare le disposizioni su edilizia, trasporti, telecomunicazioni, risorse idriche, rifiuti, servizi postali, istruzione e formazione, sanità, sviluppo regionale, agricoltura e ambiente, parchi nazionali, governo locale ecc.; • questo processo sembra possa venire accelerato dalla presenza nel Parlamento di una Commissione per le questioni rurali, con mandato territoriale piuttosto che settoriale, così da assicurare una partecipazione di alti funzionari in qualsiasi gruppo interdipartimentale o interministeriale; • attribuzione di responsabilità di coordinamento delle questioni rurali ad uno specifico Ministero o Dipartimento, che presieda il gruppo interdipartimentale o interministeriale. Ciò si riferisce in parte al ruolo che il governo centrale dovrà continuare a svolgere nella gestione delle politiche macroeconomiche, che avrà anche implicazioni di tipo rurale, sebbene vada ben oltre. Un altro compito dello Stato sarà assicurarsi che ci sia un buon flusso di informazioni sulle attività di sviluppo rurale e sui risultati ottenuti. In molti casi a ciò provvedono le reti nazionali o sovranazionali di partnership locali (come è il caso dell’Osservatorio Leader Europeo) che scambiano informazioni, organizzano seminari, documentano la corretta gestione di programmi, ecc. Tali attività devono essere supportate da ricerche condotte sul campo, che mirino a codificare e verificare la validità dei risultati, sollevando le questioni da affrontare. L’obiettivo superiore della politica rurale deve necessariamente essere espresso in termini di sviluppo sostenibile, nelle sue accezioni economiche, sociali, culturali ed ambientali. Bisogna perciò valutare le politiche e le loro conseguenze, tenendo conto di tali presupposti. La questione centrale sarà come ottenere maggiori interazioni (sinergie) positive tra le politiche settoriali in campo economico, sociale e ambientale. Ad esempio, come assicurare che le politiche e le attività di formazione si ricolleghino alle politiche per lo sviluppo delle imprese, e come lo sviluppo di imprese interagisce con le politiche per le infra- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 133 strutture e per l’ambiente, come coordinare le politiche agroambientali con il turismo, ecc. Per molti Paesi, dato il carattere estremamente settoriale delle politiche e della loro attuazione, tutto questo è ancora solo una sfida. Positivo, invece, è che il livello del dibattito sulle questioni di politica rurale si sta elevando, e che si possono vedere, qua e là, segni di avanzamento nei processi e metodi di programmazione, monitoraggio e valutazione, tesi ad una concezione più olistica e integrata. CONCLUSIONI Negli ultimi venti anni, ci sono stati notevoli sviluppi nella politica rurale, sia a livello di Unione Europea che a livello degli Stati membri. Gli elementi chiave di quella che potrebbe essere definita “la nuova politica rurale” sono: l’approccio territoriale e integrato, il decentramento del potere decisionale, un approccio basato sulle partnership, tentativi per migliorare il coordinamento delle politiche a livello centrale e l’individuazione di sistemi di aiuti più flessibili che soddisfino bisogni e situazioni diverse. Inoltre, abbiamo notato cambiamenti rilevanti nel contenuto delle politiche. Molti di questi cambiamenti sono stati promossi dall’Ue con riforme delle politiche intervenute in seguito all’allargamento al Sud, all’Atto Unico Europeo del 1986, alla crisi della Pac e all’Uruguay Round. Tali cambiamenti sono stati attuati quasi interamente attraverso le politiche strutturali e di coesione, che includono il programma Leader. Per molti, se non per la maggior parte degli Stati membri, questo ha rappresentato un modo radicalmente diverso di affrontare le cose. Tuttavia, ritengo che sotto molti aspetti le politiche dell’Ue, a causa di Agenda 2000, dei successivi regolamenti e ripartizioni dei fondi in bilancio per il periodo 2000-2006, e dei piani di attuazione proposti a livello nazionale, hanno segnato una battuta di arresto anziché progredire. In particolare, le zone rurali sono state penalizzate sul fronte delle politiche strutturali e di coesione, senza riuscire a realizzare cambiamenti radicali nell’attuazione del nuovo Piano per lo Sviluppo Rurale. Quest’ultimo si è rivelato solo una rielaborazione di vecchie misure, alcune delle quali risalgono al lontano 1972, destinate più agli agricoltori che alla popolazione rurale. Permettetemi di dire che questo è avvenuto per colpa degli Stati membri piuttosto che della Commissione. L’ancora di salvezza, la più importante almeno per le zone escluse dall’Obiettivo 1, rimane il Leader+: in seno all’Ue l’unico programma di sviluppo rurale territoriale veramente integrato. In questi ultimi anni, la politica rurale territoriale è stata condotta dagli Stati membri piutto- 134 Esiste una “nuova politica rurale”? sto che dalla Commissione ed è qui che si trovano nuovi sviluppi. Inoltre, e sempre al di fuori dell’Obiettivo 1, la spesa a livello nazionale per le politiche a favore delle zone rurali e lo sviluppo rurale è generalmente di molto superiore a quella dell’Ue. Queste considerazioni portano inevitabilmente a chiedersi se ci sia bisogno, in ultima analisi, di una politica rurale comunitaria. La mia risposta, seppur esitante, è affermativa. Prima argomentazione fra tutte è il fatto che essa si riferisce a una coesione economica e sociale. Bisogna ricordare che è stato il Trattato dell’Unione del 1992 ad inserire lo sviluppo rurale in questo contesto, dove è giusto che rimanga. In secondo luogo, l’esperienza di Leader ha dimostrato che le zone rurali apprendono meglio le une dalle altre, e trovano utile sviluppare aree di collaborazione e cooperazione a livello regionale, nazionale e transnazionale. L’Ue ha creato un centro di smistamento per le informazioni sulle innovazioni rurali a livello nazionale e comunitario e, anche se si può ancora migliorare, resta un ottimo mezzo per evitare di dover “reinventare la ruota” ogni volta, nonché uno strumento per favorire la collaborazione e lo scambio di conoscenze transnazionali. Più concretamente, ci sono fondati motivi per ritenere che sia l’allargamento sia i negoziati del Wto porteranno ad una scatola verde più ricca di sussidi accordati a zone di sviluppo rurale e ambiente rurale. L’approccio che permette di scegliere le misure da attuare e il decentramento dei poteri è un modello utile per organizzare le politiche di sostegno europee, e sebbene in alcuni casi si possa fare di più per integrare le politiche rurali nazionali e comunitarie, c’è ancora margine per un ulteriore sviluppo a livello dell’Ue. La diversità di approcci nei vari Paesi e il fatto che molti cambiamenti siano recenti suggeriscono che la politica rurale sia in un momento di transizione e in una fase sperimentale. Poiché molte raccolte dati e analisi vengono effettuate a cambiamenti già avvenuti, anziché precederli, appare evidente la necessità di nuove ricerche e raccolte dati che siano di ausilio alle nuove politiche da approntare. Ciò vale per l’analisi di processi, quali lo sviluppo di partnership, il coinvolgimento delle comunità locali, la delega di poteri, la creazione di competenze, lo sviluppo di una rete di conoscenze, le innovazioni, la creazione di nuove imprese, l’esclusione e l’inserimento sociale; e vale per poter analizzare l’attuazione concreta di concetti quali lo sviluppo rurale sostenibile, lo sviluppo integrato e la verifica delle politiche. Andrebbero poi approfondite le questioni di governance, inclusi i problemi connessi alla ri-definizione del ruolo dei diversi livelli amministrativi e il loro collegamento, la relazione tra le partnership e i rappresentanti eletti democraticamente. Dato che nelle zone rurali, anche con caratteristiche geografiche si- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 135 mili, vi sono differenze sostanziali nei risultati ottenuti, misurati da indicatori quali la creazione di posti di lavoro, la nascita e la chiusura di imprese, la disoccupazione, la sottoccupazione e la qualità della vita, una migliore comprensione delle ragioni di tali differenze è essenziale per perfezionare le politiche a livello regionale e locale. Sebbene tendenze come la “globalizzazione” e la “rivoluzione informatica e della comunicazione” siano a volte rappresentate come spinte inesorabili che agiscono sugli uomini e sul territorio, capaci di offrire opportunità nel futuro, è evidente che il fattore umano, sia individuale che collettivo, svolge il ruolo principale nel determinare reazioni e risultati economici e sociali. Ne consegue il bisogno di imparare a conoscere meglio le “reazioni” individuali e collettive dei protagonisti locali, incluse iniziative di tipo imprenditoriale, sociale ed individuale. Per una serie di motivi, la capacità dei bilanci pubblici di offrire servizi come l’assistenza sanitaria e l’istruzione nelle regioni prevalentemente rurali, seguendo metodi tradizionali, appare sempre più limitata. È vitale che servizi pubblici di alta qualità siano offerti in queste zone, se si vuole che la popolazione sia mantenuta nello stesso numero o aumenti. Vengono sperimentati nuovi metodi, come i “transactions centres” nei piccoli centri rurali dell’Australia e la telemedicina, l’istruzione e la formazione a distanza in altri Paesi, ma hanno bisogno di essere valutati, affinché sia garantita agli abitanti delle aree rurali e agli operatori del settore rurale l’offerta di servizi della stessa qualità di quelli che si trovano altrove. Lo sforzo teso ad “integrare” le politiche settoriali ai livelli locali è strettamente collegato all’idea olistica di “sviluppo sostenibile” che, a sua volta, include l’idea che possa esservi sinergia tra obiettivi e attività di tipo economico, sociale e ambientale. L’esempio più usato è quello che mostra i legami tra la qualità del patrimonio naturale ed ambientale e il turismo. Ma bisogna andare oltre. È importante documentare i casi positivi, dove tale sinergia può essere raggiunta e mostrare le linee di condotta da seguire per ottenerla. Il decentramento della politica rurale a livelli regionali e locali, e il gran numero di partnership e di iniziative a livello locale è essenziale se le politiche devono soddisfare bisogni e situazioni di varia natura, ma così facendo si rischia di dover ricominciare da capo ogni volta. Il confronto, la convalida e la diffusione di informazioni riguardo alle iniziative e ai progetti realizzati possono assumere, pertanto, un ruolo fondamentale, che lo Stato deve stimolare e facilitare tramite l’utilizzo creativo della tecnologia informatica e della comunicazione. Da quanto sin qui esposto, concludo che esiste qualcosa che può essere definito “nuova politica rurale”. Investe uno spettro più ampio di 136 Esiste una “nuova politica rurale”? questioni di sviluppo e si occupa in modo più integrato di alcuni settori, a livello locale e regionale. Implica nuove forme di governo caratterizzate dal decentramento, dall’associazionismo, dalla partecipazione e da nuovi meccanismi di coordinamento a livello centrale. Sebbene questa nuova politica rurale sia ancora a carattere sperimentale, con una notevole mancanza di dati di supporto, si presenta come un’area di crescente attività politica. Tuttavia, riveste ancora un carattere secondario quando la si paragona alla politica agraria, e molti problemi devono ancora venire affrontati se si vuole che abbia successo in futuro. Tra questi vi è il concetto e la messa in pratica dello stesso “sviluppo rurale integrato” - cosa deve venire integrato, come, e a quale livello di governance? Ad esempio, c’è ancora molto da fare nella maggior parte dei Paesi per integrare le politiche di “sviluppo” con quelle che riguardano l’emarginazione e la povertà, l’istruzione, la sanità, i giovani. APPENDICE L’ATTUAZIONE DEL PIANO DI SVILUPPO RURALE NEGLI STATI MEMBRI Dal punto di vista operativo, gran parte dei fondi messi a disposizione dall’Ue per il nuovo Psr verranno probabilmente assorbiti da misure preesistenti, in particolare dalle misure di accompagnamento che ora includono le misure per le zone svantaggiate. Nella maggior parte dei Paesi, l’interesse per le misure dell’articolo 33, destinate ad operatori extra agricoli, è frenato dall’opposizione delle lobby degli agricoltori, dalle limitazioni di bilancio, e dal ruolo dei Ministeri dell’Agricoltura. Porterò ad esempio le proposte di Francia, Danimarca, Finlandia e Scozia. In Francia, il Psr prevede un livello nazionale ed uno regionale. A livello nazionale verranno cofinanziati i “contratti territoriali d’impresa” (contrats territoriaux d’exploitation - Cte), sono incluse le misure di accompagnamento (anche quelle per le zone svantaggiate), gli investimenti agricoli, l’insediamento dei giovani agricoltori, la formazione e le misure di sostegno alla silvicoltura. A livello regionale, ci si occupa delle zone dell’Obiettivo II e delle aree in regime di transizione, oltre che delle altre misure dell’articolo 33. Il livello regionale verrà incluso nel programma per lo Sviluppo della politica strutturale e gestito insieme a quest’ultimo. In Danimarca esiste un unico Programma nazionale di sviluppo rurale che prevede le seguenti misure: • sostegno agli investimenti nelle aziende agricole; Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 137 • • • • • sostegno all’insediamento dei giovani agricoltori; sostegno alla formazione professionale; sostegno alle zone svantaggiate; sostegno all’agricoltura eco-compatibile (agroambientale); sostegno agli investimenti per la trasformazione e la commercializzazione di prodotti agricoli; • sostegno alla silvicoltura; • sostegno all’adeguamento e allo sviluppo delle aree rurali. Tuttavia, solo l’8,3% del bilancio preventivo è destinato a quest’ultima voce - adeguamento e sviluppo delle aree rurali - contro il 51% per le misure di accompagnamento e il 32% a favore degli investimenti in attività agricole e dei giovani agricoltori. In Finlandia esistono un livello nazionale e uno regionale per l’attuazione del Psr. Lo schema nazionale considera solamente le zone svantaggiate e le misure agroambientali, lo schema regionale comprende l’articolo 33 e altre misure. Il 90% del bilancio è destinato allo schema nazionale, e solamente il 10% allo schema regionale che include misure di sviluppo rurale. In Scozia il Psr è stato sviluppato a livello nazionale e regionale. Il livello nazionale comprende le misure di accompagnamento (incluse le zone svantaggiate), ad eccezione del pre-pensionamento, che nel Regno Unito non è mai stato applicato. Queste misure sono state integrate nel regime transitorio H & I delle politiche di sviluppo strutturale. Nel resto della Scozia rurale un piano subordinato contiene misure scelte dal resto del Psr, incluse quelle dell’articolo 33. Tra queste ultime, viene data importanza alla commercializzazione di prodotti agricoli di alta qualità, ai servizi di base per l’economia e la popolazione rurale, al rinnovamento e allo sviluppo dei villaggi, alla salvaguardia del patrimonio rurale, allo sviluppo del turismo e dell’artigianato rurale, alla protezione dell’ambiente, al benessere degli animali e all’ingegneria finanziaria. La bozza di bilancio della Scozia per il periodo 2000-2006, sottoposta alla Commissione, ammonta a 1.011,7 milioni di Euro, dei quali 855,5 destinati alle misure di accompagnamento, altri 121 milioni per altre misure, fuorché quelle dell’articolo 33, destinate alle Lowlands, e i rimanenti 35 milioni per le misure dell’articolo 33. Ma anche così non è stato possibile destinare, a quest’ultimo, risorse del Fondo Garanzia poiché le risorse sono insufficienti per fare fronte agli impegni presenti e futuri inclusi tra le misure di accompagnamento. Il governo Scozzese deve ancora decidere sulla questione della modulazione, ma se le proposte vengono accettate, altri 310 milioni potrebbero essere stornati per andare ad aumentare i fondi in bilancio. Comunque, il punto cruciale è 138 Esiste una “nuova politica rurale”? che le misure di accompagnamento avranno sempre la parte più cospicua degli stanziamenti disponibili. Questa situazione è aggravata dall’aumento della sterlina nei confronti dell’euro. Si deve inoltre notare che il rapporto tra i temi in oggetto nel Psr, quali la commercializzazione di prodotti locali, misure sull’ambiente e sul patrimonio culturale, ecc., e le proposte avanzate da Leader+ di valorizzazione dei prodotti locali e delle risorse naturali e culturali, è ancora assai poco chiaro. Sommario Questo articolo tenta di stabilire se nell’Unione Europea e nei Paesi Ocse esista attualmente qualcosa che si possa definire una “nuova politica rurale”, tenuto conto dell’attuazione delle politiche dell’Ue dalla fine degli anni Ottanta e dopo Agenda 2000 e dei cambiamenti intervenuti nella politica rurale, sia a livello nazionale sia in altri Paesi dell’Ocse. La tesi è che, sebbene ci sia stato un evidente cambiamento nella natura e nel contenuto delle politiche rurali, tale cambiamento non deve essere sopravvalutato: la retorica spesso va oltre la realtà. Ad esempio, nel caso del nuovo Piano per lo sviluppo rurale dell’Ue, in realtà meno del 10% del bilancio preventivo sembra essere destinato a finalità e a possibili fruitori non strettamente legati alla produzione agricola. Negli ultimi anni gli Stati membri, anziché la Commissione, si sono adoperati per modificare attivamente le politiche rurali a livello territoriale. In conclusione, vengono avanzate alcune proposte per un’attività di ricerca sulla futura politica rurale. Riferimenti bibliografici 12 Rural Secretariat, The Federal Framework for Action in Rural Canada, Agriculture and Agri-Food Canada, Ottawa, Canada, 1999. Bor W.V.D., J. M. Bryden, A.M. Fuller, “Rural Human Resource Management”, in Mansholt Studies, n. 10, Istituto Mansholt, Università di Wageningen, Paesi Bassi, 1997. Bryden J. M., Recent Developments in Irish and Scottish Rural Policy, working paper, Research Institute for Irish-Scottish Studies, Università di Aberdeen, Seminario, 11 gennaio 2000a. Bryden J. M., The Implementation of Agenda 2000 in Rural Areas: A Preliminary Assessment, Conferenza Vora and Ekenas European Information, Finlandia, 20-21 marzo, 2000b. Bryden J. M., “Policymaking for Predominantly Rural Regions: Concepts and Issues”, in Dt/Tdpc/Rur, n. 3, Ocse, Parigi, 8 dicembre, 1999. 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Bryden, The Implementation of Agenda 2000 in Rural Areas of Eastern and Western Europe, The Arkleton Trust, Oxford, novembre 1999. 140 Esiste una “nuova politica rurale”? La rintracciabilità dei prodotti agricoli Lauro Panella INTRODUZIONE La rintracciabilità dei prodotti sta diventando un argomento di primaria importanza all’interno delle varie filiere agroalimentari 1. In un sistema economico che vede, nella sua generalità, le aziende sfidarsi in una competizione principalmente fondata sulla soddisfazione del cliente/consumatore, la rintracciabilità è diventata da tempo uno strumento indispensabile per guadagnare il consenso del mercato. I casi delle industrie farmaceutiche e di quelle automobilistiche, che riescono a ritirare dal mercato i prodotti difettosi con estrema celerità e precisione, sono solo la punta più avanzata nell’utilizzo di queste nuove strategie competitive che sono divenute fattibili grazie all’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione. Anche i mercati agroalimentari stanno conoscendo questo nuovo modello competitivo. Le imprese di questo settore hanno cominciato da qualche anno a sfruttare in modo strutturale le tecnologie informatiche ed a porre in essere sistemi di rintracciabilità. L’allarme suscitato dalla vicenda della Bse ha solo accelerato un processo che era già in atto. Come la storia economica insegna, tuttavia, nel momento in cui un nuovo processo viene introdotto esso genera un vantaggio competitivo ed un aumento del valore aggiunto che nel tempo tende a ridursi fino a trasformarsi, da una novità, ad un prerequisito indispensabile alla sola presenza sul mercato. La rintracciabilità, che nel sistema agroalimentare oggi si colloca nella fase temporale del vantaggio competitivo, non sfuggirà a questa regola. Affrontando il tema della rintracciabilità bisogna tenere sempre ben presente che stiamo parlando di un aspetto tecnico di processo. Spesso Lauro Panella è ricercatore dell’Ismea (Istituto per i Servizi al Mercato Agricolo Alimentare), Roma. (1) Cfr. Panella 2001 e 2002. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 141 si è portati ad attribuire ad essa ruoli e valenze che in realtà riveste solo in parte. Non bisogna infatti confondere la rintracciabilità con la sicurezza alimentare, che è cosa ben più ampia, così come con elementi di marketing. È indubbio, tuttavia, che la rintracciabilità contiene in sé molti elementi di sicurezza alimentare e di marketing che le singole imprese possono sfruttare a proprio vantaggio. Lo scopo della rintracciabilità - come è stato ben specificato dal Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare, così come dal Regolamento n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alle Norme Ue sulla Sicurezza Alimentare, e dalla norma Uni 10939:2001 - è quello di conoscere il percorso seguito dal prodotto e chi sono stati gli attori che hanno contribuito alla sua formazione (da estendersi anche all’import/export, così come ai fornitori degli ingredienti). Non a caso, l’attuale legislazione, laddove esiste 2, come ad esempio nel caso della rintracciabilità delle carni, non obbliga le imprese a dichiarare se il loro prodotto è sano (sicurezza) né da quale razza bovina provenga (marketing) ma solo ad identificare gli agenti che ad ogni stadio della filiera hanno concorso alla realizzazione del prodotto (informazioni obbligatorie). Questa normativa riconosce, tuttavia, la possibilità alle imprese di fornire informazioni aggiuntive (che possono offrire specifiche legate sia alla sicurezza che al marketing) ma le veste di un carattere facoltativo e non obbligatorio. La rintracciabilità, in conclusione, è uno strumento conoscitivo per il consumatore/cliente che serve principalmente a responsabilizzare gli attori che concorrono alla formazione del prodotto in quanto permette la loro riconoscibilità. Il non attribuire incarichi che non competono alla rintracciabilità serve a specificare in maniera più puntuale il campo della sua applicazione e, come vedremo più avanti, a ridurre i costi della sua realizzazione. QUADRO LOGICO NELLA COSTRUZIONE DI MODELLI DI RINTRACCIABILITÀ Cominciamo con il dire che l’implementazione di un processo di rintracciabilità deve rispettare le esigenze dei diversi settori a cui esso si riferisce soprattutto in merito a: • struttura della filiera e dimensionamento delle aziende; (2) In ugual modo, la legge regionale che finanzia progetti di rintracciabilità della regione Emilia Romagna non detta parametri vincolanti in merito alla specifica tecnica dei progetti, ma ne delinea solo lo scopo finale richiesto, che è quello riportato nel Regolamento n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio. 142 La rintracciabilità dei prodotti agricoli • • • • • tipologie di prodotto; caratteristiche gestionali specifiche; logistica; mercati di sbocco; richieste ed attese dei clienti e dei consumatori. È normale che ogni filiera agroalimentare abbia la propria specificità da cui non si può prescindere ed è importante non perdere di mai di vista l’ambiente economico nel quale determinati strumenti vengono collocati. La rintracciabilità è uno strumento utile ma costoso. Non solo essa richiede specifiche dotazioni tecnologiche, ma anche adeguamenti manageriali e gestionali non secondari. Certamente i benefici che essa può generare sono enormi. Essi sono legati, oltre alla sua stessa funzione, anche all’opportunità di generare sinergie, tramite gli strumenti adottati, nella gestione informatizzata del ciclo dell’ordine del prodotto, del magazzino, dei flussi sia informativi che fisici sia in entrata che in uscita. Tuttavia, i benefici dovranno essere superiori ai costi per ogni agente coinvolto, altrimenti, se non tramite imposizioni normative o di mercato, nessuno l’adotterà. Questo è valido soprattutto per la realtà italiana, formata da piccole e medie imprese che non hanno, purtroppo, la capacità di effettuare grandi investimenti o di cambiare facilmente metodologie di lavoro e di organizzazione. Il costo della rintracciabilità dipende principalmente dal numero delle informazioni che si vogliono tracciare, ossia quelle che devono viaggiare lungo tutta la filiera fino al consumatore/cliente finale. Più esse sono numerose e complesse da reperire e più i costi di implementazione aumentano. Chi determina la scelta delle informazioni da reperire è, ad ogni modo, il consumatore/cliente. Tuttavia bisogna far riferimento, in un quadro generale, alle richieste del consumatore/cliente medio, sia italiano che estero, per quanto riguarda le informazioni che possiamo definire “fondamentali” per l’esistenza stessa del processo, riservando la possibilità di fornire informazioni aggiuntive solo alle imprese in grado di poterlo fare. Il tentativo di costruire un processo di rintracciabilità parametrizzandolo sulle richieste del consumatore/cliente più esigente o guardando solo le capacità delle imprese più efficienti, potrebbe generare il rischio di fallimento per le altre (non poche) imprese. Tuttavia poiché gli alti costi sono generati dall’utilizzo della tecnologia oggi a disposizione, nessuno ci vieta di immaginare, dato il tasso di progresso tecnologico attualmente esistente, che sistemi oggi costosissimi non possano essere adottati domani, con costi sostenibili anche da parte delle piccole-medie imprese. Evidenziata la necessità di individuare le richieste del consumatore/ cliente medio (per ogni singolo prodotto) e le capacità di implementa- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 143 zione dell’azienda media, corre l’obbligo di definire un’altra caratteristica che il sistema di rintracciabilità da adottare dovrebbe avere. Esso deve essere largamente condiviso da parte delle imprese sia per quanto riguarda le informazioni da tracciare che per le tecnologie da utilizzare (quest’ultime, come vedremo, principalmente nella fase commerciale del prodotto). Infatti, è importante che tale processo non diventi penalizzante per nessun agente delle varie filiere, ma che ripartisca equamente compiti, costi e guadagni. Del resto, non esistendo norme, come nel caso delle carni bovine, che impongano un modello che nessuno può eludere, si tratta di implementare sistemi autovincolanti che per essere tali necessitano di essere condivisi. Anche il semplice operare del meccanismo di mercato potrebbe tuttavia imporre alle imprese uno specifico modello adottato e/o richiesto dagli agenti forti della filiera. Ma non è questo il caso che vogliamo qui affrontare e comunque è quello che si vorrebbe evitare. La necessità di una ampia condivisione conduce ad una ricerca di standardizzazione del processo la più generale possibile. Il rischio maggiore è quello di una proliferazione di sistemi non necessariamente compatibili tra di loro (sia nel numero e genere di informazioni veicolate che nel sistema tecnico utilizzato) che genererebbe una notevole confusione nella gestione del processo. La non compatibilità comporterebbe anche una “ragnatelizzazione” delle imprese, nel senso che quelle che adottano uno stesso sistema sarebbero obbligate a convivere anche qualora sorgessero tra di loro problemi di altra natura. In sostanza rischieremmo di avere imprese necessariamente legate tra di loro che, considerando i notevoli costi di implementazione della rintracciabilità, anche in presenza di altri problemi con i propri clienti e/o fornitori, non potrebbero abbandonare la ragnatela alla quale appartengono. Ovviamente questo penalizzerebbe gli agenti più deboli di ogni ragnatela. In ultimo, il sistema da implementare deve tener conto anche delle informazioni che già sono disponibili tra gli operatori, in modo da non creare un eccesso di burocratizzazione. SCHEMA METODOLOGICO NELLA COSTRUZIONE DI MODELLI DI RINTRACCIABILITÀ A bbiamo visto come un processo volontario di rintracciabilità si debba costruire partendo, principalmente, dalla individuazione delle: 1. informazioni da far viaggiare lungo tutta la filiera; 2. strumenti tecnici da implementare per la loro raccolta e per la loro veicolazione sia verso il fornitore che verso il cliente. 144 La rintracciabilità dei prodotti agricoli Il primo punto è quello più importante. Stabilire quali e quante debbano essere le informazioni minime necessarie è l’aspetto più delicato dell’intero processo. Come già anticipato, la fonte principale per determinare questa scelta è il comportamento (e le richieste) del consumatore/ cliente sia italiano che estero. Necessariamente le informazioni debbono differire a seconda della tipologia di prodotto trattato. Ovviamente più il numero delle informazioni cresce e più il sistema diventa complesso. Per evitare duplicazioni ed eccessi di burocratizzazione bisogna tener presente che esistono alcune norme, come ad esempio le norme di qualità Un/Ece ed i Regolamenti comunitari sulle Dop ed Igp, che già obbligano gli operatori a fornire determinate informazioni al consumatore finale. Ovviamente, la scelta delle informazioni da veicolare in un sistema di rintracciabilità non può non considerare queste normative. Inoltre, bisognerebbe porre attenzione che il tipo di informazioni scelte non obblighino le aziende a rilevare processi sottoposti, diciamo così, al segreto industriale. Possiamo quindi ipotizzare, a titolo di esempio, un insieme di informazioni come rappresentato in figura 1, che fa riferimento al caso ortofrutticolo. L’insieme presentato si basa sia su un numero di informazioni cogenti, che il sistema dovrebbe garantire, sia su alcune informazioni “consigliate”, che il sistema dovrebbe rendere disponibili nel medio periodo, evitando tuttavia di renderle subito obbligatorie, in modo da dare alle imprese meno dotate il tempo di adeguarvisi. Inoltre, non bisogna dimenticare le informazioni riguardo alla logistica che, sebbene non siano di interesse del consumatore finale, risultano essere funzionali al sistema di rintracciabilità. A queste informazioni vanno naturalmente aggiunte quelle riguardanti il nome delle imprese che hanno concorso alla produzione del bene. Riguardo alle informazioni da veicolare è necessaria un’altra specifica che, in realtà, va al cuore della problematica fin qui affrontata. Invero, i sistemi di rintracciabilità, al netto degli strumenti tecnici utilizzati che vaglieremo successivamente, si possono dividere in due grandi gruppi: 1. sistemi in cui ogni operatore raccolga e trasferisca all’operatore successivo tutte le informazioni di tracciabilità del prodotto, fino a farle giungere al consumatore finale; 2. sistemi in cui ogni operatore raccolga e trasferisca al successivo le informazioni necessarie per il consumatore finale conservandone altre che non verranno veicolate tra tutti gli operatori. A prima vista il sistema più semplice sembra essere il primo, ma così non è. Infatti, esso prevede che le informazioni destinate al consu- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 145 FIGURA 1 Classi e tipologia di informazioni INFORMAZIONI CHE DEVONO ESSERE VEICOLATE AL CONSUMATORE NEL CASO DI PRODOTTO (INFORMAZIONI COGENTI) SPECIE VARIETÀ EXTRA PRIMA SECONDA Tale voce già prevede, inoltre, informazioni sui calibri e le tolleranze CATEGORIA PROVENIENZA CONFEZIONATORE DATA DI CONFEZIONAMENTO PREZZO AL CONSUMO PESO/N. PEZZI PAESE DI ORIGINE Prezzo che viene esposto dall’ultimo venditore al consumatore finale INFORMAZIONI DI PRIMO LIVELLO Varietà e Categorie per i prodotti per i quali non esiste una normativa di riferimento REGIONE ZONA TIPICA DI PRODUZIONE (che non contrasti con la normativa sull’IGP) ORIGINE PROCESSO DI PRODUZIONI MARCHIO DOP ed IGP (Reg. 2081/92) - BIOLOGICO (Reg. 2092/91) INTEGRATA (con certificazione / attestazione) PRODUTTORE CONFEZIONATORE GD INFORMAZIONI DI SECONDO LIVELLO AMBIENTE REFRIGERATO ATMOSFERA CONTROLLATA MODALITÀ DI CONSERVAZIONE STAGIONALITÀ / FRESCHEZZA VALORI NUTRIZIONALI SCHEDE Inran sulla specie e varietà INFORMAZIONI LOGISTICHE (UNITÀ LOGISTICA) 146 UNITÀ CONFEZIONI NUMERICO TIPO IMBALLO DESCRIZIONE MATERIALE IMBALLO DESCRIZIONE CAUZIONE DESCRIZIONE PERDERE RENDERE (no cauz.) RENDERE (cauz.) PALLETTIZZAZIONE DESCRIZIONE NO PALLET EPAL ROLL BOX CENTROMARCA ALTRO N. COLLI X PALLET ALTRO NUMERICO (ES. 10) La rintracciabilità dei prodotti agricoli (ES. 10 CONFEZIONI A COLLO) CART. ESPOSITORE CASSA RING BANANTINER BIN PLASTICA CARTONE LEGNO FERRO matore esauriscano tutto il sistema di rintracciabilità. Questo potrebbe complicare il sistema in quanto bisognerebbe far arrivare al consumatore finale anche delle informazioni che, indispensabili per la funzionalità del sistema, potrebbero risultare di scarso interesse per quest’ultimo. Il sistema così implementato trasferirebbe lungo la catena una maggiore massa di informazioni aumentandone la complessità di gestione ed il costo di implementazione. Il secondo sistema, invece, mira a superare questo problema imponendo agli operatori di raccogliere ed inviare al consumatore finale solo alcune informazioni ritenute di maggior interesse per quest’ultimo, mentre altre informazioni verrebbero veicolate solo tra alcuni di essi. In entrambi i casi, tuttavia, gli operatori sarebbero tenuti alla conservazione sia delle informazioni in entrata che di quelle in uscita. Per fare un esempio, consideriamo la seguente sequenza di informazioni: prodotto x, coltivato dall’azienda y, trasformato e confezionato dalla impresa k, trasportato dalla impresa j, venduto dall’impresa z. Nel primo caso tutte queste informazioni, più quelle attinenti al prodotto, andrebbero nell’etichetta finale in chiaro per il consumatore. Nel secondo caso, alcune potrebbero essere escluse dall’etichetta consumatore rimanendo comunque tracciabili. Ritornando alla sequenza, pur escludendo, ad esempio, di mettere nell’etichetta finale il nome del trasportatore, l’impresa immediatamente precedente questa fase dovrebbe essere tenuta a registrare e conservare l’informazione su chi è stato il suo trasportatore in uscita, così come quella successiva dovrebbe registrare e conservare l’informazione su chi è stato il suo trasportatore in entrata. In questo modo comunque il percorso del prodotto sarebbe tracciato così che, in caso di problemi di ordine igienico-sanitario, le autorità potrebbero facilmente rintracciare tutte le informazioni. Definite le informazioni da trasportare lungo la filiera, bisogna porsi il problema di quale strumento debba essere adottato sia per reperirle che per veicolarle. Bisogna tener conto che il sistema di rintracciabilità, data la notevole quantità di informazioni richieste, non può non fondarsi su un utilizzo quasi generalizzato delle tecnologie informatiche. Allo stato attuale, gli operatori della filiera già dialogano tra di loro tramite codici telematici identificativi delle informazioni. Agli operatori finali della catena (distributori o confezionatori) tocca poi il compito di tradurre in chiaro queste informazioni sulle etichette per il consumatore. Da quanto finora esposto si intuisce facilmente come l’argomento rintracciabilità, soprattutto nei suoi riscontri tecnici, si leghi organicamente alla classificazione dei prodotti e la loro identificazione elettronica. La classificazione dei prodotti, la cui conseguenza logica è la re- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 147 dazione di cataloghi prodotto, consente di identificare i prodotti in base a delle loro caratteristiche. Il processo successivo è quello della normalizzazione, ossia che cosa ogni caratteristica definisce. Per alcune di esse si possono adottare le suddivisioni e specificazioni dettate dall’Un/Ece 3 come, ad esempio nel caso della qualità, la suddivisione in tre categorie Extra, I e II ed i criteri necessari per appartenere ad esse. Altre sono quelle proposte dall’Ice, come nel caso dei calibri. Definite le caratteristiche che permettono la riconoscibilità del prodotto, l’ulteriore sviluppo è quello di traslare queste informazioni in codici univoci di referenza che permettono agli operatori lo scambio dei dati in via telematica. Esistono varie modalità di assegnazione di codici di referenza già in uso, tra i quali: • la nomenclatura Sa/Nc, ossia codici di Sistema Armonizzato a Nomenclatura Combinata 4; • i codici Plu (Price Look Up) adottato dagli esportatori internazionali 5; • il sistema di codifica di Ecr Europe; • il sistema francese che utilizza dei codici definiti dai fornitori basati su specifici criteri 6. Come avviene la trasmissione di questi codici e delle altre informazioni? La tecnica attualmente più utilizzata prevede che le informazioni vengano codificate in codici a barre e successivamente inviate tramite computer (facendo, quindi semplicemente viaggiare il codice che è posto sulle etichette) i quali, tuttavia, devono essere in grado di leggere tali codici e di inviarli. A questo scopo vengono utilizzate delle reti telematiche e specifici software grazie ai quali sia il computer di invio che quello di ricezione riescono a leggere le esatte informazioni contenute nel codice (è da non trascurare anche l’importanza della sequenza che queste hanno nel codice). Tra le reti telematiche oggi più in uso vi sono: Edi (Eletronic Data Interchange, si basa su una rete Intranet), Isdn (Integrated Service Di(3) Il più recente regolamento Ce in materia di classificazione e normalizzazione dei prodotti agricole è il Reg. 2200/96. Sulla parte logistica bisognerà riferirsi alla Direttiva Ce 94/62 del 20/12/94 relativa agli imballaggi. (4) Da informazioni su specie e varietà commerciale; ad esempio: Codice SA-NC n. matricola descrizione 07001 90 10030 Patate Novelle (5) È un numero a 4 cifre che descrive la specie, la varietà ed il calibro. Ad esempio, il numero 4012 si riferisce ad arancia navelina di calibro 10. (6) Questi criteri, che non sono necessariamente validi per tutti i prodotti, sono i seguenti: specie/varietà/tipo commerciale; calibro; categoria; origine; marchio di qualità; colorazione; trattamento dopo la raccolta; maturazione; prodotto biologico; confezionamento. 148 La rintracciabilità dei prodotti agricoli gital Network), Sgml (Standard Generalized Markup Language, si basa su rete Internet) Xml (eXtensible Markup Language, rete Internet) Eancom (tipi avanzati di Edi registrati da Ean International). È evidente, purtroppo, come anche in questo caso possa sorgere il problema della “ragnatelizzazione” precedentemente osservato. Infatti, se alcuni operatori applicano codici diversi per le stesse informazioni o utilizzano reti telematiche differenti sorgono problemi di interfacciamento tra sistemi informatici che obbligano gli operatori a restare nella propria ragnatela. Per ovviare a questo problema è necessario che vi sia la più ampia standardizzazione riguardo sia al numero ed al tipo di informazioni da veicolare, sia al loro sistema di codifica e di trattamento informatizzato. Sarebbe auspicabile una standardizzazione condivisa in modo da non penalizzare nessun agente della filiera. In caso contrario, sarebbero gli operatori più forti del mercato ad imporre i propri linguaggi informatici, cosa che potrebbe risultare estremamente dannosa per i piccoli operatori (si immagini solo, ad esempio, il costo di riconversione dei software di gestione). Inoltre, nella progettazione di un sistema di rintracciabilità non si può non tenere in considerazione anche i sistemi di raccolta di informazioni che le imprese già usano, con altri fini, per creare sinergie (nel caso che le informazioni necessarie siano le stesse), non aumentare i costi e non generare un eccesso di burocratizzazione. Ci riferiamo alle norme Haccp, Iso 9000, Iso 9002, Iso 14.000, Emas, Decreto Legislativo 155 in materia di igiene, adempimenti Cee ed altro. Altra facilitazione potrebbe venire dalla individuazione di quei documenti, già in uso, che raccolgono informazioni quali i quaderni di campagna, i registri di scarico e carico, la registrazione dei lotti, ecc. 7. Dopo aver discusso delle informazioni e della necessità di una loro identificazione elettronica, osserviamo come sono strutturati i classici flussi informativi e fisici tra gli agenti delle filiere per poi passare alle specifiche tecniche degli strumenti della rintracciabilità. RAPPORTI TRA OPERATORI E SPECIFICHE TECNICHE DI RINTRACCIABILITÀ La realtà agricola italiana, diversamente da quella di altri paesi, presenta uno schema di flusso di informazioni tra gli operatori (illustrato in figura 2) che evidenzia una strettoia al livello del centro di raccolta (centro di confezionamento e/o distribuzione, d’ora in poi CeDi). Mol(7) TeTa, 2001. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 149 a lit à Produttore Produttore Consumatore Grossisti DM / GDO CENTRO DI RACCOLTA / CONFEZIONAMENTO / CeDi Produttore Processo di rintracciabilità non necessariamente standardizzato à tr ac d Circuito di tracciabilità: ogni agente della filiera, nel percorso molte-valle, deve essere in grado di lasciare la traccia della propria attività effettuata sul prodotto. Circuito di rintracciabilità: la capacità di ogni agente della filiera, nel percorso valle-monte, di riconoscere il proprio fornitore del prodotto e le attività da loro apportate su quest’ultimo. Frecce nere: circuito classico di passaggio monte-valle del prodotto nelle filiere agroalimentari Freccia grigia: circuito di commercio elettronico del prodotto. Frecce bianche: circuito di rintracciabilità del prodotto in cui ogni agente della filiera è in grado di riconoscere almeno il proprio fornitore e le attività da questi apportate sul prodotto. Frecce tratteggiate: circuito di rintracciabilità del prodotto in cui l’ultimo agente della filiera è in grado di riconoscere tutti gli agenti che sono entrati nella filiera e le attività da questi apportate sul prodotto. Fase di commercializzazione del prodotto Fase di consegna/uscita del prodotto Fase di lavorazione del prodotto Fase di raccolta/entrata del prodotto Fase di trasporto e consegna del prodotto Produttore C tr ito di irc u Fase di produzione FIGURA 2 Diagramma del flusso di informazioni in un circuito di rintracciabilità rc to ui ir in lit bi Ci cia La rintracciabilità dei prodotti agricoli Processo di rintracciabilità univoco e standardizzato 150 bi ia cc ti produttori conferiscono il prodotto al CeDi, il quale lo lavora in modo indifferenziato immettendolo successivamente nel canale di vendita. Il problema maggiore di questa fase risiede nella difficoltà da parte dei CeDi di lavorare il prodotto separatamente a seconda del fornitore, a causa della limitatezza delle forniture che quasi sempre non consentono la composizione completa di un singolo lotto (pensiamo all’ortofrutta, alla miscelazione delle forniture di latte che avviene nei caseifici o nelle cisterne per l’olio o nei silos di stoccaggio dei cereali). In altri paesi il problema è più facile da affrontare in quanto le aziende produttrici sono molto più grandi e quindi conferiscono molto più prodotto per cui si può facilmente ottenere un lotto omogeneo per singolo fornitore. Considerata questa complessità è opportuno, per l’implementazione della rintracciabilità, dividere la fase di produzione/raccolta del prodotto da quella propriamente commerciale, che avviene a valle del CeDi. Necessariamente quest’ultima, per evitare i problemi di ragnatela, deve essere standardizzata, ossia, essere in grado di sviluppare un linguaggio univoco di rintracciabilità capace di interfacciarsi con tutti gli operatori. Il prodotto, in questa fase, viaggia nelle cosiddette unità logistiche composte principalmente da lotti. Lo strumento che viene utilizzato per trasmettere le informazioni sul lotto, oggi già molto diffuso sia in Italia che in Europa e nel mondo, è il codice a barre Ean 128. Tale strumento, che presentiamo più avanti nella struttura di codice logistico, potrebbe essere utilizzato, (unito al Serial Shipping Container Code - Sscc) anche per la standardizzazione della fase commerciale del processo di rintracciabilità in quanto capace di veicolare un discreto numero di informazioni (anche se, comunque, limitate). La fase riguardante il rapporto tra produttori e CeDi, che spesso rappresenta un circuito chiuso, non necessariamente richiede una standardizzazione. In realtà ogni azienda di questo stadio potrebbe, nel rapporto con i propri fornitori, instaurare un sistema tecnico di raccolta delle informazioni costruito sulle proprie specificità. Il tipo e la qualità delle informazioni devono, tuttavia, essere funzionali al processo di rintracciabilità standardizzato che è posto dopo il CeDi. Alcune aziende hanno già avviato, o stanno sperimentando, un proprio sistema di raccolta di informazioni sul campo che vengono decodificate all’entrata al centro di raccolta/lavorazione/distribuzione ed immagazzinate in una propria banca dati. Gli strumenti solitamente sviluppati sono codici a barre, codici alfanumerici e microchip. Come anticipato, il cuore del problema risiede nel grado di omoge- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 151 neizzazione del lotto. Un perfetto sistema implicherebbe che ogni lotto fosse costituto: 1. dal prodotto conferito da un singolo fornitore; 2. da prodotto omogeneo per le caratteristiche richieste (varietà, calibri, qualità, ecc.). Purtroppo, oggi, gran parte delle aziende agricole italiane non sono in grado di risalire ai differenti conferenti il prodotto che compongono un singolo lotto a causa della indifferenziazione/miscelazione che esso subisce nel CeDi. Se non fosse possibile rintracciare il singolo produttore, anche a causa dei costi enormi che questo richiederebbe, si potrebbe pensare di comporre il lotto secondo altri parametri che consentano almeno di restringere il quadro dei fornitori. Questo permetterebbe anche di affrontare un altro problema che la rintracciabilità si prefigge di limitare che è quello della distruzione indifferenziata del prodotto. Infatti, nella malaugurata ipotesi che un solo prodotto non dovesse risultare sano, le imprese non essendo in grado di risalire al loro preciso fornitore, sarebbero costrette a distruggere indifferenziatamente tutto il prodotto. I parametri di restrizione nella composizione del singolo lotto potrebbero essere individuati in: • provenienza per singole aree geografiche; • ora/giorno di consegna (cosiddetto “lotto orario”); • calibri; • qualità; • coltivazione; • altro. Abbiamo visto, come la fase di commercializzazione del processo necessiti di una procedura standard. Il codice a barre Ean 128 è allo stato attuale lo strumento più diffuso per questo scopo. Nel circuito a monte del CeDi, invece, la standardizzazione è più complessa e sicuramente meno necessaria. I sistemi tecnici qui adottati sono diversi: codici a barre standard e proprietari, codici alfanumerici e microchip. I CODICI A BARRE I codici a barre utilizzati sono di solito di tipo standard o proprietario. Quelli di tipo standard, principalmente utilizzati nella fase di commercializzazione, sono gli Ean/Ucc assegnati in Italia dalla società Indicod. L’unità consumatore, ossia la confezione destinata al consumatore, generalmente utilizza il codice Ean 13 (cioè con tredici cifre) mentre 152 La rintracciabilità dei prodotti agricoli FIGURA 3 Etichetta logistica: le informazioni Identificazione del prodotto • Codice EAN unità logistica • Codice EAN prodotti contenuti nell’unità logistica Date • Data di fabbricazione • Data d’imballaggio • Best before date Identificazione di locazioni • Luogo di consegna • Luogo di partenza • Luogo d’origine del prodotto EAN/UCC LOGISTICS LABEL From EAN International Rue Rovale 145 B-1000 Brussels To UNIFORM CODE COUNCIL 8136 Old Yankee Road Dayton, Ohio 45459 U.S.A. SSCC 3 5412345 123456789 2 CONSIGNMENT 541234550127501 SHIP TO POST 840 45459 Identificazione della singola unità logistica • SS CC (Serial Shipping Container Code) Quantità e misure • Dimensioni commerciali • Dimensioni logistiche • Quantità di prodotto Numeri e riferimenti • Lotto di fabbricazione quella logistica, ossia quella riguardante i pallets, l’Ean 128 unita al Sscc. In genere l’etichetta consumatore contiene sia il codice Ean che la trascrizione in chiaro delle informazioni in esso contenute. Essa, posta dal confezionatore o dal distributore contiene le seguenti informazioni: nome dell’azienda (quella che pone l’etichetta), prodotto e sue referenze, prezzo. Questa struttura del codice è ristretta e non offre la possibilità di fornire molte altre informazioni. Inoltre, essa è congeniale al peso fisso; tuttavia la società Indicod ha studiato la possibilità di immettere sul mercato, dal 2002, una nuova struttura di questo codice che consenta anche la trattazione del peso variabile. Le struttura e le informazioni veicolate dall’etichetta logistica sono presentate nella figura seguente. È evidente come tale etichetta veicoli un buon numero di informazioni. Essa, tuttavia, essendo “logistica” trasporta informazioni solo tra gli operatori e non al consumatore finale. Diviene compito, quindi, dell’ultimo operatore della catena trasferire queste informazioni al consumatore finale. I codici di tipo proprietario sono creati, invece, internamente al circuito produttivo delle singole aziende e si adattano al particolare rapporto esistente tra esse ed i propri fornitori. La struttura tecnica di questi codici, in genere, non si discosta molto dagli standard Ean. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 153 I CODICI ALFANUMERICI I codici alfanumerici sono, tecnicamente, una sequenza di numeri e lettere di varia grandezza posti sulle etichette. Sono di tipo proprietario e non standard. Vengono utilizzati sia nella fase a monte del centro di raccolta/lavorazione che in quella di commercializzazione. Il processo di riconoscimento avviene, in genere, grazie ad un collegamento alla rete Internet, ma anche Intranet. Quando il cliente (azienda o consumatore finale) vuole informazioni circa il prodotto acquistato, naviga sul sito web dell’azienda fornitrice e digitando il codice negli appositi link riesce ad ottenere tutte le informazioni richieste. Molto spesso il ruolo di centro telematico che riceve i codici e fornisce informazioni in rete è una aziende terza che offre il servizio per una pluralità di aziende sia fornitrici che clienti (nonché consumatore finale). SISTEMI DI RADIOFREQUENZA Questa tecnologia si basa sull’uso dei segnali di Radio Frequenza nella raccolta dei dati. Tecnicamente i dati nel campo sono raccolti tramite un computer palmare che li trasferisce su un micro-chip di lettura/scrittura installato sui bins o pallets. Quando questi varcano la porta d’ingresso del centro di raccolta/lavorazione, il chip viene letto da speciali lettori che inviano le informazioni al centro di raccolta dati interno. Questo, oltre ad immagazzinare dati è, di solito, fornito di un software che, secondo il programma di lavoro stabilito, fornisce indicazioni in tempo reale sullo smistamento interno del prodotto. Il punto di forza di tali sistemi è che il microchip è in grado di veicolare una miriade di informazioni dal campo al centro di raccolta e consente quindi l’ottimale gestione di sistemi produttivi con molti fornitori e molti prodotti. I punti deboli sono due: la complessità di gestione, soprattutto all’interno del centro di raccolta (legata principalmente alla riqualificazione del personale), ed il suo costo di implementazione. Il sistema, data l’ampia raccolta di informazioni che consente, si connette in modo ideale al trasferimento di queste alla successiva fase di commercializzazione. Molti operatori sono infatti convinti che lo sviluppo futuro dei sistemi di trasferimento delle informazioni veda l’uso connesso di radiofrequenza e codici standard Ean 128: i codici a barre sono a basso costo e sono adatti per i dati di base sui prodotti, 154 La rintracciabilità dei prodotti agricoli mentre Rfid (Radio Frequency Identification) è più costoso e impostato per trattare dati variabili. Come abbiamo avuto modo di constatare, l’implementazione di un sistema di rintracciabilità è cosa alquanto complessa. Inoltre, le problematiche finora osservate si ampliano non poco quando si passa all’analisi del prodotto sfuso. Attualmente, a parte la tracciabilità nella filiera dalla carne bovina, che è già attiva, sono in corso studi sulle filiere del vino, dell’ortofrutta, del latte, dei cereali, della carne suina, dell’olio di oliva e del pesce. ALCUNI ESEMPI DI RINTRACCIABILITÀ Carne Bovina Il regolamento Ce 1760/2000 (recepito con il decreto ministeriale sull’etichettatura delle carni bovine pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 novembre 2000) prevede un sistema di identificazione e registrazione dei bovini basato sui seguenti elementi: • marchi auricolari, per l’identificazione dei singoli animali; • passaporti, per gli animali; • una base dati informatizzata; • registri individuali, tenuti presso ciascuna azienda. I marchi auricolari recano un codice che consente di identificare ciascun animale individualmente, nonché l’azienda in cui è nato. Per poter rintracciare gli animali in maniera rapida ed efficace, le informazioni concernenti tutte le aziende situate sul territorio del paese Ue saranno registrate nelle basi dati informatizzate presso l’autorità nazionale competente insieme all’identità dei bovini. I “passaporti” contengono tutti i dati dell’animale dalla nascita alla vendita al dettaglio e garantiscono a produttori e consumatori una conoscenza completa della vita e dello stato di salute degli animali allevati e posti in vendita. Il sistema di tracciabilità si basa su informazioni obbligatorie e facoltative. Le modalità di applicazione dell’etichettatura prevedono che le informazioni riportate siano espresse in forma chiara, esplicita e leggibile e che il rilascio delle etichette debba avvenire con un sistema idoneo che garantisca il nesso fra l’identificazione delle carni e l’animale o gli animali interessati. L’etichetta obbligatoria deve contenere le seguenti informazioni: • lo Stato (Paese membro dell’Unione Europea o Paese Terzo) dove è nato l’animale; Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 155 • lo Stato o i diversi Stati in cui è avvenuto l’ingrasso dell’animale; • lo Stato in cui è avvenuta la macellazione; • lo Stato in cui è stato porzionato/sezionato. Accanto al sistema obbligatorio di etichettatura delle carni bovine, il decreto prevede anche un sistema facoltativo. Si tratta di informazioni ulteriori che possono essere apposte sull’etichetta da operatori od organizzazioni che dispongono di un disciplinare di produzione e di lavorazione delle carni bovine approvato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Attraverso tale etichetta si possono comunicare al consumatore importanti requisiti qualitativi delle carni e dell’animale relativamente: • alla macellazione (indicazioni del macello e del laboratorio di sezionamento, età dell’animale macellato, data di macellazione e/o preparazione delle carni, periodo di frollatura delle carni, ecc); all’allevamento (azienda di nascita e/o di allevamento, tecnica di allevamento, metodo di ingrasso, indicazioni relative all’alimentazione); all’animale (razza o tipo genetico, categoria, ecc); alle eventuali altre informazioni contenute nel disciplinare approvato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Ortofrutta Questo settore presenta una notevole problematicità. Essa è legata sia alla difficoltà di omogeneizzazione dei lotti e sia alla gestione dello sfuso. Le imprese che stanno avviando il processo di rintracciabilità in genere scompongono quest’ultimo in due fasi: la fase commerciale e quella interna. La prima viene gestita con l’utilizzo di codici Ean, principalmente in codice Ean 128. La seconda, che riguarda la raccolta delle informazioni dai fornitori e la loro gestione all’interno del centro di lavorazione/confezionamento, differisce notevolmente da impresa ad impresa. Tuttavia, le maggiori differenze si riscontrano negli strumenti utilizzati per la raccolta dei dati dal fornitore e non nel sistema tecnico di gestione dei dati. I sistemi di raccolta dei dati utilizzati sono infatti, sia codici a barre di tipo standard o proprietario, che codici alfanumerici e microchip. Schematizzando, il sistema funziona, in genere, nel seguente modo. Innanzitutto, l’intero processo è gestito da un sistema operativo centrale, generalmente localizzato nel centro di lavorazione/confezionamento. Il sistema di rintracciabilità inizia all’ingresso del prodotto nel centro ove vi è una postazione con un computer, una pesatrice ed una etichettatrice. Quando il prodotto viene portato dal fornitore, 156 La rintracciabilità dei prodotti agricoli l’addetto alla postazione di ingresso pesa il prodotto e digita sul computer informazioni richieste che poi vengono stampate nell’etichetta di ingresso che viene posta sulle relative cassette (nel caso dell’utilizzo di microchip, questa postazione non è presente. La raccolta dei dati avviene, infatti, in campo con un computer palmare che scrive le informazioni sui chip che vengono posti sulle cassette. Quando queste passano la porta di ingresso del centro di lavorazione, i chip vengono letti automaticamente e l’informazione è trasferita al sistema di gestione. Il programma di gestione interna di lavorazione comunica alle macchine movimentatrici, che leggono tramite lettore ottico il codice a barre posto sull’etichetta di ingresso, a quali linee di lavorazione interne il prodotto in entrata deve andare. La possibilità di conoscere a quale linea di lavorazione deve essere portato il prodotto è legata alla connessione tra l’informazione immagazzinata sul prodotto in entrata e le informazioni contenute nell’ordine inviato dal cliente. In breve, il sistema, confrontando i dati in entrata del prodotto con quelli dell’ordinativo ed in base al modello di lavorazione interno, invia alla postazione di ingresso del prodotto l’indicazione, in tempo reale, sulla destinazione interna del prodotto. Se per esperire un ordine basta un solo conferimento questo va direttamente alle linee di lavorazione, conservando l’etichetta di ingresso, per la composizione del lotto. Se un solo conferimento non è sufficiente, allora il prodotto in entrata va alle linee di lavorazione e preparazione del lotto sempre mantenendo l’etichetta di ingresso. La costruzione del lotto segue un criterio di omogeneizzazione, generalmente secondo: categorie di qualità, varietà, tempi di consegna, calibro-pezzatura del prodotto, ecc. In entrambi i casi, il codice a barre presente sulle etichette di ingresso viene letto in fase di composizione del lotto in modo che il sistema di gestione “sappia” che si sta esperendo l’ordine. Composto il lotto, su di esso vengono poste nuove etichette, elaborate dal sistema centrale e stampate vicino alla fine delle linee di lavorazione, che raccolgono le informazioni contenute nell’ordinativo e quelle contenute nell’etichetta di ingresso. In questo modo il lotto è pronto per uscire dal centro. Tutte le informazioni contenute sulla sua etichetta sono conservate nel database del sistema di gestione (in genere per 5 anni). Latte - Olio di oliva -Vino Queste filiere vengono trattate congiuntamente in quanto presentano problematiche simili. Anche esse presentano un notevole grado di dif- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 157 ficoltà, principalmente legato alla miscelazione della materia prima. Il modello di rintracciabilità intrapreso dalle imprese di queste filiere si basa su un codice identificativo (numerico od alfanumerico) che viene posto sulle etichette confezioni/ bottiglie. Tale sistema consente di standardizzare tutta la fase commerciale del prodotto. Tramite il codice identificativo il consumatore che acquista la confezione/bottiglia può conoscere la storia del prodotto nelle seguenti modalità: • connettendosi, tramite rete Internet, al sito web indicato e digitando in appositi campi il codice; • telefonando ad un apposito numero verde (indicato sulla confezione) e dettando il codice all’operatore. Anche gli agenti della fase commerciale della filiera possono acquisire le informazioni sul prodotto tramite accessi diretti al database. È evidente come il cuore funzionale del sistema risulti essere la gestione centralizzata, tramite una softwarehouse, del database. Il sistema di flusso di informazioni generato funziona nel seguente modo. L’azienda che confeziona il prodotto stampa il codice sulla confezione e contestualmente invia, tramite strumento telematico, il codice e le relative informazioni alla softwarehouse (interna all’azienda o esterna ad essa) che raccoglie in tempo reale tutte le informazioni e le immagazzina nel proprio database. Il consumatore e gli altri operatori della filiera che vogliono conoscere la storia del prodotto entrano in contatto solo con il server della softwarehouse (via web page su Internet o numero verde) digitandone o dettandone il codice stampato in chiaro sull’etichetta del prodotto acquistato. Il vantaggio di questo sistema è che non veicolando informazioni su etichetta (tranne il codice), ma utilizzando connessioni via Internet o call center, si possono fornire al consumatore una miriade di informazioni. Connesso al vantaggio è anche il suo limite; purtroppo questo genere di sistemi non fornisce informazioni dirette, immediate ed in chiaro sull’etichetta del consumatore. CONCLUSIONI Abbiamo avuto modo di osservare come la rintracciabilità dei prodotti stia diventando un elemento concorrenziale di primaria importanza tra le imprese del settore agroalimentare. Tuttavia nel tempo, esso tenderà a trasformarsi, come tutte le innovazioni, da un elemento in più per le aziende, ad uno senza il quale non si potrà più stare sul mercato. È evidente come in entrambi i casi essa risulterà di estrema im- 158 La rintracciabilità dei prodotti agricoli portanza. A ciò si aggiunga una considerazione generale: una società che si va sempre più connaturando come una “società dell’informazione” esigerà che gli agenti economici siano sempre più in grado di raccogliere e trasferire informazioni, sia a monte che a valle dei circuiti produttivi. In una economia di mercato, il processo di rintracciabilità si può schematizzare in un gioco in cui operano tre agenti, consumatori, imprese e Pubblica Amministrazione (Pa), che hanno a disposizione due strategie strettamente interconnesse: il numero ed il tipo di informazioni da veicolare, la scelta dello strumento tecnico per implementare il processo. Quest’ultima, tuttavia, soggiace a vincoli legati sia alla capacita tecnica propriamente detta che ai suoi costi i quali, per una data tecnologia, aumentano in modo esponenziale al crescere del numero e della complessità delle informazioni da veicolare. Sappiamo che i consumatori hanno interesse ad avere informazioni riguardo ai prodotti acquistati, le imprese a fare profitti e la Pa desidera facilitare e monitorare il controllo per aumentare la sicurezza alimentare. Quest’ultima azione, principalmente diretta al consumatore, riguarda tuttavia anche le imprese in quanto, consentendo di individuare i responsabili di eventuali reati, riduce la possibilità di comportamenti scorretti che potrebbero danneggiare le aziende “buone” sia dal punto di vista dell’immagine che da quella della distruzione indiscriminata del prodotto. Tralasciando inizialmente il ruolo della Pa, analizziamo il gioco tra consumatori ed imprese all’interno della filiera agroalimentare. I vantaggi economici che possono derivare alle imprese, di qualsiasi stadio della filiera, si genereranno da: 1. una maggiore soddisfazione delle esigenze del consumatore/cliente finale grazie al quale questi saranno disposti, almeno inizialmente, a pagare un prezzo più alto; 2. un accrescimento delle loro potenzialità concorrenziali, sia interne che estere; 3. un generale miglioramento sia della gestione aziendale interna e sia dei rapporti con i fornitori a monte e con i clienti a valle, che consentirà soprattutto economie sul lato dei costi interni di produzione grazie alla maggiore capacità tecnica di gestire sia il flusso informativo che fisico del prodotto all’interno del circuito produttivo (come ad esempio il ciclo ordine-fattura-consegna, la gestione delle scorte e del magazzino, ecc.). Questi vantaggi dovranno tuttavia confrontarsi con i costi di implementazione del processo che, come abbiano visto, sono positivamente correlati al numero (e tipo) di informazioni che si vogliono veicolare Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 159 ed allo strumento tecnico utilizzato. Dato questo quadro di costi e benefici, sarebbe auspicabile che entrambi si distribuissero in modo omogeneo e proporzionale tra tutti gli operatori delle varie filiere agroalimentari così che tutti possano trarne beneficio. Purtroppo, i rischi che questo non avvenga sono ben presenti. Dato il rischio generale di uscita dal mercato per le imprese che non adottino un sistema di rintracciabilità, si può sostenere che tutte siano intenzionate ad implementare un tale sistema. Le imprese cercheranno di massimizzare i loro vantaggi scegliendo quella combinazione tra numero e tipo di informazioni e strumento tecnico che offra la migliore soddisfazione del consumatore al minore costo possibile. Ma chi decide quali siano queste informazioni e lo strumento tecnico? Al netto delle informazioni che la normativa già impone che debbano essere fornite al consumatore, possiamo supporre, in generale, che saranno gli agenti più “dotati” di ciascuna filiera, o quantomeno quelli che si interfacciano direttamente con il consumatore (distributori e confezionatori) a determinare le informazioni da fornire e lo strumento tecnico da utilizzare. Si può ipotizzare che queste imprese sceglieranno quelle informazioni che: 1. soddisfano al meglio il loro target di consumatore; 2. allarghino il concetto di rintracciabilità con altri elementi a loro congeniali, tipo informazioni di marketing; 3. consentano di sfruttare al meglio le caratteristiche che già esse possiedono, specialmente in termini di tecnologia, sistemi di lavorazione, di gestione e di adeguamento del personale. Il rischio per le altre imprese è quello di doversi adattare, pena l’esclusione del mercato, a sistemi di rintracciabilità, date le richieste del consumatore, non costruiti sulle necessità/esigenze complessive dell’insieme degli operatori di ciascuna filiera agroalimentare, ma soltanto di quelle di alcuni di essi. In questo modo, il loro rischio è quello di incorrere in costi di implementazione del sistema proporzionalmente più alti che riducano, o comunque spiazzino, notevolmente i vantaggi su menzionati. A questo si aggiungano i rischi legati alla “ragnatelizzazione” di cui si è già discusso. Introduciamo a questo punto anche il terzo giocatore, ossia la Pubblica Amministrazione. Abbiamo visto come l’interesse principale della Pa riguardo la rintracciabilità sia quella di assicurare, facilitare e monitorare il controllo per aumentare la sicurezza alimentare con benefici sia per il consumatore che per le imprese. Il perseguimento di tale obiettivo prevede la definizione di cosa si intenda per rintracciabilità e dei requisiti richiesti agli agenti economici in termini di quali 160 La rintracciabilità dei prodotti agricoli informazioni raccogliere, immagazzinare e trasferire 8. La definizione pubblica dei requisiti di rintracciabilità, che in una economia di libero mercato non possono che essere di tipo generale per non “ingessare” le diversità operative delle imprese, è molto importante sia per gli scopi diretti della Pa, sia per evitare alcuni dei rischi che abbiamo visto sopra. Riguardo al primo punto, è ovvio che la Pa definisca il modo in cui ottenere il risultato da lei richiesto. Il secondo punto è, invece, un risultato indiretto. Infatti, un tale modus operandi permetterebbe di costruire uno schema base di sistema in cui verrebbe definito sia il concetto stesso di rintracciabilità che i ruoli ed i compiti minimi richiesti a tutte le imprese, di qualsiasi stadio della filiera interessata. In questo modo si ridurrebbero i rischi di eccessiva “personalizzazione” dei sistemi implementati e quindi anche quelli di “ragnatelizzazione”. Inoltre, la definizione della rintracciabilità, consentendo anche ai consumatori finali di individuarla e distinguerla da altri elementi (come il marketing), permetterebbe alle imprese, specie quelle meno dotate, di fare la rintracciabilità ai costi più bassi possibili senza essere eventualmente costrette ad aggiungere altri elementi 9. Dal panorama dei sistemi di rintracciabilità già implementati sia in Italia che in altri paesi, oltre a quanto già detto, è possibile osservare come la gran parte di essi siano principalmente di natura singola, ossia legati ad interventi di alcune aziende, e non di tipo generale (con un intervento della Pa ancora limitato). Essi coinvolgono quasi tutti i diversi settori agroalimentari, ma sono presenti in modo più accentuato in quelle filiere ove la componente di carattere industriale è maggiore. Tra gli sviluppi di maggior interesse si possono menzionare i sistemi di rintracciabilità implementati dalle catene distributive Ica e Sainsbury, rispettivamente in Svezia ed Inghilterra, quello della birreria olandese Heineken, oppure i sistemi delle due delle maggiori cooperative spagnole di ortofrutta, ossia Martinavarro ed Anecoop. Non è questa la sede per entrare nel merito di tali importanti iniziative, ma è utile accennare che le tecnologie utilizzate rientrano, in gran parte, tra quelle analizzate in questo lavoro. Per quanto concerne i costi, infine, (8) Si veda quanto già precedentemente affermato in merito ai contenuti del Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare, del Regolamento Ce n. 178/2002 e della regolamentazione italiana sulla rintracciabilità delle carni bovine. (9) La Pa, oltre alla funzione di indirizzo e regolazione, potrebbe anche implementare strumenti di sostegno finanziario alle imprese per l’adozione di strumenti di rintracciabilità (specie per raggiungere i requisiti minimi richiesti). La discussione in merito a tale intervento implicherebbe, oltre ad analisi di tipo economico, anche considerazioni di carattere politico che esulano da questo lavoro e che quindi tralasciamo. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 161 la maggior parte delle imprese coinvolte in questi sistemi ha dichiarato che i costi maggiori riguardano principalmente l’adeguamento del personale all’utilizzo di tali tecnologie (confermando indirettamente come l’attuazione di sistemi di rintracciabilità richieda notevoli modifiche dell’insieme dell’organizzazione produttiva). Sommario La rintracciabilità dei prodotti sta diventando un argomento di primaria importanza all’interno delle varie filiere agroalimentari. Il suo scopo è quello di conoscere il percorso seguito dal prodotto e chi sono stati gli attori che hanno contribuito alla sua formazione. Sostanzialmente, la rintracciabilità è aspetto tecnico di processo. Spesso si è portati ad assegnarle ruoli e valenze che in realtà essa riveste solo in parte. Infatti, malgrado le sicure connessioni, non bisogna confondere la rintracciabilità con la sicurezza alimentare, che è cosa ben più ampia, così come con elementi di marketing. L’implementazione di processi di rintracciabilità sono oggi tecnicamente ed economicamente praticabili grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Punto di partenza di tali processi sono l’identificazione delle informazioni da trasferire tra gli operatori, fino al consumatore finale, e degli strumenti tecnici da utilizzare, dato che le informazioni viaggiano su codifica elettronica. Gli strumenti tecnici oggi maggiormente utilizzabili sono i codici a barre, quelli alfanumerici ed i microchips. I rischi derivanti da tali scelte sono principalmente legati ai costi di implementazione, che aumentano al crescere del numero e della complessità delle informazioni da veicolare, ed agli strumenti tecnici scelti, che debbono essere in grado di interfacciarsi tra di loro evitando così il problema della ragnatelizzazione. La Pubblica Amministrazione, il cui interesse è quello aumentare la sicurezza alimentare, può avere un ruolo importante nella riduzione di tali rischi grazie alla definizione dei requisiti minimi di rintracciabilità richiesti agli agenti economici. Riferimenti bibliografici Bolchini M., “Presentazione Indicod”, in La catena ortofrutticola: le Moc ed i nuovi strumenti di integrazione, Atti del convegno Ismea, Roma, 7 febbraio 2001. Cies, The Intelligent Supply Chain, Atti convegno, Amsterdam, ottobre 2001. Commissione europea, Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare, Com (1999) 719 final, Bruxelles, Belgio, gennaio 2000. 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Ha una lunga storia che risale a quattromila anni fa con lo sviluppo della fermentazione, la panificazione, la fabbricazione della birra e la produzione di formaggio ad opera degli Egizi e dei Sumeri, e più tardi con le tecniche di innesto ad opera dei Greci. La moderna biotecnologia (nota anche come modificazione o ingegneria genetica) è invece il nome dato al trasferimento di Dna (solitamente cromosomico) da un organismo ad un altro, che permette al ricevente di esprimere tratti o caratteristiche proprie del donatore (Conway 2000; Royal Society et al. 2000). Poiché questi trasferimenti o incroci non avvengono in natura, le possibilità della modificazione genetica sono più ampie rispetto ai tradizionali metodi riproduttivi, sebbene la riproduzione avanzata già comporti alcuni tipi di manipolazione genetica, inclusa la clonazione, il trasferimento di embrioni, la conservazione di embrioni e la selezione mutante. Tradotto da: J. Pretty, “The Rapid Emergence of Genetic Modification in World Agriculture: Contested Risks and Benefits”, Environmental Conservation, vol. 28, 2001. Questo articolo è il risultato di una ricerca commissionata da The Countryside Agency del Regno Unito. Ringrazio il personale di questa agenzia per l’aiuto e i consigli che mi sono stati dati, in particolare Richard Lloyd e David Gear. I miei ringraziamenti vanno anche a Michael Antoniou, Richard Aylard, Andrew Ball, Alan Blaine, Ed Cross, Roger Elmore, Alan Gray, Liz Hoskens, Julie Lloyd, Aulay Mackenzie, Patrick Mulvany, Brian Johnson, Phil Mullineaux, Christine Raines, Ed Stanisz, Norman Uphoff, Hal Willson e William Witt; ringrazio inoltre due lettori anonimi e il curatore della rivista Environmental Conservation per i consigli, i suggerimenti e i commenti alla prima stesura di questo lavoro. L’autore è un membro dell’Advisory Committee on Releases to the Enviroment-Acre, tuttavia le opinioni espresse in questo articolo non rappresentano necessariamente quelle del governo e delle sue agenzie, né quelle dei membri dell’Acre o di coloro che hanno cortesemente offerto pareri e consigli. Jules Pretty è direttore del Centre for Environment and Society e professore di Scienze Biologiche all’Università di Essex a Colcester, Regno Unito. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 165 L’espansione nello sviluppo e nella coltivazione commerciale di qualche tipo di coltura geneticamente modificata (Gm) è stata straordinariamente rapida negli ultimi anni. Tuttavia, sono molti ad esprimere preoccupazione riguardo i potenziali rischi, diretti e indiretti, che coinvolgono l’ambiente e la salute. Poiché un gran numero di nuove tecnologie Gm si stanno sviluppando, e la maggior parte dei paesi devono ancora dare l’assenso alla loro diffusione, vi è un bisogno crescente di sviluppare politiche rigorose basate su un’accurata comprensione dei dati scientifici riguardanti i loro effetti positivi e negativi. Gli obiettivi di questo lavoro sono: 1.esaminare il progresso recente e le future applicazioni basandosi su una nuova tipologia di tre generazioni di organismi geneticamente modificati (Ogm) messi a confronto con cinque tipi di applicazioni scientifiche; 2.analizzare i recenti campi di ricerca indipendente e i dati scientifici attuali su sette tipi di rischi ambientali e sanitari: (i) flusso genetico orizzontale, (ii) nuove forme di resistenza e rischio infestanti, (iii) ricombinazione che produce nuovi patogeni, (iv) effetti diretti e indiretti delle nuove tossine, (v) perdita di biodiversità dovuta ai cambiamenti nelle pratiche di coltivazione, (vi) reazioni allergiche e immunitarie, (vii) segnalazione genetica di resistenza agli antibiotici; e 3.fronteggiare le preoccupazioni e le posizioni contrastanti dei diversi portatori di interesse nell’ambito dei sistemi agricoli ed alimentari, in relazione sia alla struttura e all’economia politica dell’agricoltura mondiale sia all’affermarsi di nuove tecnologie. LA RAPIDA CRESCITA NEI PRIMI ANNI Esistono cinque tipi principali di applicazione all’agricoltura della modificazione genetica: 1.le tecniche genetiche di disattivazione per ridurre o sospendere l’attività di specifici geni indesiderati; 2.l’introduzione di nuovi geni o il miglioramento dell’azione genica esistente per modificare il sapore o il colore, o per modificare il contenuto di amido o di olio, per aumentare il contenuto nutrizionale dei prodotti (nutraceuticals) o il contenuto farmaceutico dei prodotti di origine vegetale o animale; 3.l’introduzione di geni per aumentare la resistenza agli erbicidi, agli infestanti e ai patogeni, per aumentare la resistenza agli stress ambientali, per modificare l’ambiente esterno; 166 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici 4.l’introduzione di geni per aumentare la produzione di ibridi o per modificare la produzione delle sementi inducendo l’apomissi (fissando così il vigore di ibridazione); 5.mettere a punto meccanismi di scambio attraverso promotori per generare o eliminare certe caratteristiche. La crescita commerciale più importante ha riguardato un solo tipo di applicazione, cioè colture contenenti una delle due seguenti caratteristiche (ed entrambe, con sempre maggiore frequenza): 1.tolleranza agli erbicidi (Ht, nota anche come resistenza agli erbicidi, soprattutto al glifosato e all’ammonio glufosinato) introdotta nella soia, nella colza da seme per l’estrazione dell’olio (canola), nel cotone, nel granoturco e nella barbabietola da zucchero, che permette l’applicazione di erbicidi ad ampio spettro prima del raccolto, eliminando le erbe infestanti senza causare danni al raccolto (circa 28 milioni di ettari nel 1999 ed altri 2,9 milioni di ettari con colture contenenti l’addizionale caratteristica del Bacillus thuringiensis [Bt]); 2.resistenza agli insetti attraverso Bt (esistono molte varietà di Bt ed almeno 60 differenti proteine di cristalli: i lepidotteri sono colpiti da Bt kurstaki, zanzare e mosche dal Bt israelensis, e i coleotteri dal Bt tenebrionis), prevalentemente su granoturco e cotone; ciò significa che la tossina insetticida del Bt è espressa da tutte le cellule della pianta, eliminando così gli infestanti erbivori sensibili e riducendo la necessità di ricorrere agli insetticidi convenzionali (circa 8,9 milioni di ettari coltivati nel 1999, ed altri 2,9 milioni di ettari preparati con caratteristiche Ht). Si è verificata negli ultimi anni una rapida espansione di colture derivate da modificazione genetica (fig. 1). La prima coltura modificata geneticamente ad essere commercializzata fu la soia nel 1995. Nel 1996 erano stati seminati 1,7 milioni di ettari di soia geneticamente modificata (senza considerare la Cina), per aumentare rapidamente a 40 milioni di ettari nel 1999, e raggiungere lentamente i 44,5 milioni di ettari nel 2000 (Epa 1999; James e Krattiger 1999; Chen 2000; Kydd et al. 2000; James 2001). Nel 2000 la maggior parte degli Ogm venivano coltivati negli Stati Uniti (68%), in Argentina (23%), in Canada (7%), mentre in Australia, Messico, Spagna e Sud Africa venivano coltivati tra i 25.000 e i 100.000 ettari ciascuno; e circa 1000 ettari in Bulgaria, Francia, Romania, Uruguay ed Ucrania (il Portogallo ne ha coltivata una piccola quantità nel 1999, ma ha revocato il consenso per il 2000). Nel Regno Unito la diffusione sperimentale di piante Gm ha avuto un’estensione pari a 300 ettari. In Cina ci sono tra i 400.000 e i 500.000 ettari di piante di tabacco e cotone Gm (Chen 2000; James 2001). Del totale di Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 167 FIGURA 1 Colture Gm coltivate a scopo commerciale in tutti i Paesi (1995 - 2000) Area (milioni di ettari) 50 40 30 20 10 0 1995 1996 1997 1998 1999 2000 ANNO Fonte: Epa 1999; Chen 2000; Kydd et al. 2000; James 2001. FIGURA 2 Area investita nelle diverse colture Gm a scopo commerciale (1998 - 2000) Area (milioni di ettari) 50 40 altri 30 colza 20 cotone 10 mais 0 soia 1998 1999 ANNO Fonte: Epa 1999; Chen 2000; Kydd et al. 2000; James 2001. 168 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici 2000 44,5 milioni di ettari coltivati nel mondo nel 2000, il 58% è stato di soia, il 23% di granoturco, il 12% di cotone e il 6% di colza da seme per l’estrazione dell’olio (fig. 2). Altre colture Gm comprendono le patate, la zucca e la papaia. TIPOLOGIA PER DIVERSE GENERAZIONI DI OGM A pochi anni di distanza dallo sviluppo delle prime colture geneticamente modificate, vi sono aspre divergenze di opinione riguardo i benefici ed i rischi. Alcuni affermano che gli Ogm sono sicuri ed essenziali per il progresso mondiale; altri sostengono che non sono necessari e che comportano troppi rischi. I primi credono che l’influenza dei media e l’allarmismo stiano limitando tecnologie utili; i secondi che gli scienziati, le compagnie private e i legislatori stiano minimizzando i rischi per puro calcolo economico (cfr. House of the Lords Select Committee on the European Communities 1998; Royal Society 1998; British Medical Association 1999; Nuffield Council on Bioethics 1999; Royal Society et al. 2000). Nessuna di queste due opinioni è del tutto corretta, per una semplice ragione: gli Ogm non sono una singola, omogenea tecnologia. Ogni applicazione e prodotto porta benefici diversi per i differenti portatori di interesse, ognuna pone diversi rischi ambientali e sanitari. È importante pertanto distinguere tra i cinque maggiori tipi di applicazione di Gm (tabella 1) e tre diverse generazioni di tecnologie di Gm. 1.Le tecnologie della prima generazione entrarono in commercio alla fine degli anni’90, e sembra abbiano apportato pochi specifici benefici al consumatore. Il concretizzarsi dei vantaggi promessi ai coltivatori e all’ambiente è stato solo limitato, poiché queste tecnologie tendono a portare benefici soprattutto alle compagnie che le producono; la soia resistente agli erbicidi, per esempio, costringe i coltivatori ad acquistare l’erbicida prodotto dalla compagnia che commercializza il seme Gm. Il granoturco e il cotone Bt permettono di ridurre l’uso di insetticidi, facendo risparmiare i coltivatori, ma le compagnie riequilibrano il margine attraverso l’aumento del costo delle sementi. 2.Le tecnologie della seconda generazione comprendono quelle già sviluppate e testate, ma non diffuse commercialmente a causa di incertezze riguardo la stabilità della tecnologia stessa o per timore di potenziali rischi ambientali. Alcune di queste applicazioni porteranno sicuramente maggiori benefici collettivi, ed includeranno una serie di applicazioni mediche. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 169 TABELLA 1 Applicazioni Gm ed esempi relativi a tre generazioni di prodotti PRIMA GENERAZIONE (IN COMMERCIO NEGLI ULTIMI ANNI ’90 ) Tecniche di disattivazione genetica per ridurre o eliminare l’attività di specifici geni indesiderati Pomodori di lunga durata Introduzione di nuovi geni o il perfezionamento di azioni geniche esistenti per migliorare e correggere il colore e il sapore o modificare il contenuto di amido e olio Fiori precolorati (ad esempio garofani neri color malva in Australia) Colza ad alto contenuto di acido laurico (USA: non più coltivato) Introduzione di nuovi geni per aumentare il contenuto nutrizionale della coltura (nutraceuticals) o il contenuto farmaceutico della dela coltura o dell’animale Nessun prodotto con aumentata capacità nutrizionale Riso alfa-antitripsina (soltanto negli Usa) Introduzione di nuovi geni per migliorare la resistenza agli erbicidi agli infestanti e ai patogeni Soia e colza (canola) resistenti agli erbicidi (HT) Cotone e mais Bt + cotone HT (‘cotone 2 geni’) Patate resistenti al Colorado Beetle (Usa) Cicoria Ht (Paesi Bassi) Papaia resistente ai virus (Hawai) Introduzione di nuovi geni per migliorare la resistenza agli stress ambientali Nessuno Introduzione di nuovi geni per modificare l’ambiente Batteri in sistemi contenimento per la produzione di enzimi per la produzione di formaggio e detersivi Nessuno Introduzione di nuovi geni per migliorare la produzione di ibridi o modificare la produzione di semi inducendo apomissi (fissando così il vigore di ibridazione e consentire agli agricoltori di risparmiare semi) Rettifica dei meccanismi di scambio attraverso promotori per annullare e determinare caratteristiche Fonte: Pretty 1999, 2000a. 170 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici Nessuno SECONDA GENERAZIONE (SVILUPPATA NEGLI ULTIMI ANNI ’90, MA NON ANCORA AUTORIZZATA COMMERCIALMENTE) TERZA GENERAZIONE (RICERCA IN CORSO, ANCORA LONTANA DAI MERCATI) Frutta e verdura meno soggette a deterioramento e dotate e di migliori caratteristiche per il trasporto Tecnologia genetica ‘Terminator’ (semi suicida) Eliminazione dei geni per le sostanze tossiche o allergeniche Patate senza processo di germogliazione. Riduzione della frantumazione del baccello nella colza Trifoglio bianco e erba medica con maggiore contenuto di tannino per ridurre la fermentazione nello stomaco del bestiame Colture per olio industriale /plastica Modificazione del mais per aumentare la produzione di cera (99% di amilopectina: per la produzione di amido) o per amilosio (> 50% per la macinatura umida e uso industriale) Modificazioni per aumentare l’efficacia dei nutrienti, acqua e luce (cambiamenti ormonali per influenzare il riempimento del cece, o per ritardare l’invecchiamento delle foglie) Cotone e alberi da fibra di qualità migliore Legumi ed avena con maggior contenuto proteico ed energetico Colture vaccino (banane e patate) contenenti materiale genetico derivante da patogeno che svolge la funzione di vaccino attraverso l’alimentazione (es. vaccino contro l’epatite B contenuto nelle patate) Erbe da foraggio con livelli inferiori di lignina e/o con mutazioni enzimatiche che le rendano più nutrienti per il bestiame sia fresche che in silos Uso di tossine altamente specializzate derivate dagli scorpioni, dalle vespe, dal ragno imbuto e dalla lumaca conica Alberi resistenti ai pesticidi e alle malattie Patate e ortaggi resistenti ai patogeni da funghi e ai pesticidi Girasoli immuni alle malattie Tolleranza al gelo nella barbabietola e nella patata Isolamento di complessi dotati di tolleranza alla siccità, al calore, al sale e al metallo Riso in grado di tollerare la sommersione Alberi con contenuto modificato di lignina Cotone precolorato (blu) Colza dotata di resistenza a malattie e modificazioni nell’olio prodotto Mais modificato per aumentare il contenuto di lisina, e la produzione di olio (per alimentazione animale) Riso arricchito con vitamina A (Golden rice) Riso arricchito di ferro Legumi da foraggio con maggiore contenuto di zolfo Ovini e suini modificati per produrre proteine nel loro latte, come l’insulina, l’interferone e la proteina che consente la coagulazione del sangue umano fattore 8 Barbabietola da zucchero Ht Trifoglio Bt (Nuova Zelanda) Riso, peperone , pomodori, manioca, patate dolci resistenti ai virus Cereali resistenti agli infestanti durante lo stoccaggio Cereali, banane e patate resistenti al nematode Fragole resistenti al gelo Tolleranza alla tossicità Al per mezzo della secrezione di acido citrico dalle radici Mostarda con tolleranza al sale Zolle Erbose HT resistenti ai funghi e con tolleranza agli stress (sale e calore) Batteri modificati per la bio-correzione dei suoli Mais apomittico Tecnologia a regolazione genica (Gurt) o ‘Terminator’ Accresciuta efficacia nell’utilizzo di azoto nelle patate, nel grano e nelle erbe Erbe per la correzione del suolo Uso più esteso dell’apomissi nelle colture e nelle erbe da foraggio Meccanismi di scambio per attivare il Dna quando prevalgono particolari malattie o condizioni climatiche Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 171 3.Le tecnologie della terza generazione sono quelle ancora lontane dal mercato, ma generalmente richiedono una migliore comprensione di interi complessi di geni che controllano tratti come la tolleranza all’aridità o al sale, e la fissazione dell’azoto. Queste porteranno, probabilmente, benefici più evidenti per i consumatori rispetto a quelli della prima generazione. Un esempio di tecnologia di seconda generazione è la cosiddetta tecnologia “Terminator” (così definita dai suoi oppositori), nota anche come Technology Protection System (sistema di protezione tecnologico) o Genetic Use Restriction Technology (tecnologia a uso limitato di geni). Questa comporta l’inserimento di meccanismi di sostituzione genetica per impedire che sementi conservate dopo il raccolto possano germinare. Ciò potrebbe avere conseguenze positive o negative. Preverrebbe la diffusione naturale a piante affini di geni provenienti da organismi geneticamente modificati, tuttavia potrebbe anche impedire agli agricoltori di riusare le sementi. Poiché la maggior parte degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo conserva le sementi, come avviene per un numero sorprendentemente elevato nei paesi industrializzati (il 20-30% dei coltivatori di soia negli Stati Uniti riusa le sementi, e molti produttori di grano si recano a comprare semi una volta ogni 4-5 anni), questa tecnologia di fatto trasferisce il potere dagli agricoltori alle compagnie (Rafi 1998). Non sorprende che ciò abbia sollevato molte critiche. Molti Ogm della terza generazione sono, al contrario, più orientati verso benefici collettivi, sebbene anch’essi non siano esenti da rischi. Se si sviluppano colture dotate di tolleranza al calore, alla siccità, al sale o al metallo, queste potrebbero fare la differenza sostanziale per gli agricoltori di fronte a problemi relativi al suolo o al clima. Le modificazioni fisiologiche del riso e del grano potrebbero comportare una crescita più veloce delle odierne fonti alimentari, mantenendo invariate le risorse di luce ed acqua, permettendo agli agricoltori di avere benefici senza restare intrappolati in nuove dipendenze dalle corporazioni. Le modificazioni delle colture a basso valore nelle rotazioni, come i legumi e l’avena, potrebbero renderle più interessanti per gli agricoltori in ragione dell’alto contenuto energetico e proteico. Altre modificazioni potrebbero essere più efficaci nell’uso dell’azoto, riducendo così la lisciviazione di nitrato o le perdite di ossido di azoto. Un considerevole passo in avanti nella coltivazione delle piante si è verificato con il trasferimento di caratteristiche apomittiche nei cereali (la produzione di cloni identici alla pianta madre attraverso la riproduzione asessuata). In Messico, presso il Cimmyt, International Centre for Maize and Wheat Research (Centro internazionale per la ricerca 172 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici sul mais e il grano), la ricerca in corso sta cercando di trasferire l’apomissi (che coinvolge molti geni) da una pianta erbacea affine al mais, il Tripsacum dactyloides, al mais stesso. Ciò consentirebbe agli agricoltori di conservare le sementi per le stagioni successive, permettendo a quelli più poveri e isolati di aumentare notevolmente la produzione, purché si trovi il modo per fargli arrivare i nuovi semi quando questi si renderanno necessari. Tuttavia, c’è già il timore che molte delle metodologie e dei prodotti coinvolti nel processo apomittico di trasferimento di Gm, essendo brevettati da privati, non saranno utilizzabili dagli agricoltori più poveri. Nel 1998 veniva formulata la Dichiarazione di Apomissi di Bellagio (Bellagio Apomixis Declaration), in cui gli scienziati firmatari condividevano il timore che «l’attuale tendenza alla concentrazione delle biotecnologie vegetali nelle mani di pochi possa gravemente limitare la diffusione delle tecnologie apomittiche, di basso costo, specialmente come risorsa per gli agricoltori più poveri». I RISCHI AMBIENTALI E SANITARI DELLE COLTURE GENETICAMENTE MODIFICATE Gli Ogm in agricoltura presentano una serie di potenziali rischi ambientali e sanitari (Rissler e Melon 1996; Altieri 1998; Pretty 1998; House of Lords Select Committee on the European Communities 1998; Royal Society 1998; British Medical Association 1999; Nuffield Council on Bioethics 1999; Acre 2000a e 2000b). Tra questi vi sono cinque tipi di possibili rischi per l’ambiente e due per la salute umana. La misura in cui ciascuno costituisce un rischio reale è il risultato della combinazione di pericolo ed esposizione, dal momento che non tutti i pericoli costituiscono un rischio nella pratica. Di seguito, vengono analizzati i diversi tipi di rischio, alla luce della conoscenza scientifica recente e non schierata, in particolar modo avvalendosi delle analisi sul campo. POTENZIALI RISCHI AMBIENTALI Il flusso di geni Il primo potenziale rischio ambientale è il flusso di geni, per il quale i geni modificati potrebbero trasferirsi da un Ogm a piante spontanee affini e/o ai batteri nel terreno e nell’intestino umano. Il flusso di geni Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 173 è un fenomeno naturale (Ellstrand et al. 1999), dato da molte specie di piante che si incrociano con specie vicine, e così il problema dei nuovi rischi è tutto nell’interrogativo se i transgeni potrebbero condurre al trasferimento di caratteristiche indesiderate e all’emergere di popolazioni permanentemente trasformate. Poiché questi trasferimenti non si sono verificati in natura, è impossibile prevederne gli effetti con sicurezza (Raybould e Gray 1993; Chevré et al. 1997; Detr 1999). L’impollinazione non è come il flusso di geni; sebbene il polline possa viaggiare per molti chilometri, solo raramente si risolve in un evento di impollinazione (McPartlan e Dale 1994; Gray e Raybould 1998; Bcpc 1999; Young et al. 1999; Acre 2000b). Inoltre, molte linee di modificazioni genetiche sono a maschio sterile, pertanto, sebbene possa verificarsi un trasferimento di polline, l’impollinazione non avviene. Un’ulteriore preoccupazione è data dal potenziale di assorbimento del Dna transgenico da parte dei batteri del suolo, definito flusso orizzontale di geni (Gebhard e Smalla 1998 e 1999; Acre 2000b). Nel Regno Unito, la colza da seme per l’estrazione dell’olio è un possibile candidato per il flusso di geni, dal momento che è geneticamente vicina a molte piante infestanti. Le perplessità riguardano la possibilità di trasferimento di tolleranza agli erbicidi (Ht) dalla colza modificata geneticamente alle piante infestanti, con la conseguente apparizione di “piante super-infestanti” resistenti agli erbicidi. Comunque, molti anni di ricerca dedicata agli incroci, sia spontanei sia manipolati, indicano che la colza presenta bassa probabilità di flusso di geni verso le piante non geneticamente modificate che gli sono prossime (Mikkelsen et al. 1996; Detr 1999; Young et al. 1999). Tuttavia, l’idoneità delle piante individuali e i tassi di diffusione di geni dipenderanno dalle pressioni di selezione esercitate sul gene Ht di interesse, un gene che difficilmente conferirà un vantaggio selettivo nella pianta naturale. Invece, la barbabietola da zucchero, la carota, il loglio e il trifoglio bianco, presentano tutti un’alta probabilità di flusso di geni, dal momento che i loro affini spontanei sono effettivamente della stessa specie delle colture modificate. Esiste una bassa probabilità di flusso di geni per le patate, il mais e i pomodori, dal momento che questi non possiedono parenti naturali compatibili nel Regno Unito (Reybould e Gray 1993; Detr 1999; Young et al. 1999). I rischi varieranno quindi da paese a paese; così, ad esempio, in Messico, la terra di origine del granoturco, il mais geneticamente modificato costituisce più di un rischio potenziale. La questione principale non riguarda tanto la possibilità che si verifichi un flusso di geni, ma piuttosto in quale misura i transgeni possa- 174 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici no influenzare il sistema ecologico originario. Come affermato da Johnson (2000): «aggiungere a caso e senza criteri geni da altre piante a patrimoni genetici originari può comportare effetti fenotipici in grado di cambiare il modo in cui interi genomi si rapportano ai loro ambienti fisici e biotici». Così il trasferimento di transgeni, progettati per prevenire la germinazione, ridurrebbe l’idoneità di nuovi ibridi, mentre la resistenza agli insetti, ai funghi e ai virus potrebbe notevolmente aumentarne l’idoneità. Ciò potrebbe far emergere erbe infestanti dotate di diversi livelli di geni per la tolleranza agli erbicidi. L’emergere di nuove forme di resistenza e problemi di infestazione secondaria Il secondo rischio ambientale riguarda la potenziale comparsa di nuove forme di resistenza e/o di infestanti di seconda generazione. Nella moderna agricoltura, prima ancora della comparsa degli Ogm, la resistenza si è già manifestata su larga scala (Georghiou 1986): oggi esistono 500 specie di insetti, acari e zecche resistenti ad uno o più composti, più di 400 biotipi di piante infestanti resistenti agli erbicidi e 150 tra funghi e batteri dotati di resistenza (Vorley e Keeney 1998; Heap 2000). L’evoluzione della resistenza può verificarsi nell’ambito di: 1) colture modificate geneticamente contenenti insetticida in grado di sviluppare resistenza negli insetti, o 2) colture modificate geneticamente che portano ad un uso eccessivo di erbicidi, che a loro volta producono resistenza nelle piante infestanti. In un primo momento, il problema potenziale della resistenza degli insetti, in particolar modo nel cotone e nel mais Bt, passò inosservato. Oggi, ci sono regole obbligatorie in base alle quali colture geneticamente modificate vengono coltivate su larga scala per ridurre la pressione di selezione sugli infestanti. L’Epa (1999) e l’Usda hanno prodotto indicazioni obbligatorie riguardo la gestione della resistenza integrata (Irm) per le colture Bt (mais, cotone, patate) che includono tre strategie: 1. una parte dell’area coltivata deve essere destinata alla produzione di “colture rifugio” non modificate geneticamente; 2. l’uso di rotazioni, specialmente tra soia e mais; 3. l’uso ridotto di mais Bt laddove non è necessario (dove cioè la minaccia della piralide del mais è minima). Le direttive impongono che il 20% della terra coltivata debba essere destinata a “rifugi” entro gli 0,8 km (preferibilmente 0,4 km) da campi coltivati a mais, cotone, o patate Bt. Le dimensioni dei “rifugi” dipendono da quelle dell’appezzamento con colture geneticamente modificate. Per il mais Bt, prodotto in un’area in cui prevale il cotone, è pre- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 175 visto un “rifugio” pari al 50% di mais non Bt, entro circa 0,4 km (in modo da ridurre al minimo la resistenza del lepidottero Heliothis zea che attacca mais e cotone). Lo scopo è di fornire un numero sufficiente di insetti adulti sensibili da far accoppiare ad insetti adulti dotati di potenziale resistenza Bt, allo scopo di ridurre la frequenza di geni dotati di resistenza. Tuttavia, la dimensione, la struttura e lo sviluppo dei “rifugi a coltura non Bt”, il modo in cui dovrebbero essere incrementati su scala regionale e la difficoltà nell’obbligare o incoraggiare gli agricoltori ad adottarli, sono ancora oggetto di controversia. A loro volta, le colture modificate geneticamente possono diventare infestanti nel corso delle rotazioni, come nel caso del cotone Ht e Bt che germina nella successiva coltura di soia, o la colza Ht spontanea germinante nei cereali che seguono. Se le colture seguenti venissero trattate con lo stesso erbicida, questo risulterebbe inefficace. Tuttavia, questi infestanti spontanei possono essere eliminati per mezzo di prodotti alternativi, controllati attraverso la coltivazione o la scelta di particolari colture di soppressione. Nuovi problemi di infestazione secondaria possono insorgere, come nel caso del cotone (Bachelor 2000). Nel 1999, i ricercatori hanno confrontato 360 campi paralleli di cotone modificato geneticamente e non, nel South Carolina. Le produzioni geneticamente modificate presentavano nel complesso il 41% di danno in meno causato da insetti (1,6% di capsule globose rispetto al 3,9%), ma i danni dovuti all’Hemiptera Pentatomidae (c.d. “cimice della frutta”) erano quattro volte superiori. I danni provocati dalla “cimice” erano stati notati anche in Georgia (Hollis 2000), ma nelle coltivazioni geneticamente modificate il numero di insetti benefici era superiore e il danno da capsule globose era inferiore. Ricombinazioni di virus e batteri che producono nuovi patogeni Un terzo rischio si riferisce alla possibilità che virus e batteri assorbano i transgeni nei loro genomi, causando nuove e, probabilmente indesiderate, caratteristiche. Inoltre, i transgeni virali incorporati nelle colture modificate geneticamente potrebbero ricombinarsi per produrre virus ad alta idoneità. Tuttavia, tale combinazione non si è ancora verificata (Royal Society 1998). In teoria, i geni virali potrebbero aggredire persino l’uomo, sopravvivendo al passaggio attraverso l’intestino umano ed entrando così a far parte dei batteri intestinali e delle cellule del corpo umano. Una volta all’interno delle cellule, il Dna potrebbe inserirsi nel genoma e modificare le sue strutture e funzioni di base. Ciò potrebbe condurre alla comparsa di nuove malattie; tuttavia 176 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici richiederebbe l’integrazione di intere sequenze di Dna all’interno del genoma umano, un’eventualità molto remota allo stato delle conoscenze attuali. Effetti diretti e indiretti delle nuove tossine Il quarto rischio riguarda la possibilità di effetti diretti e indiretti delle nuove tossine prodotte dagli Ogm. Il Bt è prodotto da tutte le cellule di una pianta di mais o cotone Bt, e perciò potrebbe avere effetti sia sugli organismi utili che vengono in contatto diretto con la pianta, che sui prodotti della pianta stessa; oppure, indirettamente, attraverso il consumo da parte di terzi di un insetto fitofago che ha isolato la tossina nei suoi tessuti. In condizioni di laboratorio sono emersi molti rischi potenziali, come il polline Bt sulle farfalle monarca (Losey et al. 1999), patate geneticamente modificate che producono una lectina, mais Bt che ha effetti su coccinelle (Coccinellidae) e crisopidi (Birch et al. 1997; Hilback et al. 1998), e prodotti Bt nel suolo (Crecchio e Stotzky 1998; Saxena et al. 1999). Comunque, i risultati di questi studi di laboratorio non indicano necessariamente che ci sia un rischio reale per l’ambiente naturale. Recenti studi sull’effetto del polline del mais modificato geneticamente sulle farfalle monarca (Danaus plexippus; Losey et al. 1999) offrono un buon esempio dei possibili rischi. Le larve delle farfalle erano state coltivate in laboratorio su foglie di cotone egiziano cosparse di polline di mais Bt. Queste larve mangiavano meno, crescevano più lentamente ed avevano un tasso di mortalità più elevato di quelle allevate su foglie cosparse di polline non modificato geneticamente. La potenziale minaccia ad una importante specie nazionale sollevò molte preoccupazioni riguardo gli Ogm in generale, nonostante fosse già nota la tossicità del Bt per i lepidotteri. Comunque la dose necessaria per provocare un effetto sull’ambiente naturale, la quantità di polline sulle foglie di cotone egiziano, la probabilità che le farfalle si espongano al polline, la fotodegradazione del Bt e gli effetti della pioggia rimangono sconosciuti. Per le farfalle monarca il tempismo è vitale. Perché avvenga il danno, le larve devono essere prodotte nel momento stesso in cui avviene l’impollinazione del mais, un periodo di soli 7-10 giorni. Tuttavia la migrazione della farfalla monarca e la presenza del polline Bt non coincidono, il polline non si allontana molto (il 90% cade entro i primi 5 metri), le larve sulle foglie del cotone egiziano non sono influenzate negativamente dal polline Bt e la maggior parte delle foglie di cotone egiziano tende a non trovarsi vicina ai campi di mais (Monarch But- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 177 terflies Research Symposium 1999; Jesse e Obrycki 2000). Ciò non significa sostenere che i rischi potenziali delle colture Bt siano trascurabili, ma soltanto che una dettagliata comprensione dell’ambiente coltivato è necessaria prima che possa essere formulato un giudizio in merito al rischio. Cambiamenti nelle pratiche agricole che alterano la biodiversità Con l’affermarsi delle tecniche Ogm in agricoltura, gli agricoltori possono contribuire direttamente o indirettamente alle perdite di biodiversità. La preoccupazione principale riguarda l’adozione di colture Ht che comportano un uso crescente di erbicidi ad ampio spettro. Tali prodotti offrono la possibilità di una totale eliminazione delle piante infestanti, cosa positiva per quanto riguarda le colture, ma particolarmente nociva per le altre piante, i mammiferi e gli uccelli (Acre 1998; Royal Society 1998; Johnson 2000). La tendenza a creare campi totalmente liberi da piante infestanti, e pertanto da insetti erbivori e semi (che a loro volta costituiscono cibo per gli uccelli e per i mammiferi) è stata il fattore determinante del declino degli uccelli tipici dell’ambiente agricolo (Campbell et al. 1997; Pretty 1998; Siriwardena et al. 1998; Mason 1998). Ancora una volta molto dipende dalla tecnica colturale e dagli obiettivi degli agricoltori. Alcuni Ogm potrebbero portare ad una maggiore biodiversità: secondo la ricerca svolta presso lo Iacr Brooms Barn, i costi dei fattori di produzione sono scesi da 200 a 30 sterline per ettaro l’anno per la barbabietola da zucchero tollerante al glifosato (escluse le spese tecnologiche sopportate dall’impresa), permettendo agli agricoltori di trascurare il controllo delle piante infestanti fino almeno alla fase della quarta foglia; ciò rende le piante di barbabietola difficilmente attaccabili da parte degli afidi ed incoraggia i predatori utili (Deward et al. 2000). Il controllo delle piante infestanti, soltanto nel momento in cui costituiscono un’effettiva minaccia per il raccolto, potrebbe permettere in altri momenti maggiore tolleranza verso le piante infestanti, promuovendo la biodiversità (Johnson 2000). La coltivazione della barbabietola da zucchero Ht (tollerante al glufosinato ammonio) permette, inoltre, di rimuovere completamente tutte le piante infestanti ricorrendo ad una quantità minore di erbicidi, rispetto a quella richiesta da una coltura tradizionale (Read e Bush 1999). Tuttavia, negli Stati Uniti, dettagliati studi comparativi hanno mostrato che, in alcune circostanze, i produttori di soia Ht usano quantità maggiori di erbicida rispetto a coloro che praticano la coltura tradizionale (Benbrook 1999). 178 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici I POTENZIALI RISCHI PER LA SALUTE Le reazioni allergiche e del sistema immunitario alle nuove sostanze Dal momento che i transgeni provocano la presenza di nuovi prodotti nelle colture - di solito proteine -, il rischio per la salute umana insorge se questi prodotti suscitano anche una reazione allergica o immunitaria. Gli alimenti tradizionali non modificati geneticamente già contengono prodotti tossici o potenzialmente tali; pertanto, la questione chiave consiste nello stabilire se uno specifico Ogm non possa rappresentare un nuovo rischio. Il 90% degli allergeni nei confronti del cibo agiscono in risposta alle proteine presenti in otto alimenti (arachidi, nocciole, latte, uova, soia, crostacei, pesce e grano), si potrebbe allora sostenere che sia più facile testare l’allergenicità degli Ogm, dato che la modificazione genetica implica il trasferimento di un singolo o di alcuni geni (Royal Society 1998). Ad esempio, è stato interrotto lo sviluppo della soia modificata geneticamente con un gene della noce del Brasile, a causa dei suoi potenziali effetti allergizzanti (Nuffield Council on Bioethics 1999). La più grande controversia ha riguardato il caso delle patate modificate geneticamente contenenti lectina e il loro effetto sui ratti. Uno studio ha riconosciuto conseguenze sul sistema immunitario (Anon 1999), ma i risultati della ricerca sono stati ampiamente criticati (vedi, per una sintesi, Nuffield Council on Bioethics). In ogni caso, se la ricerca avesse dimostrato un effetto, ciò sarebbe stato significativo solo per quel gene particolare e il suo prodotto. Allo stesso modo l’assenza di effetti non significa che tutti i prodotti geneticamente modificati siano sicuri. Altri potenziali problemi potrebbero insorgere nelle patate con sequenze biochimiche modificate geneticamente, che potrebbero inavvertitamente condurre ad alti livelli di glicoalcaloidi. È anche importante distinguere tra il consumo di alimenti potenzialmente contenenti Dna modificato geneticamente, e alimenti che sono identici a quelli derivati da colture tradizionali, come lo zucchero raffinato. Geni marcatori di resistenza agli antibiotici La prima generazione di Ogm ha usato geni marcatori di antibiotici o di erbicidi per ottenere una semplice selezione cellulare. In teoria, i geni marcatori resistenti agli antibiotici in un Ogm potrebbero essere incorporati in batteri presenti sia nell’intestino umano che in quello del bestiame, rendendo anche questi resistenti agli antibiotici (Gassen Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 179 2000). Sebbene ciò non sia stato ancora dimostrato empiricamente, la resistenza agli antibiotici costituisce un serio motivo di preoccupazione. Antibiotici e altri antimicrobici vengono usati in agricoltura per il trattamento terapeutico di malattie cliniche (20%), e per la profilassi e la promozione della crescita (80% del totale). Aumenta il timore che l’abuso di antibiotici possa rendere inefficaci alcuni farmaci destinati all’uomo, e/o che possa rendere alcuni tipi di batteri inattaccabili. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato che l’uso di antimicrobici nel bestiame di allevamento ha avuto come conseguenza la comparsa di alcuni tipi di Salmonella, Campylobacter, Enterococchi, E. coli resistenti, e che gli enterococchi resistenti al vancomycin sono legati all’abuso di antibiotici sia negli ospedali che in agricoltura (House of Lords Select Committee on the European Communities 1998). Oggi esistono alternative ai marcatori di antibiotici, e molti ritengono che gli antibiotici non dovrebbero essere usati negli Ogm commerciali (British Medical Association 1999; Acre 2000b). La Royal Society (1998) ha affermato che: «non è più accettabile che in una nuova coltura geneticamente modificata ci siano geni resistenti agli antibiotici». Ciò nonostante non è ancora chiaro se i geni marcatori degli antibiotici si vadano ad aggiungere, in modo significativo, al rischio di resistenza causato dall’esposizione agli antibiotici utilizzati in altri punti della catena alimentare. I TIMORI OPPOSTI ESPRESSI DAI DIVERSI PORTATORI DI INTERESSE Il ritmo del cambiamento nello sviluppo delle tecnologie Gm ha provocato accese discussioni, alcune delle quali riguardano in modo specifico i benefici e i rischi delle tecnologie Gm, altre prendono invece in esame importanti effetti indiretti, ad esempio la centralizzazione crescente dell’agricoltura mondiale; cambiamenti strutturali nei quali gli Ogm hanno un ruolo, senza essere necessariamente l’elemento motore. Presentiamo, di seguito, una selezione delle principali questioni legate al dibattito: 1.Gli Ogm continueranno a favorire approcci puramente tecnologici all’agricoltura moderna? O potrebbero anche produrre importanti benefici ambientali e promuovere la sostenibilità? 2.Le tecnologie Gm sono essenziali per nutrire un mondo affamato, o piuttosto la fame nel mondo è il risultato della povertà, che non permette a consumatori e produttori poveri di accedere alle moderne, costose tecnologie? 180 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici 3.La modificazione genetica rappresenta una violazione delle barriere naturali tra le specie? La presenza di sequenze genetiche comuni in specie molto differenti non indica piuttosto che tali trasferimenti sono senza conseguenze e non costituiscono una effettiva novità? 4.Gli alimenti Ogm sono sostanzialmente equivalenti agli altri, e non necessitano quindi di una specifica etichettatura? O piuttosto l’etichettatura è un diritto dei consumatori che permette loro di effettuare scelte informate? 5.Gli Ogm contribuiranno a consolidare maggiormente il potere delle imprese nel sistema alimentare? Se così fosse, tale accentramento, che si verifica a livello mondiale, è un elemento necessario e desiderabile della crescita economica? Tutto ciò ha prodotto una grande confusione e una tendenza da parte dei protagonisti a liquidare le preoccupazioni dei gruppi ambientalisti o di difesa del consumatore come fuorvianti, senza rendersi conto dei timori che si diffondono tra la gente quando gli scienziati fanno promesse riguardo nuove tecnologie (Us Senate Science Committee 2000). Allo stesso modo, gli avversari degli Ogm rigettano troppo prontamente gli argomenti dei sostenitori, considerandoli poco equilibrati nella loro presentazione e incapaci di stimare i rischi in modo adeguato (Grove-White et al. 1997; Esrc 1999). Un pericolo importante è costituito dalla possibilità che gli scienziati, insieme ai produttori degli alimenti, perdano ulteriormente la fiducia dei cittadini. Il dottor Frankenstein di Mary Shelley è condannato non tanto per quel che voleva ottenere - sebbene, fosse insensato - ma perché incapace di assumersi la responsabilità delle proprie azioni (Shelley 1818). La creatura, chiamata erroneamente Frankenstein, non commette violenze gratuite. Si vendica quando lo scienziato rifiuta di creare un’altra creatura che lo aiuti a superare la sua solitudine. Tale mancanza di responsabilità e di fiducia potrebbe danneggiare irreparabilmente la scienza dell’ingegneria genetica. Molti produttori di alimenti e venditori al dettaglio hanno messo al bando i prodotti geneticamente modificati. Molti agricoltori sono incerti: desidererebbero avere accesso a tecnologie che possano garantire loro un vantaggio nella competizione del mercato, ma allo stesso tempo non vogliono perdere la fiducia dei consumatori (Royal Society 1998). Tuttavia, molto si può fare per coinvolgere gruppi più ampi di operatori del settore in dibattiti e discussioni costruttive, e per garantire l’adozione di un atteggiamento di precauzione nei riguardi delle nuove tecnologie (Esrc 1999; O’Riordan 1999): Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 181 1.laddove non è possibile pervenire ad una prova scientifica di causa ed effetto si dovrebbe procedere con la dovuta cautela; 2.quando i benefici di un’azione preventiva sono giudicati più importanti dei probabili costi di un intervento successivo, sarebbe appropriato prendere l’iniziativa e spiegare le ragioni di tale azione; 3.laddove vi è la possibilità di un danno irreversibile alle funzioni di supporto della vita naturale, dovrebbero essere intraprese azioni cautelative senza considerare i benefici previsti; 4.prendere in considerazione le richieste di un cambiamento di percorso, coinvolgere coloro che hanno presentato tali richieste negli adeguati luoghi di dibattito ed essere trasparenti in ogni momento; 5.non sottrarsi alla pubblicità e non cercare mai di soffocare l’informazione per quanto sgradevole possa essere. Nell’era di internet qualcuno prima o poi scoprirà se l’informazione è stata distorta oppure occultata; 6.quando c’è una inquietudine diffusa, agire con decisione per rispondere a tale inquietudine, favorendo e sviluppando la discussione e il confronto. Non tutti sono concordi, tuttavia, sul valore dei dibattiti che coinvolgono un numero allargato di operatori. Lo Us Senate Science Committee (2000) ha adottato un tono molto combattivo nel riferire sugli Ogm negli Stati Uniti; ha liquidato gli “attivisti politici” affermando che i critici della modificazione genetica “hanno montato campagne ben finanziate” (come se fosse disonesto il fatto che siano ben finanziate). Ha anche dichiarato che gli Stati Uniti non dovrebbero accettare nessun accordo internazionale che faccia proprio il principio di precauzione. È improbabile che questo continuo mancato riconoscimento da entrambi i fronti possa condurre a risultati costruttivi. LA MODIFICAZIONE GENETICA COME UN ALTRO INGANNO TECNOLOGICO O COME CONTRIBUTO ALLA SOSTENIBILITÀ? Un aspetto sul quale si discute da molto tempo è quello delle potenzialità offerte dagli Ogm ad una maggiore sostenibilità in agricoltura. La questione è complessa e dipende fondamentalmente dalle situazioni che vengono messe a confronto e dalle pratiche colturali che la tecnologia delle modificazioni genetiche andrebbe a sostituire. Ad esempio, una tecnologia Gm che consentisse un uso ridotto dei pesticidi potrebbe essere più sostenibile di un sistema convenzionale che invece ne fa uso, ma al contempo questo sistema Gm a ridotto uso di pestici- 182 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici di, avrebbe molti punti a sfavore rispetto a un sistema biologico che non utilizza affatto pesticidi. Molti osservatori sostengono che la tecnologia Gm altro non è che un ulteriore inganno tecnologico applicato all’agricoltura intensiva. L’agricoltura moderna ha ottenuto molti successi nell’aumento della produzione alimentare, ma ciò ha anche comportato alti costi sociali ed ambientali (Pretty et al. 2000). Affrontare questi problemi ha spesso significato trattare i sintomi piuttosto che risolvere le questioni di fondo (Kloppenburg e Burrows 1996; Altieri e Rosset 1999a). Riferendosi a tale processo di determinismo tecnologico, che tende a considerare i problemi risolvibili attraverso nuove tecnologie, Kloppenburg e Burrows (1996) portano l’esempio specifico delle patate geneticamente modificate contenenti una tossina contro il Colorado Beetle (maggiolino del Colorado): «la Monsanto ha circoscritto il problema al Colorado Beetle anziché ricondurlo alla monocoltura di patate». Altieri (1998) solleva lo stesso problema: «Si ricorre alla biotecnologia per porre rimedio ai problemi causati dalle precedenti tecnologie agrochimiche (resistenza ai pesticidi, inquinamento, deterioramento del suolo) promosse dalle stesse compagnie che ora guidano la bio-rivoluzione». La questione dell’approccio scelto, sia quello di un radicale riassetto dell’agricoltura sia quello di una agricoltura modernista, in grado di realizzare una sempre maggiore efficienza ambientale (cfr. MacRae et al. 1993; Pretty 1998), non può essere risolta in questa sede, dal momento che dipende dalla definizione di “agricoltura sostenibile” e da quanto la tecnologia Gm può essere utile alla sostenibilità (Pretty 1995 e 2000b, Altieri 1996 e 1999; Conway 1997). In quale misura gli Ogm coltivati per uso commerciale stanno dunque contribuendo a realizzare questa transizione verso la sostenibilità? Dobbiamo considerare quattro aspetti, tra i dati che abbiamo a disposizione: 1) la richiesta di produzioni sempre maggiori; 2) la richiesta di un uso ridotto degli insetticidi; 3) la richiesta di un uso ridotto di erbicidi, e 4) problemi secondari derivanti dalle monocolture di Ogm. È importante notare che gli Ogm coltivati per uso commerciale non sono simili nei risultati, nonostante la letteratura più autorevole preveda che gli Ogm aumenteranno le rese e ridurranno l’uso di sostanze agrochimiche (Us Senate Science Committee 2000). Le affermazioni espresse senza riserve dalle imprese produttrici o dalla ricerca finanziata dall’industria hanno generato ulteriori interrogativi riguardo l’efficienza delle tecnologie Gm (Gianessi e Carpenter 1999). Per ogni comunicato stampa o rapporto industriale che indica sostanziali benefici ambientali e di raccolto, c’è un altro rapporto che individua problemi Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 183 causati dalla stessa tecnologia. È impossibile su entrambi i fronti giungere a qualsiasi conclusione definitiva. Ricerche valide e indipendenti sono ancora lontane dall’essere eseguite e pubblicate, e soltanto di recente sono apparse indagini condotte sul campo. Ricerche condotte nel 1999-2000 dalle Università dell’Arkansas, del Missouri, del Nebraska, dello Stato dell’Ohio, di Purdue e del Wisconsin, insieme ad alcuni rapporti del Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti (United States Department of Agriculture, Usda) e dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (Environmental Protection Agency, Epa) indicano rendimenti sul campo molto diversi tra loro, incluse alcune sorprese agronomiche (Benbrook 1999; Ers-Usda 1999a; Minor et al. 1999; National Corn Growers Association 1999; Oplinger et al. 1999; Usda 1999; Conway 2000; Elmore et al. 2001a e 2001b; Hyde et al. 2000; H.Wilson, personal communication 2000). Questa letteratura non conferma la tesi della Commissione del Senato degli Stati Uniti (2000) secondo la quale: «in agricoltura, l’attuale generazione di piante resistenti agli infestanti e tolleranti agli erbicidi, prodotte attraverso la biotecnologia, ha ridotto l’uso della chimica e ha fatto aumentare le rese». LE RESE PRODUTTIVE È opinione condivisa che le rese, piuttosto che aumentare, risultano in genere più basse rispetto ai raccolti delle varietà tradizionali (Elmore et al. 2001a e 2001b). Uno studio comparato ad opera dell’Università del Nebraska su soia Ht e soia tradizionale (1998-1999) ha evidenziato che la soia Ht ha reso il 6% in meno rispetto alle specie più prossime, e l’11% in meno rispetto alla tradizionale soia ad alto rendimento. I ricercatori hanno distinto due questioni: lo “yield drag” e cioè la riduzione di resa dovuta all’effetto di “trascinamento” nella nuova varietà Gm di geni non desiderati, e lo “yield lag” e cioè la riduzione della resa dovuta al tipo di soia in cui il transgene è stato inserito (il potenziale produttivo delle nuove varietà non Gm può aver superato quello di una varietà Gm più vecchia). Le ricerche compiute da Benbrook (1999) su 8.200 esperimenti universitari condotti nel 1998 ha rilevato un “yield lag” del 5-7% per le varietà Gm: «la migliore varietà tradizionale aveva delle rese superiori in media del 10% rispetto alle simili varietà Roundup ReadyTM vendute dalle stesse compagnie di sementi». I raccolti di cotone sembrano generalmente immutati nella maggior parte dei casi (Ers-Usda 1999a), come pure quelli di mais (in 12 su 18 184 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici regioni), eccetto dove si è verificata una forte infestazione da baco del mais, caso in cui i raccolti erano maggiori del 5-30% per il mais geneticamente modificato (Ers-Usda 1999b). In Missouri, tuttavia, non sono state rilevate differenze nei raccolti che hanno subito infestazioni da piralide del mais (Minor et al. 1999), e presso l’Università di Purdue si è stabilito che gli agricoltori non traggono beneficio dall’adozione delle tecnologie Bt quando i livelli di infestazione rientrano nella media, dato che negli Stati Uniti infestazioni con conseguenze economiche significative si verificano, in genere, con la frequenza di una ogni 4-8 anni (Hyde et al. 2000). L’USO DI INSETTICIDI L’uso di insetticidi sembra essere generalmente diminuito, in particolare nel caso del cotone, dove il ricorso ad insetti benefici immessi nelle colture cresce significativamente. Molti osservatori riferiscono di considerevoli riduzioni nel numero di irrorazioni per ettaro l’anno, quantificabili in un taglio dell’uso nazionale di insetticida pari a 450.000 kg di principio attivo (pa). Ciò rappresenta una riduzione di appena 0,18 kg (pa) per ettaro, o il 9% dell’applicazione media di 2,01 kg (pa) per ettaro (Ers-Usda 1999a). Tagli di simile entità, nell’uso degli insetticidi per il mais, appaiono anche meno significativi se si considerano per ettaro, con una riduzione nel 1998 di 320.000 kg (pa), corrispondenti ad una riduzione di appena 0,04-0,08 kg (pa) per ettaro. Gli agricoltori che usano metodi di gestione integrata degli infestanti hanno ottenuto riduzioni molto maggiori nell’uso di insetticidi per ettaro, sia nelle regioni tropicali che in quelle temperate (Pretty 1998; Pretty e Hine 2000). Per quanto riguarda il mais, alcune agenzie nazionali indicano consistenti riduzioni nell’uso di insetticidi, ma il Servizio di Statistica Nazionale per l’Agricoltura dell’Usda (Usda 1999) ha rilevato che la maggior parte dell’insetticida per il mais viene applicato in una fase preliminare per il controllo di agrotidi ed altri insetti del suolo: «poco è cambiato nell’uso di insetticidi, nonostante siano stati piantati milioni di acri di mais Bt negli ultimi anni». Alcuni dati sottoposti dall’Associazione Nazionale dei Coltivatori di Mais (1999) all’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente degli Stati Uniti hanno dimostrato che negli Stati Uniti la porzione di colture di mais sulle quali è stato usato insetticida contro la piralide del mais (a cui il mais Bt dovrebbe resistere) è aumentata del 45% nei primi due anni di uso di mais Bt (1996-1997; sebbene ciò possa in parte esser Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 185 dovuto ad una maggiore consapevolezza rispetto al problema della piralide del mais, ad una variazione nel numero di infestanti, ad un maggiore controllo). L’USO DI ERBICIDI Diversamente dagli insetticidi, l’uso di erbicidi sembra essere aumentato (Benbrook 1999). La soia e la colza da seme per l’estrazione dell’olio resistenti agli erbicidi (Ht) dovrebbero comportare un uso ridotto di erbicidi. Ancora una volta, è quanto accade nei campi a determinare i rischi reali. La complessità del trattamento contro le erbe infestanti comporta che l’uso di erbicidi su queste colture sembra in aumento. Gli agricoltori hanno tre scelte: 1) lasciare che le erbe infestanti crescano in misura tale da poter essere distrutte completamente attraverso l’irrorazione di erbicida, danneggiando però i raccolti che devono, nel frattempo, lottare contro le erbe infestanti; 2) usare un erbicida prima che la pianta inizi a svilupparsi, in combinazione con un prodotto ad ampio spettro; oppure 3) applicare il prodotto ad ampio spettro almeno due volte. Si ha sempre più conferma che gli agricoltori stanno ricorrendo alle due ultime opzioni, e ciò significa che le colture geneticamente modificate stanno conducendo ad un maggior uso di erbicidi. È un quadro ben diverso da quello tracciato da uno scienziato presso lo Us Senate Science Committee (2000, p.29), il quale sosteneva che l’uso di soia Roundup ReadyTM aveva «fatto risparmiare agli agricoltori quasi 30 dollari per ettaro grazie ad una riduzione del 40% nell’uso di erbicidi, ed anche fatto aumentare la produzione grazie ad una minore lotta delle piante contro le erbe infestanti». PROBLEMI SECONDARI Vi sono anche problemi secondari derivanti dal passaggio esteso ad una nuova singola tecnologia, che comporta prevalentemente nuovi problemi agronomici per gli agricoltori e non rischi ambientali. Tali problemi includono: (1) una sempre maggiore resistenza ai parassiti, (2) una trasformazione delle erbe infestanti (l’emergere di tolleranza al glifosato tra le specie di erbe infestanti), (3) problemi di trasformazione di altri agenti infestanti, e (4) colture spontanee che creano problemi nella rotazione (Bachelor 2000). Questi problemi agronomici peggiorano quando gli agricoltori ripetono le stesse rotazioni colturali e utilizzano gli stessi erbicidi, anno dopo anno. 186 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici LA MODIFICAZIONE GENETICA COME STRUMENTO DEL POTERE DELLE IMPRESE PRODUTTRICI DI OGM O COME ALLEATO DEGLI AGRICOLTORI? Un altro aspetto molto discusso riguarda il rapido cambiamento strutturale dell’agricoltura mondiale, in special modo l’integrazione verticale delle grandi imprese, e il crescente fenomeno della concentrazione ad ogni stadio della catena alimentare. Nell’ambito dell’agricoltura mondiale ci sono sempre meno fornitori, aziende agricole, mulini, macelli, aziende di imballaggio, e sempre meno aziende di trasformazione. Tale integrazione verticale rappresenta per molti una preoccupazione. La Commissione per le Comunità Europee della Camera dei Lords britannica (1998) ha affermato: «Vi è il timore, condiviso da agricoltori, osservatori e da noi stessi, che il potere di poche compagnie agrochimiche e di sementi - già enorme - cresca ulteriormente nell’ambito della produzione (sviluppo e coltivazione) di colture geneticamente modificate». Poiché gli Ogm vengono immessi in commercio dalle stesse grandi compagnie, vi è molto interesse nel verificare come si svilupperà la questione dei diritti di proprietà e, in conseguenza, dei rapporti di potere (Hubbel e Welsh 1998; Herdt 1999). Bisogna chiedersi in che misura gli interessi privati sono finalizzati soltanto al profitto degli azionisti, o se, invece, gli stessi azionisti sono disposti a collaborare con agricoltori di tutti i tipi, sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Una questione primaria è relativa a chi riceve (o possiede) i benefici della nuova tecnologia. La legge sui brevetti è di importanza vitale, poiché tratta i geni e l’ingegneria genetica alla pari di qualsiasi altra invenzione. In Europa, un’invenzione per poter essere brevettata, secondo le norme della Convenzione Europea, deve essere “nuova”, “non ovvia”, “adatta all’applicazione industriale”, e “soggetto brevettabile”. Per essere considerata “nuova” un’invenzione deve rappresentare qualcosa di nuovo nell’ambito della conoscenza attuale: una nuova tecnica di isolamento di un gene risponde a tale requisito, così come un gene isolato che presenta nuove caratteristiche. Un gene di un organismo umano, no. È possibile comunque brevettare un gene sintetizzato artificialmente o la replica delle informazioni genetiche contenute nel gene. Non si tratta del gene originale, ma di qualcosa che ne costituisce una buona copia. Anche la Convenzione Internazionale sulla Diversità Biologica (International Convention on Biological Diversity, Cbd) riveste un ruolo importante. Entrata in vigore il 29 dicembre 1993, ha tre obiettivi di- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 187 chiarati: la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile dei suoi componenti, e la giusta ed equa condivisione dei proventi derivanti dalle risorse genetiche. Le risorse genetiche delle piante hanno un notevole valore economico, costituendo i mattoni dell’industria biotecnologica. Tuttavia, è difficile attribuire una “proprietà” quando tanti geni interagiscono in modo molto complesso per esprimere delle caratteristiche. Ad esempio, la varietà convenzionale del grano, Veery, è stata il prodotto di 3.170 incroci differenti che hanno coinvolto piante originarie da 26 paesi. Sotto il controllo del Cbd, il paese di origine, nonché legittimo possessore della risorsa fitogenetica, viene legalmente definito come il primo a poter rivendicare la proprietà, ma è molto difficile attribuire con chiarezza la proprietà quando una varietà proviene da fonti così diversificate (Fowler e Mooney 1990). Nell’ambito delle aziende agricole un uso ridotto di insetticidi, unito ad un incremento della produzione, dovrebbe significare maggiori benefici per gli agricoltori. Le compagnie, tuttavia, impongono un costo tecnologico (che grava sul costo delle sementi) e, ad oggi, questo sembra assorbire gran parte o l’intero margine in certi sistemi (tab. 2). Tuttavia, se gli Ogm non apportano i benefici promessi agli agricoltori, i rapporti tra gli agricoltori e le industrie possono iniziare ad incrinarsi. Nel 1998, 55 agricoltori del Mississippi si sono rivolti al Ministero per l’Agricoltura e al Consiglio Arbitrale del Commercio in quanto il loro cotone Gm aveva fornito raccolti scarsi o era stato del tutto improduttivo. Molti hanno raggiunto un accordo anziché procedere in giudizio; tre di loro sono stati risarciti per un danno di 1,9 milioni di dollari. Nel 1999, 200 coltivatori di cotone della Georgia, della Florida e del Nord Carolina intrapresero una battaglia legale con la Monsanto dopo un raccolto disastroso di cotone Bt e Ht. Qualcosa, tuttavia, fa pensare che alcune grandi compagnie stiano prendendo una nuova strada nello sviluppo di meccanismi di distribuzione dei profitti. Un accordo innovativo tra AstraZeneca (ora Syngenta) e gli inventori del riso arricchito di vitamina A (golden rice, Potrykus, 1999) permetterà agli agricoltori dei paesi in via di sviluppo di guadagnare fino a 10.000 dollari senza pagare diritti. Ciò consentirà alla compagnia di commercializzare il riso, e al contempo questo viene fornito gratis ai piccoli coltivatori. Restano tuttavia molte controversie riguardo il “golden rice”: ci si chiede se la mancanza di vitamina A non possa essere meglio risolta attraverso una dieta diversificata e se la resistenza culturale al consumo del “riso arancione” non possa essere superata. Un altro esempio è costituito dalla tecnica di selezione PositechTM, 188 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici un’alternativa ai marcartori di resistenza agli antibiotici, sviluppata da Novartis (anche lei ora Syngenta) ad un costo di 10 milioni di dollari americani. La compagnia ha annunciato che introdurrà PositechTM sul mercato attraverso un sistema differenziato di costi che prevede il pagamento dei diritti solo per gli usi commerciali, garantendo libero accesso a coloro che sviluppano tecnologia per l’agricoltura di sussistenza. Tuttavia ciò può anche significare che i ricercatori del settore pubblico, che non si occupano di agricoltura di sussistenza, si trovino a dover rinunciare a tali tecnologie a causa dei costi troppo elevati. LA MODIFICAZIONE GENETICA COME SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELLA FAME NEL MONDO O FRENO ALLO SVILUPPO DI POSSIBILI ALTERNATIVE Oggetto di un altro acceso dibattito è l’eventuale possibilità offerta dalle colture geneticamente modificate di sconfiggere la fame nel mondo. Alcuni affermano enfaticamente che ciò è realizzabile, evocando magari lo spettro della carestia come giustificazione per ricevere aiuti e finanziare le tecnologie Gm nel loro complesso (cfr. McGloughlin 1999). Ma tali tecnologie sono in grado di contribuire ad alimentare il mondo solo se si presta attenzione ai processi di sviluppo tecnologico, alla condivisione dei profitti, ed in particolare a metodi di produzione alternativi o meno costosi. La maggior parte degli osservatori sono concordi nell’affermare che la produzione alimentare dovrà aumentare, e che questa dovrà scaturire dalle terre coltivate già esistenti. Tuttavia, alcuni approcci del passato al moderno sviluppo agricolo non hanno avuto sufficiente successo in molte parti del mondo. In Africa, per esempio, la produzione di cibo pro capite è scesa di circa il 20% a partire dalla metà degli anni ‘60. A livello globale, il mondo produce abbastanza cibo per nutrire tutti con una dieta nutriente ed adeguata (circa 354 kg di cereali pro capite l’anno), tuttavia vi sono ancora 790 milioni di persone a rischio di denutrizione. (Pinstrup-Andersen et al. 1999; Fao 2000; Smil 2000; Pretty e Hine 2001). Nella maggior parte dei casi le persone hanno fame perché sono povere, semplicemente non possiedono il denaro per acquistare il cibo di cui hanno bisogno. Gli agricoltori più poveri (e i paesi più poveri) non possono permettersi tecnologie “moderne” e costose, che teoricamente potrebbero far aumentare i loro raccolti. Ciò di cui hanno bisogno sono mezzi economici immediatamente disponibili per poter aumentare Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 189 TABELLA 2 Confronto dei costi fra cotone Gm e cotone tradizionale in Nord Carolina, 1999 COTONE GM COTONE TRADIZIONALE Danno complessivo delle capsule globose (%) 4,47% 5,25% Danno da baco della capsula globosa 1,61% 3,93% Danno da Hemiptera Pentatomidae 2,58% 0,61% Uso di insetticidi (applicazioni) 0,75 2,53 Costi totali per gli agricoltori (Us $/ per ettaro) 67,40 61,90 Costi tecnologici per le compagnie 47,30 0,00 Per insetticidi 13,90 46,90 Cotone disperso e spese di controllo 6,00 15,00 la produttività (Altieri e Rosset 1999a e 1999b). Pertanto una coltura di cereali modificata affinché abbia alle radici batteri in grado di fissare l’azoto libero nell’aria, o un’altra con apomissi, rappresenterebbe un enorme beneficio per gli agricoltori poveri ma, a meno che questa tecnologia non abbia costi contenuti, è improbabile che diventi accessibile alle persone che più ne hanno bisogno. L’agricoltura sostenibile è ora un’opzione sempre più praticabile per gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo (Pretty 1995; Altieri 1996; Conway 1997; Rosset 1999; Pretty e Hine 2000). Essa integra processi agro-ecologici - come il rinnovamento ciclico delle sostanze nutritive del terreno, la fissazione dell’azoto, la rigenerazione del suolo e i nemici naturali dei parassiti - nei processi di produzione alimentare, e riduce al minimo l’uso di sostanze (pesticidi e fertilizzanti) che danneggiano l’ambiente o minacciano la salute degli agricoltori e dei consumatori. L’agricoltura sostenibile fa un uso migliore delle competenze e delle abilità dei coltivatori, aumentandone l’autonomia e le capacità. È notevole che la migliore conferma di tale successo venga da molti paesi poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina (Pretty 2000c; Pretty e Hine 2000 e 2001). Le tecnologie e le pratiche rigenerative possono essere vantaggiose sia per gli agricoltori che per gli ambienti rurali, in particolare quando vi è la certezza che si otterrà il miglioramento delle risorse naturali. Tale evidenza suggerisce che possono verificarsi sostanziali incrementi nella produzione alimentare, attraverso uno o più di questi quattro meccanismi: 190 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici 1.intensificazione di un singolo componente di un sistema aziendale (con pochi cambiamenti nelle restanti attività aziendali); come l’intensificazione di colture ortive con alberi da frutta e verdure, con ortaggi a margine delle coltivazioni di riso, e l’introduzione di allevamenti ittici o di mucche da latte; 2.introduzione di un nuovo elemento produttivo in un sistema aziendale, come pesce o gamberetti nelle risaie, o selvicolture, che incrementa la produzione alimentare complessiva dell’azienda e non influenza necessariamente la produttività dei cereali; 3.uso migliore del capitale naturale per incrementare la produzione aziendale complessiva, specialmente l’acqua (attraverso la raccolta delle acque e la pianificazione dell’irrigazione) e la terra (attraverso il recupero dei terreni degradati), ottenendo la possibilità di introdurre nuove colture sui terreni recuperati e maggiore disponibilità di acqua per l’irrigazione; 4.incrementi per ettaro nei raccolti dei prodotti primari, attraverso l’introduzione di nuovi elementi rigenerativi nei sistemi aziendali (ad esempio legumi, lotta integrata ai parassiti) o attraverso l’introduzione di nuove varietà di colture e di specie animali, localmente appropriate. Nonostante lo svantaggio iniziale, questi incrementi nei raccolti sono maggiori nei sistemi che beneficiano della pioggia piuttosto che in quelli irrigati artificialmente. Nel primo caso, si hanno incrementi tipici che variano dal 50 al 100%, fino al 200% (raccolti triplicati) in alcune circostanze, mentre nel secondo caso gli aumenti oscillano tra il 5 e il 10 %, fino al 30%. Dove non vi sono alternative, le tecnologie Gm possono rappresentare opzioni nuove ed efficaci (Cgiar 2000; Royal Society et al. 2000; Winrock International 2000). Se la ricerca viene condotta da organismi pubblici, come Università o Organizzazioni non governative il cui interesse è volto al bene comune, allora la biotecnologia potrebbe tradursi nella diffusione di tecnologie che apportano immensi benefici. La ricerca attuale include studi su: lo sviluppo di manioca, patate, patate dolci e mais resistenti ai virus; la micropropagazione di alberi multifunzionali; banane resistenti ai nematodi; miglio perla termoresistente e tollerante alla siccità; resistenza ai virus e ai nematodi nel riso; mais Striga resistente e grano resistente ai parassiti (Tanksley e McCouch 1997; Dfid 1998; Isaa 2000). Un esempio è rappresentato dal virus del riso giallo screziato, uno tra i principali fattori limitanti la produzione africana di riso, che causa la riduzione dei raccolti solitamente del 50-95% (Pinto et al. 1998). Non è stato possibile introdurre varietà locali resistenti attraverso selezioni tradizionali, ma l’ingegneria genetica ha portato allo Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 191 sviluppo di nuove varietà resistenti. Queste sono state testate in cinque paesi, con il risultato di una completa resistenza al virus. Un altro esempio è la tolleranza alla salinità. Sembra che la salinità del suolo danneggi circa 340 milioni di ettari in tutto il mondo. È noto che alcune piante producono e accumulano soluti osmoprotettivi (glicinabetamina, mannitolo, trealoso e prolina); questi soluti, non tossici, si possono accumulare fino a livelli osmoticamente significativi per creare una protezione contro alte concentrazioni di sale nel suolo. Introduzioni di singoli geni hanno portato a modeste concentrazioni di soluti, ma per avere successo sarà necessaria una codifica di geni multipla, per sequenze metaboliche interamente nuove (Royal Society et al. 2000). Ulteriori applicazioni Gm potrebbero migliorare i raccolti nei paesi in via di sviluppo: rimuovendo o permettendo di tollerare uno stress (ad esempio il riso in grado di tollerare una prolungata immersione); permettendo la coltivazione di suoli difficili (come quelli con tossicità di alluminio); o dando un impulso al raccolto (geni derivanti dal riso selvatico in varietà ibride ottenute in laboratorio hanno fatto crescere i raccolti del 20-40%; Conway 1997). Tuttavia, nuove minacce possono ancora mettere in pericolo i mezzi di sussistenza degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo. Colture transgeniche tropicali come la canna da zucchero, l’olio di palma, le noci di cocco, la vaniglia e il cacao potrebbero essere coltivate ovunque con un’adeguata modificazione genetica. Altre colture possono essere modificate per sostituire i prodotti tropicali: la colza da seme per l’estrazione dell’olio, ad esempio, potrebbe essere usata per produrre acido laurico per la produzione del sapone, mettendo fuori gioco i produttori di olio di palma in Malesia e nel Ghana. NUOVE DIRETTIVE POLITICHE Gli Ogm non rappresentano una singola omogenea tecnologia. Ogni applicazione apporta potenziali benefici e rischi diversi per i differenti portatori di interesse. I legislatori, pertanto, si trovano ad affrontare sfide particolari in vista di applicazioni tecnologiche in così rapido sviluppo. Nell’Unione Europea la diffusione di Ogm è stata regolata per dieci anni dalla Direttiva 90/220; dopo lunghi negoziati quest’ultima è stata modificata, armonizzata e resa più rigorosa, ed è entrata in vigore dall’inizio del 2001. La Direttiva 2001/18/Ce stabilisce delle condizioni per la verifica scientifica dei rischi relativi all’immissione nell’ambiente di Ogm sperimentali e commerciali, co- 192 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici me pure i protocolli per rigorosi monitoraggi successivi all’immissione. La novità di questa politica che si va affermando si basa sul fatto che la valutazione di rischio è sempre più orientata verso il bisogno di comprendere gli effetti delle tecnologie sul campo e in azienda. Fino ad oggi, l’approccio generale in agricoltura è stato quello di stabilire rigorose procedure di valutazione di rischio precedenti alla coltivazione, e quindi presumere che gli agricoltori si impegnino in una “corretta pratica agricola”. Molto del danno arrecato all’ambiente si verifica quando le tecnologie - pesticidi, fertilizzanti o macchinari - non sono usate rispettando i criteri imposti dai legislatori. Tuttavia, l’attuale valutazione degli Ogm, prevede nuove condizioni per stimare gli effetti delle diverse pratiche aziendali sugli Ogm stessi e per stimare il ruolo di tali interazioni per ottenere impatti ambientali positivi, come l’integrità della biodiversità locale. Ciò potrebbe produrre un importante effetto sulle interazioni agricoltura-ambiente anche per quella parte dei sistemi agricoli che non utilizza Gm. Tuttavia, i nuovi standard per la legislazione non sono ancora diffusi. La sfida che i paesi in via di sviluppo si trovano ad affrontare è quella di trovare soluzioni per incrementare la capacità scientifica e legislativa di controllo allo scopo di riuscire a valutare gli effetti della moderna tecnologia agricola sull’ambiente. La Convenzione sulla Diversità Biologica stabilisce un ampio sistema di riferimento per la valutazione degli effetti, e ci si sta adoperando per rendere esecutivo l’accordo del gennaio 2000, stretto tra 130 paesi, per l’adozione del principio di precauzione quale base per un Protocollo internazionale di bio-sicurezza (Juma e Gupta 1999). Il nucleo centrale potrebbe essere costituito da una procedura che prevede l’obbligo di notificare l’intenzione di trasferire Ogm oltre confine e di attendere il consenso, benché un gruppo di nazioni esportatrici di prodotti agricoli sostenga ancora che le derrate agricole dovrebbero essere escluse da tale procedura. Che si raggiungano o meno tali accordi internazionali, la priorità assoluta rimane quella di trovare il modo per facilitare la formazione di competenze legali e scientifiche all’interno dei singoli paesi, affinché possano essere stabiliti protocolli per la bio-sicurezza degli Ogm (Pinstrup-Andersen 1999). Tale struttura politica generale dovrà tutelare i diritti sulla proprietà intellettuale, salvaguardare l’ambiente e la salute, regolare il settore privato attraverso opportune istituzioni antitrust se si vuole che i paesi in via di sviluppo traggano un beneficio significativo dalle tecnologie Gm. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 193 CONCLUSIONI Il ritmo del cambiamento nella biotecnologia agricola pone importanti sfide sia per quanto riguarda la valutazione dei rischi e dei benefici, che per lo sviluppo di efficaci politiche di prevenzione dei rischi. I risultati della ricerca sul campo suggeriscono che alcuni Ogm offrono opportunità per miglioramenti ambientali, sebbene alcuni effetti indiretti possano limitarli o persino condurre al verificarsi di problemi imprevisti. Ciò implica, necessariamente, che ciascuna applicazione agricola della modificazione genetica debba essere valutata singolarmente sulla base di una comprensione adeguata dell’ambiente che la accoglie, se si vuole trarre il meglio da queste tecnologie emergenti. Tutto questo ha importanti conseguenze per le politiche agricole. Sommario A partire dal 1995, si è verificata una rapida espansione nella coltivazione commerciale delle colture geneticamente modificate, che hanno raggiunto, nel 2000, i 44,5 milioni di ettari coltivati in tutto il mondo, la maggior parte dei quali nell’America Settentrionale. Sebbene vi siano opinioni divergenti riguardo i rischi e i benefici, la modificazione genetica non rappresenta una tecnologia unica ed omogenea. Ogni applicazione scientifica porta con sé differenti benefici e rischi potenziali per i diversi attori coinvolti. Il presente articolo passa in rassegna il recente progresso scientifico e le future applicazioni, basandosi su una nuova tipologia di tre generazioni di organismi geneticamente modificati (Ogm), messi a confronto con cinque tipi di applicazioni scientifiche. Gli Ogm in agricoltura pongono una serie di potenziali rischi ambientali e sanitari. Una recente analisi, indipendente, condotta sugli studi scientifici realizzati nei Paesi industrializzati sintetizza lo stato delle conoscenze attuali per sette tipi di rischio applicabili a tutti i sistemi agricoli: 1) flusso orizzontale di geni; 2) nuove forme di resistenza e problemi legati agli infestanti; 3) ricombinazione che produce nuovi patogeni; 4) effetti diretti e indiretti delle nuove tossine; 5) perdita di bio-diversità dovuta ai cambiamenti nelle pratiche di coltivazione; 6) reazioni allergiche e immunitarie; 7) segnalazione genetica di resistenza agli antibiotici. I diversi portatori di interesse (stakeholders) del settore hanno opinioni molto differenti riguardo agli Ogm. Una rassegna di tre dibattiti presenta posizioni contrapposte sulla manipolazione genetica intesa come: 1) inganno tecnologico o contributo alla sostenibilità; 2) strumento del potere delle imprese produttrici di Ogm o alleato degli agricoltori; 3) soluzione del problema della fame nel mondo o freno allo sviluppo di possibili alternative. Riferimenti bibliografici Acre, The commercial use of Gm crops in the Uk: the potential wider impact on farmland wildlife. Advisory Committee on Releases to the Environment, Department of the Environment, Transport and the Regions (Detr), Londra, Gb, 1998. 194 Le modificazioni genetiche: rischi e benefici Acre, Annual report 1999, Advisory Committee on Releases to the Environment, Department of the Environment, Transport and the Regions (Detr), Londra, Gb, 2000a. 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Molti di questi grandi temi furono al centro dell’attenzione quando, nel novembre del 1996 la Fao promosse, di concerto con i suoi paesi membri, un Vertice, in cui i capi di Stato e di Governo di 185 paesi si riunirono a Roma con l’obiettivo di rilanciare la lotta su scala planetaria alla fame ed alla denutrizione. Gli stessi temi sono stati recentemente riproposti, a cinque anni di distanza, nell’occasione di un nuovo vertice, al cui titolo è stata aggiunta la locuzione “Cinque Anni Dopo”. L’evento del 1996 fu preceduto da un consistente lavoro preparatorio, raccolto in una dozzina di Technical Papers sulla cui base venne formulato un Piano d’Azione, costituito da sette obiettivi principali, a loro volta articolati in numerosi punti specifici. Tale Piano si articolava in impegni (commitments) per i paesi membri dell’organizzazione, che piuttosto esaustivamente focalizzavano l’attenzione su tutti gli aspetti del problema: progresso tecnico e suoi effetti sociali, relazioni commerciali fra paesi a diverso livello di reddito, ruolo dell’agricoltura e del coordinamento delle politiche agricole nello sviluppo, soPiero Conforti è ricercatore dell’Inea (Istituto Nazionale di Economia Agraria), Roma. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 201 stenibilità delle tecnologie e dei processi di crescita, biodiversità, cooperazione internazionale, assetto istituzionale interno e degli organismi sopranazionali, e via dicendo. Fra quei commitments figurava, non senza enfasi, quello di mantenere sotto stretto controllo le attività bilaterali e multilaterali rivolte a lottare la fame e l’insicurezza alimentare, in vista del raggiungimento dell’obiettivo ultimo: ridurre del 50% il numero di individui che soffrono di denutrizione cronica entro il 2015. Questo obiettivo di fondo non mancò di suscitare polemiche, essendo giudicato fin troppo modesto da alcuni dei protagonisti del vertice: che senso ha, si osservava, puntare a ridurre della metà qualcosa di moralmente esecrabile, che non dovrebbe esistere per nulla? Ma la formulazione dell’obiettivo può essere criticata anche dal versante opposto, quello della concretezza, chiedendosi quanto sia sensato affidare ad un indicatore di risultato, puntuale sì, ma anche instabile e di non facile né univoca misura, un giudizio sul successo di un insieme di azioni tanto vasto. È chiaro, tuttavia, che l’obiettivo venne soprattutto utilizzato come sveglia per le coscienze: un richiamo all’esercito di denutriti che popola il pianeta al fine di stimolare i governi, i loro contribuenti e la società civile a promuovere azioni più incisive in questo campo. E cosa ne è stato degli impegni che a partire da un raggio d’azione così vasto sono stati ricompresi nel Piano d’Azione del 1996? Lungo gli anni trascorsi da allora, il monitoraggio delle attività dei paesi membri che ricadono nell’ambito del Piano di Azione si è svolto in seno al Comitato Sicurezza Alimentare della Fao; e il bilancio che ne emerge non si presenta particolarmente brillante. Nonostante l’impegno profuso da molti governi e organizzazioni che in questi anni hanno proseguito la loro azione a livello nazionale ed internazionale, il varo del Piano d’Azione del 1996 non pare aver influito apprezzabilmente sul corso degli eventi. La prova può trovarsi, da un lato, nel fatto che è continuata la riduzione del peso percentuale degli aiuti destinati dai maggiori paesi donatori agli interventi per la sicurezza alimentare: secondo la Fao nell’ultimo decennio si è avuto un calo prossimo al 30%. A rigore ciò potrebbe non essere indicativo, se grandi sforzi fossero stati prodotti per migliorare l’efficacia dei fondi spesi; ma le relazioni del Comitato Sicurezza Alimentare non lasciano intravedere né grandi innovazioni organizzative, né altri elementi di cambiamento che potrebbero aver influito tanto significativamente sulla qualità dello sforzo da compensare la riduzione quantitativa dell’impegno. E d’altro canto la Fao stima che globalmente il numero di individui 202 L’azione multilaterale contro la fame nel mondo che soffrono di problemi di denutrizione è diminuito di circa 6 milioni di individui all’anno. Un progresso insufficiente, se si pensa che per centrare l’obiettivo fissato nel 1996 il tasso di riduzione necessario dovrebbe raggiungere i 22 milioni di individui per anno. Il 2001 era indicato come momento di verifica già nel percorso individuato nel 1996; ma il previsto Vertice Cinque Anni Dopo, programmato per il novembre, ha dovuto attendere - a seguito dell’incertezza generata dagli attentati di settembre - fino al giugno 2002. Dato il quadro in cui si svolgeva il follow-up, è chiaro che il senso dell’appuntamento romano era quello di cercare di responsabilizzare sia l’opinione pubblica internazionale che i “grandi della terra”, ottenendone un impegno più concreto di quello che ha caratterizzato i cinque anni passati. Nelle stesse parole del Direttore Generale della Fao Jacques Diouf, il nuovo Vertice doveva servire a ridare slancio agli sforzi globali nella lotta alla denutrizione cronica, ed a promuovere la indispensabile mobilitazione di risorse politiche e finanziarie per questo scopo. All’indomani di quell’evento può essere utile tentarne un primo bilancio. La dichiarazione finale del Vertice Cinque Anni Dopo si limita sostanzialmente a ribadire gli obiettivi già formulati nel 1996, indicando la necessità di condurre un’azione più incisiva, e di accelerare i tempi per il raggiungimento degli obiettivi fissati, ma senza stabilire con precisione in quale direzioni muoversi. È stata varata, fra le novità, un’attività di formulazione di una serie di Linee Guida per l’implementazione del Piano di Azione, una dicitura che, probabilmente, molti paesi potranno essere inclini a sottoscrivere, ma che potrebbe anche consentire loro di proseguire ognuno per la sua strada, all’incirca come avvenuto fino ad oggi. La Fao aveva anche formulato un Anti-Hunger Programme, un insieme di misure attraverso cui raggiungere l’obiettivo fissato nel 1996 con una spesa complessiva di 24 miliardi di dollari; tuttavia, di questa iniziativa non c’è alcuna traccia esplicita nella dichiarazione finale sottoscritta dai paesi partecipanti. L’Italia, da paese ospite dell’iniziativa, ha promosso con l’occasione un qualche sforzo concreto: l’annullamento del debito del Mozambico e la promessa di raggiungere la quota dell’1% del prodotto interno lordo in aiuti allo sviluppo vanno a sommarsi ad un contribuito consistente - previsto complessivamente in 100 milioni di Euro - al neonato Fao Trust Fund for Food Security and Food Safety, istituito per finanziare progetti mirati ad influire su alcuni dei principali problemi indicati del Piano d’Azione del 1996 come cause di insicurezza alimentare. Scopo specifico di questo fondo è, pertanto, contribuire ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi del Summit del 1996; Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 203 esso si alimenta di contributi dei paesi membri, e finanzia progetti proposti dagli stessi paesi membri, scelti sulla base di valutazioni comuni. Tuttavia, l’Italia è rimasta fra i pochi paesi a contribuire in misura sostanziale e questa iniziativa. I maggiori contribuenti a quello che l’Ocse chiama Aiuto Ufficiale per lo Sviluppo (Official Development Assistance) non hanno mostrato di voler cogliere l’occasione del Vertice per aumentare il loro impegno nel campo di azione della Fao. Ed anche l’obiettivo indicato nella Dichiarazione finale, di dedicare alla cooperazione per lo sviluppo lo 0,7% del Prodotto Nazionale Lordo, appare lontano dallo 0,13% e dallo 0,39% indicati come obiettivi rispettivamente dagli Usa e dalla Ue, i due maggiori paesi donatori. Per comprendere le ragioni di quanto accaduto al Vertice Cinque Anni Dopo, può essere utile cercare di porre in luce almeno alcune delle differenze di approccio emerse fra i paesi che vi hanno partecipato, in particolare rispetto ad alcune delle grandi questioni, che l’azione a favore della sicurezza alimentare chiama in causa. Almeno due temi di ordine molto generale si possono citare, infatti, attorno ai quali la diversità di approccio fra è maggiormente evidente. Il primo riguarda il rapporto fra l’integrazione commerciale, le sue regole - alla lunga uno dei pochi elementi di governo del processo di globalizzazione - e il suo effetto sulla povertà e la denutrizione. Il secondo riguarda l’effetto del progresso tecnico sulla povertà e l’insicurezza alimentare. Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia, poiché è chiaro che la distribuzione dei benefici del progresso tecnico dipende anche dal modo in cui è disciplinata l’integrazione economica fra i paesi, che tuttavia può essere utile mantenere qui logicamente distinte. La generalità delle due questioni è tale da sconsigliare posizioni di principio, nonostante il dibattito intenso, e a tratti drammatico che esse vanno animando: basti pensare a quanto avvenuto in occasione della riunione dell’Omc di Seattle nel 1999, o al meeting del G8 a Genova nel 2001, o agli strali lanciati in proposito dal Forum sulla Sovranità Alimentare, svoltosi, come già accadde nel 1996, a poche centinaia di metri dai capi di Stato e di Governo riuniti alla Fao. Se è vero, infatti, che non si può mettere in dubbio che l’insicurezza alimentare possa essere ridotta da una “efficace” cornice di regole commerciali, o da una “efficace” regolazione della distribuzione dei benefici del progresso tecnico, è pur vero - al di là del frasario delle dichiarazioni ufficiali in cui i contrasti sono composti in frasi accettabili per i più - che è sulla qualificazione di quelle caratteristiche di efficacia delle regole che emergono le differenze, e che fioccano le accuse reciproche fra i paesi. È noto che lungo gli ultimi due decenni l’agricoltura è stata al centro 204 L’azione multilaterale contro la fame nel mondo di un processo senza precedenti di revisione delle politiche interne nell’ambito del Gatt prima e dell’Omc poi. E che, grazie a quel processo, la maggior parte dei paesi dell’Ocse ha gradualmente messo in discussione una politica agraria utilizzata per oltre mezzo secolo, sostanzialmente basata sul sostegno dei prezzi interni e sulla protezione doganale. Il tema è stato al centro di uno scambio di accuse, sia pure addolcito dal cortese linguaggio ufficiale. Alcuni dei partecipanti al Vertice di Roma, per esempio i Presidenti del Sud Africa e dell’Uganda, non hanno esitato a indicare il protezionismo agricolo che riduce l’accesso ad alcuni dei maggiori mercati del mondo - quelli degli Usa, della Ue e del Giappone, ma anche dell’India e della Cina - come una delle cause prime dell’insicurezza alimentare degli abitanti delle zone rurali dei paesi poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Dal canto suo, la Ue, per bocca del Presidente Prodi, ha additato con preoccupazione il nuovo corso della politica agraria statunitense - varato con il recente Farm Security Act - che promuove un incremento del sostegno assicurato agli agricoltori. Mentre gli Usa, attraverso il Ministro federale dell’Agricoltura, hanno ribadito la loro convinta adesione alla causa della liberalizzazione del commercio agricolo, strumento primo di lotta alla povertà e all’insicurezza alimentare, osservando anche che gli aiuti interni previsti dal recente Bill agricolo sono in linea con l’attuale politica, e per loro natura assai poco distorsivi del commercio internazionale, quindi compatibili con le regole dell’Omc. L’impressione che se ne trae è che, quando dal terreno dei principi e delle dichiarazioni si passa a discutere di come concretamente ci si sta comportando su quei grandi temi che la sicurezza alimentare chiama in causa, il disaccordo fra gli attori principali aumenti considerevolmente, ed emergano conflitti di non facile mediazione, che pongono in seria difficoltà il coordinamento multilaterale dell’intervento degli Stati nazionali. D’altra parte, non poche fra queste diversità di approccio sono riconducibili a specifici gruppi di interesse, più che ai paesi nel loro complesso. Ad esempio, è facile vedere che nella Ue gli effetti di alcune delle iniziative correttamente citate al Vertice come testimonianze dell’impegno a favore della sicurezza alimentare nei paesi poveri possono generare conflitti interni. Fra queste si annoverano l’accordo Everything but Arms (Eba) da un lato, e la politica di cooperazione e associazione svolta nell’area del Mediterraneo e con la Convenzione di Lomé, dall’altro. È noto che l’approfondirsi di queste linee della politica estera dell’Ue può determinare difficoltà non marginali per gli agricoltori europei che fino ad oggi sono stati, sia pure in misura par- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 205 ziale, posti al riparo dalla concorrenza di quei paesi, e che dovranno riguadagnare - come stanno già in parte facendo - spazi di competitività, tipicamente attraverso la differenziazione qualitativa. Mentre quelle stesse linee di politica estera, potrebbero, invece, costituire un elemento di apertura dei mercati di sbocco per l’industria manifatturiera. Sebbene questo sia solo un esempio, non sembra un caso che a tenere vivo il dibattito sui citati grandi temi siano state negli ultimi anni le organizzazioni della società civile più che le rappresentanze governative. Tuttavia, le rappresentanze delle organizzazioni non governative riunite nel parallelo Forum sulla Sovranità Alimentare non paiono essere riuscite a partorire una prospettiva più concreta. In questo caso la dichiarazione finale uscita dall’incontro contiene una Action Agenda estremamente decisa nell’additare le regole dell’Omc e l’approccio delle istituzioni di Bretton Woods come responsabili della fame del mondo. Colpiscono, tuttavia, altri due elementi del documento. In primo luogo, al di là del rigetto di un approccio globalmente - e un po’ superficialmente - bollato come neo-liberal, molti degli obiettivi più specifici non sono granché dissimili da quelli del Piano d’Azione del Vertice ufficiale del 1996, oggi ribaditi. In secondo luogo, va rilevato che molte delle indicazioni positive contenute nell’Action Agenda suonano piuttosto vaghe: come si fa, ci si potrebbe chiedere ad esempio, ad assicurare quei “prezzi equi” o quella “genuina azione redistributiva”, o quel “sostegno alle attività produttive delle famiglie e delle comunità” di cui si parla? Venendo, invece, al tema del progresso tecnico e della sua interazione con la sicurezza alimentare, questo è stato indicato con forza, in particolare dagli Usa, come uno degli elementi in grado di sostenere la lotta alla fame nelle aree rurali del terzo mondo, intendendo per progresso tecnico soprattutto le applicazioni biotecnologiche per l’agricoltura, capaci di migliorare la produttività riducendo il consumo di agenti inquinanti come i pesticidi. La questione ha contribuito a rinfocolare una polemica già in corso fra Usa e Ue, nonché con alcuni dei rappresentanti dei paesi in via di sviluppo; sul tema si è espresso vivacemente anche il parallelo Forum sulla Sovranità Alimentare. Da parte europea, sebbene non siano poche le divisioni interne - è noto, in proposito che sia la Spagna che, soprattutto, il Regno Unito hanno posizioni relativamente più possibiliste rispetto a quelle di paesi come la Francia e l’Italia - si è ribadita la necessità che l’uso delle biotecnologie sia condizionato a strumenti di controllo come l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti derivati. Questo atteggiamento è stato recentemente confortato dai risultati delle indagini sull’opinione dei 206 L’azione multilaterale contro la fame nel mondo consumatori, che hanno rivelato una generalizzata diffidenza verso tali applicazioni. Ma oltre che dalla Ue, la posizione statunitense è stata contrastata anche da alcuni rappresentanti dei paesi in via di sviluppo. Proprio partendo dal riconoscimento che le biotecnologie agricole possono fornire un contributo sostanziale nella lotta alla povertà rurale e alla insicurezza alimentare, si è affermata la necessità che i prodotti geneticamente modificati in questione siano oggetto di deroga alle regole che proteggono i diritti di proprietà intellettuale, in modo tale da non impedire o limitare il loro utilizzo nei paesi più poveri. In altre parole, si vuole evitare che i benefici associati all’utilizzo delle biotecnologie siano fatti propri esclusivamente dalle multinazionali che li producono. Anche su una simile questione non è possibile dare una risposta univoca: sebbene sia condivisibile, in taluni casi, l’argomento portato a sostegno della necessità di una deroga, occorre anche domandarsi quale impresa sarebbe disposta a produrre innovazioni così tanto costose, come quelle biotecnologiche, senza poterne trarre i benefici economici; e/o in quale misura il settore pubblico sia in grado di farsi carico di tali costi. Su questo punto una posizione interessante è quella che è stata espressa dall’International Food Policy Research Institute attraverso l’intervento del suo Presidente Pinstrup-Andersen. È necessario, egli ha indicato, che i paesi in via di sviluppo e gli organismi multilaterali investano in tecnologia agricola per aumentare la produttività ed anche nelle innovazioni biotecnologiche. Ma la priorità, secondo l’Ifpri, va assegnata alle innovazioni non appropriabili, come, ad esempio, le tecniche agronomiche specificamente studiate per alcune località o la messa a punto di varietà vegetali particolarmente adatte ad un’area, insomma a quel tipo di innovazioni che ha soprattutto carattere di bene pubblico e che richiede una minore partecipazione privata. In altre parole, c’è molto da fare e da inventare a livello locale per far crescere la produttività agricola: sviluppando le conoscenze delle comunità rurali povere del terzo mondo si possono realizzare progressi significativi anche prima di rivolgersi ad applicazioni tecnologiche complesse come gli organismi geneticamente modificati. L’utilizzo di tali organismi, dunque, non va escluso, ma piuttosto posto in stretto contatto con le necessità degli specifici ambiti di applicazione. In proposito, è interessante registrare, rispetto ad alcuni anni or sono, un qualche ritorno di enfasi sullo sviluppo della produttività in agricoltura come elemento che, attraverso il reddito prodotto nelle aree rurali più povere dei paesi in via di sviluppo, può contribuire a migliorare la posizione dei gruppi più vulnerabili di popolazione e la sicurez- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 207 za alimentare. Ciò potrebbe costituire un elemento di riequilibrio rispetto all’enfasi, per certa misura condivisibile, sugli aspetti distributivi della sicurezza alimentare, tipica del dibattito dalla fine degli anni ottanta in poi, che ha ridotto il peso relativo delle questioni legate allo sviluppo agricolo. In conclusione, i tempi non sembrano ancora maturi per assistere al decollo di un forte coordinamento multilaterale della lotta alla fame nel mondo, che pure sembrerebbe cosa assai utile. L’enfasi assegnata ai grandi temi di cui si è detto, sebbene corretta in linea di principio, non sembra essere andata a beneficio della concretezza nell’azione, né nel Vertice, né nel Forum parallelo delle organizzazioni non governative. In proposito ci si potrebbe domandare se, in taluni casi, una migliore qualificazione dei termini delle questioni e dei conflitti fra gli interessi divergenti dei paesi e della società civile in questo campo non potrebbero giovare al raggiungimento delle necessarie mediazioni fra gli interessi in gioco, più delle dichiarazioni ufficiali che tutti possono sottoscrivere, ma che possono non costituire impegni effettivi e stringenti. 208 L’azione multilaterale contro la fame nel mondo 2003: anno internazionale dell’acqua Marjoleine Hennis «Senz’acqua non c’è futuro» ha detto Nelson Mandela al Vertice sullo sviluppo sostenibile tenutosi a Johannesburg ad agosto del 2002. A giudicare dai dati che vengono pubblicati sulla crescente scarsità di acqua potabile nel mondo, tale futuro non sembra affatto assicurato. Il problema è triplice: le cause dell’insufficienza sono numerose e di natura globale, le soluzioni proposte si prefiggono solo di rimuovere gli effetti delle carenze idriche, e le risorse stanziate finora sono tutt’altro che adeguate. Il Vertice di Johannesburg, dove l’acqua è stata presentata come uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo, è stato solamente una tappa di un lungo processo - promosso dalle Nazioni Unite insieme a tante Ong come il Consiglio Mondiale dell’Acqua (Wwc) e il Wwf - verso una maggiore coscienza pubblica mondiale di questa tematica. Durante gli anni Novanta, questo processo decollò concretamente con il 1° Forum mondiale sull’acqua (Dublino, 1992), che si tradusse in un capitolo marginale dell’Agenda 21, concordato nello stesso anno al Vertice di Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile. A quest’ultimo fece seguito la Conferenza sull’acqua (Parigi, 1998), il 2° Forum mondiale sull’acqua (l’Aia, 2000), e infine la Conferenza sull’acqua dolce (Bonn, 2001). Così, dopo dieci anni, il tema dell’acqua è balzato al primo posto dell’agenda internazionale, creando grandi aspettative riguardo alle decisioni da prendere durante il 2003, designato dalle Nazioni Unite “anno dell’acqua”. Perché tutta questa attenzione per l’acqua? Non è una novità che si tratti di una risorsa primaria per la vita, per l’agricoltura, per la sanità, per l’ambiente e per lo sviluppo in generale. Tuttavia, la gestione dell’acqua sembra non essere affatto all’altezza: vi sono problemi di distribuzione che, aggravati da un aumento della popolazione mondiale, Marjoleine Hennis è docente di Politica Economica Internazionale al Trinity College, Roma. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 209 fanno sì che il 40% della popolazione mondiale soffra di gravi carenze idriche (Un 2002); l’inquinamento delle risorse idriche cresce con una velocità più alta di quella con cui l’acqua riesce a rigenerarsi; si osservano alterazioni nelle precipitazioni e nel tasso di evapo-traspirazione legate ai cambiamenti climatici che in certe zone portano a inondazioni, mentre in altre provocano siccità o addirittura desertificazione. L’agricoltura è strettamente legata al futuro dell’acqua e dello sviluppo in generale, attraverso la sicurezza alimentare. La crescita esponenziale della popolazione mondiale da 3 miliardi nel 1960 a 6 miliardi nel 2000 lascia da un lato affamate circa 800 milioni di persone, e induce dall’altro un maggiore sfruttamento agricolo. I relativi danni in tema di denutrizione sono stati limitati dalla “rivoluzione verde”, che negli anni ’60 ha introdotto meccanizzazione dell’agricoltura e varietà ibride nei Paesi in via di sviluppo (Pvs). Tale rivoluzione però, pur raddoppiando la produttività rispetto al modello agricolo tradizionale basato sull’acqua piovana, ha contribuito ad uno sfruttamento idrico più pesante. Il nuovo modello di produzione è stato sostenuto dalle politiche pubbliche, le quali finanziavano le infrastrutture per l’irrigazione di grandi superfici e offrivano sussidi agli agricoltori per il consumo dell’acqua. Il risultato è stato un incremento del 2% annuo di aree irrigate nei Pvs tra il 1962 e il 1996, portando alla situazione in cui la superficie agricola irrigata (pari al 20% della superficie agricola totale) procura il 40% del raccolto totale (Un 2000). La “rivoluzione verde” nei Pvs ha così indotto un consumo agricolo di acqua per metro quadro molto simile a quello dei Paesi sviluppati e per niente paragonabile al consumo familiare negli stessi Pvs -, il che fa sì che attualmente l’agricoltura assorba complessivamente il 70% delle risorse idriche mondiali (Roche 2001). Questa percentuale aumenterà ulteriormente al crescere della popolazione mondiale dell’1,1% annuo durante i prossimi 15 anni. Ciò richiederà un continuo incremento della produzione agricola, basata su un aumento di produttività, da ottenersi prevalentemente (per il 69%) mediante irrigazione (il restante 31% essendo legato ad una produzione più intensiva e ad un allargamento della superficie coltivata) (Fao 2002). Ci si aspetta che tale aumento abbia luogo per tre quarti nei Pvs. Ciò peggiorerebbe una situazione in cui, secondo un recente studio della Fao svolto su 93 Pvs, tanti di questi sono già arrivati ad un tasso di consumo d’acqua molto superiore al rinnovamento delle risorse idriche (Un 2000). E non solo: oltre a problemi ambientali e sanitari, le carenze idriche inducono una sempre maggiore dipendenza di questi paesi dalle importazioni alimentari per l’approvvigionamento della propria po- 210 2003: anno internazionale dell’acqua polazione e, di conseguenza, dalle divise straniere. Mettendo insieme questi fattori, risulta necessaria una gestione dell’acqua che contribuisca a sfamare persone oggi, senza impedire lo sviluppo a lungo termine. Gli stessi rapporti Fao sembrano essere abbastanza ottimistici sul futuro dell’acqua. La fiducia è basata su tre supposizioni. 1.Secondo le loro stime, l’aumento della popolazione mondiale dopo il 2015, e di conseguenza della domanda alimentare, sarà inferiore a quello attuale. 2.Con l’omogeneizzazione delle diete mondiali verso un maggior consumo di grano, le superfici coltivate a riso - e richiedenti in media una quantità d’acqua doppia rispetto al grano - diminuiranno, soprattutto grazie a cambiamenti in Cina. 3.L’efficienza dell’uso agricolo di risorse idriche aumenterà. In genere non c’è disaccordo sulla validità delle ipotesi 1 e 2, mentre la terza sembra per ora un po’ meno fondata. Per quanto riguarda invero i cambiamenti che cadono direttamente sotto le competenze della Fao (per esempio l’introduzione a livello locale di metodi di irrigazione più efficaci e/o di varietà di piante a basso fabbisogno idrico) qualche ottimismo sembra giustificato. Tuttavia, le questioni a livello nazionale, per non parlare di quelle a livello internazionale, sono molto più complicate e le relative soluzioni richiedono il soddisfacimento di un gran numero di condizioni e la convergenza di molti interessi, attualmente spesso contrastanti. Una di tali condizioni è la migliore gestione dell’acqua a livello nazionale, attraverso politiche, istituzioni e legislazione, insieme ad una maggiore integrazione tra gli enti coinvolti (per esempio, la gestione dei bacini idrici esige una stretta collaborazione tra gli enti di bonifica e di distribuzione dell’acqua). D’altro canto, un migliore coordinamento presuppone trasparenza delle istituzioni e stabilità finanziaria, cioè un livello di governance che in tanti Pvs è (ancora) assente. Per i Pvs si impongono, inoltre, difficili valutazioni da effettuare a livello nazionale e mondiale, riguardanti le scelte fondamentali sulla via dello sviluppo. Queste valutazioni, però, avranno un sicuro effetto ritardante sul processo di ottimizzazione delle risorse idriche. Per esempio, una proposta sostenuta da Banca Mondiale e Fmi è quella di privatizzare le istituzioni nazionali e diminuire i sussidi sull’uso agricolo dell’acqua. Il corrispondente aumento delle tariffe avrebbe come vantaggio una razionalizzazione dei consumi idrici ma potrebbe anche, a causa dei prezzi più elevati dei prodotti agricoli, ridurre la competitività del paese sul mercato mondiale. Inoltre, per la parte più povera della popolazione potrebbero crearsi seri problemi d’accesso al- Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 211 l’acqua e conseguenti disordini sociali (come già accaduto in Ghana, Bolivia e Filippine in reazione alla privatizzazione della distribuzione idrica). In futuro, la privatizzazione della distribuzione idrica potrebbe essere incoraggiata in quadro Wto, dove si punta alla liberalizzazione del commercio dei servizi (Gats). Per il momento, tuttavia, questo punto, insieme a sanità e istruzione, non è all’ordine del giorno nelle negoziazioni, forse anche in ragione delle difficili valutazioni su come consentire un accesso equo all’acqua. Un’altra questione delicata riguarda le ricadute ambientali dello sfruttamento dell’acqua. Ad esempio, a fronte del suddetto incremento di produttività, rispetto alla coltivazione a base di acqua piovana, l’irrigazione provoca un maggior residuo di sale nel suolo e nelle falde. Analogamente, l’introduzione di piante geneticamente modificate per resistere a periodi di siccità impone considerazioni sul vantaggio apportato da queste tecnologie in termini di risorse idriche, rispetto ad una serie di problemi: perdita di biodiversità, possibile aumento di reazioni allergiche tra i consumatori; potenziale rischio che la coltivazione di Ogm possa privare gli agricoltori dei diritti di proprietà, regalando un controllo molto ampio alle industrie farmaceutiche. Se persino le soluzioni tecniche (che di solito sono accettate con meno problemi in quanto “neutre”) incontrano tanto scetticismo, è allora evidente che prima di raggiungere un accordo su quale strada imboccare per una migliore gestione delle risorse idriche, saranno necessarie ancora molte negoziazioni e conferenze internazionali. Nel frattempo, le decisioni continueranno a puntare a delle soluzioni a livello locale. Il Vertice di Johannesburg riflette questa situazione: il risultato più concreto raggiuntovi è un progetto per la costruzione di una rete sanitaria per mezzo miliardo di cittadini africani (“Africa Water Facility”), con finanziamenti di Unione Europea, Stati Uniti e altri Paesi. Questo progetto, peraltro importante e apprezzabile, ha lasciato l’impressione di non essere stato altro che una forzata concessione a fronte del mancato varo di una qualche misura su un uso più sostenibile dell’acqua. C’è ormai solo da sperare che la discussione di tali misure sia inserita nell’agenda del prossimo Forum mondiale sull’acqua. Il risultato minimalista di Johannesburg non è dovuto solo ai problemi interni di governance dei Pvs, o alla difficoltà di compiere valutazioni sui temi dello sviluppo sostenibile e della fame. Una causa determinante è stata anche la mancanza di volontà politica, da parte dei Paesi occidentali, di lavorare per un cambiamento di tipo strutturale. Il deficit di attenzione alla questione idrica si può spiegare con il fatto che, diversamente da quanto accade in tanti Pvs, l’offerta d’acqua nei Paesi occidentali è in teoria sufficiente. Però, con il crescente impatto 212 2003: anno internazionale dell’acqua delle alterazioni climatiche su quest’ultima, potrebbe cambiare qualcosa. Nella percezione dei Paesi occidentali, pertanto, sono i cambiamenti climatici ad aver messo a fuoco le cause dei problemi idrici e, in particolare, l’importanza di una migliore gestione dell’acqua a fronte di condizioni sempre più estreme. A rinforzare questa percezione, hanno contribuito da un lato la serie di allagamenti nel nord d’Europa e le inondazioni lungo le coste Americane, e dall’altro le forti carenze idriche dell’area mediterranea e l’estrema siccità che nel 2002 ha riguardato il 37% della superficie Statunitense. In Italia, questi problemi sono tutti presenti e costituiscono le realtà con cui l’agricoltura deve fare i conti. Per quanto riguarda le carenze idriche (tipiche del Mezzogiorno, ma particolarmente acute in Sicilia, Sardegna, Basilicata, Puglia, e Umbria), la situazione ha raggiunto dimensioni serie: del volume massimo di acqua disponibile per il consumo (155 miliardi di metri cubi), più di due terzi vanno persi. Le ragioni sono soprattutto di tipo gestionale, e vanno dalle perdite durante la fase di raccolta idrica all’inefficienza nell’accumulo di riserve e nella distribuzione, dove in particolare la rete idrica funziona male per mancanza di manutenzione. Infine, prelievi abusivi della rete, effettuati in modo più o meno organizzato, diminuiscono ulteriormente la quantità d’acqua che arriva a destinazione. Durante i periodi di siccità, questa situazione porta a un’offerta insufficiente, con forti danni ad attività economiche come l’agricoltura. Di conseguenza, tanti agricoltori nel Mezzogiorno (65%) si sono trovati costretti a ricorrere alla costruzione di pozzi privati e abusivi che, tuttavia , abbassano ulteriormente il livello della falda. In condizioni normali, l’agricoltura Italiana assorbe il 50% dell’offerta idrica effettiva (Cnr 2000). Da parte loro, gli agricoltori potrebbero contribuire a ridurre la discrepanza tra domanda e - offerta effettiva, abbassando il tasso di consumo. Margini di miglioramento vi sarebbero, attraverso l’introduzione di coltivazioni che richiedono meno acqua, o attraverso l’uso di nuove tecnologie e metodi d’irrigazione più efficienti. Per esempio, l’introduzione dell’aeroponica – un metodo recentemente sviluppato in Spagna che consente densità di raccolto più elevate con consumi d’acqua molto inferiore ai livelli attuali 1 potrebbe essere vantaggiosa specialmente per le coltivazioni in serra. Per realizzare interventi volti ad una migliore gestione generale dell’acqua, in ogni caso, occorrerebbero investimenti da parte sia degli agricoltori che dello Stato. E qui sta il nocciolo del problema, che sarà (1) Con questo metodo, ad esempio, la raccolta di pomodori al metro quadro sarebbe di 120 kg l’anno con soli 6 litri d’acqua, mentre la raccolta normale media è di 40 kg con 70 litri. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 213 difficile da rimuovere a breve termine. A livello nazionale, sebbene non manchino le idee per accrescere l’approvvigionamento idrico (come dimostra il progetto di un acquedotto sottomarino per trasportare l’acqua dall’Albania all’acquedotto pugliese), i finanziamenti latitano o si limitano ad interventi ad hoc. Per esempio, in reazione allo stato d’emergenza dovuto alla siccità estrema del 2002 nel sud d’Italia, sono stati messi a disposizione da parte dello Stato 500 milioni di Euro per finanziare, tra le altre cose, urgenti lavori di manutenzione della rete. A livello comunitario c’è un altro problema: sebbene siano disponibili numerosi finanziamenti per la gestione dell’acqua, come ad esempio per la modernizzazione della rete idrica 2, l’allocazione di questi fondi a livello nazionale o regionale incontra ostacoli di tipo politico. Fra tali ostacoli vi è il gran numero di istituzioni e soggetti che si occupano della gestione dell’acqua, che rendono quasi impossibile il coordinamento di attività e risorse. Finora la legislazione europea non è stata in grado di sradicare questo stato di cose, sottolineando peraltro le difficoltà di natura istituzionale presenti nella gestione italiana dell’acqua. Un esempio significativo è costituito dalla più recente Direttiva Quadro sulle risorse idriche (2000/60/Ce), che punta ad una diminuzione sostanziale dell’inquinamento dell’acqua entro il 2015, attraverso una stretta cooperazione tra i Paesi membri. A tutt’oggi, però, la Direttiva ha portato, da un lato, ad un aumento del numero di leggi nazionali (vedi il decreto 258/2000, che stabilisce nuove norme per il livello nell’acqua di sostanze dannose, come ad esempio i nitrati), e, dall’altro, ad un ritardo nell’attuazione delle leggi già in vigore. È il caso della legge Galli, adottata nel 1994 con l’obiettivo di rendere più efficaci gli aspetti istituzionali del settore idrico, attraverso l’introduzione degli Ambiti Territoriali Ottimali (Ato), enti regionali per lo sviluppo di progetti di ristrutturazione dei sistemi idrici. L’attuazione di questa legge - già gravata di evidenti problemi, visto che dopo 9 anni un solo Ato è stato costituito e le ristrutturazioni della rete idrica non sono state ancora avviate - ha subito un ulteriore ritardo con la recente esigenza di integrarvi istanze ambientali, e di istituire a tal fine nuove Commissioni. Il ritardo d’attuazione della legge Galli ostacola i piani di privatizzazione del settore come soluzione al problema dell’inefficienza. Questi, che dovrebbero essere facilitati dagli Ato, prevedono la gestione dei servizi idrici da parte di un gruppo di imprese private che finanzino progetti per la realizzazione di depuratori e dissalatori e per la ristrut(2) Necessaria perché solo l’85% delle case (e in certe regioni soltanto il 33%) ha accesso alla rete fognaria, mentre solo il 75% delle acque reflue viene depurato. 214 2003: anno internazionale dell’acqua turazione di dighe e condotte. Se tale privatizzazione andasse a buon fine, senza dubbio l’offerta effettiva d’acqua aumenterebbe. Nello stesso tempo, tuttavia, anche il prezzo dell’acqua vedrebbe un incremento notevole, visto che le imprese aspirerebbero ad un ritorno dei loro investimenti. In questo modo, i prezzi medi dell’acqua italiana, che adesso sono ancora relativamente bassi, si adeguerebbero alla media europea. I prezzi nel Mezzogiorno diventerebbero però relativamente alti, privando gli agricoltori di margini d’investimento in metodi più efficienti di consumo d’acqua. Prima di continuare a spingere per questa opzione, sarebbe allora opportuno studiare le possibilità di aumentare l’offerta idrica attraverso servizi pubblici più efficienti e un coinvolgimento maggiore degli attori locali. Per quest’anno, vi sono grandi aspettative legate al 3° Forum mondiale sull’acqua che si terrà a Kyoto a marzo. Nonostante i problemi idrici nei Pvs e nei Paesi occidentali siano simili, e le loro possibili soluzioni richiedano necessariamente un approccio globale, resiste la percezione diffusa che vadano prioritariamente risolte questioni di livello regionale e locale. Se non che, purtroppo, le soluzioni locali sono spesso di tipo tecnico o volte a rimuovere gli effetti piuttosto che le cause. Ciononostante, durante il 2003 saranno sicuramente stanziati nuovi finanziamenti per progetti relativi all’offerta d’acqua. Invece di aspettare un accordo a livello internazionale su come arrivare ad un uso dell’acqua più sostenibile, gli attori locali potrebbero cogliere quest’occasione per avviare dei cambiamenti strutturali. Per gli agricoltori italiani, sarebbe opportuno prepararsi per tempo. Riferimenti bibliografici Fao, World Agriculture: Towards 2015/2030, Fao, Roma, agosto 2002. Nazioni Unite, Crops and Drops, Rapporto per il Secondo Forum mondiale dell’acqua, Agenda 21 Land and Water division, L’Aia, 17-22 marzo 2000. Nazioni Unite, Global Challenge, Global Opportunity, Rapporto per il Vertice sullo sviluppo sostenibile 2002, Dipartimento di Affari Economici e Sociali, Nazioni Unite, New York, 2002. Roche P-A., “L’eau au XXIe siécle: enjeux, conflits, marché”, Ramses, Les Grandes Tendances du monde, Inra, Parigi, 2001. Rosegrant M.W., Cai Ximing, S.A. Cline, Global Water Outlook to 2015, Averting an impending crisis, A 2020 Vision for Food Agriculture and the Environment Initiative, International Food and Policy Research Institute, Washington Dc, USA e International Water Management Institute, Colombo, Sri Lanka, 2002. Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 215 Stampato nel mese di maggio 2003 Tutti i diritti riservati © Edizioni Tellus srl