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Si riaccende la fiamma del Jihad
Yemen – L’intervento anti-al-Qaeda deciso in passato da Obama e ora autorizzato da
Trump è il primo atto di quella lotta al terrorismo islamico promessa in campagna
elettorale. Ma è anche un attacco indiretto all’Iran
/ 13.02.2017
di Marcella Emiliani
Quella che si combatte in Yemen dal 2014 è una guerra vergognosamente dimenticata e d’altronde
nel Medio Oriente di oggi gli scenari di conflitto sono tali e tanti da contendersi il triste onore del
diritto di cronaca. Invece, mentre l’attenzione internazionale era ed è concentrata sulla Siria,
sull’Iraq piuttosto che sulla Libia, appena entrato in carica il neo-presidente americano Donald
Trump ha immediatamente approvato un raid in Yemen contro l’Aqap, alias al-Qaeda nella penisola
arabica (foto). Fonti del Centcom (il Comando centrale unificato del Dipartimento della difesa Usa
che coordina gli interventi rapidi in Medio Oriente, Nord Africa e Asia Centrale, con particolare
attenzione all’Afghanistan e all’Iraq) hanno poi chiarito che il raid era stato pianificato da tempo, ma
Barak Obama non l’aveva mai autorizzata. Probabilmente, per non chiudere il suo secondo mandato
alla Casa Bianca con un’operazione che avrebbe potuto comportare grosse perdite tra i civili.
Trump questo tipo di tentennamenti non sa nemmeno cosa siano, anzi l’intervento in Yemen è stato
il primo atto di quella che già in campagna elettorale prometteva come una muscolosissima lotta
contro il terrorismo islamico. Così il 29 gennaio scorso, approfittando della prima notte senza luna,
elicotteri da combattimento e droni della marina americana hanno bombardato Yakla, un villaggio
sperduto sulle montagne del distretto meridionale di al-Bayda, quindi un commando del Team Six dei
Navy Seals, sceso a terra, ha completato l’opera andando ad eliminare casa per casa i capi tribali
affiliati ad al-Qaeda nella penisola arabica. Stando ai testimoni oculari la battaglia sul terreno è stata
molto dura. I morti in totale, secondo il Centcom, sarebbero 20 (compreso un marine americano,
altri tre sarebbero rimasti feriti); fonti del governo yemenita parlano di 4 uomini, 8 donne e 7
bambini mentre l’Aqap di vittime ne ha contate 31, tra cui 10 donne e tre bambini.
Ma il vero trofeo del raid americano è stata l’uccisione di Abdulrauf al Dhahab, un leader di lunga
data dell’Aqap che gli americani avevano già tentato invano di uccidere coi droni negli anni scorsi, e
dei capi tribali suoi alleati: Saif Alawai al-Jawfi e i fratelli Abdelrauf et Sultan al-Zahab. Pare
comunque che il vero obiettivo non fossero loro, bensì il capo in testa di al-Qeda nella penisola
arabica, l’emiro Qassim al-Raymi, sfuggito per ben due volte ai raid americani e ai tentativi di
catturarlo dell’esercito yemenita. E mentre Trump, all’indomani del blitz a Yakla, esultava definendo
l’operazione «un successo», al-Raymi lo insultava pesantemente sul web definendolo «il nuovo idiota
alla Casa Bianca».
Tra le vittime civili, c’era anche la piccola Nawar al-Awlaki, di otto anni. Tanto per rinfrescarci la
memoria si trattava della figlia minore di Anwar al-Awlaki, imam e intellettuale americano-yemenita,
ucciso da un drone Usa il 30 settembre 2011 sempre in Yemen. Al-Awlaki, che i sauditi chiamavano
«il bin Laden di internet», era autore di quel vero e proprio manuale del perfetto terrorista dal titolo
44 modi di sostenere il jihad che teorizza il jihad-fai-da-te, una pratica che ha decisamente preso
piede in maniera funesta come testimoniano molti degli attentati contro i civili compiuti in Europa e
negli Stati Uniti soprattutto dai cosiddetti lupi solitari targati Isis o al-Qaeda, indottrinati su internet.
In breve la piccola Nawar al-Awlaki è diventata l’icona di tutte le vittime della «superbia americana»
e la sua immagine è diventata virale sul web non solo in Yemen, dove suo padre era ben noto, ma in
tutto il mondo arabo. E in varie città yemenite la gente è scesa in strada per dare alle fiamme la
bandiera a stelle e strisce e manifestare contro il governo di Abdrabbuh Mansour Hadi, alleato degli
Stati Uniti. Dal canto suo Mansour Hadi, presidente-travicello, per non essere delegittimato dalla
piazza, e decisamente seccato dall’inserimento dello Yemen nella lista dei 7 paesi ai cui cittadini è
stato vietato l’ingresso negli Usa dal Muslim Ban di Trump, avrebbe tolto al Centcom
l’autorizzazione a compiere raid nel suo Paese, con grave danno per le sue stesse sorti.
Hadi, infatti, dal 2014 si ritrova a fronteggiare la ribellione degli Houthi, una tribù sciita del Nord
che sempre nel 2014 è riuscita a impadronirsi della capitale Sana’a, e nel febbraio 2015 lo ha
costretto a rifugiarsi ad Aden, nel Sud del Paese. Mentre gli Houthi sono stati armati e sostenuti fin
dall’inizio della loro offensiva dall’Iran, in seguito hanno ottenuto anche l’appoggio dell’ex
presidente-padrone dello Yemen, Ali Abdallah Saleh, che – a differenza di Mansour Hadi, già suo
vice-presidente – è sciita, ma soprattutto non ha ancora digerito la defenestrazione con cui è stato
cacciato dal potere il 27 febbraio 2012 a seguito della primavera araba scoppiata anche a Sana’a. A
sostenere quello che la comunità internazionale considera l’unico governo legittimo dello Yemen,
ovvero quello di Mansour Hadi, è intervenuta invece una coalizione sunnita guidata dall’Arabia
Saudita e coadiuvata militarmente dagli Stati Uniti, che nel marzo 2015 ha letteralmente invaso il
Paese confinante per tenere in piedi il presidente in carica e contemporaneamente contenere la
doppia minaccia terroristica al regno rappresentata non solo dell’Isis, ma anche della «vecchia» alQaeda.
Mentre nella penisola arabica al-Qaeda può vantare una presenza di lungo corso (non a caso bin
Laden era yemenita-saudita), l’Isis ha faticato ad impiantarsi, non ultimo perché la sua leadership è
sostanzialmente di origine irachena e siriana e le sue pretese di radicarsi territorialmente come
califfato lo hanno portato a concentrarsi sostanzialmente nel Siraq (Siria-Iraq). Ma i rovesci subiti
dal Daesh in Iraq, in Siria e in Libia, hanno spinto molti dei suoi miliziani a tentare la sorte in Yemen
dove la situazione è estremamente «liquida», lo scontro tra il governo Hadi e gli Houthi ha creato
ampie zone di terra di nessuno e soprattutto la catastrofe umanitaria causata dall’intervento saudita
ha spinto la popolazione ad affidarsi a chi prometta di nutrirla, proteggerla e difenderla. Inutile dire
che sia al-Qaeda sia l’Isis sono maestri di propaganda ed «elemosine mirate». Detto in parole povere
nel giro di tre anni lo Yemen si è trasformato in uno dei più drammatici terreni di scontro tra sunniti
e sciiti, tra Arabia Saudita e Iran (nonché i loro alleati), ma anche tra le diverse anime del terrorismo
sunnita, i suddetti Isis e al-Qaeda. In un Paese, ricordiamolo, che non solo fatica da sempre a tenere
a freno le sue innumerevoli lobby tribali, ma non è mai riuscito a sanare davvero la frattura NordSud che dal 1971 al 1990 ha diviso lo Yemen in due Stati, peraltro al centro di una guerra fratricida
e della guerra fredda, essendo lo Yemen del Nord allineato con l’Occidente e quello del Sud con
l’Unione Sovietica.
Oggi, per quello che riguarda gli Stati Uniti, la minaccia maggiore in Yemen è rappresentata
dall’Aqap che ha già colpito più volte gli interessi americani nel Paese. La reazione degli Usa – i raid
con i droni – però non ha fatto che alienare ancora di più la popolazione alla causa controterroristica americana e a quella del presidente Hadi. La stessa cosa, peraltro, è successa in
Afghanistan nella lotta contro i Talebani. Anche per questo Trump ha consentito, oltre al
bombardamento su Yakla, anche l’impiego di truppe di terra, che Obama specie negli ultimi tempi
aveva accuratamente evitato. In tutti i casi in Yemen gli Stati Uniti sono considerati i burattinai del
Paese che sta procurando i guai peggiori alla popolazione, ovvero l’Arabia Saudita coi suoi alleati
(Qatar, Kuwait, Emirati arabi uniti, Bahrein, Egitto, Marocco, Giordania, Sudan e Senegal). Ryiad
invece sta giocando in Yemen un suo gioco molto pericoloso che dovrebbe portarla ad acquisire
maggior autonomia da Washington, ma rischia di spingerla sull’orlo di un nuovo Vietnam. Lo strappo
tra la monarchia e gli Usa è arrivato dopo l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 che ha spinto i
sauditi a non affidarsi più in toto agli Stati Uniti per la tutela dei propri interessi e della propria
sicurezza e il primo passo di questa nuova politica apertamente interventista è stata proprio
l’invasione dello Yemen nella notte tra il 25 e il 26 marzo del 2015. Forse le cose cambieranno con
Trump alla Casa Bianca che come re Salman detesta l’accordo con l’Iran e non ha inserito l’Arabia
Saudita nel Muslim Ban. Ma intanto per gli yemeniti non c’è nessuna differenza tra i bombardamenti
sauditi e quelli americani. Lo Yemen, del resto, non può fare molto sullo scenario internazionale,
ridotto allo stremo com’è, ma sui giornali yemeniti è stato riportato con risalto l’anatema che il 7
febbraio scorso ha lanciato contro Trump la Guida della rivoluzione iraniana Ali Khamenei che si è
detto felice del Muslim Ban perché così «gli Stati Uniti hanno mostrato il loro vero volto» di
architetti del Male.
Il Male, seminato anche dall’Iran, intanto in Yemen si è tradotto in oltre 10’000 morti, 2,5 milioni di
sfollati e crimini di guerra di ogni tipo. Non c’è obiettivo civile in tutto il Paese che non sia stato
bombardato, dagli ospedali alle scuole, ai campi profughi. E l’Unicef il 27 gennaio scorso rendeva
noto che su una popolazione di 24,4 milioni di persone, ben 14 sono ormai sull’orlo della fame e ogni
dieci minuti muore un bambino sotto i 5 anni per denutrizione e malattie causate da gravi carenze
alimentari.Si riaccende la fiamma del Jihad
Yemen L’intervento anti-al-Qaeda deciso in passato da Obama e ora autorizzato da Trump è il primo
atto
di quella lotta al terrorismo islamico promessa in campagna elettorale. Ma è anche un attacco
indiretto all’Iran