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Medjugorje
l’
inchiesta
Il fenomeno e i suoi frutti
I
l 17 marzo scorso la Sala stampa della Santa Sede ha ufficializzato una notizia che era già
stata anticipata dal settimanale
italiano Panorama:1 «È stata
costituita presso la Congregazione per
la dottrina della fede, sotto la presidenza del card. Camillo Ruini, una Commissione internazionale d’inchiesta su
Medjugorje.
Detta Commissione, composta da
cardinali, vescovi, periti ed esperti, lavorerà in maniera riservata, sottoponendo l’esito del proprio studio alle
istanze del dicastero».
La commissione
Dalle poche parole aggiunte al già
scarno comunicato dal direttore della
Sala stampa della Santa Sede, p. Lombardi,2 si è poi appreso che la Congregazione ha preso in mano la questione
su richiesta della Conferenza episcopale della Bosnia ed Erzegovina; e in effetti, in un’intervista del 20 novembre
all’agenzia Zenit, il card. Vinko Puljicé,
arcivescovo di Sarajevo e presidente
della Conferenza episcopale, aveva
detto di attendere dalla Santa Sede
«suggerimenti e proposte su come accompagnare questo fenomeno» e «magari anche sulla costituzione di una
commissione» preposta a seguire i contenuti delle apparizioni e dei messaggi
che i sei veggenti di Medjugorje attribuiscono alla Madonna.
Se ne deduce che la nuova Commissione eredita in forma ampliata il
mandato di quella annunciata nel 2006
dallo stesso card. Puljicé, che avrebbe
dovuto occuparsi soprattutto dei frutti
delle supposte apparizioni e dunque
delle loro significative implicazioni pastorali, e che avrebbe dovuto essere
composta anche da membri designati
dall’ex Sant’Uffizio, ma rimanendo
sotto la responsabilità dell’episcopato
locale.3 Rimarrà invece sospeso il giudizio definitivo sul «fenomeno Medjugorje», poiché i veggenti continuano a
riferire di avere apparizioni mariane,
alcuni anche quotidianamente, ed è
noto che la Santa Sede ritiene di non
doversi e potersi pronunciare definitivamente sull’origine soprannaturale di
fenomeni di questo tipo fin tanto che
sono in corso.
Sotto questo decisivo aspetto, continuano dunque a fare testo le parole
della Dichiarazione di Zara del 10 aprile 1991 dei vescovi iugoslavi (allora il
paese, e di conseguenza la Conferenza
episcopale, erano ancora uniti): «Sulla
base delle indagini finora condotte,
non è possibile affermare che si tratti di
apparizioni o di rivelazioni soprannaturali».
Tale Dichiarazione era a sua volta
frutto del lavoro di una Commissione
insediata dall’episcopato iugoslavo nel
1987 e confermava, pur senza assolutizzarle, le conclusioni precedentemente raggiunte da due commissioni della
diocesi di Mostar, nel cui territorio si
trova Medjugorje, raccomandando tuttavia che i vescovi assicurassero la cura
pastorale «ai numerosi fedeli» che vi
giungono da ogni parte del mondo,
«spinti da motivi religiosi o di altro genere», e promettendo «adeguate indicazioni liturgico-pastorali», le stesse
tuttora auspicate dal card. Puljicé.
La squadra dei prudenti
Ma non vi è da dubitare del grado
di legittimazione che il «fenomeno
Medjugorje» otterrebbe da un giudizio
positivo che dovesse emergere dalla
neonata Commissione intorno ai frutti
spirituali dei pellegrinaggi mariani (tali
sono di fatto, anche se tecnicamente si
dovrebbero definire dei semplici viaggi
organizzati, pur dotati di assistenza pastorale) diretti alla cittadina bosniaca.
Questi già oggi coinvolgono annualmente più di un milione di fedeli
(ma certe stime dicono due milioni), tra
cui molti italiani, e la gran parte di costoro, al ritorno, si trasforma in un convinto e commosso promoter dell’esperienza di armonia e serenità spirituale
che ha vissuto (non necessariamente
avendo assistito a qualcosa di soprannaturale); entra così in una squadra di
«convinti» che ha in padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, l’indiscusso leader e che recentemente ha
potuto giovarsi di acquisti imprevedibili, come il giornalista e conduttore televisivo Paolo Brosio.4
Anche la squadra dei «prudenti» ha
tuttavia un leader assai autorevole (oltre che combattivo, per quanto mediaticamente più debole), trattandosi del
vescovo stesso di Mostar, mons. Ratko
Pericé, che dal 1993, anno in cui succedette per coadiutoria al non meno prudente mons. anicé,5 si adopera perché
i credenti (vescovi, preti e semplici fedeli), nel guardare a Medjugorje e nel
recarvicisi, tengano in conto la citata
Dichiarazione del 1991, sappiano che
là c’è una parrocchia e non ancora un
santuario, che la continuità ormai tren-
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tennale delle apparizioni è inconsueta
nella tradizione, anche recente, dei
santuari mariani, e che la frequenza di
esse è diversa tra l’uno e l’altro veggente; e infine che alcuni degli ex francescani che sin dall’inizio accreditarono
le apparizioni sono in una condizione
di fatto scismatica rispetto alla diocesi.6
Se non fossi papa…
Molti osservatori di cose religiose
sarebbero probabilmente pronti a
scommettere sulla presenza discreta
ma tremendamente efficace, tra i «convinti», di papa Giovanni Paolo II, che
avrebbe confidato sia a Mirjana Dragicéevicé, una dei veggenti, sia all’arcivescovo di Praga, card. Tomášek: «Se
non fossi papa, sarei già a Medjugorje
a confessare».7 Gli stessi, fino a poco
tempo fa, avrebbero altrettanto probabilmente posto tra i «prudenti» papa
Benedetto XVI, memori, se non altro,
del «Commento teologico» con cui l’allora card. Ratzinger accompagnò la
pubblicazione del «terzo segreto» di
Fatima, nel 2000.8 E infatti dall’inizio
del suo pontificato si contano, in riferimento a Medjugorje, diverse iniziative
(o ipotesi di iniziative) improntate alla
prudenza: dal citato annuncio di commissione episcopale del 2006 alle risposte del card. Bertone a G. De Carli nel
volume L’ultima veggente di Fatima,
sostanzialmente attestate sulla Dichiarazione di Zara; dalle voci – subito
smentite – di un rigoroso Vademecum
sulle apparizioni in generale, che
avrebbe dovuto essere pubblicato dalla
Congregazione per la dottrina della fede all’inizio del 2009, al fatto che
mons. Amato, quando ne era segretario, avrebbe raccomandato ai vescovi
della Toscana, che lo interrogavano in
merito a Medjugorje, la lettura e la divulgazione della severa omelia là pronunciata da mons. Pericé nel 2006.
Ma a modificare questo quadro istituzionale è giunta la visita compiuta a
Medjugorje, dal 28 dicembre al 2 gennaio scorsi, dall’arcivescovo di Vienna,
card. Christoph Schönborn, notoriamente molto vicino a Benedetto XVI.
Non un pellegrinaggio ufficiale, evidentemente, che avrebbe contraddetto
le indicazioni dell’episcopato locale e
della Santa Sede, ma comunque una
permanenza significativa, in forma privata eppure costellata di momenti pubblici anche liturgici;9 preceduta dall’in-
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contro a Vienna con due dei veggenti,
Ivan Dragicéevicé e Marija Pavlovicé-Lunetti e da un soggiorno presso la Comunità cenacolo di Saluzzo, che è molto legata a Medjugorje, e seguita da
numerose interviste e dichiarazioni che
lasciano assai pochi dubbi sulla personale convinzione maturata dal cardinale intorno alle apparizioni di Medjugorje, sulla base delle testimonianze ricevute e dei frutti (dalle conversioni, alla riscoperta dei sacramenti, alle vocazioni) che egli ha potuto costatare nella
sua diocesi. E alcune fonti attribuiscono allo stesso Schönborn, ricevuto in
udienza da Benedetto XVI il 15 gennaio, il suggerimento decisivo circa la
costituzione della Commissione internazionale d’inchiesta che è stata affidata al card. Ruini.
Guido Mocellin
1
Nel numero datato 11.3.2010, sotto la rubrica di I. INGRAO «Indiscreto».
2
Riportate il giorno stesso dalla Radio vaticana e, più ampiamente, dall’agenzia AGI. Invece A. TORNIELLI, su Il Giornale e sul suo blog, indica il 18 marzo alcuni probabili membri dell’organismo e annuncia «una prima sintesi» del
lavoro della Commissione già per la fine dell’anno in corso. Il 13 aprile la Sala stampa vaticana
annuncerà poi che la prima riunione si è svolta
il 26 marzo e che vi hanno partecipato in qualità
di membri i cardd. Tomko, Puljicé, Bozanicé e
Herranz, l’arcivescovo Amato e i proff. Anatrella, Sequeri, Jaeger, Kijas, Perrella, Schütz e
Nykiel, che fungono rispettivamente da segretario e da segretario aggiunto; più alcuni esperti.
3
Cf. Regno-att. 16,2006,520.
4
Andato ad affiancare con il suo bestseller A
un passo dal baratro. Perché Medjugorje ha cambiato la mia vita (2009), i precedenti volumi di S.
GAETA e A. SOCCI, rispettivamente: Medjugorje.
È tutto vero (2006) e Mistero Medjugorje (2005).
Tutti e tre questi libri sono editi da Piemme.
5
Fu lui a insediare le due commissioni diocesane degli anni Ottanta.
6
Tra questi ex il più famoso all’estero è divenuto Tomislav Vlašicé, che dopo essere stato a
Medjugorje dal 1981 al 1985 ne ha usato (del
tutto indebitamente, dice Radio Maria) il nome
per accreditare, in Italia, una serie di attività che
gli hanno infine meritato (gennaio 2008) pesantissime sanzioni canoniche da parte della Congregazione per la dottrina della fede; di qui la
sua richiesta, rapidamente esaudita, di dismissione dallo stato clericale e di dimissione dall’Ordine dei frati minori (marzo 2009).
7
Lo riporta S. GAETA nel volume scritto insieme al postulatore della causa di beatificazione
di K. Wojtyla, S. ODER: Perché è santo. Il vero
Giovanni Paolo II raccontato dal postulatore della causa di beatificazione, Rizzoli, Milano 2010.
8
Il commento prende le mosse dall’interpretazione del n. 67 del Catechismo della Chiesa
cattolica, che parla delle rivelazioni private, e
istituisce un parallelo: le rivelazioni private stanno alla Rivelazione come la pietà popolare sta
alla liturgia; cf. Regno-doc. 13,2000,396ss.
9
Tutto ciò ha suscitato forte irritazione in
mons. Pericé, che l’ha espressa con una lunga dichiarazione pubblicata lo stesso 2 gennaio sul sito web diocesano www.cbismo.com.
Serbia
Massacro
di Srebrenica
Scuse
a metà
I
l Parlamento della Repubblica serba
«condanna con la massima severità il crimine compiuto contro la popolazione
bosniaca a Srebrenica nel luglio 1995, nel
modo stabilito dalla sentenza della Corte
penale internazionale, così come condanna
tutti i processi e gli avvenimenti sociali e politici che hanno portato alla convinzione
che la realizzazione di determinati obiettivi
nazionali potesse essere perseguita attraverso la forza armata e la violenza fisica contro i membri di altre nazioni e religioni; e
contestualmente estende le proprie condoglianze e scuse alle famiglie delle vittime per
non avere fatto tutto il possibile per prevenire la tragedia».1 Ci sono volute 13 ore di discussione, e che 101 dei 250 membri dell’Assemblea nazionale uscissero dall’aula, perché il 31 marzo passasse (con 127 voti a favore, 21 contrari e un astenuto) la mozione di
condanna per il massacro dell’11-16 luglio
1995. In quelle 5 notti nell’enclave bosniaca
di Srebrenica, che oggi si trova nel territorio
della Repubblica serba Srpska, le milizie serbo-bosniache agli ordini del leader politico
Radovan Karadzicé e del generale Ratko Mladicé trucidarono 8.000 uomini tra i 12 e i 77
anni, mentre i caschi blu olandesi sotto il cui
controllo si trovava la cittadina non riuscivano né a garantire la sicurezza della popolazione né a ottenere un intervento aereo
della NATO.
La dichiarazione è stata approvata quindi con i voti del Partito democratico e del
Partito socialista, che costituiscono la maggioranza, ma solo a patto di condannare il
massacro come un «crimine» e non come un
«genocidio».2 Risultato evidente da un lato
della pressione della corrente filo-europeista, che con tale gesto simbolico vuole
compiere uno dei passi necessari per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea,3 ma
dall’altro della resistenza di una parte della
classe politica e della società, che nelle sue
frange più nazionaliste considera ancora i
leader serbi dell’epoca degli eroi, e più in ge-