Le prospettive della politica agricola europea

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Le prospettive della politica agricola europea
SOMMARIO
Introduzione
pag.
3
Le prospettive della politica agricola europea
Franz Fischler
”
5
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
Fabrizio De Filippis
”
13
Il futuro delle politiche agricole
Bertrand Hervieu
Hervé Guyomard
Jean-Christophe Bureau
”
27
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
Luis Miguel Albisu
Azucena Gracia
”
55
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
Leo Maier
Mikitaro Shobayashi
”
87
Esiste una “nuova politica rurale”?
John M. Bryden
”
117
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
Lauro Panella
”
141
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
Jules Pretty
”
165
L’azione multilaterale contro la fame nel mondo
Piero Conforti
”
201
2003: anno internazionale dell’acqua
Marjoleine Hennis
”
209
1
INTRODUZIONE
Questa prima pubblicazione della serie dei “quaderni” del Forum
Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, promosso ogni
anno dalla Coldiretti in collaborazione con Ambrosetti, è dedicata al
tema della rigenerazione dell’agricoltura così come essa viene studiata e percepita nella migliore pubblicistica internazionale. Il nostro obiettivo è quello di “sprovincializzare” il dibattito italiano proprio
sulla scia del forte impulso che la Coldiretti ha dato in Italia al tema
della “rigenerazione” come pre-condizione di una riforma della politica agricola europea che finalmente ponga al centro dei suoi obiettivi
i temi della sicurezza e della qualità alimentare. In questo primo quaderno, come negli altri che seguiranno, abbiamo privilegiato senza alcun dubbio la qualità e la completezza dei contributi rispetto ad esigenze, che pure sentiamo necessarie, di coerenza ed organicità politico-culturale. Questo a testimonianza del carattere aperto di un’iniziativa editoriale che si ispira allo spirito del confronto che è base ed alimento indispensabile del Forum.
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Le prospettive
della politica agricola europea
Franz Fischler
La politica agricola, nel XXI secolo, deve certamente tenere conto
di tutta la catena alimentare, da coloro che sono a monte dell’attività
di produzione agricola, fino ai singoli consumatori e alle loro richieste
ed esigenze.
Solo prendendo in considerazione il quadro globale potremo comprendere pienamente il ruolo che l’agricoltura deve svolgere nella società moderna, un ruolo che include il rispetto dell’ambiente, le preoccupazioni etiche e sociali, oltre alla funzione economica più tradizionale di produrre alimenti e di fornire un reddito ai coltivatori.
In questa sede cercherò di analizzare la situazione generale dalla
prospettiva politica dell’Unione Europea; esaminerò inoltre il quadro
internazionale e in particolare la nostra posizione nel Wto e nei prossimi incontri a Doha. Infine, farò riferimento alla sfida posta dall’allargamento dell’Unione Europea dei 15 ad altri 12 Stati membri.
Il progresso scientifico e tecnologico sta spingendo le frontiere dell’agricoltura sempre più in avanti a grande velocità, il caso degli Ogm
indica quanto questo mutamento possa essere rapido e controverso. La
questione sollevata dagli Ogm rappresenta anche un ottimo esempio
dell’importanza che dobbiamo attribuire all’opinione pubblica e alle
preoccupazioni dei cittadini.
Si rileva una chiara spaccatura fra il desiderio del settore imprenditoriale agroindustriale di diventare più redditizio e più efficiente, e la
convinzione di alcuni consumatori che un certo numero di pratiche agricole non sono necessarie e potrebbero mettere in discussione la sicurezza degli alimenti o la sostenibilità ambientale. Le esperienze fatte
con la Bse, a proposito dell’uso di alimenti di origine animale per il
Intervento al Convegno Rigenerando l’agricoltura nella nuova società, Cernobbio, 19-20 ottobre
2001.
Franz Fischler è Commissario europeo per l’Agricoltura, lo Sviluppo Rurale e la Pesca.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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bestiame, hanno fatto ben poco per rassicurare l’opinione pubblica sul
fatto che le ragioni del profitto non debbano portare a trascurare la sicurezza alimentare. In particolare, nel caso del mercato del bestiame
bovino, in Italia quest’anno il consumo è diminuito in maniera rilevante. Ci si augura che le lezioni della Bse siano state apprese. Tuttavia, la nostra più recente indagine dell’Eurobarometro dimostra che i
consumatori nell’Unione Europea sono ancora ansiosi e confusi. Tale
mancanza di fiducia nei cosiddetti “metodi industriali” ha avuto come
risultato la domanda sempre più diffusa di particolari tipi di produzione, come ad esempio l’agricoltura biologica, anche qui in Italia, dove
già si conta il più alto numero di aziende agricole biologiche dell’Unione Europea.
Ritengo sia essenziale che i coltivatori rispondano alla domanda dei
consumatori, ma riconosco anche che determinati tipi di produzione di
qualità potranno riempire soltanto delle nicchie di mercato. Indipendentemente da quali possano essere i metodi di produzione, in qualità
di responsabili politici dobbiamo accertarci che tutti i prodotti siano
sicuri. A tale riguardo la tracciabilità svolge un ruolo importante.
L’equilibrio che è necessario raggiungere fra il progresso tecnologico e le opinioni e le esigenze dei consumatori deve essere visto nel
contesto della Pac, come definito in Agenda 2000.
Vorrei ricordare gli obiettivi definiti a Berlino:
• creare un settore agricolo competitivo, che possa far fronte progressivamente ai mercati mondiali senza essere eccessivamente sovvenzionato;
• promuovere metodi di produzione ecocompatibili che portino alla
realizzazione di prodotti di qualità - e in questa definizione intendiamo far rientrare anche i prodotti “sicuri”;
• garantire livelli di vita equi e stabilità di reddito alla comunità agricola;
• garantire la diversità delle forme di agricoltura, conservando il paesaggio e sostenendo le comunità rurali;
• giustificare il sostegno dato ai settori agricoli attraverso l’offerta di
servizi che l’opinione pubblica si aspetta vengano forniti dai coltivatori.
Quando parliamo di una “agricoltura che possa far fronte progressivamente ai mercati mondiali senza essere eccessivamente sovvenzionata”, occorre sottolineare l’importanza del concetto: “eccessivamente
sovvenzionata”. In passato avevamo una politica che garantiva la fornitura di alimenti prodotti a livello nazionale, pagando i coltivatori per
le quantità di alimenti che essi producevano. Si attribuiva poca importanza al modo in cui i coltivatori producevano questi alimenti, e al fat-
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Le prospettive della politica agricola europea
to che i metodi moderni di coltivazione avevano un impatto negativo
sull’ambiente.
Negli ultimi dieci anni la nostra politica ha abbandonato il sostegno
alla produzione in favore di una forma più disaccoppiata di sostegno,
che riconosce l’importanza del ruolo dei coltivatori nella comunità rurale, ma che può anche imporre condizioni produttive dietro pagamento.
Oggi, il 70 per cento del bilancio agricolo va direttamente ai coltivatori; secondo la vecchia Pac, il 90 per cento veniva speso per montagne di cibo e laghi di vino. Ciò che abbiamo fatto è stato costruire una
vera politica di sviluppo rurale, definita anche il “secondo pilastro”
della Pac. Con questa politica stiamo sostenendo le comunità rurali e
le misure ambientali, e la sua importanza è cresciuta in maniera rilevante e certamente continuerà a crescere.
Per quanto riguarda l’Italia, la Commissione europea ha approvato i
programmi di sviluppo rurale preparati dalle Regioni italiane. Tocca
alle Regioni mettere in evidenza gli elementi particolarmente importanti per loro. L’Unione Europea non interferisce in tali questioni. Ciò
che essa fa è contribuire ampiamente al bilancio dei programmi: dal
2000 al 2007, saranno erogati 7,5 miliardi di Euro in favore dello sviluppo rurale in Italia.
LA REVISIONE DI MEDIO TERMINE
Se prendiamo in considerazione le preoccupazioni dei cittadini europei e le confrontiamo con gli obiettivi di Agenda 2000, possiamo mettere in evidenza un’assoluta coincidenza e non è quindi necessario
modificare gli obiettivi. Tuttavia dobbiamo chiederci se i nostri strumenti sono adeguati a raggiungere questi obiettivi ed è lo scopo della
revisione di medio termine del prossimo anno. Se ci renderemo conto
che alcuni dei nostri strumenti non stanno funzionando abbastanza bene, suggeriremo rettifiche affinché la nostra politica possa funzionare
in modo più efficiente.
Quando esaminiamo gli strumenti attuali, dobbiamo rivolgerci in
particolare le seguenti domande: stiamo facendo abbastanza per lo sviluppo rurale? Stiamo facendo abbastanza per migliorare la qualità dei
prodotti? Oppure la Pac si sta ancora concentrando troppo sulla quantità? Le nostre risorse di bilancio vengono distribuite in maniera appropriata fra i diversi settori? Oppure dovremmo spostare una parte
maggiore del nostro bilancio a sostegno di misure che non distorcano
il commercio, in modo che esse siano accettabili anche nel contesto
internazionale?
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La revisione di medio termine non sarà guidata dal Wto o dall’allargamento. Tuttavia, se le modifiche che ci proponiamo di attuare faciliteranno il negoziato Wto o saranno utili per risolvere i problemi del
processo di allargamento, tanto meglio.
A prima vista, alcune delle nostre priorità per il futuro dell’agricoltura potrebbero sembrare incompatibili fra loro. Una grande apertura
ai mercati potrebbe sembrare in conflitto con il nostro obiettivo di
mantenere il reddito degli agricoltori. Anche il fatto di imporre ai coltivatori condizioni di benessere ambientale e animale potrebbe sembrare in contrasto con la necessità di ridurre i costi di produzione per
essere più competitivi. Ciononostante ritengo che, se l’agricoltura
vuole abbandonare l’impostazione di base seguita negli anni ’70 e negli anni ’80, dovrebbe essere consentito ai mercati di funzionare in
maniera più libera.
Le ricompense per aver risposto alla domanda di prodotti di qualità,
espressa dai consumatori, sono già state ottenute dai coltivatori di tutta
Europa. I nostri vini, i nostri formaggi e gli altri prodotti di qualità come ad esempio l’olio di oliva - vengono esportati in tutto il mondo.
Un settore economicamente sostenibile, che non si preoccupi costantemente della prossima sovvenzione che potrebbe ottenere, si troverà anche nelle condizioni migliori per rispondere alle domande ambientali
ed etiche dei nostri cittadini. Realizzare prodotti di qualità rappresenta
solo una parte del lavoro, dobbiamo anche garantire che la qualità dei
prodotti possa essere riconosciuta dal consumatore. È per questo motivo che abbiamo bisogno di regole di etichettatura chiare. Abbiamo anche bisogno di proteggere i nomi che identificano metodi di produzione particolari, legati ad una certa zona geografica. I prodotti alimentari
italiani si sono conquistati una reputazione solida in tutto il mondo con
i nomi Chianti, Parmigiano, Prosciutto di Parma o Prosciutto di San
Daniele. L’Unione Europea avrà cura che alla dicitura “formaggio parmigiano” corrisponda effettivamente un formaggio parmigiano, e non
un formaggio prodotto in una qualsiasi altra parte del mondo.
POLITICA PER LO SVILUPPO RURALE
È necessario considerare l’agricoltura come parte del più ampio sistema economico rurale e promuovere un’agricoltura sostenibile. Ciò
significa un’agricoltura che sia sostenibile non soltanto sul piano ecologico, ma anche a livello economico e sociale. Dobbiamo usare la nostra politica di sviluppo rurale affinché i coltivatori producano in modo
ecocompatibile e contribuiscano alla conservazione dei nostri paesaggi
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Le prospettive della politica agricola europea
- paesaggi essenzialmente fatti dall’uomo, creati da generazioni di coltivatori in centinaia di anni -. Questo paesaggio è parte della nostra eredità culturale, così come lo sono le città e i centri storici. Basti pensare al paesaggio collinare delle coltivazioni in Toscana, ai terrazzamenti della Sicilia e ai pascoli montani del Trentino o dell’Alto Adige.
Se vogliamo che la nostra politica agricola sia accettata dalla maggior parte dei cittadini, essa deve offrire una risposta seria ai problemi
e alle sfide che il mondo rurale si trova ad affrontare. I timori riguardo
alla sicurezza alimentare e ai metodi di produzione devono essere mitigati incoraggiando l’industria agricola ad intraprendere un cammino
che la metta in condizione di rispondere alla domanda di metodi di
coltivazione ecologicamente validi. Ritengo che si stiano già facendo
passi rilevanti in questa direzione, e ritengo che potremo essere da esempio per tutte le altre Nazioni del mondo.
Avviarsi verso un’agricoltura sostenibile, tuttavia, non va confuso
con il ritorno a metodi superati e inefficienti. Dobbiamo certamente allontanarci dall’uso, dannoso all’ambiente, dei fertilizzanti o dei pesticidi, che ha caratterizzato l’agricoltura moderna, ma se vogliamo sviluppare ulteriormente i nostri metodi di coltivazione è necessario approfittare delle tecnologie e delle ricerche più recenti. Ad esempio, dovremmo incoraggiare e favorire l’uso di tecniche sofisticate ma naturali di lotta agli insetti, ai parassiti, senza ricorrere ai pesticidi chimici.
La rotazione agricola e l’uso intelligente del letame possono sostituire
i fertilizzanti inorganici, almeno in una certa misura. Il trasporto degli
animali, fatto nel rispetto del loro benessere, riduce al minimo i fattori
di stress e migliora la qualità della carne. Le Università e gli Istituti agricoli, così come le Organizzazioni agricole, possono svolgere un
ruolo di importanza vitale per aiutare i coltivatori a rigenerare l’agricoltura, abbandonando il passato e muovendosi verso un futuro che sia
sostenibile e che risponda alle esigenze morali dei cittadini, i quali non
sempre vedono le cose dallo stesso punto di vista dei coltivatori.
Wto
Vorrei approfondire alcuni aspetti internazionali della Pac. Abbiamo
tutti un interesse reale affinché il commercio internazionale segua regole chiare e giuste. Come maggiore importatore e secondo maggior
esportatore di prodotti agricoli, l’Unione Europea condivide pienamente questo interesse.
Naturalmente, non è sufficiente liberalizzare gli scambi e ignorare
questioni importanti, quali l’ambiente, la protezione dei consumatori e
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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regole migliori di concorrenza e investimento. Il libero commercio
non può durare senza un sistema di scambio basato su regole condivise e rispettate. Dobbiamo inoltre prendere in considerazione gli interessi dei Paesi in via di sviluppo, molto più di quanto non abbiamo fatto in passato. Sono favorevole al lancio di una nuova fase che affronti
questioni di tale importanza.
Esaminando alcuni sviluppi attuali, non nascondo la preoccupazione che si possano ripetere alcuni errori del passato. Benché l’Unione
Europea abbia espresso una posizione giusta e bilanciata nei negoziati agricoli, molti dei nostri partner sembrano fermi su posizioni inflessibili. Mi chiedo in che modo il round potrà raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi se il Congresso Usa dà il via ad un altro pacchetto di
aiuti agli agricoltori, che porterà a sovvenzioni dirette pagate ai coltivatori Usa quattro volte più alte di quelle pagate ai coltivatori dell’Unione Europea. Isolare i coltivatori Usa dai segnali del mercato ci riporta indietro e non può essere un fattore positivo per il negoziato Wto. Per quale ragione, inoltre, il Gruppo di Cairns insiste nel trattare
l’agricoltura come tutti gli altri settori industriali, quando è del tutto
evidente che l’agricoltura non è mai stata - e non sarà mai - un settore
come gli altri? Ogni società democratica deve, comunque, poter scegliere il proprio modello di politica agricola. Nella nostra posizione
negoziale all’interno del Wto, ci dichiariamo disponibili ad una ulteriore liberalizzazione, a condizione che tutti i Paesi progrediscano insieme e traggano profitto da un miglioramento del commercio. Diciamo «sì» anche ad ulteriori riduzioni delle sovvenzioni alle esportazioni, a condizione che tutte le altre forme di aiuti all’esportazione che
distorcono il commercio - e che sono usate dai nostri partner commerciali - siano sottoposte a regole Wto equivalenti. Ciò include i
crediti all’esportazione, le imprese commerciali di Stato e l’abuso di
aiuti alimentari. Possiamo anche prendere in considerazione ulteriori
tagli ai sostegni all’agricoltura che provocano distorsioni al commercio interno, ma solo a condizione che sia possibile continuare a finanziare i servizi forniti dall’agricoltura non direttamente legati alla produzione alimentare, quali ad esempio la protezione ambientale, la
conservazione del paesaggio e il ruolo positivo svolto dagli agricoltori nell’ambiente rurale.
Il commercio mondiale porta ad una situazione “vincitore - vincitore” quando tutte le parti in causa traggono vantaggio dall’aumento degli scambi. Un negoziato che produce vincitori e perdenti, generalmente non riesce a portare ad un accordo o non riesce ad essere ratificato. Tuttavia, ritengo che saremo in grado di rispondere presto alle
condizioni preliminari per avviare colloqui produttivi.
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Le prospettive della politica agricola europea
ALLARGAMENTO
Mentre i negoziati del Wto comprendono i partner di tutto il mondo,
stiamo conducendo contemporaneamente negoziati con i nostri immediati vicini, negoziati per l’allargamento storico dell’Unione Europea
ad Est e a Sud. Se tutto andrà bene, vivremo in una comunità che accoglierà fino a 12 nuovi Stati membri, la maggior parte dei quali ha
forti interessi agricoli. Ciò rappresenta non solo una sfida, ma anche
un’opportunità per i coltivatori e per le imprese agroindustriali dell’Europa unita, dell’Est e dell’Ovest. I Paesi candidati dovranno prima
adottare la legislazione Pac esistente, o il cosiddetto acquis communautaire. Ciò significa che dovranno anche adeguare il loro settore agroalimentare alle norme sanitarie dell’Unione Europea. Il passaggio
richiede dunque una considerevole volontà politica e una notevole capacità amministrativa. La data d’ingresso dipende dall’adozione dell’acquis, dalla creazione del necessario quadro istituzionale richiesto
per la sua applicazione, e dall’implementazione effettiva.
Un altro passo in questo processo è la rimozione delle barriere al
commercio agroalimentare fra l’Unione Europea e i Paesi candidati.
Abbiamo concluso i cosiddetti “accordi a doppio zero”, che portano
ad una liberalizzazione graduale, in varie fasi, tra i vecchi Stati membri e i futuri Stati membri. Tale apertura dei confini significa che entrambe le parti possono trarre vantaggio dal miglioramento del commercio.
Non bisogna dimenticare che i nuovi Stati membri rappresentano
mercati importanti per i prodotti agroalimentari europei, e un numero
sempre crescente di prodotti italiani troverà nuovi consumatori nei
Paesi candidati. Inoltre, gli “accordi a doppio zero” non saranno positivi soltanto per i commerci reciproci, faciliteranno anche l’allargamento in sé, preparando le parti ad un’apertura completa dei mercati.
Le considerazioni sin qui esposte potrebbero essere sintetizzate nella
frase: “tastare il polso della Pac”; sarebbe un titolo appropriato per
questa relazione poiché il nostro ruolo può benissimo essere paragonato a quello di un buon medico. Come un buon medico esamina il suo
paziente, noi dobbiamo esaminare il corpo e la mente della Pac alla luce della sua interazione con la società.
La mia diagnosi medica è che la situazione della Pac sta migliorando. Il processo di rigenerazione è cominciato all’inizio degli anni ’90,
ed è continuato sotto Agenda 2000, con una chiara risposta da parte
dei coltivatori e dei politici di tutta Europa alle preoccupazioni espresse dai cittadini. Tuttavia, anche se il paziente ha il polso forte, dobbiamo prepararlo come prepareremmo un atleta ad affrontare una sfida.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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Le misure che dovremo prendere serviranno a potenziare gli strumenti
disponibili per raggiungere meglio gli obiettivi decisi a Berlino. Dobbiamo compiere altri passi in avanti e abbandonare il mercato tradizionale in favore delle misure di sviluppo rurale, in modo da rafforzare il
secondo pilastro della Pac. Dobbiamo, in particolare, rivolgere maggiore attenzione alle preoccupazioni ambientali, ai temi della qualità e
della sicurezza alimentare.
Se non saremo buoni medici, c’è il rischio di decretare la fine dell’agricoltura europea. La scelta spetta a noi. Il prossimo appuntamento è la revisione di medio termine: non sarà una riforma, bensì un aggiornamento. In questo contesto, non dimentichiamo: “l’Unione fa la
forza”.
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Le prospettive della politica agricola europea
La riforma della Pac dopo
il compromesso di Bruxelles
Fabrizio De Filippis
LA CRISI DELL’AGRICOLTURA E DELLA POLITICA AGRARIA
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L’agricoltura dei paesi più sviluppati - ed in particolare l’agricoltura
europea - è stata protagonista nell’ultimo mezzo secolo di un processo
di crescita e di modernizzazione senza precedenti: massicci fenomeni
di esodo dalle campagne, ristrutturazione e riconversione produttiva,
assorbimento di progresso tecnico a ritmo accelerato, aumenti spettacolari della produttività per ettaro e per addetto, crescente integrazione
con i settori a monte e a valle.
L’insieme di questi fenomeni ha letteralmente cambiato il volto dell’agricoltura, aumentando il benessere degli agricoltori, assicurando ai
cittadini un flusso crescente e differenziato di derrate alimentari,
creando o mantenendo in molte zone rurali a rischio di abbandono un
tessuto socio-economico vitale. Tutto ciò è avvenuto anche grazie ad
un robusto intervento pubblico che, con una pervasiva azione di stabilizzazione dei mercati agricoli volta a difendere le ragioni di scambio
del settore e a sostenere i redditi degli agricoltori, ha contribuito a ridurre i costi di aggiustamento ed il grado d’incertezza insiti in tutti i
grandi processi di cambiamento sociale ed economico.
Nel caso specifico dell’Unione Europea, inoltre, la politica agricola
comune (Pac) ha avuto anche un ruolo fondante nel processo di inteLavoro realizzato nell’ambito del Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse
Nazionale sul tema “Il nuovo negoziato agricolo nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ed il processo di riforma delle politiche agricole dell’Unione Europea”,
co-finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica; Unità
di Ricerca: Università degli studi Roma Tre (coordinatore scientifico: Prof. Fabrizio De
Filippis).
Fabrizio De Filippis è professore di Economia Agraria all’Università degli Studi Roma Tre,
Facoltà di Economia.
(1) Il testo di questo paragrafo è in larga parte tratto da De Filippis, 2002b.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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grazione comunitaria assumendo, fin dai primi anni sessanta, la veste
di politica-pilota, una sorta di laboratorio in cui sperimentare la gestione di un intervento settoriale forte a livello sovra-nazionale (De Filippis e Salvatici 1997).
Nonostante questo glorioso passato, è noto come, già negli anni ottanta, l’evoluzione dell’agricoltura e (soprattutto) della politica agraria abbia incominciato a creare problemi sempre più gravi: eccedenze
di produzione, spesso associate ad evidente spreco di risorse, costi
crescenti per il bilancio pubblico, lamentele da parte degli stessi agricoltori sugli squilibri e sull’eccessiva complicazione dell’intervento
pubblico nel settore, contenziosi internazionali in seno al Gatt ed al
Wto, dispute interne all’Unione Europea. Inoltre, le crisi alimentari
che si sono succedute negli anni più recenti e la crescente sensibilità
ambientale dell’opinione pubblica, hanno messo esplicitamente sotto
accusa la sempre più spinta intensificazione produttiva dell’agricoltura, alimentando una preoccupante crisi di fiducia sulle capacità del
settore di produrre cibi sani e di qualità, con metodi rispettosi dell’ambiente. E la politica agraria - in particolare la Pac - è stata spesso
indicata come la principale responsabile di una tale evoluzione tecnologica e produttiva dell’agricoltura, percepita come pericolosa ed indesiderabile.
Come è stato efficacemente argomentato, queste accuse alla politica agraria sono, almeno in parte, frutto di semplificazioni eccessive,
che possono alimentare pericolose confusioni (Salvatici 2001;
Buckwell 2002); è infatti difficile pensare che la politica agraria - per
quanto distorsiva ed inefficiente essa possa essere - sia la causa principale di un processo di intensificazione e standardizzazione produttiva che ha radici ben più profonde: un processo che non interessa solo
il settore agricolo, che si diffonde su scala planetaria anche in paesi
dove la politica agraria è molto più leggera e che alligna, all’interno
dell’agricoltura, anche in comparti poco o nulla sostenuti dall’intervento pubblico 2.
Nonostante questa precisazione, è comunque giusto accusare la politica agraria di non avere sufficientemente contrastato o governato le
conseguenze indesiderabili di tale processo di intensificazione, e di aver fatto troppo poco per mantenere o ristabilire la fiducia tra produttori e consumatori; ed è più che legittimo accusarla, anche su questo
fronte, di essere troppo a lungo rimasta ancorata ad un modello di so(2) Nel caso dell’Ue basti pensare agli allevamenti di suini e di pollame che, pur non essendo sostenuti e protetti dalla Pac, sono tra le produzioni più interessate da processi d’intensificazione produttiva e da fenomeni di inquinamento.
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La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
stegno obsoleto e non più rispondente alle domande provenienti dalla
società.
Dunque, è proprio questo il nocciolo della crisi attuale, che in questo
senso non è azzardato definire epocale: la coscienza ormai consolidata
di essere nel mezzo di una lunga e difficile fase di transizione da un
vecchio ad un nuovo paradigma di politica agraria; di dover modificare nel profondo l’impianto di un intervento pubblico chiaramente inefficiente ed obsoleto, in un contesto in cui molti dei beneficiari della
vecchia politica ergono robuste difese al cambiamento ed i contenuti
della nuova politica appaiono ancora incerti e tutti da sperimentare
(De Benedictis e De Filippis 1998).
Questo travaglio è chiaramente leggibile nel lungo processo di revisione della Pac, iniziato già nella seconda metà degli anni ottanta, confermato e rafforzato dal cosiddetto pacchetto MacSharry del 1992,
proseguito con le decisioni del vertice di Berlino del marzo 1999 di Agenda 2000, ed oggi in pieno svolgimento con il dibattito sulle proposte presentate dalla Commissione (Commissione Europea 2002b) nel
quadro della cosiddetta Mid-term review (revisione di medio termine)
3
.
LA RIFORMA DELLA PAC ED IL RUOLO SCOMODO DEI RIFORMISTI
Nell’intenso dibattito che da anni accompagna il processo di revisione della Pac, sembra ormai esservi un certo accordo su quali dovrebbero essere i suoi nuovi obiettivi; anche se (o forse proprio perché…)
essi sono formulati in termini molto generici, e genericamente associati alla difesa del “modello di agricoltura europeo” e ad una non bene identificata “multifunzionalità” dell’agricoltura 4: concetti, entrambi,
molto ambigui, al cui interno può starci un po’ di tutto, e dai quali non
è facile far discendere specifiche azioni di politica agraria. Molto meno chiari e condivisi sono, infatti, gli strumenti con cui perseguire i
nuovi obiettivi, anche perché per alcuni dei nuovi obiettivi - si pensi al
rispetto di standard ambientali o di requisiti di sicurezza alimentare - è
molto dubbio che il loro perseguimento sia di competenza della politi(3) La Mid-term review è un passaggio che era esplicitamente indicato nelle decisioni di riforma
della Pac di Agenda 2000, valide fino al 2006; queste, appunto, prevedevano che la Commissione presentasse nel 2002 un documento sulla “revisione di medio termine”, volto a monitorare il percorso di riforma della Pac ed eventualmente a proporre ulteriori modifiche.
(4) Sulle diverse definizioni e sull’ambiguo significato della multifunzionalità, anche in riferimento alla trattativa agricola in seno al Wto, si rimanda a Velazquez, 2001 ed al contributo di
Maier e Shobayashi pubblicato a pag. 87.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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ca agraria, ed è ancora più difficile pensare che esso debba tradursi
nell’erogazione di sussidi agli agricoltori.
Più in particolare, nel dibattito europeo sulla riforma della Pac, la
consapevolezza della crisi del vecchio modello di politica agraria, ormai ampiamente diffusa tra tutti gli attori in gioco, genera tre diversi
atteggiamenti.
In primo luogo, vi è un atteggiamento che si potrebbe definire vetero-ruralista, che si traduce nella strenua difesa dello status quo, volta
ad annacquare e a rinviare il più possibile ogni cambiamento, nella
convinzione che qualunque riforma della Pac sarebbe l’inizio della fine, destinato ad accelerare un processo irreversibile di perdita secca di
risorse finanziarie a danno dell’agricoltura. È comprensibile che questa posizione difensiva sia sostenuta dai paesi grandi beneficiari della
Pac e dai gruppi di interesse più tradizionali, le cui rendite di posizione rischierebbero effettivamente di essere messe in discussione; tuttavia si può notare come essa - in nome di un’ambigua solidarietà all’interno del “mondo agricolo” - sia spesso condivisa anche da chi, avendo sempre lamentato gli squilibri e le contraddizioni dell’attuale Pac,
dovrebbe essere obiettivamente interessato ad una riforma seria, capace di intaccare tali contraddizioni e tali squilibri.
All’estremo opposto, c’è una posizione di spinto neo-liberismo, fatta
propria da alcuni paesi dove l’agricoltura ha un ruolo modesto e dai
gruppi di interesse ad essa estranei, di chi vede nella crisi del vecchio
modello di politica agraria l’occasione storica per smantellare la Pac il
più presto possibile, per liberarsi di una politica costosa, inutile ed inefficiente, restituendo completamente e finalmente alle forze del
mercato la regolazione degli equilibri economici e sociali del settore.
Paradossalmente, questi due atteggiamenti estremi sembrano accomunati dalla convinzione che la Pac sia una politica, di fatto, non riformabile, e che dunque la partita stia tutta nel riuscire a fiaccare o
rinforzare - a seconda del punto di vista - la sua capacità di sopravvivenza, in vista di una resa dei conti più o meno lontana nel tempo, ma
comunque ineluttabile.
Tra questi due estremi, c’è un ampio spettro di posizioni che si possono definire “riformiste”, nel senso letterale del termine, sostenute da
parte di chi pensa che la riforma della Pac sia non solo possibile, ma
anche opportuna; di quanti - in verità, molti a parole, ma pochi nei fatti - intendono raccogliere la sfida, rivendicando l’esigenza di non
smantellare la Pac, ma di lavorare ad una sua riforma più o meno
profonda e radicale, capace di mettere la politica agraria europea al
passo con i tempi.
Si tratta di una posizione difficile e scomoda, ovviamente non omo-
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La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
genea, che nella sostanza è in aperto contrasto con entrambe le posizioni estreme prima descritte, delle quali spesso subisce i veti incrociati, ma che pure rischia, a seconda dei casi, di essere strumentalizzata dall’una o l’altra di esse. È chiaro, infatti, che sia i più strenui difensori dello status quo, sia i più accaniti fautori dello smantellamento
tout court della Pac, difficilmente si dichiarano per quello che sono,
mentre assai più spesso parlano in nome di una riforma, si mischiano
con i riformisti, stringono con essi alleanze spurie e provvisorie, rendendo in ultima analisi più difficile l’emergere di un progetto coerente
e convincente di cambiamento.
Inoltre, siccome la nuova Pac non si può scrivere a tavolino, al di
fuori del contesto che la genera e nel quale essa deve essere calata, anche tra i riformatori più sinceri pesa l’eredità conservatrice della vecchia Pac, il suo lento metabolismo, la sua tradizionale vischiosità ed il
suo inveterato gradualismo: l’abitudine a considerare le rendite di posizione come diritti acquisiti; l’incertezza associata al varo di nuovi
strumenti, e la conseguente preferenza per l’adattamento - invero non
sempre felice - di misure già almeno in parte collaudate; la paura di tirare troppo la volata alla posizione neo-liberista, rischiando di buttare
il bambino con l’acqua sporca; la difficoltà, infine, di proporre cambiamenti che spesso scambiano sacrifici immediati con benefici a lungo termine e che, dunque, sono inevitabilmente sgraditi nel “mercato
politico”, dove il tasso di sconto che si applica ai benefici futuri è in
genere molto alto. Qui, infatti, le regole dell’azione collettiva fanno
della miopia una virtù, ed “un uovo oggi” è sempre considerato preferibile ad “una gallina domani”: e ciò perché gli attori rilevanti - in particolare i policy makers - tendono (legittimamente e razionalmente, dal
loro punto di vista) a ragionare in un orizzonte temporale relativamente breve, quasi sempre troppo breve rispetto alla possibilità di assorbire i costi associati al cambiamento e di percepire e raccogliere i frutti
di una buona riforma.
LA MID-TERM REVIEW
Un esempio delle difficoltà che un approccio realmente riformista è
destinato ad incontrare sul terreno della Pac è offerto dal dibattito innescato dalle proposte presentate dalla Commissione nel luglio del
2002, nel quadro della revisione di medio termine di Agenda 2000. Un
dibattito che, grazie ad una proposta della Commissione decisamente
coraggiosa e molto più radicale di quanto ci si aspettasse, poteva costituire, anche a prescindere dai suoi esiti immediati, una buona occasio-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
17
ne per un confronto di alto profilo sul futuro della Pac: una riflessione
a tutto campo, in un orizzonte di lungo periodo, per definire le linee
della sua transizione verso una politica agraria più moderna, meglio adattabile alle esigenze di una Comunità a 25 paesi e compatibile con
una posizione non soltanto difensiva da parte dell’Unione Europea nel
negoziato in corso in seno al Wto.
In particolare, i punti più forti e qualificanti della proposta della
Commissione del luglio 2002 erano tre (Commissione Europea
2002b).
• Il disaccoppiamento degli aiuti diretti erogati dalla Pac a partire dalla riforma Mac Sharry del 1992, con l’istituzione di un pagamento
unico per azienda basato sugli aiuti storici ricevuti e con totale libertà di produrre (o non produrre), con l’unica eccezione di produrre
ortofrutticoli.
• La cosiddetta “modulazione dinamica”, obbligatoria, consistente in
un meccanismo di riduzione progressiva degli aiuti ricevuti da ogni
azienda al di sopra di una certa franchigia e di completo taglio di
quelli eccedenti un dato tetto 5, volto a trasferire risorse finanziarie
dal primo pilastro della Pac (misure di mercato ed aiuti diretti) al secondo pilastro, cioè alle politiche di sviluppo rurale.
• Il potenziamento delle politiche di sviluppo rurale, oltre che con
l’aumento della sua dotazione finanziaria, anche con l’inserimento
al suo interno di tre nuovi capitoli dedicati rispettivamente alla qualità, alla cross-compliance ed audit aziendale, ed al benessere degli
animali.
Non si vuole qui proporre una valutazione esaustiva del pacchetto di
riforma proposto dalla Commissione nel luglio del 2002, ma solo alcuni spunti di riflessione 6. Ovviamente, in esso non tutto è pienamente convincente, ed anzi alcuni punti destano non poche perplessità, come il trattamento della cross-compliance, la scarsa finalizzazione degli
aiuti disaccoppiati, l’estensione del disaccoppiamento anche agli aiuti
destinati a colture ritenute strategiche in alcune aree (grano duro). Ma
si tratta sicuramente di una proposta che andava nella giusta direzione
e che costituiva una buona base di partenza per discutere. Inoltre, nel
valutare le proposte della Mid-term review, va tenuto ben presente che
esse non sono, e non vogliono essere, il punto di arrivo del processo di
(5) Nella proposta della Commissione la franchigia era fissata a 5000 euro e a due unità di lavoro a tempo pieno, elevabile di altri 2000 euro per ogni unità di lavoro aggiuntiva; il tetto era
fissato a 300.000 euro di aiuti effettivamente percepiti dopo l’applicazione della franchigia e
della modulazione.
(6) Per una descrizione più dettagliata della proposta della Commissione del luglio 2002 e per
alcune prime valutazioni, si rimanda ad Inea, 2002, cap. 9.
18
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
riforma ma, piuttosto, il modo con cui gestire una delicata fase di passaggio dalla vecchia alla nuova Pac. È chiaro, quindi, che il documento della Commissione non va giudicato come pacchetto in sé, al di
fuori del contesto di transizione in cui esso stesso si colloca, ma come
strumento per avviare un processo di cambiamento reale della Pac verso la direzione giusta.
Un esempio illuminante in questa direzione è dato dalla proposta di
disaccoppiamento degli aiuti diretti, che a molti è apparsa troppo generica e frettolosa, poco attenta al rischio di repentini spostamenti di
colture ed abbandono di intere aree, scarsamente finalizzata ad una riqualificazione del sostegno verso un sistema di aiuti più selettivo: insomma, più che lo strumento di una nuova politica agraria, il disaccoppiamento è apparso a molti come una misura di rottamazione del
vecchio sistema di sussidi semi-accoppiati, il primo passo verso la loro definitiva abolizione. Al riguardo, va chiarito che molte di queste
critiche sono ingiuste, giacché il disaccoppiamento, in sé, non è né
vuole essere uno strumento di politica agraria, ma solo un modo di effettuare una redistribuzione del reddito, minimizzandone gli effetti distorsivi sui comportamenti degli agenti economici; non è un caso che
la stessa definizione di disaccoppiamento sia data dagli economisti “in
negativo”: un pagamento è disaccoppiato se non ha effetti sulle decisioni circa cosa e quanto produrre. Dunque, il disaccoppiamento non
può essere giudicato come strumento in sé, perché ha senso solo come
misura di passaggio: dopo aver disaccoppiato il sostegno dalla produzione, o lo si “accoppia” a qualcos’altro, o lo si trasferisce alla politica
sociale, o lo si abolisce, magari gradualmente.
Visto nella sua giusta accezione di misura transitoria, il disaccoppiamento proposto dalla Commissione andrebbe nella direzione giusta: perché ridurrebbe le distorsioni indotte dai pagamenti accoppiati,
interrompendo la “caccia ai sussidi” da parte degli agricoltori e consentendo loro scelte imprenditoriali più libere; semplificherebbe il sistema di pagamenti, facilitando la sua estensione ai nuovi stati membri; migliorerebbe la posizione dell’Ue nel negoziato del Wto, giacché i pagamenti disaccoppiati andrebbero nella scatola verde, totalmente esente da ogni impegno di riduzione; ma soprattutto il disaccoppiamento sarebbe un passaggio positivo perché, rendendo più trasparente il sistema di sussidi, renderebbe ancora più necessaria una
chiara definizione degli obiettivi perseguiti e dei condizionamenti da
imporre ai beneficiari dei sussidi, in direzione di una maggiore selettività del sostegno stesso. In altre parole, poiché non è possibile pensare che nel 2013 gli agricoltori continuino ad essere compensati per
una riduzione dei prezzi avvenuta 20 anni prima, e probabilmente su-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
19
bita dai loro padri 7, è necessario esplicitare con chiarezza quali sono
i servizi o gli handicap che si intende remunerare o compensare con
l’erogazione di tali pagamenti. E questo è vero a maggior ragione se i
pagamenti saranno erogati in forma disaccoppiata: senza, cioè, alcun
obbligo di produrre un dato prodotto.
Tornando alla Mid-term review nel suo insieme, nonostante tutte le
precisazioni ed i distinguo possibili, ci sembra si possa concludere che
la proposta della Commissione del luglio 2002 è stata un passo avanti
estremamente positivo: pur non rappresentando la soluzione finale ai
problemi della Pac, con essa la Commissione ha iniziato a spingere
nella giusta direzione e, soprattutto, ha avuto il grande merito di
smuovere le acque ferme del dibattito sulla riforma della Pac, costringendo tutti a prendere posizione su scelte di lungo periodo.
Purtroppo, questo dibattito rischia di essere stroncato sul nascere, e
non è troppo paradossale affermare che ciò è avvenuto per l’azione
congiunta delle due posizioni estreme prima descritte - quelle dei difensori dello status quo e dei paesi fortemente insofferenti alla Pac posizioni che, se non altro, la proposta della Commissione ha contribuito a far uscire allo scoperto.
Da un lato, è emersa subito la ferma opposizione ad ogni riforma
prima del 2006 da parte di un gruppo nutrito di paesi guidati dalla
Francia 8. I ministri dell’agricoltura di questi paesi, comunque in grado
di formare una minoranza di blocco in seno al Consiglio, il 23 settembre del 2002 hanno inviato ad alcuni quotidiani europei una lettera che
si può considerare una sorta di manifesto della posizione vetero-ruralista prima descritta: in questa lettera, dopo un’appassionata difesa del
ruolo storico insostituibile svolto dalla Pac negli ultimi trent’anni e
dopo aver sdegnosamente respinto le “false accuse” circa gli effetti
negativi della Pac sull’ambiente, la sicurezza alimentare, lo sviluppo
dei paesi poveri ed il bilancio comunitario, i ministri dell’agricoltura
(7) È forse il caso di ricordare che la motivazione con cui i pagamenti diretti della Pac sono
stati introdotti nel 1992 con il pacchetto Mac Sharry, e successivamente rafforzati con Agenda 2000, era la necessità di compensare la riduzione dei prezzi d’intervento imposta
dalla riforma delle organizzazioni comuni di mercato della Pac. Da qualche anno a questa
parte si preferisce parlare di generici “aiuti diretti al reddito”, ma riguardo alle motivazioni
di tali aiuti non sono state ancora date spiegazioni sostanzialmente diverse da quella della
compensazione. D’altra parte, nel corso della trattativa sull’allargamento, molti stati membri dell’Ue a 15 si sono a lungo opposti all’estensione degli aiuti diretti ai nuovi stati membri, proprio con l’argomento che per gli agricoltori di questi paesi, non avendo essi subito
le riduzioni di prezzo imposte della riforma Mac Sharry e da Agenda 2000, non c’era nulla
di cui essere compensati.
(8) Si tratta, oltre alla Francia, di Spagna, Austria, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo ed una delle due regioni del Belgio.
20
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
di tali paesi hanno argomentato l’illegittimità di andare oltre il mandato di una revisione di medio termine di taglio tecnico, e l’inutilità di
svendere anticipatamente la Pac nel negoziato del Wto, soprattutto dopo il “buon esempio” dato dal nuovo Farm Bill statunitense 9.
Dall’altro lato, le possibili conseguenze finanziarie dell’estensione
della Pac a 10 nuovi Stati membri in conseguenza dell’imminente allargamento - per giunta di una Pac probabilmente non ancora riformata, dato il profilarsi di una maggioranza nel complesso sfavorevole alle modifiche proposte della Commissione - hanno indotto i paesi contributori netti, con la Germania in testa, a chiedere precise garanzie sul
futuro: non tanto sulla necessità di fare sul serio con la Mid-term review, per mettere mano il più rapidamente possibile ad una riforma
profonda della Pac per avviare a soluzione, tra gli altri, anche i suoi
squilibri finanziari; quanto - più brutalmente - sulla necessità di porre
un tetto alla crescita della spesa agricola, a prescindere da ogni altra
considerazione.
IL DIBATTITO SULLA PAC DOPO IL COMPROMESSO DI BRUXELLES
Insomma, ancora una volta, sembra che la logica vincente sia stata
quella dei veti incrociati, una logica che ha prodotto il compromesso
franco-tedesco dello scorso 24 ottobre, alla vigilia del Consiglio di
Bruxelles: con esso, l’imposizione di un vincolo alla crescita della
spesa del primo pilastro della Pac dal 2006 al 2013, come voluto dalla
Germania e dagli altri paesi contributori netti, è stato scambiato con
l’impegno più o meno implicito a rinviare qualunque riforma a dopo il
2006, come auspicato dalla Francia e dagli altri paesi difensori dello
status quo.
In particolare, il Consiglio di Bruxelles ha approvato il piano di
graduale introduzione nei nuovi Stati membri degli aiuti diretti della
Pac, proposto a suo tempo dalla Commissione (Commissione Europea 2002a), che prevede l’erogazione di tali aiuti in misura progressivamente crescente rispetto all’ammontare ricevuto dai paesi dell’Ue a
15, e pari al 25% nel 2004, 30% nel 2005, 35% nel 2006 e 40% nel
2007. Successivamente, gli aiuti cresceranno con incrementi del 10%
l’anno «in modo da garantire che i nuovi Stati membri raggiungano
(9) Il nuovo Farm Bill statunitense (la cui denominazione precisa è Farm Security and Rural Investment Act) è stato approvato nel maggio del 2002. Esso rappresenta una sorta di ritorno al
passato, con un cospicuo aumento della spesa a favore dell’agricoltura e, soprattutto, con la
riattivazione di strumenti di sostegno “accoppiati” alla quantità prodotta, che erano stati aboliti dal precedente Fair Act del 1996.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
21
nel 2013 il livello di sostegno allora applicabile nell’Ue attuale». Inoltre - ed è questo il punto più rilevante - la spesa annua totale per azioni di mercato e pagamenti diretti in un’Unione a 25 «non potrà superare, nel periodo 2007-13, l’importo in termini reali del massimale
della categoria 1.A per il 2006 stabilito a Berlino per l’Ue a 15 e il
corrispondente massimale di spesa proposto per i nuovi Stati membri
per il 2006» 10. Più in particolare «la spesa complessiva, in termini
nominali, per azioni di mercato e pagamenti diretti, per ciascun anno
nel periodo 2007-13, sarà mantenuta al di sotto di detta cifra per il
2006, maggiorata dell’1% annuo» (Consiglio Europeo 2002, p. 5).
È chiaro che questa decisione, nella misura in cui ha contribuito a rimuovere il veto dei paesi contributori netti all’estensione della Pac ai
nuovi stati membri, è da considerarsi un risultato politico importantissimo, che ha spianato la strada ad un allargamento dell’Unione Europea senza precedenti, sia per dimensioni che per rilevanza geo-politica. Tuttavia, dal punto di vista dei suoi effetti sul processo di riforma
della Pac, bisogna riconoscere che si è trattato di un compromesso di
basso profilo, che lancia segnali poco rassicuranti sulla futura evoluzione delle politiche agricole: ciò che sembra contare, infatti, non è il
contenuto della nuova Pac, quanto la spesa che essa genera; quindi, si
può anche mantenere in piedi una politica inefficiente, distorsiva ed
obsoleta, a patto che la sua voracità finanziaria sia tenuta sufficientemente sotto controllo.
Un tale messaggio è suonato come musica per le orecchie dei sostenitori dello status quo perché, almeno apparentemente, ha indebolito il
principale argomento usato da Franz Fischler, il Commissario responsabile dell’agricoltura, per sostenere le ragioni di una riforma forte,
che andasse oltre il mandato della Mid-term review, da decidere in
tempi brevi. In base a tale argomento, l’opportunità di non aspettare la
scadenza del periodo di applicazione di Agenda 2000 e di anticipare una riforma che comunque si sarebbe prima o poi dovuta fare, derivava
dalla necessità di “prenotare” per tempo la dotazione finanziaria agricola per il periodo successivo al 2006, evitando che questa potesse essere, nel frattempo, erosa dall’esito del negoziato sulla ripartizione dei
nuovi fondi strutturali per lo stesso periodo, che dovrebbe concludersi
entro il 2004. In altre parole, ammoniva Fischler, il rinvio della riforma proposta con la Mid-term review avrebbe consentito il mantenimento dello status quo per altri tre anni, ma avrebbe anche comportato
(10) Poiché la categoria 1A del Feoga Garanzia è quella che finanzia le politiche di mercato ed i
pagamenti diretti, ciò significa che la spesa per sviluppo rurale, anche per la sua parte che
ricade nel Feoga Garanzia, non è soggetta ad alcun vincolo.
22
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
il rischio di dover poi riformare la Pac in tempi stretti, con un vincolo
di bilancio più severo, e probabilmente anche sotto la spinta di vincoli
derivanti dal negoziato del Wto, destinato a chiudersi entro il 2005
(De Filippis 2002a).
Ora, invece, la direttrice finanziaria è già decisa. Il vincolo di bilancio per la direttrice 1A del Feoga Garanzia, corrispondente alla gestione dei mercati ed alla erogazione degli aiuti diretti, è stato definito ad
un livello che corrisponde ad una leggera riduzione in termini reali
della dotazione del periodo 2000-06, con la non banale differenza che
con tale dotazione finanziaria bisognerà gestire una Pac applicata a 25
paesi anziché a 15 e bisognerà trovare le risorse per avviare e completare la riforma dei comparti del latte e dello zucchero.
Apparentemente questo vincolo di bilancio è molto stringente; dunque, anche in assenza di decisioni associate alla Mid-term review, potrebbe comportare la necessità di qualche taglio all’ammontare degli
aiuti diretti, sempre che non si decida - ma la cosa sembra davvero improponibile - di cancellare qualunque riforma di comparti importanti
quali latte e zucchero. Tuttavia, come sempre, è questione di punti di
vista: il vincolo certamente è stringente rispetto al trend del passato, in
cui la spesa agricola è aumentata ad un ritmo solo di poco inferiore a
quello dell’intero bilancio comunitario, conservando in esso una quota
largamente maggioritaria. Ma c’era davvero qualcuno che pensava che
questo trend potesse continuare all’infinito? Non era largamente previsto o paventato che, nel quadro delle nuove direttrici finanziarie per il
periodo 2007-13, la Pac avrebbe perso quote significative di spesa rispetto ad altre politiche? E che ciò sarebbe avvenuto soprattutto sul
versante degli aiuti diretti, difficili da giustificare e mantenere inalterati nel lungo periodo?
Rispetto ad una tale previsione, il vincolo imposto dal Consiglio di
Bruxelles non è poi così drammatico, anche in considerazione del fatto che l’impatto finanziario dell’allargamento, a trattativa conclusa, si
è rivelato molto meno devastante di quanto spesso ipotizzato e temuto
in passato. In particolare, la tanto paventata estensione degli aiuti diretti della Pac ai nuovi stati membri comporterà un esborso certamente
significativo in termini assoluti, ma relativamente modesto rispetto a
quanto continueranno a ricevere gli agricoltori degli attuali 15 stati
membri: in assenza di qualsiasi riforma, con la semplice continuazione
di Agenda 2000, si tratterebbe di poco più di 5,3 miliardi di euro, contro gli oltre 30,7 miliardi riservati ai 15; mentre, se passassero le proposte di riforma della Mid term review, che comporterebbero un aumento dei pagamenti diretti per compensare la ulteriore riduzione dei
prezzi di intervento e la riforma del settore latte, tali cifre salirebbero
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
23
rispettivamente a 5,8 e 36 miliardi di euro, con un rapporto comunque
di circa 6 a 1 tra vecchi e nuovi stati membri 11.
Non è certo questa l’occasione in cui fare conti precisi, anche perché
l’informazione a riguardo è ancora molto confusa e carente. D’altra
parte, non è neanche troppo importante, perché ci sono buoni argomenti per sostenere - facendo eco al commissario Fischler, che giustamente ha più volte insistito che la Mid-term review è viva e vegeta che una riforma della Pac da decidere prima del 2006 è oggi più che
mai necessaria ed opportuna, qualunque sia la reale incidenza del vincolo di bilancio deciso con il vertice di Bruxelles. Del resto, nella risoluzione finale del Consiglio non vi è una parola che impedisca di procedere ad una decisione sul futuro della Pac prima del 2006; né è pensabile che ciò possa ragionevolmente accadere, dato che nei prossimi
tre anni l’Ue dovrà concludere il negoziato agricolo nel Wto, sottoscrivendo impegni che comporteranno, implicitamente o esplicitamente,
la necessità di portare qualche modifica alla attuale Pac.
Inoltre, tornando al vincolo di bilancio, il fatto stesso di conoscerne
con largo anticipo l’ammontare fino al 2013 è un elemento di grande
importanza, che - se si volesse - consentirebbe di disegnare la nuova
Pac con un minore grado d’incertezza riguardo alla variabile politicamente più importante. Se, infatti, il vincolo è destinato a rivelarsi davvero stringente, allora è necessario agire per tempo, mettendo ordine
nelle misure e nei conti della Pac e stabilendo le giuste priorità d’azione, prima che una riforma dolorosa sia repentinamente imposta da
un’emergenza finanziaria; se, invece, il vincolo non si rivelasse poi
così severo come appare a prima vista, meglio ancora, perché si avrebbero più margini per gestire il processo di transizione dalla vecchia alla nuova Pac, con la possibilità di minimizzare i costi di aggiustamento che comunque bisogna mettere in conto.
La recentissima presentazione della proposta di revisione di medio
termine della Pac in forma di testi giuridici, mostra che la Commissione sembra essere proprio su questa linea, e che non intende recedere dall’approccio fortemente riformatore del documento presentato
nel luglio 2002. La nuova versione della revisione di medio termine,
infatti, a meno di qualche aggiustamento e di una diversa articolazione della modulazione, conserva pressoché intatto l’impianto delle
proposte iniziali, ed anzi ad esse aggiunge l’avvio della riforma del
(11) Questi conti si limitano ai dieci nuovi stati membri per i quali la trattativa è conclusa, e che
entreranno a partire dal maggio 2004; dunque, non comprendono gli esborsi - certamente
tutt’altro che irrilevanti - relativi all’eventuale ingresso di Romania e Bulgaria, per il quale
la data indicativa è il 2007.
24
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
settore lattiero 12.
Insomma, la Mid-term review va avanti, e nei prossimi mesi sapremo
in che misura gli equilibri in seno al Consiglio consentiranno a Fischler
di conservare la forte carica riformatrice della sua proposta; sapremo,
in altre parole, se davvero può esserci dietro l’angolo un cambiamento
di alto profilo, e se il dibattito sulla riforma della Pac è destinato a decollare o a languire ancora per qualche anno. In ogni caso, senza peraltro illudersi troppo, è necessario contribuire a mantenere comunque alta la tensione di tale dibattito che oggi - quanto, e forse più, di ieri - avrebbe molte buone ragioni per non essere abbandonato, come invece
vorrebbero i difensori dello status quo. Infatti, per chi crede ancora che
fare politica agraria sia un esercizio necessario e possibile nell’Ue, sarebbe troppo frustrante lasciare trascorrere inutilmente questi importanti anni di passaggio, rinunciando ad ogni tentativo di rigenerazione della Pac e rassegnandosi ad assistere malinconicamente al suo lento crepuscolo; con l’unica prospettiva di tirare a campare finché dura, aspettando che la resa dei conti sia imposta all’agricoltura dall’esterno.
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De Benedictis M., F. De Filippis, “L’intervento pubblico in agricoltura tra vecchio e
(12) Per una descrizione ed una valutazione della versione più recente della proposta di revisione di medio termine presentata nel gennaio 2003, si veda Coldiretti (2003).
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
25
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De Filippis F. (a cura di), Le vie della globalizzazione: la questione agricola nel
Wto, FrancoAngeli, Milano, 2002a.
De Filippis F., “Un passaggio inevitabile”, Dossier Europa, n. 31, novembre 2002b.
De Filippis F., L. Salvatici, “La politica agricola comunitaria: una riforma incompiuta”, Politica internazionale, 3, 1999; ripubblicato in Aa. Vv., Agricoltura e diritto,
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Inea, Le politiche agricole dell’Ue, Rapporto 2001-02, Osservatorio sulle politiche
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Salvatici L., “Politica agricola comunitaria e (in)sicurezza degli alimenti”, AE, n. 0,
ottobre 2001.
Velazquez B., “Il concetto di multifunzionalità in agricoltura: una rassegna”, La
Questione Agraria, n. 3, 2001.
26
La riforma della Pac dopo il compromesso di Bruxelles
Il futuro delle politiche agricole
Bertrand Hervieu
Hervé Guyomard
Jean-Christophe Bureau
INTRODUZIONE
Settore cruciale per numerosi paesi, settore atipico per i suoi legami
con la natura, settore sensibile perché legato alla sicurezza dell’approvvigionamento alimentare nazionale e alla sicurezza degli alimenti,
l’agricoltura è oggetto di particolari attenzioni da parte di quasi tutti i
governi. In maniera a prima vista paradossale, i paesi in via di sviluppo, dove l’agricoltura è uno dei settori maggiori in termini di impiego
e di valore aggiunto, intervengono meno dei paesi sviluppati. Per di
più, i primi hanno la tendenza a tassare il settore agricolo mentre i secondi lo sostengono, spesso in maniera considerevole, con un complesso ventaglio di barriere all’importazione, di sostegno interno dei
redditi e di sussidi alle esportazioni.
L’agricoltura dei paesi sviluppati, ciononostante, sembra sempre più
un settore economico come gli altri. Il suo contributo all’impiego nazionale e al prodotto interno lordo è molto debole oggi, e, per di più,
in regressione (v. tabella 1). L’integrazione nel 1994 dell’agricoltura
nel quadro generale del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) ha accelerato il processo di offuscamento delle sue peculiarità sul
piano commerciale. Una tale banalizzazione economica si accompagna ad una banalizzazione culturale. Anche nell’Europa Occidentale,
dove le radici rurali della popolazione urbana restano profonde e il legame con il territorio solido, i problemi agricoli non trovano più la
stessa cassa di risonanza politica di vent’anni fa. Il ghiotto boccone fiTradotto da: B. Hervieu, H. Guyomard e J.C. Bureau, “L’avenir des politiques agricoles”,
Ramses, Les Grandes Tendances du monde, 2001.
Bertrand Hervieu, Hervé Guyomard e Jean-Christophe Bureau sono rispettivamente presidente, direttore di dipartimento e direttore di unità dell’Inra (Institut National de la Recherche
Agronomique), Francia.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
27
TABELLA 1
Importanza dell’agricoltura nell’economia dei paesi dell’Ocse (in percentuale)
Media 1986-1988
Media 1992-1994
1997
Peso dell’agricoltura nel Pil
2,8%
2,4%
2,1%
Peso dell’impiego agricolo
nella popolazione civile
attiva occupata
8,7%
8,9%
8,2%
Fonte: Ocse, Politiche agricole dei paesi dell’Ocse, monitoraggio e valutazione, 1999.
nanziario della Politica Agricola Comune (Pac) è spesso percepito come un freno alla costruzione europea, privando di risorse settori almeno altrettanto strategici. Tutto ciò contribuisce a rendere difficilmente
comprensibile l’attenzione dedicata all’agricoltura dalle politiche pubbliche dei paesi sviluppati.
È questa, allora, la morte annunciata delle politiche agricole? Se il
forte disimpegno dello Stato in Italia, nei Paesi Bassi o in Svezia ha
dell’aneddotico, dal momento che le agricolture di questi paesi sono
amministrate essenzialmente su scala comunitaria, non è così in altri
paesi sviluppati, in particolare quelli del Pacifico. Il governo australiano non si occupa più di svolgere funzioni commerciali, uno degli ultimi settori dove ancora interveniva. In Nuova Zelanda, la riforma iniziata alla fine degli anni Ottanta ha praticamente soppresso ogni intervento pubblico.
In Canada, il sostegno ai cereali, compresi gli aiuti al trasporto destinati a correggere gli squilibri naturali fra province, è praticamente
scomparso e la dimensione dell’amministrazione agricola è stata notevolmente ridotta. Anche nei paesi più protezionisti e più attivi nel sostegno dei mercati interni (Stati Uniti, Giappone, Unione Europea,
ecc.) l’impossibilità politica di sottrarre l’agricoltura alla disciplina
generale del Gatt, conformemente agli impegni assunti a Marrakesh
nel quadro dell’Accordo Agricolo dell’Uruguay Round (Aaur), ha generato riforme significative delle politiche agricole che hanno avuto
come prima conseguenza la maggiore esposizione del settore alle regole del mercato.
Molte organizzazioni internazionali tendono a sottolineare tale disimpegno dello Stato e a vedervi il modello verso cui si dovrebbero inesorabilmente evolvere tutti i paesi. Pure, giocoforza, si constata che
il livello globale di sostegno pubblico all’agricoltura è rimasto pratica-
28
Il futuro delle politiche agricole
GRAFICO 1
Stima del sostegno ai produttori (Pse in percentuale) per prodotto, 1998
Unione Europea
70 %
60 %
50 %
40 %
30 %
20 %
10 %
0%
Grano
Semi Zucchero Latte
oleosi
Carne
bovina
Carne Pollame Uova
suina
Semi Zucchero Latte
oleosi
Carne
bovina
Carne Pollame Uova
suina
Semi Zucchero Latte
oleosi
Carne
bovina
Carne Pollame Uova
suina
Stati Uniti
70 %
60 %
50 %
40 %
30 %
20 %
10 %
0%
Grano
Australia
70 %
60 %
50 %
40 %
30 %
20 %
10 %
0%
Grano
Nota: I Pse per prodotto sono soggetti a importanti fluttuazioni nel corso delle annate.
Fonte: Commissione Europea, Direzione generale dell’agricoltura, L’agricoltura nell’Unione
Europea, informazioni statistiche ed economiche, 1999.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
29
mente invariato nell’insieme dell’Organizzazione di Cooperazione e di
Sviluppo Economico (Ocse) dall’inizio degli anni Ottanta. Questo livello può essere stimato in una equivalente sovvenzione alla produzione (Pse - Producer Subsidy Equivalent) di 274 miliardi di dollari nel
1998 (v. tabella 2).
TABELLA 2
Valutazione del sostegno ai produttori agricoli nei paesi dell’Ocse (a)
1997
1998
(b)
1986-1988
1991-1993
1996-1998
Australia
Milioni di dollari
Pse in %
945
7
1.277
8
1.316
6
1.375
7
1.239
7
Canada
Milioni di dollari
Pse in %
5.641
34
5.738
30
3.262
15
2.988
14
3.176
16
Unione Europea (c)
Milioni di dollari
Pse in %
99.619
46
131.028
47
116.271
39
109.670
38
129.808
45
Giappone
Milioni di dollari
Pse in %
52.073
65
55.628
58
55.639
63
52.640
61
49.059
63
Nuova Zelanda
Milioni di dollari
Pse in %
478
11
86
2
85
1
105
2
44
1
Stati Uniti
Milioni di dollari
Pse in %
41.428
26
34.981
19
35.838
17
30.616
14
49.960
22
Totale Ocse
Milioni di dollari
Pse in %
246.561
41
292.005
39
258.984
33
245.546
32
273.649
37
(a) Il livello globale di sostegno ai produttori agricoli è qui misurato in Pse (Producer Subsidy
Equivalent). Esso corrisponde al valore monetario dei versamenti lordi dei consumatori e dei
contribuenti in favore dei produttori agricoli. Il Pse in percentuale rapporta questa grandezza
al valore totale dei ricavi agricoli, compresi gli aiuti diretti.
(b) Provvisorio.
(c) Unione Europea dei 12 per gli anni dal 1986 al 1994, dei 15 a partire dal 1995.
Fonte: Ocse, Politiche agricole dei paesi dell’Ocse, monitoraggio e valutazione, 1999.
30
Il futuro delle politiche agricole
Nell’Unione Europea, le modalità dell’intervento pubblico sono
certo mutate (aumento del sostegno grazie ad aiuti diretti finanziati
dal contribuente e diminuzione dei prezzi di sostegno che penalizzano
il consumatore), ma i livelli dei versamenti sono sempre molto elevati. In Canada, alcuni prodotti, il latte in particolare, restano fortemente
amministrati e sostenuti.
Negli Stati Uniti, la legge agricola del 1996 è stata integrata da misure di aiuto eccezionali in ragione di calamità agricole e dei ribassi
dei prezzi mondiali. In questo paese, il sostegno pubblico ai produttori
agricoli è aumentato di più del 50% fra il 1997 e il 1998, passando da
30,6 miliardi di dollari nel 1997 a quasi 42 miliardi di dollari nel
1998. Il calo della protezione e del sostegno interno, al quale si sono
impegnati i paesi sviluppati firmatari dell’Aaur, è rimasto così assai
limitato. Le acrobazie statistiche e giuridiche che i paesi hanno fatto
per ridurre la portata dei loro impegni mostrano chiaramente la loro
reticenza a riformare significativamente le politiche agricole. I fatti
sembrano dimostrare che le politiche agricole pubbliche restano di attualità.
Inoltre, si evidenziano in maniera crescente nuove preoccupazioni
dei consumatori e dei cittadini in tema di ambiente, di sicurezza alimentare o di considerazioni etiche come il benessere animale. Questi
aspetti, largamente trascurati in passato nella definizione delle politiche agricole, sono oggi in primo piano, come hanno mostrato diverse
mobilitazioni di organizzazioni non governative, in particolare in occasione della riunione ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio (Omc) a Seattle nel novembre 1999. Esse pongono ai responsabili di decisioni pubbliche nuove sfide che richiederanno un intervento, non fosse altro perché i conflitti sui metodi di produzione richiedono l’arbitrato dello Stato.
GLI STRUMENTI TRADIZIONALI DELLE POLITICHE AGRICOLE
VENGONO RIMESSI IN DISCUSSIONE
I negoziati internazionali sul commercio costituiscono una forte
pressione esterna per la rimessa in discussione dell’intervento dello
Stato nel settore agricolo, e in particolare delle modalità di tale intervento. L’Aaur del 1994 rappresenta infatti la fine di un periodo in cui
le politiche agricole erano, con l’eccezione di qualche concessione
puntuale, elaborate indipendentemente dal Gatt. In futuro non sarà più
così. L’accordo ha infatti segnato l’inizio di una nuova era nella concezione dell’intervento pubblico in agricoltura, sottoponendo que-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
31
st’ultima alla disciplina generale del Gatt e vincolando i livelli e le
modalità delle politiche.
Tutti i paesi sviluppati hanno dovuto adattare le loro politiche agricole, nel senso generale di un passo indietro dello Stato nell’amministrazione dei mercati.
L’Aaur ha così messo fine ad alcune prerogative commerciali del
presidente degli Stati Uniti in materia agricola. È stato inoltre un determinante essenziale della struttura della legge agricola americana del
1996, che svincola gli aiuti ordinari (vale a dire non straordinari) dalle
scelte di produzione, e consacra, almeno in teoria, la volontà politica
di una agricoltura retta essenzialmente dalle leggi della domanda e
dell’offerta.
L’Uruguay Round ha ugualmente obbligato l’Unione Europea a limitare le sovvenzioni all’esportazione verso paesi terzi e a rivedere i
meccanismi di protezione all’importazione per la trasformazione delle
barriere tariffarie e non tariffarie, in particolare i prelievi variabili in equivalenti tariffari, e la riduzione progressiva di questi ultimi. Ha fortemente condizionato le modalità della riforma della Pac del 1992, in
particolare la diminuzione del sostegno attraverso i prezzi e la compensazione dei redditi attraverso aiuti diretti legati alla superficie coltivata e ai capi di bestiame.
Dato che le possibilità di sovvenzionare le esportazioni dovrebbero
nuovamente essere ridotte in occasione del Millennium Round, l’Unione Europea ha proseguito, in occasione della riforma Agenda 2000
del 1999, il movimento iniziato nel 1992 di ribasso dei prezzi garantiti
e di compensazione attraverso gli aiuti diretti.
L’immobilismo sarebbe infatti approdato ad un aumento insostenibile delle riserve comunitarie per molti prodotti agricoli, riserve che non
sarebbe stato possibile indirizzare verso paesi terzi a causa dei limiti
alle sovvenzioni all’esportazione e delle differenze tra i prezzi europei
e quelli mondiali 1 (v. grafico 2).
Esattamente come durante l’Uruguay Round, il dossier agricolo sarà
al cuore dei negoziati multilaterali del Millennium Round. È presumibile che le discussioni verteranno su nuove diminuzioni delle sovvenzioni alle esportazioni e delle misure di sostegno interno quando questo è legato ai prodotti (sostegno diretto della scatola gialla), e su ulte(1) Per una sintetica presentazione dell’Aaur e delle sue implicazioni, si veda, per esempio,
Bureau e Bureau (1999). La legge agricola americana del 1996 e le sue conseguenze per
l’Unione Europea in termini di definizione di una posizione negoziale all’Omc sono descritte in Guyomard et al. (2000). La riforma della Pac del maggio 1999 e le sue conseguenze per l’Unione Europea in termini di compatibilità con i negoziati agricoli del Millennium Round sono descritte in Desquilbet et al. (1999).
32
Il futuro delle politiche agricole
GRAFICO 2
Spese del Feoga Garanzia per settore, 1998, in milioni di Euro
20.000
16.000
12.000
8.000
4.000
0
Seminativi
Latte e
prodotti caseari
Carne
bovina
Di cui restituzioni all'esportazione
Carne
suina
Zucchero
Di cui aiuti diretti
Fonte: Commissione Europea, Direzione generale dell’agricoltura, L’agricoltura nell’Unione
Europea, informazioni statistiche ed economiche, 1999.
riore ampliamento delle possibilità di accesso ai mercati. Inoltre, è più
che verosimile che numerosi paesi cercheranno di rendere più severi i
criteri di definizione degli strumenti di sostegno utilizzabili, affinché
abbiano effetti distorsivi molto deboli sugli scambi (sostegno disaccoppiato, detto della scatola verde).
Le sovvenzioni americane ed europee all’esportazione (nel caso degli Stati Uniti, in una forma indiretta attraverso la politica dei crediti
all’esportazione e la politica di aiuto alimentare internazionale) sono
osteggiate da quasi tutti i paesi terzi. Nel 1996, l’Unione Europea
rappresentava così quasi l’84% del valore mondiale delle sovvenzioni
(propriamente dette) agricole e agroalimentari all’esportazione, il secondo paese era il Sud Africa (che ha messo fine a questa pratica nel
1997), e gli Stati Uniti che contavano solo l’1,4%. Ma questo paese
concentra quasi l’80% delle misure mondiali messe in atto per le politiche dei crediti all’esportazione. Tale 80% consiste in 5 miliardi di
dollari circa, e costituisce il 10% del valore delle esportazioni agricole americane. L’abilità politica degli Stati Uniti ha permesso di escludere finora questi crediti all’esportazione dagli impegni internazionali
di riduzione. Lo stesso dicasi delle misure di aiuto alimentare, nazio-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
33
nale ed internazionale, attraverso vendite con crediti agevolati o donazioni. Questi due punti saranno verosimilmente oggetto di difficili
discussioni durante il Millennium Round. Consideriamo inoltre che il
tema delle Imprese Commerciali di Stato (Ics) deve essere esaminato
in modo da evidenziare i loro effetti distorsivi sugli scambi, e, se necessario, prendere misure restrittive qualora tali effetti risultino chiaramente.
Le sovvenzioni all’esportazione (definite in senso lato) portano all’immissione sul mercato mondiale di prodotti a prezzi inferiori ai costi di produzione degli agricoltori locali. La loro eliminazione progressiva sembra dunque ineluttabile, dal momento che essa è la condizione
primaria della definizione di un commercio agricolo mondiale basato
prima di tutto su vantaggi comparati. Per la stessa ragione, le restrizioni di accesso ai mercati devono essere ridotte progressivamente, in
particolare nei paesi sviluppati esportatori che oggi proteggono e sostengono la loro agricoltura. Il problema è più delicato nei casi di politiche di sostegno interno. Numerosi paesi difendono la posizione secondo la quale le politiche agricole di sostegno contribuiscono a generare un’agricoltura multifunzionale che, oltre a produrre beni, contribuisca ugualmente al mantenimento e allo sviluppo del mercato del lavoro, alla pianificazione rurale, alla tutela delle risorse e alla protezione dell’ambiente, così come alla sicurezza alimentare. Per questi paesi, tali diverse funzioni sono indissociabili. All’opposto, molti paesi
sviluppati non sostengono affatto (o sostengono poco) la loro agricoltura (ad esempio, l’Australia e la Nuova Zelanda) e molti paesi in via
di sviluppo ritengono che la difesa della multifunzionalità non sia che
un protezionismo mascherato.
La pressione esterna dell’Omc non è l’unico fattore che spinge ad una riforma delle politiche agricole. Nell’Unione Europea, vi si aggiungono i vincoli di bilancio e l’allargamento ai paesi dell’Europa centrale ed orientale. In maniera più generale, la trasparenza delle politiche
di sostegno è tanto maggiore quanto più tale sostegno è assicurato tramite versamenti diretti finanziati dai contribuenti. Questa accresciuta
visibilità è certo un punto positivo. Porta tuttavia in germe la possibile
rimessa in discussione della legittimità delle politiche agricole, tenuto
conto della posta in gioco e del legame sempre più debole tra sostegno
e attività di produzione, causato dal necessario disaccoppiamento. Tale
visibilità mette in luce la questione degli effetti redistributivi delle politiche agricole, fra agricoltori in primo luogo e fra questi ultimi e le
altre categorie socio professionali in secondo luogo. Essa induce allora, naturalmente, a mettere in dubbio la legittimità dell’intervento pubblico.
34
Il futuro delle politiche agricole
GLI OBIETTIVI DELLE POLITICHE AGRICOLE
Le spese agricole dell’Europa dei 15 (sezione garanzia del Fondo europeo d’orientamento e di garanzia agricola) ammontano oggi a circa
40 miliardi di Euro. Esse rappresentano più della metà del budget comunitario. Le somme destinate dagli Stati Uniti al sostegno finanziario
della loro agricoltura sono solo leggermente inferiori. A questi versamenti monetari si aggiungono un sostegno da parte dei consumatori - i
quali, molto spesso, acquistano i beni agricoli e agroalimentari a prezzi
nettamente più elevati rispetto ai prezzi mondiali (è il caso dei prodotti
caseari, dello zucchero o della carne bovina nell’Unione Europea) - e
anche i costi, spesso trascurati, di amministrazione e di gestione 2.
Le politiche agricole sono sempre state giustificate sulla base di un
insieme assai vasto di obiettivi, insieme variabile nel tempo e nello
spazio. L’articolo 39 del Trattato di Roma associava in tal modo alla
Pac nascente quattro obiettivi principali, nel caso specifico quello di incrementare la produttività agricola, assicurare un equo livello di vita alla popolazione agricola, stabilizzare i mercati e garantire un approvvigionamento del mercato a prezzi ragionevoli per il consumatore. La
riforma della Pac del maggio 1999 ha allargato lo spettro degli obiettivi, poiché intendeva contemporaneamente incrementare la competitività del settore agricolo, promuovere un’agricoltura di qualità rispettosa dell’ambiente e del territorio, proteggere i redditi degli agricoltori,
consentire un maggior margine di manovra agli Stati membri in applicazione del principio di sussidiarietà, e semplificare i meccanismi di regolamentazione pubblica in materia agricola. La legge d’orientamento
agricolo francese del 9 luglio 1999 è ancora più ambiziosa, definendo
quindici obiettivi che prendono in considerazione gli aspetti economici,
ambientali, territoriali e sociali dell’attività agricola (v. appendice 1).
Gli obiettivi espliciti delle politiche agricole dei paesi sviluppati includono l’incremento della competitività e della produttività del settore agricolo, la garanzia di un livello di vita soddisfacente ed equo per
gli agricoltori, la stabilizzazione dei redditi e dei prezzi, il mantenimento di un numero sufficiente di imprese agricole e la difesa del carattere familiare di queste ultime, la sicurezza degli approvvigionamenti per i consumatori nazionali a prezzi ragionevoli e stabili, la protezione dell’ambiente, la gestione del territorio, lo sviluppo delle zone
(2) Il sostegno totale alla produzione agricola è, negli Stati Uniti, inferiore di circa 2,5 volte rispetto all’Unione Europea (cfr. tabella 2). I sostegni in rapporto al numero di agricoltori sono equivalenti (circa 15.000 dollari negli Stati Uniti ed un po’ più di 16.000 dollari nell’Unione Europea). Sono invece nettamente inferiori negli Stati Uniti rispetto all’Europa se il
calcolo è fatto per ettaro di terra agricola (nel 1996-97, rispettivamente 85 e 801 dollari).
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
35
rurali, ecc. In molti paesi sviluppati, gli obiettivi legati alle funzioni
non strettamente produttive dell’agricoltura, essenzialmente quelle
ambientali e territoriali, acquistano oggi un’importanza crescente. Le
misure concrete destinate a soddisfarli sono tuttavia ancora molto deboli, rispetto a quelle messe in atto per gli obiettivi del sostegno e della stabilizzazione.
Come mostrano gli esempi seguenti, gli obiettivi delle politiche agricole sono spesso definiti in maniera imprecisa: quale produttività si
cerca di promuovere: la produttività totale dei fattori, la produttività
del lavoro, un’altra forma di produttività? Quale variabile si cerca di
stabilizzare: l’offerta, i prezzi, i ricavi, i redditi? In che modo deve essere garantita la sicurezza degli approvvigionamenti: attraverso la ricerca dell’autosufficienza, la diversificazione delle fonti delle importazioni, lo sviluppo delle capacità di stoccaggio? ecc. Malgrado tale
imprecisione, e anche se non c’è una gerarchizzazione esplicita degli
obiettivi delle politiche, il sostegno dei redditi agricoli è stato, ed è ancora, la motivazione fondamentale.
Il sostegno dei redditi agricoli
Senza affrontare la questione della legittimità e della fondatezza dell’obiettivo del sostegno dei redditi agricoli, ci si può solo interrogare
sulle misure attuate: gli strumenti utilizzati sono i migliori possibili (nel
senso che non esistono altri strumenti, o combinazioni di strumenti, che
permettano di raggiungere l’obiettivo ad un costo inferiore per l’insieme della società)? L’analisi è resa più difficile dal fatto che una stessa
politica può essere utilizzata per la realizzazione, esplicita o implicita,
di più obiettivi. Il meccanismo dell’intervento, utilizzato nell’Unione
Europea, cioè l’acquisto da parte degli organismi pubblici delle quantità offerte ad un prezzo minimo, permette simultaneamente di sostenere e stabilizzare i prezzi agricoli. Può darsi anche, ed è spesso questo il
caso, che la politica attuata allo scopo di sostenere i redditi agricoli determini effetti negativi sulla realizzazione di un altro obiettivo. La specializzazione dell’agricoltura europea, sia in senso estensivo (riconversione delle praterie) sia in senso intensivo (incremento degli erbicidi
chimici, concimi e prodotti di trattamento delle colture, utilizzati per ettaro), è stata chiaramente favorita dal sostegno dei prezzi agricoli.
Dal punto di vista strettamente economico, se l’obiettivo primario del
regolatore pubblico è quello di assicurare un certo livello di reddito ai
produttori agricoli, allora lo strumento più efficace è presumibilmente
un trasferimento dai contribuenti ai produttori. Un trasferimento che
non abbia l’effetto di aumentare i prezzi alla produzione e al consumo,
36
Il futuro delle politiche agricole
svincolato il più possibile dalle condizioni di produzione (tipologie,
quantità e prezzi). Gli effetti distorsivi sugli scambi di un tale strumento
sono deboli, almeno rispetto a quelli provocati da strumenti alternativi,
come l’aiuto accoppiato alla produzione o il sostegno diretto del prezzo.
L’appendice 2 dell’Aaur definisce precisamente i diversi criteri che un
trasferimento diretto deve rispettare per un impatto distorsivo minimo
sugli scambi, almeno in teoria. La realtà è naturalmente più complessa,
non foss’altro perché le misure di sostegno dei redditi agricoli sono raramente applicate a partire da una situazione iniziale di laissez-faire o
perché sono messe in atto congiuntamente ad altre politiche, per altri obiettivi, che aprono la via subottimale ad una politica di trasferimenti
diretti disaccoppiati (cfr., ad esempio, Bourgeon e Chambers 2000).
La stabilizzazione
Se c’è un ambito in cui l’agricoltura non è affatto un settore produttivo come gli altri è senza dubbio quello dei rischi, siano essi climatici, biologici, economici, ecc. I rischi economici sono essenzialmente
legati alla scarsa elasticità della domanda, così che variazioni deboli
dell’offerta hanno impatti molto forti sul prezzo. Un argomento tradizionale a favore dell’intervento pubblico nel settore agricolo è difatti
quello della gestione dei rischi e del contenimento dell’instabilità che
ne consegue. L’obiettivo della stabilizzazione può essere rappresentato
dai redditi, i prezzi, le quantità, i mercati, ecc. Esiste quindi un ventaglio molto ampio di strumenti di stabilizzazione.
Sul piano della teoria economica in senso stretto, la giustificazione
di un intervento pubblico per un obiettivo di stabilizzazione è l’incremento del benessere collettivo che essa genera rispetto ad un regime
di laissez-faire. Siamo chiaramente in presenza di un fallimento di
mercato che apre la via a politiche pubbliche destinate a correggerla.
A questo stadio, è importante sottolineare che il fallimento di mercato
non è costituito dal rischio o dall’instabilità dei mercati agricoli, notoriamente più elevati qui che in altri settori produttivi. Essa è legata all’incompletezza dei mercati a termine e contingenti, vale a dire alla
difficoltà, se non all’impossibilità, di gestire i rischi. Tale incompletezza è senza dubbio uno degli argomenti più convincenti per rimettere in
discussione la supposta efficienza dei mercati sulla quale si fonda il
movimento di liberalizzazione degli scambi. Questo punto è particolarmente importante per i paesi in via di sviluppo che non dispongono
di mezzi istituzionali e finanziari sufficienti per mettere a punto degli
strumenti efficaci di lotta contro l’instabilità. La relazione di Stiglitz
(1999) che invitava a tenere conto delle specificità dei paesi in via di
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
37
sviluppo e a non applicare loro delle ricette precostituite in materia di
politica economica e di liberalizzazione degli scambi è particolarmente valida per le politiche agricole 3.
Nei paesi sviluppati, il problema è soprattutto quello dell’efficacia
degli strumenti di gestione dei rischi utilizzati attualmente. La prima
Pac basata sui meccanismi d’intervento, sui prelievi variabili e sulle
restituzioni variabili permetteva di mirare simultaneamente all’obiettivo del sostegno dei prezzi agricoli e a quello della loro stabilizzazione,
isolando il mercato europeo da quello mondiale. Negli scenari di liberalizzazione/disaccoppiamento delle politiche agricole si riproporrà un
problema analogo. Di qui la necessità per l’Unione Europea di politiche di stabilizzazione nuove e complete.
La sicurezza alimentare
Il timore di una interruzione negli approvvigionamenti è, storicamente, uno dei principali argomenti per giustificare l’intervento dello
Stato nel settore agricolo. La Pac, per esempio, è stata messa in atto all’indomani della seconda guerra mondiale in un contesto in cui il ricordo delle tessere di razionamento era ancora molto vivo. È opportuno
distinguere nuovamente paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
La ricerca della sicurezza alimentare è un obiettivo centrale di numerosi paesi in via di sviluppo importatori di prodotti agricoli e agroalimentari. Sottolineiamo subito che sicurezza alimentare e autosufficienza alimentare non sono sinonimi. Il primo concetto è più ampio, dal
momento che corrisponde alla combinazione di tre elementi: la crescita e la regolarità dell’offerta domestica, la sicurezza e la diversificazione delle importazioni, lo sviluppo delle capacità nazionali di stoccaggio per fronteggiare situazioni di crisi. L’obiettivo di sicurezza alimentare è inoltre giustificato da quanto hanno dimostrato le esperienze
passate, e cioè che i paesi in via di sviluppo che non hanno sacrificato i
loro approvvigionamenti agricoli hanno avuto, salvo rare eccezioni,
maggiore successo di quelli che hanno invece trascurato questo aspetto. I lavori della Banca Mondiale evidenziano che i paesi in via di sviluppo che hanno concordato una protezione leggera alla loro agricoltura sono cresciuti, nei decenni 60, 70 e 80, due volte più velocemente di
(3) «We know that developing countries face greater volatility, that opening to trade in fact contributes to that volatility, that developing countries have weak or non-existent safety nets,
and that high unemployment is a persistent problem in many if not most developing countries. The developed and less developed countries play on a playing field that is not level.
Thus, provisions that look fair on the surface may have very different and unequal consequences for the developed and less developed countries» (Stiglitz 1999).
38
Il futuro delle politiche agricole
quelli che hanno tassato il loro settore agricolo (Schiff e Valdes 1993).
Bisogna distinguere due aspetti nella sicurezza alimentare, quello
dell’approvvigionamento a livello nazionale, in cui sono importanti le
considerazioni geopolitiche, e quello della distribuzione dei beni alimentari a tutti i consumatori del paese preso in considerazione, che rimanda alle questioni del prezzo degli alimenti e delle politiche ridistributive macroeconomiche.
Basandosi sull’argomento della sicurezza alimentare nazionale è tuttavia difficile giustificare i gradi attuali di sostegno e di protezione rilevati nei paesi sviluppati. Anche condividendo il punto di vista del
Generale de Gaulle secondo il quale «un paese che non è in grado di
alimentarsi da solo non è un grande paese» e soprattutto se si considera che questo principio ha una portata universale, ciò non implica il
fatto di spendere molti miliardi di Euro o di dollari in sovvenzioni alla
produzione e all’esportazione. Già dalla fine degli anni 60, alcune voci
minoritarie in Europa avevano denunciato il paradosso insito nel difendere il sostegno dei prezzi alla produzione, per eliminare carenze alimentari in un insieme geografico che in realtà risultava sempre più
eccedente di prodotti agricoli di zona temperata (Rapporto Vedel in
Francia, Memorandum Mansholt a livello della Comunità Europea).
Più in generale, Winters (1989) mostra l’inconsistenza dell’argomento
dell’autoapprovvigionamento alimentare come giustificazione delle
politiche di protezione e sostegno nei paesi sviluppati. Per la maggior
parte dei paesi dell’Ocse, l’autoapprovvigionamento è reso possibile
solo grazie a delle importazioni di prodotti energetici e chimici (concimi, prodotti di trattamento delle colture, ecc.).
Se è opportuno relativizzare l’argomento della sicurezza alimentare
nazionale, o più precisamente dell’autoapprovvigionamento, nei paesi
sviluppati, è tuttavia necessario insistere sul ruolo potenziale delle politiche attuate a questo fine in termini di stabilità internazionale delle
quantità e dei prezzi. Le riforme delle politiche agricole dei paesi sviluppati di questi ultimi anni hanno permesso di ridurre le eccedenze e i
costi di stoccaggio corrispondenti. Ma in realtà bisogna considerare
che le riserve mondiali di cereali basterebbero appena per una ventina
di giorni di consumo, se cessassero le produzioni. L’incertezza sul
cambiamento climatico non mette al riparo dai rischi di una impennata
dei tassi di cambio, che metterebbe in serio pericolo l’approvvigionamento dei paesi meno solvibili del pianeta. I paesi ricchi devono avere
un ruolo maggiore sulla stabilizzazione dei corsi mondiali, e gli strumenti devono essere definiti chiaramente a livello internazionale in
maniera concertata. Questo punto meriterebbe di essere al centro dei
negoziati internazionali.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
39
Lo sviluppo rurale
Una giustificazione delle politiche agricole, sostenuta in modo particolare dall’Unione Europea, è il loro contributo allo “sviluppo rurale”.
Questa definizione include una serie di aspetti che vanno dalla ripartizione equilibrata della popolazione sul territorio allo sviluppo economico delle zone rurali. Le ricerche in geografia economica hanno mostrato l’importanza degli effetti di scala e di sinergia nella localizzazione delle attività economiche. Se la popolazione di una zona rurale
scende al di sotto di una soglia, si innesca allora un circolo vizioso che
porta alla scomparsa dei servizi collettivi (posta, scuola, ecc.), delle
infrastrutture (mancanza di manutenzione, mancanza di introiti fiscali,
ecc.), delle attività di produzione e all’esodo delle popolazioni. La politica agricola può, a un costo ragionevole, permettere il mantenimento
di una popolazione sufficiente ad evitare questa dinamica negativa.
Tuttavia, la giustificazione delle politiche agricole in nome dello
sviluppo rurale solleva un certo scetticismo da parte di molti paesi,
poiché l’argomento può essere utilizzato anche per giustificare politiche agricole che hanno un impatto trascurabile su determinate regioni.
Questa osservazione si adatta in modo particolare alle politiche di sostegno dei prezzi e degli aiuti accoppiati alla produzione.
Se l’impatto economico del declino delle zone rurali marginali non
deve essere sopravvalutato, non più delle conseguenze ambientali legate all’abbandono dei terreni agricoli (del resto spesso più positive
che negative), l’attaccamento ai valori culturali e al mantenimento dei
paesaggi è forte nelle “vecchie” società sviluppate. C’è qui materia per
giustificare un intervento dello Stato. Ma esso passa attraverso strumenti specifici e mirati di politica agricola (promozione delle denominazioni di origine, protezione delle competenze tradizionali, politiche
di qualità e di differenziazione dei prodotti), e, ancor più, non agricola
(sviluppo delle infrastrutture, del turismo, dell’artigianato, delle piccole industrie, ecc.). Più in generale, questi obiettivi possono essere raggiunti solo attraverso un riorientamento significativo delle politiche agricole, verso un insieme di funzioni più ampio rispetto alla sola produzione di beni alimentari.
L’offerta di beni pubblici
La remunerazione dei servizi territoriali e ambientali costituisce
un’altra giustificazione delle politiche di sostegno all’agricoltura.
Questi servizi hanno spesso le caratteristiche proprie dei beni pubblici
e pertanto non sono forniti in maniera ottimale sul libero mercato. C’è
40
Il futuro delle politiche agricole
dunque un fallimento del mercato potenziale e la legittimazione economica di un intervento dello Stato.
La specificità del settore agricolo risiede nel fatto che l’attività di
produzione è in grado, secondo le tecnologie impiegate, di creare o al
contrario di distruggere questi servizi, siano essi la biodiversità, il
mantenimento dei paesaggi, la qualità delle falde freatiche, persino il
benessere animale. Tuttavia, l’affermazione secondo la quale l’agricoltura produce più beni pubblici di quanti non ne degradi, utilizzata per
giustificare il livello di sostegno attuale in numerosi paesi sviluppati,
non è realmente documentata (o, perlomeno, non è stabilita con sufficiente certezza). In Francia, per esempio, tutti i rapporti dell’Istituto
francese dell’ambiente mostrano la gravità dei rifiuti inquinanti dell’agricoltura. La contaminazione delle acque di superficie ad opera dei
nitrati si generalizza; l’inquinamento di fiumi e falde da parte dei pesticidi è difficilmente reversibile; le pratiche malcondotte dell’irrigazione, favorite tra l’altro da un basso costo dell’acqua, sono una minaccia per le falde; i tassi di materia organica dei suoli agricoli si abbassano significativamente, in particolare nella Beauce, la Brie, l’Aquitaine e il Roussillon; le zone delle grandi colture cominciano a soffrire di fenomeni di erosione, ecc. Considerazioni analoghe possono
essere fatte per la maggioranza dei paesi (El Feki 2000). Tali effetti
negativi sono molto spesso esacerbati dalle politiche agricole, che non
hanno saputo responsabilizzare gli agricoltori rispetto ai costi sociali
che essi generano, e addirittura lo stesso inquinamento è indirettamente sovvenzionato, se si considerano i contributi all’irrigazione, il sostegno dei prezzi che spinge all’utilizzazione dei concimi e dei prodotti
di trattamento, i differenziali nei contributi fra il mais insilato e i pascoli estensivi, ecc.
QUALE AVVENIRE PER LA POLITICA AGRICOLA COMUNE?
La Pac è più che mai sotto i riflettori della scena internazionale. Al
giorno d’oggi, non è più possibile pretendere di perseguire certi obiettivi legittimi, come la protezione dell’ambiente o il sostegno alle
regioni più disagiate, mantenendo strumenti incoerenti con questi obiettivi.
Numerosi fattori, interni (efficacia economica delle politiche, vincoli di bilancio, ecc.) ed esterni (negoziati internazionali dell’Omc, allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa centrale ed orientale), inducono a limitare l’uso degli strumenti tradizionali di politica agricola, come il sostegno dei prezzi a dei livelli elevati o la pratica si-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
41
stematica delle sovvenzioni all’esportazione. Ma ciò non significa per
nulla la fine della politica agricola. Di fronte alle nuove attese della
società, lo Stato è il solo ad essere in grado di attuare gli incentivi necessari perché siano remunerati efficacemente i servizi ambientali e
territoriali prodotti dagli agricoltori. Di fronte alle rivoluzioni scientifiche in corso (biotecnologie), lo Stato deve più che mai assicurare la
sua funzione primaria di garante della sicurezza dei cittadini. Di fronte
alle sfide da raccogliere (per esempio, la gestione sostenibile delle risorse naturali come l’acqua), lo Stato deve giocare un ruolo essenziale
nella creazione di condizioni favorevoli ad una innovazione che produca benefici per tutti e preservi il futuro.
Gli strumenti classici di politica agricola possono inoltre mantenere
un ruolo importante, poiché è necessario accompagnare la transizione,
che non può che essere progressiva. Quest’ultima passa attraverso la
concessione di sovvenzioni e di compensazioni, in nome dell’equità
prima di tutto, ma anche, e forse soprattutto, per far accettare agli agricoltori le riforme che è opportuno attuare. Inoltre, fra gli strumenti tradizionali, alcuni sono necessari a correggere le disfunzioni dei mercati. Una politica di prezzi base non troppo alti, mirante a stabilire una
«rete di sicurezza” è senza dubbio una soluzione abbastanza buona per
lottare contro l’instabilità.
Quattro principi devono oggi guidare la politica agricola dell’Unione Europea: stabilizzare, proteggere il consumatore, assicurare la fornitura dei beni pubblici e permettere l’evoluzione equa ed equilibrata
del settore verso un modello agricolo europeo multifunzionale e accettato dai nostri partner commerciali.
Stabilizzare
L’analisi economica normativa raccomanda l’uso di strumenti diversi per garantire un reddito equo ai produttori, da un lato, per remunerare ed allocare efficacemente le risorse, dall’altro. Essa suggerisce di fare ricorso a trasferimenti quanto più possibile forfettari (cioè disaccoppiati dalle produzioni) per l’obiettivo di ridistribuzione, e di fondarsi
sul sistema di prezzo di mercato concorrenziale per raggiungere l’efficacia allocativa delle risorse. Questo paradigma, valido per ogni attività economica, non può essere ignorato quando è in discussione la regolarizzazione dei mercati agricoli. Nonostante ciò, esso trova i suoi limiti nei problemi di informazione e di incompletezza dei mercati, i cui
rischi sono molto evidenti in agricoltura. Una delle funzioni dello Stato
è offrire una stabilità economica soddisfacente alle imprese agricole.
È necessario mettere in atto strumenti specifici miranti a ridurre le
42
Il futuro delle politiche agricole
fluttuazioni dei corsi. Gli strumenti finanziari, quali i mercati a termine, sono senza dubbio un mezzo appropriato ad assicurare la ripartizione di tale rischio. Permettono infatti di coprire una operazione di
vendita futura, che comporta rischi di prezzo, attraverso delle operazioni in senso inverso. Dispositivi di assicurazione del reddito e di assicurazione del raccolto possono ugualmente rivelarsi utili nei confronti di rischi a più lungo termine, rispetto a quello della campagna.
Simili assicurazioni funzionano oggi in numerosi paesi sviluppati, nella maggior parte dei casi con la partecipazione finanziaria dello Stato.
Ma, come mostra l’esempio recente degli Stati Uniti, non è certo che
questi strumenti specifici siano sufficienti.
Prezzi garantiti elevati sono costosi per la collettività e socialmente
ingiusti poiché fanno gli interessi di un gruppo particolare, quello dei
grandi produttori. Essi sono fonte di eccedenze che devono essere
vendute sottocosto sui mercati mondiali, procedimento, questo, che a
lungo termine non è sostenibile, non fosse altro che per il rispetto da
parte dell’Unione Europea delle regole multilaterali del commercio.
Ciononostante, un prezzo garantito permette agli operatori economici di prendere decisioni con meno incertezze riguardo al futuro. Il ruolo della stabilizzazione dei prezzi, che richiede un certo livello di protezione alle frontiere, produce quindi vantaggi per la collettività nazionale riducendo l’indennità di rischio richiesta dai produttori e pagata,
alla fine, dai consumatori. Inoltre, la situazione relativa degli agricoltori nella scala dei redditi, ed ancor più la variabilità di tali redditi a
seconda degli anni, mostrano il bisogno di reti di protezione su una
base permanente per ragioni sociali, salvo immaginare degli strumenti
che oltrepassino il quadro settoriale, come una eventuale assegnazione
di reddito uguale per tutti sulla quale il dibattito non fa progressi. In
definitiva, il mantenimento di un prezzo base, come il prezzo di intervento europeo, è senza dubbio una saggia soluzione a medio termine.
Difendere questa idea sul piano internazionale rende necessario accettare un ribasso adeguato dei prezzi garantiti, così come è stato fatto
nel caso dei cerali. Gli Stati Uniti, che hanno conservato il loro sistema di prezzi base (il loan rate) condividerebbero certo questa idea
senza troppe difficoltà.
Proteggere i consumatori
È difficile immaginare l’avvenire senza il ricorso alle biotecnologie.
Al traguardo del 2020, l’International Food Policy Research Institute
ritiene che sarà necessario aumentare del 40% l’offerta di cereali per
fronteggiare i bisogni del pianeta, in particolare nei paesi in via di svi-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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luppo. Non è certo che il mercato possa assicurare tale aumento, e inoltre in modo permanente, senza le biotecnologie. Infatti, il crescente
impiego di erbicidi, alla base delle rivoluzioni verdi, trova il suo limite
principale nei danni provocati alla risorsa acqua e più in generale all’ambiente 4. A livello mondiale, quasi il 20% delle terre irrigue, che
producono il 40% dei prodotti alimentari di origine agricola, soffrono
oggi della salinizzazione (El Feki 2000).
Ma le biotecnologie fanno paura. La loro innocuità non è dimostrata
e il loro sviluppo non può essere lasciato al solo controllo del settore
privato, che non ha la visione a lungo termine necessaria per compiere
le scelte più appropriate per l’insieme della società; è anche noto che il
loro sviluppo può avvenire creando situazioni di monopolio inaccettabili nella gestione delle risorse genetiche e delle filiere delle sementi.
Più in generale, le nuove aspettative dei consumatori e dei cittadini nei
confronti della politica agricola fanno affidamento alla funzione di
protezione esercitata dallo Stato. Nel Regno Unito, coloro che trovano
esorbitante il budget agricolo dell’Unione Europea sono le stesse persone che domandano ai poteri pubblici di intervenire di più per regolamentare la qualità sanitaria dei prodotti agricoli (uova, pollame, ecc.),
limitare l’utilizzazione dell’ingegneria genetica o regolamentare il trasporto e la macellazione degli animali.
In tempi recenti, l’Unione Europea ha preso numerose misure per
rafforzare i dispositivi che garantiscono la sicurezza degli alimenti, in
particolare stabilendo alcune direttive comunitarie in questo settore.
Molti Stati membri, tra cui la Francia e il Regno Unito, si sono dotati
di un’agenzia specifica. Ciononostante, le analisi economiche sulla
protezione dei consumatori evidenziano che combinazioni di incentivi
possono essere più efficaci del semplice vincolo di legge per assicurare uno sforzo di qualità da parte delle imprese. Tali combinazioni possono includere aiuti o procedure di responsabilità. La certificazione
delle imprese agricole merita di essere analizzata alla luce della posta
in gioco. Riorientare il sostegno dalla quantità verso la qualità, tramite
incentivi alle imprese agricole e agli enti di certificazione, deve essere
una componente essenziale della Pac del domani.
Remunerare l’offerta di amenità e di beni pubblici
Come sostengono Mahé e Laroche-Dupraz (2000), la nuova legittimità di una politica agricola e rurale va trovata negli obiettivi di soli(4) Cfr. anche il contributo di Pierre-Alain Roche, L’eau au XXIe siècle: enjeux, conflits, marché, in Ramses, Les Grandes Tendances du monde, 2001.
44
Il futuro delle politiche agricole
darietà per la coesione sociale europea e di remunerazione dei servizi
pubblici offerti. Questi comprendono il mantenimento e il miglioramento dei paesaggi agrari nazionali, così come la partecipazione attiva del settore agricolo alla tutela dell’ambiente, della flora e della
fauna.
L’offerta di servizi territoriali e ambientali deve essere stimolata da
incentivi economici mirati, rappresentativi del loro valore per la società. Tali incentivi devono naturalmente favorire l’offerta dei servizi
collettivi, devono anche scoraggiare l’inquinamento, facendo ricadere
sugli operatori il costo dei danni che provocano. Molto più che in passato, la nuova Pac deve combinare la tassazione delle esternalità negative e la concessione di sovvenzioni accoppiate alle esternalità positive generate (vale a dire ai benefici indotti), in conformità ai principi
base dell’economia dell’ambiente. La politica agricola deve evolversi
verso la soppressione delle sovvenzioni indirette all’inquinamento, ad
esempio gli aiuti che spingono all’uso di erbicidi chimici o all’ampliamento degli spazi irrigui. Essa deve, al contempo, tassare gli inquinamenti residui degli allevamenti e delle decantazioni di concimi, così
come i prelievi dalle falde freatiche. Gli ostacoli sono qui di natura redistributiva. Saranno superati più facilmente se la regolamentazione
delle esternalità negative e la remunerazione delle amenità (cioè dei
beni e dei servizi non quantificabili in termini economici, come la
qualità del paesaggio o dell’ambiente) e dei beni pubblici verranno applicate contestualmente.
I principi sopra definiti sono in linea con la teoria “del bastone e
della carota” raccomandata da molti economisti generali che si occupano di incentivi finalizzati alla tutela dell’ambiente. Sono ugualmente coerenti con le proposte elaborate per la Commissione Europea da
molti economisti agrari (Buckwell et al. 1997). La Francia ha cominciato ad orientarsi in questa direzione con l’adozione della Legge di
Orientamento Agricolo del luglio 1999 e l’instaurazione dei Contratti
Territoriali d’Impresa (Contrats Territoriaux d’Exploitation, Cte - v.
appendice 2). Il passo è ancora timido, i sostegni tradizionali, troppo
accoppiati alla produzione, continuano a dare un messaggio contraddittorio. Ma il percorso da seguire è tracciato. Come osservano Mahé
e Laroche-Dupraz (2000), la sostituzione completa degli strumenti
tradizionali di politica agricola con strumenti contrattuali di tipo Cte
potrebbe regolare contemporaneamente le questioni di equità, nella ripartizione delle sovvenzioni, e quelle di incentivazione, mettendo l’eco-condizionalità e la fornitura di servizi ambientali al centro del dispositivo di sostegno all’agricoltura e non al suo margine, come è ancora il caso oggi. Il principale ostacolo resta l’opposizione alle redi-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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stribuzioni nel mondo agricolo, prima di tutto, e fra gli Stati membri
dopo.
La remunerazione delle esternalità positive e dei beni pubblici pone
un delicato problema di valutazione. Non è certo facile stimare il valore di un paesaggio. Si presentano inoltre problemi di gestione. Le misure da prendere dipendono naturalmente dalle condizioni locali, poiché una politica uniforme non avrebbe senso in una Unione Europea
che si estende dalla Sicilia a Capo Nord. Le soglie tecniche, i disciplinari di produzione, le procedure di gestione, ecc. devono necessariamente essere decentralizzati e modulati a livello locale. L’approccio
contrattuale trova qui un terreno privilegiato di applicazione poiché
consente contemporaneamente l’adattamento alle condizioni locali e
la definizione di azioni che generano benefici per la collettività, in una
data zona. Tuttavia, malgrado i progressi teorici degli economisti per
definire contratti che prevedano gli incentivi più efficaci, resta difficile
proporre tabelle di remunerazione degli impegni ambientali e territoriali che non possano essere aggirate dagli operatori. Nelle procedure
decentralizzate, i costi di acquisizione dell’informazione e i costi di
controllo diventano subito proibitivi. Tutto ciò porta in sé il rischio del
clientelismo o della collusione tra gli operatori economici e i loro diretti supervisori (in questo caso le autorità decentralizzate). Questi
problemi, già analizzati nel quadro degli aiuti agroambientali (Bontems e Bureau 1996), sono, in gran parte, all’origine della scarsa efficacia del Programma di gestione dell’inquinamento di origine agricola
in Francia, programma nel quale il controllo dello Stato si è rivelato inadeguato. La definizione di meccanismi di incentivazione efficaci e
poco dispendiosi è una delle principali sfide poste agli economisti agricoli.
Accompagnare il riorientamento
Il riorientamento del sostegno pubblico all’agricoltura verso la fornitura di amenità e di beni pubblici non è in contrasto con i vincoli internazionali, in particolare quelli dei negoziati del Wto. Il concetto di
multifunzionalità, al cuore della posizione comunitaria nel Millennium
Round, non convince ancora tutti i nostri partner. Ciò che i paesi terzi
rimproverano all’Unione Europea, è soprattutto il fatto di nascondersi
dietro una concezione ampia della multifunzionalità, per difendere gli
strumenti tradizionali di sostegno e protezione. I tentativi dei poteri
pubblici europei di costruire un discorso che parte dalla multifunzionalità ma cerca al contempo di difendere la “vocazione” esportatrice
dell’Unione Europea, in pratica largamente basata su sovvenzioni al-
46
Il futuro delle politiche agricole
l’esportazione e aiuti accoppiati alla produzione, non contribuiscono
alla credibilità. Come sottolineano Jacquet, Messerlin e Tubiana
(2000), i negoziati del Millennium Round dovrebbero piuttosto incoraggiare l’Unione Europea ad adottare una politica agricola più coerente con le dichiarazioni sul sostegno ai piccoli agricoltori o sul ruolo
ambientale e territoriale dell’agricoltura europea.
In prospettiva, una politica agricola orientata principalmente verso
la remunerazione delle amenità e dei beni pubblici, e più giusta nei
suoi effetti distributivi, è verosimilmente il modo migliore di legittimare, all’interno come all’esterno, un sostegno specifico e significativo agli agricoltori. D’altra parte, è immaginabile che la remunerazione dei servizi collettivi resi dagli agricoltori passi attraverso il mercato. La certificazione e la promozione dei prodotti che rispondono a
specifiche richieste dei consumatori permettono già, attraverso i sistemi di denominazione ed etichettatura, di assicurare la sostenibilità economica di imprese che operano nelle nicchie dei prodotti regionali
o dei prodotti di agricoltura biologica. Queste politiche di qualità
contribuiscono agli obiettivi di gestione del territorio e dello sviluppo
rurale. La partecipazione diretta dell’agricoltura ad un’attività economica basata sui servizi può fondarsi anch’essa sul mercato (è il caso
dell’agriturismo).
Tuttavia, il mercato non può garantire da solo la remunerazione della produzione di tutti i beni pubblici. Anche se, in prospettiva, questo
sarebbe il caso, la transizione non potrebbe essere immediata. L’adattamento delle strutture è necessariamente lento. L’agricoltura è una
“industria pesante”, almeno nei paesi sviluppati: il tasso di capitalizzazione è elevato e gli investimenti specifici non possono essere facilmente trasferiti verso altri settori. Lo stesso capitale umano è specializzato, per sua formazione, e poco mobile.
Uno dei ruoli dello Stato è quello di accompagnare le trasformazioni, quando l’ambiente economico risulta modificato dai mutamenti
delle condizioni di mercato o dai cambiamenti di politica. Accompagnare l’adattamento presuppone di perseguire, per un periodo transitorio, politiche tradizionali corrette progressivamente al ribasso. In numerosi settori (lo zucchero, i prodotti caseari, e anche la stessa carne
bovina), il sostegno dei prezzi è ancora molto elevato. Un rapido calo
della protezione e dei prezzi istituzionali ridurrebbe senza alcun dubbio a mal partito le organizzazioni comuni di mercato corrispondenti.
Risulta quindi chiaramente necessario pianificare su più anni l’uscita
dal regime attuale. Anche le sovvenzioni alle esportazioni, misure inadatte al nuovo ambiente economico internazionale e strumenti particolarmente poco efficaci per trasferire reddito, non possono essere sop-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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presse dall’oggi al domani. Trasformazioni rapide della Pac verso la
remunerazione di funzioni ambientali e territoriali implicano la necessità di offrire, per ragioni di equità (mantenimento del valore del patrimonio), una compensazione ai produttori che hanno fortemente investito in prospettiva di un mantenimento delle politiche passate.
Non è dunque concepibile una riforma brusca della Pac, così come
non è auspicabile allineare questo settore con gli altri settori produttivi
retti dalle sole leggi del mercato, non foss’altro che per considerazioni
di rischio e di instabilità (v. supra). Ma la necessità di una transizione
controllata non deve far dimenticare quella di una evoluzione chiara e
significativa della politica agricola dell’Unione Europea verso la remunerazione dei servizi pubblici resi dagli agricoltori.
CONCLUSIONI
I motivi che hanno condotto, durante la seconda metà del XX secolo, le grandi potenze economiche ad elaborare politiche agricole e a
destinarvi, in conseguenza, risorse pubbliche, si stanno trasformando.
Gli obiettivi, i metodi, e forse, in futuro, le somme stanziate si modificheranno. Tuttavia, le politiche agricole resteranno un punto di forza
delle politiche pubbliche.
Non soltanto nessuno dei paesi, fra quelli in cui i sostegni pubblici
rappresentano la metà del reddito disponibile degli agricoltori, saprebbe concepire e gestire la soppressione brutale di tali sostegni, ma inoltre in queste stesse società sviluppate vengono fuori nuove esigenze,
di ordine qualitativo, in materia di creazione, manutenzione o gestione
dei beni pubblici che presuppongono, per essere soddisfatte, di venir
retribuite. Il configurarsi di una domanda di beni “non commerciali”
obbliga a inventare nuove risposte politiche.
Il riconoscimento della multifunzionalità dell’agricoltura, vale a dire
della capacità da parte di questo settore di produrre nello stesso tempo
beni materiali e beni immateriali, beni commerciali e beni non commerciali, conduce implicitamente a giustificare la retribuzione della
produzione di beni pubblici non commerciali, attesa dai consumatori,
dagli abitanti, dai cittadini. Si può pertanto dire che vedremo le politiche pubbliche occuparsi di trattare e retribuire ciò che non è commerciale e lasciare che il mercato da solo gestisca tutto ciò che riveste, invece, un carattere mercantile? Non solo, come abbiamo ricordato, gli
obiettivi delle politiche pubbliche agricole restano interessati agli aspetti tradizionali quali la formazione del reddito, la stabilità, la sicurezza, ma inoltre non saremmo in grado di governare simili rivolgi-
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Il futuro delle politiche agricole
menti di prospettiva senza lunghe transizioni, tenuto conto della posta
in gioco in termini di reddito.
In Europa, il 1992 ha segnato l’ingresso delle politiche agricole in
questa fase di riformulazione. Gli accordi di Agenda 2000 conclusi a
Berlino nel marzo 1999 rappresentano un nuovo passo in questa direzione. Affermano chiaramente che la politica agricola comune si fonda
su due pilastri: quello delle organizzazioni comuni di mercato da una
parte, quello dello sviluppo rurale e della multifunzionalità dell’agricoltura dall’altra. I lavori dell’Ocse sulla multifunzionalità, così come
il farsi avanti, nel Wto, del tema degli aiuti disaccoppiati, fanno pensare che la riformulazione delle politiche pubbliche, tanto nei loro principi quanto nelle loro modalità di applicazione, è avviata.
Al di là di questa riformulazione delle politiche agricole, tre argomenti restano in sospeso:
• Il primo riguarda la modernizzazione dell’attuazione di queste politiche. Uno dei principali rimproveri rivolti alle politiche agricole è
ancora la loro complessità, che le mette sotto accusa almeno quanto
il loro costo. Lo strumento contrattuale sembra la via di questa modernizzazione. Esso obbligherà i poteri pubblici a tradurre meglio le
aspettative della società e gli agricoltori a tenere più in considerazione l’opinione dei loro concittadini. L’approccio contrattuale dovrebbe approdare inoltre ad una maggiore trasparenza nell’assegnazione
dei crediti e ad una maggiore responsabilizzazione dell’agricoltore,
firmatario del contratto. Inoltre, questo dispositivo permette una rivalorizzazione simbolica della nozione di contratto che lega una nazione ai suoi agricoltori, quale esso appare nella maggior parte dei
grandi testi politici che trattano l’argomento.
• Il secondo argomento da affrontare è quello della dimensione geostrategica della sicurezza alimentare. Arbitrare i rapporti di forza, su
scala mondiale, dell’offerta di cereali resta l’ambizione dei nostri
partner d’oltreoceano. Disarmare le politiche classiche di regolamentazione diventa impossibile per l’Europa, in queste condizioni.
In un contesto post guerra fredda, la questione agricola e alimentare
è un dato strutturale della costruzione di un mondo multipolare. I dibattiti e i conflitti di interessi multilaterali, esattamente come le politiche agricole regionali e nazionali riformulate, contribuiscono a
questa costruzione necessaria. L’obiettivo è proprio quello di favorire un’autonomia e una sicurezza crescenti dei paesi e delle regioni,
sapendo che si tratta di un elemento determinante di stabilità politica. In una tale prospettiva, la ricerca, su scala planetaria, della sicurezza alimentare non potrebbe tollerare l’attuazione di una situazione di monopolio da parte di un paese o di un’azienda.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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• Infine, poiché è accertato che i tassi di crescita economica dei paesi
in via di sviluppo che hanno accordato una lieve protezione alla loro
agricoltura sono stati superiori a quelli dei paesi che non l’hanno fatto, la protezione, pianificata, ha tutta la sua legittimità in questi paesi. Laddove ciò si impone, questo elemento di politica pubblica deve
essere preso in considerazione, tanto più che questi stessi paesi non
hanno le capacità finanziarie di cui hanno beneficiato le grandi potenze agricole nella loro fase di decollo, e di cui continuano a beneficiare nella loro fase di riorientamento.
Predominanti nella costruzione della dimensione regionale, riproposte e reindirizzate a livello nazionale, presenti nel dibattito multilaterale, le politiche agricole si ridefiniscono e perdurano, impegnandosi a
risolvere nuove sfide che palesemente le sole regole di mercato non
possono affrontare.
APPENDICE 1
GLI OBIETTIVI DELLA LEGGE
DI ORIENTAMENTO AGRICOLO FRANCESE DEL 9 LUGLIO 1999
L’articolo 1 della Legge di Orientamento Agricolo (Loa) definisce i
differenti obiettivi della politica agricola (francese):
• l’insediamento in agricoltura, in particolare dei giovani, la sostenibilità delle imprese agricole, la loro trasmissione e lo sviluppo dell’occupazione in agricoltura, il cui carattere familiare deve essere preservato, nell’insieme delle regioni francesi in funzione della loro
specificità;
• il miglioramento delle condizioni di produzione, di reddito e del livello di vita degli agricoltori, così come il rafforzamento della protezione sociale degli agricoltori, perseguendo la parità con il regime
generale;
• la rivalutazione progressiva e la garanzia di pensioni minime agli agricoltori, in funzione della durata della loro attività;
• la produzione di beni agricoli, alimentari e non alimentari di qualità
e diversificati, rispondenti ai bisogni dei mercati nazionali, comunitari e internazionali, adempiendo agli obblighi di sicurezza sanitaria,
soddisfacendo i bisogni delle industrie e delle attività agroalimentari, rispondendo alle esigenze dei consumatori e contribuendo alla sicurezza alimentare mondiale;
• lo sviluppo dell’aiuto alimentare e la lotta contro la fame nel mondo,
nel rispetto delle agricolture e dei paesi in via di sviluppo;
50
Il futuro delle politiche agricole
• il rafforzamento del potenziale di esportazione agricola ed agroalimentare della Francia verso l’Europa e i mercati solvibili, facendo
leva sulle imprese dinamiche;
• il rafforzamento dell’organizzazione economica dei mercati, dei produttori e delle filiere, perseguendo una equa ripartizione della valorizzazione dei prodotti alimentari fra gli agricoltori, i trasformatori e
le imprese di commercializzazione;
• la valorizzazione delle produzioni di biomasse a scopi energetici o
non alimentari al fine di diversificare le risorse energetiche del paese e gli sbocchi della produzione agricola;
• la valorizzazione dei territori attraverso sistemi di produzione adatti
alle loro potenzialità;
• il mantenimento di condizioni favorevoli all’esercizio dell’attività agricola nelle zone di montagna, conformemente alle disposizioni
dell’articolo L. 113-1 del codice rurale;
• la protezione delle risorse naturali e della biodiversità e il mantenimento dei paesaggi, evitando che gli obblighi che ne derivano, in
particolare in tema di tutela della fauna selvatica, mettano in pericolo l’equilibrio economico delle imprese agricole e senza che ne risultino spese supplementari per lo Stato;
• il perseguimento di azioni di interesse generale a vantaggio di tutti
gli utilizzatori dello spazio rurale;
• la promozione e il rafforzamento di una politica della qualità e dell’identificazione dei prodotti agricoli;
• il rafforzamento della ricerca agronomica e veterinaria nel rispetto
degli animali e del loro benessere;
• l’organizzazione di una coesistenza equilibrata, nel mondo rurale,
fra gli agricoltori e gli altri agenti rurali, nel rispetto di una concorrenza leale fra i differenti settori economici.
APPENDICE 2
I CONTRATTI TERRITORIALI D’IMPRESA
La nuova Legge di Orientamento Agricolo (Loa) francese del 9 luglio 1999 afferma esplicitamente il carattere multifunzionale dell’agricoltura e il suo riconoscimento nell’ambito della definizione della politica agricola (v. appendice 1). In un contesto di ampliamento sostanziale degli obiettivi di politica agricola, rispetto a quelli del Trattato di
Roma o delle anteriori leggi di orientamento agricolo francesi, il Contratto Territoriale d’Impresa (Cte) appare indiscutibilmente come lo
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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strumento principale, innovatore almeno nei principi, di promozione
del modello agricolo multifunzionale perseguito.
Il Cte ha come obiettivo quello di spingere le imprese agricole a sviluppare un progetto economico globale che integri le differenti funzioni dell’agricoltura menzionate all’articolo 1 della Loa. Il progetto riguarda l’insieme delle attività d’impresa. Comporta una serie di impegni che vertono sugli orientamenti produttivi dell’impresa, l’occupazione e i suoi aspetti sociali, il contributo delle attività d’impresa alla
tutela delle risorse naturali, all’occupazione dello spazio o alla realizzazione di attività di interesse generale e allo sviluppo di progetti collettivi di produzione agricola. Definisce la natura e le modalità dei
contributi dello Stato versati come contropartita di questi impegni.
Il progetto comprende due aree. La prima area - socioeconomica descrive gli impegni dell’imprenditore nell’ambito economico dell’occupazione. La seconda - territoriale ed ambientale - definisce le responsabilità dell’imprenditore in materia di gestione e sviluppo dello
spazio rurale e di tutela dell’ambiente. Come controparte di questi due
impegni sono istituiti due tipi di finanziamento:
• aiuti legati a investimenti o a costi di carattere socioeconomico (investimenti per la riduzione dei costi di produzione, per il miglioramento o il riorientamento della produzione, per il miglioramento
della qualità, per la tutela o il miglioramento dell’ambiente e delle
condizioni di igiene e benessere degli animali; aiuti alla diversificazione delle attività d’impresa, a determinate attività forestali o alla
commercializzazione di prodotti agricoli di qualità), o a costi rilevanti dell’area territoriale e ambientale (aiuti alla protezione e alla
conservazione del patrimonio rurale, alla gestione delle risorse idriche, alla protezione dell’ambiente, ecc.);
• aiuti annuali versati per ettaro o per unità bovina adulta (Uba) finalizzati a compensare le perdite di reddito risultanti da impegni agroambientali o i sovracosti legati a tali impegni. Anche se i Cte non
mirano a finanziare direttamente l’occupazione, gli impegni in merito sono incoraggiati, vale a dire sono calcolati come obiettivi espliciti dei Cte che danno diritto ad un finanziamento pubblico in controparte, con maggiorazione possibile degli aiuti per i progetti che
prevedono la creazione netta di posti di lavoro.
Il Cte è un contratto individuale che si rivolge a tutti gli agricoltori
(agricoltori a titolo principale o secondario, imprenditori individuali o
in società) manifestando tuttavia la volontà politica esplicita, perlomeno al livello nazionale del Ministero dell’Agricoltura e della Pesca, di
accordare i sostegni pubblici in priorità ai progetti di piccole e medie
imprese. Si inscrive in un percorso di sviluppo collettivo, nel senso
52
Il futuro delle politiche agricole
che, nella maggior parte dei casi, gli obiettivi dei progetti individuali
devono ritagliare sul territorio dell’impresa le poste in gioco identificate. Il Cte deve permettere un migliore radicamento della politica nel
territorio. Le approvazioni al sostegno vengono accordate solo dopo il
parere di una commissione locale (Commissione Dipartimentale di Orientamento Agricolo, Cdoa), formata da agricoltori, rappresentanti del
territorio eletti dai cittadini, consumatori e rappresentanti di associazioni per la protezione della natura e dell’ambiente.
Sommario
Durante la seconda metà del XX secolo, diversi fattori hanno contribuito ad una
graduale trasformazione delle politiche agricole in Europa. Da un lato, gli strumenti tradizionali delle politiche agricole sono stati messi in discussione, sia in
ambito Wto, riguardo al livello di protezione, sia all’interno della stessa Unione
Europea, in merito al costo della Pac. D’altro lato, è aumentata l’attenzione dell’opinione pubblica e delle Istituzioni verso i problemi di natura ambientale e i consumatori hanno espresso preoccupazioni crescenti in materia di sicurezza alimentare
e maggiore interesse per la qualità dei prodotti. Nel contributo si analizza il modo
in cui i policy makers cercano di rispondere a tali pressioni, tenendo conto dei diversi fattori, quale, ad esempio, il riconoscimento della multifunzionalità dell’agricoltura. Risulta, in conclusione, evidente che, sebbene gli obiettivi, i metodi e le risorse finanziarie stanziate per le politiche agricole tendano a modificarsi, queste
ultime conserveranno un ruolo di primaria importanza nell’ambito delle politiche
pubbliche.
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54
Il futuro delle politiche agricole
Il consumo di prodotti
alimentari nella Ue
Luis Miguel Albisu
Azucena Gracia
INTRODUZIONE
L’Unione Europea (Ue) è un’area caratterizzata da una situazione di
alto sviluppo e da un processo di integrazione interno, ma anche da un
processo di internazionalizzazione. Ogni processo continuo di integrazione comporta convergenze ma esistono tuttora differenze di consumo fra i diversi Paesi e regioni d’Europa (Gil e Gracia 1998). È importante far luce sulla misura di queste diversità e sui loro motivi. Il
benessere dei consumatori è in aumento e ha raggiunto un livello tale
che essi scelgono i prodotti alimentari non solo per motivi di nutrimento, ma anche di divertimento o, in base alle preferenze, per motivi
di etica, di cultura, di sicurezza, di prestigio o per scelte d’impulso e
per altri fattori che si sono dimostrati molto importanti nella scelta finale dei prodotti alimentari. Per comprendere meglio le peculiarità dei
consumatori europei di prodotti alimentari occorre esaminare le loro
caratteristiche economiche, sociali e demografiche, oltre che il loro
comportamento e le loro scelte.
In questo lavoro presentiamo diverse comparazioni quantitative e interpretazioni qualitative, al fine di conoscere meglio il consumo dei
prodotti alimentari nei diversi Paesi dell’Unione Europea. L’analisi, a
livello europeo, si basa su lavori precedenti di diversi autori e sulla
nostra conoscenza dell’argomento. La prima parte è dedicata alle tendenze statistiche generali e a mettere in luce le differenze fra i Paesi.
Tradotto da: L. M. Albisu, A. Gracia, “Food Consumption in the European Union: Main Determinants and Country Differences”, Agribusiness, XVII, 4, 2001.
Luis Miguel Albisu e Azucena Gracia sono rispettivamente direttore e ricercatrice dell’Unidad de Economia y Sociologia Agrarias, Servicio de Investigatiòn Agroalimetaria di Saragozza, Spagna.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
55
La seconda parte presenta alcune interpretazioni dei motivi e dei modelli effettivi di consumo dei prodotti alimentari in Europa. L’ultima
parte è dedicata ad alcune osservazioni conclusive.
I CONSUMI ALIMENTARI NELL’UNIONE EUROPEA:
TENDENZE, STATISTICHE GENERALI E DIFFERENZE PER PAESE
Negli ultimi 15 anni, l’evoluzione dei consumi alimentari nei Paesi
Europei è stata analizzata da vari autori (Besch 1993; Blandford 1984;
Caiumi 1992; Combris 1991; Frank e Wheelock 1988; Gracia e Albisu
1994; Meulenberg e Viane 1993; Ritson e Hutchins 1991; Wheelock e
Frank 1989), e da tali lavori è possibile trarre alcune conclusioni generali.
I consumi alimentari nei Paesi dell’Unione Europea si possono riassumere in quattro tendenze principali:
1) un’ulteriore riduzione della percentuale di spesa riservata ai consumi alimentari, già bassa;
2) un livello massimo del consumo totale di alimenti, in termini quantitativi;
3) un cambiamento della struttura del consumo alimentare;
4) un aumento della percentuale dei pasti consumati fuori casa.
La prima tendenza non sorprende, ed è conseguente a tutte le crescite macro-economiche, come è avvenuto per tutti i Paesi Europei. La
seconda è il risultato di una situazione che si verifica nei Paesi ricchi,
in cui il fattore quantità viene superato da considerazioni di qualità;
man mano che la quantità quotidiana di cibo diminuisce, la gente vuole mangiare meglio. La terza tendenza non è altrettanto omogenea
quanto le altre due e varia da un Paese all’altro, assumendo aspetti caratteristici, ma si basa anche sull’evoluzione culturale e storica dei singoli Paesi. L’ultima tendenza è anch’essa comune a tutti i Paesi Europei, ma la sua intensità varia da un Paese all’altro, e anche in base alle
circostanze lavorative.
Il consumo alimentare totale nell’Unione Europea è aumentato meno del 2% in un quinquennio (dal 1991 al 1996), e secondo le previsioni dovrebbe registrare un aumento analogo durante i cinque anni
successivi (dal 1996 al 2001) (v. tabella 1). I prodotti alimentari che
hanno fatto registrare l’aumento maggiore sono stati il pesce e i frutti
di mare (6%), lo yogurt e i dessert (9%), il cioccolato (8%) e gli
snacks (15%). Nel prossimo futuro, si prevede un aumento del consumo di tutti i prodotti alimentari, che però dovrebbe essere più moderato rispetto al periodo precedente (con l’eccezione della carne fre-
56
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
TABELLA 1
Consumo di alimenti nell’Unione Europea per categoria di prodotto
(migliaia di tonnellate)
1991
1996
2001
(a)
1996/1991
%
2001/1996
%
Prodotti freschi e
prodotti di altro tipo
91.535
92.007
92.898
0,52
0,97
Carne fresca
19.699
19.349
20.143
-1,78
4,10
Carne lavorata
9.624
10.020
10.572
4,11
5,51
Pesce e frutti di mare
7.485
7.921
8.133
5,8
2,68
Cereali
61.958
63.237
63.767
2,06
0,84
Latte da bere
28.533
28.850
29.152
1,11
1,05
Latte in polvere
2.571
2.461
2.522
-4,28
2,48
Grassi gialli
4.175
4.142
4.177
-0.79
0,85
Formaggio
5.575
5.940
6.096
6,55
2,63
Panna
2.243
2.293
2.334
2,23
1,79
Yogurt e dessert
6.320
6.921
7.158
9,51
3,42
Dolciumi di cioccolato
1.825
1.976
2.068
8,27
4,66
Prodotti dolciari
1.439
1.378
1.433
-4,24
3,99
Snack
1.091
1.254
1.335
14,94
6,46
Minestre, salse e oli
9.032
9.358
9.570
3,61
2,27
253.105
275.107
261.358
1,58
1,65
Totale prodotti alimentari
Fonte: Agra Europe (1997).
(a)
Previsione
sca, il cui consumo aumenterà soltanto quando la crisi della Bse sarà
finita).
Oltre alle tendenze generali è possibile presentare un’analisi più dettagliata. Può verificarsi che, mentre un gruppo di prodotti alimentari
segue una tendenza all’aumento o alla diminuzione, alcuni prodotti alimentari specifici, all’interno di ciascun gruppo, registrino una forte
reazione opposta. Inoltre, l’evoluzione del consumo alimentare differisce da un Paese all’altro.
Vi sono Paesi dell’Unione Europea in cui il consumo totale di ali-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
57
TABELLA 2
Consumo di prodotti alimentari suddiviso per Paesi nell’Unione Europea
(migliaia di tonnellate)
1991
1996
Austria
5.472
5.544
Belgio-Lussemburgo
7.774
Danimarca
Finlandia
(a)
1996/1991
%
2001/1996
%
5.572
1.32
0,51
8.168
8.347
5,07
2,19
4.451
4.644
4.761
4,34
2,52
3.547
3.588
3.664
1,16
2,12
Francia
39.039
39.492
40.295
1,16
2,03
Germania
49.598
51.081
52.359
2,99
2,50
Grecia
8.899
8.871
8.975
-,031
1,17
Irlanda
3.093
3.138
3.176
1,45
1,21
Italia
41.244
43.123
43.610
4,56
1,13
Olanda
11.498
11919
12.243
3,66
2,72
7.451
7.877
8.056
5,72
2,27
Spagna
30.318
29.490
29.864
-2,73
1,27
Svezia
5.803
5.957
5.998
2,65
0,69
34.918
34.211
34.438
-2,02
0,66
Portogallo
Regno Unito
Fonte: Agra Europe (1997).
2001
(a)
Previsione
menti è lievemente aumentato (1-5% dal 1991 al 1996) (v. tabella 2).
In altri Paesi si è registrata invece una diminuzione, come ad esempio
in Grecia (-0,3%), in Spagna (-3%) e in Gran Bretagna (-2%). È sorprendente notare che nell’ultimo gruppo sono compresi due Paesi il
cui reddito pro capite è fra i più bassi d’Europa.
Nei diversi Paesi si osservano tendenze differenti per i vari prodotti.
Le cifre relative ai consumi alimentari per prodotto e per Paese, dal
1991 al 1996, sono state raccolte da Agra Europe (1997). Le variazioni percentuali corrispondono all’evoluzione dell’intero periodo. La tabella 3 illustra il consumo alimentare pro capite nel 1996 suddiviso
per prodotto e per Paese.
TIl consumo medio di carne fresca nell’Unione Europea è sceso del
2% (soprattutto a causa della malattia bovina), mentre il consumo di
58
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
TABELLA 3
Consumo alimentare pro capite nell’Unione Europea per prodotto e per Paese
nel 1996 (chilogrammi)
AUSTRIA
BEL./LUSS. DANIMARCA
FINLANDIA
FRANCIA
Carne fresca
91,23
104,71
119,77
65,29
65,99
Prodotti a base di carne
35,43
22,06
31,18
29,22
25,68
Pesce e frutti di mare
10,62
17,94
87,83
18,82
21,76
Cereali
95,43
178,04
138,78
117,06
144,10
Latte intero
74,81
85,59
120,34
177,65
84,61
Formaggio
9,01
17,16
15,59
12,75
22,78
Yogurt e dessert
15,31
13,73
22,05
24,90
29,40
Dolciumi e snack
14,07
16,27
21,86
10,39
10,12
Totale oli
29,14
33,04
30,61
23,14
17,88
Minestre, salse e sottaceti
10,12
21,86
10,84
8,43
12,27
Frutta fresca
91,23
80,59
54,94
46,27
58,70
5,31
6,47
4,18
5,29
3,89
78,77
39,80
88,78
47,45
61,77
Verdura in scatola
8,77
31,18
5,32
3,33
18,55
Verdura e frutta surgelata
3,21
5,39
7,22
4,71
7,37
60,49
61,76
68,82
62,35
37,53
Legumi
0,99
4,22
0,76
1,57
1,11
Conserve e marmellate
1,36
1,96
2,47
3,33
2,05
Totale zucchero
35,56
44,31
37,64
35,69
33,79
Uova
13,58
14,71
13,88
5,88
14,57
684,44
800,78
882,89
703,53
673,92
Alimenti per l’infanzia
0,62
1,67
1,71
1,57
2,13
Alimenti per animali
9,51
13,04
8,75
4,90
16,57
364,20
366,57
348,67
184,90
253,55
1.058,77 1.182,06 1.242,02
894,90
946,18
Frutta conservata
Verdura fresca
Totale patate
Totale prodotti alimentari
Bevande
Totale cibo e bevande
Segue a pag. 60
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
59
Segue tabella 3
GERMANIA
GRECIA
IRLANDA
ITALIA
OLANDA
Carne fresca
45,65
79,71
79,17
47,04
28,85
Prodotti a base di carne
34,43
7,12
29,44
25,46
23,69
Pesce e frutti di mare
13,69
12,69
23,33
18,69
17,83
137,18
157,21
140,56
265,59
142,29
Latte intero
81,25
78,27
150,28
62,36
137,71
Formaggio
18,58
21,54
6,77
21,44
15,61
Yogurt e dessert
23,17
11,92
13,61
8,51
39,62
Dolciumi e snack
15,84
7,21
15,83
5,81
16,82
Totale oli
23,01
31,25
21,11
14,90
29,68
Minestre, salse, sottaceti
12,22
2,98
13,61
23,15
33,57
Frutta fresca
63,08
98,08
50,56
119,96
103,63
6,77
11,06
8,06
2,21
4,71
Verdura fresca
33,13
184,13
166,39
52,19
31,08
Verdura in scatola
11,48
16,63
14,72
3,85
11,72
4,41
2,50
7,22
4,99
3,06
53,33
79,52
86,67
27,53
66,05
Legumi
1,43
5,10
4,17
3,63
2,55
Conserve e marmellate
2,74
1,15
2,22
1,05
1,46
Totale zucchero
29,82
32,88
26,94
34,73
39,17
Uova
13,26
12,02
11,11
12,12
10,06
Totale prod. alimentari
624,46
852,98
871,67
755,22
759,17
Alimenti per l’infanzia
1,31
0,87
2,22
1,42
1,59
Alimenti per animali
8,20
2,69
8,06
5,62
12,04
417,52
184,33
288,33
271,70
233,50
Cereali
Frutta conservata
Verdura e frutta surgelata
Totale patate
Bevande
Totale cibo e bevande
60
1.051,49 1.040,87 1.170,28 1033,96 1.006,31
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
PORTOGALLO
SPAGNA
SVEZIA
REGNO UNITO
Carne fresca
74,34
41,07
36,74
34,70
Prodotti a base di carne
14,85
21,12
26,97
28,00
Pesce e frutti di mare
30,40
43,48
33,37
14,01
163,13
243,20
122,02
133,01
Latte intero
69,06
76,85
126,52
119,97
Formaggio
5,56
6,70
16,40
8,62
Yogurt e dessert
9,60
15,33
21,80
10,53
Dolciumi e snack
4,95
7,41
13,82
18,29
14,65
26,12
26,74
15,23
5,45
7,03
10,22
20,65
102,02
89,09
57,87
32,14
1,52
7,92
4,83
5,50
145,45
49,24
37,75
34,72
Verdura in scatola
2,32
2,97
8,65
11,92
Verdura e frutta surgelata
2,22
5,51
4,38
7,66
95,35
57,34
65,96
47,66
Legumi
6,87
5,56
1,24
2,31
Conserve e marmellate
1,21
1,07
5,28
1,39
38,48
29,11
38,76
28,96
8,18
12,39
10,00
5,59
Totale prod. alimentari
795,66
748,48
669,33
580,83
Alimenti per l’infanzia
0,81
0,81
1,35
1,60
Alimenti per animali
1,72
3,88
7,64
23,74
Bevande
198,79
261,27
187,64
288,35
Totale cibo e bevande
996,97
1.014,44
865,96
894,52
Cereali
Totale oli
Minestre, salse e sottaceti
Frutta fresca
Frutta conservata
Verdura fresca
Totale patate
Totale zucchero
Uova
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
61
carne lavorata è aumentato del 4%, in particolare in Austria (12%), in
Belgio-Lussemburgo (11%), in Grecia (7%) e in Italia (4%). Tuttavia, il consumo di entrambi i tipi di carne è aumentato in Danimarca
(rispettivamente 2 e 9% per la carne fresca e la carne lavorata), in
Germania (2 e 9%), in Irlanda (7 e 4%), nei Paesi Bassi (11 e 5%), in
Portogallo (4 e 20%) e in Svezia (12 e 10%). Il consumo totale di
carne è diminuito soltanto in due Paesi, la Finlandia e la Spagna, 3 e
8% rispettivamente per la carne fresca, e 6 e 2% per quella lavorata.
L’unico risultato chiaro che emerge da queste cifre è che l’eterogeneità in Europa è la caratteristica più marcata. Non vi sono relazioni
chiare fra il livello assoluto di consumo della carne e le tendenze del
consumo. Tuttavia, la percentuale relativa alla carne lavorata rispetto
al consumo totale di carne è aumentata in tutti i Paesi, con l’eccezione di Finlandia, Irlanda, Paesi Bassi e Svezia, anche se questa percentuale varia secondo i diversi Paesi, e i valori più alti si registrano
nei Paesi Bassi (46%), Gran Bretagna (43%) e Germania (41%),
mentre quelli più bassi riguardano la Grecia (8%) e il Portogallo
(15%). In ciascun Paese si rilevano circostanze e movimenti particolari riguardo ai diversi tipi di carne, che sono più importanti del consumo globale di carne. Di conseguenza, il consumo di pollame e di
carne suina è aumentato a causa dei problemi legati alla carne e anche perché il pollame gode di un’alta considerazione per motivi riguardanti la salute.
Il consumo di pesce nell’Unione Europea è aumentato del 6%, soprattutto grazie agli attributi di salubrità sottolineati dagli specialisti
dell’alimentazione e al crescere della consapevolezza dei consumatori. Il consumo di pesce è diminuito soltanto in due Paesi, la Finlandia
e la Svezia, rispettivamente dell’8 e dell’11%. L’aumento, nel resto
dei Paesi, è piuttosto rilevante, e va dall’8 al 19%, con l’eccezione
della Francia, della Spagna e della Gran Bretagna dove il consumo è
aumentato rispettivamente del 3, del 2 e del 6%. Si ritiene che alcuni
Paesi, contraddistinti da alti livelli di consumo, abbiano raggiunto un
apice, come nel caso della Svezia, della Spagna e della Francia, mentre in altri Paesi, come ad esempio la Danimarca e il Portogallo, il
consumo di questo prodotto, grazie agli effetti benefici ad esso attribuiti, è ancora in aumento.
L’evoluzione del consumo dei prodotti caseari differisce a seconda
del tipo di prodotto. Mentre il consumo di latte nell’Unione Europea è
rimasto stabile, il consumo dei formaggi e quello di yogurt e dessert è
aumentato rispettivamente del 6,6 e del 9,5%. Il consumo di latte è
addirittura diminuito in Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Svezia e Gran Bretagna mentre, in tutti i Paesi, è aumentato il consumo di
62
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
latte scremato. In linea di massima, si prevede che il consumo di prodotti caseari continuerà ad aumentare rispetto al latte da bere e ad essere contraddistinto da un’offerta più varia, legata alla ricerca di convenienza da parte dei consumatori. L’espansione delle maggiori società multinazionali del settore agroalimentare e di quello della distribuzione, ha reso i prodotti caseari accessibili a gran parte della popolazione.
Nell’insieme, il consumo di cereali e di prodotti da forno nell’Unione Europea è lievemente aumentato, del 2%, e la stessa tendenza è stata registrata in tutti i Paesi, escluse l’Irlanda, dove il consumo è diminuito (4,3%), e la Danimarca, dove l’aumento del consumo ha raggiunto l’11%. Una scomposizione più dettagliata potrebbe dare alcune
indicazioni su queste tendenze generali. In linea di massima, il consumo di pane è diminuito in molti Paesi, mentre gli aumenti maggiori
corrispondono ai cereali da colazione, ai dolci, alla pasta e al riso. Il
consumo di cereali può essere incrementato introducendo prodotti che
rafforzino alcuni attributi di salubrità e le caratteristiche nutritive del
prodotto, come ad esempio: alto contenuto di fibra, basso contenuto di
calorie, ecc. Quest’ultima tendenza potrebbe essere un elemento di
primo piano nel cambiamento.
Il consumo di dolciumi e snack è aumentato rispettivamente del 3 e
del 15%. Tale tendenza di crescita è un modello generalizzato in tutti i
Paesi e i tassi più alti sono stati registrati in Portogallo (36%), in Spagna (30%), in Danimarca (17%), in Grecia (10%), in Italia (10%) e in
Francia (10%). Questo gruppo di prodotti alimentari presenta anch’esso una tendenza positiva e, in linea di massima, lo sviluppo maggiore
si è registrato nei Paesi in cui sono presenti le industrie agro-alimentari più deboli.
In generale, il consumo di minestre e salse nell’Unione Europea è
aumentato del 3%. La crescita è stata registrata in tutti i Paesi, e l’aumento maggiore si è avuto in Grecia (20%), in Portogallo (23%) e in
Spagna (14%). In questo caso, è chiaro che l’espansione maggiore si è
verificata nei Paesi del Mediterraneo meridionale, come conseguenza
del passaggio dai prodotti fatti in casa a quelli industriali.
Il consumo di olio nell’Unione Europea è rimasto stabile, ma nei diversi Paesi è possibile osservare una varietà di tendenze. È lievemente
diminuito in Danimarca, Francia, Grecia, Spagna e Gran Bretagna; nel
resto dei Paesi è rimasto stabile o è aumentato leggermente (eccetto il
caso del Portogallo, che ha registrato un aumento del 9%). In questo
gruppo di Paesi si verifica una situazione analoga a quella del consumo di carne, in cui il mutamento del consumo fra i diversi oli è più
importante del consumo globale. Una tendenza comune è il passaggio
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
63
dagli oli animali a quelli vegetali, accompagnata dall’introduzione di
nuovi oli vegetali. Per esempio, l’olio di oliva ha conquistato quella
quota di mercato che in precedenza era riservata agli altri oli, perché è
noto che esso è più salutare.
Il consumo medio di uova nell’Unione Europea è diminuito del
3,5%, soprattutto per il timore che esse facciano aumentare il colesterolo, ma in Irlanda, in Italia e in Portogallo il loro consumo è aumentato. La diminuzione del consumo di uova in Spagna (14%) è un dato
rilevante. È inoltre aumentato il consumo di uova prive di colesterolo
e recentemente si è registrata anche una espansione delle multinazionali verso Sud.
Il consumo di frutta, verdura e legumi nell’Unione Europea è aumentato, con l’eccezione della frutta conservata. Tuttavia, anche se il
consumo di frutta e verdura fresca è aumentato rispettivamente del 2 e
dello 0,6%, il consumo della frutta e della verdura congelata è aumentato del 13%. Questa tendenza alla crescita si può osservare in tutti i
Paesi (con l’eccezione della Gran Bretagna), e in alcuni casi l’aumento
del consumo di frutta e verdura congelata è stato superiore al 30%. Il
consumo di legumi è aumentato in tutti i Paesi, con l’eccezione dell’Austria, della Francia e della Svezia.
Il consumo di frutta e verdura fresca è aumentato in tutti i Paesi dell’Unione Europea, salvo la Grecia, la Svezia e la Gran Bretagna per
quanto riguarda la verdura, e con la sola eccezione della Spagna, dove
il consumo sia di verdura sia di frutta è diminuito rispettivamente del
15 e del 17%. L’andamento del consumo della verdura e della frutta in
scatola varia in modo notevole da un Paese all’altro, ma segue una
tendenza al ribasso. Sembra che, in un certo senso, i Paesi mediterranei stiano abbandonando la tipica dieta mediterranea, mentre altri Paesi si avvicinano a quel modello, aumentando il consumo di frutta e di
verdura.
Riassumendo, in linea generale, il consumo di alcuni prodotti alimentari è rimasto stabile (latte e olio) o è diminuito lievemente (carne
fresca e uova), mentre il consumo di altri prodotti è aumentato (formaggio, yogurt, dolciumi, snack, minestre, frutta e verdura). Tutto
sommato, i consumi alimentari sono rimasti stabili in termini quantitativi, anche se la dieta sta cambiando. I consumatori non possono e non
vogliono mangiare di più, ma la loro domanda alimentare si sta spostando verso altri prodotti. Al giorno d’oggi, il consumo alimentare è
una questione di scelta, e occorre fare grandi sforzi per attrarre i consumatori. La situazione dell’industria agro-alimentare e dei canali di
distribuzione in ciascun Paese influenza anch’essa i modelli e le tendenze di consumo in Europa.
64
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
FATTORI DETERMINANTI DEI CONSUMI ALIMENTARI EUROPEI
I fattori determinanti dei consumi alimentari sono moltissimi e la loro importanza nello spiegare i modelli di consumo alimentare, nel
tempo e nello spazio, sta cambiando rapidamente. Questi fattori provengono da diversi livelli della catena alimentare: consumatori, produttori e rivenditori.
Consumatori
I consumatori sono gli agenti finali del processo di scelta degli alimenti e le loro caratteristiche, le loro attitudini e i loro comportamenti
sono fattori di grande importanza che determinano il consumo alimentare. Si possono elencare diverse questioni relative ai consumatori europei di prodotti alimentari.
Eterogeneità e omogeneità
C’è un grande dibattito riguardo alla “eterogeneità e omogeneità”
dei consumatori europei di prodotti alimentari. Sin dal lavoro pionieristico di Blandford (1984), il quale affermava che le diete degli europei erano convergenti o, per essere più precisi, si stavano avvicinando sempre di più, un numero rilevante di ricerche ha cercato di
stabilire se le strutture del consumo alimentare stiano diventando più
simili. Blandford era giunto alla conclusione che, nonostante le relative differenze di reddito e di prezzo, la composizione delle diete mostrava notevoli analogie, e le differenze fra i modelli di consumo nei
vari Paesi andavano diminuendo col tempo. Gracia e Albisu (1994)
hanno affermato che le differenze nei consumi alimentari dei vari
Paesi europei stavano diminuendo, e Reig (1992) è giunto alle stesse
conclusioni. Gil et al. (1995) e Hermann e Röder (1995) hanno utilizzato impostazioni diverse per chiarire la convergenza o l’avvicinamento fra le strutture dei consumi alimentari nei diversi Paesi. Questi
lavori di ricerca hanno studiato solo l’evoluzione della struttura del
consumo di cibo per categorie aggregate di prodotti alimentari nei diversi Paesi. Inoltre, questi dati non sono sufficienti per l’esecuzione
di analisi disaggregate, che potrebbero offrire risultati molto più
chiarificatori.
Askegaard e Madsen (1995) hanno fatto un altro passo avanti. Hanno infatti analizzato in che misura gli europei sono omogenei o eterogenei rispetto ai comportamenti e alle attitudini verso i prodotti alimentari, utilizzando questionari a livello nazionale. I risultati evidenziano che i Paesi più omogenei sono il Belgio, il Portogallo, la Grecia
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e l’Italia. Paesi come la Spagna, l’Irlanda, la Norvegia e l’Austria rimangono invece piuttosto eterogenei. Tuttavia, l’eterogeneità è provocata da circostanze diverse nei vari Paesi. Per esempio, in Grecia, si riscontrano grandi differenze dovute alle caratteristiche dei prodotti,
mentre in Portogallo e in Spagna, la differenza principale riflette lo
stile di vita che il prodotto alimentare rappresenta. La conclusione
principale è che, nonostante il processo di globalizzazione del cibo,
l’Europa non può, in definitiva, essere considerata un blocco omogeneo rispetto alla cultura del cibo. I confini nazionali insieme ai confini
linguistici sono tuttora i migliori indicatori per le differenze di comportamento in relazione al cibo.
Caratteristiche economiche e socio-demografiche
Dal 1991 al 1996, il consumo di cibo, in termini quantitativi, è aumentato lievemente, ma la spesa totale per l’alimentazione è aumentata di circa il 7% (Agra Europe 1997). La causa di questa diversa evoluzione sta nel fatto che l’aumento della vendita di cibi precotti e/o
pronti si è verificato ad un tasso più alto (6,8%) di quello della vendita
di altri prodotti alimentari. Questo aumento è stato più alto anche in
Portogallo, Spagna e Danimarca. I consumatori europei si rivolgono
con sempre maggiore frequenza al cibo pronto e precotto, e quindi a
prodotti a maggior valore aggiunto. Tale tendenza dipende non solo
dal benessere dei consumatori, ma anche dai mutamenti demografici e
dai mutamenti delle caratteristiche sociali dei consumatori europei. Il
consumo alimentare pro capite, in termini quantitativi, non è molto
cambiato nell’Unione Europea. Anche se i consumatori non mangiano
di più, acquistano più valore aggiunto.
La crescita della popolazione europea è rimasta stabile, con meno
consumatori potenziali e più persone anziane. Il fattore demografico
più importante è il tasso di crescita della popolazione, che era in media dello 0,3% dal 1991 al 1996. Tuttavia, la previsione di crescita della popolazione dell’Unione Europea si aggira intorno a un aumento
del 3,7% per l’intero periodo dal 1995 al 2010. I mutamenti più significativi si verificheranno nel gruppo di età compreso tra i 20 e i 29 anni, con un ampio declino della popolazione, pari a -18,2%, e nel gruppo di età dai 65 anni in su, con un notevole aumento, pari al 20,9%.
Tuttavia, il numero delle persone di età compresa fra i 30 ed i 44 anni
diminuirà in maniera notevole e l’aumento maggiore corrisponderà al
gruppo di età da 75 anni in su (Agra Europe 1997).
I consumatori più anziani tendono a ridurre il valore energetico della loro dieta, sono più conservatori e preferiscono i prodotti alimentari che consumavano abitualmente in passato. Cercano raramente nuo-
66
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
vi prodotti alimentari o pasti già pronti, e mangiano di rado fuori casa. Inoltre, per preoccupazioni legate alla salute, consumano più frutta e più verdura, e meno grassi. Il loro reddito pro capite è relativamente alto, ed essi utilizzano una parte notevole del loro reddito per
l’acquisto dei prodotti alimentari, anche se mangiano di meno rispetto
ai giovani.
La dimensione media delle famiglie nell’Unione Europea è in diminuzione, anche se il numero totale di nuclei familiari è in crescita. Perciò, il numero di nuclei familiari composti da una sola persona è in aumento, e, secondo i dati del 1995, varia dall’11% in Spagna al 41% in
Svezia. Questi nuclei familiari si possono dividere in due categorie:
pensionati che vivono da soli o giovani single. Questi ultimi generalmente mangiano più spesso fuori casa o nel posto di lavoro, e acquistano più spesso pasti pronti o provano prodotti nuovi.
La percentuale di donne lavoratrici è in aumento, e nella maggior
parte dei Paesi, eccettuati Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna, supera il 40% della popolazione. Di conseguenza, i livelli di reddito dei nuclei familiari sono aumentati, e la quantità di tempo a disposizione per cucinare è diminuita. L’effetto principale di questi
cambiamenti è l’aumento dell’uso di cibi precotti, dei pasti pronti per
essere consumati, e il numero sempre crescente di pasti consumati
fuori casa (nel posto di lavoro, o a scuola, nel caso dei ragazzi).
Steenkamp (1997) ha rilevato una correlazione positiva tra la percentuale di donne lavoratrici e il consumo di alimenti surgelati. Lo stesso
potrebbe applicarsi ad altri prodotti alimentari che consentono di risparmiare tempo. Nonostante il gran numero di donne impegnate in
attività professionali, queste ultime sono tuttora largamente responsabili della nutrizione della famiglia e restano le principali organizzatrici dei pasti familiari.
I mutamenti delle caratteristiche dei consumatori (aumento del reddito, invecchiamento della popolazione, minore dimensione dei nuclei familiari, partecipazione delle donne al lavoro, ecc.) hanno provocato la domanda di maggior valore aggiunto nei prodotti alimentari. In particolare, i consumatori europei chiedono una migliore qualità
e prodotti più diversificati. In effetti, essi sono esposti ad una quantità
sempre crescente e ad una qualità sempre più diversificata di prodotti
alimentari.
Le preoccupazioni dei consumatori e la domanda di qualità
Le definizioni di “qualità” sono molte, ma noi abbiamo seguito
un’impostazione che tiene conto di un maggior numero di aspetti rispetto ai semplici parametri di qualità tecnici o obiettivi. Nel nostro
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
67
caso, la valutazione di qualità da parte dei consumatori dipende dal loro parere su quanto i prodotti rispondono alle loro esigenze. In tal
senso, ci sono molte caratteristiche che possono contribuire alla qualità di un prodotto alimentare, soddisfacendo le esigenze dei vari consumatori. Molte di esse possono non essere strettamente legate al prodotto e dipendere dal luogo in cui il prodotto viene venduto o dai numerosi servizi inclusi nel prodotto. Il parere finale del consumatore è
strettamente legato al prezzo di acquisto, che costituisce un buon barometro per determinare il grado di accettazione da parte dei consumatori.
I consumatori basano la loro scelta sui diversi attributi del prodotto
alimentare. Gli attributi che più spesso vengono indicati come quelli
che influenzano le scelte di consumo sono i valori di salubrità e capacità nutritiva, l’aspetto, il sapore, la comodità, l’imballaggio e la sicurezza (Jensen e Basiotis 1993). D’altro canto, i consumatori sono sempre più interessati, sono più informati e diventano pertanto più critici
riguardo agli alimenti (Wheelock 1992). Inoltre, i consumatori si
preoccupano sempre di più dei diversi aspetti dell’assunzione di cibo,
ma soprattutto dei problemi di salute associati alla dieta e alla sicurezza dei prodotti alimentari.
La qualità è un requisito di mercato, e tutti i componenti della catena
agro-alimentare dichiarano che il mercato richiede prodotti di qualità.
Ma, nello stesso tempo, la parola qualità è un termine complesso, che
coinvolge aspetti diversi. Presentiamo qui gli attributi di qualità relativi allo sviluppo dei prodotti, alla comodità, all’origine della produzione, alla salute e alle preoccupazioni relative alla sicurezza. Tutti questi
attributi influenzano l’opinione del consumatore.
Migliorare la qualità attraverso lo sviluppo del prodotto: i prodotti
alimentari riuniscono molte componenti diverse, che vengono costantemente migliorate per dare soddisfazione al consumatore. Per rispondere alle esigenze del consumatore vengono introdotti sul mercato
nuovi prodotti alimentari, attraverso trasformazioni fisiche (nuovi ingredienti, sapori diversi, odore migliore, ecc.). Per esempio, i consumatori potrebbero desiderare una versione più leggera di un determinato prodotto, nella quale però sia mantenuto il sapore originale. Il
mercato europeo sembra non essere predisposto ai nuovi prodotti come lo è il mercato statunitense, ma si continuano ad introdurre costantemente prodotti nuovi, anche se molti di essi non hanno successo. In
Europa si riscontra la tendenza, dovuta alle numerose esposizioni a
culture diverse, ad introdurre prodotti alimentari provenienti da altre
culture; questi prodotti vengono poi adattati a ciascun Paese particolare. I movimenti di massa degli emigranti e dei turisti favoriscono l’in-
68
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
troduzione di nuovi prodotti in base ad altre esperienze culturali. Esiste una nuova cultura di fusione delle ricette, che include ingredienti e
metodi di cottura caratteristici di gruppi etnici diversi.
Per quanto riguarda la creazione di nuovi prodotti, l’innovazione dei
processi è stata una fonte più importante dell’innovazione vera e propria dei prodotti stessi (Grunert et al. 1992). Ciò significa che le industrie fornitrici e i loro progressi tecnologici hanno rappresentato un
fattore determinante. I miglioramenti tecnologici vengono rapidamente acquisiti dalle grandi aziende, ma anche da quelle piccole e medie,
nella misura in cui esse dispongono del capitale necessario per inserirli. Le grandi multinazionali distribuiscono i loro nuovi prodotti in tutta
Europa e l’innovazione dei prodotti è controllata dalle industrie agroalimentari. Tuttavia, il contributo delle catene di distribuzione alimentare attraverso i loro marchi non è molto rilevante.
I miglioramenti della qualità si ottengono anche attraverso confezioni nuove o migliorate, poiché queste ultime stanno diventando una
componente importante per l’apprezzamento del prodotto. Per esempio, i prodotti alimentari vengono modificati, per migliorare la loro
qualità, con una confezione speciale che dipende dal loro uso finale,
come ad esempio una confezione di piccole dimensioni per le esigenze
individuali, o contenitori riutilizzabili che tengono conto delle preoccupazioni ambientali. Tra gli elementi capaci di generare attrazione
rientrano anche i prodotti nuovi oppure quelli vecchi che contengono
messaggi nuovi. Altri aspetti che aggiungono qualità al prodotto sono:
la freschezza, che ha favorito l’agricoltura in aree adiacenti ai centri
urbani in molti Paesi europei e ha reso obbligatorio l’uso del trasporto
refrigerato, e l’uso di metodi tradizionali di produzione per dare l’idea
di un risultato di sicurezza. È per questo motivo che i prodotti biologici, l’agricoltura a lotta integrata e gli organismi non geneticamente
modificati trovano migliore accoglienza in Europa che altrove. I nuovi
sviluppi dei prodotti tengono conto di tutte queste considerazioni sui
prodotti stessi e sulle percezioni dei consumatori.
Migliorare la qualità attraverso la convenienza: il valore crescente
del tempo, dovuto soprattutto alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ha creato la domanda di un maggior numero di prodotti pronti. Perciò, il consumo di alimenti pronti all’uso, sottoposti a
lunga preparazione (prodotti da forno, yogurt e cibi surgelati) è aumentato in modo rilevante. Dal 1991 al 1996, il tasso di crescita del
consumo di cibi trasformati o elaborati è aumentato di 4 volte rispetto
al consumo totale dei prodotti alimentari, e si prevedeva che, nei cinque anni successivi, sarebbe aumentato con rapidità doppia (Agra Europe 1997).
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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La spesa per i cibi pronti rappresenta il 43,5% della spesa alimentare
totale nell’Unione Europea e si prevedeva che essa sarebbe aumentata
del 7,4% (a tasso di cambio costante) dal 1996 al 2001. Il consumo
più ampio, in volume, corrisponde ai prodotti caseari, seguiti dalle
carni trasformate e dai cereali. Gli aumenti maggiori sono stati previsti
per il consumo degli snack (15%), della verdura surgelata (10,8%), e
dei cereali (8%).
Il più alto consumo di cibi trasformati, dal 1991 al 1996, è stato registrato in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e in Italia. Tuttavia,
il maggiore aumento del consumo di cibi trasformati si è avuto in Portogallo (14,8%), in Danimarca (9,8%), in Grecia (9,6%), in Italia
(9,6%) e in Spagna (8,7%). Si prevede inoltre che, entro il 2001, l’aumento maggiore si avrà in Portogallo (8,3%), in Irlanda (7,2%), in
Spagna (6,8%) e in Grecia (6,5%).
Questa tendenza tuttavia ha alcuni limiti, che dipendono non solo
dalla disponibilità di reddito dei consumatori o dalle loro abitudini alimentari, ma anche dallo spazio che sarebbe necessario nelle abitazioni
per ospitare i surgelatori o i forni a microonde. Gli edifici moderni
contengono già tutte queste attrezzature, ma per gli appartamenti costruiti negli anni passati ci sono maggiori difficoltà. È importante tenere presente che gli appartamenti europei sono piuttosto piccoli, e che
gran parte della popolazione vive in zone urbane e non intorno alle
città. Le catene di distribuzione adattano quindi la loro offerta alle attrezzature di cui dispongono i loro consumatori.
Migliorare la qualità attraverso l’origine della produzione. Per loro
natura, i prodotti alimentari hanno un’origine legata alla terra e quindi
un’origine regionale o geografica (Kuznesov et al. 1997). I fattori socio-culturali e la disponibilità dei prodotti hanno dato forma alle abitudini di consumo alimentare. Anche se la globalizzazione, la crescita
dei commerci e l’esposizione dei consumatori a prodotti nuovi attraverso i viaggi e l’informazione hanno eroso la relazione fra il cibo e il
territorio, l’interesse per il cibo che abbia una precisa località o regione di origine si è rinnovato. Se i progressi tecnici in agricoltura hanno
indubbiamente portato benefici enormi alla produzione di cibi in Europa, è anche vero che si riscontra una tendenza alla scomparsa dei
prodotti associati alle tradizioni locali e derivati da un lungo processo
di evoluzione selettiva (Peri e Gaeta 1999). Tuttavia, questo interesse
è stato mantenuto nei Paesi dell’Europa mediterranea, soprattutto in
Francia, in Italia e in Spagna.
Le normative dell’Unione Europea consentono la richiesta di una
designazione mediante una Denominazione di Origine Protetta (Dop)
o un’Indicazione Geografica Protetta (Igp) per i prodotti alimentari a-
70
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
venti una determinata origine geografica. Dal 1996, tutti i Paesi dell’Unione Europea, esclusa l’Irlanda, hanno ottenuto, per diversi prodotti alimentari, la Designazione di Origine dell’Unione Europea (Eudo). La Francia ha il più alto numero di prodotti alimentari Eudo
(101), seguita dall’Italia (99), dal Portogallo (76), dalla Grecia (72) e
dalla Spagna (40). È importante notare che la presenza di denominazioni di origine è strettamente legata ai Paesi mediterranei. Altri Paesi
hanno un numero minore di prodotti alimentari Eudo: Gran Bretagna
(23), Austria (11), Olanda (4), Belgio (3), Danimarca (3), Finlandia (1)
e Svezia (1) nel 1998 (Commissione Europea 2000).
L’obiettivo è che questi alimenti siano considerati di alta qualità,
prodotti in un’area specifica, seguendo metodi di produzione certificati, che garantiscono la qualità e la tracciabilità. Anche se una media
del 30% dei consumatori europei tende ad acquistare prodotti con Denominazione di Origine, la percentuale varia da un Paese all’altro. In
Francia e in Spagna questi prodotti vengono acquistati rispettivamente
dall’85 e dal 79% dei consumatori, mentre in Svezia la percentuale è
solo dell’8%. In media, il 39% dei consumatori europei ritiene che i
prodotti tipici siano anche prodotti di qualità. In alcuni Paesi, la percentuale dei consumatori che considera i prodotti tipici legati ad un’alta qualità è superiore al 50% (ad esempio, il 58% in Francia e il 62%
in Italia). In una ricerca condotta in cinque Paesi europei, Trognon et
al. (1999) hanno riscontrato che, per spiegare i modelli di comportamento verso i prodotti alimentari regionali, la conoscenza, l’opinione
e l’attitudine dei consumatori sono tanto importanti quanto lo sono i
fattori socio-demografici.
Negli ultimi anni, si sono verificate alcune frodi alimentari che hanno rafforzato l’apprezzamento dei consumatori nei confronti del controllo totale della qualità, dalla produzione al consumo. I produttori in
grado di vendere i loro prodotti direttamente sul mercato si trovano in
una posizione migliore nel comunicare ai consumatori l’intero processo. La Denominazione di Origine, insieme alla tracciabilità, rappresenta un valore importante per i produttori di materie prime in grado
di trasformare i prodotti. I produttori europei ne sono consapevoli e sia
i vini sia molti altri prodotti tipici hanno già tratto vantaggio dalla
nuova situazione.
Migliorare la qualità attraverso la salubrità: l’informazione, sempre
più diffusa, in merito ai problemi relativi alla salubrità degli alimenti
ha accresciuto le preoccupazioni dei consumatori riguardo al tipo di
prodotti che essi consumano. Inoltre, l’attenzione rivolta alle questioni
della nutrizione si è concentrata sul rapporto fra la dieta e le principali
malattie croniche. Di conseguenza, i consumatori hanno ottime ragioni
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
71
per seguire una dieta adeguata e varia, onde mantenere la buona salute
e prevenire le malattie legate all’alimentazione. L’individuazione delle
diete più adeguate ha dato adito a controversie e uno degli approcci è
stato il confronto con le diete tradizionali, ritenute sane.
Le diete tradizionali, mediterranea e asiatica, sono modelli eccellenti
di alimentazione sana (Trichopoulou e Lagiou 1997). Entrambe sono
collegate alla bassa incidenza di un certo numero di malattie, generalmente collegate all’assunzione di cibo, come ad esempio le malattie
coronariche e alcuni tipi di cancro. Entrambe le diete prevedono un alto contenuto di cereali, di verdura e di frutta, e sono quindi ricche di
antiossidanti e di fibre, e povere di grassi saturi e prodotti animali. Roza (1997) ritiene che una dieta sana debba prevedere: «un alto consumo di frutta e di verdura fresca, un equilibrio fra proteine e grassi insaturi, un alto consumo di pesce e un basso consumo di grassi saturi,
di sale e di zucchero».
In linea di massima, gli studi riguardanti la relazione tra la salute e
le diete sono aumentati in Europa, ma fra di essi si riscontrano diversità di opinioni. Tuttavia, la crescente consapevolezza delle caratteristiche di salubrità della dieta sta influenzando la scelta alimentare dei
consumatori. Esiste un legame chiaro fra gli aspetti nutritivi, la consapevolezza degli aspetti sanitari e l’aggiunta di componenti farmaceutiche ai prodotti alimentari. Di conseguenza, si verificano vari mutamenti nel consumo alimentare: (1) mutamento delle strutture del consumo alimentare (ad esempio, aumento del consumo di frutta e verdura fresche); (2) acquisto di alimenti modificati dal punto di vista nutritivo; e (3) acquisto di alimenti che offrono benefici per la salute.
All’inizio degli anni ’60, il tipo di alimentazione tradizionale dei
Paesi dell’Europa mediterranea (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) era considerato sano e rappresentativo della dieta mediterranea. Tuttavia, la tendenza del consumo alimentare in questi Paesi si è allontanata
da questo tipo di dieta (Gracia e Albisu 1999). Le istituzioni pubbliche
e private di questi Paesi sono preoccupate per il mutamento nelle preferenze dei consumatori in favore di diete non sane, e si sforzano di
informare e istruire i consumatori in merito alle caratteristiche di salubrità della dieta mediterranea. Inoltre, alcuni Paesi del Nord stanno
modificando la loro domanda alimentare, orientandosi verso caratteristiche più sane. Per esempio, le carni non sono più così gradite dai
consumatori quanto lo erano in passato, e i grassi animali non vengono più consumati con molta frequenza.
I consumatori europei richiedono una varietà di prodotti più sani,
come quelli biologici, gli alimenti prodotti in casa, i prodotti naturali,
quelli a basso contenuto di grassi, quelli fortificati e gli alimenti fun-
72
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
zionali. I prodotti alimentari biologici rappresentano una piccola quota
di mercato. I prodotti dell’agricoltura a lotta integrata sembrano avere
un futuro più promettente, ma la mancanza di una regolamentazione
chiara ne impedisce un’ampia diffusione. Le catene di distribuzione
stanno lavorando sodo per compensare questa carenza e migliorare la
copertura del mercato con i loro marchi distributivi.
Migliorare la qualità attraverso la sicurezza: le questioni relative
alla sicurezza alimentare, e in particolare la relazione fra la sicurezza
alimentare e i problemi della salute, rappresentano una preoccupazione crescente in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Questo disagio è rimasto latente, ma si è rivelato nella sua importanza quando si sono
verificati alcuni incidenti relativi alla sicurezza, ad esempio nel caso
della Bse e in quello della diossina. Dopo questi incidenti, si è avuto
un aumento dell’informazione sui rischi legati alla sicurezza alimentare; i consumatori hanno perduto fiducia nella produzione alimentare
e sono molto preoccupati per tutto ciò che è legato al cibo. Una questione collegata, e cioè gli effetti ambientali della produzione agricola
e della trasformazione agro-alimentare, rappresenta anch’essa una
priorità per i consumatori. L’apprezzamento della sicurezza da parte
dei consumatori dipende dalla loro valutazione dei rischi e richiede una evidenza scientifica valida e l’interpretazione degli standard di sicurezza, che generalmente sono differenti nei diversi Paesi Europei
(McCrea 1998).
Negli ultimi anni, la fiducia dell’opinione pubblica nella sicurezza
dei prodotti alimentari è stata messa alla prova da numerosi timori:
l’epidemia di Bse, la scrapie, la salmonella e la peste suina. Uno studio mirato, condotto nell’ambito di una indagine dell’Eurobarometro,
che ha previsto una serie di domande sull’argomento, ha chiesto agli
intervistati di dichiarare il loro parere sulla sicurezza di alcuni prodotti
alimentari. Il pane e i prodotti da forno sono considerati i più sicuri
(86% degli intervistati). La fiducia è risultata alta anche nei confronti
della frutta, della verdura e dei prodotti caseari. Gli intervistati si sono
dimostrati meno propensi a ritenere che i prodotti animali, come il pesce e la carne, sono sicuri, e una percentuale rilevante della popolazione sembra mettere in discussione la sicurezza dei prodotti surgelati e
di quelli in scatola. La preoccupazione più diffusa si registra nei confronti dei pasti precotti (39%) e degli altri alimenti preconfezionali
(42%) (Commissione Europea 1998). Si riscontrano notevoli variazioni fra i diversi Stati membri. In media, in Svezia, in Olanda, in Gran
Bretagna e in Finlandia, più di otto persone su dieci considerano sicuri
i prodotti alimentari. In Grecia, in Germania e in Portogallo, questa opinione è condivisa da meno di sei persone su dieci.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
73
Al giorno d’oggi, i consumatori europei hanno perso fiducia nella
produzione alimentare e si preoccupano soprattutto di due aspetti della
sicurezza alimentare: la contaminazione alimentare e la sicurezza delle
nuove tecnologie (prodotti alimentari derivati da organismi geneticamente modificati - Ogm). Nel primo caso, il manifestarsi di alcuni incidenti relativi alla sicurezza, come nel caso della Bse, ha provocato
un rapido mutamento nelle scelte alimentari (nel 1996, il consumo di
carne bovina è diminuito di circa il 30% in tutti i Paesi dell’Unione
Europea ). Inoltre, questi incidenti hanno dato origine anche a richieste, da parte dei consumatori, di informazioni legate alla produzione e
al controllo alimentare, in particolare per quanto riguarda le nuove
tecnologie. In questo caso, per i consumatori europei, la biotecnologia
è stata un argomento importante. Quando l’opinione pubblica europea
è venuta a conoscenza dei prodotti derivati da organismi geneticamente modificati, la prima reazione è stata negativa. I prodotti alimentari
Ogm hanno dato origine ad un importante dibattito fra i consumatori
europei.
Alla base di questa reazione vi sono diversi motivi. Alcuni consumatori collegano strettamente questi prodotti alle grandi multinazionali, le
quali non si preoccupano granché degli interessi dei consumatori. In
molti Paesi europei, il controllo sugli alimenti non è stato intrapreso
con efficacia e sugli Ogm esiste il rischio che non sia stata condotta una sperimentazione scientifica sufficiente. Tale opinione è diversa a seconda dei vari Paesi, poiché i Paesi del Nord non sono propensi alla
certificazione degli alimenti ed è esattamente il contrario di ciò che avviene al Sud. Molti consumatori sono estremamente ignoranti riguardo
al significato dei termini “organismi geneticamente modificati”, ma i
media hanno diffuso una opinione permissiva su questo argomento.
Viviamo nella cosiddetta società dell’informazione. I consumatori
chiedono maggiori informazioni. L’etichettatura degli alimenti è, da
lungo tempo, uno degli interessi principali dei responsabili politici
dell’Unione Europea, fin dall’emanazione della direttiva 79/112/Cee
riguardante l’etichettatura degli alimenti. Ogni ricerca svolta nell’Unione Europea rivela che i consumatori desiderano avere maggiori
informazioni. Le informazioni nutrizionali sulle confezioni sono ritenute di grande valore, ma sembra esservi mancanza di fiducia. Secondo Davies (1998) i consumatori si affidano sempre di più alle indicazioni in etichetta perché consumano una maggiore quantità di alimenti
trattati; gli ingredienti non sono più quelli che il consumatore si aspetta; l’acquisto viene fatto in fretta; l’interesse per gli aspetti sanitari è in
aumento; le richieste sono più complesse, così come i metodi di commercializzazione, e un maggior numero di persone richiede diete parti-
74
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
colari. Vi sono molti modi attraverso cui i consumatori possono ottenere informazioni (telefono, e-mail, siti Internet, appositi dispositivi di
informazione con schermo tattile all’interno dei punti vendita, lettori
di codici a barre collegati ai computer all’interno dei punti vendita,
ecc.). Tuttavia, l’etichetta del prodotto è ancora il mezzo più potente
per informare i consumatori sugli attributi dei prodotti, per quanto non
dovrebbe essere sovraccaricata (Hunt 1998).
Preferenze, stili di vita e modelli di consumo alimentare
Le preferenze e le attitudini hanno avuto un grande effetto sul consumo alimentare. Hanno creato differenze nei comportamenti alimentari fra i diversi Paesi e i diversi segmenti di consumatori. I valori culturali, le preferenze acquisite e i diversi stili di vita hanno ciascuno un
impatto rilevante sul consumo alimentare. Gli atteggiamenti e le preferenze per i prodotti alimentari si definiscono durante il processo di
formazione delle abitudini, e queste abitudini continuano nel tempo.
Molte differenze internazionali nei modelli delle diete sono la diretta
conseguenza della disponibilità e della produzione locale esistenti nel
passato (Ritson e Hutching 1991).
Per esempio, la cucina mediterranea comprende l’olio d’oliva, mentre quella norvegese no, per via dell’ubicazione geografica della produzione degli ulivi. I consumatori sviluppano una preferenza per i prodotti alimentari che sono abituati a consumare, e anche quando sono
disponibili altri prodotti, essi persistono nel loro modello di consumo.
L’olio d’oliva è ormai disponibile in tutta l’Europa del Nord, a prezzi
analoghi a quelli praticati nei Paesi mediterranei, ma i livelli di consumo non sono aumentati di molto, a causa di gusti e preferenze diversi.
Nel 1995, in Spagna, il prezzo dell’olio di oliva è aumentato all’improvviso per una carenza di raccolto, ma il consumo è sceso solo di
poco, poiché l’olio di oliva è un ingrediente tradizionale della cucina
spagnola.
Gli stili di vita e il modo in cui le persone vivono e utilizzano il loro
tempo e il loro denaro determinano i modelli di consumo alimentare e
caratterizzano i segmenti dei consumatori. Per individuare i vari segmenti di consumatori europei sono stati sviluppati diversi programmi.
Seguendo lo schema Euro-Sociostyles (Agb/Europanel) sono stati
pubblicati i risultati relativi alle risposte dei consumatori di 15 Paesi
europei. È stato così possibile individuare cinque principali segmenti
di stili di vita: “mordi e fuggi”, “elitari misurati”, “neo-tradizionalisti”,
“tradizionalisti” e “esploratori” (Steenkamp 1997). I “tradizionalisti”
sono, in media, più anziani e preferiscono gli alimenti tradizionali.
Questo segmento, insieme a quello dei “neo-tradizionalisti”, è più
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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propenso ad essere ricettivo ai prodotti della propria regione. Per contro, il profilo degli “elitari misurati” fa ritenere che questo segmento
possa essere particolarmente aperto ai prodotti e ai marchi globali, e ai
prodotti di alta qualità. I consumatori “mordi e fuggi” e quelli “esploratori” sembrano più aperti ai prodotti nuovi. Grunert et al. (1993) hanno sviluppato un modello per correlare stili di vita e alimentazione.
Questo modello è stato applicato a diversi Paesi europei e ha permesso
di trarre le seguenti conclusioni generali: i consumatori francesi sono
molto attenti alla qualità, mentre quelli tedeschi sono più interessati alla salute e all’ambiente (Bredahl e Grunert 1997; Brunso et al. 1996).
Brunso et al. (1996) hanno classificato i consumatori di alimenti (francesi, tedeschi, inglesi e danesi) in cinque segmenti: “non impegnato”,
“indifferente”, “razionale”, “conservatore”, e “avventuroso”. Il comportamento di acquisto dei “non impegnati” è caratterizzato da un basso grado di stabilità, da una bassa fedeltà ai marchi e da un’alta suscettibilità al prezzo. I consumatori “disattenti” si dimostrano molto interessati ai nuovi prodotti, che sono facili da cucinare. Non sono interessati a caratteristiche dei nuovi prodotti, quali la salubrità, il gusto o la
freschezza. I consumatori “razionali” sono più ricettivi ai prodotti alimentari di qualità elevata in termini di caratteristiche, salubrità, freschezza e naturalità/ecologia. La qualità deve anche essere legata al
prezzo. I consumatori “conservatori” amano osservare ed acquistare,
ma sono contrari a cambiare le abitudini alimentari e a cercare prodotti
nuovi. I consumatori “avventurosi” sono interessati alle caratteristiche
e al prezzo dei prodotti, ma sono particolarmente inclini a tenere conto
del proprio appagamento, della creatività e degli eventi sociali.
I modelli di consumo alimentare stanno cambiando in tutti i Paesi
dell’Unione Europea. In primo luogo, si consuma un maggior numero
di pasti fuori casa, specialmente nel caso dei giovani e, in secondo
luogo, i modelli di consumo alimentare in casa stanno cambiando anch’essi. Come conseguenza del mutamento delle caratteristiche sociodemografiche, il numero dei pasti consumati a casa sta diminuendo,
mentre aumenta, per contro, il consumo nei ristoranti, nelle scuole e
nei luoghi di lavoro. Per quanto riguarda i modelli di consumo in casa,
i consumatori alimentari europei possono essere suddivisi in due gruppi: i consumatori nordici, i cui pasti consistono in un piatto unico,
principalmente composto da carne, accompagnata da verdura, e i consumatori dell’Europa meridionale, i cui pasti sono generalmente composti da diverse portate (Askegaard e Madsen 1995). Benché questa
distinzione sia tuttora valida, negli anni ’90 in alcuni Paesi i modelli di
consumo alimentare hanno incominciato a cambiare. Per esempio, in
Gran Bretagna, la prima colazione tradizionale sta diventando simile
76
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
alla colazione continentale e, durante il week-end, il brunch all’americana sostituisce a volte il tradizionale pranzo domenicale (roastbeef).
Tuttavia, in Spagna, in Italia e in Francia, i modelli di consumo alimentare non sono cambiati in maniera rilevante. Le famiglie spagnole
preferiscono mangiare insieme e consumare un pasto principale, a
pranzo, formato da diverse portate (insalata, carne e dessert). In Italia,
la prima colazione è leggera, come avviene in Spagna, e si consuma
generalmente un pasto principale formato da diverse portate (pasta,
carne e insalata). Gli Italiani sono tradizionalisti, e i fast food non hanno avuto grande penetrazione nella loro cultura. La maggioranza dei
consumatori francesi segue il tradizionale modello di consumo alimentare (tre pasti: prima colazione, pranzo e cena), con una composizione molto strutturata dei due pasti principali (antipasto, piatto forte,
formaggio e dessert) (Yon e Bernaud 1993). Ma il numero di questo
gruppo di persone sta diminuendo e si registra l’aumento dei consumatori che non segue questo modello di consumo alimentare. Quest’ultima tipologia spesso salta uno dei pasti (81 %), beve fra i pasti
(84 %), o consuma “prodotti leggeri” (82 %). I consumatori tedeschi
non sono molto tradizionalisti, e adottano facilmente piatti provenienti
da altre culture. Mangiano molta frutta e prodotti biologici perché sono particolarmente attenti alla salute.
Il consumatore tipico non esiste più; vi sono invece consumatori che
si comportano in modo diverso a seconda delle circostanze (Giannetto
1998). Inoltre, il loro normale comportamento di acquisto potrebbe essere totalmente differente da quello che adottano allorché acquistano
gli alimenti in un punto vendita a prezzi scontati, oppure durante il
week-end o in occasioni particolari. È importante determinare l’importo di denaro che il consumatore spende nelle diverse circostanze.
Ad esempio, le stazioni di servizio potrebbero ottenere un reddito interessante dai prodotti alimentari esposti nei loro punti vendita. Le aziende di trasformazione e i rivenditori al dettaglio europei cercano di
adeguarsi ad una nuova tipologia di consumatori, che vive in Paesi benestanti e in mercati saturi.
Produzione e vendita al dettaglio dei prodotti alimentari
Negli ultimi anni, in Europa, le strutture e le strategie dei produttori
e dei rivenditori al dettaglio di prodotti alimentari sono cambiate in
maniera rilevante. Sia gli uni che gli altri diventano sempre più concentrati e debbono far fronte ad una concorrenza sempre più forte in
mercati alimentari saturi. Inoltre, le loro attività sono fortemente correlate, ma il rapporto di potere sta passando dai produttori ai rivendito-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
77
ri al dettaglio. Uno dei motivi principali di questo nuovo equilibrio di
potere è la crescita dei prodotti identificati con private labels, a spese
di quelli di marca (Poole 1997). L’estrema concentrazione, che si è verificata di recente, presenta un nuovo scenario in cui la grande distribuzione si serve di un numero molto ridotto di fornitori, in grado di far
fronte alle sue esigenze. Ciò comporta una situazione nuova nella quale pare impossibile che si verifichino aspri confronti, ma è necessario
raggiungere accordi e pianificare insieme il futuro.
In Europa, l’importanza dei prodotti private label varia notevolmente da un Paese all’altro: dal 2,6% del mercato in Grecia, al 29,7% in
Gran Bretagna nel 1999 (tabella 4). Si calcola che in media, in Europa, il prezzo dei prodotti alimentari private label sia del 25% più basso di quello dei prodotti di marca. Anche se i consumatori europei richiedono prodotti con più valore aggiunto, e in particolare una migliore qualità, molti di essi non sono disposti a pagare un prezzo alto per
la qualità migliore. In questo contesto, i rivenditori al dettaglio offrono
prodotti private label, che vengono ritenuti di alta qualità, con prezzi
più bassi. Si prevede che la quota di mercato per i prodotti alimentari
private label aumenterà, grazie ai loro prezzi bassi e al fatto che sono
di qualità analoga a quelli di marca (Steenkamp 1997). Tuttavia, nel
mercato europeo si registra un numero crescente di segmenti di consumatori che richiedono tipi diversi di prodotti alimentari; in particolare
ancora oggi alcuni gruppi di consumatori attribuiscono valore ai nomi
di marca e li collegano con una qualità ed un prestigio più elevati. Di
conseguenza, in Europa, i produttori più grandi possono ancora investire per rafforzare il marchio privato della loro azienda, e questo vale
soprattutto per i marchi leader.
Il settore della produzione di alimenti e bevande è il più grande in
Europa in termini di valore di produzione e il secondo in termini di occupazione. Tuttavia, oltre l’80% delle aziende di produzione di alimenti impiega meno di 10 lavoratori, e soltanto lo 0,3% ne impiega più di
500 (Traill 1998). Perciò, la maggioranza delle aziende alimentari è
costituita da aziende medie e piccole (Pme, con meno di 250 dipendenti secondo la definizione della Commissione Europea), ma le aziende
più grandi impiegano il 29% dei lavoratori e rappresentano il 40% del
fatturato. Inoltre, vi sono differenze strutturali fra i vari Paesi. In Gran
Bretagna, Danimarca e Svezia le industrie sono ad alta concentrazione
(oltre il 50% della produzione proviene da grandi aziende), in Germania e in Francia il livello di concentrazione è medio (30-50% della produzione proviene da grandi aziende), e in Italia, Portogallo, Belgio,
Grecia e Irlanda il livello di concentrazione è basso (meno del 30%
della produzione proviene da grandi aziende) (Traill 1997).
78
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
Il gruppo di aziende alimentari di medie e piccole dimensioni deve
concentrare le strategie sul raggiungimento dei vari consumatori europei. Le aziende di medie dimensioni, per trarre vantaggio dalle economie di scala, possono fabbricare prodotti per le private label delle aziende di vendita al dettaglio, ma possono anche vendere i loro prodotti alimentari di marca. In quest’ultimo caso, i produttori alimentari devono diventare orientati ai consumatori e rispondere alle loro esigenze,
anziché indurre modelli di consumo. I piccoli produttori europei devono concentrarsi sulla produzione di prodotti molto specifici destinati ad
un particolare segmento di consumatori (Gilpin e Traill 1999).
Un altro dei motivi importanti che hanno provocato l’aumento del
potere dei dettaglianti nel mercato alimentare è la crescente concentrazione dei punti vendita. L’indice di concentrazione, calcolato per i tre
più importanti rivenditori al dettaglio in ciascun Paese, dimostra che il
settore della distribuzione alimentare è caratterizzato da un’alta concentrazione. In Danimarca, Belgio, Austria e Francia, più della metà
delle vendite va attribuita ai tre più importanti rivenditori al dettaglio
(v. tabella 4). I dati più recenti mostrano addirittura un aumento dei
tassi di concentrazione, a causa della continua fusione fra le società di
vendita al dettaglio.
In passato, i consumatori europei dovevano fare acquisti in una serie
di piccoli negozi alimentari indipendenti (droghiere, fornaio, macellaio, ecc.). Tuttavia, durante gli anni ’70, nei Paesi del Nord (in alcuni
Paesi, come ad esempio la Germania, anche prima di quel periodo), e
più di recente nei Paesi meridionali, la struttura di vendita al dettaglio
di prodotti alimentari ha subito grandi cambiamenti e il numero dei
negozi alimentari è diminuito, mentre le loro dimensioni sono aumentate. Questo processo è avvenuto secondo fasi e momenti diversi nell’insieme dell’Europa (Meulenberg 1993).
In Germania, la transizione verso il sistema self-service è avvenuta
all’inizio degli anni ’50, e i supermercati hanno fatto la loro comparsa
negli anni ’60 (Besch 1993). Il processo di concentrazione della vendita al dettaglio in Olanda e in Gran Bretagna è avvenuto verso la
metà degli anni ’70, mentre in Francia si è verificato all’inizio degli
anni ’80 (Dawson 1995). Nei Paesi dell’Europa meridionale, questo
processo, essendo iniziato più tardi, è ancora in corso. Per esempio, in
Spagna nel 1975 esistevano soltanto otto ipermercati e 400 supermercati; la loro importanza è aumentata rapidamente: nel 1999 il numero
degli ipermercati era arrivato a 279, e quello dei supermercati a 4.310.
L’attrattiva di questi grandi punti vendita è basata sui prezzi convenienti, i lunghi orari di apertura, la grande varietà di prodotti alimentari e la comodità di acquisto (risparmio di tempo).
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
79
La maggior parte dei punti vendita al dettaglio in Europa si trova in
cinque Paesi: Italia (25%), Germania (14%), Spagna (14%), Francia
(12%), e Gran Bretagna (11%), anche se due terzi delle vendite sono
attribuibili ad aziende tedesche, francesi e inglesi (Davada 1997). La
fusione fra le due più importanti aziende francesi, Promodes e Carrefour, ha creato il secondo maggior gruppo del mondo, ed è stata una
chiara reazione contro l’entrata di Wal-Mart. Dopo la fusione, i dieci
maggiori dettaglianti europei di alimentari sono capeggiati dal gruppo
Carrefour (v. tabella 4). Si può osservare che il 46% delle vendite è attribuibile a cinque aziende tedesche, il 38% a tre aziende francesi e il
rimanente 16% ad aziende inglesi. Questi ultimi tre Paesi hanno creato
diversi sistemi di distribuzione, che si sono diffusi nel resto d’Europa.
I canali di distribuzione in Europa si stanno spostando, in modo omogeneo, verso la concentrazione, l’internazionalizzazione e la modernizzazione, ma i sistemi di distribuzione sono ancora diversi da un
Paese all’altro.
La prima differenza consiste nel numero dei punti vendita al dettaglio per abitante (v. tabella 4). Il più alto numero di rivenditori al dettaglio corrisponde ai Paesi meridionali (Portogallo, Italia, Spagna e
Grecia) e all’Irlanda. La seconda differenza consiste nell’importanza
dei vari punti vendita al dettaglio nei diversi Paesi dell’Unione Europea. In Germania gli hard discount sono i punti vendita più numerosi
(v. tabella 4). Questi punti vendita minimizzano la quantità di servizi
offerti, e vendono un numero limitato di prodotti alimentari a basso
costo. Gli ipermercati o i grandi supermercati si sono molto sviluppati
in Francia (v. tabella 5). Essi offrono una grande varietà di prodotti alimentari e di servizi per gli acquisti, ma il prezzo rimane la loro attrattiva principale. Molto spesso, l’attrattiva principale dei centri commerciali sono gli ipermercati. In Inghilterra i supermercati hanno avuto un impatto relativo; le maggiori catene di supermercati sono molto
attente ai servizi e i marchi privati dei rivenditori al dettaglio sono
molto usati. Le centrali di acquisto europee hanno un potere straordinario, grazie alla grande quantità dei supermercati e degli altri tipi di
punti vendita che rientrano nella loro sfera di influenza.
Si è ritenuto che la scelta alimentare dei consumatori consista nella
decisione di scegliere un prodotto specifico; tuttavia, sembra più ragionevole pensare che il consumatore decida innanzitutto il luogo dove effettuare gli acquisti e soltanto dopo, una volta entrato nel punto
vendita, il prodotto alimentare da acquistare tra quelli disponibili nel
negozio (Albisu e Gracia 1998). I consumatori hanno la tendenza a recarsi in un determinato negozio per la sua vicinanza, comodità e per i
servizi che offre, ma i rivenditori al dettaglio cercano di conquistare la
80
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
81
6,7
16,8
11,3
2,6
12,0
8,4
17,8
11,9
16,2
9,7
29,7
Finlandia
Francia
Germania
Grecia
Irlanda
Italia
Paesi Bassi
Portogallo
Spagna
Svezia
Regno Unito
Fonte: AC Nielsen
19,1
25,08
Belgio
Danimarca
6,9
Austria
VENDITE
MARCHIO
PROPRIO
(%)
Tesco/Sainsbury/Asda
Ica/Kf/D group
Promodes/Eroski/Pryca
Sonae/Jmr/Auchan
Ahold/Superunie/Vendex
Coop/Intermedia/Euromadis
Tesco/Dunnes/Supervalue
Marinopoulus/Veropoulus/Sklkavenitis
Edeka/Rew/Aldi
Intermarché/Leclerc/Auchan
Kesko/Sok/Suemonen/Spar
Fob/Dansksuper/Dagrofa
Gib/Delhaize/Colruyt
Bml/Spar/Adeg
TRE MAGGIORI RIVENDITORI
TABELLA 4
Caratteristiche dei rivenditori al dettaglio europei per Paese nel 1998
52
95
35
55
80
38
54
25
53
44
80
63
62
56
VENDITE
DEI TRE
MAGGIORI
RIVENDITORI (%)
0,6
0,7
1,8
3,1
0,4
2
2,5
1,6
0,9
0,7
0,8
0,7
1,2
0,9
NUMERO DI
PUNTI VENDITA
PER 1000
ABITANTI
3,4
-
1,3
9,2
7,6
2,7
n.d.
1,6
8
11
7,8
-
4,9
7,7
n.d.
-
9,2
-
11,5
15,5
13,2
5,5
VENDITE
NEI NEGOZI
SOFT
DISCOUNT (%)
n.d.: non disponibile
20,3
7,4
-
4,5
11,5
11
VENDITE
NEI NEGOZI
HARD
DISCOUNT (%)
TABELLA 5
Percentuale di vendite di prodotti alimentari nel 1998, per tipo di punto
vendita nei Paesi dell’Unione Europea
IPERMERCATI
GRANDI
PICCOLI
SUPERMERCATI SUPERMERCATI
A
B
SELFSERVICE
DETTAGLIO
TRADIZIONALE
Austria
12
15
40
29
4
Belgio
15
43
30
8
5
Danimarca
17
22
36
22
2
Finlandia
23
25
26
22
4
Francia
51
24
20
5
0
Germania
25
18
36
16
6
Grecia
9
14
32
22
23
Irlanda
11
32
10
41
6
Italia
14
18
21
24
22
Paesi Bassi
5
29
54
11
1
Portogallo
41
18
11
11
19
Spagna
34
11
15
19
21
Svezia
13
35
32
17
3
Regno Unito
45
29
13
8
5
Fonte: AC Nielsen, 1998.
A: da 1.000 a 2.500 mq
B: da 400 a 1.000 mq
fedeltà dei clienti offrendo non soltanto “tessere fedeltà” personali, ma
anche prodotti di qualità tipici della loro regione ed altri incentivi. La
classe sociale e l’età sono due variabili fondamentali per distinguere i
profili dei consumatori fra i negozi di distribuzione (Gentles 1997).
I sistemi di distribuzione variano secondo i diversi Paesi Europei, e i
consumatori dei vari Paesi sembrano adattarsi ai differenti negozi e ai
prodotti da essi offerti. Di conseguenza, le scelte alimentari dei consumatori dipendono dalle strategie dei rivenditori al dettaglio. Probabilmente ciò non ha molta influenza sulla loro dieta, poiché la varietà di
prodotti alimentari è ampia in tutta l’Europa, mentre ha un impatto
sull’assortimento, i servizi e i prezzi.
Il nuovo commercio elettronico (e-commerce), che consiste nel
vendere prodotti alimentari attraverso il web, in Europa non ha anco-
82
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
ra raggiunto un impatto notevole. Nel 1998, la Andersen Consulting
ha condotto un’inchiesta presso i dirigenti d’azienda americani ed europei riguardo alle loro opinioni e atteggiamenti nei confronti del
commercio elettronico. Dai risultati è emerso che il 77% degli americani contro il 39% dei dirigenti europei dichiara che il commercio elettronico è una parte importante delle proprie attività lavorative. Tuttavia, in Europa, il commercio elettronico è usato principalmente per
fare pubblicità ai prodotti alimentari, anche se i prodotti alimentari tipici e regionali contano di potersi espandere grazie a questo nuovo
punto vendita. Inoltre, le più importanti catene di distribuzione stanno
allestendo una rete di servizi finalizzati alla clientela. Sino ad oggi, il
rapporto tra le aziende è molto più diffuso che il rapporto tra aziende
e consumatori. I rivenditori al dettaglio che riforniscono il mercato
interno degli acquisti dovranno mantenere canali paralleli di acquisto
nei negozi tradizionali e capacità di consegna a casa (Röhm 1997). I
prodotti tipici provenienti da zone rurali lontane basano la loro espansione anche sulla vendita per corrispondenza, perché non sono in grado di usare pienamente i moderni canali di distribuzione (Mai e Ness
1997).
CONCLUSIONI
I mercati dell’Unione Europea sono altamente saturi. Nella maggior
parte dei Paesi, le quantità consumate hanno raggiunto l’apice e il sistema agro-alimentare cerca costantemente nuovi prodotti e nuovi servizi che aggiungano valore. In questo ambiente competitivo, il punto
centrale è rappresentato dai consumatori e la conoscenza dei loro modelli di consumo è di importanza fondamentale.
La globalizzazione ha favorito la concentrazione delle aziende agroalimentari e di quelle di distribuzione. Attualmente, la scena aziendale
è dominata dalle multinazionali, le quali cercano di diffondere le loro
esperienze da un Paese all’altro. Esse desiderano replicare i loro modelli organizzativi e produttivi in diversi Paesi. L’Unione Europea è
un’area eccellente per l’espansione delle loro attività nel settore alimentare, ma esse hanno bisogno di una buona conoscenza del consumo di prodotti alimentari nei diversi Paesi.
Obiettivo di questo studio era descrivere le somiglianze e le differenze esistenti nei diversi Paesi. Alcune di esse sono collegate ai fattori economici classici, altre agli stili di vita reali e molte altre ancora alle caratteristiche socio-demografiche. I modelli di consumo differiscono da un Paese europeo all’altro, anche se esistono tendenze comuni,
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
83
che costituiscono un buon esempio di compromesso tra le tendenze
globali e quelle locali.
Probabilmente, il sistema di distribuzione ha in sé gli elementi più
potenti per rendere omogenee le reazioni dei consumatori rispetto ad
un’offerta di prodotti simili nei diversi Paesi Europei. La percezione
della qualità da parte dei consumatori, in un ambiente così complesso,
sarà di importanza fondamentale e nel breve periodo permarranno differenze sostanziali tra i Paesi. Di conseguenza, le industrie agroalimentari adegueranno le loro linee di produzione non solo ad una domanda più comune, ma anche alle esigenze specifiche dei Paesi. I consumatori cercheranno le specialità e la convenienza attraverso nuovi
mezzi di commercio elettronico ed altri canali di distribuzione delle
novità. Considerata nel suo insieme, l’Unione Europea dimostra quanto sia complesso affrontare consumatori benestanti e diversi fra loro.
Sommario
I consumatori dell’Unione Europea sono coinvolti in processi di integrazione che
portano verso l’omogeneizzazione dei modelli di consumo alimentare. I fattori che
incoraggiano queste tendenze sono diversi e dipendono sia dalle somiglianze fra i
consumatori che dalle attività delle aziende. Il presente lavoro esamina la struttura
del consumo alimentare nei vari Paesi dell’Unione Europea, descrivendo innanzitutto le tendenze del consumo alimentare nei vari Paesi e presentando i fattori che determinano le scelte dei consumatori. Sebbene i consumatori europei incontrino condizioni di mercato più omogenee nel settore alimentare, esistono differenze nei loro
consumi alimentari, perché le loro preferenze e abitudini sono ancora distinte e il
mercato è frammentato.
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86
Il consumo di prodotti alimentari nella Ue
Multifunzionalità:
un quadro di riferimento
Leo Maier
Mikitaro Shobayashi
INTRODUZIONE
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) è da tempo impegnata nell’analisi dei beni non materiali 1 del settore agricolo e a riguardo ha avviato una importante serie di iniziative.
In particolare, la discussione del concetto di multifunzionalità durante
l’incontro dei Ministri per l’agricoltura del marzo 1998 ha aggiunto
nuove prospettive al dibattito.
Il Comunicato Ministeriale redatto in tale occasione (Ocse 1998a)
riconosce infatti che l’attività agricola, oltre a fornire alimenti e fibre,
modella il paesaggio, produce benefici ambientali quali la conservazione del suolo, la tutela della biodiversità, la gestione sostenibile delle risorse naturali rinnovabili e contribuisce alla vitalità socio economica di molte aree rurali.
Gli obiettivi individuati e condivisi dai Ministri agricoli Ocse tengono in debita considerazione il carattere multifunzionale dell’agricoltura, ma si orientano anche verso la realizzazione di un settore agricolo
più sensibile ai segnali del mercato, e sempre più integrato nel sistema
Tratto dal capitolo riassuntivo del Rapporto Ocse Multifunctionality - Towards an analytical Framework (Copyright Ocse 2001). La traduzione è stata curata da Procom Agr. L’Ocse
non è responsabile della qualità della traduzione italiana e della sua conformità all’originale.
Leo Maier e Mikitaro Shobayashi lavorano per la Direzione per l’Alimentazione, l’Agricoltura e la Pesca dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico),
Parigi.
Catherine Moreddu, Jennifer Fellows ed altro personale della Direzione per l’Alimentazione, l'Agricoltura e la Pesca dell'Ocse hanno contribuito alla redazione del rapporto.
(1) Si veda l’Appendice 1 per una descrizione della terminologia adottata nel presente lavoro.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
87
di commercio multilaterale. Secondo tale approccio, dunque, le politiche agroalimentari dovrebbero cercare di valorizzare l’intrinseca complementarità degli obiettivi individuati ed assicurare che le questioni
relative alla sicurezza e all’approvvigionamento degli alimenti, alla
protezione dell’ambiente e alla vitalità delle aree rurali, vengano affrontate in modo da massimizzare i benefici al minor costo possibile,
evitando distorsioni della produzione e del commercio.
Il dibattito sulla multifunzionalità, all’Ocse come altrove, è stato
complicato dal fatto che il concetto stesso di multifunzionalità non è
ben definito e si presta ad interpretazioni diverse. Il Segretariato ha
perciò concentrato gli sforzi iniziali verso l’elaborazione di una terminologia comune, identificando le questioni normative fondamentali e
sviluppando un quadro analitico che potesse essere accettato da tutti i
Paesi, chiarire il significato del termine ‘multifunzionalità’ e il modo
in cui questo viene usato in tali Paesi.
Le reazioni a tali lavori preliminari hanno rafforzato l’impressione
che i Paesi Ocse abbiano idee e posizioni sostanzialmente diverse riguardo alla definizione di multifunzionalità, al suo utilizzo nel dibattito sulle politiche agricole, e alle sue implicazioni nel processo di riforma di tali politiche.
Nonostante tali diversità di vedute, il dibattito ha finito per convergere su tre punti distinti ma connessi, che hanno rappresentato il nucleo del programma di lavoro sulla multifunzionalità. Il primo punto
concerne i rapporti di produzione alla base della produzione multipla
del settore agricolo e la natura di esternalità e di bene pubblico di tali
prodotti. Il secondo punto riguarda le questioni metodologiche ed empiriche legate alla stima della domanda di prodotti non materiali, i criteri e le procedure per individuare nuovi obiettivi di politica interna, e
gli strumenti per misurarne l’evoluzione. Il terzo punto concerne gli aspetti di politica economica della multifunzionalità, incluse le implicazioni che essa può avere sulle riforme dell’intervento pubblico e sulla
liberalizzazione del commercio.
È stato deciso di avviare i lavori con un esame degli aspetti di produzione e di esternalità e di bene pubblico dei diversi prodotti non materiali del settore agricolo. Tale analisi si propone di far luce sugli aspetti di domanda e offerta che riguardano gli output positivi e negativi dell’agricoltura, e di esplorare sistemi alternativi, agricoli e non agricoli, per soddisfare la domanda sociale di beni non materiali. I risultati dovrebbero fornire la base analitica per un successivo dibattito
sulle implicazioni della multifunzionalità per la riforma delle politiche
agricole e la liberalizzazione del commercio (v. appendice 2 - Multifunzionalità e sostenibilità).
88
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
UNA “DEFINIZIONE DI LAVORO” DELLA MULTIFUNZIONALITÀ
Nel dibattito sulle politiche agricole, a seconda del Paese e del contesto, il termine “multifunzionalità” è stato utilizzato con significati
diversi. Se, da un lato, l’articolazione di una definizione precisa di
multifunzionalità non è l’obiettivo di questo lavoro (anche se effettivamente una definizione potrebbe scaturire dai risultati dell’analisi), è
necessario adottare una “definizione di lavoro” che permetta di dotare
il dibattito di un punto di riferimento e di definire la prospettiva da cui
esaminare la questione.
Una tale definizione deve includere gli elementi chiave evidenziati
dai Paesi Ocse in materia di multifunzionalità, e cioè: 1) l’esistenza in
agricoltura di produzione congiunta di beni materiali e non materiali;
2) il carattere di esternalità o di bene pubblico di alcuni di tali prodotti
non materiali, con la relativa assenza o funzionamento imperfetto dei
mercati di tali beni. Prima di giungere a conclusioni di politica economica, le caratteristiche attribuite alla multifunzionalità dell’agricoltura
vanno dunque esaminate alla luce di questa “definizione di lavoro”.
Per illustrare gli elementi portanti della discussione, la ricerca fa riferimento a specifici prodotti non materiali dell’agricoltura 2.
La “definizione di lavoro” presentata associa la multifunzionalità a
particolari caratteristiche del processo produttivo agricolo e dei suoi
output. Interpretazioni alternative che si registrano nei dibattiti in corso, tendono a fare della multifunzionalità un obiettivo piuttosto che una caratteristica (cfr. appendice 4). Nell’analisi che segue tale approccio non verrà però considerato. Il fatto che un’attività produca output
multipli interconnessi acquista rilevanza economica se ciò influenza il
modo in cui le risorse limitate sono impiegate dal sistema economico
per soddisfare le esigenze della società. Il carattere multifunzionale
può inoltre assumere rilevanza di politica economica se gli output
multipli generati influenzano positivamente o negativamente il benessere sociale e se, per questi, non esiste un mercato concorrenziale. In
tal caso, se un intervento mirato ad internalizzare l’esternalità viene
considerato necessario, le caratteristiche dell’attività in questione influenzano il modo in cui programmare ed attuare l’azione correttiva
(v. appendice 3 - Multifunzionalità: una caratteristica specifica dell’agricoltura?).
(2) Gran parte degli esempi presentati si riferisce ad attività agricole o ad attività non agricole
in competizione con l’agricoltura per la produzione di beni non alimentari. L’enfasi posta
sulle attività agricole trae origine dal ruolo assegnato al Segretariato Ocse dai Ministri per
l’Agricoltura per il raggiungimento degli obiettivi comuni per il settore agroalimentare e
del programma del Comitato per l’agricoltura.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
89
IL CONTESTO DI POLITICA ECONOMICA
Il contesto di politica economica entro cui si svolge l’analisi sulla
multifunzionalità è dato dagli impegni che i Paesi Ocse hanno preso
per ridurre progressivamente sostegno all’agricoltura e protezione doganale, e di riorientare le politiche che accrescono la produzione alimentare e l’utilizzo dei fattori di produzione verso interventi meno distorsivi del mercato e del commercio. Inoltre, data la crescente consapevolezza del ruolo degli output non materiali positivi e negativi del
settore agricolo, i governi stanno intensificando le attività mirate a
rendere tali prodotti corrispondenti per quantità, composizione e qualità a quelli richiesti dalla società.
Alcuni Paesi membri temono che, riducendo gli aiuti alla produzione e liberalizzando il commercio, il declino della produzione alimentare possa far scendere al di sotto dei livelli desiderati dalla società la
produzione di alcuni beni non materiali positivi generati congiuntamente alla produzione alimentare per i quali non esiste mercato. D’altra parte, però, i loro partner commerciali temono che tali Paesi tendano a salvaguardare la produzione di beni non materiali, o addirittura
ad aumentarne l’offerta, continuando a proteggere i mercati agroalimentari interni attraverso misure che incrementano la produzione alimentare. Alla base del dibattito sulla multifunzionalità si ritrovano
dunque molte considerazioni presenti in quello sulle “questioni non
commerciali” dei negoziati multilaterali sul commercio.
Tali questioni non commerciali possono avere effetti rilevanti sul
commercio e sulla produzione in Paesi terzi.
In genere, nelle situazioni in cui si è in presenza di una combinazione
di beni pubblici e privati, si raccomanda di lasciare al mercato la determinazione del livello di produzione, consumo e commercio dei beni
privati, e di risolvere i problemi di produzione insufficiente di beni pubblici e le situazioni di esternalità positive o negative adottando politiche
disaccoppiate mirate. Le questioni relative a beni pubblici o esternalità
andrebbero inoltre trattate individualmente, attraverso strumenti di politica economica che influenzano direttamente la variabile obiettivo. Tale
raccomandazione corrisponde alla nota teoria economica secondo cui il
numero di strumenti di politica economica deve essere uguale o maggiore al numero degli obiettivi che si perseguono (Tinbergen 1952).
La sfida consiste dunque nel verificare la validità delle raccomandazioni di politica economica alla luce delle caratteristiche della multifunzionalità o, in altri termini, l’analisi simultanea degli effetti positivi
e negativi dell’attività agricola, della loro produzione congiunta, e dei
loro aspetti di esternalità e di bene pubblico.
90
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
L’obiettivo finale è quello definire delle linee guida per la realizzazione di politiche basate su principi “sani” che permettano di perseguire in maniera efficiente dal punto di vista della spesa obiettivi multipli,
alimentari e non alimentari, e che tengano in dovuta considerazione le
ripercussioni economiche, dirette ed indirette, sui mercati internazionali. A livello più generale, il lavoro sulla multifunzionalità si inserisce in un filone di ricerca del Segretariato Ocse teso ad analizzare in
modo coerente le cosiddette questioni non commerciali dei negoziati
multilaterali (fra cui equità e stabilità) e la liberalizzazione del commercio (v. appendice 4 - Multifunzionalità: una caratteristica o un obiettivo?).
Vi sono essenzialmente due approcci all’analisi della multifunzionalità. Il primo interpreta la multifunzionalità come caratteristica di
un’attività economica. Ciò che rende un’attività economica multifunzionale è la possibilità di produrre output ed effetti multipli e
congiunti. Tali output ed effetti possono essere positivi o negativi,
voluti o non voluti, complementari o in conflitto, si possono sommare o annullare tra loro. Alcuni hanno un valore di mercato riconosciuto, altri no.
In base a questa accezione, la multifunzionalità non è specifica dell’agricoltura, ma è caratteristica di molte attività economiche, che possono assumere caratteri multifunzionali in modi diversi. Una data attività può quindi essere multifunzionale, ma non è detto che vada implicitamente considerata tale. Questa impostazione rappresenta l’approccio “positivo” alla definizione della multifunzionalità.
La seconda interpretazione è fondata sulle molteplici funzioni che
vengono attribuite all’agricoltura. Secondo quest’altro approccio, l’agricoltura viene vista come un’attività che deve soddisfare specifiche
richieste della società. Ne consegue che la multifunzionalità non è
semplicemente una caratteristica del processo produttivo, ma assume
un valore intrinseco. Mantenere il carattere multifunzionale di un’attività o rendere un’attività “più” multifunzionale può divenire un obiettivo di politica economica. Tale impostazione può essere definita l’approccio “normativo” alla definizione della multifunzionalità.
La presente analisi si basa sul concetto positivo di multifunzionalità.
L’approccio positivo scelto dal Segretariato Ocse non esclude politiche che «(...) permettano all’agricoltura di manifestare il suo carattere multifunzionale (...)» (Ocse 1998a). Inoltre, mettere in relazione la
multifunzionalità con le caratteristiche economiche del processo produttivo agricolo e dei suoi output fornisce una cornice di lavoro entro
cui esaminare problemi che interessano produttori, consumatori e contribuenti.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
91
La scelta dell’approccio positivo non esclude l’esame dell’aspetto
normativo della multifunzionalità. Entrambe le impostazioni vengono
riconosciute dal Comunicato Ministeriale dell’Agricoltura del 1998
(Ocse 1998a). Riferirsi all’aspetto normativo della multifunzionalità
porterebbe a concentrare il dibattito sugli obiettivi sociali associati all’agricoltura nei vari Paesi, fra cui gli obiettivi di equità e stabilità. Gli
aspetti normativi della multifunzionalità potrebbero quindi essere esaminati in modo adeguato in un contesto di ricerca empirica sulla multifunzionalità e sulle relative implicazioni di politica economica.
GLI ASPETTI LEGATI ALLA PRODUZIONE
Concetti chiave e domande
Quando si osserva la multifunzionalità dal punto di vista della produzione, la questione più rilevante riguarda la natura e il grado di congiunzione dei processi produttivi di beni materiali e non materiali. Se
la produzione fosse disgiunta, i prodotti non materiali potrebbero essere forniti in modo indipendente dagli altri beni agricoli e le questioni
non commerciali interne potrebbero essere trattate indipendentemente
dalle considerazioni sul commercio.
La produzione congiunta introduce due nuovi elementi: in primo
luogo, qualsiasi cambiamento nel processo produttivo di beni materiali, dettato sia dal mercato sia dalle politiche, conduce ad una variazione nei livelli di produzione dei beni non materiali prodotti congiuntamente a quelli materiali; in secondo luogo, la produzione congiunta
può creare economie di scopo, e cioè una riduzione dei costi generata
dal fatto che diversi beni sono prodotti congiuntamente piuttosto che
separatamente.
Gran parte dell’analisi sugli aspetti produttivi della multifunzionalità
si è concentrata su questi due elementi. Per quanto riguarda il primo,
una riforma delle politiche nel settore dei beni materiali in presenza di
legami tra prodotti materiali e non materiali si ripercuoterà sulla produzione di questi ultimi; analogamente, misure che perseguono obiettivi non alimentari avranno ripercussioni sulla produzione dei beni
materiali e sul commercio.
Uno degli sforzi più rilevanti di questa analisi è stato il tentativo di
determinare se i prodotti non materiali dell’agricoltura siano effettivamente congiunti alla produzione di quelli materiali o se invece possano essere ottenuti separatamente. Ciò ha importanti conseguenze sul
processo di formulazione di politiche mirate e disaccoppiate.
92
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
Il secondo aspetto esaminato riguarda le possibili riduzioni di costo
dovute alla produzione congiunta. Le economie di scopo si manifestano quando la produzione di due o più prodotti è intrinsecamente
meno costosa della produzione separata degli stessi prodotti. Il secondo principale indirizzo di ricerca affrontato nel lavoro riguarda quindi
i fattori che determinano l’esistenza o meno di economie di scopo
nella produzione congiunta di beni materiali e non materiali nell’agricoltura.
Un’altra importante questione riguarda l’influenza delle caratteristiche di luoghi o aree diverse sulle interazioni del processo produttivo.
Anche gli aspetti territoriali, incluse le differenze nelle dimensioni
geografiche dei prodotti non materiali, sono stati esaminati nello svolgimento dell’analisi.
Infine, un punto importante nello studio della multifunzionalità dal
lato dell’offerta è stabilire se determinati beni non materiali possano
essere prodotti ad un costo inferiore in settori diversi da quello agricolo. In questo contesto è importante capire se i beni non materiali possano essere prodotti in modo indipendente dalla produzione agricola e
dall’uso di risorse agricole, e se esistano economie di scopo che conferiscono un vantaggio, in termini di costo, ai produttori agricoli rispetto
a produttori non agricoli. L’attività di ricerca si è occupata di questi ed
altri fattori che influenzano il costo di produzione di tali beni in agricoltura ed in altri settori.
L’analisi degli aspetti produttivi della multifunzionalità non permette di trarre conclusioni in termini di interventi di politica economica. A
ciò saranno dedicati futuri lavori di indagine sulle politiche, nei quali
si esamineranno ulteriori fattori che influenzano i benefici relativi di
diversi approcci di mercato e di politica economica.
La natura della produzione congiunta in agricoltura
Il fenomeno della produzione congiunta di beni non materiali in agricoltura è molto vario ed è dovuto a diversi tipi di interdipendenza
tecnica, di risorse comuni o condivise, e a legami di varia natura di
non sempre facile classificazione (cfr. appendice 5).
La produzione di beni materiali e non materiali non avviene quasi
mai in proporzioni fisse ed in genere ci sono ampie possibilità di alterare la combinazione fra beni materiali e non materiali in risposta a
cambiamenti nei prezzi relativi e ad incentivi di politica ecomica. Nel
caso di output ambientali, si possono ottenere miglioramenti modificando le tecnologie e le pratiche di coltivazione. Alcuni output ambientali ed elementi paesaggistici sono separabili nell’uso del suolo
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
93
dalla produzione materiale; determinati valori culturali legati alla tradizione possono essere completamente dissociati dalle attività agricole 3.
In agricoltura, l’occupazione è legata alla produzione materiale, ma la
crescente diffusione dell’agricoltura part time e dell’occupazione extra
agricola ha modificato il rapporto tra agricoltura e vitalità delle aree
rurali. Le questioni relative alla sicurezza alimentare riguardano essenzialmente la sfera del consumo ma, entro certi limiti, il commercio
permette di svincolare il luogo in cui il bene è consumato dal luogo in
cui è stato prodotto.
Nel processo produttivo i prodotti materiali e non materiali possono
essere complementari o sostituti, a seconda delle caratteristiche del
processo stesso. Ridurre un’esternalità negativa causata da una interdipendenza tecnica può far diminuire l’offerta del prodotto, mentre incrementare un’esternalità positiva può farla aumentare. Dove output
materiali e non materiali sono in competizione per l’uso del suolo, un
aumento della produzione non materiale comporta generalmente una
riduzione di quella materiale.
Sostenere la produzione agricola con l’obiettivo di ottenere beni non
materiali genera quasi certamente effetti indesiderati nei confronti della produzione di altri output non materiali. Focalizzando l’intervento
direttamente sull’offerta di beni non materiali, piuttosto che sul sostegno dei prodotti agricoli, si ottengono livelli di output non materiali
superiori e minori effetti indesiderati, in linea con quanto richiesto dalla società.
Utilizzando incentivi orientati alla produzione di beni non materiali
si ottiene, entro i limiti imposti dalle sottostanti relazioni di produzione, la massima dissociazione possibile tra output materiali e non materiali con il minimo effetto distorsivo possibile sul commercio. L’uso
mirato di politiche economiche incrementa la precisione e riduce le distorsioni con cui operano i mercati dei beni materiali. I benefici così
ottenuti andranno comunque valutati al netto degli eventuali aumenti
nei costi di transazione.
Poiché molti beni agricoli non materiali sono legati alle attività o all’uso delle risorse agricole, predisporre programmi nazionali per raggiungere obiettivi di produzione non materiale si ripercuoterà - positivamente o negativamente - sulla produzione dei beni agricoli materiali. Nel valutare i costi ed i benefici relativi al raggiungimento di obiettivi non materiali interni vanno tenuti in considerazione gli inevitabili
(3) Tali affermazioni si riferiscono alla separabilità “tecnica”. La separabilità di un servizio
dalla produzione alimentare non implica che gli agricoltori non possano fornire tale servizio al minor costo.
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Multifunzionalità: un quadro di riferimento
effetti sul commercio e le loro conseguenze sul benessere di altri Paesi. Nel comparare misure di politica economica alternative, vanno tenute dunque in considerazione anche le ripercussioni sulle economie
degli altri paesi Paesi.
Le relazioni tra prodotti materiali e non materiali vanno esaminate
in un contesto dinamico. Al fine di modificare il rapporto tra beni materiali e non materiali prodotti, l’intensità produttiva può subire infatti
variazioni. L’esperienza degli agricoltori, ed informazione e tecnologie innovative, sono tutti fattori che creano nuove soluzioni per l’uso
delle risorse agricole e che possono influenzare la composizione del
paniere di beni non materiali generati nei processi in esame. Ricerca e
sviluppo in agricoltura e formazione professionale degli agricoltori
possono dimostrarsi strumenti efficaci per modificare le relazioni produttive che portano alla formazione dei prodotti non materiali dell’agricoltura. In futuro, i rapporti fra gli output prodotti congiuntamente
potrebbero subire modificazioni 4.
Le dimensioni di spazio, tempo e scala degli output non materiali
La qualità ed il costo di produzione dei beni non materiali può variare in modo significativo fra Paesi diversi, così come all’interno dei
Paesi stessi; ciascun bene non materiale, inoltre, è caratterizzato da una propria dimensione territoriale. Le differenze nella produttività e
nelle dimensioni di aree diverse, combinate con i diversi livelli domanda per beni non materiali, indicano come non esista una risposta
unica ed ottimale per le diverse questioni non commerciali che si adatti a qualsiasi zona di produzione. Al contrario, differenze geografiche
e di dimensione riducono l’utilità di interventi basati su politiche di
mercato che non prevedono la possibilità di essere adattate localmente. Ignorare le differenze logistiche di produttività e le dimensioni scalari che caratterizzano i beni non materiali può portare ad un’offerta di
tali beni eccessiva o insufficiente nelle diverse aree.
Se le varie funzioni dell’agricoltura fossero completamente separabili, ogni singolo prodotto non materiale potrebbe essere gestito nella
sua giusta dimensione geografica. Tuttavia, la produzione congiunta
richiede che i prodotti multipli vengano trattati simultaneamente. Ciò
(4) Argomenti pertinenti sono stati trattati nel seminario Ocse su “Sistemi e tecnologie per
un’agricoltura sostenibile”, organizzato dal Joint Working Party del Comitato per l’Agricoltura ed il Comitato per le Politiche Ambientali, tenutosi nei Paesi Bassi nel luglio 2000
(Ocse 2001b). Anche la conferenza Ocse su “Sistemi di conoscenza ed informazione in Agricoltura al servizio della sicurezza alimentare e di questioni ambientali”, svoltasi nel gennaio 2000, ha toccato argomenti relativi ai temi in discussione (Ocse 2000b).
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
95
può rendere difficile adottare un approccio che mantenga i vantaggi di
soluzioni individuate sulla base della dimensione scalare, permettendo
nello stesso tempo di tenere in considerazione le differenze geografiche di produttività dei beni non materiali. Una soluzione potrebbe essere quella di identificare i principali usi del suolo da adottare nelle diverse aree sulla base della richiesta dei beni non materiali in tali aree,
o di quali beni non materiali possano essere prodotti nel modo più efficiente date le condizioni locali. Una volta effettuata tale esplorazione
andrebbe verificato se dimensioni produttive simili permettono di risolvere diverse questioni non alimentari sulla stessa scala. In questo
contesto, inoltre, è importante identificare il livello amministrativo più
appropriato per coordinare azioni di politica e di mercato.
Oltre alle questioni spaziali, anche la dimensione temporale assume
particolare rilevanza per i prodotti non materiali. Pur non essendo possibile nella presente analisi esplorare in dettaglio tali aspetti, è bene
non sottovalutare questioni quali il tempo impiegato per la produzione
di un bene non materiale, il processo di sviluppo che il bene segue in
tale lasso di tempo, la velocità di adattamento di sistemi e pratiche agricole, e la dimensione permanente o temporanea dei beni non alimentari. Nel processo di analisi di politica economica è dunque importante considerare anche le dimensioni temporali dei beni non materiali.
L’offerta di beni non materiali extra agricola
La contrapposizione tra offerta di beni non materiali dal settore agricolo e da altri settori ruota attorno alle tre seguenti domande: è possibile separare l’offerta di beni non materiali dalla produzione agricola?
Fino a che punto i beni non materiali forniti da altre attività possono
sostituire quelli forniti dal settore agricolo? E come può il sistema economico nazionale e internazionale soddisfare la domanda di beni
non materiali al minimo costo possibile in termini di risorse?
Riguardo alla possibilità di un’offerta non agricola di beni non materiali, l’analisi rivela una situazione piuttosto complessa. L’offerta da
parte di gruppi o aziende non agricole di beni non materiali legati alla
terra ad uso agricolo, inclusi determinati servizi ambientali e di attrazione turistica, si rende possibile solo dove tali entità abbiano accesso
alla terra e le loro funzioni non contrastino con l’attività agricola. Tali
condizioni si verificano più facilmente nei casi in cui beni materiali e
non materiali sono separabili nell’uso della terra. Se la produzione separata non è realizzabile, le possibilità che agricoltori ed operatori non
agricoli svolgano parallelamente funzioni diverse sono limitate.
96
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
Per quel che attiene ai servizi non direttamente legati al terreno agricolo, non vi è praticamente nessun limite all’offerta proveniente dagli
altri settori. Ciò riguarda, ad esempio, la vitalità delle comunità rurali
o la manutenzione e il restauro di costruzioni di interesse storico nelle
aree rurali. In termini di occupazione, l’agricoltura non è più in grado
di offrire un numero rilevante di posti di lavoro ma, ove non vi siano
alternative economiche proponibili, il semplice rallentamento della
crescita della disoccupazione agricola può essere utile ad attenuare i
problemi di spopolamento. Nelle aree dove effettivamente esistono
impieghi alternativi, ci si può chiedere se trasferire posti di lavoro verso attività non agricole comporti una perdita in termini di tradizioni,
valori e stili di vita. Assicurandosi che le tradizioni più significative
vengano salvaguardate in modi diversi, un certo grado di transizione
può comunque essere accettabile.
Per quando riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, il dibattito è imperniato sulla contrapposizione tra offerta interna
ed offerta estera, e tra il ricorso, nei periodi critici, a scorte alimentari
o all’attivazione di potenziali produttivi aggiuntivi. Contributi non agricoli al problema della sicurezza alimentare includono politiche
macroeconomiche per innalzare il livello generale del reddito e rendere gli alimenti meno costosi, e misure che rendono più facile l’accesso al cibo, quali, ad esempio, lo sviluppo di un sistema di trasporto
e distribuzione affidabile. Garantire approvvigionamenti adeguati
mantenendo la produzione alimentare nazionale al di sopra della domanda genera costi per i contribuenti, i consumatori ed i produttori esteri, e potrebbe avere un impatto negativo sulla sicurezza alimentare
a livello globale. D’altro canto la possibilità di affidarsi a fonti alternative alla produzione nazionale per garantire l’approvvigionamento
alimentare è una questione da verificare caso per caso. La sicurezza
alimentare non è esclusivamente un prodotto congiunto del processo
produttivo alimentare nazionale, né un prodotto congiunto del commercio agricolo.
Una situazione particolare si verifica quando, in determinate aree,
l’attività agricola non è più profittevole, ma alcuni degli output non
materiali da essa forniti vengono considerati essenziali. In questi casi
ci si domanda se gli agricoltori siano gli operatori più adatti per continuare a produrre tali beni. Il reddito degli agricoltori potrebbe essere
basso e in progressiva riduzione, tanto da non permettere loro di accettare un profitto sulla produzione dei beni non materiali inferiore rispetto a quello guadagnato dagli operatori non agricoli. Produttori esterni più efficienti potrebbero quindi entrare in competizione con gli
agricoltori per l’uso della terra sulla base degli incentivi diretti forniti
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
97
per la produzione di beni non materiali. Le possibili differenze nella
qualità di quegli stessi beni, quando forniti da operatori extra agricoli,
ed il loro effetto sulle valutazioni dei consumatori sono questioni da
tenere in debita considerazione.
Riepilogando, l’analisi della multifunzionalità dal punto di vista della produzione suggerisce che i vari prodotti non materiali dell’agricoltura, positivi e negativi, si differenziano in modo sostanziale rispetto:
al loro legame con l’attività agricola ed alle interazioni reciproche; alla misura in cui sono legati alla produzione di output materiali; ai legami con luoghi specifici di produzione; all’estensione geografica; alla possibilità di essere prodotti al di fuori del settore agricolo. A causa
di tali differenze, è improbabile che si possano raggiungere specifici
obiettivi non alimentari intervenendo con azioni correttive sulla produzione materiale, lasciando che quella non materiale si assesti di conseguenza.
Tale modalità di intervento porterebbe invariabilmente ad una situazione di eccesso o difetto di offerta di alcuni dei prodotti non materiali, trascurando al contempo la possibilità di raggiungere gli obiettivi
desiderati tramite incentivi diretti specifici, con minore impatto sul
mercato dei beni materiali e sul commercio.
GLI ASPETTI DI ESTERNALITÀ E DI BENE PUBBLICO
DELLA MULTIFUNZIONALITÀ
Qualora tutti i beni non materiali fossero beni privati scambiati su
mercati funzionanti, le transazioni tra privati assicurerebbero un uso
efficiente delle risorse e l’equilibrio tra domanda ed offerta su tutti i
mercati. Inoltre, se la produzione non è congiunta, incluso il caso in
cui esistono sostituti efficaci dei beni non materiali, il bene non materiale può essere prodotto indipendentemente da quelli materiali. Per
affrontare un dibattito completo sulle possibili soluzioni di politica economica da adottare è dunque necessario discutere sia della mancanza dei mercati, sia della produzione congiunta fra output ed esternalità.
L’analisi che si occupa degli aspetti di esternalità e bene pubblico
della multifunzionalità esamina quando e come esattamente i mercati
falliscono per la presenza di esternalità e mostra come i beni non materiali che assumono i caratteri di esternalità positive non provochino
necessariamente il fallimento del mercato. In teoria, un’esternalità positiva conduce al fallimento del mercato in quanto i produttori non
tengono in conto dei benefici socio-economici dell’esternalità, e finiscono per ridurre l’offerta del bene che la genera. In realtà, il fallimen-
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Multifunzionalità: un quadro di riferimento
to del mercato è un processo più articolato, ed è funzione della distribuzione della domanda per l’esternalità. Ad esempio, si supponga che
una certa esternalità sia prodotta in proporzioni fisse rispetto al bene
materiale, indipendentemente dal luogo o dal costo di tale produzione,
e che la domanda sia totalmente soddisfatta dalla quantità prodotta in
modo congiunto dai produttori che hanno i costi più bassi. In tal caso,
non si verifica fallimento del mercato, poiché la quantità di esternalità
richiesta dalla società è pienamente soddisfatta senza la necessità di
accrescere l’offerta del bene materiale.
Se i prezzi interni scendono e si è in presenza di scambi commerciali, il tipo di fallimento del mercato che risulta da una variazione nella
esternalità positiva sarà diverso da quello che si verifica in assenza di
commercio. Il risultato positivo o negativo, in termini di benessere sociale, dipende da diversi parametri. I guadagni derivano dai minori costi privati ottenuti dalla riduzione del numero di aziende agricole con
alti costi di produzione, nonché dalla maggiore soddisfazione dei consumatori conseguente ad un maggiore consumo. Le possibili perdite
derivano invece dalla diminuzione dell’offerta dell’esternalità positiva
generata della riduzione della produzione interna.
Considerando inoltre anche le esternalità negative, la possibilità della presenza di fallimento del mercato si riduce in quanto una diminuzione di una esternalità positiva può essere bilanciata da una diminuzione di quella negativa. Il risultato finale potrebbe anche essere influenzato da possibili legami di consumo tra esternalità. L’esistenza di
esternalità negative potrebbe addirittura ridurre la domanda di esternalità positive, riducendo così il rischio di fallimento del mercato.
Anche l’ipotesi che riduzioni nei prezzi dei beni comportino una riduzione nella produzione va esaminata in un contesto dinamico. I livelli di produzione potrebbero essere mantenuti grazie ad aumenti della produttività nelle imprese più efficienti. Gli agricoltori potrebbero
anche riorientare la produzione verso merci diverse, più profittevoli,
ma che presentino la stessa esternalità positiva desiderata. Tale flessibilità di percorso riduce il rischio del fallimento del mercato, che si
verifica quando l’offerta di una esternalità positiva si riduce in seguito
ad una caduta dei prezzi.
È importante comprendere che il modo in cui i benefici delle esternalità sono legati alla produzione può essere uno dei fattori che influenzano il grado di fallimento del mercato, anche se gran parte degli
esempi teorici ipotizzano benefici marginali costanti. Le esternalità legate al luogo (benefici marginali discontinui) o quelle che provocano
la diminuzione del valore marginale del prodotto all’aumentare della
quantità prodotta (benefici marginali decrescenti) hanno minori proba-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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bilità di essere associate ad un fallimento del mercato di quelle con benefici marginali costanti (ipotizzando che i benefici totali siano gli
stessi). Alcune delle esternalità discusse in relazione alla multifunzionalità appartengono molto probabilmente a tali categorie. L’effettiva
presenza di un fallimento del mercato è dunque questione da valutare
empiricamente.
L’appartenenza della sicurezza degli approvvigionamenti e dell’occupazione rurale alla multifunzionalità dell’agricoltura è questione dibattuta. Innanzitutto andrebbero esaminate attentamente le relazioni di
produzione, così da stabilire quali siano i legami con la produzione agricola nazionale e valutare la possibilità di un’offerta non agricola
più efficiente. Solo nel caso in cui la produzione nazionale di beni materiali si dimostri più efficiente, ci si deve occupare di esternalità e beni pubblici. L’occupazione rurale in agricoltura è solamente un fattore
di produzione e non può essere considerata un’esternalità della produzione agricola. Essa può avere tuttavia importanti conseguenze sociali,
come ad esempio quella di contribuire ad arginare lo spopolamento
delle aree rurali (allo stesso modo, un fertilizzante può causare un’esternalità ma non è tale di per sé). Se questi impatti, positivi o negativi, non sono incorporati nei prezzi di mercato dei beni, possono definirsi esternalità.
Per quel che riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti, la produzione interna potrebbe influenzare (in modo positivo o negativo) il
rischio di una carenza nella disponibilità di alimenti, e ciò spesso non
si rispecchia nei prezzi di mercato dei beni materiali. Tali impatti sulla
sicurezza degli approvvigionamenti possono quindi essere considerati
esternalità (positive o negative) del processo produttivo di beni agricoli. Il saldo fra effetti positivi ed effetti negativi è però questione da valutare empiricamente (ad esempio, un Paese che si affida esclusivamente alla produzione interna non diversifica le fonti di approvvigionamento attraverso le importazioni ed è quindi particolarmente vulnerabile nei confronti di shock di offerta dovuti ad condizioni meteorologiche avverse).
Beni pubblici
Anche se determinati beni non materiali possono essere classificati
come esternalità positive all’origine di fallimenti di mercato, l’intervento correttivo dello Stato non è necessariamente la soluzione migliore. A seconda delle caratteristiche specifiche di bene pubblico dei
prodotti non materiali, vi sono diversi modi per ridurre il divario tra
costi privati e costi sociali; molte di queste soluzioni richiedono poco
100
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
o nessun intervento pubblico per agevolare la formazione dei mercati.
Senza un’adeguata classificazione dei beni pubblici si corre il rischio
che beni diversi tra loro come strade a pedaggio, difesa nazionale, risorse naturali appartenenti a comunità, servizi comunali antincendio
ed allevamenti ittici vengano discussi insieme trascurando la necessità
di sviluppare soluzioni di politica economica diverse a fronte di caratteristiche di bene pubblico diverse.
Un altro elemento che dimostra la necessità di un’accurata classificazione dei beni pubblici è rappresentato dal possibile insuccesso di
politiche economiche basate su stime della domanda per beni pubblici
errate. Essendo simili errori probabili, è forse bene preferire all’offerta
regolata dal governo soluzioni che non si basano su stime della domanda di beni pubblici (ad esempio, il mercato), anche se tali alternative possono talvolta generare inefficienza (offerta insufficiente). Nell’analizzare le diverse alternative vanno tenuti in conto i costi amministrativi e di transazione connessi.
Sulla base delle loro caratteristiche di beni pubblici puri o imperfetti, sono state individuate sei categorie di esternalità positive. Ognuna
di queste categorie richiederebbe un intervento di politica economica
completamente diverso da quello richiesto dalle altre o, in alcuni casi,
nessun intervento.
Una classificazione sommaria delle esternalità più rilevanti dal punto di vista di bene pubblico viene proposta nell’appendice 6. Sebbene
tale classificazione vada verificata empiricamente, facendo soprattutto
attenzione a fattori come gli aspetti tecnici ed istituzionali dei meccanismi di esclusione (es. diritti di proprietà), essa indica la possibilità
che molte esternalità appartengano a categorie che richiedono un intervento pubblico nullo o marginale. Solamente alcune vengono classificate fra i beni pubblici puri o fra le risorse di pubblico accesso, difficilmente prodotte a livelli ottimali senza l’intervento dello Stato. Molte esternalità vengono invece classificate fra le risorse condivise o fra i
beni di club che, rispetto ai beni pubblici puri e alle risorse di pubblico
accesso, possono essere gestite più agevolmente in assenza dell’intervento pubblico (o con un ruolo dello Stato limitato ad incoraggiare la
formazione di associazioni, a svolgere attività informativa, ecc.). La
caratterizzazione di molte esternalità come beni pubblici locali contribuisce inoltre a rendere più vasta la scelta fra le politiche economiche
disponibili.
È bene anche evidenziare la dinamicità dei beni non materiali riguardo il tipo di bene pubblico puro o imperfetto. La natura di bene
pubblico di determinate esternalità può infatti modificarsi nel tempo,
ed alcune di queste potrebbero arrivare anche a convertirsi in beni pri-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
101
vati. Se l’analisi delle alternative di politica economica non prende in
considerazione tali aspetti dinamici ne potrebbe derivare un intervento
pubblico superfluo o addirittura dannoso.
È probabile che anche i rapporti nel consumo di diverse esternalità
possano essere tutelati più efficacemente senza l’intervento dello Stato. Ad esempio, nel caso in cui il consumo di un bene pubblico puro
sia complementare a quello di un bene pubblico imperfetto o di un bene privato, il rischio che tale bene non venga offerto in misura adeguata può essere ridotto dalla possibilità che si generi un’offerta volontaria o di mercato.
I rapporti nel consumo tra esternalità sono anche rilevanti per stabilire se esse sono causa di fallimento di mercato. La domanda per esternalità può variare a seconda che esse siano sostituti o complementi;
anche la possibilità che vi siano legami di consumo tra esternalità positive e negative ha rilievo in tal senso.
Una possibilità per evitare di dover stimare la domanda per esternalità multiple è rappresentata dalla costituzione di club (associazioni
multiprodotto) che forniscono beni pubblici imperfetti con caratteristiche comuni. I potenziali membri dei club decidono se associarsi o meno a seconda del costo (la quota associativa) e dei vantaggi garantiti
dall’essere associati. I benefici ricevuti associandosi al club rappresentano un indice della disponibilità a pagare per usufruire simultaneamente delle diverse esternalità, che quindi riflette le relazioni di sostituzione o complementarità esistenti tra le varie esternalità.
Anche questioni di stabilità ed equità insite nell’offerta di diversi
beni pubblici imperfetti possono assumere rilevanza nel processo di
formulazione delle politiche economiche. Le soluzioni che si rivelano
più efficaci per generare offerta di determinati beni pubblici imperfetti
potrebbero infatti non risultare ottimali dal punto di vista della stabilità e dell’equità dell’intervento.
Le diverse soluzioni istituzionali per l’offerta di beni pubblici (ad esempio, offerta volontaria, offerta da parte del governo centrale o di
quello locale, offerta basata sulla produzione congiunta, offerta da parte di club, offerta da parte della comunità locale, ecc.) possono presentare diversi gradi di stabilità. La cessazione dell’offerta di un determinato bene pubblico non solo può portare ad una situazione di offerta
insufficiente (o nulla), ma anche ad una perdita d’efficienza complessiva maggiore che non nel caso in cui cessi l’offerta di un altro bene
pubblico.
La multifunzionalità può avere implicazioni in termini sia di equità,
a livello nazionale ed internazionale, sia di distribuzione del reddito.
Sul fronte interno, le questioni di equità in materia di multifunziona-
102
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
lità sono più articolate rispetto a quelle relative ai singoli prodotti. Oltre alle interazioni fra prodotti multipli, ogni bene (esternalità) ha infatti proprie implicazioni in materia di equità. La sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, ad esempio, se non viene perseguita tramite il sostegno dei prezzi, risulterà più utile alla popolazione povera
che non a quella ricca. In caso di una carenza d’offerta, le persone abbienti possono infatti permettersi di continuare ad acquistare alimenti
anche a prezzi più alti. D’altra parte, la tutela del paesaggio rurale può
rappresentare il caso di benefici apprezzati dai più ricchi, poiché la domanda di tali attrattive aumenta in genere con il reddito. Nel contesto
della multifunzionalità, ed in materia di equità e distribuzione del reddito, le questioni cruciali sono due: 1) gli effetti della multifunzionalità sui beneficiari (l’aspetto del beneficio); 2) in quali modi i costi
della tutela della multifunzionalità influenzano o meno la distribuzione del reddito (l’aspetto del costo).
In virtù dell’esistenza dei vantaggi comparati, il commercio internazionale può accrescere il benessere di tutti i Paesi. Tuttavia, la presenza di esternalità positive e negative associate ai prodotti scambiati, insieme alle politiche messe in atto per internalizzarle, può influenzare
la distribuzione del reddito dei Paesi coinvolti negli scambi. Ciò potrebbe quindi portare a casi in cui il commercio non accresce il benessere di tutti i Paesi. Il modo in cui la distribuzione del reddito cambia
in risposta al commercio e alle esternalità è un problema empirico, che
dipende in gran parte dal numero e dalla natura delle esternalità di ciascun Paese, e dagli effetti sui rapporti di scambio per un determinato
bene generati dalle politiche nazionali mirate ad internalizzare le esternalità.
La multifunzionalità può avere effetti diversi fra Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, ma il quadro analitico adottato nel presente
lavoro dovrebbe, in linea di principio, adattarsi ad entrambe i gruppi.
Quando si discute di multifunzionalità, gran parte delle differenze relative alle due categorie di Paesi riguardano l’intensità dei fenomeni
piuttosto che la loro natura. Tali differenze si riferiscono, ad esempio,
ai livelli ed alla struttura della domanda di beni non materiali, al quadro istituzionale richiesto per la creazione del mercato e dell’offerta
volontaria, ai costi di transazione ed alla capacità della pubblica amministrazione. Le differenze in questione potrebbero comunque avere
implicazioni di politica economica in relazione, soprattutto, a questioni di distribuzione del reddito nazionale ed internazionale (v. appendice 6 - Classificazione esemplificativa delle categorie di beni
pubblici).
DALL’ANALISI ALLA POLITICA ECONOMICA
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
103
Le analisi della multifunzionalità dal punto di vista della produzione
e delle caratteristiche di esternalità e bene pubblico sono complementari fra loro in quanto si occupano rispettivamente degli aspetti dell’offerta e della domanda. Per poter procedere nella discussione delle implicazioni di politica economica della multifunzionalità è necessario
combinare i risultati emersi dalle diverse analisi. Ad esempio, l’esame
delle caratteristiche di bene pubblico dei beni non materiali richiede
informazioni sulle modalità di produzione e di consumo di tali beni.
Per determinare costi e benefici marginali di una esternalità bisogna
infatti conoscere sia la struttura dell’offerta (come viene prodotta congiuntamente ad un bene materiale), sia le caratteristiche della domanda (come viene valutata dalla società).
Le analisi sulle interazioni produttive e sulle caratteristiche di esternalità e di bene pubblico della multifunzionalità possono anche essere
viste come un quadro di riferimento che fornisce indicazioni per la
formulazione delle politiche di intervento. Le risposte alle domande
che emergono nel procedere dell’analisi possono essere considerate linee guida per lo sviluppo delle soluzioni di politica economica. Va
precisato tuttavia che, a causa della presenza di interrelazioni complesse, non sempre è possibile dare risposte univoche alle domande
che emergono; nonostante ciò, tali domande possono comunque servire ad indirizzare il dibattito e a mantenerlo centrato sui punti chiave identificati nell’analisi. Tale processo permette inoltre di eliminare dalla discussione i casi in cui non sono necessari specifici interventi, di identificarne altri in cui un intervento può apportare benefici, e di fare
luce sulla natura degli interventi di politica economica che possono
raggiungere la maggiore efficienza. Tale quadro analitico, infine, garantisce una trattazione rigorosa, obiettiva e coerente degli interessi e
dei prodotti non materiali identificati.
Lo schema concettuale proposto esaminerà in prima istanza se un
bene non materiale viene prodotto congiuntamente ad un bene materiale e, in tal caso, se tale relazione produttiva può essere disgiunta.
Qualora ciò fosse possibile, il bene non materiale potrebbe essere prodotto in modo indipendente. Analogamente, se la produzione di un bene non materiale può essere separata a costo zero da quella del bene
materiale, il bene non materiale può essere prodotto in maniera indipendente. In tal caso, potrebbe non esserci alcun legame d’intervento
tra liberalizzazione del commercio agricolo e offerta di beni non materiali sul mercato interno. Politiche che perseguono esclusivamente
l’offerta di beni non materiali possono essere attuate indipendentemente dalla produzione agricola. In tale prospettiva sarebbe comunque
104
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
necessario formulare politiche che sostengano in modo efficiente la
produzione di beni non materiali, ma ciò non avrebbe ripercussioni sul
commercio.
Esistono molti modi per rendere meno vincolanti i legami tra beni
materiali e beni non materiali. Modifiche nelle tecnologie e nelle pratiche agricole, ad esempio, possono ridurre la dipendenza dei beni ambientali dalla produzione di beni materiali. Vi sono inoltre diverse possibilità di produrre al di fuori del settore agricolo beni non materiali a
minor costo.
La produzione di molti beni non materiali, tuttavia, non può essere
completamente disgiunta dalla produzione materiale. A tale proposito,
va evidenziato che, pur essendo esternalità per definizione, i beni non
materiali prodotti congiuntamente ai beni materiali non sempre provocano fallimento del mercato. Nel caso in cui tali beni non materiali
non siano dunque all’origine di fallimenti del mercato, non esiste la
necessità di predisporre interventi, né di tipo commerciale né sul mercato interno.
Casi in cui le esternalità positive non provocano fallimento di mercato sono stati effettivamente identificati. Ad esempio, l’offerta di beni
non materiali da parte di agricoltori che producono a costi inferiori al
prezzo di mercato può essere sufficiente a soddisfare la domanda esistente. In tal caso, nonostante il beneficio dell’esternalità non sia stato
internalizzato nel processo decisionale degli agricoltori, non si verifica
inefficienza. Inoltre, anche la valutazione delle esternalità negative
può ridurre il rischio di fallimento del mercato associato alle esternalità positive.
Proseguendo nella rassegna dei casi possibili, resta da esaminare l’eventualità in cui i beni non materiali siano effettivamente prodotti congiuntamente ad altri beni e siano all’origine di fallimento di mercato.
In tale situazione, va innanzitutto verificata la possibilità di minimizzare i fallimenti del mercato senza ricorrere all’intervento dello Stato.
Nei casi di fallimento del mercato associati ad esternalità è comunque
necessario adottare misure per incentivare i produttori ad incorporare
gli effetti sociali nelle decisioni di produzione. Le ricerche fino ad ora
condotte indicano che, a seconda della caratteristica di bene pubblico
dell’esternalità, esistono numerose alternative per fornire tali incentivi; per alcuni tipi di beni pubblici, le soluzioni alternative al coinvolgimento dello Stato potrebbero essere le più indicate.
Applicando il processo analitico elaborato è possibile identificare le
linee di intervento pubblico che entrano in conflitto con la liberalizzazione del commercio.
In sintesi, le domande cui rispondere sono le seguenti:
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
105
• Il processo che porta alla produzione congiunta di beni non materiali è caratterizzato da relazioni così strette tra beni materiali e non
materiali, tali da non poter essere alterate, ad esempio, introducendo modifiche nella tecnologia e nelle pratiche agricole, o approvvigionandosi di beni non materiali di fonte extra agricola a minor costo?
• In caso affermativo, esiste un fallimento del mercato associato a tali
beni non materiali?
• In caso affermativo, sono state esaminate alternative all’intervento
dello Stato (come la formazione del mercato o l’offerta volontaria)
quali strategie più efficienti?
Nel caso in cui le risposte alle tre domande siano tutte affermative,
si può dunque procedere nel definire le modalità di intervento più efficienti. Ciò va fatto prendendo in esame, dal lato dell’offerta, la natura della produzione congiunta e, dal lato della domanda, le caratteristiche di bene pubblico dei beni non materiali. Le diverse alternative possibili, fra cui l’offerta generata da interventi della pubblica amministrazione centrale o locale, l’offerta fondata sui rapporti di consumo fra diversi beni, l’offerta di fonte associativa e l’offerta proveniente da comunità dovranno essere esaminate attentamente. Vanno inoltre considerati con attenzione gli aspetti legati ai costi di transazione e ai costi amministrativi associati alle diverse possibili opzioni.
Alcune di tali opzioni potrebbero richiedere un intervento pubblico
molto limitato. Questioni di stabilità, equità ed effetti di ripercussione
internazionale possono inoltre influenzare le scelte di politica economica.
È bene sottolineare che l’insieme di informazioni necessarie per rispondere alle domande presentate sopra è molto vasto, e che, comunque, non sempre è possibile individuare risposte univoche. La stessa
reperibilità delle informazioni può quindi influenzare le scelte di politica.
Va inoltre considerato che non sempre è possibile rispondere alle
domande nell’ordine assegnato. La risposta alla terza domanda, ad esempio, potrebbe emergere solo dopo aver comparato i costi e i benefici di ciascuna opzione. In tal caso, alla luce della nuova informazione, la risposta alla prima domanda andrebbe riconsiderata come nel
caso in cui, per ipotesi, la produzione agricola di beni non materiali si
riveli più costosa di quella ottenuta al di fuori del settore agricolo.
Nonostante tali difficoltà applicative, il quadro di riferimento presentato (e cioè un’accurata indagine esplorativa guidata dai tre quesiti)
può rivelarsi, in sede di formulazione delle politiche, un utile strumento per comprendere gli elementi essenziali dell’analisi teorica. L’appli-
106
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
cazione di tale processo di analisi può essere d’aiuto nell’evitare la
formulazione di politiche inefficaci, inefficienti, costose, ed in conflitto con gli accordi internazionali. In aggiunta all’analisi degli impatti di
mercato di politiche che perseguono obiettivi non materiali interni, una valutazione completa delle ripercussioni economiche internazionali
di tali politiche deve necessariamente includere gli effetti legati alle esternalità positive e negative generate in Paesi terzi attraverso il commercio.
APPENDICE 1
UNA NOTA TERMINOLOGICA
Nel redigere il rapporto Ocse sulla multifunzionalità è stato necessario prendere alcune decisioni circa la terminologia da utilizzare. Fino
ad ora la multifunzionalità non è stata oggetto di indagini economiche
approfondite e non si è quindi ancora sviluppata una terminologia specifica per descriverne gli elementi fondanti. In alcuni casi, esiste più di
un termine per descrivere un particolare aspetto, ma nessuno si adatta
perfettamente allo scopo *.
Un esempio a riguardo è l’uso dei termini “prodotti materiali” e
“non materiali” (commodity e non-commodity). In precedenti lavori
sulla multifunzionalità sono stati impiegati i termini “prodotti alimentari” e “non alimentari” (food e non-food). La ragione risiedeva nel
fatto che la produzione alimentare è normalmente la funzione primaria
dell’agricoltura e gli output prodotti congiuntamente al cibo, come il
paesaggio agricolo, sono beni non alimentari. Tuttavia, è stato fatto
notare che una percentuale rilevante terreno agricolo produce beni non
alimentari, come fiori e fibre, energia rinnovabile o materie prime per
la produzione industriale. In tali casi il paesaggio agricolo sarebbe un
bene derivato non della produzione alimentare, ma di quella non alimentare.
Come alternativa sono stati presi in considerazione i termini “beni di
mercato” e “beni non di mercato” (market e non-market goods) in
quanto permetterebbero a materie prime alimentari e non alimentari di
essere raggruppate sotto un termine unico. Con tale soluzione sorge
tuttavia un altro problema: uno dei principali obiettivi del presente lavoro è stabilire fino a che punto i prodotti non alimentari dell’agricol(*) NdT: La mancanza di una terminologia specifica per la trattazione della multifunzionalità
vale anche per la lingua italiana. Per maggior chiarezza, in questa sezione sulla terminologia
sono stati riportati accanto alla versione italiana i termini utilizzati nella versione originale.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
107
tura siano commerciabili o meno. Il distinguere a priori tra beni di
mercato e beni non di mercato significherebbe condizionare il risultato
dell’analisi.
La soluzione finale è stata dunque quella di optare per i termini
“beni materiali” e “beni non materiali”, che non presentano i problemi citati.
I termini “sottoprodotti” (by-products), “prodotti” o “effetti secondari” (side effects) e “output multipli” (multiple outputs) sono simili
per certi aspetti, ma non sono sempre ugualmente adatti ai diversi
contesti. Per esempio, si può affermare con una certa sicurezza che
gli effetti negativi dell’agricoltura sull’ambiente sono prodotti secondari non desiderati, o sottoprodotti. Un bel paesaggio può anche essere un prodotto secondario se è il risultato involontario della produzione alimentare, tuttavia se gli agricoltori sono consci del suo valore e
disposti a prendere in considerazione gli aspetti paesaggistici nelle loro decisioni produttive, non si potrebbe più considerarlo un sottoprodotto o un prodotto secondario. L’analisi sulla multifunzionalità predilige una visione che riconosca la natura integrata dei prodotti (pur
ammettendo che il grado di integrazione tra i diversi prodotti è significativamente diverso). Per questo motivo si preferisce in genere il
termine output multipli, poiché esso permette di includere anche i
prodotti voluti, e non solo i prodotti secondari non desiderati. Si deve
però sottolineare come il termine output multipli abbia una connotazione positiva e possa quindi essere considerato inadatto quando si esaminano gli effetti negativi dell’attività agricola, come ad esempio
l’inquinamento delle acque. Per aggirare tale ostacolo, il termine output multipli è sostituito da “effetti multipli” (multiple effects) nel caso
di impatti negativi.
Un’altra distinzione riguarda i termini “output multipli” (multiple
outputs) e “prodotti congiunti” (joint products). Fra gli obiettivi principali del presente lavoro vi anche quello di esaminare fino a che punto gli output multipli agricoli siano prodotti congiunti. Il termine prodotti congiunti suggerisce una interconnessione tra i prodotti che deriva dal processo produttivo agricolo. Nell’accezione adottata in questo
lavoro l’espressione “produzione congiunta” (jointness) include beni
pubblici e privati.
Nel redigere il rapporto sulla multifunzionalità si è cercato di rendere la terminologia semplice e il testo comprensibile, con il principale
obiettivo di descrivere in modo chiaro gli aspetti analitici trattati. La
terminologia adottata può forse non essere ancora ideale, ma con l’evolversi del dibattito e con lo sviluppo di nuovi spunti teorici si andrà
progressivamente perfezionando.
108
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
APPENDICE 2
MULTIFUNZIONALITÀ E SOSTENIBILITÀ
Un problema sorto nella fase preparatoria dell’indagine sulla multifunzionalità è la sua relazione con la sostenibilità. Lo sviluppo sostenibile, ed in particolare l’agricoltura sostenibile, sono stati oggetto di
numerose conferenze e dibattiti negli ultimi dieci anni, e sono stati inseriti quali principi guida in numerosi accordi internazionali e piani
d’azione. L’Ocse stessa ha prodotto un considerevole numero di lavori
sul tema dell’agricoltura sostenibile (ad esempio, Ocse 1995a).
La sostenibilità si riferisce al modo in cui le risorse, naturali, umane o realizzate dall’uomo, vengono impiegate dalle presenti generazioni per soddisfare i propri bisogni, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro. Come tale, la sostenibilità è un concetto di lungo periodo, globale e legato all’uso delle risorse. È legato all’uso delle risorse, in quanto non possiamo sapere
oggi quale utilizzo faranno le generazioni future di tali risorse, né
quale attività economica queste intraprenderanno; è per definizione di
lungo periodo, in quanto prende in considerazione gli interessi delle
generazioni future; è per natura globale, poiché sarebbe arduo realizzare l’uso sostenibile delle risorse in un settore, un paese o una regione geografica, se ciò non avviene anche in altri settori, paesi o regioni
geografiche.
La multifunzionalità si riferisce al fatto che un’attività economica
può generare prodotti multipli e, quindi, contribuire a più di un obiettivo economico-sociale contemporaneamente. La multifunzionalità ha
senso solo in relazione all’attività cui si riferisce e riguarda le caratteristiche specifiche del processo produttivo e dei suoi molteplici prodotti.
Essenzialmente, la sostenibilità rappresenta un obiettivo da raggiungere, intendendo con ciò che le risorse dovrebbero essere impiegate in
modo da non ridurre il valore complessivo dello stock di capitale (incluso il suo option-value, o valore di opzione), e da poter ottenere da
questo un flusso illimitato di benefici. L’obiettivo di lungo periodo
può non essere sempre evidente, come quando, ad esempio, ci si propone di stabilire se un certo tipo di agricoltura sia in un dato momento
sostenibile o meno. Tuttavia, l’ipotesi di base è sempre rappresentata
dalla sostenibilità quale obiettivo finale. Se un’attività economica non
è compatibile con l’uso sostenibile delle risorse, evidentemente vi è un
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
109
problema da risolvere, se invece un’attività economica non è multifunzionale, non è necessario che lo diventi. Secondo la definizione proposta nel presente lavoro, la multifunzionalità è una caratteristica del
processo produttivo, che può avere ripercussioni sul modo in cui i diversi obiettivi economico-sociali vengono perseguiti.
Si potrebbe argomentare che tale distinzione è piuttosto artificiale.
La sostenibilità non è un concetto esclusivamente basato sul traguardo
a cui si tende; può essere anche impiegata in un contesto “positivo”.
Allo stesso modo, si potrebbe far assumere alla multifunzionalità un aspetto “normativo”: come nel paragrafo 15 del Comunicato Ministeriale Ocse del 1998, che elenca tra i principi adottati per le politiche economiche quello di «(...) preservare e rafforzare il carattere multifunzionale dell’agricoltura (...)»; e nel paragrafo 13 che afferma che
«(...) le politiche agroalimentari dovrebbero (...) [permettere] all’agricoltura di manifestare il suo carattere multifunzionale (...)» (Ocse
1998a).
Il programma di lavoro sulla multifunzionalità e le ricerche sull’agricoltura sostenibile avviati dall’Ocse rispecchiano queste diverse
visioni. Il lavoro sulla sostenibilità esamina le ragioni per cui alcune
pratiche agricole non sono sostenibili, ed esplora le possibilità di adottare azioni correttive. Il lavoro sulla multifunzionalità si sofferma
sugli aspetti di produzione congiunta, sulla natura di esternalità (positive e negative) e di bene pubblico degli output multipli del settore agricolo, e sulle implicazioni di questi nella formulazione di nuove politiche.
APPENDICE 3
MULTIFUNZIONALITÀ: UNA CARATTERISTICA SPECIFICA
DELL’AGRICOLTURA?
Se la multifunzionalità è prima di tutto una caratteristica di un’attività economica, ci si può chiedere perché essa abbia assunto rilevanza
per le politiche agricole e non per quelle di altri settori economici. L’esistenza di produzione congiunta di beni e servizi in misura tale da
conferire all’agricoltura uno status speciale non pare una spiegazione
credibile. Qualunque sia la definizione di “output” adottata, molte sono le attività economiche che, accanto ai beni e servizi programmati
(il loro obiettivo principale), generano (spesso involontariamente) prodotti o effetti secondari. L’esistenza di output multipli congiunti non
basta quindi di per sé a distinguere tra attività agricole e non.
110
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
Analogamente, il fatto che alcuni dei beni e servizi siano esternalità
o beni pubblici, non serve a spiegare come mai il dibattito sul concetto
di multifunzionalità non si sia esteso al di là dell’ambito agricolo. Si
possono elencare molti casi in cui attività non agricole producono benefici secondari di cui tutti possono usufruire liberamente ed ugualmente (beni pubblici). Ne segue che, se ci si basa sulla presenza o meno di output congiunti, tra i quali alcuni sono beni pubblici, non c’è
ragione di credere che la multifunzionalità sia un fenomeno specifico
dell’agricoltura. In realtà, molti punti concettualmente simili a quelli
dibattuti per la multifunzionalità in agricoltura sono stati considerati
per altri settori economici, pur se sotto una veste diversa e in diversi
contesti di politica economica.
La maggior parte degli esempi di produzione congiunta riportati in
letteratura si riferisce alla silvicoltura, con alcuni riferimenti al settore
ittico e alle attività di produzione familiare.
Dati i molteplici punti in comune tra agricoltura e silvicoltura (fra i
quali l’offerta di beni pubblici e privati, l’importanza della terra come
fattore di produzione, il ruolo dei processi biologici nella produzione,
la stretta relazione con l’ambiente, l’impatto sull’economia rurale) tali
esempi sono particolarmente rilevanti. È interessante notare come la
produzione congiunta di beni e servizi sia divenuta parte del dibattito
sulle politiche agricole e forestali, le due attività che più di ogni altra
nei Paesi Ocse utilizzano il fattore terra.
Spesso ci si chiede se il produrre congiuntamente beni e servizi costi
meno (o più), e se i prodotti siano di qualità superiore (o inferiore) rispetto a quelli ottenuti da processi produttivi separati. La produzione
congiunta viene considerata preferibile quando sussiste un alto grado
di complementarità tra i prodotti e quando, grazie ad appropriate decisioni manageriali, si possono aumentare le sinergie e ridurre gli ostacoli. Un’attenta valutazione e interpretazione dell’esperienza maturata
in altri campi dell’economia può risultare utile al lavoro sulla multifunzionalità in agricoltura ed assicurare che le questioni più importanti
vengano trattate in modo coerente nei diversi settori economici.
Restano comunque alcuni aspetti specifici dell’attività agricola che
in altri settori potrebbero non assumere la stessa rilevanza, e che darebbero ragione dell’importanza della multifunzionalità per le politiche agricole. Alcuni di questi riguardano le caratteristiche del settore
agricolo, come ad esempio la dispersione geografica delle imprese, altri il processo politico decisionale e l’alto livello di aiuti e sussidi che
continuano ad essere concessi al settore agricolo.
APPENDICE 4
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
111
MULTIFUNZIONALITÀ: UNA CARATTERISTICA O UN OBIETTIVO?
Vi sono essenzialmente due approcci all’analisi della multifunzionalità. Il primo interpreta la multifunzionalità come caratteristica di
un’attività economica. Ciò che rende un’attività economica multifunzionale è la possibilità di produrre output ed effetti multipli e congiunti. Tali output ed effetti possono essere positivi o negativi, voluti o non
voluti, complementari o in conflitto, si possono sommare o annullare
tra loro. Alcuni hanno un valore di mercato riconosciuto, altri no.
In base a questa accezione, la multifunzionalità non è specifica dell’agricoltura, ma è caratteristica di molte attività economiche, che possono assumere caratteri multifunzionali in modi diversi. Una data attività può quindi essere multifunzionale, ma non è detto che vada implicitamente considerata tale. Questa impostazione rappresenta l’approccio “positivo” alla definizione della multifunzionalità.
La seconda interpretazione è fondata sulle molteplici funzioni che
vengono attribuite all’agricoltura. Secondo quest’altro approccio, l’agricoltura viene vista come un’attività che deve soddisfare specifiche
richieste della società. Ne consegue che la multifunzionalità non è
semplicemente una caratteristica del processo produttivo, ma assume
un valore intrinseco. Mantenere il carattere multifunzionale di un’attività o rendere un’attività “più” multifunzionale può divenire un obiettivo di politica economica. Tale impostazione può essere definita l’approccio “normativo” alla definizione della multifunzionalità.
La presente analisi si basa sul concetto positivo di multifunzionalità.
L’approccio positivo scelto dal Segretariato Ocse non esclude politiche
che «(...) permettano all’agricoltura di manifestare il suo carattere
multifunzionale (...)» (Ocse 1998a). Inoltre, mettere in relazione la multifunzionalità con le caratteristiche economiche del processo produttivo
agricolo e dei suoi output fornisce una cornice di lavoro entro cui esaminare problemi che interessano produttori, consumatori e contribuenti.
La scelta dell’approccio positivo non esclude l’esame dell’aspetto
normativo della multifunzionalità. Entrambe le impostazioni vengono
riconosciute dal Comunicato Ministeriale dell’Agricoltura del 1998
(Ocse 1998a). Riferirsi all’aspetto normativo della multifunzionalità
porterebbe a concentrare il dibattito sugli obiettivi sociali associati all’agricoltura nei vari Paesi, fra cui gli obiettivi di equità e stabilità. Gli
aspetti normativi della multifunzionalità potrebbero quindi essere esaminati in modo adeguato in un contesto di ricerca empirica sulla multifunzionalità e sulle relative implicazioni di politica economica.
APPENDICE 5
112
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
L’ORIGINE DELLA PRODUZIONE CONGIUNTA
La produzione si dice congiunta quando un’impresa produce due o
più prodotti in modo interconnesso, così che un aumento o una diminuzione nell’offerta di uno dei due prodotti alteri il livello di produzione
dell’altro. I diversi casi di produzione congiunta vengono tradizionalmente classificati in tre categorie: 1) interdipendenza tecnica dei processi produttivi; 2) fattori di produzione non frazionabili; e/o 3) fattori
di produzione frazionabili di cui l’azienda dispone in quantità fisse.
Le interdipendenze tecniche sono all’origine di molti effetti negativi
dell’attività agricola, tra cui l’erosione del suolo, la presenza di residui
chimici e la lisciviazione delle sostanze nutritive. Anche le emissioni di
gas serra ed i problemi associati al benessere degli animali sono legati
alle caratteristiche tecniche o biologiche del processo produttivo. Tra
gli effetti positivi legati all’interdipendenza tecnica si possono citare,
ad esempio, il controllo di parassiti ed infestanti generato da determinati schemi colturali adottati nella lotta integrata e l’impatto delle rotazioni colturali sul bilancio nutrizionale e sulla produttività del suolo.
Il secondo tipo di produzione congiunta si riscontra nei casi in cui i
prodotti multipli originano dallo stesso fattore di produzione non frazionabile. L’esempio classico è la produzione di carne di pecora e lana, prodotti congiunti dell’allevamento ovino. La produzione di carne
e letame o il legame tra paesaggio e determinati metodi produttivi (terrazzamenti, pascoli alpini con bestiame, campi di girasole) sono altri
esempi di produzione congiunta generata da fattori di produzione non
frazionabili. Se è dunque vero che tali prodotti sono ottenuti congiuntamente, va anche sottolineato come essi siano raramente prodotti in
proporzioni fisse, proporzioni che possono variare sulla base dei diversi metodi di produzione adottati. Molti casi di produzione congiunta, fra cui ad esempio cacciagione-legname e cibo-paesaggio, possono
essere attribuiti sia a fattori di produzione non frazionabili (in quanto
vengono prodotti sullo stesso appezzamento agricolo), sia ad interdipendenze tecniche.
La produzione congiunta può inoltre essere generata dall’utilizzo di
fattori fissi frazionabili. Le imprese dispongono di tali fattori in quantità fisse e li allocano tra i vari prodotti nell’organizzare il processo
produttivo. Un aumento o una diminuzione nella produzione di un
prodotto fa variare la quantità di un dato fattore disponibile per gli altri prodotti, creando così un legame tra i prodotti stessi. I terreni ad uso agricolo e il lavoro autonomo rientrano fra i fattori frazionabili fissi
e ciò spiega perché questo particolare tipo di produzione congiunta è
stato oggetto di grande attenzione da parte degli economisti agrari. Per
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
113
l’analisi sulla multifunzionalità, tuttavia, questo tipo di produzione
congiunta è forse meno rilevante degli altri due tipi discussi sopra.
Gli output frutto di produzione congiunta derivano spesso da una
combinazione delle diverse categorie descritte sopra, la cui importanza relativa può essere difficile da stabilire. Nel dibattito sulla multifunzionalità si citano inoltre prodotti che non corrispondono esattamente
a nessuno dei tre casi di produzione congiunta descritti. Uno di questi
è il contributo dell’agricoltura all’occupazione rurale, legato all’uso
del lavoro come fattore di produzione agricola. Un altro esempio è il
contributo dell’agricoltura alla sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, dove il legame è con il cibo stesso, che è prodotto primario e
merce commerciabile, mentre altri output della multifunzionalità sono
“non commerciabili”.
APPENDICE 6
CLASSIFICAZIONE ESEMPLIFICATIVA DELLE CATEGORIE
DI BENI PUBBLICI
Beni pubblici puri (es. difesa nazionale): per la loro natura di beni
fruibili liberamente ed ugualmente da tutti, tali beni sono di solito forniti dai governi dei singoli Paesi. Ciò spesso comporta un eccesso di
offerta dovuto alla difficoltà nello stimare l’effettivo livello della domanda. L’offerta volontaria, l’unica alternativa privata, risulterebbe
probabilmente insufficiente. Valutare se l’inefficienza legata all’eccesso di offerta sia minore dell’inefficienza insita nel difetto di offerta,
provocato dall’offerta volontaria, è una questione empirica. Esempi in
questo senso possono essere il valore del paesaggio non legato all’uso;
l’habitat naturale; la biodiversità.
Beni pubblici puri locali (es. protezione antincendio locale): i benefici sono circoscritti all’area amministrativa. Un eccesso di offerta da parte del governo locale o un’offerta volontaria insufficiente saranno probabilmente meno gravi che nel caso di beni pubblici puri. Esempi in tal
senso possono essere il controllo degli straripamenti; le conseguenze
positive dell’occupazione rurale; il valore del paesaggio legate all’uso.
Risorse di pubblico accesso (es. pesca in mare aperto): data la loro
natura di beni fruibili liberamente da tutti ma per i quali vi è rivalità
nel consumo, tali beni tendono ad essere sfruttati eccessivamente. Una
soluzione per il raggiungimento dell’efficienza è quella di convertire
tali beni in risorse della comunità locale. In alternativa è richiesto l’intervento dello Stato. Esempi di ciò potrebbero essere la sicurezza del-
114
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
l’approvvigionamento alimentare ed il valore d’uso del paesaggio da
parte dei turisti.
Risorse condivise (es. irrigazione in comune): per la loro natura di
beni esclusivi e per i quali vi è rivalità nel consumo, tali beni possono
essere amministrati in modo efficiente dalla comunità locale se essa è
in grado stabilire regole per l’uso di tali risorse. Esempi di ciò possono
essere il ripristino di riserve idriche ed il valore d’uso dell’habitat naturale e della biodiversità.
Beni il cui accesso è esclusivo e non vi è rivalità nel consumo (es.
autostrade non congestionate): tali beni potrebbero essere forniti dal
settore privato facendo pagare gli utilizzatori. Ciò tuttavia risulterebbe
inefficiente in quanto escluderebbe utenti potenziali con disponibilità
a pagare positiva. Nel caso in cui l’offerta pubblica possa risultare eccessiva, il ricorso all’offerta privata potrebbe rappresentare comunque
una soluzione più adatta. I beni in oggetto diventano “beni di club”
quando si verifica sovraffollamento. Esempi di ciò possono essere il
valore dell’habitat naturale non legato all’uso e la biodiversità (nel caso in cui si possano creare soluzioni istituzionali come i fondi fiduciari
ambientali).
Beni di club (es. circolo di golf): per la loro natura di beni esclusivi
per cui si potrebbe creare sovraffollamento, tali beni saranno probabilmente forniti dal settore privato o da quello pubblico attraverso quote
associative. Esempi di ciò possono essere il valore dell’habitat naturale non legato all’uso e la biodiversità (nel caso in cui si possano creare
soluzioni istituzionali come i fondi fiduciari ambientali).
Sommario
Nel dibattito sulle politiche agricole il termine multifunzionalità viene utilizzato
con sempre maggior frequenza. Esso si presta ad interpretazioni diverse, sia negli aspetti definitori, sia nella formulazione degli interventi tesi a valorizzarla. La rassegna prende in esame la multifunzionalità dell’attività agricola nei suoi aspetti produttivi, di esternalità e di bene pubblico. Diverse questioni vengono esaminate. La prima
riguarda la dimensione della produzione congiunta degli output multipli in agricoltura. La seconda identifica le circostanze per le quali si è in presenza di un fallimento
del mercato. La terza analizza i diversi tipi di bene pubblico in cui è possibile classificare gli output multipli dell’agricoltura. Gli interrogativi cui conduce l’analisi vengono proposti come linee guida per la formulazione di interventi di politica economica ispirati a criteri di efficienza. Per maggior chiarezza, il contributo presenta approfondimenti e note terminologiche in appendici separati dal testo.
Riferimenti bibliografici
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Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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116
Multifunzionalità: un quadro di riferimento
Esiste una “nuova
politica rurale”?
John M. Bryden
INTRODUZIONE
Apparentemente, negli anni Ottanta e Novanta, le politiche rurali sono molto cambiate nella natura, nel contenuto e nell’amministrazione,
in molti Paesi dell’Unione Europea e dell’Ocse. In particolare, cambiamenti specifici riguardano:
• uno spostamento della politica da settoriale a territoriale, con il tentativo di integrare le varie politiche settoriali a livello regionale e locale, definendo obiettivi di ampio respiro, particolarmente riguardo ad
uno “sviluppo rurale sostenibile”;
• il decentramento dell’amministrazione politica e, entro certi limiti,
un disegno politico riferito ai suddetti livelli;
• una maggiore collaborazione tra i settori pubblico, privato e del volontariato, con lo scopo di sviluppare e mettere in atto le politiche locali e regionali;
• l’introduzione di meccanismi che assicurino ai diversi livelli del governo centrale un migliore coordinamento delle differenti politiche
riguardanti le aree rurali e le persone che vi abitano;
Tradotto da: J. M. Bryden, “Is there a ‘New Rural Policy’?”, relazione presentata alla Conferenza internazionale European Rural Policy at the Crossroads, 29 giugno-1° luglio 2000,
The Arkleton Centre for Rural Development Research, King’s College, Università di Aberdeen, Scozia.
Il presente studio prende spunto da un lavoro sulle politiche dei Paesi membri dell’Ocse,
svolto per conto dell’Ocse nel 1999, e da un lavoro eseguito per conto del Comitato per gli
Affari Rurali dell’Ufficio Scozzese su una nuova strategia rurale dal 1997 al 1999, da un articolo sul Libro Bianco Irlandese del 1999 sullo Sviluppo Rurale, e da un esame dell’attuazione delle politiche rurali dell’Ue, fatto nel corso di due conferenze tenute in Finlandia nel
marzo 2000. J. M. Bryden si assume la responsabilità per l’esattezza delle informazioni qui
contenute.
John M. Bryden è co-direttore dell’Arkleton Centre for Rural Development Research e professore di Geografia Umana all’Università di Aberdeen, Scozia.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
117
• lo sviluppo di nuovi meccanismi più flessibili in grado di sostenere
le politiche regionali e locali;
• la tendenza a favorire un approccio bottom-up allo sviluppo rurale;
• lo sviluppo di mezzi in grado di mettere a frutto le esperienze e le
capacità maturate nelle iniziative decentralizzate, mentre i livelli
centrali acquistano un ruolo primario nell’organizzare ed incoraggiare scambi e reti di informazioni;
• un maggior rilievo dato alla diversificazione delle economie rurali,
ponendo l’accento, in particolare, sugli aiuti diretti e indiretti alle
piccole e medie imprese e alle iniziative locali che si basino su risorse e capacità preesistenti e che stimolino gli scambi di conoscenze
tra le imprese stesse;
• una maggiore attenzione alle specificità locali in grado di creare
nuovi vantaggi competitivi, come ad esempio attrattive ambientali o
culturali;
• una maggiore attenzione alle infrastrutture riguardanti i trasporti e le
comunicazioni, all’istruzione e alla formazione professionale, intesi
come beni quasi-pubblici che possano essere di aiuto indiretto alle
imprese; e
• più in generale, il passaggio da un approccio basato su settori in
progressivo declino, come l’agricoltura, la pesca e l’industria mineraria, ad uno basato su investimenti strategici che sviluppino nuove
attività.
Il processo di cambiamento riguarda dunque questioni di governance e di assetti istituzionali; la definizione di “sviluppo”; il contenuto e
gli scopi delle politiche. Presi in esame congiuntamente, tali elementi
potrebbero effettivamente essere considerati come i costituenti di una
“nuova politica rurale”.
Tuttavia, ci si può chiedere fino a che punto i cambiamenti nel linguaggio o nella retorica della politica rurale coincidano con la realtà e
per questo è importante non sopravvalutare i mutamenti avvenuti. Inoltre, è necessario comprendere le ragioni di tali cambiamenti, per
poterli considerare temporanei o destinati a perdurare.
In molti paesi le politiche settoriali e la loro amministrazione centralizzata mantengono grande impatto. Tra queste politiche, molte si
risolvono in sussidi che sostengono attività preesistenti piuttosto che
in investimenti in grado di adattarsi e trarre vantaggio dal mutato
contesto economico. In alcuni casi, alla fine degli anni Novanta, le
politiche di taluni paesi sembrano essere tornate ad un carattere più
settoriale (Freshwater 1997; Deavers 1996). Inoltre, sebbene l’apparente aumento di interesse nei confronti della società rurale potrebbe
far pensare ad un incremento di risorse destinate allo “sviluppo rura-
118
Esiste una “nuova politica rurale”?
le”, non sempre è così, se si considera la questione in termini “reali”.
Tuttavia, quanto detto rappresenta un’interpretazione diffusa del trend
generale.
In questo lavoro vengono valutati i cambiamenti politici e le loro
motivazioni a fronte dei risultati finora ottenuti. Offrono spunto,
principalmente, le recenti esperienze nei Paesi dell’Unione Europea,
soprattutto in attuazione di Agenda 2000, e vengono considerati i
cambiamenti nella politica rurale di alcuni Stati membri. In conclusione, alcune domande chiave riguardano i recenti sviluppi delle politiche rurali, con qualche osservazione riguardo al loro sviluppo futuro.
MOTIVAZIONI PER UN APPROCCIO TERRITORIALE INTEGRATO
ALLA POLITICA RURALE
Le motivazioni su cui si fonda l’approccio territoriale alla politica
rurale vengono espresse in vari modi, di cui i seguenti sono i più comuni:
• le aree rurali stanno affrontando un periodo di intenso cambiamento
sociale ed economico, provocato dalla globalizzazione e dalle conseguenti restrizioni nella spesa pubblica, ed hanno bisogno di sostegno per adeguarsi alle nuove condizioni;
• le aree rurali sono eterogenee per storia, cultura, condizioni naturali,
decentramento, densità di popolazione, insediamenti, struttura economica, risorse umane e di altro genere, caratteristiche ambientali e
ulteriori aspetti che permettono loro di adeguarsi ai cambiamenti,
sviluppando nuove basi per la vita economica e sociale; le politiche
devono adattarsi alle situazioni specifiche, attingendo a conoscenze
locali e ad altre risorse che non sono generalmente accessibili ai livelli centrali;
• gli interessi della maggior parte degli abitanti delle aree rurali, persino della maggioranza delle famiglie agricole, non sono più favoriti
(se mai lo sono stati) da politiche settoriali, dato che dipendono in
modo crescente dall’occupazione e dalle entrate generate da un mix
di attività economiche, fondate esse stesse su considerazioni legate
alla qualità della vita, alle condizioni ambientali, alla cultura e agli
stili di vita;
• molte aree rurali, anche se non tutte, sono ancora caratterizzate da
basso reddito, disoccupate o sottoccupate, con scarsa qualità del lavoro, migrazione dei giovani, scarsa qualità dei servizi, con conseguenti problemi di equità e di coesione sociale;
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
119
• essendo spesso caratterizzate da importanti beni pubblici o quasipubblici - come un ambiente incontaminato, paesaggi attraenti, un
patrimonio culturale e comunità “sicure” e relativamente integrate
socialmente -, le aree rurali contribuiscono ad innalzare la qualità
della vita della società nel suo insieme, ed è difficile, se non impossibile, attribuire a tali caratteristiche valori di mercato appropriati 1;
• le aree rurali producono alimenti basilari e molte materie prime di
vitale importanza;
• lo sviluppo delle aree rurali è parte essenziale degli sforzi tesi a promuovere la coesione economica e sociale tra Paesi (ad esempio nell’ambito dell’Ue) e al loro interno;
• l’agricoltura dovrà confrontarsi sempre più con nuove sfide, sia per
diventare più competitiva, sia per soddisfare le richieste di salute,
qualità, migliori caratteristiche ambientali e di benessere animale, e
tutte le altre esigenze dei consumatori. Tutto ciò, in un contesto di
struttura oligopolistica delle industrie a monte e a valle del settore agricolo;
• le famiglie di agricoltori devono poter fare affidamento su di una
“campagna viva”, dove possano avere accesso ai servizi, alle infrastrutture e alle forme di occupazione integrativa di cui hanno necessità;
• l’accettazione dell’obiettivo politico prioritario di uno sviluppo
(rurale) sostenibile in termini economici, sociali e ambientali pone
gli individui come il fine ultimo dello sviluppo, il che comporta sia
un loro coinvolgimento attivo sia uno sviluppo di tipo olistico,
sebbene su scala “locale”, affinché le persone possano essere coinvolte e venga rispettata la diversità dei loro obiettivi e delle loro
condizioni.
In alcuni casi, queste argomentazioni si riferiscono a fallimenti del
mercato: gli esempi più noti riguardano i beni pubblici e quasi-pubblici, e tra questi i più noti sono quelli legati al patrimonio ambientale e a
quello culturale. In altri casi le argomentazioni vengono formulate in
termini di conoscenze ed informazioni imperfette, di restrizioni di accesso alle risorse naturali o di altro tipo e altre “imperfezioni di mercato”, oltre che in relazione ad obiettivi sociali di equità, politici di coesione, e “olistici” di sostenibilità.
L’approccio territoriale implica un’altra questione: a quale livello di
(1) Ciò avviene a causa dell’assenza di mercati specifici (di difficile o impossibile creazione), e
in quanto le “utilità” generate non possono essere considerate e misurate solo dal punto di
vista economico.
120
Esiste una “nuova politica rurale”?
governance deve essere gestita la politica di sviluppo rurale? Nell’ambito Ue il problema porta a chiedersi se e in che modo la politica rurale sia competenza comunitaria, nazionale, regionale o locale. Domande simili si possono anche porre nell’ambito di stati federali o unitari.
Ad esempio, il problema è stato cruciale in Canada nell’ambito dei dibattiti costituzionali, compresi quelli che hanno avuto per oggetto i
First Nations Agreements.
Approfondiamo adesso il caso dell’Ue, prendendo in considerazione, in modo particolare, la questione dello sviluppo della politica rurale contrapposta a quella agricola e valutando fino a che punto la retorica politica produca effettivamente risultati concreti.
LO SVILUPPO DELLA POLITICA RURALE NELL’UNIONE EUROPEA,
RETORICA E REALTÀ
Prendendo in esame la politica dell’Unione Europea, un approccio
territoriale integrato e decentrato fu affrontato seriamente solo dopo
“l’allargamento al Sud”, le mini-riforme della Pac (Politica agricola
comunitaria) e l’Atto Unico Europeo a metà degli anni Ottanta. Questi eventi, insieme alle questioni legate al negoziato sul commercio
internazionale dell’Uruguay Round hanno portato ad una fondamentale riforma dei Fondi strutturali dell’Unione Europea e delle Politiche strutturali e di coesione nel 1987, e ad una riforma radicale della
Pac nel 1992. Nel 1988 un importante Discussion Paper della Ce,
The Future of Rural Areas, ha delineato una nuova visione e un nuovo modo di affrontare lo sviluppo rurale spostando l’enfasi della politica rurale sull’“approccio territoriale”. Nel 1991, l’Ue ha promosso
l’Iniziativa Leader destinata a finanziare, con programmi di sviluppo
rurale integrato e “bottom-up”, partnership rurali nelle regioni prioritarie degli Obiettivi 1 e 5b, definite nella riforma delle Politiche strutturali e di coesione. Uno dei principi chiave del funzionamento dei
fondi strutturali, nelle regioni prioritarie, riguardava il ruolo delle
cooperazioni regionali nel progettare ed attuare i Programmi Regionali. A differenza della politica di mercato della Pac, totalmente finanziata dal Fondo europeo agricolo d’orientamento e di garanzia, sezione garanzia (Feoga), i Programmi Regionali e i Leader venivano
cofinanziati dagli Stati membri, riconoscendo, in tal modo, che la politica strutturale e di coesione deve essere un’iniziativa congiunta sia
della Commissione Europea sia delle regioni e nazioni dell’Ue, da
considerare quindi una competenza condivisa. I Programmi Regionali
finanziati dall’Ue, e l’Iniziativa Leader, venivano inoltre considerati
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
121
come strumenti di “sviluppo integrato”, in quanto sovvenzionati dai
tre principali Fondi strutturali dell’Ue per lo sviluppo regionale (Fesr), per le risorse umane (Fse) e per le strutture agrarie e il loro sviluppo (Feoga - Orientamento).
La riforma della Pac del 1992 introduce inoltre ulteriori disposizioni
di carattere strutturale: le misure di accompagnamento agroambientali,
agroforestali e di pensionamento degli agricoltori, cofinanziate dagli
Stati membri. Tuttavia, queste misure sarebbero state finanziate dalla
sezione Garanzia del Feoga, tradizionalmente riservata alla politica di
mercato.
Le forze trainanti che spingevano per la riforma delle politiche strutturali e di coesione erano principalmente interne 2, mentre quelle che
hanno portato alle riforme della Pac erano sia interne che esterne. Le
pressioni esterne prendevano in considerazione soprattutto la connessione tra sussidi, aumento di produzione, eccedenze ed esportazioni
sovvenzionate, in concorrenza con le esportazioni alimentari di esportatori tradizionali, soprattutto Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova
Zelanda e America del Sud. L’accordo in seno all’Ue di ridurre tali
sussidi è stato basilare per la positiva conclusione dell’Uruguay
Round (Gatt 1994). L’accordo raggiunto nel 1994 (l’Uraa) accettava le
riforme della Pac, assegnando alla cosiddetta “scatola blu” i pagamenti compensativi disaccoppiati destinati agli agricoltori, esentandoli
quindi temporaneamente dalle misure di riduzione dei sussidi ma lasciando aperta la questione del loro destino definitivo. Le misure di
accompagnamento, assieme alle altre disposizioni Feoga relative allo
sviluppo strutturale e rurale, venivano collocate nella cosiddetta “scatola verde”, in cui sono classificate le misure non legate direttamente
alla produzione, e pertanto escluse dagli accordi sulla riduzione dei
sussidi.
L’accordo dell’Uruguay Round ha fissato l’agenda dei successivi
negoziati commerciali, iniziati alla fine del 1999, vincolando i partecipanti a procedere verso un’ulteriore riduzione dei livelli di protezione
e dei relativi sussidi, soprattutto per quanto concerne gli aiuti direttamente collegati alla produzione, che, nel caso dell’Ue, rappresentano
una parte preponderante della politica di mercato della Pac. Ciò avrebbe dovuto generare ulteriori riduzioni degli aiuti all’agricoltura. Le
successive riforme della Pac di Agenda 2000 anticiparono, di fatto, tale tendenza riducendo in parte la portata dei negoziati commerciali. I
(2) In modo particolare riguardavano gli effetti del mercato comune Europeo e il libero scambio
di merci, servizi, capitali e manodopera in seno a questo, ed un allargamento verso Sud a
comprendere le regioni agricole relativamente povere di Grecia, Spagna, Portogallo.
122
Esiste una “nuova politica rurale”?
preparativi in vista dell’“Allargamento ad Est” dell’Ue, con la possibile adesione di dieci Paesi dell’Europa Centrale e dell’Est all’inizio del
nuovo millennio, rappresentarono un’ulteriore spinta verso la revisione del modello di sostegno agricolo. La preoccupazione era che gli
Stati già facenti parte dell’Ue, significativamente più ricchi, dovessero
affrontare quasi da soli il peso di finanziare la Pac nei confronti dei
nuovi Stati membri, e che tale peso si sarebbe rivelato insostenibile.
Questi due fattori cruciali portarono la Commissione ad elevare lo sviluppo rurale al rango di “secondo pilastro della Pac” inducendola a dare maggior rilievo alle politiche di sviluppo rurale.
Il fondamento logico di tale orientamento è che, in primo luogo, le
misure di “sviluppo rurale” vengono collocate nella “scatola verde”,
diventando così più facili da difendere nell’ambito dei negoziati commerciali e, in secondo luogo, che sono cofinanziate dagli Stati membri, e quindi è di più difficile attivazione da parte dei paesi più poveri,
specialmente i Peco. Dagli anni Ottanta, la somma destinata al cofinanziamento da parte degli Stati membri, nell’ambito della Pac, è andata aumentando. In altri tipi di spese per lo sviluppo, soprattutto per
il Fesr e per il Fse, di norma vi è un cofinanziamento con partner nazionali e regionali. Dato che, dagli anni Ottanta, è progressivamente
aumentata anche la parte dello stanziamento comunitario destinata al
Fesr e al Fse, è chiaro che la quota complessiva del budget della Ce
destinata a misure interamente finanziate dalla Commissione è andata
diminuendo. È evidente che si tratta di un trend destinato a proseguire
nel tempo. Nell’ambito di questo scenario, si può facilmente comprendere come lo sviluppo rurale, in grado di fornire risposte adeguate alle
sfide interne ed esterne che devono essere affrontate dalla gestione finanziaria e dalle politiche Ue, avrà in futuro una parte sempre maggiore della spesa Pac.
In cosa consiste quindi la politica di sviluppo rurale dell’Ue del “secondo pilastro”? In primo luogo, è legata alla nuova legislazione sullo
sviluppo rurale, scaturita da Agenda 2000, ma fa anche riferimento agli Obiettivi 1 e 2 della Politica strutturale e di coesione, così come
modificati da Agenda 2000 e dal programma Leader+, che segue i
Leader I e II.
Il Piano per lo sviluppo rurale
Franz Fischler, Commissario per l’Agricoltura, attribuisce grande
importanza allo sviluppo rurale. Nel 1996, ha promosso la Conferenza
sullo sviluppo rurale, a Cork, in Irlanda, con l’obiettivo di dare al tema
rinnovata attenzione, provocando, di fatto, reazioni contrastanti sia da
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
123
parte delle organizzazioni agricole, che lo ritenevano un attacco alla
politica agricola tradizionale, sia da parte dell’allora Commissario per
la Politica regionale e di coesione, Wulf-Mathies, che, invece, era
contraria ad ulteriori trattamenti di favore nei confronti delle aree rurali, considerando i possibili effetti sugli obiettivi di coesione e i relativi
principi di concentrazione.
Agenda 2000 propone però un compromesso (Commissione Europea 1997), con una sezione sulla necessità di portare avanti gli “strumenti per la politica rurale”, in vista di ulteriori inevitabili mutamenti
nella situazione del mercato, nella politica di mercato e nelle regole
sul commercio (cioè, il Wto). Affermando inoltre che «(…) le aree rurali devono svolgere funzioni sempre più importanti in campo ambientale e ricreativo (…) Al contrario, la maggiore importanza data alle
questioni ambientali e ricreative offrirà nuove opportunità di sviluppo, dalle quali gli agricoltori e le loro famiglie potranno trarre vantaggio», prevedendo misure di sviluppo rurale «per accompagnare e
integrare le politiche di mercato» che avrebbero compreso «tutti i tipi
di provvedimenti a supporto di cambiamenti strutturali e di uno sviluppo rurale come quelli attualmente cofinanziati dal Feoga, sezione
Orientamento».
Sebbene il nuovo “Fondo agricolo” auspicato a Cork (Commissione Europea 1996), fosse completamente assente in Agenda 2000, le
proposte per la nuova legislazione sullo sviluppo rurale furono adottate al Vertice di Berlino del 1999. Le misure previste dai nuovi regolamenti verranno sostenute dalla sezione Garanzia del Feoga, tradizionalmente dedicata alle politiche di mercato, e non dalla sezione Orientamento, concepita per finanziare le misure di natura strutturale.
L’unica eccezione riguarda le Regioni dell’Obiettivo 1, dove il Piano
di sviluppo rurale (diversamente dalle misure di accompagnamento e
dalle misure per le zone svantaggiate) verrà finanziato dalla sezione
Orientamento.
Il Psr (Piano di sviluppo rurale) interessa tutte le regioni dell’Ue, e
consiste quasi integralmente in un riassemblamento di misure finanziate nell’ambito della politica delle strutture rurali (Obiettivo 5a), misure agricole nell’ambito delle politiche regionali (Obiettivo 5b), e le
vecchie misure di accompagnamento introdotte nel 1992 con la riforma della Pac (misure agroambientali, rimboschimento delle zone agricole e pensionamento degli agricoltori), incluse quindi le attuali misure dell’Obiettivo 5a. Viene presentato come una lista di misure possibili, delle quali solo quella agroambientale è obbligatoria. I principali
elementi sono i seguenti:
1.Investimenti nelle aziende agricole (cap. I).
124
Esiste una “nuova politica rurale”?
2.Insediamento dei giovani agricoltori (cap. II).
3.Formazione (cap. III).
4.Prepensionamento (cap. IV).
5.Misure a favore di zone svantaggiate o soggette a vincoli ambientali
(cap. V).
6.Misure agroambientali (cap. VI).
7.Miglioramento delle condizioni di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli (cap. VII).
8.Silvicoltura (cap. VIII).
9.Promozione dell’adeguamento e dello sviluppo delle zone rurali
(cap. IX).
Quest’ultimo include le misure dell’articolo 33, fra cui iniziative orientate a problemi e beneficiari anche al di fuori del settore agricolo
(in corsivo nell’elenco):
• opere di miglioramento fondiario;
• ricomposizione fondiaria;
• avviamento di servizi di sostituzione e di assistenza alla gestione
delle aziende agricole;
• commercializzazione di prodotti agricoli di qualità;
• servizi essenziali per l’economia agricola e la popolazione rurale;
• rinnovamento e miglioramento dei villaggi e protezione e tutela del
patrimonio rurale;
• diversificazione delle attività del settore agricolo e delle attività affini allo scopo di sviluppare attività plurime o fonti alternative di
reddito;
• gestione delle risorse idriche in agricoltura;
• sviluppo e miglioramento delle infrastrutture rurali connesse allo
sviluppo dell’agricoltura;
• incentivazione di attività turistiche e artigianali;
• tutela dell’ambiente in relazione all’agricoltura, alla silvicoltura, alla
conservazione delle risorse naturali nonché al benessere degli animali;
• ricostituzione del potenziale agricolo danneggiato da disastri naturali e introduzione di adeguati strumenti di prevenzione;
• ingegneria finanziaria.
Nelle regioni dell’Obiettivo 1, le misure adottate nel Piano e finanziate dalla Sezione Orientamento entreranno a far parte dei Programmi
Regionali, sotto l’ordinamento dei Fondi strutturali. Nelle regioni dell’Obiettivo 2, tutte le misure contenute nel Psr, con l’eccezione delle
preesistenti misure di accompagnamento e di quelle destinate alle zone svantaggiate, possono entrare a far parte dei Programmi Regionali.
Altrimenti, azioni per uno sviluppo rurale saranno conseguite «al li-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
125
vello geografico ritenuto più adatto», e il più possibile integrate in un
unico piano della durata di 7 anni. Tuttavia, lo sviluppo rurale non può
essere considerato un mero complemento della politica di mercato 3.
La vera spinta verso questa trasformazione nelle modalità di finanziamento di tali misure è una questione di bilancio 4.
Il Psr ha un bilancio annuale di 4,3 miliardi di Euro, mentre la politica di mercato raggiunge in media i 38 miliardi di Euro.
Al momento sussiste una certa confusione in seno alla Commissione
sulla distinzione tra sviluppo rurale e regionale: secondo la Commissione la nuova misura di sviluppo rurale orizzontale non può essere intesa come politica regionale. Da una parte, questo comporta il timore
che il gruppo di riferimento per le misure di “sviluppo rurale” continui
ad essere limitato agli agricoltori e, dall’altra. rappresenta un campanello d’allarme riguardo all’istituzione di possibili altri programmi di
natura territoriale separati e distinti, non integrati alle politiche regionali territoriali o programmatiche. Inoltre, la natura orizzontale di tale
politica solleva problemi su quale sia il nesso tra questo aspetto di
“politica rurale” e la politica strutturale e di coesione dell’Ue, che mira a privilegiare le zone (e, in certa misura, anche le persone) in stato
di maggiore bisogno.
La Politica strutturale: Obiettivi e Fondi
Dopo Agenda 2000, il numero degli Obiettivi è stato ridotto da sette
a tre. I Fondi esistenti sono rimasti invariati. La quota di popolazione
che rientra nei fondi definiti su base territoriale è stata ridotta dal 51%
(3) È preoccupante la tendenza della Commissione e del Consiglio a riferirsi allo sviluppo rurale come ad un semplice “complemento alla politica dei mercati” dato che così si omettono molte altre giustificazioni e motivazioni per una politica di sviluppo rurale. Tuttavia,
questa può essere una tattica necessaria in vista delle “regole” sull’utilizzo dei Fondi per
l’agricoltura (devono essere direttamente o indirettamente connessi all’agricoltura o agli obiettivi del Trattato). Un’altra tendenza preoccupante è quella di considerare la politica agroambientale un tutt’uno con la politica di sviluppo rurale! Questo risulta, ad esempio, dal
contenuto del comunicato stampa seguito alla riunione del Consiglio dei giorni 17-18-19
novembre 1997. Le due tendenze sono poi collegate alla posizione tenuta dall’Ue riguardo
“il modello rurale europeo”, durante il Millennium Round.
(4) I cambiamenti hanno avuto l’effetto di spostare alcune spese dalla voce “Strutture” contenuta nelle “prospettive finanziarie”, alla Pac, dove si suppone che ci sarà una certa flessibilità all’interno dell’“Orientamento”. Fischler può anche ritenerla una via per evitare tagli
all’orientamento e poter disporre così di un bilancio Pac maggiore. Tuttavia, molti Stati
membri (ad esempio il Regno Unito), stanno cercando un modo per diminuire a medio termine gli stanziamenti a favore della Pac, e non è detto che eventuali risparmi nelle misure
di sostegno dei prezzi e nei pagamenti diretti vengano trasferiti automaticamente alle misure di accompagnamento.
126
Esiste una “nuova politica rurale”?
al 43% del totale dell’Ue. Il nuovo Obiettivo I 5 resta essenzialmente
invariato, con l’aggiunta del vecchio Obiettivo 6. Il Fondo regionale,
il Fondo sociale e il Feoga - Orientamento continueranno a finanziare
programmi integrati, come fanno attualmente. Il nuovo Obiettivo II include sia zone urbane in difficoltà che zone agricole in declino: prende
così il posto degli Obiettivi 2 e 5b 6. Le regioni comprese negli Obiettivi 1, 5b e 2 che non rientrano nei nuovi criteri di ammissibilità avranno piani transitori. La popolazione compresa nelle zone rurali dell’Obiettivo II è nettamente inferiore a quella compresa nelle zone del
precedente Obiettivo 5b. Il nuovo Obiettivo III è “orizzontale”, si applica nelle regioni che non rientrano negli Obiettivi I e II, e mira allo
«sviluppo delle risorse umane». Sebbene, in linea di principio, l’Obiettivo III avrebbe potuto essere compreso tra le misure di sviluppo
rurale sovvenzionate dal Feoga al di fuori delle regioni degli Obiettivi
I e II, di fatto non lo sarà.
Le “misure rurali” dell’Obiettivo II dovrebbero favorire la diversificazione economica, con un aumento degli aiuti destinati all’innovazione e alle aziende di piccola e media dimensione, ponendo maggiore attenzione all’orientamento professionale, allo sviluppo del potenziale
locale, alla salvaguardia dell’ambiente ecc. «Lo sviluppo delle aree rurali dovrebbe creare migliori rapporti tra le cittadine e le campagne
circostanti: ciò dovrebbe facilitare la diversificazione delle attività industriali, culturali, dell’artigianato e dei servizi».
Il programma Leader+, le cui basi poggiano sui principi generali di
innovazione introdotti dal Leader, integrazione e partnership bottomup, riceverà poco più di 2 miliardi di Euro, a fronte di 1,7 miliardi di
Ecu ricevuti nel periodo 1994-1999. Tuttavia, con le nuove regole, tutte le aree rurali dell’Ue sono potenziali destinatarie di tali fondi che
corrono il rischio di venire dispersi tra molti soggetti, a meno che gli
Stati membri e l’Ue non riescano nell’intento di ridurre il numero dei
gruppi Leader.
Attuazione del Piano di sviluppo rurale
È evidente che la maggior parte dei finanziamenti per il Psr verrà assorbita da misure già in vigore, in particolare le misure di accompa(5) L’Obiettivo 1 interessa quelle regioni il cui Pil medio pro capite è inferiore al 75% della
media dell’Ue. L’Obiettivo 6 era destinato alle regioni artiche della Svezia e della Finlandia
a bassa densità di popolazione. Pertanto l’Obiettivo I include molte regioni e zone rurali,
ma non si limita solo a queste.
(6) L’Obiettivo 5b interessava le zone rurali in declino. L’Obiettivo 2 riguardava le regioni industriali in crisi.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
127
gnamento, che ora includono le misure per le zone svantaggiate. In
molti Paesi, l’entusiasmo per le misure dell’articolo 33, che includono
destinatari non solo agricoli, è frenato dall’opposizione delle lobby degli agricoltori, dalle limitazioni di bilancio e dal ruolo dei Ministeri
dell’Agricoltura. Una analisi delle bozze dei programmi di Francia,
Danimarca, Finlandia e Scozia (riportate in appendice), mostra l’importanza dei programmi a livello nazionale per le principali voci in uscita, soprattutto le misure di accompagnamento (che non sono nuove)
e gli investimenti aziendali. Le misure che riguardano l’economia rurale in senso lato sono poche e rientrano tutte nell’articolo 33, ma sono poste in secondo piano, con meno del 10% del budget totale a disposizione in tutti i casi esaminati 7. Se ciò risulterà essere una tendenza generale, allora vorrà dire che meno dell’1% delle spese della Pac
saranno destinate agli aspetti “non agricoli” dello sviluppo rurale nell’ambito del Psr - altro che “secondo pilastro”! La creazione di una lista di misure ha permesso ad alcuni Paesi di scegliere quali adottare
tra queste e a cosa destinare le risorse, e ciò si è risolto in larga parte
nell’adozione di misure a livello nazionale piuttosto che regionale, con
le priorità decisamente concentrate in campo agricolo.
Le proposte della Commissione, contenute in Agenda 2000, riguardo
allo sviluppo rurale rappresentavano già un passo indietro rispetto alla
Dichiarazione di Cork. Da un lato, la Commissione ha dato l’impressione di avere “mollato” temporaneamente la politica rurale, sia sotto la
pressione delle lobby degli agricoltori sia per i dissapori interni tra Dg6
e Dg16 8. Dall’altro, ha collocato con fermezza la politica di sviluppo
rurale nell’ambito delle politiche del settore agricolo, in linea con la
strategia di valorizzazione degli aspetti multifunzionali dell’agricoltura,
in vista dei prossimi negoziati del commercio mondiale, ed anche per
limitare l’impatto dell’allargamento ad altri paesi sul budget della Pac.
Il risultato finale sembrerebbe ricondurre ad una serie di provvedimenti per le regioni rurali chiaramente insufficienti in vista dell’allargamento dell’Ue. La politica territoriale, attuata attraverso i Fondi
Strutturali e rivolta ad un obiettivo cruciale di coesione sociale ed economica, resta inadeguata ad affrontare le disparità regionali attuali, e
tanto più quelle del dopo-allargamento e post-Unione monetaria europea. La politica agraria resta in gran parte immutata e difficilmente in
(7) Sinora sono riuscito ad avere valutazioni preliminari sulle proposte di attuazione del Psr in
Danimarca, Finlandia, Francia, Irlanda, Scozia e Spagna, grazie alla collaborazione di colleghi in questi Paesi.
(8) Direzione Generale Agricoltura, sviluppo rurale e pesca e Direzione Generale Politica regionale. Ndr.
128
Esiste una “nuova politica rurale”?
grado di soddisfare le esigenze dei negoziati commerciali nell’ambito
del Millennium Round. Sebbene la Commissione abbia ribadito che:
«Lo sviluppo rurale non è una semplice appendice della Pac ma deve
essere uno strumento forte, efficace e coerente, di accompagnamento e
integrazione alla politica di mercato», è chiaro che non ci sarà, nella
maggior parte dei casi, una politica di sviluppo rurale integrato al di
fuori di Leader+, e che quegli elementi della cosiddetta politica rurale,
che vanno oltre il settore agricolo, resteranno marginali rispetto alle
spese destinate allo stesso settore agricolo, sia che si parli di politiche
di mercato o di Psr. È mia opinione che la politica più “integrata” destinata a zone povere e rurali sia quella dell’Obiettivo 1, per lo più nel
Sud dell’Europa; per il resto, almeno a livello di Ue, una politica rurale davvero integrata appare di là da venire.
Ho rappresentato la situazione dell’Ue in dettaglio poiché ritengo
che illustri la tendenza della retorica politica ad andare oltre la realtà.
Ciò nonostante, è anche possibile indicare alcune nuove politiche nazionali per lo sviluppo rurale, in seno e al di fuori dell’Ue, e rilevare
delle interessanti novità.
ORIENTAMENTI NELLA POLITICA RURALE A LIVELLO NAZIONALE
Oltre alle normative dell’Ue, molti Stati membri hanno politiche di
sviluppo rurale proprie. In alcuni casi, queste politiche hanno un ruolo
predominante nello sviluppo territoriale. Inoltre, negli ultimi anni, sono stati apportati alcuni cambiamenti di rilievo in tali politiche nazionali, sia per quanto riguarda il loro contenuto sia a livello di strutture
istituzionali.
Contenuto delle politiche
Le politiche agricole di natura territoriale spesso comprendono tutti
o alcuni dei seguenti elementi:
• tentativi di rafforzare le economie rurali, principalmente attraverso
la diversificazione delle attività economiche, soprattutto utilizzando
sussidi indiretti per infrastrutture inerenti ai trasporti e alle comunicazioni, promuovendo reti di conoscenze e competenze, sostenendo
istruzione e formazione, favorendo la creazione di nuove imprese;
• tentativi di ristrutturare l’agricoltura attraverso l’intensificazione,
l’ammodernamento e l’aumento del valore aggiunto nelle regioni
produttive, l’estensivizzazione e lo sviluppo di un’agricoltura multifunzionale nelle regioni meno produttive, e, in zone ad agricoltura
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
129
•
•
•
•
•
•
•
•
“tradizionale”, la promozione della diversificazione interna e dei
prodotti di qualità;
potenziamento delle infrastrutture riguardanti i trasporti e le comunicazioni, incluse le telecomunicazioni;
incremento dell’assistenza alle imprese, rivolta soprattutto alla diffusione delle nuove tecnologie attraverso la ricerca, lo sviluppo e la
creazione di istituti o centri regionali specializzati; potenziamento
dei servizi alle imprese; creazione di reti commerciali interregionali
e internazionali e promozione di iniziative “endogene” innovative;
sviluppo di risorse umane attraverso l’orientamento professionale, il
miglioramento di capacità imprenditoriali e iniziative che facilitino
il passaggio dalla scuola al lavoro;
creazione di competenze a livello locale;
sviluppo e commercializzazione delle “attrattive” naturali e culturali
attraverso l’utilizzo diretto di risorse per attività di svago, turismo
ecc. e, indirettamente, attraverso la creazione di condizioni capaci di
favorire lo sviluppo economico;
creazione di prodotti locali, con identità locale e destinati a nicchie
di mercato, di solito in relazione al “capitale” locale naturale e culturale, che comprendono lo sviluppo di marchi di qualità e di garanzia, con denominazione d’origine, speciali tecniche di produzione, ecc.;
strumenti di finanziamento innovativi o adattati, che includono schemi di perequazione fiscale con l’obiettivo di trasferire fondi di bilancio dagli Stati e le regioni più ricchi a quelli più poveri; sussidi e pagamenti diretti a favore di specifici settori occupazionali o gruppi
sociali (agricoltori, pescatori, disoccupati, malati, indigenti, anziani,
ecc.), aiuti indiretti per “servizi universali” messi a disposizione in
ogni singolo Stato a tariffe e/o livelli più o meno uniformi (uffici postali, trasporti, telecomunicazioni, servizio sanitario, istruzione, rete
idrica, ecc.) e varie forme di assistenza per lo sviluppo sia di investimenti statali nelle infrastrutture e in beni pubblici e quasi-pubblici,
sia di investimenti privati e iniziative comunitarie. Queste ultime
possono includere sovvenzioni, prestiti, partecipazioni azionarie, agevolazioni sugli interessi, agevolazioni tributarie e fideiussioni, di
norma accordati su base selettiva;
nuovi sistemi per portare servizi pubblici in aree rurali, a volte abbinati a centri di servizi 9 e a volte utilizzando le nuove tecnologie di
(9) Il Governo Federale Australiano ha messo a disposizione oltre 70 milioni di dollari in 5 anni
per la creazione di transaction centres in piccoli centri rurali, che offrono servizi di carattere
generale e servizi commerciali di base.
130
Esiste una “nuova politica rurale”?
comunicazione, come nel caso della telemedicina e dell’insegnamento a distanza;
• un uso sempre maggiore di procedure di valutazione dei programmi
sia come strumento di controllo sia come meccanismo di apprendimento.
Per quel che riguarda il contenuto delle politiche, Freshwater rileva
che le zone rurali hanno una proporzione maggiore di politiche di sussidi anziché politiche di investimenti, come invece avviene nelle aree
urbane 10. Questa distinzione, espressa anche da Saraceno 11 e riferita al
contesto europeo, diviene problematica nel nuovo contesto della globalizzazione e degli sforzi volti a promuovere uno sviluppo rurale più
sostenibile e politiche rurali più efficaci.
Il quadro istituzionale
Nei Paesi dell’Unione Europea si possono trovare diversi ordinamenti istituzionali preposti alla realizzazione della politica rurale, che
presentano, tuttavia, alcune caratteristiche comuni:
• decentramento a livello di regioni e località, che a volte richiede una
delega di poteri alla comunità, per andare incontro ai diversi bisogni
e condizioni delle aree rurali e sfruttare al meglio conoscenze e altre
risorse locali;
• sostegno a favore di iniziative di sviluppo bottom-up, ad esempio attraverso i programmi comunitari Leader, ma anche per mezzo di
schemi nazionali similari tipo Pomo, Proder e Scottish Rural Partnership;
• tentativi di ottimizzare il coordinamento a livello centrale delle politiche destinate alle zone rurali, attraverso gruppi di lavoro o comitati
interdipartimentali e interministeriali, a volte affiancati nei parlamenti nazionali da comitati per gli affari rurali, facendo ricorso, ove
possibile, a varie forme di verifica delle politiche per accertare che
queste tengano conto della dimensione rurale;
• cooperazione e coordinamento migliori a livello regionale e locale,
effettuati di solito attraverso partnership che coinvolgano i diversi
dipartimenti ed enti pubblici e che prendano in considerazione gli
interessi del settore privato e del volontariato.
(10) Freshwater D., “Farm Production Policy versus Rural Life Policy”, Staff Paper 371. Department of Agricultural Economics, Università del Kentucky, Facoltà di Agricoltura,
Lexington 40546, giugno 1997.
(11) Saraceno E., “Recent Trends in Rural development and their Conceptualisation”, Journal
of Rural Studies, vol. 10, n. 4, pp. 321-330, 1994.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
131
In Irlanda un Libro Bianco dell’Agricoltura del 1999 preannunciava
un ruolo maggiore per le autorità locali che avrebbero operato con i
Comitati provinciali per lo sviluppo (County Development Boards).
Sono previsti sussidi destinati alle iniziative locali tese a promuovere
la delega di poteri alle comunità e la loro partecipazione nelle decisioni
e nel controllo delle risorse. È stato designato un “dipartimento-guida”
col nome di Dipartimento per lo Sviluppo agricolo, rurale e alimentare
(Dafard). È stato inoltre istituito un Sottocomitato presieduto dal Primo Ministro (An Taoiseach) che comprende i Ministri le cui attività interessano lo sviluppo rurale, al fine di realizzare un loro coordinamento ai livelli più alti. Questo sarà coadiuvato da un Comitato per la Politica interdipartimentale presieduto da Dafard e sarà composto di alti
funzionari provenienti da Dipartimenti interessati. Il Forum nazionale
per lo sviluppo rurale (Nrdf) comprenderà rappresentanti dei dipartimenti governativi, agenzie di Stato, assemblee regionali, autorità regionali, autorità locali, partner sociali, enti per lo sviluppo locale, oltre
al settore del volontariato (Libro Bianco, 23-24). In più, procedimenti
amministrativi di “verifica delle politiche rurali” verranno introdotti in
tutti i Dipartimenti. In Scozia il nuovo Governo decentrato ha introdotto nel Parlamento un Comitato per gli Affari rurali, omologo del Comitato per l’Agricoltura del Parlamento inglese, e un Comitato interdipartimentale di controllo delle politiche. Nel Regno Unito, in seno alla
Presidenza del Consiglio esiste una nuova Performance and Innovation Unit che porta avanti un progetto sulle economie rurali, e che lavora alla preparazione di un nuovo Libro Bianco sul mondo rurale. Un
gruppo di deputati laburisti ha di recente condotto una inchiesta su tutti
gli aspetti della vita rurale, mettendo in evidenza la necessità di un approccio integrato, locale e regionale alla politica rurale. Inoltre, l’effetto delle implicazioni pratiche suscitate dal più ampio obiettivo di uno
sviluppo urbano e rurale sostenibile ha portato ad una più forte connessione tra interessi rurali ed ambientali a livello pratico e politico.
Una tendenza di rilievo consiste nell’apparente crescita dei poteri di
governo sovranazionale, da una parte, e regionale dall’altra, rispetto a
quello nazionale. Ciò accade non solo a causa dei cambiamenti nell’assegnazione degli incarichi amministrativi tra i vari livelli, ma anche per le riforme politiche e istituzionali, come l’ampliamento dei
poteri dell’Ue, la creazione di un Comitato delle Regioni a livello europeo, la devolution scozzese, e la creazione, in molti Paesi dove prima non esistevano, di strutture di governo a carattere regionale. Inoltre, in alcuni Paesi si stanno realizzando nuove strutture istituzionali
per lo sviluppo locale, che prescindono dai tradizionali ambiti amministrativi, geografici, settoriali, come, ad esempio, i Parchi Naturali
132
Esiste una “nuova politica rurale”?
Regionali in Francia, i gruppi Leader di azione locale, le attività locali
di Agenda 21 (Buller 1999).
A livello di governo centrale, spesso sarebbe possibile migliorare il
coordinamento dei vari Ministeri e Dipartimenti cui fanno capo le politiche per lo sviluppo rurale. A giudicare da recenti sviluppi, alcuni
punti chiave sembrano essere:
• la “verifica” delle politiche da parte di un autorevole gruppo interdipartimentale o interministeriale. Questo gruppo deve aver seguito gli
effetti delle politiche sulle aree rurali dagli inizi, essere in grado di
riconoscerne i possibili problemi e formulare correttivi. Per esempio, il gruppo potrà controllare le disposizioni su edilizia, trasporti,
telecomunicazioni, risorse idriche, rifiuti, servizi postali, istruzione e
formazione, sanità, sviluppo regionale, agricoltura e ambiente, parchi nazionali, governo locale ecc.;
• questo processo sembra possa venire accelerato dalla presenza nel
Parlamento di una Commissione per le questioni rurali, con mandato
territoriale piuttosto che settoriale, così da assicurare una partecipazione di alti funzionari in qualsiasi gruppo interdipartimentale o interministeriale;
• attribuzione di responsabilità di coordinamento delle questioni rurali
ad uno specifico Ministero o Dipartimento, che presieda il gruppo
interdipartimentale o interministeriale.
Ciò si riferisce in parte al ruolo che il governo centrale dovrà continuare a svolgere nella gestione delle politiche macroeconomiche, che
avrà anche implicazioni di tipo rurale, sebbene vada ben oltre.
Un altro compito dello Stato sarà assicurarsi che ci sia un buon flusso di informazioni sulle attività di sviluppo rurale e sui risultati ottenuti. In molti casi a ciò provvedono le reti nazionali o sovranazionali di
partnership locali (come è il caso dell’Osservatorio Leader Europeo)
che scambiano informazioni, organizzano seminari, documentano la
corretta gestione di programmi, ecc. Tali attività devono essere supportate da ricerche condotte sul campo, che mirino a codificare e verificare la validità dei risultati, sollevando le questioni da affrontare.
L’obiettivo superiore della politica rurale deve necessariamente essere espresso in termini di sviluppo sostenibile, nelle sue accezioni economiche, sociali, culturali ed ambientali. Bisogna perciò valutare le
politiche e le loro conseguenze, tenendo conto di tali presupposti. La
questione centrale sarà come ottenere maggiori interazioni (sinergie)
positive tra le politiche settoriali in campo economico, sociale e ambientale. Ad esempio, come assicurare che le politiche e le attività di
formazione si ricolleghino alle politiche per lo sviluppo delle imprese,
e come lo sviluppo di imprese interagisce con le politiche per le infra-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
133
strutture e per l’ambiente, come coordinare le politiche agroambientali
con il turismo, ecc. Per molti Paesi, dato il carattere estremamente settoriale delle politiche e della loro attuazione, tutto questo è ancora solo
una sfida. Positivo, invece, è che il livello del dibattito sulle questioni
di politica rurale si sta elevando, e che si possono vedere, qua e là, segni di avanzamento nei processi e metodi di programmazione, monitoraggio e valutazione, tesi ad una concezione più olistica e integrata.
CONCLUSIONI
Negli ultimi venti anni, ci sono stati notevoli sviluppi nella politica
rurale, sia a livello di Unione Europea che a livello degli Stati membri.
Gli elementi chiave di quella che potrebbe essere definita “la nuova
politica rurale” sono: l’approccio territoriale e integrato, il decentramento del potere decisionale, un approccio basato sulle partnership,
tentativi per migliorare il coordinamento delle politiche a livello centrale e l’individuazione di sistemi di aiuti più flessibili che soddisfino
bisogni e situazioni diverse. Inoltre, abbiamo notato cambiamenti rilevanti nel contenuto delle politiche. Molti di questi cambiamenti sono
stati promossi dall’Ue con riforme delle politiche intervenute in seguito all’allargamento al Sud, all’Atto Unico Europeo del 1986, alla crisi
della Pac e all’Uruguay Round. Tali cambiamenti sono stati attuati
quasi interamente attraverso le politiche strutturali e di coesione, che
includono il programma Leader. Per molti, se non per la maggior parte
degli Stati membri, questo ha rappresentato un modo radicalmente diverso di affrontare le cose.
Tuttavia, ritengo che sotto molti aspetti le politiche dell’Ue, a causa
di Agenda 2000, dei successivi regolamenti e ripartizioni dei fondi in
bilancio per il periodo 2000-2006, e dei piani di attuazione proposti a
livello nazionale, hanno segnato una battuta di arresto anziché progredire. In particolare, le zone rurali sono state penalizzate sul fronte delle politiche strutturali e di coesione, senza riuscire a realizzare cambiamenti radicali nell’attuazione del nuovo Piano per lo Sviluppo Rurale.
Quest’ultimo si è rivelato solo una rielaborazione di vecchie misure,
alcune delle quali risalgono al lontano 1972, destinate più agli agricoltori che alla popolazione rurale. Permettetemi di dire che questo è avvenuto per colpa degli Stati membri piuttosto che della Commissione.
L’ancora di salvezza, la più importante almeno per le zone escluse dall’Obiettivo 1, rimane il Leader+: in seno all’Ue l’unico programma di
sviluppo rurale territoriale veramente integrato. In questi ultimi anni,
la politica rurale territoriale è stata condotta dagli Stati membri piutto-
134
Esiste una “nuova politica rurale”?
sto che dalla Commissione ed è qui che si trovano nuovi sviluppi. Inoltre, e sempre al di fuori dell’Obiettivo 1, la spesa a livello nazionale per le politiche a favore delle zone rurali e lo sviluppo rurale è generalmente di molto superiore a quella dell’Ue.
Queste considerazioni portano inevitabilmente a chiedersi se ci sia bisogno, in ultima analisi, di una politica rurale comunitaria. La mia risposta, seppur esitante, è affermativa. Prima argomentazione fra tutte è
il fatto che essa si riferisce a una coesione economica e sociale. Bisogna
ricordare che è stato il Trattato dell’Unione del 1992 ad inserire lo sviluppo rurale in questo contesto, dove è giusto che rimanga. In secondo
luogo, l’esperienza di Leader ha dimostrato che le zone rurali apprendono meglio le une dalle altre, e trovano utile sviluppare aree di collaborazione e cooperazione a livello regionale, nazionale e transnazionale.
L’Ue ha creato un centro di smistamento per le informazioni sulle innovazioni rurali a livello nazionale e comunitario e, anche se si può ancora migliorare, resta un ottimo mezzo per evitare di dover “reinventare la
ruota” ogni volta, nonché uno strumento per favorire la collaborazione
e lo scambio di conoscenze transnazionali. Più concretamente, ci sono
fondati motivi per ritenere che sia l’allargamento sia i negoziati del Wto
porteranno ad una scatola verde più ricca di sussidi accordati a zone di
sviluppo rurale e ambiente rurale. L’approccio che permette di scegliere
le misure da attuare e il decentramento dei poteri è un modello utile per
organizzare le politiche di sostegno europee, e sebbene in alcuni casi si
possa fare di più per integrare le politiche rurali nazionali e comunitarie, c’è ancora margine per un ulteriore sviluppo a livello dell’Ue.
La diversità di approcci nei vari Paesi e il fatto che molti cambiamenti siano recenti suggeriscono che la politica rurale sia in un momento di transizione e in una fase sperimentale. Poiché molte raccolte
dati e analisi vengono effettuate a cambiamenti già avvenuti, anziché
precederli, appare evidente la necessità di nuove ricerche e raccolte
dati che siano di ausilio alle nuove politiche da approntare. Ciò vale
per l’analisi di processi, quali lo sviluppo di partnership, il coinvolgimento delle comunità locali, la delega di poteri, la creazione di competenze, lo sviluppo di una rete di conoscenze, le innovazioni, la creazione di nuove imprese, l’esclusione e l’inserimento sociale; e vale per
poter analizzare l’attuazione concreta di concetti quali lo sviluppo rurale sostenibile, lo sviluppo integrato e la verifica delle politiche. Andrebbero poi approfondite le questioni di governance, inclusi i problemi connessi alla ri-definizione del ruolo dei diversi livelli amministrativi e il loro collegamento, la relazione tra le partnership e i rappresentanti eletti democraticamente.
Dato che nelle zone rurali, anche con caratteristiche geografiche si-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
135
mili, vi sono differenze sostanziali nei risultati ottenuti, misurati da indicatori quali la creazione di posti di lavoro, la nascita e la chiusura di
imprese, la disoccupazione, la sottoccupazione e la qualità della vita,
una migliore comprensione delle ragioni di tali differenze è essenziale
per perfezionare le politiche a livello regionale e locale. Sebbene tendenze come la “globalizzazione” e la “rivoluzione informatica e della
comunicazione” siano a volte rappresentate come spinte inesorabili
che agiscono sugli uomini e sul territorio, capaci di offrire opportunità
nel futuro, è evidente che il fattore umano, sia individuale che collettivo, svolge il ruolo principale nel determinare reazioni e risultati economici e sociali. Ne consegue il bisogno di imparare a conoscere meglio le “reazioni” individuali e collettive dei protagonisti locali, incluse iniziative di tipo imprenditoriale, sociale ed individuale.
Per una serie di motivi, la capacità dei bilanci pubblici di offrire servizi come l’assistenza sanitaria e l’istruzione nelle regioni prevalentemente rurali, seguendo metodi tradizionali, appare sempre più limitata. È vitale che servizi pubblici di alta qualità siano offerti in queste
zone, se si vuole che la popolazione sia mantenuta nello stesso numero
o aumenti. Vengono sperimentati nuovi metodi, come i “transactions
centres” nei piccoli centri rurali dell’Australia e la telemedicina, l’istruzione e la formazione a distanza in altri Paesi, ma hanno bisogno
di essere valutati, affinché sia garantita agli abitanti delle aree rurali e
agli operatori del settore rurale l’offerta di servizi della stessa qualità
di quelli che si trovano altrove.
Lo sforzo teso ad “integrare” le politiche settoriali ai livelli locali è
strettamente collegato all’idea olistica di “sviluppo sostenibile” che, a
sua volta, include l’idea che possa esservi sinergia tra obiettivi e attività di tipo economico, sociale e ambientale. L’esempio più usato è
quello che mostra i legami tra la qualità del patrimonio naturale ed
ambientale e il turismo. Ma bisogna andare oltre. È importante documentare i casi positivi, dove tale sinergia può essere raggiunta e mostrare le linee di condotta da seguire per ottenerla.
Il decentramento della politica rurale a livelli regionali e locali, e il
gran numero di partnership e di iniziative a livello locale è essenziale
se le politiche devono soddisfare bisogni e situazioni di varia natura,
ma così facendo si rischia di dover ricominciare da capo ogni volta. Il
confronto, la convalida e la diffusione di informazioni riguardo alle iniziative e ai progetti realizzati possono assumere, pertanto, un ruolo
fondamentale, che lo Stato deve stimolare e facilitare tramite l’utilizzo
creativo della tecnologia informatica e della comunicazione.
Da quanto sin qui esposto, concludo che esiste qualcosa che può essere definito “nuova politica rurale”. Investe uno spettro più ampio di
136
Esiste una “nuova politica rurale”?
questioni di sviluppo e si occupa in modo più integrato di alcuni settori, a livello locale e regionale. Implica nuove forme di governo caratterizzate dal decentramento, dall’associazionismo, dalla partecipazione e
da nuovi meccanismi di coordinamento a livello centrale. Sebbene
questa nuova politica rurale sia ancora a carattere sperimentale, con una notevole mancanza di dati di supporto, si presenta come un’area di
crescente attività politica. Tuttavia, riveste ancora un carattere secondario quando la si paragona alla politica agraria, e molti problemi devono ancora venire affrontati se si vuole che abbia successo in futuro.
Tra questi vi è il concetto e la messa in pratica dello stesso “sviluppo
rurale integrato” - cosa deve venire integrato, come, e a quale livello di
governance? Ad esempio, c’è ancora molto da fare nella maggior parte
dei Paesi per integrare le politiche di “sviluppo” con quelle che riguardano l’emarginazione e la povertà, l’istruzione, la sanità, i giovani.
APPENDICE
L’ATTUAZIONE DEL PIANO DI SVILUPPO RURALE
NEGLI STATI MEMBRI
Dal punto di vista operativo, gran parte dei fondi messi a disposizione
dall’Ue per il nuovo Psr verranno probabilmente assorbiti da misure
preesistenti, in particolare dalle misure di accompagnamento che ora includono le misure per le zone svantaggiate. Nella maggior parte dei Paesi, l’interesse per le misure dell’articolo 33, destinate ad operatori extra
agricoli, è frenato dall’opposizione delle lobby degli agricoltori, dalle limitazioni di bilancio, e dal ruolo dei Ministeri dell’Agricoltura. Porterò
ad esempio le proposte di Francia, Danimarca, Finlandia e Scozia.
In Francia, il Psr prevede un livello nazionale ed uno regionale. A livello nazionale verranno cofinanziati i “contratti territoriali d’impresa” (contrats territoriaux d’exploitation - Cte), sono incluse le misure
di accompagnamento (anche quelle per le zone svantaggiate), gli investimenti agricoli, l’insediamento dei giovani agricoltori, la formazione
e le misure di sostegno alla silvicoltura. A livello regionale, ci si occupa delle zone dell’Obiettivo II e delle aree in regime di transizione, oltre che delle altre misure dell’articolo 33. Il livello regionale verrà incluso nel programma per lo Sviluppo della politica strutturale e gestito
insieme a quest’ultimo.
In Danimarca esiste un unico Programma nazionale di sviluppo rurale che prevede le seguenti misure:
• sostegno agli investimenti nelle aziende agricole;
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
137
•
•
•
•
•
sostegno all’insediamento dei giovani agricoltori;
sostegno alla formazione professionale;
sostegno alle zone svantaggiate;
sostegno all’agricoltura eco-compatibile (agroambientale);
sostegno agli investimenti per la trasformazione e la commercializzazione di prodotti agricoli;
• sostegno alla silvicoltura;
• sostegno all’adeguamento e allo sviluppo delle aree rurali.
Tuttavia, solo l’8,3% del bilancio preventivo è destinato a quest’ultima voce - adeguamento e sviluppo delle aree rurali - contro il 51% per
le misure di accompagnamento e il 32% a favore degli investimenti in
attività agricole e dei giovani agricoltori.
In Finlandia esistono un livello nazionale e uno regionale per l’attuazione del Psr. Lo schema nazionale considera solamente le zone
svantaggiate e le misure agroambientali, lo schema regionale comprende l’articolo 33 e altre misure. Il 90% del bilancio è destinato allo
schema nazionale, e solamente il 10% allo schema regionale che include misure di sviluppo rurale.
In Scozia il Psr è stato sviluppato a livello nazionale e regionale. Il
livello nazionale comprende le misure di accompagnamento (incluse
le zone svantaggiate), ad eccezione del pre-pensionamento, che nel
Regno Unito non è mai stato applicato. Queste misure sono state integrate nel regime transitorio H & I delle politiche di sviluppo strutturale. Nel resto della Scozia rurale un piano subordinato contiene misure
scelte dal resto del Psr, incluse quelle dell’articolo 33. Tra queste ultime, viene data importanza alla commercializzazione di prodotti agricoli di alta qualità, ai servizi di base per l’economia e la popolazione
rurale, al rinnovamento e allo sviluppo dei villaggi, alla salvaguardia
del patrimonio rurale, allo sviluppo del turismo e dell’artigianato rurale, alla protezione dell’ambiente, al benessere degli animali e all’ingegneria finanziaria.
La bozza di bilancio della Scozia per il periodo 2000-2006, sottoposta alla Commissione, ammonta a 1.011,7 milioni di Euro, dei quali
855,5 destinati alle misure di accompagnamento, altri 121 milioni per
altre misure, fuorché quelle dell’articolo 33, destinate alle Lowlands, e
i rimanenti 35 milioni per le misure dell’articolo 33. Ma anche così non
è stato possibile destinare, a quest’ultimo, risorse del Fondo Garanzia
poiché le risorse sono insufficienti per fare fronte agli impegni presenti
e futuri inclusi tra le misure di accompagnamento. Il governo Scozzese
deve ancora decidere sulla questione della modulazione, ma se le proposte vengono accettate, altri 310 milioni potrebbero essere stornati per
andare ad aumentare i fondi in bilancio. Comunque, il punto cruciale è
138
Esiste una “nuova politica rurale”?
che le misure di accompagnamento avranno sempre la parte più cospicua degli stanziamenti disponibili. Questa situazione è aggravata dall’aumento della sterlina nei confronti dell’euro. Si deve inoltre notare
che il rapporto tra i temi in oggetto nel Psr, quali la commercializzazione di prodotti locali, misure sull’ambiente e sul patrimonio culturale,
ecc., e le proposte avanzate da Leader+ di valorizzazione dei prodotti
locali e delle risorse naturali e culturali, è ancora assai poco chiaro.
Sommario
Questo articolo tenta di stabilire se nell’Unione Europea e nei Paesi Ocse esista
attualmente qualcosa che si possa definire una “nuova politica rurale”, tenuto conto dell’attuazione delle politiche dell’Ue dalla fine degli anni Ottanta e dopo Agenda 2000 e dei cambiamenti intervenuti nella politica rurale, sia a livello nazionale
sia in altri Paesi dell’Ocse. La tesi è che, sebbene ci sia stato un evidente cambiamento nella natura e nel contenuto delle politiche rurali, tale cambiamento non deve
essere sopravvalutato: la retorica spesso va oltre la realtà. Ad esempio, nel caso del
nuovo Piano per lo sviluppo rurale dell’Ue, in realtà meno del 10% del bilancio
preventivo sembra essere destinato a finalità e a possibili fruitori non strettamente
legati alla produzione agricola.
Negli ultimi anni gli Stati membri, anziché la Commissione, si sono adoperati per
modificare attivamente le politiche rurali a livello territoriale. In conclusione, vengono avanzate alcune proposte per un’attività di ricerca sulla futura politica rurale.
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(12) Laddove non vengono riportati nel testo, si riferiscono ad opere generali di consultazione
che possono essere utili al lettore.
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140
Esiste una “nuova politica rurale”?
La rintracciabilità
dei prodotti agricoli
Lauro Panella
INTRODUZIONE
La rintracciabilità dei prodotti sta diventando un argomento di primaria importanza all’interno delle varie filiere agroalimentari 1. In un
sistema economico che vede, nella sua generalità, le aziende sfidarsi
in una competizione principalmente fondata sulla soddisfazione del
cliente/consumatore, la rintracciabilità è diventata da tempo uno strumento indispensabile per guadagnare il consenso del mercato. I casi
delle industrie farmaceutiche e di quelle automobilistiche, che riescono a ritirare dal mercato i prodotti difettosi con estrema celerità e precisione, sono solo la punta più avanzata nell’utilizzo di queste nuove
strategie competitive che sono divenute fattibili grazie all’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione. Anche i mercati agroalimentari
stanno conoscendo questo nuovo modello competitivo. Le imprese di
questo settore hanno cominciato da qualche anno a sfruttare in modo
strutturale le tecnologie informatiche ed a porre in essere sistemi di
rintracciabilità. L’allarme suscitato dalla vicenda della Bse ha solo accelerato un processo che era già in atto.
Come la storia economica insegna, tuttavia, nel momento in cui un
nuovo processo viene introdotto esso genera un vantaggio competitivo
ed un aumento del valore aggiunto che nel tempo tende a ridursi fino a
trasformarsi, da una novità, ad un prerequisito indispensabile alla sola
presenza sul mercato. La rintracciabilità, che nel sistema agroalimentare oggi si colloca nella fase temporale del vantaggio competitivo,
non sfuggirà a questa regola.
Affrontando il tema della rintracciabilità bisogna tenere sempre ben
presente che stiamo parlando di un aspetto tecnico di processo. Spesso
Lauro Panella è ricercatore dell’Ismea (Istituto per i Servizi al Mercato Agricolo Alimentare), Roma.
(1) Cfr. Panella 2001 e 2002.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
141
si è portati ad attribuire ad essa ruoli e valenze che in realtà riveste solo in parte. Non bisogna infatti confondere la rintracciabilità con la sicurezza alimentare, che è cosa ben più ampia, così come con elementi
di marketing. È indubbio, tuttavia, che la rintracciabilità contiene in sé
molti elementi di sicurezza alimentare e di marketing che le singole
imprese possono sfruttare a proprio vantaggio.
Lo scopo della rintracciabilità - come è stato ben specificato dal Libro Bianco sulla Sicurezza Alimentare, così come dal Regolamento n.
178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alle Norme
Ue sulla Sicurezza Alimentare, e dalla norma Uni 10939:2001 - è
quello di conoscere il percorso seguito dal prodotto e chi sono stati gli
attori che hanno contribuito alla sua formazione (da estendersi anche
all’import/export, così come ai fornitori degli ingredienti).
Non a caso, l’attuale legislazione, laddove esiste 2, come ad esempio
nel caso della rintracciabilità delle carni, non obbliga le imprese a dichiarare se il loro prodotto è sano (sicurezza) né da quale razza bovina
provenga (marketing) ma solo ad identificare gli agenti che ad ogni
stadio della filiera hanno concorso alla realizzazione del prodotto
(informazioni obbligatorie). Questa normativa riconosce, tuttavia, la
possibilità alle imprese di fornire informazioni aggiuntive (che possono offrire specifiche legate sia alla sicurezza che al marketing) ma le
veste di un carattere facoltativo e non obbligatorio.
La rintracciabilità, in conclusione, è uno strumento conoscitivo per
il consumatore/cliente che serve principalmente a responsabilizzare gli
attori che concorrono alla formazione del prodotto in quanto permette
la loro riconoscibilità. Il non attribuire incarichi che non competono
alla rintracciabilità serve a specificare in maniera più puntuale il campo della sua applicazione e, come vedremo più avanti, a ridurre i costi
della sua realizzazione.
QUADRO LOGICO NELLA COSTRUZIONE
DI MODELLI DI RINTRACCIABILITÀ
Cominciamo con il dire che l’implementazione di un processo di
rintracciabilità deve rispettare le esigenze dei diversi settori a cui esso
si riferisce soprattutto in merito a:
• struttura della filiera e dimensionamento delle aziende;
(2) In ugual modo, la legge regionale che finanzia progetti di rintracciabilità della regione Emilia Romagna non detta parametri vincolanti in merito alla specifica tecnica dei progetti, ma
ne delinea solo lo scopo finale richiesto, che è quello riportato nel Regolamento n. 178/2002
del Parlamento Europeo e del Consiglio.
142
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
•
•
•
•
•
tipologie di prodotto;
caratteristiche gestionali specifiche;
logistica;
mercati di sbocco;
richieste ed attese dei clienti e dei consumatori.
È normale che ogni filiera agroalimentare abbia la propria specificità da cui non si può prescindere ed è importante non perdere di mai
di vista l’ambiente economico nel quale determinati strumenti vengono collocati. La rintracciabilità è uno strumento utile ma costoso. Non
solo essa richiede specifiche dotazioni tecnologiche, ma anche adeguamenti manageriali e gestionali non secondari. Certamente i benefici che essa può generare sono enormi. Essi sono legati, oltre alla sua
stessa funzione, anche all’opportunità di generare sinergie, tramite gli
strumenti adottati, nella gestione informatizzata del ciclo dell’ordine
del prodotto, del magazzino, dei flussi sia informativi che fisici sia in
entrata che in uscita. Tuttavia, i benefici dovranno essere superiori ai
costi per ogni agente coinvolto, altrimenti, se non tramite imposizioni
normative o di mercato, nessuno l’adotterà. Questo è valido soprattutto per la realtà italiana, formata da piccole e medie imprese che non
hanno, purtroppo, la capacità di effettuare grandi investimenti o di
cambiare facilmente metodologie di lavoro e di organizzazione.
Il costo della rintracciabilità dipende principalmente dal numero delle informazioni che si vogliono tracciare, ossia quelle che devono viaggiare lungo tutta la filiera fino al consumatore/cliente finale. Più esse
sono numerose e complesse da reperire e più i costi di implementazione aumentano. Chi determina la scelta delle informazioni da reperire è,
ad ogni modo, il consumatore/cliente. Tuttavia bisogna far riferimento,
in un quadro generale, alle richieste del consumatore/cliente medio, sia
italiano che estero, per quanto riguarda le informazioni che possiamo
definire “fondamentali” per l’esistenza stessa del processo, riservando
la possibilità di fornire informazioni aggiuntive solo alle imprese in
grado di poterlo fare. Il tentativo di costruire un processo di rintracciabilità parametrizzandolo sulle richieste del consumatore/cliente più esigente o guardando solo le capacità delle imprese più efficienti, potrebbe generare il rischio di fallimento per le altre (non poche) imprese.
Tuttavia poiché gli alti costi sono generati dall’utilizzo della tecnologia
oggi a disposizione, nessuno ci vieta di immaginare, dato il tasso di
progresso tecnologico attualmente esistente, che sistemi oggi costosissimi non possano essere adottati domani, con costi sostenibili anche da
parte delle piccole-medie imprese.
Evidenziata la necessità di individuare le richieste del consumatore/
cliente medio (per ogni singolo prodotto) e le capacità di implementa-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
143
zione dell’azienda media, corre l’obbligo di definire un’altra caratteristica che il sistema di rintracciabilità da adottare dovrebbe avere. Esso
deve essere largamente condiviso da parte delle imprese sia per quanto
riguarda le informazioni da tracciare che per le tecnologie da utilizzare
(quest’ultime, come vedremo, principalmente nella fase commerciale
del prodotto). Infatti, è importante che tale processo non diventi penalizzante per nessun agente delle varie filiere, ma che ripartisca equamente compiti, costi e guadagni. Del resto, non esistendo norme, come
nel caso delle carni bovine, che impongano un modello che nessuno
può eludere, si tratta di implementare sistemi autovincolanti che per
essere tali necessitano di essere condivisi. Anche il semplice operare
del meccanismo di mercato potrebbe tuttavia imporre alle imprese uno
specifico modello adottato e/o richiesto dagli agenti forti della filiera.
Ma non è questo il caso che vogliamo qui affrontare e comunque è
quello che si vorrebbe evitare.
La necessità di una ampia condivisione conduce ad una ricerca di
standardizzazione del processo la più generale possibile. Il rischio
maggiore è quello di una proliferazione di sistemi non necessariamente
compatibili tra di loro (sia nel numero e genere di informazioni veicolate che nel sistema tecnico utilizzato) che genererebbe una notevole
confusione nella gestione del processo. La non compatibilità comporterebbe anche una “ragnatelizzazione” delle imprese, nel senso che quelle che adottano uno stesso sistema sarebbero obbligate a convivere anche qualora sorgessero tra di loro problemi di altra natura. In sostanza
rischieremmo di avere imprese necessariamente legate tra di loro che,
considerando i notevoli costi di implementazione della rintracciabilità,
anche in presenza di altri problemi con i propri clienti e/o fornitori, non
potrebbero abbandonare la ragnatela alla quale appartengono. Ovviamente questo penalizzerebbe gli agenti più deboli di ogni ragnatela.
In ultimo, il sistema da implementare deve tener conto anche delle
informazioni che già sono disponibili tra gli operatori, in modo da non
creare un eccesso di burocratizzazione.
SCHEMA METODOLOGICO NELLA COSTRUZIONE
DI MODELLI DI RINTRACCIABILITÀ
A bbiamo visto come un processo volontario di rintracciabilità si
debba costruire partendo, principalmente, dalla individuazione delle:
1. informazioni da far viaggiare lungo tutta la filiera;
2. strumenti tecnici da implementare per la loro raccolta e per la loro
veicolazione sia verso il fornitore che verso il cliente.
144
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
Il primo punto è quello più importante. Stabilire quali e quante debbano essere le informazioni minime necessarie è l’aspetto più delicato
dell’intero processo. Come già anticipato, la fonte principale per determinare questa scelta è il comportamento (e le richieste) del consumatore/ cliente sia italiano che estero. Necessariamente le informazioni debbono differire a seconda della tipologia di prodotto trattato.
Ovviamente più il numero delle informazioni cresce e più il sistema
diventa complesso. Per evitare duplicazioni ed eccessi di burocratizzazione bisogna tener presente che esistono alcune norme, come ad esempio le norme di qualità Un/Ece ed i Regolamenti comunitari sulle
Dop ed Igp, che già obbligano gli operatori a fornire determinate
informazioni al consumatore finale. Ovviamente, la scelta delle informazioni da veicolare in un sistema di rintracciabilità non può non considerare queste normative.
Inoltre, bisognerebbe porre attenzione che il tipo di informazioni
scelte non obblighino le aziende a rilevare processi sottoposti, diciamo
così, al segreto industriale.
Possiamo quindi ipotizzare, a titolo di esempio, un insieme di informazioni come rappresentato in figura 1, che fa riferimento al caso ortofrutticolo. L’insieme presentato si basa sia su un numero di informazioni cogenti, che il sistema dovrebbe garantire, sia su alcune informazioni “consigliate”, che il sistema dovrebbe rendere disponibili nel
medio periodo, evitando tuttavia di renderle subito obbligatorie, in
modo da dare alle imprese meno dotate il tempo di adeguarvisi. Inoltre, non bisogna dimenticare le informazioni riguardo alla logistica
che, sebbene non siano di interesse del consumatore finale, risultano
essere funzionali al sistema di rintracciabilità.
A queste informazioni vanno naturalmente aggiunte quelle riguardanti il nome delle imprese che hanno concorso alla produzione del bene.
Riguardo alle informazioni da veicolare è necessaria un’altra specifica che, in realtà, va al cuore della problematica fin qui affrontata. Invero, i sistemi di rintracciabilità, al netto degli strumenti tecnici utilizzati che vaglieremo successivamente, si possono dividere in due grandi gruppi:
1. sistemi in cui ogni operatore raccolga e trasferisca all’operatore
successivo tutte le informazioni di tracciabilità del prodotto, fino a
farle giungere al consumatore finale;
2. sistemi in cui ogni operatore raccolga e trasferisca al successivo le
informazioni necessarie per il consumatore finale conservandone
altre che non verranno veicolate tra tutti gli operatori.
A prima vista il sistema più semplice sembra essere il primo, ma così non è. Infatti, esso prevede che le informazioni destinate al consu-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
145
FIGURA 1
Classi e tipologia di informazioni
INFORMAZIONI CHE DEVONO ESSERE VEICOLATE AL CONSUMATORE
NEL CASO DI PRODOTTO (INFORMAZIONI COGENTI)
SPECIE
VARIETÀ
EXTRA
PRIMA
SECONDA
Tale voce già prevede, inoltre, informazioni sui calibri e le tolleranze
CATEGORIA
PROVENIENZA
CONFEZIONATORE
DATA DI CONFEZIONAMENTO
PREZZO AL CONSUMO
PESO/N. PEZZI
PAESE DI ORIGINE
Prezzo che viene esposto dall’ultimo venditore al consumatore finale
INFORMAZIONI DI PRIMO LIVELLO
Varietà e Categorie per i prodotti per i quali
non esiste una normativa di riferimento
REGIONE
ZONA TIPICA DI PRODUZIONE
(che non contrasti con la normativa sull’IGP)
ORIGINE
PROCESSO DI PRODUZIONI
MARCHIO
DOP ed IGP (Reg. 2081/92) - BIOLOGICO (Reg. 2092/91)
INTEGRATA
(con certificazione / attestazione)
PRODUTTORE
CONFEZIONATORE
GD
INFORMAZIONI DI SECONDO LIVELLO
AMBIENTE
REFRIGERATO
ATMOSFERA CONTROLLATA
MODALITÀ DI CONSERVAZIONE
STAGIONALITÀ / FRESCHEZZA
VALORI NUTRIZIONALI
SCHEDE Inran sulla specie e varietà
INFORMAZIONI LOGISTICHE (UNITÀ LOGISTICA)
146
UNITÀ CONFEZIONI
NUMERICO
TIPO IMBALLO
DESCRIZIONE
MATERIALE IMBALLO
DESCRIZIONE
CAUZIONE
DESCRIZIONE
PERDERE
RENDERE (no cauz.)
RENDERE (cauz.)
PALLETTIZZAZIONE
DESCRIZIONE
NO PALLET
EPAL
ROLL BOX
CENTROMARCA
ALTRO
N. COLLI X PALLET
ALTRO
NUMERICO
(ES. 10)
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
(ES. 10 CONFEZIONI A COLLO)
CART. ESPOSITORE
CASSA
RING
BANANTINER
BIN
PLASTICA
CARTONE
LEGNO
FERRO
matore esauriscano tutto il sistema di rintracciabilità. Questo potrebbe
complicare il sistema in quanto bisognerebbe far arrivare al consumatore finale anche delle informazioni che, indispensabili per la funzionalità del sistema, potrebbero risultare di scarso interesse per quest’ultimo. Il sistema così implementato trasferirebbe lungo la catena una
maggiore massa di informazioni aumentandone la complessità di gestione ed il costo di implementazione. Il secondo sistema, invece, mira
a superare questo problema imponendo agli operatori di raccogliere ed
inviare al consumatore finale solo alcune informazioni ritenute di
maggior interesse per quest’ultimo, mentre altre informazioni verrebbero veicolate solo tra alcuni di essi. In entrambi i casi, tuttavia, gli operatori sarebbero tenuti alla conservazione sia delle informazioni in
entrata che di quelle in uscita. Per fare un esempio, consideriamo la
seguente sequenza di informazioni: prodotto x, coltivato dall’azienda
y, trasformato e confezionato dalla impresa k, trasportato dalla impresa j, venduto dall’impresa z. Nel primo caso tutte queste informazioni,
più quelle attinenti al prodotto, andrebbero nell’etichetta finale in
chiaro per il consumatore. Nel secondo caso, alcune potrebbero essere
escluse dall’etichetta consumatore rimanendo comunque tracciabili.
Ritornando alla sequenza, pur escludendo, ad esempio, di mettere nell’etichetta finale il nome del trasportatore, l’impresa immediatamente
precedente questa fase dovrebbe essere tenuta a registrare e conservare
l’informazione su chi è stato il suo trasportatore in uscita, così come
quella successiva dovrebbe registrare e conservare l’informazione su
chi è stato il suo trasportatore in entrata. In questo modo comunque il
percorso del prodotto sarebbe tracciato così che, in caso di problemi di
ordine igienico-sanitario, le autorità potrebbero facilmente rintracciare
tutte le informazioni.
Definite le informazioni da trasportare lungo la filiera, bisogna porsi
il problema di quale strumento debba essere adottato sia per reperirle
che per veicolarle. Bisogna tener conto che il sistema di rintracciabilità, data la notevole quantità di informazioni richieste, non può non
fondarsi su un utilizzo quasi generalizzato delle tecnologie informatiche. Allo stato attuale, gli operatori della filiera già dialogano tra di loro tramite codici telematici identificativi delle informazioni. Agli operatori finali della catena (distributori o confezionatori) tocca poi il
compito di tradurre in chiaro queste informazioni sulle etichette per il
consumatore.
Da quanto finora esposto si intuisce facilmente come l’argomento
rintracciabilità, soprattutto nei suoi riscontri tecnici, si leghi organicamente alla classificazione dei prodotti e la loro identificazione elettronica. La classificazione dei prodotti, la cui conseguenza logica è la re-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
147
dazione di cataloghi prodotto, consente di identificare i prodotti in base a delle loro caratteristiche. Il processo successivo è quello della
normalizzazione, ossia che cosa ogni caratteristica definisce. Per alcune di esse si possono adottare le suddivisioni e specificazioni dettate
dall’Un/Ece 3 come, ad esempio nel caso della qualità, la suddivisione
in tre categorie Extra, I e II ed i criteri necessari per appartenere ad esse. Altre sono quelle proposte dall’Ice, come nel caso dei calibri.
Definite le caratteristiche che permettono la riconoscibilità del prodotto, l’ulteriore sviluppo è quello di traslare queste informazioni in
codici univoci di referenza che permettono agli operatori lo scambio
dei dati in via telematica. Esistono varie modalità di assegnazione di
codici di referenza già in uso, tra i quali:
• la nomenclatura Sa/Nc, ossia codici di Sistema Armonizzato a Nomenclatura Combinata 4;
• i codici Plu (Price Look Up) adottato dagli esportatori internazionali 5;
• il sistema di codifica di Ecr Europe;
• il sistema francese che utilizza dei codici definiti dai fornitori basati
su specifici criteri 6.
Come avviene la trasmissione di questi codici e delle altre informazioni? La tecnica attualmente più utilizzata prevede che le informazioni vengano codificate in codici a barre e successivamente inviate tramite computer (facendo, quindi semplicemente viaggiare il codice che
è posto sulle etichette) i quali, tuttavia, devono essere in grado di leggere tali codici e di inviarli. A questo scopo vengono utilizzate delle
reti telematiche e specifici software grazie ai quali sia il computer di
invio che quello di ricezione riescono a leggere le esatte informazioni
contenute nel codice (è da non trascurare anche l’importanza della sequenza che queste hanno nel codice).
Tra le reti telematiche oggi più in uso vi sono: Edi (Eletronic Data
Interchange, si basa su una rete Intranet), Isdn (Integrated Service Di(3) Il più recente regolamento Ce in materia di classificazione e normalizzazione dei prodotti agricole è il Reg. 2200/96. Sulla parte logistica bisognerà riferirsi alla Direttiva Ce 94/62 del
20/12/94 relativa agli imballaggi.
(4) Da informazioni su specie e varietà commerciale; ad esempio:
Codice SA-NC
n. matricola
descrizione
07001 90
10030
Patate Novelle
(5) È un numero a 4 cifre che descrive la specie, la varietà ed il calibro. Ad esempio, il numero
4012 si riferisce ad arancia navelina di calibro 10.
(6) Questi criteri, che non sono necessariamente validi per tutti i prodotti, sono i seguenti: specie/varietà/tipo commerciale; calibro; categoria; origine; marchio di qualità; colorazione;
trattamento dopo la raccolta; maturazione; prodotto biologico; confezionamento.
148
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
gital Network), Sgml (Standard Generalized Markup Language, si basa su rete Internet) Xml (eXtensible Markup Language, rete Internet)
Eancom (tipi avanzati di Edi registrati da Ean International).
È evidente, purtroppo, come anche in questo caso possa sorgere il
problema della “ragnatelizzazione” precedentemente osservato. Infatti,
se alcuni operatori applicano codici diversi per le stesse informazioni
o utilizzano reti telematiche differenti sorgono problemi di interfacciamento tra sistemi informatici che obbligano gli operatori a restare nella propria ragnatela. Per ovviare a questo problema è necessario che vi
sia la più ampia standardizzazione riguardo sia al numero ed al tipo di
informazioni da veicolare, sia al loro sistema di codifica e di trattamento informatizzato. Sarebbe auspicabile una standardizzazione condivisa in modo da non penalizzare nessun agente della filiera. In caso
contrario, sarebbero gli operatori più forti del mercato ad imporre i
propri linguaggi informatici, cosa che potrebbe risultare estremamente
dannosa per i piccoli operatori (si immagini solo, ad esempio, il costo
di riconversione dei software di gestione).
Inoltre, nella progettazione di un sistema di rintracciabilità non si
può non tenere in considerazione anche i sistemi di raccolta di informazioni che le imprese già usano, con altri fini, per creare sinergie
(nel caso che le informazioni necessarie siano le stesse), non aumentare i costi e non generare un eccesso di burocratizzazione. Ci riferiamo
alle norme Haccp, Iso 9000, Iso 9002, Iso 14.000, Emas, Decreto Legislativo 155 in materia di igiene, adempimenti Cee ed altro. Altra facilitazione potrebbe venire dalla individuazione di quei documenti, già
in uso, che raccolgono informazioni quali i quaderni di campagna, i
registri di scarico e carico, la registrazione dei lotti, ecc. 7.
Dopo aver discusso delle informazioni e della necessità di una loro
identificazione elettronica, osserviamo come sono strutturati i classici
flussi informativi e fisici tra gli agenti delle filiere per poi passare alle
specifiche tecniche degli strumenti della rintracciabilità.
RAPPORTI TRA OPERATORI
E SPECIFICHE TECNICHE DI RINTRACCIABILITÀ
La realtà agricola italiana, diversamente da quella di altri paesi, presenta uno schema di flusso di informazioni tra gli operatori (illustrato
in figura 2) che evidenzia una strettoia al livello del centro di raccolta
(centro di confezionamento e/o distribuzione, d’ora in poi CeDi). Mol(7) TeTa, 2001.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
149
a
lit
à
Produttore
Produttore
Consumatore
Grossisti DM / GDO
CENTRO DI RACCOLTA / CONFEZIONAMENTO / CeDi
Produttore
Processo di rintracciabilità non
necessariamente standardizzato
à
tr
ac
d
Circuito di tracciabilità: ogni agente della filiera, nel percorso molte-valle, deve essere in grado di lasciare la traccia della propria attività effettuata sul prodotto.
Circuito di rintracciabilità: la capacità di ogni agente della filiera, nel percorso valle-monte, di riconoscere il proprio fornitore del prodotto e le attività da loro
apportate su quest’ultimo.
Frecce nere: circuito classico di passaggio monte-valle del prodotto nelle filiere agroalimentari
Freccia grigia: circuito di commercio elettronico del prodotto.
Frecce bianche: circuito di rintracciabilità del prodotto in cui ogni agente della filiera è in grado di riconoscere almeno il proprio fornitore e le attività da questi
apportate sul prodotto.
Frecce tratteggiate: circuito di rintracciabilità del prodotto in cui l’ultimo agente della filiera è in grado di riconoscere tutti gli agenti che sono entrati nella filiera e le
attività da questi apportate sul prodotto.
Fase di commercializzazione
del prodotto
Fase di consegna/uscita del prodotto
Fase di lavorazione del prodotto
Fase di raccolta/entrata del prodotto
Fase di trasporto e
consegna del prodotto
Produttore
C
tr
ito
di
irc
u
Fase di produzione
FIGURA 2
Diagramma del flusso di informazioni in un circuito di rintracciabilità
rc
to
ui
ir
in
lit
bi
Ci
cia
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
Processo di rintracciabilità
univoco e standardizzato
150
bi
ia
cc
ti produttori conferiscono il prodotto al CeDi, il quale lo lavora in modo indifferenziato immettendolo successivamente nel canale di vendita. Il problema maggiore di questa fase risiede nella difficoltà da parte
dei CeDi di lavorare il prodotto separatamente a seconda del fornitore,
a causa della limitatezza delle forniture che quasi sempre non consentono la composizione completa di un singolo lotto (pensiamo all’ortofrutta, alla miscelazione delle forniture di latte che avviene nei caseifici o nelle cisterne per l’olio o nei silos di stoccaggio dei cereali). In altri paesi il problema è più facile da affrontare in quanto le aziende produttrici sono molto più grandi e quindi conferiscono molto più prodotto per cui si può facilmente ottenere un lotto omogeneo per singolo
fornitore.
Considerata questa complessità è opportuno, per l’implementazione
della rintracciabilità, dividere la fase di produzione/raccolta del prodotto da quella propriamente commerciale, che avviene a valle del
CeDi.
Necessariamente quest’ultima, per evitare i problemi di ragnatela,
deve essere standardizzata, ossia, essere in grado di sviluppare un
linguaggio univoco di rintracciabilità capace di interfacciarsi con tutti gli operatori. Il prodotto, in questa fase, viaggia nelle cosiddette unità logistiche composte principalmente da lotti. Lo strumento che
viene utilizzato per trasmettere le informazioni sul lotto, oggi già
molto diffuso sia in Italia che in Europa e nel mondo, è il codice a
barre Ean 128. Tale strumento, che presentiamo più avanti nella
struttura di codice logistico, potrebbe essere utilizzato, (unito al Serial Shipping Container Code - Sscc) anche per la standardizzazione
della fase commerciale del processo di rintracciabilità in quanto capace di veicolare un discreto numero di informazioni (anche se, comunque, limitate).
La fase riguardante il rapporto tra produttori e CeDi, che spesso
rappresenta un circuito chiuso, non necessariamente richiede una standardizzazione. In realtà ogni azienda di questo stadio potrebbe, nel
rapporto con i propri fornitori, instaurare un sistema tecnico di raccolta delle informazioni costruito sulle proprie specificità. Il tipo e la qualità delle informazioni devono, tuttavia, essere funzionali al processo
di rintracciabilità standardizzato che è posto dopo il CeDi.
Alcune aziende hanno già avviato, o stanno sperimentando, un proprio sistema di raccolta di informazioni sul campo che vengono decodificate all’entrata al centro di raccolta/lavorazione/distribuzione ed
immagazzinate in una propria banca dati. Gli strumenti solitamente
sviluppati sono codici a barre, codici alfanumerici e microchip.
Come anticipato, il cuore del problema risiede nel grado di omoge-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
151
neizzazione del lotto. Un perfetto sistema implicherebbe che ogni lotto
fosse costituto:
1. dal prodotto conferito da un singolo fornitore;
2. da prodotto omogeneo per le caratteristiche richieste (varietà, calibri, qualità, ecc.).
Purtroppo, oggi, gran parte delle aziende agricole italiane non sono
in grado di risalire ai differenti conferenti il prodotto che compongono
un singolo lotto a causa della indifferenziazione/miscelazione che esso
subisce nel CeDi. Se non fosse possibile rintracciare il singolo produttore, anche a causa dei costi enormi che questo richiederebbe, si potrebbe pensare di comporre il lotto secondo altri parametri che consentano almeno di restringere il quadro dei fornitori. Questo permetterebbe anche di affrontare un altro problema che la rintracciabilità si prefigge di limitare che è quello della distruzione indifferenziata del prodotto. Infatti, nella malaugurata ipotesi che un solo prodotto non dovesse risultare sano, le imprese non essendo in grado di risalire al loro
preciso fornitore, sarebbero costrette a distruggere indifferenziatamente tutto il prodotto.
I parametri di restrizione nella composizione del singolo lotto potrebbero essere individuati in:
• provenienza per singole aree geografiche;
• ora/giorno di consegna (cosiddetto “lotto orario”);
• calibri;
• qualità;
• coltivazione;
• altro.
Abbiamo visto, come la fase di commercializzazione del processo
necessiti di una procedura standard. Il codice a barre Ean 128 è allo
stato attuale lo strumento più diffuso per questo scopo. Nel circuito a
monte del CeDi, invece, la standardizzazione è più complessa e sicuramente meno necessaria. I sistemi tecnici qui adottati sono diversi:
codici a barre standard e proprietari, codici alfanumerici e microchip.
I CODICI A BARRE
I codici a barre utilizzati sono di solito di tipo standard o proprietario. Quelli di tipo standard, principalmente utilizzati nella fase di commercializzazione, sono gli Ean/Ucc assegnati in Italia dalla società Indicod.
L’unità consumatore, ossia la confezione destinata al consumatore,
generalmente utilizza il codice Ean 13 (cioè con tredici cifre) mentre
152
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
FIGURA 3
Etichetta logistica: le informazioni
Identificazione del prodotto
• Codice EAN unità logistica
• Codice EAN prodotti
contenuti nell’unità logistica
Date
• Data di fabbricazione
• Data d’imballaggio
• Best before date
Identificazione di locazioni
• Luogo di consegna
• Luogo di partenza
• Luogo d’origine del prodotto
EAN/UCC LOGISTICS LABEL
From
EAN International
Rue Rovale 145
B-1000 Brussels
To
UNIFORM CODE COUNCIL
8136 Old Yankee Road
Dayton, Ohio 45459
U.S.A.
SSCC
3 5412345 123456789 2
CONSIGNMENT
541234550127501
SHIP TO POST
840 45459
Identificazione della singola
unità logistica
• SS CC (Serial Shipping
Container Code)
Quantità e misure
• Dimensioni commerciali
• Dimensioni logistiche
• Quantità di prodotto
Numeri e riferimenti
• Lotto di fabbricazione
quella logistica, ossia quella riguardante i pallets, l’Ean 128 unita al Sscc. In genere l’etichetta consumatore contiene sia il codice Ean che la
trascrizione in chiaro delle informazioni in esso contenute. Essa, posta
dal confezionatore o dal distributore contiene le seguenti informazioni: nome dell’azienda (quella che pone l’etichetta), prodotto e sue referenze, prezzo. Questa struttura del codice è ristretta e non offre la
possibilità di fornire molte altre informazioni. Inoltre, essa è congeniale al peso fisso; tuttavia la società Indicod ha studiato la possibilità di
immettere sul mercato, dal 2002, una nuova struttura di questo codice
che consenta anche la trattazione del peso variabile.
Le struttura e le informazioni veicolate dall’etichetta logistica sono
presentate nella figura seguente.
È evidente come tale etichetta veicoli un buon numero di informazioni. Essa, tuttavia, essendo “logistica” trasporta informazioni solo
tra gli operatori e non al consumatore finale. Diviene compito, quindi,
dell’ultimo operatore della catena trasferire queste informazioni al
consumatore finale.
I codici di tipo proprietario sono creati, invece, internamente al circuito produttivo delle singole aziende e si adattano al particolare rapporto esistente tra esse ed i propri fornitori. La struttura tecnica di questi codici, in genere, non si discosta molto dagli standard Ean.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
153
I CODICI ALFANUMERICI
I codici alfanumerici sono, tecnicamente, una sequenza di numeri e
lettere di varia grandezza posti sulle etichette. Sono di tipo proprietario e non standard. Vengono utilizzati sia nella fase a monte del centro di raccolta/lavorazione che in quella di commercializzazione.
Il processo di riconoscimento avviene, in genere, grazie ad un collegamento alla rete Internet, ma anche Intranet. Quando il cliente (azienda o consumatore finale) vuole informazioni circa il prodotto acquistato, naviga sul sito web dell’azienda fornitrice e digitando il codice negli appositi link riesce ad ottenere tutte le informazioni richieste.
Molto spesso il ruolo di centro telematico che riceve i codici e fornisce informazioni in rete è una aziende terza che offre il servizio per una pluralità di aziende sia fornitrici che clienti (nonché consumatore
finale).
SISTEMI DI RADIOFREQUENZA
Questa tecnologia si basa sull’uso dei segnali di Radio Frequenza
nella raccolta dei dati. Tecnicamente i dati nel campo sono raccolti tramite un computer palmare che li trasferisce su un micro-chip di lettura/scrittura installato sui bins o pallets. Quando questi varcano la porta
d’ingresso del centro di raccolta/lavorazione, il chip viene letto da
speciali lettori che inviano le informazioni al centro di raccolta dati interno. Questo, oltre ad immagazzinare dati è, di solito, fornito di un
software che, secondo il programma di lavoro stabilito, fornisce indicazioni in tempo reale sullo smistamento interno del prodotto.
Il punto di forza di tali sistemi è che il microchip è in grado di veicolare una miriade di informazioni dal campo al centro di raccolta e
consente quindi l’ottimale gestione di sistemi produttivi con molti fornitori e molti prodotti. I punti deboli sono due: la complessità di gestione, soprattutto all’interno del centro di raccolta (legata principalmente alla riqualificazione del personale), ed il suo costo di implementazione.
Il sistema, data l’ampia raccolta di informazioni che consente, si
connette in modo ideale al trasferimento di queste alla successiva fase
di commercializzazione. Molti operatori sono infatti convinti che lo
sviluppo futuro dei sistemi di trasferimento delle informazioni veda
l’uso connesso di radiofrequenza e codici standard Ean 128: i codici a
barre sono a basso costo e sono adatti per i dati di base sui prodotti,
154
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
mentre Rfid (Radio Frequency Identification) è più costoso e impostato per trattare dati variabili. Come abbiamo avuto modo di constatare,
l’implementazione di un sistema di rintracciabilità è cosa alquanto
complessa. Inoltre, le problematiche finora osservate si ampliano non
poco quando si passa all’analisi del prodotto sfuso.
Attualmente, a parte la tracciabilità nella filiera dalla carne bovina,
che è già attiva, sono in corso studi sulle filiere del vino, dell’ortofrutta, del latte, dei cereali, della carne suina, dell’olio di oliva e del
pesce.
ALCUNI ESEMPI DI RINTRACCIABILITÀ
Carne Bovina
Il regolamento Ce 1760/2000 (recepito con il decreto ministeriale
sull’etichettatura delle carni bovine pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
del 16 novembre 2000) prevede un sistema di identificazione e registrazione dei bovini basato sui seguenti elementi:
• marchi auricolari, per l’identificazione dei singoli animali;
• passaporti, per gli animali;
• una base dati informatizzata;
• registri individuali, tenuti presso ciascuna azienda.
I marchi auricolari recano un codice che consente di identificare ciascun animale individualmente, nonché l’azienda in cui è nato. Per poter rintracciare gli animali in maniera rapida ed efficace, le informazioni concernenti tutte le aziende situate sul territorio del paese Ue saranno registrate nelle basi dati informatizzate presso l’autorità nazionale competente insieme all’identità dei bovini.
I “passaporti” contengono tutti i dati dell’animale dalla nascita alla
vendita al dettaglio e garantiscono a produttori e consumatori una conoscenza completa della vita e dello stato di salute degli animali allevati e posti in vendita.
Il sistema di tracciabilità si basa su informazioni obbligatorie e facoltative. Le modalità di applicazione dell’etichettatura prevedono che
le informazioni riportate siano espresse in forma chiara, esplicita e
leggibile e che il rilascio delle etichette debba avvenire con un sistema
idoneo che garantisca il nesso fra l’identificazione delle carni e l’animale o gli animali interessati. L’etichetta obbligatoria deve contenere
le seguenti informazioni:
• lo Stato (Paese membro dell’Unione Europea o Paese Terzo) dove è
nato l’animale;
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
155
• lo Stato o i diversi Stati in cui è avvenuto l’ingrasso dell’animale;
• lo Stato in cui è avvenuta la macellazione;
• lo Stato in cui è stato porzionato/sezionato.
Accanto al sistema obbligatorio di etichettatura delle carni bovine, il
decreto prevede anche un sistema facoltativo. Si tratta di informazioni
ulteriori che possono essere apposte sull’etichetta da operatori od organizzazioni che dispongono di un disciplinare di produzione e di lavorazione delle carni bovine approvato dal Ministero delle Politiche
Agricole e Forestali. Attraverso tale etichetta si possono comunicare al
consumatore importanti requisiti qualitativi delle carni e dell’animale
relativamente:
• alla macellazione (indicazioni del macello e del laboratorio di sezionamento, età dell’animale macellato, data di macellazione e/o preparazione delle carni, periodo di frollatura delle carni, ecc); all’allevamento (azienda di nascita e/o di allevamento, tecnica di allevamento, metodo di ingrasso, indicazioni relative all’alimentazione); all’animale (razza o tipo genetico, categoria, ecc); alle eventuali altre
informazioni contenute nel disciplinare approvato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
Ortofrutta
Questo settore presenta una notevole problematicità. Essa è legata
sia alla difficoltà di omogeneizzazione dei lotti e sia alla gestione dello
sfuso. Le imprese che stanno avviando il processo di rintracciabilità in
genere scompongono quest’ultimo in due fasi: la fase commerciale e
quella interna.
La prima viene gestita con l’utilizzo di codici Ean, principalmente in
codice Ean 128. La seconda, che riguarda la raccolta delle informazioni dai fornitori e la loro gestione all’interno del centro di
lavorazione/confezionamento, differisce notevolmente da impresa ad
impresa. Tuttavia, le maggiori differenze si riscontrano negli strumenti
utilizzati per la raccolta dei dati dal fornitore e non nel sistema tecnico
di gestione dei dati. I sistemi di raccolta dei dati utilizzati sono infatti,
sia codici a barre di tipo standard o proprietario, che codici alfanumerici e microchip. Schematizzando, il sistema funziona, in genere, nel
seguente modo.
Innanzitutto, l’intero processo è gestito da un sistema operativo
centrale, generalmente localizzato nel centro di lavorazione/confezionamento. Il sistema di rintracciabilità inizia all’ingresso del prodotto
nel centro ove vi è una postazione con un computer, una pesatrice ed
una etichettatrice. Quando il prodotto viene portato dal fornitore,
156
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
l’addetto alla postazione di ingresso pesa il prodotto e digita sul computer informazioni richieste che poi vengono stampate nell’etichetta
di ingresso che viene posta sulle relative cassette (nel caso dell’utilizzo di microchip, questa postazione non è presente. La raccolta dei dati avviene, infatti, in campo con un computer palmare che scrive le
informazioni sui chip che vengono posti sulle cassette. Quando queste passano la porta di ingresso del centro di lavorazione, i chip vengono letti automaticamente e l’informazione è trasferita al sistema di
gestione.
Il programma di gestione interna di lavorazione comunica alle macchine movimentatrici, che leggono tramite lettore ottico il codice a
barre posto sull’etichetta di ingresso, a quali linee di lavorazione interne il prodotto in entrata deve andare. La possibilità di conoscere a
quale linea di lavorazione deve essere portato il prodotto è legata alla
connessione tra l’informazione immagazzinata sul prodotto in entrata
e le informazioni contenute nell’ordine inviato dal cliente.
In breve, il sistema, confrontando i dati in entrata del prodotto con
quelli dell’ordinativo ed in base al modello di lavorazione interno, invia alla postazione di ingresso del prodotto l’indicazione, in tempo
reale, sulla destinazione interna del prodotto.
Se per esperire un ordine basta un solo conferimento questo va direttamente alle linee di lavorazione, conservando l’etichetta di ingresso,
per la composizione del lotto. Se un solo conferimento non è sufficiente, allora il prodotto in entrata va alle linee di lavorazione e preparazione del lotto sempre mantenendo l’etichetta di ingresso. La costruzione del lotto segue un criterio di omogeneizzazione, generalmente
secondo: categorie di qualità, varietà, tempi di consegna, calibro-pezzatura del prodotto, ecc.
In entrambi i casi, il codice a barre presente sulle etichette di ingresso viene letto in fase di composizione del lotto in modo che il sistema
di gestione “sappia” che si sta esperendo l’ordine. Composto il lotto,
su di esso vengono poste nuove etichette, elaborate dal sistema centrale e stampate vicino alla fine delle linee di lavorazione, che raccolgono le informazioni contenute nell’ordinativo e quelle contenute nell’etichetta di ingresso. In questo modo il lotto è pronto per uscire dal centro. Tutte le informazioni contenute sulla sua etichetta sono conservate
nel database del sistema di gestione (in genere per 5 anni).
Latte - Olio di oliva -Vino
Queste filiere vengono trattate congiuntamente in quanto presentano
problematiche simili. Anche esse presentano un notevole grado di dif-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
157
ficoltà, principalmente legato alla miscelazione della materia prima. Il
modello di rintracciabilità intrapreso dalle imprese di queste filiere si
basa su un codice identificativo (numerico od alfanumerico) che viene
posto sulle etichette confezioni/ bottiglie.
Tale sistema consente di standardizzare tutta la fase commerciale del
prodotto. Tramite il codice identificativo il consumatore che acquista
la confezione/bottiglia può conoscere la storia del prodotto nelle seguenti modalità:
• connettendosi, tramite rete Internet, al sito web indicato e digitando
in appositi campi il codice;
• telefonando ad un apposito numero verde (indicato sulla confezione)
e dettando il codice all’operatore.
Anche gli agenti della fase commerciale della filiera possono acquisire le informazioni sul prodotto tramite accessi diretti al database.
È evidente come il cuore funzionale del sistema risulti essere la gestione centralizzata, tramite una softwarehouse, del database.
Il sistema di flusso di informazioni generato funziona nel seguente
modo. L’azienda che confeziona il prodotto stampa il codice sulla confezione e contestualmente invia, tramite strumento telematico, il codice e le relative informazioni alla softwarehouse (interna all’azienda o
esterna ad essa) che raccoglie in tempo reale tutte le informazioni e le
immagazzina nel proprio database. Il consumatore e gli altri operatori
della filiera che vogliono conoscere la storia del prodotto entrano in
contatto solo con il server della softwarehouse (via web page su Internet o numero verde) digitandone o dettandone il codice stampato in
chiaro sull’etichetta del prodotto acquistato.
Il vantaggio di questo sistema è che non veicolando informazioni su
etichetta (tranne il codice), ma utilizzando connessioni via Internet o
call center, si possono fornire al consumatore una miriade di informazioni. Connesso al vantaggio è anche il suo limite; purtroppo questo
genere di sistemi non fornisce informazioni dirette, immediate ed in
chiaro sull’etichetta del consumatore.
CONCLUSIONI
Abbiamo avuto modo di osservare come la rintracciabilità dei prodotti stia diventando un elemento concorrenziale di primaria importanza tra le imprese del settore agroalimentare. Tuttavia nel tempo, esso
tenderà a trasformarsi, come tutte le innovazioni, da un elemento in
più per le aziende, ad uno senza il quale non si potrà più stare sul mercato. È evidente come in entrambi i casi essa risulterà di estrema im-
158
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
portanza. A ciò si aggiunga una considerazione generale: una società
che si va sempre più connaturando come una “società dell’informazione” esigerà che gli agenti economici siano sempre più in grado di raccogliere e trasferire informazioni, sia a monte che a valle dei circuiti
produttivi.
In una economia di mercato, il processo di rintracciabilità si può
schematizzare in un gioco in cui operano tre agenti, consumatori, imprese e Pubblica Amministrazione (Pa), che hanno a disposizione due
strategie strettamente interconnesse: il numero ed il tipo di informazioni da veicolare, la scelta dello strumento tecnico per implementare
il processo. Quest’ultima, tuttavia, soggiace a vincoli legati sia alla capacita tecnica propriamente detta che ai suoi costi i quali, per una data
tecnologia, aumentano in modo esponenziale al crescere del numero e
della complessità delle informazioni da veicolare.
Sappiamo che i consumatori hanno interesse ad avere informazioni
riguardo ai prodotti acquistati, le imprese a fare profitti e la Pa desidera facilitare e monitorare il controllo per aumentare la sicurezza alimentare. Quest’ultima azione, principalmente diretta al consumatore,
riguarda tuttavia anche le imprese in quanto, consentendo di individuare i responsabili di eventuali reati, riduce la possibilità di comportamenti scorretti che potrebbero danneggiare le aziende “buone” sia
dal punto di vista dell’immagine che da quella della distruzione indiscriminata del prodotto.
Tralasciando inizialmente il ruolo della Pa, analizziamo il gioco tra
consumatori ed imprese all’interno della filiera agroalimentare.
I vantaggi economici che possono derivare alle imprese, di qualsiasi
stadio della filiera, si genereranno da:
1. una maggiore soddisfazione delle esigenze del consumatore/cliente
finale grazie al quale questi saranno disposti, almeno inizialmente,
a pagare un prezzo più alto;
2. un accrescimento delle loro potenzialità concorrenziali, sia interne
che estere;
3. un generale miglioramento sia della gestione aziendale interna e sia
dei rapporti con i fornitori a monte e con i clienti a valle, che consentirà soprattutto economie sul lato dei costi interni di produzione
grazie alla maggiore capacità tecnica di gestire sia il flusso informativo che fisico del prodotto all’interno del circuito produttivo
(come ad esempio il ciclo ordine-fattura-consegna, la gestione delle
scorte e del magazzino, ecc.).
Questi vantaggi dovranno tuttavia confrontarsi con i costi di implementazione del processo che, come abbiano visto, sono positivamente
correlati al numero (e tipo) di informazioni che si vogliono veicolare
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
159
ed allo strumento tecnico utilizzato. Dato questo quadro di costi e benefici, sarebbe auspicabile che entrambi si distribuissero in modo omogeneo e proporzionale tra tutti gli operatori delle varie filiere agroalimentari così che tutti possano trarne beneficio.
Purtroppo, i rischi che questo non avvenga sono ben presenti. Dato
il rischio generale di uscita dal mercato per le imprese che non adottino un sistema di rintracciabilità, si può sostenere che tutte siano intenzionate ad implementare un tale sistema. Le imprese cercheranno di
massimizzare i loro vantaggi scegliendo quella combinazione tra numero e tipo di informazioni e strumento tecnico che offra la migliore
soddisfazione del consumatore al minore costo possibile. Ma chi decide quali siano queste informazioni e lo strumento tecnico?
Al netto delle informazioni che la normativa già impone che debbano essere fornite al consumatore, possiamo supporre, in generale, che
saranno gli agenti più “dotati” di ciascuna filiera, o quantomeno quelli
che si interfacciano direttamente con il consumatore (distributori e
confezionatori) a determinare le informazioni da fornire e lo strumento
tecnico da utilizzare.
Si può ipotizzare che queste imprese sceglieranno quelle informazioni che:
1. soddisfano al meglio il loro target di consumatore;
2. allarghino il concetto di rintracciabilità con altri elementi a loro
congeniali, tipo informazioni di marketing;
3. consentano di sfruttare al meglio le caratteristiche che già esse possiedono, specialmente in termini di tecnologia, sistemi di lavorazione, di gestione e di adeguamento del personale.
Il rischio per le altre imprese è quello di doversi adattare, pena l’esclusione del mercato, a sistemi di rintracciabilità, date le richieste del
consumatore, non costruiti sulle necessità/esigenze complessive dell’insieme degli operatori di ciascuna filiera agroalimentare, ma soltanto di quelle di alcuni di essi. In questo modo, il loro rischio è quello di
incorrere in costi di implementazione del sistema proporzionalmente
più alti che riducano, o comunque spiazzino, notevolmente i vantaggi
su menzionati. A questo si aggiungano i rischi legati alla “ragnatelizzazione” di cui si è già discusso.
Introduciamo a questo punto anche il terzo giocatore, ossia la Pubblica Amministrazione. Abbiamo visto come l’interesse principale della Pa riguardo la rintracciabilità sia quella di assicurare, facilitare e
monitorare il controllo per aumentare la sicurezza alimentare con benefici sia per il consumatore che per le imprese. Il perseguimento di
tale obiettivo prevede la definizione di cosa si intenda per rintracciabilità e dei requisiti richiesti agli agenti economici in termini di quali
160
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
informazioni raccogliere, immagazzinare e trasferire 8. La definizione
pubblica dei requisiti di rintracciabilità, che in una economia di libero
mercato non possono che essere di tipo generale per non “ingessare”
le diversità operative delle imprese, è molto importante sia per gli scopi diretti della Pa, sia per evitare alcuni dei rischi che abbiamo visto
sopra.
Riguardo al primo punto, è ovvio che la Pa definisca il modo in cui
ottenere il risultato da lei richiesto. Il secondo punto è, invece, un risultato indiretto. Infatti, un tale modus operandi permetterebbe di costruire uno schema base di sistema in cui verrebbe definito sia il concetto stesso di rintracciabilità che i ruoli ed i compiti minimi richiesti a
tutte le imprese, di qualsiasi stadio della filiera interessata. In questo
modo si ridurrebbero i rischi di eccessiva “personalizzazione” dei sistemi implementati e quindi anche quelli di “ragnatelizzazione”. Inoltre, la definizione della rintracciabilità, consentendo anche ai consumatori finali di individuarla e distinguerla da altri elementi (come il
marketing), permetterebbe alle imprese, specie quelle meno dotate, di
fare la rintracciabilità ai costi più bassi possibili senza essere eventualmente costrette ad aggiungere altri elementi 9.
Dal panorama dei sistemi di rintracciabilità già implementati sia in
Italia che in altri paesi, oltre a quanto già detto, è possibile osservare
come la gran parte di essi siano principalmente di natura singola, ossia
legati ad interventi di alcune aziende, e non di tipo generale (con un
intervento della Pa ancora limitato). Essi coinvolgono quasi tutti i diversi settori agroalimentari, ma sono presenti in modo più accentuato
in quelle filiere ove la componente di carattere industriale è maggiore.
Tra gli sviluppi di maggior interesse si possono menzionare i sistemi
di rintracciabilità implementati dalle catene distributive Ica e Sainsbury, rispettivamente in Svezia ed Inghilterra, quello della birreria olandese Heineken, oppure i sistemi delle due delle maggiori cooperative spagnole di ortofrutta, ossia Martinavarro ed Anecoop. Non è questa la sede per entrare nel merito di tali importanti iniziative, ma è utile accennare che le tecnologie utilizzate rientrano, in gran parte, tra
quelle analizzate in questo lavoro. Per quanto concerne i costi, infine,
(8) Si veda quanto già precedentemente affermato in merito ai contenuti del Libro Bianco sulla
Sicurezza Alimentare, del Regolamento Ce n. 178/2002 e della regolamentazione italiana
sulla rintracciabilità delle carni bovine.
(9) La Pa, oltre alla funzione di indirizzo e regolazione, potrebbe anche implementare strumenti
di sostegno finanziario alle imprese per l’adozione di strumenti di rintracciabilità (specie per
raggiungere i requisiti minimi richiesti). La discussione in merito a tale intervento implicherebbe, oltre ad analisi di tipo economico, anche considerazioni di carattere politico che esulano da questo lavoro e che quindi tralasciamo.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
161
la maggior parte delle imprese coinvolte in questi sistemi ha dichiarato
che i costi maggiori riguardano principalmente l’adeguamento del personale all’utilizzo di tali tecnologie (confermando indirettamente come l’attuazione di sistemi di rintracciabilità richieda notevoli modifiche dell’insieme dell’organizzazione produttiva).
Sommario
La rintracciabilità dei prodotti sta diventando un argomento di primaria importanza all’interno delle varie filiere agroalimentari. Il suo scopo è quello di conoscere il percorso seguito dal prodotto e chi sono stati gli attori che hanno contribuito
alla sua formazione. Sostanzialmente, la rintracciabilità è aspetto tecnico di processo. Spesso si è portati ad assegnarle ruoli e valenze che in realtà essa riveste solo in
parte. Infatti, malgrado le sicure connessioni, non bisogna confondere la rintracciabilità con la sicurezza alimentare, che è cosa ben più ampia, così come con elementi
di marketing. L’implementazione di processi di rintracciabilità sono oggi tecnicamente ed economicamente praticabili grazie allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Punto di partenza di tali processi sono l’identificazione delle informazioni da trasferire tra gli operatori, fino al consumatore finale, e degli strumenti
tecnici da utilizzare, dato che le informazioni viaggiano su codifica elettronica. Gli
strumenti tecnici oggi maggiormente utilizzabili sono i codici a barre, quelli alfanumerici ed i microchips.
I rischi derivanti da tali scelte sono principalmente legati ai costi di implementazione, che aumentano al crescere del numero e della complessità delle informazioni
da veicolare, ed agli strumenti tecnici scelti, che debbono essere in grado di interfacciarsi tra di loro evitando così il problema della ragnatelizzazione. La Pubblica
Amministrazione, il cui interesse è quello aumentare la sicurezza alimentare, può avere un ruolo importante nella riduzione di tali rischi grazie alla definizione dei requisiti minimi di rintracciabilità richiesti agli agenti economici.
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164
La rintracciabilità dei prodotti agricoli
Le modificazioni genetiche:
rischi e benefici
Jules Pretty
INTRODUZIONE
La biotecnologia implica cambiamenti a livello molecolare, indotti
su cose viventi o semi viventi. Ha una lunga storia che risale a quattromila anni fa con lo sviluppo della fermentazione, la panificazione, la
fabbricazione della birra e la produzione di formaggio ad opera degli
Egizi e dei Sumeri, e più tardi con le tecniche di innesto ad opera dei
Greci. La moderna biotecnologia (nota anche come modificazione o
ingegneria genetica) è invece il nome dato al trasferimento di Dna (solitamente cromosomico) da un organismo ad un altro, che permette al
ricevente di esprimere tratti o caratteristiche proprie del donatore
(Conway 2000; Royal Society et al. 2000). Poiché questi trasferimenti
o incroci non avvengono in natura, le possibilità della modificazione
genetica sono più ampie rispetto ai tradizionali metodi riproduttivi,
sebbene la riproduzione avanzata già comporti alcuni tipi di manipolazione genetica, inclusa la clonazione, il trasferimento di embrioni, la
conservazione di embrioni e la selezione mutante.
Tradotto da: J. Pretty, “The Rapid Emergence of Genetic Modification in World Agriculture:
Contested Risks and Benefits”, Environmental Conservation, vol. 28, 2001.
Questo articolo è il risultato di una ricerca commissionata da The Countryside Agency del
Regno Unito. Ringrazio il personale di questa agenzia per l’aiuto e i consigli che mi sono stati dati, in particolare Richard Lloyd e David Gear. I miei ringraziamenti vanno anche a Michael Antoniou, Richard Aylard, Andrew Ball, Alan Blaine, Ed Cross, Roger Elmore, Alan
Gray, Liz Hoskens, Julie Lloyd, Aulay Mackenzie, Patrick Mulvany, Brian Johnson, Phil Mullineaux, Christine Raines, Ed Stanisz, Norman Uphoff, Hal Willson e William Witt; ringrazio
inoltre due lettori anonimi e il curatore della rivista Environmental Conservation per i consigli, i suggerimenti e i commenti alla prima stesura di questo lavoro. L’autore è un membro
dell’Advisory Committee on Releases to the Enviroment-Acre, tuttavia le opinioni espresse in
questo articolo non rappresentano necessariamente quelle del governo e delle sue agenzie, né
quelle dei membri dell’Acre o di coloro che hanno cortesemente offerto pareri e consigli.
Jules Pretty è direttore del Centre for Environment and Society e professore di Scienze Biologiche all’Università di Essex a Colcester, Regno Unito.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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L’espansione nello sviluppo e nella coltivazione commerciale di
qualche tipo di coltura geneticamente modificata (Gm) è stata straordinariamente rapida negli ultimi anni. Tuttavia, sono molti ad esprimere preoccupazione riguardo i potenziali rischi, diretti e indiretti, che
coinvolgono l’ambiente e la salute. Poiché un gran numero di nuove
tecnologie Gm si stanno sviluppando, e la maggior parte dei paesi devono ancora dare l’assenso alla loro diffusione, vi è un bisogno crescente di sviluppare politiche rigorose basate su un’accurata comprensione dei dati scientifici riguardanti i loro effetti positivi e negativi.
Gli obiettivi di questo lavoro sono:
1.esaminare il progresso recente e le future applicazioni basandosi su
una nuova tipologia di tre generazioni di organismi geneticamente
modificati (Ogm) messi a confronto con cinque tipi di applicazioni
scientifiche;
2.analizzare i recenti campi di ricerca indipendente e i dati scientifici
attuali su sette tipi di rischi ambientali e sanitari: (i) flusso genetico
orizzontale, (ii) nuove forme di resistenza e rischio infestanti, (iii)
ricombinazione che produce nuovi patogeni, (iv) effetti diretti e indiretti delle nuove tossine, (v) perdita di biodiversità dovuta ai
cambiamenti nelle pratiche di coltivazione, (vi) reazioni allergiche
e immunitarie, (vii) segnalazione genetica di resistenza agli antibiotici; e
3.fronteggiare le preoccupazioni e le posizioni contrastanti dei diversi
portatori di interesse nell’ambito dei sistemi agricoli ed alimentari,
in relazione sia alla struttura e all’economia politica dell’agricoltura
mondiale sia all’affermarsi di nuove tecnologie.
LA RAPIDA CRESCITA NEI PRIMI ANNI
Esistono cinque tipi principali di applicazione all’agricoltura della
modificazione genetica:
1.le tecniche genetiche di disattivazione per ridurre o sospendere l’attività di specifici geni indesiderati;
2.l’introduzione di nuovi geni o il miglioramento dell’azione genica esistente per modificare il sapore o il colore, o per modificare il contenuto di amido o di olio, per aumentare il contenuto nutrizionale
dei prodotti (nutraceuticals) o il contenuto farmaceutico dei prodotti
di origine vegetale o animale;
3.l’introduzione di geni per aumentare la resistenza agli erbicidi, agli
infestanti e ai patogeni, per aumentare la resistenza agli stress ambientali, per modificare l’ambiente esterno;
166
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
4.l’introduzione di geni per aumentare la produzione di ibridi o per
modificare la produzione delle sementi inducendo l’apomissi (fissando così il vigore di ibridazione);
5.mettere a punto meccanismi di scambio attraverso promotori per generare o eliminare certe caratteristiche.
La crescita commerciale più importante ha riguardato un solo tipo di
applicazione, cioè colture contenenti una delle due seguenti caratteristiche (ed entrambe, con sempre maggiore frequenza):
1.tolleranza agli erbicidi (Ht, nota anche come resistenza agli erbicidi,
soprattutto al glifosato e all’ammonio glufosinato) introdotta nella
soia, nella colza da seme per l’estrazione dell’olio (canola), nel cotone, nel granoturco e nella barbabietola da zucchero, che permette
l’applicazione di erbicidi ad ampio spettro prima del raccolto, eliminando le erbe infestanti senza causare danni al raccolto (circa 28 milioni di ettari nel 1999 ed altri 2,9 milioni di ettari con colture contenenti l’addizionale caratteristica del Bacillus thuringiensis [Bt]);
2.resistenza agli insetti attraverso Bt (esistono molte varietà di Bt ed
almeno 60 differenti proteine di cristalli: i lepidotteri sono colpiti da
Bt kurstaki, zanzare e mosche dal Bt israelensis, e i coleotteri dal Bt
tenebrionis), prevalentemente su granoturco e cotone; ciò significa
che la tossina insetticida del Bt è espressa da tutte le cellule della
pianta, eliminando così gli infestanti erbivori sensibili e riducendo la
necessità di ricorrere agli insetticidi convenzionali (circa 8,9 milioni
di ettari coltivati nel 1999, ed altri 2,9 milioni di ettari preparati con
caratteristiche Ht).
Si è verificata negli ultimi anni una rapida espansione di colture derivate da modificazione genetica (fig. 1). La prima coltura modificata
geneticamente ad essere commercializzata fu la soia nel 1995. Nel
1996 erano stati seminati 1,7 milioni di ettari di soia geneticamente
modificata (senza considerare la Cina), per aumentare rapidamente a
40 milioni di ettari nel 1999, e raggiungere lentamente i 44,5 milioni
di ettari nel 2000 (Epa 1999; James e Krattiger 1999; Chen 2000;
Kydd et al. 2000; James 2001).
Nel 2000 la maggior parte degli Ogm venivano coltivati negli Stati
Uniti (68%), in Argentina (23%), in Canada (7%), mentre in Australia,
Messico, Spagna e Sud Africa venivano coltivati tra i 25.000 e i
100.000 ettari ciascuno; e circa 1000 ettari in Bulgaria, Francia, Romania, Uruguay ed Ucrania (il Portogallo ne ha coltivata una piccola
quantità nel 1999, ma ha revocato il consenso per il 2000). Nel Regno
Unito la diffusione sperimentale di piante Gm ha avuto un’estensione
pari a 300 ettari. In Cina ci sono tra i 400.000 e i 500.000 ettari di
piante di tabacco e cotone Gm (Chen 2000; James 2001). Del totale di
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
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FIGURA 1
Colture Gm coltivate a scopo commerciale in tutti i Paesi (1995 - 2000)
Area (milioni di ettari)
50
40
30
20
10
0
1995
1996
1997
1998
1999
2000
ANNO
Fonte: Epa 1999; Chen 2000; Kydd et al. 2000; James 2001.
FIGURA 2
Area investita nelle diverse colture Gm a scopo commerciale (1998 - 2000)
Area (milioni di ettari)
50
40
altri
30
colza
20
cotone
10
mais
0
soia
1998
1999
ANNO
Fonte: Epa 1999; Chen 2000; Kydd et al. 2000; James 2001.
168
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
2000
44,5 milioni di ettari coltivati nel mondo nel 2000, il 58% è stato di
soia, il 23% di granoturco, il 12% di cotone e il 6% di colza da seme
per l’estrazione dell’olio (fig. 2). Altre colture Gm comprendono le
patate, la zucca e la papaia.
TIPOLOGIA PER DIVERSE GENERAZIONI DI OGM
A pochi anni di distanza dallo sviluppo delle prime colture geneticamente modificate, vi sono aspre divergenze di opinione riguardo i benefici ed i rischi. Alcuni affermano che gli Ogm sono sicuri ed essenziali per il progresso mondiale; altri sostengono che non sono necessari e che comportano troppi rischi. I primi credono che l’influenza dei
media e l’allarmismo stiano limitando tecnologie utili; i secondi che
gli scienziati, le compagnie private e i legislatori stiano minimizzando
i rischi per puro calcolo economico (cfr. House of the Lords Select
Committee on the European Communities 1998; Royal Society 1998;
British Medical Association 1999; Nuffield Council on Bioethics
1999; Royal Society et al. 2000).
Nessuna di queste due opinioni è del tutto corretta, per una semplice
ragione: gli Ogm non sono una singola, omogenea tecnologia. Ogni
applicazione e prodotto porta benefici diversi per i differenti portatori
di interesse, ognuna pone diversi rischi ambientali e sanitari. È importante pertanto distinguere tra i cinque maggiori tipi di applicazione di
Gm (tabella 1) e tre diverse generazioni di tecnologie di Gm.
1.Le tecnologie della prima generazione entrarono in commercio alla
fine degli anni’90, e sembra abbiano apportato pochi specifici benefici al consumatore. Il concretizzarsi dei vantaggi promessi ai coltivatori e all’ambiente è stato solo limitato, poiché queste tecnologie
tendono a portare benefici soprattutto alle compagnie che le producono; la soia resistente agli erbicidi, per esempio, costringe i coltivatori ad acquistare l’erbicida prodotto dalla compagnia che commercializza il seme Gm. Il granoturco e il cotone Bt permettono di ridurre l’uso di insetticidi, facendo risparmiare i coltivatori, ma le compagnie riequilibrano il margine attraverso l’aumento del costo delle
sementi.
2.Le tecnologie della seconda generazione comprendono quelle già
sviluppate e testate, ma non diffuse commercialmente a causa di incertezze riguardo la stabilità della tecnologia stessa o per timore di
potenziali rischi ambientali. Alcune di queste applicazioni porteranno sicuramente maggiori benefici collettivi, ed includeranno una serie di applicazioni mediche.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
169
TABELLA 1
Applicazioni Gm ed esempi relativi a tre generazioni di prodotti
PRIMA GENERAZIONE
(IN COMMERCIO NEGLI ULTIMI ANNI ’90 )
Tecniche di disattivazione genetica per ridurre o
eliminare l’attività di specifici geni indesiderati
Pomodori di lunga durata
Introduzione di nuovi geni o il perfezionamento di
azioni geniche esistenti per migliorare e correggere il colore e il sapore o modificare il contenuto
di amido e olio
Fiori precolorati (ad esempio garofani neri color
malva in Australia)
Colza ad alto contenuto di acido laurico
(USA: non più coltivato)
Introduzione di nuovi geni per aumentare il contenuto nutrizionale della coltura (nutraceuticals)
o il contenuto farmaceutico della dela coltura o
dell’animale
Nessun prodotto con aumentata capacità nutrizionale
Riso alfa-antitripsina (soltanto negli Usa)
Introduzione di nuovi geni per migliorare la resistenza agli erbicidi agli infestanti e ai patogeni
Soia e colza (canola) resistenti agli erbicidi (HT)
Cotone e mais Bt + cotone HT (‘cotone 2 geni’)
Patate resistenti al Colorado Beetle (Usa)
Cicoria Ht (Paesi Bassi)
Papaia resistente ai virus (Hawai)
Introduzione di nuovi geni per migliorare la resistenza agli stress ambientali
Nessuno
Introduzione di nuovi geni per modificare l’ambiente
Batteri in sistemi contenimento per la produzione
di enzimi per la produzione di formaggio e detersivi
Nessuno
Introduzione di nuovi geni per migliorare la produzione di ibridi o modificare la produzione di semi inducendo apomissi (fissando così il vigore di
ibridazione e consentire agli agricoltori di risparmiare semi)
Rettifica dei meccanismi di scambio attraverso
promotori per annullare e determinare caratteristiche
Fonte: Pretty 1999, 2000a.
170
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
Nessuno
SECONDA GENERAZIONE
(SVILUPPATA NEGLI ULTIMI ANNI ’90, MA NON
ANCORA AUTORIZZATA COMMERCIALMENTE)
TERZA GENERAZIONE (RICERCA IN CORSO,
ANCORA LONTANA DAI MERCATI)
Frutta e verdura meno soggette a deterioramento e
dotate e di migliori caratteristiche per il trasporto
Tecnologia genetica ‘Terminator’
(semi suicida)
Eliminazione dei geni per le sostanze tossiche o
allergeniche
Patate senza processo di germogliazione.
Riduzione della frantumazione del baccello nella
colza
Trifoglio bianco e erba medica con maggiore
contenuto di tannino per ridurre la fermentazione
nello stomaco del bestiame
Colture per olio industriale /plastica
Modificazione del mais per aumentare la produzione di cera (99% di amilopectina: per la produzione di amido) o per amilosio (> 50% per la macinatura umida e uso industriale)
Modificazioni per aumentare l’efficacia dei nutrienti, acqua e luce (cambiamenti ormonali per
influenzare il riempimento del cece, o per ritardare l’invecchiamento delle foglie)
Cotone e alberi da fibra di qualità migliore
Legumi ed avena con maggior contenuto proteico
ed energetico
Colture vaccino (banane e patate) contenenti materiale genetico derivante da patogeno che svolge la
funzione di vaccino attraverso l’alimentazione (es.
vaccino contro l’epatite B contenuto nelle patate)
Erbe da foraggio con livelli inferiori di lignina e/o
con mutazioni enzimatiche che le rendano più nutrienti per il bestiame sia fresche che in silos
Uso di tossine altamente specializzate derivate
dagli scorpioni, dalle vespe, dal ragno imbuto e
dalla lumaca conica
Alberi resistenti ai pesticidi e alle malattie
Patate e ortaggi resistenti ai patogeni da funghi e
ai pesticidi
Girasoli immuni alle malattie
Tolleranza al gelo nella barbabietola e nella patata
Isolamento di complessi dotati di tolleranza alla
siccità, al calore, al sale e al metallo
Riso in grado di tollerare la sommersione
Alberi con contenuto modificato di lignina
Cotone precolorato (blu)
Colza dotata di resistenza a malattie e modificazioni nell’olio prodotto
Mais modificato per aumentare il contenuto di lisina, e la produzione di olio (per alimentazione animale)
Riso arricchito con vitamina A (Golden rice)
Riso arricchito di ferro
Legumi da foraggio con maggiore contenuto di zolfo
Ovini e suini modificati per produrre proteine nel
loro latte, come l’insulina, l’interferone e la proteina che consente la coagulazione del sangue umano fattore 8
Barbabietola da zucchero Ht
Trifoglio Bt (Nuova Zelanda)
Riso, peperone , pomodori, manioca, patate dolci
resistenti ai virus
Cereali resistenti agli infestanti durante lo stoccaggio
Cereali, banane e patate resistenti al nematode
Fragole resistenti al gelo
Tolleranza alla tossicità Al per mezzo della secrezione di acido citrico dalle radici
Mostarda con tolleranza al sale
Zolle Erbose HT resistenti ai funghi e con tolleranza agli stress (sale e calore)
Batteri modificati per la bio-correzione dei suoli
Mais apomittico
Tecnologia a regolazione genica (Gurt) o ‘Terminator’
Accresciuta efficacia nell’utilizzo di azoto nelle
patate, nel grano e nelle erbe
Erbe per la correzione del suolo
Uso più esteso dell’apomissi nelle colture e nelle
erbe da foraggio
Meccanismi di scambio per attivare il Dna quando
prevalgono particolari malattie o condizioni climatiche
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
171
3.Le tecnologie della terza generazione sono quelle ancora lontane dal
mercato, ma generalmente richiedono una migliore comprensione di
interi complessi di geni che controllano tratti come la tolleranza all’aridità o al sale, e la fissazione dell’azoto. Queste porteranno, probabilmente, benefici più evidenti per i consumatori rispetto a quelli
della prima generazione.
Un esempio di tecnologia di seconda generazione è la cosiddetta
tecnologia “Terminator” (così definita dai suoi oppositori), nota anche
come Technology Protection System (sistema di protezione tecnologico) o Genetic Use Restriction Technology (tecnologia a uso limitato di
geni). Questa comporta l’inserimento di meccanismi di sostituzione
genetica per impedire che sementi conservate dopo il raccolto possano
germinare. Ciò potrebbe avere conseguenze positive o negative. Preverrebbe la diffusione naturale a piante affini di geni provenienti da
organismi geneticamente modificati, tuttavia potrebbe anche impedire
agli agricoltori di riusare le sementi. Poiché la maggior parte degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo conserva le sementi, come avviene per un numero sorprendentemente elevato nei paesi industrializzati
(il 20-30% dei coltivatori di soia negli Stati Uniti riusa le sementi, e
molti produttori di grano si recano a comprare semi una volta ogni 4-5
anni), questa tecnologia di fatto trasferisce il potere dagli agricoltori
alle compagnie (Rafi 1998). Non sorprende che ciò abbia sollevato
molte critiche.
Molti Ogm della terza generazione sono, al contrario, più orientati
verso benefici collettivi, sebbene anch’essi non siano esenti da rischi.
Se si sviluppano colture dotate di tolleranza al calore, alla siccità, al
sale o al metallo, queste potrebbero fare la differenza sostanziale per
gli agricoltori di fronte a problemi relativi al suolo o al clima. Le modificazioni fisiologiche del riso e del grano potrebbero comportare una
crescita più veloce delle odierne fonti alimentari, mantenendo invariate le risorse di luce ed acqua, permettendo agli agricoltori di avere benefici senza restare intrappolati in nuove dipendenze dalle corporazioni. Le modificazioni delle colture a basso valore nelle rotazioni, come
i legumi e l’avena, potrebbero renderle più interessanti per gli agricoltori in ragione dell’alto contenuto energetico e proteico. Altre modificazioni potrebbero essere più efficaci nell’uso dell’azoto, riducendo
così la lisciviazione di nitrato o le perdite di ossido di azoto.
Un considerevole passo in avanti nella coltivazione delle piante si è
verificato con il trasferimento di caratteristiche apomittiche nei cereali
(la produzione di cloni identici alla pianta madre attraverso la riproduzione asessuata). In Messico, presso il Cimmyt, International Centre
for Maize and Wheat Research (Centro internazionale per la ricerca
172
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
sul mais e il grano), la ricerca in corso sta cercando di trasferire l’apomissi (che coinvolge molti geni) da una pianta erbacea affine al mais,
il Tripsacum dactyloides, al mais stesso. Ciò consentirebbe agli agricoltori di conservare le sementi per le stagioni successive, permettendo a quelli più poveri e isolati di aumentare notevolmente la produzione, purché si trovi il modo per fargli arrivare i nuovi semi quando questi si renderanno necessari.
Tuttavia, c’è già il timore che molte delle metodologie e dei prodotti
coinvolti nel processo apomittico di trasferimento di Gm, essendo brevettati da privati, non saranno utilizzabili dagli agricoltori più poveri.
Nel 1998 veniva formulata la Dichiarazione di Apomissi di Bellagio
(Bellagio Apomixis Declaration), in cui gli scienziati firmatari condividevano il timore che «l’attuale tendenza alla concentrazione delle
biotecnologie vegetali nelle mani di pochi possa gravemente limitare
la diffusione delle tecnologie apomittiche, di basso costo, specialmente come risorsa per gli agricoltori più poveri».
I RISCHI AMBIENTALI E SANITARI
DELLE COLTURE GENETICAMENTE MODIFICATE
Gli Ogm in agricoltura presentano una serie di potenziali rischi ambientali e sanitari (Rissler e Melon 1996; Altieri 1998; Pretty 1998;
House of Lords Select Committee on the European Communities
1998; Royal Society 1998; British Medical Association 1999; Nuffield
Council on Bioethics 1999; Acre 2000a e 2000b). Tra questi vi sono
cinque tipi di possibili rischi per l’ambiente e due per la salute umana.
La misura in cui ciascuno costituisce un rischio reale è il risultato della combinazione di pericolo ed esposizione, dal momento che non tutti
i pericoli costituiscono un rischio nella pratica. Di seguito, vengono analizzati i diversi tipi di rischio, alla luce della conoscenza scientifica
recente e non schierata, in particolar modo avvalendosi delle analisi
sul campo.
POTENZIALI RISCHI AMBIENTALI
Il flusso di geni
Il primo potenziale rischio ambientale è il flusso di geni, per il quale
i geni modificati potrebbero trasferirsi da un Ogm a piante spontanee
affini e/o ai batteri nel terreno e nell’intestino umano. Il flusso di geni
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
173
è un fenomeno naturale (Ellstrand et al. 1999), dato da molte specie di
piante che si incrociano con specie vicine, e così il problema dei nuovi
rischi è tutto nell’interrogativo se i transgeni potrebbero condurre al
trasferimento di caratteristiche indesiderate e all’emergere di popolazioni permanentemente trasformate.
Poiché questi trasferimenti non si sono verificati in natura, è impossibile prevederne gli effetti con sicurezza (Raybould e Gray 1993;
Chevré et al. 1997; Detr 1999). L’impollinazione non è come il flusso
di geni; sebbene il polline possa viaggiare per molti chilometri, solo
raramente si risolve in un evento di impollinazione (McPartlan e Dale
1994; Gray e Raybould 1998; Bcpc 1999; Young et al. 1999; Acre
2000b). Inoltre, molte linee di modificazioni genetiche sono a maschio
sterile, pertanto, sebbene possa verificarsi un trasferimento di polline,
l’impollinazione non avviene. Un’ulteriore preoccupazione è data dal
potenziale di assorbimento del Dna transgenico da parte dei batteri del
suolo, definito flusso orizzontale di geni (Gebhard e Smalla 1998 e
1999; Acre 2000b).
Nel Regno Unito, la colza da seme per l’estrazione dell’olio è un
possibile candidato per il flusso di geni, dal momento che è geneticamente vicina a molte piante infestanti. Le perplessità riguardano la
possibilità di trasferimento di tolleranza agli erbicidi (Ht) dalla colza
modificata geneticamente alle piante infestanti, con la conseguente apparizione di “piante super-infestanti” resistenti agli erbicidi. Comunque, molti anni di ricerca dedicata agli incroci, sia spontanei sia manipolati, indicano che la colza presenta bassa probabilità di flusso di geni verso le piante non geneticamente modificate che gli sono prossime
(Mikkelsen et al. 1996; Detr 1999; Young et al. 1999). Tuttavia, l’idoneità delle piante individuali e i tassi di diffusione di geni dipenderanno dalle pressioni di selezione esercitate sul gene Ht di interesse, un
gene che difficilmente conferirà un vantaggio selettivo nella pianta naturale. Invece, la barbabietola da zucchero, la carota, il loglio e il trifoglio bianco, presentano tutti un’alta probabilità di flusso di geni, dal
momento che i loro affini spontanei sono effettivamente della stessa
specie delle colture modificate. Esiste una bassa probabilità di flusso
di geni per le patate, il mais e i pomodori, dal momento che questi non
possiedono parenti naturali compatibili nel Regno Unito (Reybould e
Gray 1993; Detr 1999; Young et al. 1999). I rischi varieranno quindi
da paese a paese; così, ad esempio, in Messico, la terra di origine del
granoturco, il mais geneticamente modificato costituisce più di un rischio potenziale.
La questione principale non riguarda tanto la possibilità che si verifichi un flusso di geni, ma piuttosto in quale misura i transgeni possa-
174
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
no influenzare il sistema ecologico originario. Come affermato da
Johnson (2000): «aggiungere a caso e senza criteri geni da altre piante a patrimoni genetici originari può comportare effetti fenotipici in
grado di cambiare il modo in cui interi genomi si rapportano ai loro
ambienti fisici e biotici». Così il trasferimento di transgeni, progettati
per prevenire la germinazione, ridurrebbe l’idoneità di nuovi ibridi,
mentre la resistenza agli insetti, ai funghi e ai virus potrebbe notevolmente aumentarne l’idoneità. Ciò potrebbe far emergere erbe infestanti dotate di diversi livelli di geni per la tolleranza agli erbicidi.
L’emergere di nuove forme di resistenza e problemi di infestazione
secondaria
Il secondo rischio ambientale riguarda la potenziale comparsa di
nuove forme di resistenza e/o di infestanti di seconda generazione.
Nella moderna agricoltura, prima ancora della comparsa degli Ogm, la
resistenza si è già manifestata su larga scala (Georghiou 1986): oggi esistono 500 specie di insetti, acari e zecche resistenti ad uno o più
composti, più di 400 biotipi di piante infestanti resistenti agli erbicidi
e 150 tra funghi e batteri dotati di resistenza (Vorley e Keeney 1998;
Heap 2000).
L’evoluzione della resistenza può verificarsi nell’ambito di: 1) colture modificate geneticamente contenenti insetticida in grado di sviluppare resistenza negli insetti, o 2) colture modificate geneticamente che
portano ad un uso eccessivo di erbicidi, che a loro volta producono resistenza nelle piante infestanti. In un primo momento, il problema potenziale della resistenza degli insetti, in particolar modo nel cotone e
nel mais Bt, passò inosservato. Oggi, ci sono regole obbligatorie in base alle quali colture geneticamente modificate vengono coltivate su
larga scala per ridurre la pressione di selezione sugli infestanti. L’Epa
(1999) e l’Usda hanno prodotto indicazioni obbligatorie riguardo la
gestione della resistenza integrata (Irm) per le colture Bt (mais, cotone, patate) che includono tre strategie: 1. una parte dell’area coltivata
deve essere destinata alla produzione di “colture rifugio” non modificate geneticamente; 2. l’uso di rotazioni, specialmente tra soia e mais;
3. l’uso ridotto di mais Bt laddove non è necessario (dove cioè la minaccia della piralide del mais è minima).
Le direttive impongono che il 20% della terra coltivata debba essere
destinata a “rifugi” entro gli 0,8 km (preferibilmente 0,4 km) da campi
coltivati a mais, cotone, o patate Bt. Le dimensioni dei “rifugi” dipendono da quelle dell’appezzamento con colture geneticamente modificate. Per il mais Bt, prodotto in un’area in cui prevale il cotone, è pre-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
175
visto un “rifugio” pari al 50% di mais non Bt, entro circa 0,4 km (in
modo da ridurre al minimo la resistenza del lepidottero Heliothis zea
che attacca mais e cotone). Lo scopo è di fornire un numero sufficiente di insetti adulti sensibili da far accoppiare ad insetti adulti dotati di
potenziale resistenza Bt, allo scopo di ridurre la frequenza di geni dotati di resistenza. Tuttavia, la dimensione, la struttura e lo sviluppo dei
“rifugi a coltura non Bt”, il modo in cui dovrebbero essere incrementati su scala regionale e la difficoltà nell’obbligare o incoraggiare gli agricoltori ad adottarli, sono ancora oggetto di controversia. A loro volta, le colture modificate geneticamente possono diventare infestanti
nel corso delle rotazioni, come nel caso del cotone Ht e Bt che germina nella successiva coltura di soia, o la colza Ht spontanea germinante
nei cereali che seguono. Se le colture seguenti venissero trattate con lo
stesso erbicida, questo risulterebbe inefficace. Tuttavia, questi infestanti spontanei possono essere eliminati per mezzo di prodotti alternativi, controllati attraverso la coltivazione o la scelta di particolari
colture di soppressione.
Nuovi problemi di infestazione secondaria possono insorgere, come
nel caso del cotone (Bachelor 2000). Nel 1999, i ricercatori hanno
confrontato 360 campi paralleli di cotone modificato geneticamente e
non, nel South Carolina. Le produzioni geneticamente modificate presentavano nel complesso il 41% di danno in meno causato da insetti
(1,6% di capsule globose rispetto al 3,9%), ma i danni dovuti all’Hemiptera Pentatomidae (c.d. “cimice della frutta”) erano quattro volte
superiori. I danni provocati dalla “cimice” erano stati notati anche in
Georgia (Hollis 2000), ma nelle coltivazioni geneticamente modificate
il numero di insetti benefici era superiore e il danno da capsule globose era inferiore.
Ricombinazioni di virus e batteri che producono nuovi patogeni
Un terzo rischio si riferisce alla possibilità che virus e batteri assorbano i transgeni nei loro genomi, causando nuove e, probabilmente indesiderate, caratteristiche. Inoltre, i transgeni virali incorporati nelle
colture modificate geneticamente potrebbero ricombinarsi per produrre virus ad alta idoneità. Tuttavia, tale combinazione non si è ancora
verificata (Royal Society 1998). In teoria, i geni virali potrebbero aggredire persino l’uomo, sopravvivendo al passaggio attraverso l’intestino umano ed entrando così a far parte dei batteri intestinali e delle
cellule del corpo umano. Una volta all’interno delle cellule, il Dna potrebbe inserirsi nel genoma e modificare le sue strutture e funzioni di
base. Ciò potrebbe condurre alla comparsa di nuove malattie; tuttavia
176
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
richiederebbe l’integrazione di intere sequenze di Dna all’interno del
genoma umano, un’eventualità molto remota allo stato delle conoscenze attuali.
Effetti diretti e indiretti delle nuove tossine
Il quarto rischio riguarda la possibilità di effetti diretti e indiretti
delle nuove tossine prodotte dagli Ogm. Il Bt è prodotto da tutte le cellule di una pianta di mais o cotone Bt, e perciò potrebbe avere effetti
sia sugli organismi utili che vengono in contatto diretto con la pianta,
che sui prodotti della pianta stessa; oppure, indirettamente, attraverso
il consumo da parte di terzi di un insetto fitofago che ha isolato la tossina nei suoi tessuti. In condizioni di laboratorio sono emersi molti rischi potenziali, come il polline Bt sulle farfalle monarca (Losey et al.
1999), patate geneticamente modificate che producono una lectina,
mais Bt che ha effetti su coccinelle (Coccinellidae) e crisopidi (Birch
et al. 1997; Hilback et al. 1998), e prodotti Bt nel suolo (Crecchio e
Stotzky 1998; Saxena et al. 1999). Comunque, i risultati di questi studi di laboratorio non indicano necessariamente che ci sia un rischio
reale per l’ambiente naturale.
Recenti studi sull’effetto del polline del mais modificato geneticamente sulle farfalle monarca (Danaus plexippus; Losey et al. 1999)
offrono un buon esempio dei possibili rischi. Le larve delle farfalle erano state coltivate in laboratorio su foglie di cotone egiziano cosparse
di polline di mais Bt. Queste larve mangiavano meno, crescevano più
lentamente ed avevano un tasso di mortalità più elevato di quelle allevate su foglie cosparse di polline non modificato geneticamente. La
potenziale minaccia ad una importante specie nazionale sollevò molte
preoccupazioni riguardo gli Ogm in generale, nonostante fosse già nota la tossicità del Bt per i lepidotteri. Comunque la dose necessaria per
provocare un effetto sull’ambiente naturale, la quantità di polline sulle
foglie di cotone egiziano, la probabilità che le farfalle si espongano al
polline, la fotodegradazione del Bt e gli effetti della pioggia rimangono sconosciuti.
Per le farfalle monarca il tempismo è vitale. Perché avvenga il danno, le larve devono essere prodotte nel momento stesso in cui avviene
l’impollinazione del mais, un periodo di soli 7-10 giorni. Tuttavia la
migrazione della farfalla monarca e la presenza del polline Bt non
coincidono, il polline non si allontana molto (il 90% cade entro i primi
5 metri), le larve sulle foglie del cotone egiziano non sono influenzate
negativamente dal polline Bt e la maggior parte delle foglie di cotone
egiziano tende a non trovarsi vicina ai campi di mais (Monarch But-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
177
terflies Research Symposium 1999; Jesse e Obrycki 2000). Ciò non significa sostenere che i rischi potenziali delle colture Bt siano trascurabili, ma soltanto che una dettagliata comprensione dell’ambiente coltivato è necessaria prima che possa essere formulato un giudizio in merito al rischio.
Cambiamenti nelle pratiche agricole che alterano la biodiversità
Con l’affermarsi delle tecniche Ogm in agricoltura, gli agricoltori
possono contribuire direttamente o indirettamente alle perdite di biodiversità. La preoccupazione principale riguarda l’adozione di colture Ht
che comportano un uso crescente di erbicidi ad ampio spettro. Tali
prodotti offrono la possibilità di una totale eliminazione delle piante
infestanti, cosa positiva per quanto riguarda le colture, ma particolarmente nociva per le altre piante, i mammiferi e gli uccelli (Acre 1998;
Royal Society 1998; Johnson 2000). La tendenza a creare campi totalmente liberi da piante infestanti, e pertanto da insetti erbivori e semi
(che a loro volta costituiscono cibo per gli uccelli e per i mammiferi) è
stata il fattore determinante del declino degli uccelli tipici dell’ambiente agricolo (Campbell et al. 1997; Pretty 1998; Siriwardena et al.
1998; Mason 1998).
Ancora una volta molto dipende dalla tecnica colturale e dagli obiettivi degli agricoltori. Alcuni Ogm potrebbero portare ad una maggiore biodiversità: secondo la ricerca svolta presso lo Iacr Brooms
Barn, i costi dei fattori di produzione sono scesi da 200 a 30 sterline
per ettaro l’anno per la barbabietola da zucchero tollerante al glifosato
(escluse le spese tecnologiche sopportate dall’impresa), permettendo
agli agricoltori di trascurare il controllo delle piante infestanti fino almeno alla fase della quarta foglia; ciò rende le piante di barbabietola
difficilmente attaccabili da parte degli afidi ed incoraggia i predatori
utili (Deward et al. 2000). Il controllo delle piante infestanti, soltanto
nel momento in cui costituiscono un’effettiva minaccia per il raccolto,
potrebbe permettere in altri momenti maggiore tolleranza verso le
piante infestanti, promuovendo la biodiversità (Johnson 2000). La
coltivazione della barbabietola da zucchero Ht (tollerante al glufosinato ammonio) permette, inoltre, di rimuovere completamente tutte le
piante infestanti ricorrendo ad una quantità minore di erbicidi, rispetto
a quella richiesta da una coltura tradizionale (Read e Bush 1999). Tuttavia, negli Stati Uniti, dettagliati studi comparativi hanno mostrato
che, in alcune circostanze, i produttori di soia Ht usano quantità maggiori di erbicida rispetto a coloro che praticano la coltura tradizionale
(Benbrook 1999).
178
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
I POTENZIALI RISCHI PER LA SALUTE
Le reazioni allergiche e del sistema immunitario alle nuove sostanze
Dal momento che i transgeni provocano la presenza di nuovi prodotti nelle colture - di solito proteine -, il rischio per la salute umana insorge se questi prodotti suscitano anche una reazione allergica o immunitaria. Gli alimenti tradizionali non modificati geneticamente già
contengono prodotti tossici o potenzialmente tali; pertanto, la questione chiave consiste nello stabilire se uno specifico Ogm non possa rappresentare un nuovo rischio. Il 90% degli allergeni nei confronti del
cibo agiscono in risposta alle proteine presenti in otto alimenti (arachidi, nocciole, latte, uova, soia, crostacei, pesce e grano), si potrebbe allora sostenere che sia più facile testare l’allergenicità degli Ogm, dato
che la modificazione genetica implica il trasferimento di un singolo o
di alcuni geni (Royal Society 1998). Ad esempio, è stato interrotto lo
sviluppo della soia modificata geneticamente con un gene della noce
del Brasile, a causa dei suoi potenziali effetti allergizzanti (Nuffield
Council on Bioethics 1999).
La più grande controversia ha riguardato il caso delle patate modificate geneticamente contenenti lectina e il loro effetto sui ratti. Uno
studio ha riconosciuto conseguenze sul sistema immunitario (Anon
1999), ma i risultati della ricerca sono stati ampiamente criticati (vedi, per una sintesi, Nuffield Council on Bioethics). In ogni caso, se la
ricerca avesse dimostrato un effetto, ciò sarebbe stato significativo
solo per quel gene particolare e il suo prodotto. Allo stesso modo
l’assenza di effetti non significa che tutti i prodotti geneticamente
modificati siano sicuri. Altri potenziali problemi potrebbero insorgere
nelle patate con sequenze biochimiche modificate geneticamente, che
potrebbero inavvertitamente condurre ad alti livelli di glicoalcaloidi.
È anche importante distinguere tra il consumo di alimenti potenzialmente contenenti Dna modificato geneticamente, e alimenti che sono
identici a quelli derivati da colture tradizionali, come lo zucchero raffinato.
Geni marcatori di resistenza agli antibiotici
La prima generazione di Ogm ha usato geni marcatori di antibiotici
o di erbicidi per ottenere una semplice selezione cellulare. In teoria, i
geni marcatori resistenti agli antibiotici in un Ogm potrebbero essere
incorporati in batteri presenti sia nell’intestino umano che in quello
del bestiame, rendendo anche questi resistenti agli antibiotici (Gassen
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
179
2000). Sebbene ciò non sia stato ancora dimostrato empiricamente, la
resistenza agli antibiotici costituisce un serio motivo di preoccupazione. Antibiotici e altri antimicrobici vengono usati in agricoltura per il
trattamento terapeutico di malattie cliniche (20%), e per la profilassi
e la promozione della crescita (80% del totale). Aumenta il timore
che l’abuso di antibiotici possa rendere inefficaci alcuni farmaci destinati all’uomo, e/o che possa rendere alcuni tipi di batteri inattaccabili. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato che l’uso
di antimicrobici nel bestiame di allevamento ha avuto come conseguenza la comparsa di alcuni tipi di Salmonella, Campylobacter, Enterococchi, E. coli resistenti, e che gli enterococchi resistenti al vancomycin sono legati all’abuso di antibiotici sia negli ospedali che in
agricoltura (House of Lords Select Committee on the European Communities 1998).
Oggi esistono alternative ai marcatori di antibiotici, e molti ritengono che gli antibiotici non dovrebbero essere usati negli Ogm commerciali (British Medical Association 1999; Acre 2000b). La Royal Society (1998) ha affermato che: «non è più accettabile che in una nuova
coltura geneticamente modificata ci siano geni resistenti agli antibiotici». Ciò nonostante non è ancora chiaro se i geni marcatori degli antibiotici si vadano ad aggiungere, in modo significativo, al rischio di resistenza causato dall’esposizione agli antibiotici utilizzati in altri punti
della catena alimentare.
I TIMORI OPPOSTI ESPRESSI DAI DIVERSI PORTATORI DI INTERESSE
Il ritmo del cambiamento nello sviluppo delle tecnologie Gm ha
provocato accese discussioni, alcune delle quali riguardano in modo
specifico i benefici e i rischi delle tecnologie Gm, altre prendono invece in esame importanti effetti indiretti, ad esempio la centralizzazione
crescente dell’agricoltura mondiale; cambiamenti strutturali nei quali
gli Ogm hanno un ruolo, senza essere necessariamente l’elemento motore. Presentiamo, di seguito, una selezione delle principali questioni
legate al dibattito:
1.Gli Ogm continueranno a favorire approcci puramente tecnologici
all’agricoltura moderna? O potrebbero anche produrre importanti
benefici ambientali e promuovere la sostenibilità?
2.Le tecnologie Gm sono essenziali per nutrire un mondo affamato, o
piuttosto la fame nel mondo è il risultato della povertà, che non permette a consumatori e produttori poveri di accedere alle moderne,
costose tecnologie?
180
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
3.La modificazione genetica rappresenta una violazione delle barriere naturali tra le specie? La presenza di sequenze genetiche comuni in specie molto differenti non indica piuttosto che tali trasferimenti sono senza conseguenze e non costituiscono una effettiva
novità?
4.Gli alimenti Ogm sono sostanzialmente equivalenti agli altri, e non
necessitano quindi di una specifica etichettatura? O piuttosto l’etichettatura è un diritto dei consumatori che permette loro di effettuare scelte informate?
5.Gli Ogm contribuiranno a consolidare maggiormente il potere delle
imprese nel sistema alimentare? Se così fosse, tale accentramento,
che si verifica a livello mondiale, è un elemento necessario e desiderabile della crescita economica?
Tutto ciò ha prodotto una grande confusione e una tendenza da parte
dei protagonisti a liquidare le preoccupazioni dei gruppi ambientalisti
o di difesa del consumatore come fuorvianti, senza rendersi conto dei
timori che si diffondono tra la gente quando gli scienziati fanno promesse riguardo nuove tecnologie (Us Senate Science Committee
2000). Allo stesso modo, gli avversari degli Ogm rigettano troppo
prontamente gli argomenti dei sostenitori, considerandoli poco equilibrati nella loro presentazione e incapaci di stimare i rischi in modo adeguato (Grove-White et al. 1997; Esrc 1999).
Un pericolo importante è costituito dalla possibilità che gli scienziati, insieme ai produttori degli alimenti, perdano ulteriormente la fiducia dei cittadini. Il dottor Frankenstein di Mary Shelley è condannato
non tanto per quel che voleva ottenere - sebbene, fosse insensato - ma
perché incapace di assumersi la responsabilità delle proprie azioni
(Shelley 1818). La creatura, chiamata erroneamente Frankenstein, non
commette violenze gratuite. Si vendica quando lo scienziato rifiuta di
creare un’altra creatura che lo aiuti a superare la sua solitudine. Tale
mancanza di responsabilità e di fiducia potrebbe danneggiare irreparabilmente la scienza dell’ingegneria genetica. Molti produttori di alimenti e venditori al dettaglio hanno messo al bando i prodotti geneticamente modificati.
Molti agricoltori sono incerti: desidererebbero avere accesso a tecnologie che possano garantire loro un vantaggio nella competizione
del mercato, ma allo stesso tempo non vogliono perdere la fiducia dei
consumatori (Royal Society 1998).
Tuttavia, molto si può fare per coinvolgere gruppi più ampi di operatori del settore in dibattiti e discussioni costruttive, e per garantire
l’adozione di un atteggiamento di precauzione nei riguardi delle nuove
tecnologie (Esrc 1999; O’Riordan 1999):
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
181
1.laddove non è possibile pervenire ad una prova scientifica di causa
ed effetto si dovrebbe procedere con la dovuta cautela;
2.quando i benefici di un’azione preventiva sono giudicati più importanti dei probabili costi di un intervento successivo, sarebbe appropriato prendere l’iniziativa e spiegare le ragioni di tale azione;
3.laddove vi è la possibilità di un danno irreversibile alle funzioni di
supporto della vita naturale, dovrebbero essere intraprese azioni
cautelative senza considerare i benefici previsti;
4.prendere in considerazione le richieste di un cambiamento di percorso, coinvolgere coloro che hanno presentato tali richieste negli adeguati luoghi di dibattito ed essere trasparenti in ogni momento;
5.non sottrarsi alla pubblicità e non cercare mai di soffocare l’informazione per quanto sgradevole possa essere. Nell’era di internet
qualcuno prima o poi scoprirà se l’informazione è stata distorta oppure occultata;
6.quando c’è una inquietudine diffusa, agire con decisione per rispondere a tale inquietudine, favorendo e sviluppando la discussione e il
confronto.
Non tutti sono concordi, tuttavia, sul valore dei dibattiti che coinvolgono un numero allargato di operatori. Lo Us Senate Science
Committee (2000) ha adottato un tono molto combattivo nel riferire
sugli Ogm negli Stati Uniti; ha liquidato gli “attivisti politici” affermando che i critici della modificazione genetica “hanno montato
campagne ben finanziate” (come se fosse disonesto il fatto che siano
ben finanziate). Ha anche dichiarato che gli Stati Uniti non dovrebbero accettare nessun accordo internazionale che faccia proprio il
principio di precauzione. È improbabile che questo continuo mancato riconoscimento da entrambi i fronti possa condurre a risultati costruttivi.
LA MODIFICAZIONE GENETICA COME UN ALTRO INGANNO
TECNOLOGICO O COME CONTRIBUTO ALLA SOSTENIBILITÀ?
Un aspetto sul quale si discute da molto tempo è quello delle potenzialità offerte dagli Ogm ad una maggiore sostenibilità in agricoltura.
La questione è complessa e dipende fondamentalmente dalle situazioni che vengono messe a confronto e dalle pratiche colturali che la tecnologia delle modificazioni genetiche andrebbe a sostituire. Ad esempio, una tecnologia Gm che consentisse un uso ridotto dei pesticidi potrebbe essere più sostenibile di un sistema convenzionale che invece
ne fa uso, ma al contempo questo sistema Gm a ridotto uso di pestici-
182
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
di, avrebbe molti punti a sfavore rispetto a un sistema biologico che
non utilizza affatto pesticidi.
Molti osservatori sostengono che la tecnologia Gm altro non è che
un ulteriore inganno tecnologico applicato all’agricoltura intensiva.
L’agricoltura moderna ha ottenuto molti successi nell’aumento della
produzione alimentare, ma ciò ha anche comportato alti costi sociali
ed ambientali (Pretty et al. 2000). Affrontare questi problemi ha spesso significato trattare i sintomi piuttosto che risolvere le questioni di
fondo (Kloppenburg e Burrows 1996; Altieri e Rosset 1999a). Riferendosi a tale processo di determinismo tecnologico, che tende a considerare i problemi risolvibili attraverso nuove tecnologie, Kloppenburg e Burrows (1996) portano l’esempio specifico delle patate geneticamente modificate contenenti una tossina contro il Colorado Beetle
(maggiolino del Colorado): «la Monsanto ha circoscritto il problema
al Colorado Beetle anziché ricondurlo alla monocoltura di patate».
Altieri (1998) solleva lo stesso problema: «Si ricorre alla biotecnologia per porre rimedio ai problemi causati dalle precedenti tecnologie
agrochimiche (resistenza ai pesticidi, inquinamento, deterioramento
del suolo) promosse dalle stesse compagnie che ora guidano la bio-rivoluzione».
La questione dell’approccio scelto, sia quello di un radicale riassetto
dell’agricoltura sia quello di una agricoltura modernista, in grado di
realizzare una sempre maggiore efficienza ambientale (cfr. MacRae et
al. 1993; Pretty 1998), non può essere risolta in questa sede, dal momento che dipende dalla definizione di “agricoltura sostenibile” e da
quanto la tecnologia Gm può essere utile alla sostenibilità (Pretty 1995
e 2000b, Altieri 1996 e 1999; Conway 1997). In quale misura gli Ogm
coltivati per uso commerciale stanno dunque contribuendo a realizzare
questa transizione verso la sostenibilità? Dobbiamo considerare quattro aspetti, tra i dati che abbiamo a disposizione: 1) la richiesta di produzioni sempre maggiori; 2) la richiesta di un uso ridotto degli insetticidi; 3) la richiesta di un uso ridotto di erbicidi, e 4) problemi secondari derivanti dalle monocolture di Ogm.
È importante notare che gli Ogm coltivati per uso commerciale non
sono simili nei risultati, nonostante la letteratura più autorevole preveda che gli Ogm aumenteranno le rese e ridurranno l’uso di sostanze agrochimiche (Us Senate Science Committee 2000). Le affermazioni espresse senza riserve dalle imprese produttrici o dalla ricerca finanziata dall’industria hanno generato ulteriori interrogativi riguardo l’efficienza delle tecnologie Gm (Gianessi e Carpenter 1999). Per ogni comunicato stampa o rapporto industriale che indica sostanziali benefici
ambientali e di raccolto, c’è un altro rapporto che individua problemi
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
183
causati dalla stessa tecnologia. È impossibile su entrambi i fronti giungere a qualsiasi conclusione definitiva.
Ricerche valide e indipendenti sono ancora lontane dall’essere eseguite e pubblicate, e soltanto di recente sono apparse indagini condotte
sul campo. Ricerche condotte nel 1999-2000 dalle Università dell’Arkansas, del Missouri, del Nebraska, dello Stato dell’Ohio, di Purdue e del Wisconsin, insieme ad alcuni rapporti del Dipartimento per
l’Agricoltura degli Stati Uniti (United States Department of Agriculture, Usda) e dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (Environmental
Protection Agency, Epa) indicano rendimenti sul campo molto diversi
tra loro, incluse alcune sorprese agronomiche (Benbrook 1999; Ers-Usda 1999a; Minor et al. 1999; National Corn Growers Association
1999; Oplinger et al. 1999; Usda 1999; Conway 2000; Elmore et al.
2001a e 2001b; Hyde et al. 2000; H.Wilson, personal communication
2000). Questa letteratura non conferma la tesi della Commissione del
Senato degli Stati Uniti (2000) secondo la quale: «in agricoltura, l’attuale generazione di piante resistenti agli infestanti e tolleranti agli
erbicidi, prodotte attraverso la biotecnologia, ha ridotto l’uso della
chimica e ha fatto aumentare le rese».
LE RESE PRODUTTIVE
È opinione condivisa che le rese, piuttosto che aumentare, risultano
in genere più basse rispetto ai raccolti delle varietà tradizionali (Elmore et al. 2001a e 2001b). Uno studio comparato ad opera dell’Università del Nebraska su soia Ht e soia tradizionale (1998-1999) ha evidenziato che la soia Ht ha reso il 6% in meno rispetto alle specie più
prossime, e l’11% in meno rispetto alla tradizionale soia ad alto rendimento. I ricercatori hanno distinto due questioni: lo “yield drag” e
cioè la riduzione di resa dovuta all’effetto di “trascinamento” nella
nuova varietà Gm di geni non desiderati, e lo “yield lag” e cioè la riduzione della resa dovuta al tipo di soia in cui il transgene è stato inserito (il potenziale produttivo delle nuove varietà non Gm può aver superato quello di una varietà Gm più vecchia). Le ricerche compiute da
Benbrook (1999) su 8.200 esperimenti universitari condotti nel 1998
ha rilevato un “yield lag” del 5-7% per le varietà Gm: «la migliore
varietà tradizionale aveva delle rese superiori in media del 10% rispetto alle simili varietà Roundup ReadyTM vendute dalle stesse compagnie di sementi».
I raccolti di cotone sembrano generalmente immutati nella maggior
parte dei casi (Ers-Usda 1999a), come pure quelli di mais (in 12 su 18
184
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
regioni), eccetto dove si è verificata una forte infestazione da baco del
mais, caso in cui i raccolti erano maggiori del 5-30% per il mais geneticamente modificato (Ers-Usda 1999b). In Missouri, tuttavia, non sono state rilevate differenze nei raccolti che hanno subito infestazioni
da piralide del mais (Minor et al. 1999), e presso l’Università di Purdue si è stabilito che gli agricoltori non traggono beneficio dall’adozione delle tecnologie Bt quando i livelli di infestazione rientrano nella media, dato che negli Stati Uniti infestazioni con conseguenze economiche significative si verificano, in genere, con la frequenza di una
ogni 4-8 anni (Hyde et al. 2000).
L’USO DI INSETTICIDI
L’uso di insetticidi sembra essere generalmente diminuito, in particolare nel caso del cotone, dove il ricorso ad insetti benefici immessi
nelle colture cresce significativamente. Molti osservatori riferiscono di
considerevoli riduzioni nel numero di irrorazioni per ettaro l’anno,
quantificabili in un taglio dell’uso nazionale di insetticida pari a
450.000 kg di principio attivo (pa). Ciò rappresenta una riduzione di
appena 0,18 kg (pa) per ettaro, o il 9% dell’applicazione media di 2,01
kg (pa) per ettaro (Ers-Usda 1999a). Tagli di simile entità, nell’uso degli insetticidi per il mais, appaiono anche meno significativi se si considerano per ettaro, con una riduzione nel 1998 di 320.000 kg (pa),
corrispondenti ad una riduzione di appena 0,04-0,08 kg (pa) per ettaro.
Gli agricoltori che usano metodi di gestione integrata degli infestanti
hanno ottenuto riduzioni molto maggiori nell’uso di insetticidi per ettaro, sia nelle regioni tropicali che in quelle temperate (Pretty 1998;
Pretty e Hine 2000).
Per quanto riguarda il mais, alcune agenzie nazionali indicano consistenti riduzioni nell’uso di insetticidi, ma il Servizio di Statistica Nazionale per l’Agricoltura dell’Usda (Usda 1999) ha rilevato che la
maggior parte dell’insetticida per il mais viene applicato in una fase
preliminare per il controllo di agrotidi ed altri insetti del suolo: «poco
è cambiato nell’uso di insetticidi, nonostante siano stati piantati milioni di acri di mais Bt negli ultimi anni».
Alcuni dati sottoposti dall’Associazione Nazionale dei Coltivatori di
Mais (1999) all’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente degli Stati
Uniti hanno dimostrato che negli Stati Uniti la porzione di colture di
mais sulle quali è stato usato insetticida contro la piralide del mais (a
cui il mais Bt dovrebbe resistere) è aumentata del 45% nei primi due
anni di uso di mais Bt (1996-1997; sebbene ciò possa in parte esser
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
185
dovuto ad una maggiore consapevolezza rispetto al problema della piralide del mais, ad una variazione nel numero di infestanti, ad un maggiore controllo).
L’USO DI ERBICIDI
Diversamente dagli insetticidi, l’uso di erbicidi sembra essere aumentato (Benbrook 1999). La soia e la colza da seme per l’estrazione
dell’olio resistenti agli erbicidi (Ht) dovrebbero comportare un uso ridotto di erbicidi. Ancora una volta, è quanto accade nei campi a determinare i rischi reali. La complessità del trattamento contro le erbe infestanti comporta che l’uso di erbicidi su queste colture sembra in aumento. Gli agricoltori hanno tre scelte: 1) lasciare che le erbe infestanti crescano in misura tale da poter essere distrutte completamente attraverso l’irrorazione di erbicida, danneggiando però i raccolti che devono, nel frattempo, lottare contro le erbe infestanti; 2) usare un erbicida prima che la pianta inizi a svilupparsi, in combinazione con un
prodotto ad ampio spettro; oppure 3) applicare il prodotto ad ampio
spettro almeno due volte. Si ha sempre più conferma che gli agricoltori stanno ricorrendo alle due ultime opzioni, e ciò significa che le colture geneticamente modificate stanno conducendo ad un maggior uso
di erbicidi. È un quadro ben diverso da quello tracciato da uno scienziato presso lo Us Senate Science Committee (2000, p.29), il quale sosteneva che l’uso di soia Roundup ReadyTM aveva «fatto risparmiare
agli agricoltori quasi 30 dollari per ettaro grazie ad una riduzione del
40% nell’uso di erbicidi, ed anche fatto aumentare la produzione grazie ad una minore lotta delle piante contro le erbe infestanti».
PROBLEMI SECONDARI
Vi sono anche problemi secondari derivanti dal passaggio esteso ad
una nuova singola tecnologia, che comporta prevalentemente nuovi
problemi agronomici per gli agricoltori e non rischi ambientali. Tali
problemi includono: (1) una sempre maggiore resistenza ai parassiti,
(2) una trasformazione delle erbe infestanti (l’emergere di tolleranza al
glifosato tra le specie di erbe infestanti), (3) problemi di trasformazione di altri agenti infestanti, e (4) colture spontanee che creano problemi nella rotazione (Bachelor 2000). Questi problemi agronomici peggiorano quando gli agricoltori ripetono le stesse rotazioni colturali e utilizzano gli stessi erbicidi, anno dopo anno.
186
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
LA MODIFICAZIONE GENETICA COME STRUMENTO
DEL POTERE DELLE IMPRESE PRODUTTRICI DI OGM
O COME ALLEATO DEGLI AGRICOLTORI?
Un altro aspetto molto discusso riguarda il rapido cambiamento
strutturale dell’agricoltura mondiale, in special modo l’integrazione
verticale delle grandi imprese, e il crescente fenomeno della concentrazione ad ogni stadio della catena alimentare. Nell’ambito dell’agricoltura mondiale ci sono sempre meno fornitori, aziende agricole, mulini, macelli, aziende di imballaggio, e sempre meno aziende di trasformazione. Tale integrazione verticale rappresenta per molti una
preoccupazione. La Commissione per le Comunità Europee della Camera dei Lords britannica (1998) ha affermato: «Vi è il timore, condiviso da agricoltori, osservatori e da noi stessi, che il potere di poche
compagnie agrochimiche e di sementi - già enorme - cresca ulteriormente nell’ambito della produzione (sviluppo e coltivazione) di colture geneticamente modificate».
Poiché gli Ogm vengono immessi in commercio dalle stesse grandi
compagnie, vi è molto interesse nel verificare come si svilupperà la
questione dei diritti di proprietà e, in conseguenza, dei rapporti di potere (Hubbel e Welsh 1998; Herdt 1999). Bisogna chiedersi in che misura gli interessi privati sono finalizzati soltanto al profitto degli azionisti, o se, invece, gli stessi azionisti sono disposti a collaborare con agricoltori di tutti i tipi, sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via
di sviluppo.
Una questione primaria è relativa a chi riceve (o possiede) i benefici
della nuova tecnologia. La legge sui brevetti è di importanza vitale,
poiché tratta i geni e l’ingegneria genetica alla pari di qualsiasi altra
invenzione. In Europa, un’invenzione per poter essere brevettata, secondo le norme della Convenzione Europea, deve essere “nuova”,
“non ovvia”, “adatta all’applicazione industriale”, e “soggetto brevettabile”. Per essere considerata “nuova” un’invenzione deve rappresentare qualcosa di nuovo nell’ambito della conoscenza attuale: una nuova tecnica di isolamento di un gene risponde a tale requisito, così come un gene isolato che presenta nuove caratteristiche. Un gene di un
organismo umano, no. È possibile comunque brevettare un gene sintetizzato artificialmente o la replica delle informazioni genetiche contenute nel gene. Non si tratta del gene originale, ma di qualcosa che ne
costituisce una buona copia.
Anche la Convenzione Internazionale sulla Diversità Biologica (International Convention on Biological Diversity, Cbd) riveste un ruolo
importante. Entrata in vigore il 29 dicembre 1993, ha tre obiettivi di-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
187
chiarati: la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile
dei suoi componenti, e la giusta ed equa condivisione dei proventi
derivanti dalle risorse genetiche. Le risorse genetiche delle piante
hanno un notevole valore economico, costituendo i mattoni dell’industria biotecnologica. Tuttavia, è difficile attribuire una “proprietà”
quando tanti geni interagiscono in modo molto complesso per esprimere delle caratteristiche. Ad esempio, la varietà convenzionale del
grano, Veery, è stata il prodotto di 3.170 incroci differenti che hanno
coinvolto piante originarie da 26 paesi. Sotto il controllo del Cbd, il
paese di origine, nonché legittimo possessore della risorsa fitogenetica, viene legalmente definito come il primo a poter rivendicare la
proprietà, ma è molto difficile attribuire con chiarezza la proprietà
quando una varietà proviene da fonti così diversificate (Fowler e
Mooney 1990).
Nell’ambito delle aziende agricole un uso ridotto di insetticidi, unito
ad un incremento della produzione, dovrebbe significare maggiori benefici per gli agricoltori. Le compagnie, tuttavia, impongono un costo
tecnologico (che grava sul costo delle sementi) e, ad oggi, questo sembra assorbire gran parte o l’intero margine in certi sistemi (tab. 2). Tuttavia, se gli Ogm non apportano i benefici promessi agli agricoltori, i
rapporti tra gli agricoltori e le industrie possono iniziare ad incrinarsi.
Nel 1998, 55 agricoltori del Mississippi si sono rivolti al Ministero per
l’Agricoltura e al Consiglio Arbitrale del Commercio in quanto il loro
cotone Gm aveva fornito raccolti scarsi o era stato del tutto improduttivo. Molti hanno raggiunto un accordo anziché procedere in giudizio;
tre di loro sono stati risarciti per un danno di 1,9 milioni di dollari. Nel
1999, 200 coltivatori di cotone della Georgia, della Florida e del Nord
Carolina intrapresero una battaglia legale con la Monsanto dopo un
raccolto disastroso di cotone Bt e Ht.
Qualcosa, tuttavia, fa pensare che alcune grandi compagnie stiano
prendendo una nuova strada nello sviluppo di meccanismi di distribuzione dei profitti. Un accordo innovativo tra AstraZeneca (ora Syngenta) e gli inventori del riso arricchito di vitamina A (golden rice, Potrykus, 1999) permetterà agli agricoltori dei paesi in via di sviluppo di
guadagnare fino a 10.000 dollari senza pagare diritti. Ciò consentirà
alla compagnia di commercializzare il riso, e al contempo questo viene fornito gratis ai piccoli coltivatori. Restano tuttavia molte controversie riguardo il “golden rice”: ci si chiede se la mancanza di vitamina A non possa essere meglio risolta attraverso una dieta diversificata
e se la resistenza culturale al consumo del “riso arancione” non possa
essere superata.
Un altro esempio è costituito dalla tecnica di selezione PositechTM,
188
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
un’alternativa ai marcartori di resistenza agli antibiotici, sviluppata
da Novartis (anche lei ora Syngenta) ad un costo di 10 milioni di
dollari americani. La compagnia ha annunciato che introdurrà PositechTM sul mercato attraverso un sistema differenziato di costi che
prevede il pagamento dei diritti solo per gli usi commerciali, garantendo libero accesso a coloro che sviluppano tecnologia per l’agricoltura di sussistenza. Tuttavia ciò può anche significare che i ricercatori del settore pubblico, che non si occupano di agricoltura di sussistenza, si trovino a dover rinunciare a tali tecnologie a causa dei
costi troppo elevati.
LA MODIFICAZIONE GENETICA COME SOLUZIONE
DEL PROBLEMA DELLA FAME NEL MONDO
O FRENO ALLO SVILUPPO DI POSSIBILI ALTERNATIVE
Oggetto di un altro acceso dibattito è l’eventuale possibilità offerta
dalle colture geneticamente modificate di sconfiggere la fame nel
mondo. Alcuni affermano enfaticamente che ciò è realizzabile, evocando magari lo spettro della carestia come giustificazione per ricevere aiuti e finanziare le tecnologie Gm nel loro complesso (cfr. McGloughlin 1999). Ma tali tecnologie sono in grado di contribuire ad alimentare il mondo solo se si presta attenzione ai processi di sviluppo
tecnologico, alla condivisione dei profitti, ed in particolare a metodi
di produzione alternativi o meno costosi. La maggior parte degli osservatori sono concordi nell’affermare che la produzione alimentare
dovrà aumentare, e che questa dovrà scaturire dalle terre coltivate già
esistenti. Tuttavia, alcuni approcci del passato al moderno sviluppo agricolo non hanno avuto sufficiente successo in molte parti del mondo. In Africa, per esempio, la produzione di cibo pro capite è scesa di
circa il 20% a partire dalla metà degli anni ‘60. A livello globale, il
mondo produce abbastanza cibo per nutrire tutti con una dieta nutriente ed adeguata (circa 354 kg di cereali pro capite l’anno), tuttavia
vi sono ancora 790 milioni di persone a rischio di denutrizione. (Pinstrup-Andersen et al. 1999; Fao 2000; Smil 2000; Pretty e Hine
2001).
Nella maggior parte dei casi le persone hanno fame perché sono povere, semplicemente non possiedono il denaro per acquistare il cibo di
cui hanno bisogno. Gli agricoltori più poveri (e i paesi più poveri) non
possono permettersi tecnologie “moderne” e costose, che teoricamente
potrebbero far aumentare i loro raccolti. Ciò di cui hanno bisogno sono mezzi economici immediatamente disponibili per poter aumentare
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
189
TABELLA 2
Confronto dei costi fra cotone Gm e cotone tradizionale in Nord Carolina, 1999
COTONE
GM
COTONE
TRADIZIONALE
Danno complessivo delle capsule globose (%)
4,47%
5,25%
Danno da baco della capsula globosa
1,61%
3,93%
Danno da Hemiptera Pentatomidae
2,58%
0,61%
Uso di insetticidi (applicazioni)
0,75
2,53
Costi totali per gli agricoltori (Us $/ per ettaro)
67,40
61,90
Costi tecnologici per le compagnie
47,30
0,00
Per insetticidi
13,90
46,90
Cotone disperso e spese di controllo
6,00
15,00
la produttività (Altieri e Rosset 1999a e 1999b). Pertanto una coltura
di cereali modificata affinché abbia alle radici batteri in grado di fissare l’azoto libero nell’aria, o un’altra con apomissi, rappresenterebbe
un enorme beneficio per gli agricoltori poveri ma, a meno che questa
tecnologia non abbia costi contenuti, è improbabile che diventi accessibile alle persone che più ne hanno bisogno.
L’agricoltura sostenibile è ora un’opzione sempre più praticabile per
gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo (Pretty 1995; Altieri 1996;
Conway 1997; Rosset 1999; Pretty e Hine 2000). Essa integra processi
agro-ecologici - come il rinnovamento ciclico delle sostanze nutritive
del terreno, la fissazione dell’azoto, la rigenerazione del suolo e i nemici naturali dei parassiti - nei processi di produzione alimentare, e riduce al minimo l’uso di sostanze (pesticidi e fertilizzanti) che danneggiano l’ambiente o minacciano la salute degli agricoltori e dei consumatori. L’agricoltura sostenibile fa un uso migliore delle competenze e
delle abilità dei coltivatori, aumentandone l’autonomia e le capacità. È
notevole che la migliore conferma di tale successo venga da molti
paesi poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina (Pretty
2000c; Pretty e Hine 2000 e 2001). Le tecnologie e le pratiche rigenerative possono essere vantaggiose sia per gli agricoltori che per gli
ambienti rurali, in particolare quando vi è la certezza che si otterrà il
miglioramento delle risorse naturali. Tale evidenza suggerisce che
possono verificarsi sostanziali incrementi nella produzione alimentare,
attraverso uno o più di questi quattro meccanismi:
190
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
1.intensificazione di un singolo componente di un sistema aziendale
(con pochi cambiamenti nelle restanti attività aziendali); come l’intensificazione di colture ortive con alberi da frutta e verdure, con
ortaggi a margine delle coltivazioni di riso, e l’introduzione di allevamenti ittici o di mucche da latte;
2.introduzione di un nuovo elemento produttivo in un sistema aziendale, come pesce o gamberetti nelle risaie, o selvicolture, che incrementa la produzione alimentare complessiva dell’azienda e non influenza necessariamente la produttività dei cereali;
3.uso migliore del capitale naturale per incrementare la produzione aziendale complessiva, specialmente l’acqua (attraverso la raccolta
delle acque e la pianificazione dell’irrigazione) e la terra (attraverso
il recupero dei terreni degradati), ottenendo la possibilità di introdurre nuove colture sui terreni recuperati e maggiore disponibilità
di acqua per l’irrigazione;
4.incrementi per ettaro nei raccolti dei prodotti primari, attraverso
l’introduzione di nuovi elementi rigenerativi nei sistemi aziendali
(ad esempio legumi, lotta integrata ai parassiti) o attraverso l’introduzione di nuove varietà di colture e di specie animali, localmente
appropriate. Nonostante lo svantaggio iniziale, questi incrementi
nei raccolti sono maggiori nei sistemi che beneficiano della pioggia
piuttosto che in quelli irrigati artificialmente. Nel primo caso, si
hanno incrementi tipici che variano dal 50 al 100%, fino al 200%
(raccolti triplicati) in alcune circostanze, mentre nel secondo caso
gli aumenti oscillano tra il 5 e il 10 %, fino al 30%.
Dove non vi sono alternative, le tecnologie Gm possono rappresentare opzioni nuove ed efficaci (Cgiar 2000; Royal Society et al. 2000;
Winrock International 2000). Se la ricerca viene condotta da organismi pubblici, come Università o Organizzazioni non governative il
cui interesse è volto al bene comune, allora la biotecnologia potrebbe
tradursi nella diffusione di tecnologie che apportano immensi benefici. La ricerca attuale include studi su: lo sviluppo di manioca, patate,
patate dolci e mais resistenti ai virus; la micropropagazione di alberi
multifunzionali; banane resistenti ai nematodi; miglio perla termoresistente e tollerante alla siccità; resistenza ai virus e ai nematodi nel
riso; mais Striga resistente e grano resistente ai parassiti (Tanksley e
McCouch 1997; Dfid 1998; Isaa 2000).
Un esempio è rappresentato dal virus del riso giallo screziato, uno
tra i principali fattori limitanti la produzione africana di riso, che causa la riduzione dei raccolti solitamente del 50-95% (Pinto et al.
1998). Non è stato possibile introdurre varietà locali resistenti attraverso selezioni tradizionali, ma l’ingegneria genetica ha portato allo
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
191
sviluppo di nuove varietà resistenti. Queste sono state testate in cinque paesi, con il risultato di una completa resistenza al virus.
Un altro esempio è la tolleranza alla salinità. Sembra che la salinità del suolo danneggi circa 340 milioni di ettari in tutto il mondo.
È noto che alcune piante producono e accumulano soluti osmoprotettivi (glicinabetamina, mannitolo, trealoso e prolina); questi soluti,
non tossici, si possono accumulare fino a livelli osmoticamente significativi per creare una protezione contro alte concentrazioni di sale nel suolo. Introduzioni di singoli geni hanno portato a modeste
concentrazioni di soluti, ma per avere successo sarà necessaria una
codifica di geni multipla, per sequenze metaboliche interamente
nuove (Royal Society et al. 2000). Ulteriori applicazioni Gm potrebbero migliorare i raccolti nei paesi in via di sviluppo: rimuovendo o
permettendo di tollerare uno stress (ad esempio il riso in grado di
tollerare una prolungata immersione); permettendo la coltivazione di
suoli difficili (come quelli con tossicità di alluminio); o dando un
impulso al raccolto (geni derivanti dal riso selvatico in varietà ibride
ottenute in laboratorio hanno fatto crescere i raccolti del 20-40%;
Conway 1997).
Tuttavia, nuove minacce possono ancora mettere in pericolo i mezzi di sussistenza degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo. Colture
transgeniche tropicali come la canna da zucchero, l’olio di palma, le
noci di cocco, la vaniglia e il cacao potrebbero essere coltivate ovunque con un’adeguata modificazione genetica. Altre colture possono
essere modificate per sostituire i prodotti tropicali: la colza da seme
per l’estrazione dell’olio, ad esempio, potrebbe essere usata per produrre acido laurico per la produzione del sapone, mettendo fuori gioco i produttori di olio di palma in Malesia e nel Ghana.
NUOVE DIRETTIVE POLITICHE
Gli Ogm non rappresentano una singola omogenea tecnologia. Ogni applicazione apporta potenziali benefici e rischi diversi per i differenti portatori di interesse. I legislatori, pertanto, si trovano ad affrontare sfide particolari in vista di applicazioni tecnologiche in così
rapido sviluppo. Nell’Unione Europea la diffusione di Ogm è stata
regolata per dieci anni dalla Direttiva 90/220; dopo lunghi negoziati
quest’ultima è stata modificata, armonizzata e resa più rigorosa, ed è
entrata in vigore dall’inizio del 2001. La Direttiva 2001/18/Ce stabilisce delle condizioni per la verifica scientifica dei rischi relativi all’immissione nell’ambiente di Ogm sperimentali e commerciali, co-
192
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
me pure i protocolli per rigorosi monitoraggi successivi all’immissione.
La novità di questa politica che si va affermando si basa sul fatto
che la valutazione di rischio è sempre più orientata verso il bisogno di
comprendere gli effetti delle tecnologie sul campo e in azienda. Fino
ad oggi, l’approccio generale in agricoltura è stato quello di stabilire
rigorose procedure di valutazione di rischio precedenti alla coltivazione, e quindi presumere che gli agricoltori si impegnino in una
“corretta pratica agricola”.
Molto del danno arrecato all’ambiente si verifica quando le tecnologie - pesticidi, fertilizzanti o macchinari - non sono usate rispettando i criteri imposti dai legislatori. Tuttavia, l’attuale valutazione degli
Ogm, prevede nuove condizioni per stimare gli effetti delle diverse
pratiche aziendali sugli Ogm stessi e per stimare il ruolo di tali interazioni per ottenere impatti ambientali positivi, come l’integrità della
biodiversità locale. Ciò potrebbe produrre un importante effetto sulle
interazioni agricoltura-ambiente anche per quella parte dei sistemi agricoli che non utilizza Gm.
Tuttavia, i nuovi standard per la legislazione non sono ancora diffusi. La sfida che i paesi in via di sviluppo si trovano ad affrontare è
quella di trovare soluzioni per incrementare la capacità scientifica e
legislativa di controllo allo scopo di riuscire a valutare gli effetti della
moderna tecnologia agricola sull’ambiente. La Convenzione sulla Diversità Biologica stabilisce un ampio sistema di riferimento per la valutazione degli effetti, e ci si sta adoperando per rendere esecutivo
l’accordo del gennaio 2000, stretto tra 130 paesi, per l’adozione del
principio di precauzione quale base per un Protocollo internazionale
di bio-sicurezza (Juma e Gupta 1999). Il nucleo centrale potrebbe essere costituito da una procedura che prevede l’obbligo di notificare
l’intenzione di trasferire Ogm oltre confine e di attendere il consenso,
benché un gruppo di nazioni esportatrici di prodotti agricoli sostenga
ancora che le derrate agricole dovrebbero essere escluse da tale procedura.
Che si raggiungano o meno tali accordi internazionali, la priorità
assoluta rimane quella di trovare il modo per facilitare la formazione
di competenze legali e scientifiche all’interno dei singoli paesi, affinché possano essere stabiliti protocolli per la bio-sicurezza degli Ogm
(Pinstrup-Andersen 1999). Tale struttura politica generale dovrà tutelare i diritti sulla proprietà intellettuale, salvaguardare l’ambiente e la
salute, regolare il settore privato attraverso opportune istituzioni antitrust se si vuole che i paesi in via di sviluppo traggano un beneficio
significativo dalle tecnologie Gm.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
193
CONCLUSIONI
Il ritmo del cambiamento nella biotecnologia agricola pone importanti sfide sia per quanto riguarda la valutazione dei rischi e dei benefici, che per lo sviluppo di efficaci politiche di prevenzione dei rischi.
I risultati della ricerca sul campo suggeriscono che alcuni Ogm offrono opportunità per miglioramenti ambientali, sebbene alcuni effetti indiretti possano limitarli o persino condurre al verificarsi di problemi
imprevisti. Ciò implica, necessariamente, che ciascuna applicazione agricola della modificazione genetica debba essere valutata singolarmente sulla base di una comprensione adeguata dell’ambiente che la
accoglie, se si vuole trarre il meglio da queste tecnologie emergenti.
Tutto questo ha importanti conseguenze per le politiche agricole.
Sommario
A partire dal 1995, si è verificata una rapida espansione nella coltivazione commerciale delle colture geneticamente modificate, che hanno raggiunto, nel 2000, i 44,5 milioni di ettari coltivati in tutto il mondo, la maggior parte dei quali nell’America Settentrionale. Sebbene vi siano opinioni divergenti riguardo i rischi e i benefici, la modificazione genetica non rappresenta una tecnologia unica ed omogenea. Ogni applicazione scientifica porta con sé differenti benefici e rischi potenziali per i diversi attori
coinvolti. Il presente articolo passa in rassegna il recente progresso scientifico e le future applicazioni, basandosi su una nuova tipologia di tre generazioni di organismi
geneticamente modificati (Ogm), messi a confronto con cinque tipi di applicazioni
scientifiche. Gli Ogm in agricoltura pongono una serie di potenziali rischi ambientali
e sanitari. Una recente analisi, indipendente, condotta sugli studi scientifici realizzati
nei Paesi industrializzati sintetizza lo stato delle conoscenze attuali per sette tipi di rischio applicabili a tutti i sistemi agricoli: 1) flusso orizzontale di geni; 2) nuove forme
di resistenza e problemi legati agli infestanti; 3) ricombinazione che produce nuovi patogeni; 4) effetti diretti e indiretti delle nuove tossine; 5) perdita di bio-diversità dovuta ai cambiamenti nelle pratiche di coltivazione; 6) reazioni allergiche e immunitarie;
7) segnalazione genetica di resistenza agli antibiotici. I diversi portatori di interesse
(stakeholders) del settore hanno opinioni molto differenti riguardo agli Ogm.
Una rassegna di tre dibattiti presenta posizioni contrapposte sulla manipolazione
genetica intesa come: 1) inganno tecnologico o contributo alla sostenibilità; 2) strumento del potere delle imprese produttrici di Ogm o alleato degli agricoltori; 3) soluzione del problema della fame nel mondo o freno allo sviluppo di possibili alternative.
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200
Le modificazioni genetiche: rischi e benefici
L’azione multilaterale
contro la fame nel mondo
Piero Conforti
INTRODUZIONE
Il dibattito sulla sicurezza alimentare, su tempi, modi, risorse e politiche da porre in atto ad aumentarne il grado si svolge oggi e si è svolto spesso sul confine di una serie di grandi questioni sociali, economiche e politiche. Occuparsi del modo in cui i più poveri del pianeta possano essere posti in condizione di procacciarsi cibo sano e sufficiente
a condurre una vita dignitosa - le definizioni di sicurezza alimentare
più comunemente adottate suonano all’incirca così - implica, infatti,
occuparsi non solo della povertà e dello sviluppo, ma anche della globalizzazione e del suo effetto sulla distribuzione internazionale del
reddito.
Molti di questi grandi temi furono al centro dell’attenzione quando,
nel novembre del 1996 la Fao promosse, di concerto con i suoi paesi
membri, un Vertice, in cui i capi di Stato e di Governo di 185 paesi si
riunirono a Roma con l’obiettivo di rilanciare la lotta su scala planetaria alla fame ed alla denutrizione. Gli stessi temi sono stati recentemente riproposti, a cinque anni di distanza, nell’occasione di un nuovo
vertice, al cui titolo è stata aggiunta la locuzione “Cinque Anni Dopo”.
L’evento del 1996 fu preceduto da un consistente lavoro preparatorio, raccolto in una dozzina di Technical Papers sulla cui base venne
formulato un Piano d’Azione, costituito da sette obiettivi principali, a
loro volta articolati in numerosi punti specifici. Tale Piano si articolava in impegni (commitments) per i paesi membri dell’organizzazione,
che piuttosto esaustivamente focalizzavano l’attenzione su tutti gli aspetti del problema: progresso tecnico e suoi effetti sociali, relazioni
commerciali fra paesi a diverso livello di reddito, ruolo dell’agricoltura e del coordinamento delle politiche agricole nello sviluppo, soPiero Conforti è ricercatore dell’Inea (Istituto Nazionale di Economia Agraria), Roma.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
201
stenibilità delle tecnologie e dei processi di crescita, biodiversità,
cooperazione internazionale, assetto istituzionale interno e degli organismi sopranazionali, e via dicendo. Fra quei commitments figurava,
non senza enfasi, quello di mantenere sotto stretto controllo le attività
bilaterali e multilaterali rivolte a lottare la fame e l’insicurezza alimentare, in vista del raggiungimento dell’obiettivo ultimo: ridurre del
50% il numero di individui che soffrono di denutrizione cronica entro
il 2015.
Questo obiettivo di fondo non mancò di suscitare polemiche, essendo giudicato fin troppo modesto da alcuni dei protagonisti del vertice:
che senso ha, si osservava, puntare a ridurre della metà qualcosa di
moralmente esecrabile, che non dovrebbe esistere per nulla? Ma la
formulazione dell’obiettivo può essere criticata anche dal versante opposto, quello della concretezza, chiedendosi quanto sia sensato affidare ad un indicatore di risultato, puntuale sì, ma anche instabile e di non
facile né univoca misura, un giudizio sul successo di un insieme di azioni tanto vasto. È chiaro, tuttavia, che l’obiettivo venne soprattutto
utilizzato come sveglia per le coscienze: un richiamo all’esercito di
denutriti che popola il pianeta al fine di stimolare i governi, i loro contribuenti e la società civile a promuovere azioni più incisive in questo
campo.
E cosa ne è stato degli impegni che a partire da un raggio d’azione
così vasto sono stati ricompresi nel Piano d’Azione del 1996? Lungo
gli anni trascorsi da allora, il monitoraggio delle attività dei paesi
membri che ricadono nell’ambito del Piano di Azione si è svolto in
seno al Comitato Sicurezza Alimentare della Fao; e il bilancio che ne
emerge non si presenta particolarmente brillante. Nonostante l’impegno profuso da molti governi e organizzazioni che in questi anni hanno proseguito la loro azione a livello nazionale ed internazionale, il
varo del Piano d’Azione del 1996 non pare aver influito apprezzabilmente sul corso degli eventi. La prova può trovarsi, da un lato, nel
fatto che è continuata la riduzione del peso percentuale degli aiuti destinati dai maggiori paesi donatori agli interventi per la sicurezza alimentare: secondo la Fao nell’ultimo decennio si è avuto un calo prossimo al 30%. A rigore ciò potrebbe non essere indicativo, se grandi
sforzi fossero stati prodotti per migliorare l’efficacia dei fondi spesi;
ma le relazioni del Comitato Sicurezza Alimentare non lasciano intravedere né grandi innovazioni organizzative, né altri elementi di cambiamento che potrebbero aver influito tanto significativamente sulla
qualità dello sforzo da compensare la riduzione quantitativa dell’impegno.
E d’altro canto la Fao stima che globalmente il numero di individui
202
L’azione multilaterale contro la fame nel mondo
che soffrono di problemi di denutrizione è diminuito di circa 6 milioni
di individui all’anno. Un progresso insufficiente, se si pensa che per
centrare l’obiettivo fissato nel 1996 il tasso di riduzione necessario dovrebbe raggiungere i 22 milioni di individui per anno.
Il 2001 era indicato come momento di verifica già nel percorso individuato nel 1996; ma il previsto Vertice Cinque Anni Dopo, programmato per il novembre, ha dovuto attendere - a seguito dell’incertezza
generata dagli attentati di settembre - fino al giugno 2002. Dato il quadro in cui si svolgeva il follow-up, è chiaro che il senso dell’appuntamento romano era quello di cercare di responsabilizzare sia l’opinione
pubblica internazionale che i “grandi della terra”, ottenendone un impegno più concreto di quello che ha caratterizzato i cinque anni passati. Nelle stesse parole del Direttore Generale della Fao Jacques Diouf,
il nuovo Vertice doveva servire a ridare slancio agli sforzi globali nella
lotta alla denutrizione cronica, ed a promuovere la indispensabile mobilitazione di risorse politiche e finanziarie per questo scopo.
All’indomani di quell’evento può essere utile tentarne un primo bilancio. La dichiarazione finale del Vertice Cinque Anni Dopo si limita sostanzialmente a ribadire gli obiettivi già formulati nel 1996, indicando la necessità di condurre un’azione più incisiva, e di accelerare i tempi per il raggiungimento degli obiettivi fissati, ma senza stabilire con precisione in quale direzioni muoversi. È stata varata, fra
le novità, un’attività di formulazione di una serie di Linee Guida per
l’implementazione del Piano di Azione, una dicitura che, probabilmente, molti paesi potranno essere inclini a sottoscrivere, ma che potrebbe anche consentire loro di proseguire ognuno per la sua strada,
all’incirca come avvenuto fino ad oggi. La Fao aveva anche formulato un Anti-Hunger Programme, un insieme di misure attraverso cui
raggiungere l’obiettivo fissato nel 1996 con una spesa complessiva di
24 miliardi di dollari; tuttavia, di questa iniziativa non c’è alcuna
traccia esplicita nella dichiarazione finale sottoscritta dai paesi partecipanti.
L’Italia, da paese ospite dell’iniziativa, ha promosso con l’occasione un qualche sforzo concreto: l’annullamento del debito del Mozambico e la promessa di raggiungere la quota dell’1% del prodotto interno lordo in aiuti allo sviluppo vanno a sommarsi ad un contribuito
consistente - previsto complessivamente in 100 milioni di Euro - al
neonato Fao Trust Fund for Food Security and Food Safety, istituito
per finanziare progetti mirati ad influire su alcuni dei principali problemi indicati del Piano d’Azione del 1996 come cause di insicurezza
alimentare. Scopo specifico di questo fondo è, pertanto, contribuire
ad accelerare il raggiungimento degli obiettivi del Summit del 1996;
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
203
esso si alimenta di contributi dei paesi membri, e finanzia progetti
proposti dagli stessi paesi membri, scelti sulla base di valutazioni comuni.
Tuttavia, l’Italia è rimasta fra i pochi paesi a contribuire in misura
sostanziale e questa iniziativa. I maggiori contribuenti a quello che
l’Ocse chiama Aiuto Ufficiale per lo Sviluppo (Official Development
Assistance) non hanno mostrato di voler cogliere l’occasione del Vertice per aumentare il loro impegno nel campo di azione della Fao. Ed
anche l’obiettivo indicato nella Dichiarazione finale, di dedicare alla
cooperazione per lo sviluppo lo 0,7% del Prodotto Nazionale Lordo,
appare lontano dallo 0,13% e dallo 0,39% indicati come obiettivi rispettivamente dagli Usa e dalla Ue, i due maggiori paesi donatori.
Per comprendere le ragioni di quanto accaduto al Vertice Cinque Anni Dopo, può essere utile cercare di porre in luce almeno alcune delle
differenze di approccio emerse fra i paesi che vi hanno partecipato, in
particolare rispetto ad alcune delle grandi questioni, che l’azione a favore della sicurezza alimentare chiama in causa. Almeno due temi di
ordine molto generale si possono citare, infatti, attorno ai quali la diversità di approccio fra è maggiormente evidente. Il primo riguarda il
rapporto fra l’integrazione commerciale, le sue regole - alla lunga uno
dei pochi elementi di governo del processo di globalizzazione - e il
suo effetto sulla povertà e la denutrizione. Il secondo riguarda l’effetto
del progresso tecnico sulla povertà e l’insicurezza alimentare. Si tratta,
a ben vedere, di due facce della stessa medaglia, poiché è chiaro che la
distribuzione dei benefici del progresso tecnico dipende anche dal modo in cui è disciplinata l’integrazione economica fra i paesi, che tuttavia può essere utile mantenere qui logicamente distinte.
La generalità delle due questioni è tale da sconsigliare posizioni di
principio, nonostante il dibattito intenso, e a tratti drammatico che esse
vanno animando: basti pensare a quanto avvenuto in occasione della
riunione dell’Omc di Seattle nel 1999, o al meeting del G8 a Genova
nel 2001, o agli strali lanciati in proposito dal Forum sulla Sovranità
Alimentare, svoltosi, come già accadde nel 1996, a poche centinaia di
metri dai capi di Stato e di Governo riuniti alla Fao. Se è vero, infatti,
che non si può mettere in dubbio che l’insicurezza alimentare possa
essere ridotta da una “efficace” cornice di regole commerciali, o da una “efficace” regolazione della distribuzione dei benefici del progresso tecnico, è pur vero - al di là del frasario delle dichiarazioni ufficiali
in cui i contrasti sono composti in frasi accettabili per i più - che è sulla qualificazione di quelle caratteristiche di efficacia delle regole che
emergono le differenze, e che fioccano le accuse reciproche fra i paesi.
È noto che lungo gli ultimi due decenni l’agricoltura è stata al centro
204
L’azione multilaterale contro la fame nel mondo
di un processo senza precedenti di revisione delle politiche interne
nell’ambito del Gatt prima e dell’Omc poi. E che, grazie a quel processo, la maggior parte dei paesi dell’Ocse ha gradualmente messo in
discussione una politica agraria utilizzata per oltre mezzo secolo, sostanzialmente basata sul sostegno dei prezzi interni e sulla protezione
doganale. Il tema è stato al centro di uno scambio di accuse, sia pure
addolcito dal cortese linguaggio ufficiale. Alcuni dei partecipanti al
Vertice di Roma, per esempio i Presidenti del Sud Africa e dell’Uganda, non hanno esitato a indicare il protezionismo agricolo che riduce
l’accesso ad alcuni dei maggiori mercati del mondo - quelli degli Usa,
della Ue e del Giappone, ma anche dell’India e della Cina - come una
delle cause prime dell’insicurezza alimentare degli abitanti delle zone
rurali dei paesi poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.
Dal canto suo, la Ue, per bocca del Presidente Prodi, ha additato con
preoccupazione il nuovo corso della politica agraria statunitense - varato con il recente Farm Security Act - che promuove un incremento
del sostegno assicurato agli agricoltori. Mentre gli Usa, attraverso il
Ministro federale dell’Agricoltura, hanno ribadito la loro convinta adesione alla causa della liberalizzazione del commercio agricolo, strumento primo di lotta alla povertà e all’insicurezza alimentare, osservando anche che gli aiuti interni previsti dal recente Bill agricolo sono
in linea con l’attuale politica, e per loro natura assai poco distorsivi
del commercio internazionale, quindi compatibili con le regole dell’Omc.
L’impressione che se ne trae è che, quando dal terreno dei principi e
delle dichiarazioni si passa a discutere di come concretamente ci si sta
comportando su quei grandi temi che la sicurezza alimentare chiama
in causa, il disaccordo fra gli attori principali aumenti considerevolmente, ed emergano conflitti di non facile mediazione, che pongono in
seria difficoltà il coordinamento multilaterale dell’intervento degli
Stati nazionali.
D’altra parte, non poche fra queste diversità di approccio sono riconducibili a specifici gruppi di interesse, più che ai paesi nel loro
complesso. Ad esempio, è facile vedere che nella Ue gli effetti di alcune delle iniziative correttamente citate al Vertice come testimonianze
dell’impegno a favore della sicurezza alimentare nei paesi poveri possono generare conflitti interni. Fra queste si annoverano l’accordo Everything but Arms (Eba) da un lato, e la politica di cooperazione e associazione svolta nell’area del Mediterraneo e con la Convenzione di
Lomé, dall’altro. È noto che l’approfondirsi di queste linee della politica estera dell’Ue può determinare difficoltà non marginali per gli agricoltori europei che fino ad oggi sono stati, sia pure in misura par-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
205
ziale, posti al riparo dalla concorrenza di quei paesi, e che dovranno
riguadagnare - come stanno già in parte facendo - spazi di competitività, tipicamente attraverso la differenziazione qualitativa. Mentre
quelle stesse linee di politica estera, potrebbero, invece, costituire un
elemento di apertura dei mercati di sbocco per l’industria manifatturiera. Sebbene questo sia solo un esempio, non sembra un caso che a
tenere vivo il dibattito sui citati grandi temi siano state negli ultimi anni le organizzazioni della società civile più che le rappresentanze governative.
Tuttavia, le rappresentanze delle organizzazioni non governative riunite nel parallelo Forum sulla Sovranità Alimentare non paiono essere
riuscite a partorire una prospettiva più concreta. In questo caso la dichiarazione finale uscita dall’incontro contiene una Action Agenda estremamente decisa nell’additare le regole dell’Omc e l’approccio delle istituzioni di Bretton Woods come responsabili della fame del mondo. Colpiscono, tuttavia, altri due elementi del documento. In primo
luogo, al di là del rigetto di un approccio globalmente - e un po’ superficialmente - bollato come neo-liberal, molti degli obiettivi più specifici non sono granché dissimili da quelli del Piano d’Azione del Vertice ufficiale del 1996, oggi ribaditi. In secondo luogo, va rilevato che
molte delle indicazioni positive contenute nell’Action Agenda suonano
piuttosto vaghe: come si fa, ci si potrebbe chiedere ad esempio, ad assicurare quei “prezzi equi” o quella “genuina azione redistributiva”, o
quel “sostegno alle attività produttive delle famiglie e delle comunità”
di cui si parla?
Venendo, invece, al tema del progresso tecnico e della sua interazione con la sicurezza alimentare, questo è stato indicato con forza, in
particolare dagli Usa, come uno degli elementi in grado di sostenere la
lotta alla fame nelle aree rurali del terzo mondo, intendendo per progresso tecnico soprattutto le applicazioni biotecnologiche per l’agricoltura, capaci di migliorare la produttività riducendo il consumo di agenti inquinanti come i pesticidi. La questione ha contribuito a rinfocolare una polemica già in corso fra Usa e Ue, nonché con alcuni dei
rappresentanti dei paesi in via di sviluppo; sul tema si è espresso vivacemente anche il parallelo Forum sulla Sovranità Alimentare.
Da parte europea, sebbene non siano poche le divisioni interne - è
noto, in proposito che sia la Spagna che, soprattutto, il Regno Unito
hanno posizioni relativamente più possibiliste rispetto a quelle di paesi
come la Francia e l’Italia - si è ribadita la necessità che l’uso delle biotecnologie sia condizionato a strumenti di controllo come l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti derivati. Questo atteggiamento è stato
recentemente confortato dai risultati delle indagini sull’opinione dei
206
L’azione multilaterale contro la fame nel mondo
consumatori, che hanno rivelato una generalizzata diffidenza verso tali
applicazioni.
Ma oltre che dalla Ue, la posizione statunitense è stata contrastata
anche da alcuni rappresentanti dei paesi in via di sviluppo. Proprio
partendo dal riconoscimento che le biotecnologie agricole possono
fornire un contributo sostanziale nella lotta alla povertà rurale e alla
insicurezza alimentare, si è affermata la necessità che i prodotti geneticamente modificati in questione siano oggetto di deroga alle regole
che proteggono i diritti di proprietà intellettuale, in modo tale da non
impedire o limitare il loro utilizzo nei paesi più poveri. In altre parole,
si vuole evitare che i benefici associati all’utilizzo delle biotecnologie
siano fatti propri esclusivamente dalle multinazionali che li producono. Anche su una simile questione non è possibile dare una risposta univoca: sebbene sia condivisibile, in taluni casi, l’argomento portato a
sostegno della necessità di una deroga, occorre anche domandarsi quale impresa sarebbe disposta a produrre innovazioni così tanto costose,
come quelle biotecnologiche, senza poterne trarre i benefici economici; e/o in quale misura il settore pubblico sia in grado di farsi carico di
tali costi.
Su questo punto una posizione interessante è quella che è stata espressa dall’International Food Policy Research Institute attraverso
l’intervento del suo Presidente Pinstrup-Andersen. È necessario, egli
ha indicato, che i paesi in via di sviluppo e gli organismi multilaterali
investano in tecnologia agricola per aumentare la produttività ed anche nelle innovazioni biotecnologiche. Ma la priorità, secondo l’Ifpri,
va assegnata alle innovazioni non appropriabili, come, ad esempio, le
tecniche agronomiche specificamente studiate per alcune località o la
messa a punto di varietà vegetali particolarmente adatte ad un’area, insomma a quel tipo di innovazioni che ha soprattutto carattere di bene
pubblico e che richiede una minore partecipazione privata. In altre parole, c’è molto da fare e da inventare a livello locale per far crescere la
produttività agricola: sviluppando le conoscenze delle comunità rurali
povere del terzo mondo si possono realizzare progressi significativi
anche prima di rivolgersi ad applicazioni tecnologiche complesse come gli organismi geneticamente modificati. L’utilizzo di tali organismi, dunque, non va escluso, ma piuttosto posto in stretto contatto con
le necessità degli specifici ambiti di applicazione.
In proposito, è interessante registrare, rispetto ad alcuni anni or sono, un qualche ritorno di enfasi sullo sviluppo della produttività in agricoltura come elemento che, attraverso il reddito prodotto nelle aree
rurali più povere dei paesi in via di sviluppo, può contribuire a migliorare la posizione dei gruppi più vulnerabili di popolazione e la sicurez-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
207
za alimentare. Ciò potrebbe costituire un elemento di riequilibrio rispetto all’enfasi, per certa misura condivisibile, sugli aspetti distributivi della sicurezza alimentare, tipica del dibattito dalla fine degli anni
ottanta in poi, che ha ridotto il peso relativo delle questioni legate allo
sviluppo agricolo.
In conclusione, i tempi non sembrano ancora maturi per assistere al
decollo di un forte coordinamento multilaterale della lotta alla fame
nel mondo, che pure sembrerebbe cosa assai utile. L’enfasi assegnata
ai grandi temi di cui si è detto, sebbene corretta in linea di principio,
non sembra essere andata a beneficio della concretezza nell’azione, né
nel Vertice, né nel Forum parallelo delle organizzazioni non governative. In proposito ci si potrebbe domandare se, in taluni casi, una migliore qualificazione dei termini delle questioni e dei conflitti fra gli
interessi divergenti dei paesi e della società civile in questo campo
non potrebbero giovare al raggiungimento delle necessarie mediazioni
fra gli interessi in gioco, più delle dichiarazioni ufficiali che tutti possono sottoscrivere, ma che possono non costituire impegni effettivi e
stringenti.
208
L’azione multilaterale contro la fame nel mondo
2003: anno internazionale
dell’acqua
Marjoleine Hennis
«Senz’acqua non c’è futuro» ha detto Nelson Mandela al Vertice
sullo sviluppo sostenibile tenutosi a Johannesburg ad agosto del 2002.
A giudicare dai dati che vengono pubblicati sulla crescente scarsità di
acqua potabile nel mondo, tale futuro non sembra affatto assicurato. Il
problema è triplice: le cause dell’insufficienza sono numerose e di natura globale, le soluzioni proposte si prefiggono solo di rimuovere gli
effetti delle carenze idriche, e le risorse stanziate finora sono tutt’altro
che adeguate.
Il Vertice di Johannesburg, dove l’acqua è stata presentata come uno
dei fattori fondamentali per lo sviluppo, è stato solamente una tappa di
un lungo processo - promosso dalle Nazioni Unite insieme a tante Ong
come il Consiglio Mondiale dell’Acqua (Wwc) e il Wwf - verso una
maggiore coscienza pubblica mondiale di questa tematica. Durante gli
anni Novanta, questo processo decollò concretamente con il 1° Forum
mondiale sull’acqua (Dublino, 1992), che si tradusse in un capitolo
marginale dell’Agenda 21, concordato nello stesso anno al Vertice di
Rio de Janeiro sullo sviluppo sostenibile. A quest’ultimo fece seguito
la Conferenza sull’acqua (Parigi, 1998), il 2° Forum mondiale sull’acqua (l’Aia, 2000), e infine la Conferenza sull’acqua dolce (Bonn,
2001). Così, dopo dieci anni, il tema dell’acqua è balzato al primo posto dell’agenda internazionale, creando grandi aspettative riguardo alle
decisioni da prendere durante il 2003, designato dalle Nazioni Unite
“anno dell’acqua”.
Perché tutta questa attenzione per l’acqua? Non è una novità che si
tratti di una risorsa primaria per la vita, per l’agricoltura, per la sanità,
per l’ambiente e per lo sviluppo in generale. Tuttavia, la gestione dell’acqua sembra non essere affatto all’altezza: vi sono problemi di distribuzione che, aggravati da un aumento della popolazione mondiale,
Marjoleine Hennis è docente di Politica Economica Internazionale al Trinity College, Roma.
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
209
fanno sì che il 40% della popolazione mondiale soffra di gravi carenze idriche (Un 2002); l’inquinamento delle risorse idriche cresce con
una velocità più alta di quella con cui l’acqua riesce a rigenerarsi; si
osservano alterazioni nelle precipitazioni e nel tasso di evapo-traspirazione legate ai cambiamenti climatici che in certe zone portano a inondazioni, mentre in altre provocano siccità o addirittura desertificazione.
L’agricoltura è strettamente legata al futuro dell’acqua e dello sviluppo in generale, attraverso la sicurezza alimentare. La crescita esponenziale della popolazione mondiale da 3 miliardi nel 1960 a 6 miliardi nel 2000 lascia da un lato affamate circa 800 milioni di persone, e
induce dall’altro un maggiore sfruttamento agricolo. I relativi danni in
tema di denutrizione sono stati limitati dalla “rivoluzione verde”, che
negli anni ’60 ha introdotto meccanizzazione dell’agricoltura e varietà
ibride nei Paesi in via di sviluppo (Pvs). Tale rivoluzione però, pur
raddoppiando la produttività rispetto al modello agricolo tradizionale
basato sull’acqua piovana, ha contribuito ad uno sfruttamento idrico
più pesante. Il nuovo modello di produzione è stato sostenuto dalle politiche pubbliche, le quali finanziavano le infrastrutture per l’irrigazione di grandi superfici e offrivano sussidi agli agricoltori per il consumo dell’acqua. Il risultato è stato un incremento del 2% annuo di aree
irrigate nei Pvs tra il 1962 e il 1996, portando alla situazione in cui la
superficie agricola irrigata (pari al 20% della superficie agricola totale) procura il 40% del raccolto totale (Un 2000).
La “rivoluzione verde” nei Pvs ha così indotto un consumo agricolo
di acqua per metro quadro molto simile a quello dei Paesi sviluppati e per niente paragonabile al consumo familiare negli stessi Pvs -, il
che fa sì che attualmente l’agricoltura assorba complessivamente il
70% delle risorse idriche mondiali (Roche 2001). Questa percentuale
aumenterà ulteriormente al crescere della popolazione mondiale
dell’1,1% annuo durante i prossimi 15 anni. Ciò richiederà un continuo incremento della produzione agricola, basata su un aumento di
produttività, da ottenersi prevalentemente (per il 69%) mediante irrigazione (il restante 31% essendo legato ad una produzione più intensiva e ad un allargamento della superficie coltivata) (Fao 2002). Ci si
aspetta che tale aumento abbia luogo per tre quarti nei Pvs. Ciò peggiorerebbe una situazione in cui, secondo un recente studio della Fao
svolto su 93 Pvs, tanti di questi sono già arrivati ad un tasso di consumo d’acqua molto superiore al rinnovamento delle risorse idriche (Un
2000). E non solo: oltre a problemi ambientali e sanitari, le carenze idriche inducono una sempre maggiore dipendenza di questi paesi dalle importazioni alimentari per l’approvvigionamento della propria po-
210
2003: anno internazionale dell’acqua
polazione e, di conseguenza, dalle divise straniere. Mettendo insieme
questi fattori, risulta necessaria una gestione dell’acqua che contribuisca a sfamare persone oggi, senza impedire lo sviluppo a lungo termine.
Gli stessi rapporti Fao sembrano essere abbastanza ottimistici sul futuro dell’acqua. La fiducia è basata su tre supposizioni.
1.Secondo le loro stime, l’aumento della popolazione mondiale dopo
il 2015, e di conseguenza della domanda alimentare, sarà inferiore a
quello attuale.
2.Con l’omogeneizzazione delle diete mondiali verso un maggior consumo di grano, le superfici coltivate a riso - e richiedenti in media una quantità d’acqua doppia rispetto al grano - diminuiranno, soprattutto grazie a cambiamenti in Cina.
3.L’efficienza dell’uso agricolo di risorse idriche aumenterà.
In genere non c’è disaccordo sulla validità delle ipotesi 1 e 2, mentre
la terza sembra per ora un po’ meno fondata. Per quanto riguarda invero i cambiamenti che cadono direttamente sotto le competenze della
Fao (per esempio l’introduzione a livello locale di metodi di irrigazione più efficaci e/o di varietà di piante a basso fabbisogno idrico) qualche ottimismo sembra giustificato. Tuttavia, le questioni a livello nazionale, per non parlare di quelle a livello internazionale, sono molto
più complicate e le relative soluzioni richiedono il soddisfacimento di
un gran numero di condizioni e la convergenza di molti interessi, attualmente spesso contrastanti.
Una di tali condizioni è la migliore gestione dell’acqua a livello nazionale, attraverso politiche, istituzioni e legislazione, insieme ad una
maggiore integrazione tra gli enti coinvolti (per esempio, la gestione
dei bacini idrici esige una stretta collaborazione tra gli enti di bonifica
e di distribuzione dell’acqua). D’altro canto, un migliore coordinamento presuppone trasparenza delle istituzioni e stabilità finanziaria,
cioè un livello di governance che in tanti Pvs è (ancora) assente.
Per i Pvs si impongono, inoltre, difficili valutazioni da effettuare a
livello nazionale e mondiale, riguardanti le scelte fondamentali sulla
via dello sviluppo. Queste valutazioni, però, avranno un sicuro effetto
ritardante sul processo di ottimizzazione delle risorse idriche. Per esempio, una proposta sostenuta da Banca Mondiale e Fmi è quella di
privatizzare le istituzioni nazionali e diminuire i sussidi sull’uso agricolo dell’acqua. Il corrispondente aumento delle tariffe avrebbe come
vantaggio una razionalizzazione dei consumi idrici ma potrebbe anche, a causa dei prezzi più elevati dei prodotti agricoli, ridurre la competitività del paese sul mercato mondiale. Inoltre, per la parte più povera della popolazione potrebbero crearsi seri problemi d’accesso al-
Quaderni del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione
211
l’acqua e conseguenti disordini sociali (come già accaduto in Ghana,
Bolivia e Filippine in reazione alla privatizzazione della distribuzione
idrica). In futuro, la privatizzazione della distribuzione idrica potrebbe
essere incoraggiata in quadro Wto, dove si punta alla liberalizzazione
del commercio dei servizi (Gats). Per il momento, tuttavia, questo
punto, insieme a sanità e istruzione, non è all’ordine del giorno nelle
negoziazioni, forse anche in ragione delle difficili valutazioni su come
consentire un accesso equo all’acqua.
Un’altra questione delicata riguarda le ricadute ambientali dello
sfruttamento dell’acqua. Ad esempio, a fronte del suddetto incremento
di produttività, rispetto alla coltivazione a base di acqua piovana, l’irrigazione provoca un maggior residuo di sale nel suolo e nelle falde.
Analogamente, l’introduzione di piante geneticamente modificate per
resistere a periodi di siccità impone considerazioni sul vantaggio apportato da queste tecnologie in termini di risorse idriche, rispetto ad una serie di problemi: perdita di biodiversità, possibile aumento di reazioni allergiche tra i consumatori; potenziale rischio che la coltivazione di Ogm possa privare gli agricoltori dei diritti di proprietà, regalando un controllo molto ampio alle industrie farmaceutiche.
Se persino le soluzioni tecniche (che di solito sono accettate con meno problemi in quanto “neutre”) incontrano tanto scetticismo, è allora
evidente che prima di raggiungere un accordo su quale strada imboccare per una migliore gestione delle risorse idriche, saranno necessarie
ancora molte negoziazioni e conferenze internazionali. Nel frattempo,
le decisioni continueranno a puntare a delle soluzioni a livello locale.
Il Vertice di Johannesburg riflette questa situazione: il risultato più
concreto raggiuntovi è un progetto per la costruzione di una rete sanitaria per mezzo miliardo di cittadini africani (“Africa Water Facility”),
con finanziamenti di Unione Europea, Stati Uniti e altri Paesi. Questo
progetto, peraltro importante e apprezzabile, ha lasciato l’impressione
di non essere stato altro che una forzata concessione a fronte del mancato varo di una qualche misura su un uso più sostenibile dell’acqua.
C’è ormai solo da sperare che la discussione di tali misure sia inserita
nell’agenda del prossimo Forum mondiale sull’acqua.
Il risultato minimalista di Johannesburg non è dovuto solo ai problemi interni di governance dei Pvs, o alla difficoltà di compiere valutazioni sui temi dello sviluppo sostenibile e della fame. Una causa determinante è stata anche la mancanza di volontà politica, da parte dei
Paesi occidentali, di lavorare per un cambiamento di tipo strutturale. Il
deficit di attenzione alla questione idrica si può spiegare con il fatto
che, diversamente da quanto accade in tanti Pvs, l’offerta d’acqua nei
Paesi occidentali è in teoria sufficiente. Però, con il crescente impatto
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delle alterazioni climatiche su quest’ultima, potrebbe cambiare qualcosa. Nella percezione dei Paesi occidentali, pertanto, sono i cambiamenti climatici ad aver messo a fuoco le cause dei problemi idrici e, in
particolare, l’importanza di una migliore gestione dell’acqua a fronte
di condizioni sempre più estreme. A rinforzare questa percezione, hanno contribuito da un lato la serie di allagamenti nel nord d’Europa e le
inondazioni lungo le coste Americane, e dall’altro le forti carenze idriche dell’area mediterranea e l’estrema siccità che nel 2002 ha riguardato il 37% della superficie Statunitense.
In Italia, questi problemi sono tutti presenti e costituiscono le realtà
con cui l’agricoltura deve fare i conti. Per quanto riguarda le carenze idriche (tipiche del Mezzogiorno, ma particolarmente acute in Sicilia,
Sardegna, Basilicata, Puglia, e Umbria), la situazione ha raggiunto dimensioni serie: del volume massimo di acqua disponibile per il consumo (155 miliardi di metri cubi), più di due terzi vanno persi. Le ragioni sono soprattutto di tipo gestionale, e vanno dalle perdite durante la
fase di raccolta idrica all’inefficienza nell’accumulo di riserve e nella
distribuzione, dove in particolare la rete idrica funziona male per mancanza di manutenzione. Infine, prelievi abusivi della rete, effettuati in
modo più o meno organizzato, diminuiscono ulteriormente la quantità
d’acqua che arriva a destinazione. Durante i periodi di siccità, questa
situazione porta a un’offerta insufficiente, con forti danni ad attività economiche come l’agricoltura. Di conseguenza, tanti agricoltori nel
Mezzogiorno (65%) si sono trovati costretti a ricorrere alla costruzione di pozzi privati e abusivi che, tuttavia , abbassano ulteriormente il
livello della falda.
In condizioni normali, l’agricoltura Italiana assorbe il 50% dell’offerta idrica effettiva (Cnr 2000). Da parte loro, gli agricoltori potrebbero contribuire a ridurre la discrepanza tra domanda e - offerta effettiva, abbassando il tasso di consumo. Margini di miglioramento vi sarebbero, attraverso l’introduzione di coltivazioni che richiedono meno
acqua, o attraverso l’uso di nuove tecnologie e metodi d’irrigazione
più efficienti. Per esempio, l’introduzione dell’aeroponica – un metodo recentemente sviluppato in Spagna che consente densità di raccolto
più elevate con consumi d’acqua molto inferiore ai livelli attuali 1 potrebbe essere vantaggiosa specialmente per le coltivazioni in serra.
Per realizzare interventi volti ad una migliore gestione generale dell’acqua, in ogni caso, occorrerebbero investimenti da parte sia degli agricoltori che dello Stato. E qui sta il nocciolo del problema, che sarà
(1) Con questo metodo, ad esempio, la raccolta di pomodori al metro quadro sarebbe di 120 kg
l’anno con soli 6 litri d’acqua, mentre la raccolta normale media è di 40 kg con 70 litri.
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difficile da rimuovere a breve termine. A livello nazionale, sebbene
non manchino le idee per accrescere l’approvvigionamento idrico (come dimostra il progetto di un acquedotto sottomarino per trasportare
l’acqua dall’Albania all’acquedotto pugliese), i finanziamenti latitano
o si limitano ad interventi ad hoc. Per esempio, in reazione allo stato
d’emergenza dovuto alla siccità estrema del 2002 nel sud d’Italia, sono stati messi a disposizione da parte dello Stato 500 milioni di Euro
per finanziare, tra le altre cose, urgenti lavori di manutenzione della
rete. A livello comunitario c’è un altro problema: sebbene siano disponibili numerosi finanziamenti per la gestione dell’acqua, come ad esempio per la modernizzazione della rete idrica 2, l’allocazione di questi fondi a livello nazionale o regionale incontra ostacoli di tipo politico. Fra tali ostacoli vi è il gran numero di istituzioni e soggetti che si
occupano della gestione dell’acqua, che rendono quasi impossibile il
coordinamento di attività e risorse.
Finora la legislazione europea non è stata in grado di sradicare questo stato di cose, sottolineando peraltro le difficoltà di natura istituzionale presenti nella gestione italiana dell’acqua. Un esempio significativo è costituito dalla più recente Direttiva Quadro sulle risorse idriche
(2000/60/Ce), che punta ad una diminuzione sostanziale dell’inquinamento dell’acqua entro il 2015, attraverso una stretta cooperazione tra
i Paesi membri. A tutt’oggi, però, la Direttiva ha portato, da un lato, ad
un aumento del numero di leggi nazionali (vedi il decreto 258/2000,
che stabilisce nuove norme per il livello nell’acqua di sostanze dannose, come ad esempio i nitrati), e, dall’altro, ad un ritardo nell’attuazione delle leggi già in vigore. È il caso della legge Galli, adottata nel
1994 con l’obiettivo di rendere più efficaci gli aspetti istituzionali del
settore idrico, attraverso l’introduzione degli Ambiti Territoriali Ottimali (Ato), enti regionali per lo sviluppo di progetti di ristrutturazione
dei sistemi idrici. L’attuazione di questa legge - già gravata di evidenti
problemi, visto che dopo 9 anni un solo Ato è stato costituito e le ristrutturazioni della rete idrica non sono state ancora avviate - ha subito
un ulteriore ritardo con la recente esigenza di integrarvi istanze ambientali, e di istituire a tal fine nuove Commissioni.
Il ritardo d’attuazione della legge Galli ostacola i piani di privatizzazione del settore come soluzione al problema dell’inefficienza. Questi,
che dovrebbero essere facilitati dagli Ato, prevedono la gestione dei
servizi idrici da parte di un gruppo di imprese private che finanzino
progetti per la realizzazione di depuratori e dissalatori e per la ristrut(2) Necessaria perché solo l’85% delle case (e in certe regioni soltanto il 33%) ha accesso alla
rete fognaria, mentre solo il 75% delle acque reflue viene depurato.
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turazione di dighe e condotte. Se tale privatizzazione andasse a buon
fine, senza dubbio l’offerta effettiva d’acqua aumenterebbe. Nello
stesso tempo, tuttavia, anche il prezzo dell’acqua vedrebbe un incremento notevole, visto che le imprese aspirerebbero ad un ritorno dei
loro investimenti. In questo modo, i prezzi medi dell’acqua italiana,
che adesso sono ancora relativamente bassi, si adeguerebbero alla media europea. I prezzi nel Mezzogiorno diventerebbero però relativamente alti, privando gli agricoltori di margini d’investimento in metodi più efficienti di consumo d’acqua. Prima di continuare a spingere
per questa opzione, sarebbe allora opportuno studiare le possibilità di
aumentare l’offerta idrica attraverso servizi pubblici più efficienti e un
coinvolgimento maggiore degli attori locali.
Per quest’anno, vi sono grandi aspettative legate al 3° Forum mondiale sull’acqua che si terrà a Kyoto a marzo. Nonostante i problemi idrici nei Pvs e nei Paesi occidentali siano simili, e le loro possibili soluzioni richiedano necessariamente un approccio globale, resiste la
percezione diffusa che vadano prioritariamente risolte questioni di livello regionale e locale. Se non che, purtroppo, le soluzioni locali sono spesso di tipo tecnico o volte a rimuovere gli effetti piuttosto che le
cause. Ciononostante, durante il 2003 saranno sicuramente stanziati
nuovi finanziamenti per progetti relativi all’offerta d’acqua. Invece di
aspettare un accordo a livello internazionale su come arrivare ad un uso dell’acqua più sostenibile, gli attori locali potrebbero cogliere quest’occasione per avviare dei cambiamenti strutturali. Per gli agricoltori
italiani, sarebbe opportuno prepararsi per tempo.
Riferimenti bibliografici
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Nazioni Unite, Crops and Drops, Rapporto per il Secondo Forum mondiale dell’acqua, Agenda 21 Land and Water division, L’Aia, 17-22 marzo 2000.
Nazioni Unite, Global Challenge, Global Opportunity, Rapporto per il Vertice sullo
sviluppo sostenibile 2002, Dipartimento di Affari Economici e Sociali, Nazioni Unite, New York, 2002.
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Stampato nel mese di maggio 2003
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