In difesa del Liceo classico (Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13

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In difesa del Liceo classico (Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13
In difesa del Liceo classico
(Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13 ottobre 2016)
Liceo Classico scuola-modello, capace di parlare all’anima degli studenti e di lasciare
una traccia di civiltà nei sentimenti, nella parola, nella scrittura, nel rapporto che i
giovani avranno con la vita e con il futuro. O Liceo Classico goffa eredità del passato,
scuola che sforna persone destinate a rincorrere, per potersi inserire nel mondo del
lavoro, materie scientifiche non sufficientemente approfondite negli anni trascorsi in
compagnia del greco e del latino. Il dibattito è sempre aperto e attuale.
La Domenica del Sole 24 Ore ritiene che il Liceo Classico vada difeso, perlomeno in
quanto luogo privilegiato per coltivare l’idea di un carattere disinteressato della cultura.
O perché i saperi umanistici possono aprire la strada a importanti vocazioni
scientifiche.
La discussione sull’attualità del Liceo Classico ha trovato ampio spazio sulle pagine
della Domenica con i contributi di Nicola Gardini e Guido Tonelli (28 agosto), di
Vincenzo Fano, Claudio Giunta, Armando Massarenti e Angelo Varni (11 settembre)
e di Gilberto Corbellini, Alessandro Laterza e Lorenzo Tomasin (18 settembre). Il
Liceo Classico è una scuola-modello per l’Occidente, e la versione dal greco o dal
latino è utile anche a un fisico o a un matematico, sostengono alcuni. Meglio non
chiudersi nel passato, il mondo è cambiato, la pedagogia deve rinnovarsi, lo studio del
greco e del latino va ristrutturato sulla base di più realistiche considerazioni, replicano
altri. E c’è poi il guado attraversato in punta di piedi da chi sostiene che sarebbe
auspicabile che la scuola offrisse un nucleo di discipline fondamentali comuni a tutti,
per poi lasciare la possibilità di mettere la freccia lungo il cammino formativo e di
dirigersi verso materie elettive e opzionali. Forse il Liceo Classico serve
semplicemente perché è una delle scuole dove si studia di più. Se si ha la fortuna di
incontrare professori che fanno amare le materie che insegnano, e sanno creare ponti
tra passato e futuro, è come sottoscrivere una solida assicurazione per la vita.
In difesa del liceo classico, scuola modello per l’occidente
(Nicola Gardini - 28 agosto 2016 - “Il sole 24 ore”)
Il liceo classico è sotto accusa, anzi, sotto assedio. Il problema è squisitamente italiano, e non solo perché
una scuola del genere è tutta italiana. Gli attacchi al liceo classico, infatti, non vanno presi – se non come
concomitanza storica – per parte della diffusa crisi delle humanities che caratterizza le accademie angloamericane; e non solo quelle. In India, per citare una grande democrazia, il sapere umanistico è stato
smantellato. Lì trionfa la matematica. Ecco una delle ragioni per cui i migliori matematici sono indiani.
Non parliamo della Cina.
La corsa precipitosa alla monetizzazione del sapere, insomma, sta facendo piazza pulita degli
insegnamenti letterari e linguistici un po’ dovunque. Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities
sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il
successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che
impiega la persona. La cosa si commenta da sola. In poche parole: i soldi diminuiscono (ne sono spariti
tanti con gli ultimi disastri finanziari) e i dipartimenti di studi umanistici si contraggono, si sciolgono,
spariscono. La carriera umanistica per moltissimi ormai è solo un’illusione distruttiva.
L’Italia tutto questo, in pratica, non lo subisce. L’Italia ha il liceo classico. Avendo una certa familiarità
sia con l’istruzione italiana sia con quella di vari paesi stranieri, non esito a dire che il liceo classico è
l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che un governo occidentale abbia mai messo in
piedi: una scuola che fonda principalmente la formazione dell’individuo sullo studio delle lingue antiche,
il greco e il latino. Chi esce dal liceo classico – se circostanze slegate dal tipo di studio non si frappongono
– conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale
conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto,
relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi,
capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia.
Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno
un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità,
che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze. Una simile visione delle cose è limitata da un grave
errore: la convinzione che lo studio del greco e del latino non sia cosa scientifica; e che scienza siano solo
la fisica, la matematica e la biologia.
Lo studio delle lingue classiche, invece, è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della
gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che
viaggiano e si trasformano nel tempo. Scienza, indipendentemente dall’oggetto esaminato, è tutto ciò che
richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione
in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di
papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono
ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti. Solo una lesiva e grottesca
riduzione della realtà e della vita umana può negare importanza ai reperti dell’antichità e
all’apprendimento di due miracolosi sistemi cognitivi, arrivati fino a noi grazie a un’amorosa e
raffinatissima opera di trasmissione, come il greco e il latino. In particolare, eliminare la traduzione (sulla
centralità della quale in questo giornale già si è pronunciata Paola Mastrocola) sarebbe un gesto di
irresponsabile, gravissimo immiserimento: come sostituire tutti gli originali degli Uffizi con riproduzioni
formato poster.
I sostenitori del liceo classico, per fortuna, non mancano. Sono i giovani stessi, e sono persone dei più
vari tipi, compresi gli scienziati. Una petizione di un gruppo di professoresse fiorentine dello storico liceo
Michelangiolo (http://taskforceperilclassico.it/t/) ha già raccolto circa cinquemila firme, tra cui
riconosciamo un Salvatore Settis, una Eva Cantarella e un Luciano Canfora, per citare solo alcuni celebri
rappresentanti del sapere umanistico, ma anche due insigni fisici come Guido Tonelli e Carlo Rovelli.
Basta con proposte di riforma boomerang. Basta con questa cecità. Un paese che vuole vivere ha il dovere
di sapere prima di tutto dove già eccelle.
Studiare sodo:questo serve!
(Alessandro Laterza - Il sole 24 ore - 18 settembre 2016)
Io ho fatto il liceo classico. Mio padre e mia madre hanno fatto il liceo classico e così
le mie sorelle e tutti i miei zii e zie. Due mie figlie hanno fatto il liceo classico, lo stesso
i miei nipoti. Ho una figlia piccola che presumibilmente farà il liceo classico (se ancora
questo ordine di scuole starà in piedi). È fuori discussione che, nella scelta delle scuola
secondaria superiore, sono gli adulti a incidere ben più dei diretti interessati. E in questa
scelta prevale un certo conservatorismo inerziale a favore di ciò che ci è più noto e
famigliare. Nel caso del liceo classico, il tutto è condito da un particolare spirito di
corpo: chi ha avuto a che fare per 5 anni con greco e latino mantiene il retropensiero
che quella è la scuola per i “bravi”, anzi per i “più bravi”. Ai miei tempi, nel giudizio
al termine delle scuole secondarie inferiori, all’alunno di buon profitto si raccomandava
di accedere al liceo classico. Quasi fosse la logica conseguenza di un miglior
patrimonio individuale di competenze e conoscenze (come oggi si direbbe).
Oggi il liceo classico si presenta in vistosa crisi. Le iscrizioni sono andate calando e
anche i bastioni tradizionali, tutti dislocati da Roma in giù, cominciano a cedere. Ci
interroghiamo dunque sul futuro di questo pezzo del nostro sistema formativo. E una
qualificatissima minoranza cerca di trovare o ritrovare ragioni per controbattere al
declino di quella che, tra il 1923 e il 1940, fu definita come l’unica porta di accesso a
tutti i percorsi di studio universitari e come irrinunciabile biglietto d’ingresso alla
classe dirigente nazionale.
Molti di questi argomenti sono fondati e ragionevoli. La salvaguardia del greco e del
latino – recentemente pesantemente penalizzati nei licei francesi – viene giustificata
con il peso che la cultura classica ha nella nostra tradizione nazionale e che tocchiamo
e vediamo concretamente nel paesaggio artistico e monumentale delle nostre città. Ci
si richiama alle capacità cognitive e logiche che l’esercizio della traduzione consente
di sviluppare. Ovvero si esalta come valore l’assoluta “inutilità” delle lingue “morte”
come occasione per sviluppare un disinteressato amore per il sapere. Contrapposto,
quest’ultimo, alla visione utilitaristica che vorrebbe vedere nella scuola una sorta di
laboratorio di formazione professionale, propedeutico all’accesso nel mondo del
lavoro.
Personalmente accetto e sposo pressoché tutte queste motivazioni. Nello stesso tempo,
però, le trovo insufficienti. Non vedo, in particolare, quale sia il superiore valore
formativo del greco e del latino rispetto all’algebra, alla biologia o alla chimica. Me ne
dolgo (bene o male sono laureato in lettere classiche) ma davvero non ci riesco. Se così
è, allora, quale argomento rimane a supporto della scuola meno up-to-date (anglismo
idiota ma voluto) che ci sia, in Italia e non solo, per di più certamente destituita di ogni
funzione meccanica di selezione della classe dirigente?
L’argomento io ce l’avrei. Anzi, ce l’ho. E in verità l’ho ritrovato anche nelle riflessioni
espresse, sempre sul Domenicale, da Paola Mastrocola (che non insegna più, ma
capisce e ama la scuola). Il liceo classico serve - insisto: serve – perché è la scuola
dove, in linea di massima e per il momento, si studia di più. Questo è un bene e un
valore di portata straordinaria. Sappiamo o dovremmo sapere tutti che uno dei rischi
crescenti di tutti i sistemi formativi è quello della disabitudine alla concentrazione e
all’applicazione nello studio. Non mi soffermo sulla discussione se ciò dipenda dai
cambiamenti dello scenario tecnologico e culturale\antropologico. La questione c’è e
si imporrà sempre di più di fronte all’imponente fenomeno dell’analfabetismo di
ritorno, alla questione (fortissima in Italia) dell’abbandono scolastico, al tema della
oggettiva impossibilità di schiacciare tutto l’universo dell’istruzione sulla formazione
professionale. Saper studiare è, per dirla in didattichese, la competenza del futuro.
Certo, lo stesso potrebbe farsi in un super-liceo tecnologico o economico-sociale (che
esistono solo sulla carta). Ma, nell’attesa che sorgano – non si sa con quali visione,
risorse e personale – questi nuovi ordini di scuole perché distruggere l’unico che per
conformazione ha la peculiarità assoluta di imporre la disciplina dello studio?
Un’unica avvertenza, dunque. Non annacquiamo il liceo classico, come purtroppo sta
già avvenendo e in modo pateticamente maldestro. Il liceo classico, con pochi correttivi
e aggiornamenti (specie sulle lingue straniere), deve rimanere quello che è: la scuola
dove si studia di più e dove ci si prepara a sviluppare l’ingrediente fondamentale per
continuare con profitto e successo gli studi. Ben venga che ciò accada attingendo al
meglio del nostro patrimonio culturale e educando il gusto per la bellezza. Ma il punto
fondamentale resta esattamente quello per cui il liceo classico è in realtà sempre meno
popolare: lo studio come metodo e fatica, non come gioco di società o come
adempimento burocratico da espletare. In un mondo sempre più incline al consumo
passivo di immagini o adagiato nell’illusione della cultura fai-da-te sulla Rete,
“potente” sarà chi è capace per tutta la vita di studiare.
Liceo classico: no, il problema non è il latino
di Luca Ricolfi – 18 ottobre 2016 – Il sole 24 ore
Non so esattamente perché, ma ho sempre detestato gli appelli. Forse perché sono troppi, e i
personaggi pubblici ne abusano (come i radicali con i referendum). O forse perché, assai spesso,
sembrano strumenti di autopromozione dei firmatari, più che mezzi adeguati per risolvere i
problemi che sollevano. Insomma, quali che siano le origini della mia diffidenza, non ho mai
firmato appelli. Anzi, mi sono dato una regola: non firmare mai un appello, anche se lo condividi
al 100%.
Oggi però sono crollato. Ho violato la mia regola, e ho firmato un appello, il primo
(probabilmente l'unico) della mia vita. Non me la sentivo di non aderire. Così, venerdì ho
aggiunto la mia minuscola firma alle 9.964 che già erano state raccolte. Probabilmente, nel
momento in cui leggete questo articolo, le firme avranno superato la barriera delle 10mila,
tantissime per il tipo di argomento considerato. Di che cosa si tratta? Si tratta della lettera-appello
contro l’abolizione, parziale o totale, della traduzione dal latino e dal greco nell’esame di maturità
(una proposta lanciata qualche mese fa dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a un
convegno milanese). Qui non voglio aggiungere alcun argomento alle limpide e convincenti
parole dell’appello, il cui testo è direttamente consultabile su internet (indirizzo utile anche per
eventuale firma). Quello che vorrei fare, invece, è raccontare come può vedere le cose chi, come
me, fa il sociologo e insegna materie scientifiche (matematica e analisi dei dati) agli studenti
universitari. Ebbene, io sono convinto che la vera posta in gioco non sia la sopravvivenza della
cultura classica nel nostro Paese. Certo, tutto fa pensare che la nostra epoca sia una sorta di controRinascimento, un tempo in cui il pendolo fra l’ammirazione per i classici e la venerazione delle
novità oscilla decisamente a favore di queste ultime. E, se devo fare una previsione, sono
perfettamente persuaso che si continuerà sulla strada già imboccata con la soppressione della
storia antica dalla scuola media inferiore: nelle scuole secondarie del futuro lo spazio riservato
alla civiltà greco-romana da cui proveniamo sarà sempre più ristretto. E tuttavia a me pare che la
ragione vera per cui si vuole (e quasi certamente si riuscirà) abolire la traduzione dal latino e dal
greco non sia l’incapacità di apprezzare la cultura classica, o la volontà di promuovere la cultura
scientifica, o il desiderio di modernizzare e svecchiare la scuola.
No, la vera ragione è molto più terra-terra: la traduzione dal latino e dal greco, insieme ad alcune
parti della matematica (nei casi in cui vengono effettivamente insegnate), è rimasto l’ultimo
compito davvero difficile della scuola secondaria superiore. È questo, semplicemente questo, che
rende attraenti le tesi degli abolizionisti. È questo che – prima o poi – consentirà loro di imporsi.
Perché, non nascondiamocelo, la domanda degli studenti e delle loro famiglie non è di alzare
l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come in effetti diligentemente facciamo da almeno
quattro decenni. È questo, il livello dell’asticella, che fa la differenza fra una buona scuola e una
scuola mediocre. Ed è questo, la tenace volontà di tenerla bassa, il non-detto che accomuna buona
parte delle innovazioni nella scuola e nell’università. Se così non fosse, alla progressiva erosione
dello spazio del latino e del greco, con la soppressione dell'analisi logica nella scuola media
inferiore, la scomparsa quasi universale della traduzione dall’italiano, l’istituzione di licei
scientifici “ma senza latino”, si accompagnerebbe l'introduzione di soggetti ritenuti più
interessanti, o più utili, o più formativi, ma altrettanto impegnativi. Giusto per fare qualche
esempio: studio del cinese, compresi gli ideogrammi; logica e calcolo simbolico; teoria della
relatività; meccanica quantistica; filologia classica o moderna; algebra astratta; linguaggi di
programmazione evoluti (al posto del ridicolo insegnamento del pacchetto Microsoft Office).
Ecco perché dico che la cultura classica non è la vera posta in gioco. Le minacce alla cultura
classica vengono un po’ da tutte le parti, ma il suo vero tallone di Achille è che c’è un momento
di essa, quello in cui prendiamo in mano un testo di 2000 anni fa e proviamo a tradurlo, che
richiede un livello di organizzazione mentale che non siamo più capaci di fornire a tutti. Per
questo, essenzialmente per questo, la traduzione dal greco e dal latino è entrata nel mirino della
politica. Non tanto perché «non è utile» (quasi nulla di ciò che si insegna a scuola ha un’utilità
immediata), ma perché è difficile, molto difficile. Si potrebbe obiettare: perché mai dobbiamo
difendere le cose difficili? Non c’è un po’ di sadismo nel rifiuto di alleggerire gli studi? È arrivati
a questo punto, a questo nodo del problema, che mi sono convinto che, proprio per il lavoro che
faccio, non potevo non firmare l’appello. Perché quel che osservo nel mio lavoro di docente
universitario non mi può lasciare indifferenti.
Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare
handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che
lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di
avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante
cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché
difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo:
capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e
sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a
non dimenticare quel che si è appreso. La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella,
queste capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave, questa rinuncia a
regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione
“utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello
tedesco dell’alternanza scuola-lavoro. No, il modello verso cui stiamo correndo a fari spenti è
quello della liceizzazione totale: la scuola secondaria superiore è oggi un gigantesco liceo che
non è più in grado di erogare una preparazione di base decente, e proprio per questo induce
l’università a trasformarsi essa stessa in un immenso e tardivo liceo. L’unico baluardo che resta
in piedi sono quelle scuole, ma forse sarebbe meglio dire – quegli insegnanti – che non hanno
rinunciato a spostare l’asticella sempre più in su, per mettere i loro allievi nelle condizioni di
affrontare qualsiasi tipo di studio, umanistico o scientifico che sia. È grazie a queste scuole e a
questi insegnanti che all’università, nonostante tutto, arrivano ancora drappelli di studenti in
grado di ricevere un’istruzione universitaria, e le materie più complesse non sono ancora state
abolite del tutto. Ma si tratta di eccezioni, non di rado provenienti dalla minoranza di studenti
(circa il 6%) che ancora scelgono il liceo classico, con la sua aborrita prova di traduzione dal
latino e dal greco. La regola, purtroppo, è che chi ha un diploma di maturità non è in grado di
frequentare un’università che non abbia drasticamente abbassato gli standard. È per questo che
sto con la lettera-appello sulla traduzione dal latino e dal greco. Per me quella lettera non difende
semplicemente la cultura classica, il latino o il greco. Quell’appello, difendendo l’ultima prova
veramente difficile rimasta in piedi nella scuola, difende anche un'idea più generale: che se non
vogliamo privare i nostri ragazzi delle capacità di cui prima o poi avranno bisogno, dobbiamo
regalargli studi degni di questo nome, e smetterla di proteggerli da ogni sfida che possa metterli
davvero alla prova.
Classico per tutti?
–di Armando Massarenti - 11 settembre 2016 – Il sole 24 ore
Il liceo classico è stato, ed è tuttora, una eccezionale palestra per il pensiero
critico. È, anche, il luogo privilegiato per coltivare l’idea del carattere
disinteressato della cultura. Unisce dunque, idealmente, due aspetti
essenziali di una buona formazione: una chiave universale di grande utilità,
e il massimo del piacere che deriva dall’esperienza della pura bellezza.
Forse è per questo che gli articoli di Nicola Gardini e Guido Tonelli, un
umanista e uno scienziato, pubblicati due settimane fa in difesa di questa
nostra gloria nazionale, hanno raccolto un ampio consenso. In questo
numero torniamo sull’argomento con diversi interventi che pure
sottolineano l’unità della cultura. Ma se è vero che i saperi umanistici
possono aprire la strada a vocazioni scientifiche, è anche vero che la
mentalità scientifica, o i metodi mutuati da essa, sono assai produttivi per lo
sviluppo delle humanities. Ne era ben consapevole Vito Volterra, il primo
presidente del Cnr, di cui si parla qui a fianco, e su questa linea all’interno
troverete due interventi, di Angelo Varni e di Vincenzo Fano, insieme a
quello di Claudio Giunta che sottolinea - accanto agli argomenti, assai forti,
ancora oggi validi per iscriversi al liceo classico - la percezione diffusa che
non sia più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Classe dirigente
oggi lo si diventa anche per altre vie. Allora la domanda diventa: quali sono
i saperi necessari oggi per farsi strada nel mondo? E se siamo tutti d’accordo
che sono le capacità logiche e argomentative - il pensiero critico - gli
strumenti decisivi, perché non mettere queste al centro dell’intero sistema
educativo? Si dice che lo studio del latino e del greco sviluppa le capacità
di ragionare, di produrre analogie e inferenze logiche. Ma è vero anche il
contrario: i più bravi a tradurre lo sono perché hanno buone capacità logiche
e dialettiche. Perché non partire da qui? Perché non pensare che il trionfo
della classicità, negli anni a venire, non possa passare per la creazione di
tanti piccoli Socrate, capaci di usare il loro sapere critico negli ambiti più
diversi?
«Il mio successo in Silicon Valley? Lo devo tutto al liceo classico»
–di Eleonora Chioda - 29 settembre 2015 – Il sole 24 ore
«La Silicon Valley mi ha cambiato la vita, ma se ce l'ho fatta lo devo al liceo classico
della mia cara Cava de' Tirreni». Adriano Farano, 34 anni, una laurea in Scienze
Politiche, ex giornalista (ha fondato a Strasburgo il giornale online CafeBabel.com, che
ha redazioni in 35 città europee), è un italiano di successo in Silicon Valley. Arrivato
in California dopo aver vinto una prestigiosa borsa di ricerca all'università di Stanford,
ha creato Watchup, un'applicazione di video news, che ha raccolto 4,3 milioni di dollari
da investitori giganti come Microsoft, Tribune Media e la stessa Stanford Univeristy.
«Studiare latino e greco non serve più? Gli eroi dell'antichità sono ancora i migliori
maestri per chi vuole cambiare il mondo o make a dent in the universe, come diceva
Steve Jobs» esordisce Farano, intervenendo da oltreoceano nel dibattito per la difesa
della cultura umanistica. Per 5 buoni motivi.
Trovi lavoro nelle aziende più high-tech del mondo
«Per ogni ingegnere Adriano Olivetti era solito assumere un laureato in materie
umanistiche. Olivetti e Steve Jobs non si sono mai incontrati ma la pensavano allo
stesso modo: la creatività, motore della crescita economica, nasce dall'incontro tra
sensibilità umanistica e genio scientifico. La mia applicazione Watchup ha una grande
ambizione: rivoluzionare il modo di informarsi su dispositivi mobili e tablet. Il nostro
investimento in tecnologia è grande ma nel mio ufficio a Palo Alto troneggia un poster
dell'uomo vitruviano di Leonardo».
Dalla forma mentis alla open mindness
«La chiamavano forma mentis: uno stato mentale analitico ed elastico al tempo stesso.
Nella grammatica latina e greca ogni parola ha un preciso posto nella frase, ma al tempo
stesso può essere tradotta in almeno tre modi diversi. Per questo si parla di versione e
non di traduzione. Come uno studente davanti a un testo antico, così oggi un giovane
imprenditore deve sapersi adattare a nuove culture e nuovi linguaggi: giuridici,
economici, tecnologici. Deve avere open mindness. Soprattutto quando, come me,
passa dall'Italia, alla Francia, agli Usa».
Omero e Dante, maestri di storytelling
«Crescere tra Omero e Dante è ancora il miglior allenamento per padroneggiare l'arte
del Keynote (PowerPoint per Mac). Grandi contenuti e brillanti idee rischiano di
perdersi se non sono ben presentati. Che lo chiamino pure storytelling. Per me è ars
oratoria. Per trovare investitori, nuovi partner o colleghi è fondamentale sapersi
raccontare».
Ogni tecnologia che funziona mette l'uomo-utente al centro
«La cultura umanistica, figlia del Rinascimento, rimette l'uomo al centro della scoperta
scientifica e intellettuale. Allo stesso modo, il processo di design di un prodotto in
Silicon Valley — vera e propria Firenze del XXI secolo — è basato tutto su una tecnica
che qui viene chiamata design thinking: prima di creare un'app, devi conoscere il tuo
utente, i suoi bisogni, le sue passioni. Le tecnologie che vengono pensate in Silicon
Valley finiscono per diventare universali perché qui, più che altrove, si pone l'utente al
centro di tutto. Ed è questo metodo che abbiamo usato quando, con Watchup, abbiamo
mirato a soddisfare un bisogno ancestrale: quello di informarsi, sfruttando il potere del
videogiornalismo».
Ulisse e Medea ti danno la forza per credere nei sogni
«Antigone morì per ciò in cui credeva. Ulisse ha viaggiato una vita prima di tornare a
casa perché imbevuto di curiositas. Medea ha scelto di sacrificarsi pur di lasciare un
indelebile segno in chi l'aveva tradita. Eccoli gli eroi dell'antichità, trascinati da un
pathos che li spingeva a perseguire i propri sogni, a qualunque costo. Per aspera ad
astra. I miei maestri di vita sono stati loro. Leggendo le loro storie ho imparato a
viaggiare, a inseguire i miei sogni, e a crederci fino in fondo. Nonostante le difficoltà.
Cara Italia, non dimenticare il valore della cultura latina e greca. Non è mai stata così
viva. E utile».
Perché la versione serve a un fisico
–di Guido Tonelli - 28 agosto 2016 – Il sole 24 ore
Michael Hugo Leiters è un tipo tosto. Di quelli che ti guardano diritto negli occhi, senza
sorridere. È tedesco, ed è un manager della Ferrari. È il responsabile della tecnologia,
uno dei settori più importanti per le aziende che producono i costosissimi gioielli a
quattro ruote. Leiters ha lavorato per anni alla Porsche e conosce molto bene l’ambiente
delle supercars. Siamo a Maranello, nel palazzo della direzione. L’ edificio segue un
bel disegno pulito di Fuksas; ma ti stupisce appena sali una rampa di scale e trovi il
laghetto zen, una distesa di acqua e ciottoli di fiume, che occupa tutto il primo piano.
Mi dicono che è stato fatto per favorire la meditazione e la visione strategica dei
dirigenti dell’azienda fondata dal burbero e visionario Enzo. A fianco la galleria del
vento disegnata da Renzo Piano, più avanti, fra i vialetti, le avveniristiche linee di
produzione da cui escono una trentina di 8 o 12 cilindri al giorno.
Mi hanno chiamato qui, a fine luglio, perché vogliono mettere a confronto il lavoro di
una scienziato del Cern con quello di un top manager della compagnia. L’intervista
doppia procede con fluidità. Man mano che scorre la conversazione si scopre che i
punti di contatto fra le due attività sono molti, taluni davvero inaspettati. Gli scopi sono
assolutamente diversi. I nostri obiettivi sembrano talmente astratti da rasentare la
filosofia: scoprire l’ origine della materia oscura o capire la fine che farà il nostro
universo; i loro sono quanto di più concreto si possa concepire: vendere macchine in
un mercato altamente competitivo. Ma per entrambi l’innovazione e la tecnologia sono
componenti essenziali, quelli che possono determinare quella sottile differenza che ti
può consegnare un successo clamoroso o far precipitare nella peggiore delle catastrofi.
Lavoro di squadra, passione, amore per il rischio, cura quasi paranoica del più
insignificante dei dettagli sono tutte cose che ci accomunano. Si sente che facciamo
parte di una pattuglia di gente che respira la stessa aria sottile e pericolosa.
Alla fine l’ atmosfera è talmente cordiale che passeggiando intorno al laghetto zen,
Leiters si scioglie e mi racconta della sua formazione ad Aachen, al Fraunhofer
Institute, uno dei centri di tecnologia più avanzati della Germania. E qui scatta il
miracolo. Mi basta citare l’emozione che ho provato nel toccare il trono di Carlo
Magno, tuttora conservato nella Cappella Palatina della vecchia Aquisgrana, che gli
occhi del mio interlocutore si illuminano. E mi racconta con fervore del Sacro Romano
Impero, e della sua passione per il latino che ha segnato indelebilmente la sua
formazione classica. Ne nasce un’altra ora di conversazione fuori dal protocollo, in cui
discutiamo dei Germani di Tacito, così diversi da quelli di Cesare del De bello Gallico.
E solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di esempi illustri. Nel mondo della
ricerca scientifica più avanzata conosco moltissimi colleghi che hanno avuto una
formazione classica. La mia amica Fabiola Gianotti, tanto per citare un nome famoso.
Ma si trova un sacco di gente che non ha dimenticato come si traduce dal greco e dal
latino e che è a capo di grandi aziende, o, come Leiters, a dirigere entinaia di ingegneri
impegnati nelle tecnologie più avanzate.
Mi viene spesso da sorridere quando sento dire, da persone che solitamente non
capiscono nulla di scienza e di tecnologia, che per imboccare con decisione la via
dell’innovazione il nostro paese dovrebbe ridurre il peso e l’importanza degli studi
classici.
Con questa motivazione qualche grigio funzionario del ministero vorrebbe addirittura
abolire le traduzioni dal greco e dal latino al liceo classico. Follia pura.
Nel mondo della ricerca dura, quella segnata dalla più feroce competizione
internazionale, lavorano moltissimi scienziati che hanno scelto di fare fisica proprio
perché hanno fatto studi classici. Persone che non solo adorano greco e latino, ma
spesso conoscono l’italiano, amano discutere di storia o di filosofia e sono appassionati
d’arte. Come dice Semir Zeki, neuroscienziato dell’University College di Londra: «Il
cervello non distingue tra cultura umanistica e scientifica».
Cos’è che rende gli studi classici così adatti a formare la base per una preparazione
scientifica d’eccellenza. Non è solo il rigore che richiedono e neanche l’ampiezza della
formazione culturale che ti danno. Tutti ingredienti essenziali per attività che ti
spingono ad allargare lo sguardo per esplorare sentieri mai battuti.
Prendiamo proprio la traduzione dal greco e dal latino. Sei lì che combatti con il
vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un gruppo di frasi e ti sembra di
avere trovato la chiave. Soltanto che non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio.
Ed ecco che di colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e
abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava un’ipotesi molto
ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto questione di logica. Non saprei
trovare un’attività più vicina al lavoro scientifico concreto che viviamo
quotidianamente. Capita molto spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo
particolare, apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la
congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto, questo stesso
meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma.
Una ragione in più per studiare in profondità il mondo classico, greco e latino, per
conoscere le civiltà che sono alla base del nostro mondo e capirne le dinamiche che
tutt’oggi lo attraversano.
– Guido Tonelli, fisico del Cern, professore dell’Università di Pisa e ricercatore
dell'Infn, è fai i principali protagonisti della scoperta del bosone di Higgs. Nel 2016 ha
pubblicato «La nascita imperfetta delle cose» (Rizzoli)
Fine del liceo classico come metonimia
di Claudio Giunta - Domenicale del Sole 24 ore, 11 settembre 2016
Finite le scuole medie, una cara amica si sentì fare dal padre questo discorso: «Tu sei libera, puoi fare quello
che ti pare, scegliere la scuola che vuoi. Dunque scegli: Tasso o Mamiani?». Il Tasso e il Mamiani sono due
celebri licei classici di Roma, una volta andava così. Anche adesso, trent’anni dopo, va così, almeno per la mia
amica (che si è laureata in Storia, non in Ingegneria), che non imporrà niente, si capisce, ai suoi figli, ma sarà
lieta se vorranno anche loro scegliere, liberamente, tra il Tasso e il Mamiani; e va così anche per me (che mi
sono laureato in Lettere, non in Ingegneria), che non imporrei niente ai miei figli, ma sarei lieto se anche loro,
come me, decidessero di passare qualche anno della loro vita in compagnia dell’Eneide, degli aoristi, del
locativo e di Baruch Spinoza.
Buttarla sul personale, parlando di scelte scolastiche, è la prima cosa da fare, perché si tratta sempre di
preferenze, inclinazioni personali, si tratta di scelte di vita, e pretendere di guardare dall’alto, da un punto di
vista che si presume oggettivo, queste scelte di vita, e dire cos’è meglio e cos’è peggio non per sé o i propri
figli ma in generale è ridicolo prima che sbagliato.
Ciò premesso, è chiaro che i casi personali sono infiniti, e che un assetto all’istruzione bisogna darlo e si dà
(che cosa insegnare a scuola? Come organizzare i curriculum? Quali discipline privilegiare e quali no?), quindi
è del tutto legittimo domandarsi, per esempio, e lo si sta facendo in queste settimane, che destino può e deve
toccare al liceo classico. Nei trent’anni che sono passati dal mio ingresso al liceo classico, infatti, il mondo è
cambiato, forse più ancora di quanto fosse cambiato nei sessant’anni che separavano i miei anni Ottanta dalla
riforma Gentile. Cambiamenti strutturali, nel modo in cui viviamo, comunichiamo, ci spostiamo; e
cambiamenti culturali, in parte conseguenza di quelli strutturali, e che hanno intaccato quel complesso di idee
e valori che sono il fondamento della pedagogia del liceo classico. Umanesimo/tecnologia, lingue morte/vive,
tradizione/innovazione, conoscenza/competenza, teoria/pratica – tutti i termini sui quali il mondo di ieri
metteva un segno più, i primi di ciascuna coppia, adesso hanno un segno meno: non che il mondo di oggi li
snobbi del tutto, questo non si può dire, ma preferisce i secondi.
Conseguenza pratica: se nel mondo di appena ieri frequentare il liceo classico era il modo migliore per
cominciare a farsi strada nella vita, oggi molti pensano che non sia più così, e le iscrizioni al classico calano,
rischiano di prosciugarsi. In un libro aureo e dimenticato, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero osservava:
«Abbiamo ancora tutti moltissimo da trarre, dalla frequentazione della saggezza e della bellezza antica. Perché
dunque pensare di volerci togliere l’uso di questo formidabile strumento di vita?». Semplice: perché (parlano
sempre i molti, s’intende) ogni ora in più dedicata al latino e al greco è un’ora in meno dedicata all’inglese e
all’informatica, che come strumenti per la vita odierna sono decisamente più utili.
E che importa – commenta qualcuno – la crisi del liceo classico? È calato anche il numero di quelli che tirano
di scherma, e il mondo ha continuato a girare. Osservazione sciocca, perché, dato che viviamo in Italia e non
in Congo, liquidare il liceo classico significa anche liquidare, col latino e il greco, un pezzo sostanziale della
nostra storia e della nostra cultura: l’una e l’altra anche economicamente molto produttive, dato che i turisti
non vengono a trovarci soltanto per il mare e la cucina. Dunque la cosa importa, non solo a livello individuale,
ed è bene che se ne discuta, e la parola difesa (‘difesa del liceo classico’), che ai liberali può suonare stridula,
si adopera invece con pieno diritto. Tutto sta a intendersi sui modi.
Intanto: è chiaro che il classico non è e non sarà più la scuola dell’élite, il vertice del triangolo alla cui base
stanno le scuole professionali, i tecnici eccetera, o, come purtroppo ancora leggo in giro, il liceo d’eccellenza
(uno non fa il classico proprio per imparare ad astenersi da parole del genere?). È e sarà un liceo come gli altri,
ma calibrato su quei giovani che, per un pezzo della loro vita o per tutta, vogliono imparare molte cose sul
passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica. Può sembrare una cattiva notizia a
quelli che vaneggiano della speciale apertura mentale conferita dallo studio del latino, o della Grande Bellezza
che si dischiude solo ai classicisti, o di Zuckerberg che ha inventato Facebook perché ha letto l’Eneide. Ma
non è necessariamente un brutta notizia. Un tempo si faceva il classico perché quella era la scuola di chi andava
a comandare, o di chi ci provava: il latino e il greco erano una metonimia: averli studiati voleva dire appartenere
a un piccolo club di privilegiati (quelli che l’irriflessività di alcuni tra gli attuali fautori del liceo classico
scambia per ‘migliori’: ma se il fulcro della riforma Gentile fossero stati gli istituti tecnici è chiaro che i
‘migliori’, in quanto privilegiati, sarebbero stati i ragionieri). Adesso è e sarà la scuola di quelli che hanno un
reale, non metonimico interesse per quelle discipline. Che il numero degli iscritti cali mi pare a questo punto
inevitabile, e forse persino auspicabile. Le strade d’accesso all’élite si sono moltiplicate e diversificate, ed è
bene che chi ha altri interessi li soddisfi attraverso altri indirizzi di studio. Questo dovrà forse avere qualche
riflesso anche sulla prassi scolastica. Quando andavo a scuola io le bocciature fioccavano sin dalla quarta
ginnasio perché, più che insegnare il latino e il greco, bisognava scremare chi era ‘da liceo classico’ e chi non
lo era. Adesso servirà, se non davvero più gentilezza, più pazienza, e applicazione anche con i non predestinati.
Questa scuola di non-élite conserverà il suo solido impianto umanistico, ma non potrà non adeguarsi ai tempi.
Di fatto, mi pare che lo abbia già fatto e lo stia facendo: integrando al curriculum ore di scienze, portando la
lingua straniera fino alla quinta, dando la possibilità a chi vuole di studiarne una seconda. Una buona
preparazione umanistica e scientifica insieme non è una chimera, tant’è vero che molti ottimi scienziati hanno
fatto il classico, specializzandosi poi all’università. Ricordo questo fatto ovvio solo perché mi pare invece che
nel dibattito affiori ogni tanto una retorica scientista piuttosto rozza, e simmetrica a quella umanista: come se
la scuola dovesse formare dei piccoli ingegneri o dei piccoli informatici, e tutto il tempo passato a far altro
fosse tempo speso invano. Ma il liceo cura la formazione, non la professionalizzazione, e la formazione deve
fondarsi su un novero di discipline ragionevolmente ampio, salvo produrre dei monomaniaci.
Come fare spazio, al classico, alle nuove discipline (e alle nuove esigenze di vita: è ovvio che oggi lo sport ha
un’importanza molto più grande di quella che aveva ai miei tempi, e chi lo pratica dev’essere incoraggiato a
farlo)? Aumentare il monte ore? Non sarebbe uno scandalo, salvo però diminuire la quantità dei compiti a casa,
lavorando di più in classe insieme all’insegnante (mentre mi pare prevalga ancora un approccio ‘universitario’,
di fiduciosa delega allo studente, che non funziona più nemmeno all’università, e che insomma fa la fortuna
del CEPU). Sacrificare qualche ora di greco, latino o italiano alle nuove discipline? La sola ipotesi sembra
blasfema, dato che già con le ore a disposizione (gite e scioperi ed elezioni e feste nazionali aiutando) non si
riesce mai a finire il programma. Ma qui allora, perché l’ipotesi non sia blasfema, il discorso deve prendere
una piega diversa e riguardare non l’impianto disciplinare del liceo classico bensì i suoi contenuti.
Nella discussione (semplifico) pro o contro la traduzione dalle lingue classiche io sto molto decisamente coi
pro. Si cominci a tradurre, imparando il rigore, la precisione, la logica, la buona lingua e il resto (le idee sul
mondo antico, i miti, l’antropologia eccetera) verrà di riflesso. Salvo errore, però, negli ultimi tre anni di liceo
il tempo dedicato a leggere e tradurre i testi si riduce molto per lasciare spazio alla storia della letteratura. Vale
per il greco e il latino e vale, con le differenze del caso, per l’italiano. Ebbene, è qui – su questa enciclopedia
che va da Livio Andronico a Claudiano, da Esiodo a Nonno di Panopoli, dai trovatori a Zanzotto – che a mio
avviso bisogna sfrondare, potare. L’obiettivo non è insegnare la genealogia, che impareranno, in pochi,
all’università, ma il gusto e la capacità della lettura, capacità che la gran parte dei diplomati al classico, dopo
tre anni di ‘autori’, non ha: provate a fargli leggere non dico Cicerone ma la lapide di un cimitero. Non c’è da
abolire la storia, ma neppure da farne un feticcio; e c’è da abolire il mito della completezza, e i programmi
sesquipedali pieni di nomi e di chiacchiere attorno ai nomi.
Infine, adeguarsi ai tempi significa anche non ignorare il tempo presente. Gli studi classici nacquero e
prosperarono in un mondo in cui l’offerta di novità culturali era scarsa e omogenea, un mondo nel quale
esisteva un nesso di quasi naturale continuità con il mondo antico: i miti e gli eroi dell’epica tenevano nelle
menti il posto che oggi è occupato dai personaggi dei film. Questo nesso non esiste più, questa famigliarità si
è dissolta. Allo stesso tempo, l’offerta di novità culturali (libri, film, canzoni, giochi) si è dilatata all’infinito:
sono ovunque e sono, spesso, meravigliose, e capaci di parlare a un adolescente con un’immediatezza che
nessun classico può avere. Spalancare loro le porte significherebbe aumentare la confusione in un’età in cui
serve invece soprattutto ordine; ma escluderle da un’istruzione che si definisce ‘umanistica’ è sbagliato, perché
rischia di produrre dei mostriciattoli antipatici e reazionari, e patetiche torri d’avorio. Non si tratta di
attualizzare i classici, sollecitando a collegamenti spericolati; si tratta di insegnare agli studenti a conoscere e
a interessarsi anche a questo mondo, dato che è quello in cui devono vivere. Che una scuola in cui si insegnano
cose vecchie di duemila anni trasmetta un’idea museale della cultura è perfettamente normale, e va benissimo;
ma qualche correttivo sembra opportuno.
Più bravi e regolari negli studi: la rivincita del liceo Classico
di Antonella De Gregorio – Il corriere della sera – 1 novembre 2016
La ricerca Almalaure per il Corriere: chi si diploma in questo indirizzo ha voti più alti ed
è più motivato. Ivano Dionigi: «Per rilanciarlo va riconosciuta l’importanza del Latino e
del Greco. Potenziando la Matematica e le discipline scientifiche»
Ma quali processi e petizioni: per salvare il liceo classico basterebbe guardare i numeri.
Quelli del voto di laurea degli ex liceali: qualunque facoltà scelgano, hanno punteggi più
alti dei colleghi: 105, di media, contro 103 di chi esce dallo Scientifico e 99,7 di chi ha
studiato a un Tecnico. O quelli sulla regolarità degli studi, innanzitutto: in linea con i
diplomati scientifici e davanti ai tecnici. La motivazione, poi: il 40,3% dei laureati con
formazione classica si iscrive all’università spinto da interessi culturali, contro il 32,3%
dei laureati con formazione scientifica e il 27,8% di coloro che hanno un diploma tecnico.
Quando si trovano a giudicare il loro percorso universitario, infine, sono più
«consapevoli» ed «esigenti».Ma quali processi e petizioni: per salvare il liceo classico
basterebbe guardare i numeri. Quelli del voto di laurea degli ex liceali: qualunque facoltà
scelgano, hanno punteggi più alti dei colleghi: 105, di media, contro 103 di chi esce dallo
Scientifico e 99,7 di chi ha studiato a un Tecnico. O quelli sulla regolarità degli studi,
innanzitutto: in linea con i diplomati scientifici e davanti ai tecnici. La motivazione, poi:
il 40,3% dei laureati con formazione classica si iscrive all’università spinto da interessi
culturali, contro il 32,3% dei laureati con formazione scientifica e il 27,8% di coloro che
hanno un diploma tecnico. Quando si trovano a giudicare il loro percorso universitario,
infine, sono più «consapevoli» ed «esigenti».
La scuola che «tiene» di più
Basta, questo, a raccontare il liceo classico come la scuola che «tiene» di più? Ne è
convinto Ivano Dionigi - latinista, ex rettore dell’Università di Bologna (dove da poco è
tornato a insegnare), presidente di Almalaurea - che ha fatto analizzare dal Consorzio le
performance universitarie dei diplomati al classico in tutti i corsi: umanistici e scientificotecnologici. L’indagine, che Dionigi ha illustrato in anteprima al Corriere e che ha sondato
270mila laureati nell’anno solare 2015, sfata molti luoghi comuni. Intanto, che il Classico
sia la scuola dei «figli di papà»: lo è stato forse fino al 1969, quando era l’unico indirizzo
che dava accesso a qualsiasi facoltà universitaria, mentre chi proveniva dallo Scientifico
non poteva iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere. «Oggi è ancora vero che chi viene dal
Classico gode di un contesto socio-culturale più avvantaggiato; ma il dato del 33,8%
proveniente dalla classe media impiegatizia, sommato al 13,7% della classe del lavoro
esecutivo, smonta l’equazione», dice Dionigi. Oppure che offra prospettive di lavoro
circoscritte: i diplomati al classico svolgono lavori in ogni ambito, da Fabiola Gianotti,
direttrice del Cern di Ginevra, al regista Gabriele Salvatores. E poi che agli studenti del
Classico siano precluse (o risultino più ostiche) le facoltà scientifiche. A Bologna quelli
iscritti a Medicina battono i colleghi dello Scientifico per media di voti d’esame, voto di
laurea e regolarità di studi. Lo stesso a Roma, alla Sapienza; e al Politecnico di Milano,
dove il rettore, Giovanni Azzone, ha elogiato gli ottimi risultati dei diplomati classici.
Vori più alti
In generale, dice Dionigi «i voti di laurea sono più elevati, in tutti i quindici
raggruppamenti disciplinari esaminati, tranne ingegneria, dove classici e scientifici
comunque pareggiano (102,1). I numeri ci dicono anche che sono più numerosi i classicisti
che hanno svolto periodi di studio all’estero (15,7% contro il 12,2% e il 9%)». Mezzi
familiari e motivazione culturale in questo caso giocano alla pari.
La traduzione
Ma allora quel gregge sempre più sparuto (dimezzato in meno di dieci anni) che ha scelto
il classico - 6 ragazzi su 100, nel 2016 - ha più vantaggi o svantaggi nella laurea (e nel
lavoro) rispetto a chi ha fatto percorsi scientifici e tecnici? Domanda che ciclicamente
torna e riporta alla querelle passatisti/modernisti, conservatori/riformatori, sull’utilità e la
validità del liceo classico e di alcune sue prerogative (traduzione sì o no, per esempio). A
partire dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, che reputava il Classico un liceo
nozionistico, da svecchiare e alleggerire. Ma i sostenitori ne apprezzano metodo e
organizzazione: allena capacità di concentrazione e di astrazione, padronanza della lingua.
Mentre quel meccanismo di logica e rigore che è la traduzione, costituisce un esercizio
mentale e cognitivo unico, sostiene Massimo Cazzulo, grecista e docente al classico Tito
Livio di Milano: «Tradurre un testo classico significa mettere in atto, e simultaneamente,
un ragionamento complesso che stimola i processi analitici, sintetici, intuitivi,
gnoseologici, che induce a impostare un’ipotesi di lavoro e sottoporla, poi, ad una critica
serrata, per vedere se funziona realmente. E questo spiega perché gli studenti che escono
dal Classico ottengono risultati eccellenti anche in materie molto lontane dalla classicità»,
afferma.
Rilancio
Come si sia arrivati a mettere all’angolo un liceo che ci è stato invidiato da mezzo mondo
richiederebbe un libro. Tra le pagine, comparirebbero processi, appelli e da ultimo anche
una «task force» per rilanciare l’indirizzo di studi (taskforceperilclassico.it). Va detto che
le critiche al Classico nascono dall’esterno, non dall’interno: chi lo ha scelto, in 74 casi su
cento lo rifarebbe. Lo dicono i dati di Almadiploma, la branca di Almalaurea dedicata alla
scuola superiore. «Non si tratta solo di difenderlo ma di riflettere, seriamente», dice Ivano
Dionigi (che ha anche scritto, di recente, un libro sul valore del Latino oggi: «Il presente
non basta»). «La discussione è centrale, per non correre in direzione di licei sempre più
mediocri». Per un rilancio, Dionigi invoca innanzitutto un pieno riconoscimento
dell’importanza del latino e del greco. E poi, «anziché semplificare e sostituire, come è
stato suggerito, potenziare e aggiungere. Dilatando gli orari scolastici, rivedendo i compiti
a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti», dice. «Con un’adeguata e necessaria
iniezione di matematica e discipline scientifiche nel classico, i segni più della nostra
indagine si estenderebbero e affermerebbero in tutti gli indicatori». E continueremmo ad
avere la miglior scuola d’Europa e d’Oltreoceano.
Contro la scuola facile
–di Paola Mastrocola - 29 maggio 2016 – Il sole 24 ore
Si parla molto di latino e greco, oggi. Se ne parla perché le iscrizioni al liceo classico sono in calo, e
perché si sta pensando di cambiare la seconda prova di maturità, la traduzione.
C’è stato un «processo al Liceo classico», a Torino; un convegno al Politecnico di Milano; c’è un
libro di Nicola Gardini sulla bellezza del latino; ci sono articoli, blog sul tema. Sono intervenuti
personaggi della politica e della cultura, a favore o contro: Umberto Eco, Maurizio Bettini, Luigi
Berlinguer, Federico Condello, Luciano Canfora,Luca Serianni (vedi il suo intervento su Domenica
della settimana scorsa, ndr), e tanti altri. Insomma, c’è subbuglio, polemica, toni accesi.
Sono contenta. Anzi, vorrei di più. Vorrei che si scatenasse l’inferno su questo tema, perché riguarda
tutti noi, la cultura, l’Italia, il futuro del mondo, e del pensiero. Non vorrei lo si considerasse un
problemino marginale che riguarda soltanto il latino e greco, e i licei...
Per questo, oggi non saranno Paginette, ma un unico paginone.
Il punto è questo: nessuno dice esplicitamente di voler abolire il liceo classico, né il latino allo
scientifico; ma molti dicono di voler cambiare (ridimensionare?) la seconda prova agli esami di
maturità: la traduzione.
La proposta innovativa è di ridurre il testo da tradurre, e non chiederne più solo una mera traduzione,
ma fare anche domande sul contesto, la storia, la letteratura, l’autore, la sua opera, le sue idee. Il fine
dichiarato è di rendere più affascinanti materie ostiche, e mediamente poco amate, come il latino e
greco, fare in modo che il loro studio appassioni i ragazzi dell’era digitale.
Il problema esiste, non si può negare. Bisogna affrontarlo. E non credo che tenere tutto com’è sia una
buona soluzione, qualcosa davvero dovrà cambiare.
Io non ho la soluzione, ovviamente. Vorrei solo che tutti quanti ci interrogassimo, che pensassimo
bene a cosa fare. Tutti quanti, non solo insegnanti, governanti, funzionari ministeriali, ma anche
medici, ingegneri, panettieri, elettricisti, attori, artisti, ciclisti, clown, infermieri, tassisti, archeologi,
scenografi, giornalisti... Tutti.
Temo che, se passasse questa variante, sarebbe un ulteriore abbassamento di livello, per l’istruzione
italiana. E uno snaturamento del liceo classico. Sarebbe ancora una volta edulcorare, annacquare,
infiorare, indorare la pillola, per corrispondere alle richieste della maggioranza, adeguarsi, acchiappar
consenso.
Perché dico questo? Proviamo a immaginare. Davanti a un testo di Orazio, chiederemo all’allievo
non di tradurlo, non di sapere grammatica e sintassi, ma di capirlo e interpretarlo, e “parlarne intorno”.
Pazienza se non riconoscerà una finale, se sbaglierà una consecutio o non vedrà certi nessi
consequenziali (beceri tecnicismi?); l’importante è che colga il senso generale, lo inquadri in un
contesto e dica quel che pensa. Carino, niente da dire. Molto fascinoso, sicuramente allettante: meno
fatica, meno rigore, meno «esattezza», più apertura (forse) agli aspetti della civiltà, della cultura, del
pensiero, in senso ampio. Ma avrei due considerazioni da fare.
La prima è: lo facciamo già! Facciamo «autori» e «letteratura» nei licei, non solo grammatica, non
solo traduzione. Abbiamo un programma che prevede proprio questo: di leggere testi anche già
tradotti, integrali o in antologia, di inquadrarli, di parlarne a tutto campo. A ciò molti insegnanti
aggiungono, per passione, di fare anche teatro, dai testi antichi. E abbiamo prove che interrogano
l’allievo su questo, anche alla maturità: all’orale e con le domande della cosiddetta «terza prova» si
dà spazio proprio a quel che l’allievo ha studiato e ha amato.
La seconda: non sarebbe un ulteriore invito al pressapochismo, alla chiacchiera? Se accanto alla
traduzione di un passo facciamo anche le domandine sul carpe diem, ovvio che la prova diventa più
facile: un discorsetto sulla transitorietà della vita umana lo butta giù chiunque abbia mediamente
leggiucchiato qualche pagina o videata, o orecchiato qualche sprazzo di lezione. (Se poi saranno le
solite domandine, lo spettro della scuola-test incombe e mi fa paura...).
Perché voler intorbidare le acque adamantine di una prova chiarissima e semplice che richiede solo
di saper tradurre? Che c’è di male? Con la traduzione si chiede di mettere in atto quelle capacità
linguistico-logico-letterarie-culturali... che sono basilari e imprescindibili per capire e interpretare ciò
che si legge. Tutto lì. Gli alati discorsi vengano dopo. Anche perché rischiano di essere aria fritta. In
quanto poi alla passione, be’, difficile appassionarsi a Orazio senza capire cosa dice, senza saperlo
tradurre.
Se facilitiamo o riduciamo la traduzione, temo che a breve non sapremo più leggere Orazio, e ci
ridurremo a poter frequentare solo i riassuntini di Wikipedia e fare solo discorsi generali (e
superficiali) su Orazio. Alati discorsi, appunto.
La traduzione dal latino e greco è una delle ultime cose difficili che son rimaste nella scuola italiana,
insieme alla matematica. Quindi il calo di iscrizioni al classico non potrebbe voler dire che i ragazzi
oggi, tout simplement, sono meno in grado di fare cose difficili? E come potrebbe piacerci questo? I
risultati, è vero, non sono brillanti. Pochissimi arrivano a saper davvero tradurre. Quindi edulcoriamo?
E, in prospettiva, aboliremo? Non mi sembra una soluzione. È come quando vediamo alzarsi i livelli
di inquinamento nelle città e, invece di rendere l’aria più salubre, abbassiamo la soglia di pericolo.
Strano modo di risolvere i problemi... Allo stesso modo, c’è un calo di iscrizioni al classico? Bene,
allora alleggeriamo latino e greco?
Non potremmo fare esattamente il contrario, e cioè potenziare e approfondire, e rendere tutti capaci
di tradurre? (Anche perché è colpa nostra se i ragazzi sono sempre meno capaci di tradurre, e in
generale di far cose difficili, è colpa della scuola che abbiamo costruito noi per loro negli ultimi anni,
quindi sarebbe doveroso e onesto riparare una buona volta i danni che abbiamo arrecato, e non
aggiungerne di nuovi!).
Potremmo rendere latino e greco obbligatori fin dalla prima media. Potremmo ritenerli indispensabili
e basilari a qualsiasi formazione. Almeno il latino, se non il greco. Ripristinare la prova di traduzione
anche allo scientifico. Aumentare le ore di latino (o almeno riportarle a com’erano). Riproporre la
traduzione dall’italiano. Innalzare il livello, per tutti, insomma. Rendere liceo classico tutta la scuola,
cioè la scuola di massa.
Potremmo anche prevedere delle certificazioni con le quali soltanto si può accedere a certe università,
e si ottengono certi lavori. Lo ha fatto la Cusl (Consulta universitaria per gli studi latini): un certificato
che attesta la conoscenza del latino, con quattro diversi livelli di competenza (anche se applicare al
latino i criteri delle lingue moderne può lasciar perplessi...). Un certificato allegabile al curriculum,
visto che ci sono aziende, soprattutto all’estero, che apprezzano molto la conoscenza del latino, e la
richiedono.
Ma bisogna crederci. Bisogna credere che fare latino e greco, quindi fare la traduzione, abbia ancora
un senso. E perché non crederci? Quel che vedo io è che chi viene dal liceo, se ha fatto un buon liceo!,
sa affrontare meglio gli esami più difficili nelle Facoltà più difficili. Chi ha fatto altre scuole invece
arranca, e spesso deve abbandonare perché quegli esami non li passa. Questo non ci dice niente? (O
non ci piace?).
Ecco che cosa mi preoccupa: l’attuale deficit di motivazione nostra, di noi adulti, insegnanti, scrittori,
intellettuali, politici, governanti, famiglie. Perché crediamo così poco nel greco e nel latino? Forse
perché l’Europa, e l’America, fanno un altro tipo di scuola (che peraltro sta fallendo)? E se fossero
invece proprio il latino e il greco a fare la nostra differenza, e la nostra eccellenza? Perché dovremmo
rinunciarci, equiparandoci pedissequamente, e conformisticamente, agli altri? Non potremmo essere
più orgogliosi e consapevoli, e auspicare che siano gli altri a imitare noi?
O è per compiacere l’utenza, cioè famiglie e allievi, che vogliono una scuola facile e divertente? E se
sbagliasse, questa benedetta «utenza»
Abbiamo già reso facile e divertente la scuola. Da quarant’anni, e soprattutto negli ultimi quindici,
non facciamo altro: il latino ai licei è già più facile e leggero. Anzi, è stato talmente annacquato che
è ormai impossibile insegnarlo davvero. Questa è la verità, gravissima, che non si dice mai: il latino
è una finzione che si tira avanti nella più completa ipocrisia. Non si fa più alle medie, si comincia in
prima liceo con tre ore a settimana: impossibile insegnarlo, e quindi impararlo, per davvero.
Impossibile arrivare a saper tradurre Cicerone, Seneca o Virgilio. Ma si continua a fare. È peggio che
se fosse stato abolito: è finto. A parte lo strenuo impegno e ardore di qualche sparuto insegnante che,
a dispetto degli orari ridotti e di tutto il resto, cerca ancora di insegnarlo come si deve, ma alla fine
può ben poco. Quanti oggi, tra insegnanti e allievi, sanno ancora veramente il latino?
Ecco perché, forse, si pensa di cambiare la seconda prova di maturità: per avvenuta insipienza
collettiva. È amaro, lo so. Ma ancora più amaro è che, siccome non abbiamo (ancora) il coraggio di
abolire il latino, lo spegniamo a poco a poco, gli togliamo aria, e, cosa ancor più grave, neghiamo di
farlo.
Questo mi fa male. Preferirei che l’Italia avesse il coraggio delle sue azioni, che i governanti, gli
intellettuali, gli insegnanti, i funzionari ministeriali dicessero apertamente: scusate italiani, ci
dispiace, non siamo più in grado di fare latino. Siamo un Paese che è andato così. Il latino non lo
studiamo più, nessuno più ne ha voglia e dunque vada con Dio. Ci dispiace esser noi a doverci
prendere questa responsabilità, di far fuori dopo tremila anni il latino e il greco, ma pazienza,
qualcuno lo deve pur fare. D’altronde, è roba difficile e sa di vecchio: un futuro ben diverso ci aspetta
e ci sorride. Il mondo attuale, la tecnologia, l’innovazione, il progresso, e bla bla...
Preferirei. Così come, in fondo, preferisco le parole, sconcertanti ma coraggiose, di Luigi Berlinguer
al convegno di un mesetto fa al Politecnico di Milano: la traduzione al liceo va abolita! Almeno ha
coraggio, l’ex ministro Berlinguer. Tanto di cappello. (D’altronde, non aveva forse già abolito il tema,
quindici anni fa? Dando un colpo mortale, secondo me, alla prova di scrittura...).
Va bene. Se davvero non crediamo più che latino e greco siano le sole e migliori attività che allenano
la mente, che insegnano una strutturazione logica del pensiero e via dicendo, d’accordo, sostituiamoli!
Ma con cosa? Quali proposte stiamo facendo? Io non ne vedo una, sento solo parole vacue e confuse.
Aria fritta. Che cosa di altrettanto impegnativo e difficile siamo in grado di proporre, se decidiamo di
abolire o alleggerire la traduzione?
Ho il sospetto che, semplicemente, vogliamo far fuori la difficoltà.
Temo che il mondo si avvii a puntare quasi esclusivamente sul consenso, e stia diventando una
gigantesca, universale macchina per produrre consenso. Lo vediamo nella rete, ma lo vediamo anche
qui in Italia nella politica, e nella cultura: nella fattispecie, in quella particolare zona della cultura che
si occupa di scuola. Dal ministero di Luigi Berlinguer in poi la scuola cerca consenso, cioè utenza,
cioè iscritti. È un’azienda che deve far quadrare i conti. L’acchiappa-utenza è una macchina che gira
tutto l’anno in tutte le scuole, e gioca su: orientamento, accoglienza, progetti Pof, incontri, dépliant.
Materiale illustrativo e pubblicitario, insomma.
Siamo sicuri che l’utenza vada così vezzeggiata e opportunisticamente ossequiata?
È nell’importanza del difficile che dovremmo ricominciare a credere. Soltanto una scuola che abbia
il coraggio di tener duro e continui a proporre cose difficili fa il bene dei nostri giovani, tutti, di
qualsiasi condizione siano: consentirà loro quell’ascesa, intellettuale e sociale, che oggi non vediamo
più realizzarsi, ma che fino a ieri, fino alla mia generazione, era possibile. E riusciva a cambiare
drasticamente il destino di una persona.