In difesa del Liceo classico (Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13
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In difesa del Liceo classico (Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13
In difesa del Liceo classico (Alfredo Sessa – Il sole 24 ore – 13 ottobre 2016) Liceo Classico scuola-modello, capace di parlare all’anima degli studenti e di lasciare una traccia di civiltà nei sentimenti, nella parola, nella scrittura, nel rapporto che i giovani avranno con la vita e con il futuro. O Liceo Classico goffa eredità del passato, scuola che sforna persone destinate a rincorrere, per potersi inserire nel mondo del lavoro, materie scientifiche non sufficientemente approfondite negli anni trascorsi in compagnia del greco e del latino. Il dibattito è sempre aperto e attuale. La Domenica del Sole 24 Ore ritiene che il Liceo Classico vada difeso, perlomeno in quanto luogo privilegiato per coltivare l’idea di un carattere disinteressato della cultura. O perché i saperi umanistici possono aprire la strada a importanti vocazioni scientifiche. La discussione sull’attualità del Liceo Classico ha trovato ampio spazio sulle pagine della Domenica con i contributi di Nicola Gardini e Guido Tonelli (28 agosto), di Vincenzo Fano, Claudio Giunta, Armando Massarenti e Angelo Varni (11 settembre) e di Gilberto Corbellini, Alessandro Laterza e Lorenzo Tomasin (18 settembre). Il Liceo Classico è una scuola-modello per l’Occidente, e la versione dal greco o dal latino è utile anche a un fisico o a un matematico, sostengono alcuni. Meglio non chiudersi nel passato, il mondo è cambiato, la pedagogia deve rinnovarsi, lo studio del greco e del latino va ristrutturato sulla base di più realistiche considerazioni, replicano altri. E c’è poi il guado attraversato in punta di piedi da chi sostiene che sarebbe auspicabile che la scuola offrisse un nucleo di discipline fondamentali comuni a tutti, per poi lasciare la possibilità di mettere la freccia lungo il cammino formativo e di dirigersi verso materie elettive e opzionali. Forse il Liceo Classico serve semplicemente perché è una delle scuole dove si studia di più. Se si ha la fortuna di incontrare professori che fanno amare le materie che insegnano, e sanno creare ponti tra passato e futuro, è come sottoscrivere una solida assicurazione per la vita. In difesa del liceo classico, scuola modello per l’occidente (Nicola Gardini - 28 agosto 2016 - “Il sole 24 ore”) Il liceo classico è sotto accusa, anzi, sotto assedio. Il problema è squisitamente italiano, e non solo perché una scuola del genere è tutta italiana. Gli attacchi al liceo classico, infatti, non vanno presi – se non come concomitanza storica – per parte della diffusa crisi delle humanities che caratterizza le accademie angloamericane; e non solo quelle. In India, per citare una grande democrazia, il sapere umanistico è stato smantellato. Lì trionfa la matematica. Ecco una delle ragioni per cui i migliori matematici sono indiani. Non parliamo della Cina. La corsa precipitosa alla monetizzazione del sapere, insomma, sta facendo piazza pulita degli insegnamenti letterari e linguistici un po’ dovunque. Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona. La cosa si commenta da sola. In poche parole: i soldi diminuiscono (ne sono spariti tanti con gli ultimi disastri finanziari) e i dipartimenti di studi umanistici si contraggono, si sciolgono, spariscono. La carriera umanistica per moltissimi ormai è solo un’illusione distruttiva. L’Italia tutto questo, in pratica, non lo subisce. L’Italia ha il liceo classico. Avendo una certa familiarità sia con l’istruzione italiana sia con quella di vari paesi stranieri, non esito a dire che il liceo classico è l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che un governo occidentale abbia mai messo in piedi: una scuola che fonda principalmente la formazione dell’individuo sullo studio delle lingue antiche, il greco e il latino. Chi esce dal liceo classico – se circostanze slegate dal tipo di studio non si frappongono – conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia. Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità, che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze. Una simile visione delle cose è limitata da un grave errore: la convinzione che lo studio del greco e del latino non sia cosa scientifica; e che scienza siano solo la fisica, la matematica e la biologia. Lo studio delle lingue classiche, invece, è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che viaggiano e si trasformano nel tempo. Scienza, indipendentemente dall’oggetto esaminato, è tutto ciò che richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti. Solo una lesiva e grottesca riduzione della realtà e della vita umana può negare importanza ai reperti dell’antichità e all’apprendimento di due miracolosi sistemi cognitivi, arrivati fino a noi grazie a un’amorosa e raffinatissima opera di trasmissione, come il greco e il latino. In particolare, eliminare la traduzione (sulla centralità della quale in questo giornale già si è pronunciata Paola Mastrocola) sarebbe un gesto di irresponsabile, gravissimo immiserimento: come sostituire tutti gli originali degli Uffizi con riproduzioni formato poster. I sostenitori del liceo classico, per fortuna, non mancano. Sono i giovani stessi, e sono persone dei più vari tipi, compresi gli scienziati. Una petizione di un gruppo di professoresse fiorentine dello storico liceo Michelangiolo (http://taskforceperilclassico.it/t/) ha già raccolto circa cinquemila firme, tra cui riconosciamo un Salvatore Settis, una Eva Cantarella e un Luciano Canfora, per citare solo alcuni celebri rappresentanti del sapere umanistico, ma anche due insigni fisici come Guido Tonelli e Carlo Rovelli. Basta con proposte di riforma boomerang. Basta con questa cecità. Un paese che vuole vivere ha il dovere di sapere prima di tutto dove già eccelle. Studiare sodo:questo serve! (Alessandro Laterza - Il sole 24 ore - 18 settembre 2016) Io ho fatto il liceo classico. Mio padre e mia madre hanno fatto il liceo classico e così le mie sorelle e tutti i miei zii e zie. Due mie figlie hanno fatto il liceo classico, lo stesso i miei nipoti. Ho una figlia piccola che presumibilmente farà il liceo classico (se ancora questo ordine di scuole starà in piedi). È fuori discussione che, nella scelta delle scuola secondaria superiore, sono gli adulti a incidere ben più dei diretti interessati. E in questa scelta prevale un certo conservatorismo inerziale a favore di ciò che ci è più noto e famigliare. Nel caso del liceo classico, il tutto è condito da un particolare spirito di corpo: chi ha avuto a che fare per 5 anni con greco e latino mantiene il retropensiero che quella è la scuola per i “bravi”, anzi per i “più bravi”. Ai miei tempi, nel giudizio al termine delle scuole secondarie inferiori, all’alunno di buon profitto si raccomandava di accedere al liceo classico. Quasi fosse la logica conseguenza di un miglior patrimonio individuale di competenze e conoscenze (come oggi si direbbe). Oggi il liceo classico si presenta in vistosa crisi. Le iscrizioni sono andate calando e anche i bastioni tradizionali, tutti dislocati da Roma in giù, cominciano a cedere. Ci interroghiamo dunque sul futuro di questo pezzo del nostro sistema formativo. E una qualificatissima minoranza cerca di trovare o ritrovare ragioni per controbattere al declino di quella che, tra il 1923 e il 1940, fu definita come l’unica porta di accesso a tutti i percorsi di studio universitari e come irrinunciabile biglietto d’ingresso alla classe dirigente nazionale. Molti di questi argomenti sono fondati e ragionevoli. La salvaguardia del greco e del latino – recentemente pesantemente penalizzati nei licei francesi – viene giustificata con il peso che la cultura classica ha nella nostra tradizione nazionale e che tocchiamo e vediamo concretamente nel paesaggio artistico e monumentale delle nostre città. Ci si richiama alle capacità cognitive e logiche che l’esercizio della traduzione consente di sviluppare. Ovvero si esalta come valore l’assoluta “inutilità” delle lingue “morte” come occasione per sviluppare un disinteressato amore per il sapere. Contrapposto, quest’ultimo, alla visione utilitaristica che vorrebbe vedere nella scuola una sorta di laboratorio di formazione professionale, propedeutico all’accesso nel mondo del lavoro. Personalmente accetto e sposo pressoché tutte queste motivazioni. Nello stesso tempo, però, le trovo insufficienti. Non vedo, in particolare, quale sia il superiore valore formativo del greco e del latino rispetto all’algebra, alla biologia o alla chimica. Me ne dolgo (bene o male sono laureato in lettere classiche) ma davvero non ci riesco. Se così è, allora, quale argomento rimane a supporto della scuola meno up-to-date (anglismo idiota ma voluto) che ci sia, in Italia e non solo, per di più certamente destituita di ogni funzione meccanica di selezione della classe dirigente? L’argomento io ce l’avrei. Anzi, ce l’ho. E in verità l’ho ritrovato anche nelle riflessioni espresse, sempre sul Domenicale, da Paola Mastrocola (che non insegna più, ma capisce e ama la scuola). Il liceo classico serve - insisto: serve – perché è la scuola dove, in linea di massima e per il momento, si studia di più. Questo è un bene e un valore di portata straordinaria. Sappiamo o dovremmo sapere tutti che uno dei rischi crescenti di tutti i sistemi formativi è quello della disabitudine alla concentrazione e all’applicazione nello studio. Non mi soffermo sulla discussione se ciò dipenda dai cambiamenti dello scenario tecnologico e culturale\antropologico. La questione c’è e si imporrà sempre di più di fronte all’imponente fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, alla questione (fortissima in Italia) dell’abbandono scolastico, al tema della oggettiva impossibilità di schiacciare tutto l’universo dell’istruzione sulla formazione professionale. Saper studiare è, per dirla in didattichese, la competenza del futuro. Certo, lo stesso potrebbe farsi in un super-liceo tecnologico o economico-sociale (che esistono solo sulla carta). Ma, nell’attesa che sorgano – non si sa con quali visione, risorse e personale – questi nuovi ordini di scuole perché distruggere l’unico che per conformazione ha la peculiarità assoluta di imporre la disciplina dello studio? Un’unica avvertenza, dunque. Non annacquiamo il liceo classico, come purtroppo sta già avvenendo e in modo pateticamente maldestro. Il liceo classico, con pochi correttivi e aggiornamenti (specie sulle lingue straniere), deve rimanere quello che è: la scuola dove si studia di più e dove ci si prepara a sviluppare l’ingrediente fondamentale per continuare con profitto e successo gli studi. Ben venga che ciò accada attingendo al meglio del nostro patrimonio culturale e educando il gusto per la bellezza. Ma il punto fondamentale resta esattamente quello per cui il liceo classico è in realtà sempre meno popolare: lo studio come metodo e fatica, non come gioco di società o come adempimento burocratico da espletare. In un mondo sempre più incline al consumo passivo di immagini o adagiato nell’illusione della cultura fai-da-te sulla Rete, “potente” sarà chi è capace per tutta la vita di studiare. Liceo classico: no, il problema non è il latino di Luca Ricolfi – 18 ottobre 2016 – Il sole 24 ore Non so esattamente perché, ma ho sempre detestato gli appelli. Forse perché sono troppi, e i personaggi pubblici ne abusano (come i radicali con i referendum). O forse perché, assai spesso, sembrano strumenti di autopromozione dei firmatari, più che mezzi adeguati per risolvere i problemi che sollevano. Insomma, quali che siano le origini della mia diffidenza, non ho mai firmato appelli. Anzi, mi sono dato una regola: non firmare mai un appello, anche se lo condividi al 100%. Oggi però sono crollato. Ho violato la mia regola, e ho firmato un appello, il primo (probabilmente l'unico) della mia vita. Non me la sentivo di non aderire. Così, venerdì ho aggiunto la mia minuscola firma alle 9.964 che già erano state raccolte. Probabilmente, nel momento in cui leggete questo articolo, le firme avranno superato la barriera delle 10mila, tantissime per il tipo di argomento considerato. Di che cosa si tratta? Si tratta della lettera-appello contro l’abolizione, parziale o totale, della traduzione dal latino e dal greco nell’esame di maturità (una proposta lanciata qualche mese fa dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a un convegno milanese). Qui non voglio aggiungere alcun argomento alle limpide e convincenti parole dell’appello, il cui testo è direttamente consultabile su internet (indirizzo utile anche per eventuale firma). Quello che vorrei fare, invece, è raccontare come può vedere le cose chi, come me, fa il sociologo e insegna materie scientifiche (matematica e analisi dei dati) agli studenti universitari. Ebbene, io sono convinto che la vera posta in gioco non sia la sopravvivenza della cultura classica nel nostro Paese. Certo, tutto fa pensare che la nostra epoca sia una sorta di controRinascimento, un tempo in cui il pendolo fra l’ammirazione per i classici e la venerazione delle novità oscilla decisamente a favore di queste ultime. E, se devo fare una previsione, sono perfettamente persuaso che si continuerà sulla strada già imboccata con la soppressione della storia antica dalla scuola media inferiore: nelle scuole secondarie del futuro lo spazio riservato alla civiltà greco-romana da cui proveniamo sarà sempre più ristretto. E tuttavia a me pare che la ragione vera per cui si vuole (e quasi certamente si riuscirà) abolire la traduzione dal latino e dal greco non sia l’incapacità di apprezzare la cultura classica, o la volontà di promuovere la cultura scientifica, o il desiderio di modernizzare e svecchiare la scuola. No, la vera ragione è molto più terra-terra: la traduzione dal latino e dal greco, insieme ad alcune parti della matematica (nei casi in cui vengono effettivamente insegnate), è rimasto l’ultimo compito davvero difficile della scuola secondaria superiore. È questo, semplicemente questo, che rende attraenti le tesi degli abolizionisti. È questo che – prima o poi – consentirà loro di imporsi. Perché, non nascondiamocelo, la domanda degli studenti e delle loro famiglie non è di alzare l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come in effetti diligentemente facciamo da almeno quattro decenni. È questo, il livello dell’asticella, che fa la differenza fra una buona scuola e una scuola mediocre. Ed è questo, la tenace volontà di tenerla bassa, il non-detto che accomuna buona parte delle innovazioni nella scuola e nell’università. Se così non fosse, alla progressiva erosione dello spazio del latino e del greco, con la soppressione dell'analisi logica nella scuola media inferiore, la scomparsa quasi universale della traduzione dall’italiano, l’istituzione di licei scientifici “ma senza latino”, si accompagnerebbe l'introduzione di soggetti ritenuti più interessanti, o più utili, o più formativi, ma altrettanto impegnativi. Giusto per fare qualche esempio: studio del cinese, compresi gli ideogrammi; logica e calcolo simbolico; teoria della relatività; meccanica quantistica; filologia classica o moderna; algebra astratta; linguaggi di programmazione evoluti (al posto del ridicolo insegnamento del pacchetto Microsoft Office). Ecco perché dico che la cultura classica non è la vera posta in gioco. Le minacce alla cultura classica vengono un po’ da tutte le parti, ma il suo vero tallone di Achille è che c’è un momento di essa, quello in cui prendiamo in mano un testo di 2000 anni fa e proviamo a tradurlo, che richiede un livello di organizzazione mentale che non siamo più capaci di fornire a tutti. Per questo, essenzialmente per questo, la traduzione dal greco e dal latino è entrata nel mirino della politica. Non tanto perché «non è utile» (quasi nulla di ciò che si insegna a scuola ha un’utilità immediata), ma perché è difficile, molto difficile. Si potrebbe obiettare: perché mai dobbiamo difendere le cose difficili? Non c’è un po’ di sadismo nel rifiuto di alleggerire gli studi? È arrivati a questo punto, a questo nodo del problema, che mi sono convinto che, proprio per il lavoro che faccio, non potevo non firmare l’appello. Perché quel che osservo nel mio lavoro di docente universitario non mi può lasciare indifferenti. Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso. La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave, questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro. No, il modello verso cui stiamo correndo a fari spenti è quello della liceizzazione totale: la scuola secondaria superiore è oggi un gigantesco liceo che non è più in grado di erogare una preparazione di base decente, e proprio per questo induce l’università a trasformarsi essa stessa in un immenso e tardivo liceo. L’unico baluardo che resta in piedi sono quelle scuole, ma forse sarebbe meglio dire – quegli insegnanti – che non hanno rinunciato a spostare l’asticella sempre più in su, per mettere i loro allievi nelle condizioni di affrontare qualsiasi tipo di studio, umanistico o scientifico che sia. È grazie a queste scuole e a questi insegnanti che all’università, nonostante tutto, arrivano ancora drappelli di studenti in grado di ricevere un’istruzione universitaria, e le materie più complesse non sono ancora state abolite del tutto. Ma si tratta di eccezioni, non di rado provenienti dalla minoranza di studenti (circa il 6%) che ancora scelgono il liceo classico, con la sua aborrita prova di traduzione dal latino e dal greco. La regola, purtroppo, è che chi ha un diploma di maturità non è in grado di frequentare un’università che non abbia drasticamente abbassato gli standard. È per questo che sto con la lettera-appello sulla traduzione dal latino e dal greco. Per me quella lettera non difende semplicemente la cultura classica, il latino o il greco. Quell’appello, difendendo l’ultima prova veramente difficile rimasta in piedi nella scuola, difende anche un'idea più generale: che se non vogliamo privare i nostri ragazzi delle capacità di cui prima o poi avranno bisogno, dobbiamo regalargli studi degni di questo nome, e smetterla di proteggerli da ogni sfida che possa metterli davvero alla prova. Classico per tutti? –di Armando Massarenti - 11 settembre 2016 – Il sole 24 ore Il liceo classico è stato, ed è tuttora, una eccezionale palestra per il pensiero critico. È, anche, il luogo privilegiato per coltivare l’idea del carattere disinteressato della cultura. Unisce dunque, idealmente, due aspetti essenziali di una buona formazione: una chiave universale di grande utilità, e il massimo del piacere che deriva dall’esperienza della pura bellezza. Forse è per questo che gli articoli di Nicola Gardini e Guido Tonelli, un umanista e uno scienziato, pubblicati due settimane fa in difesa di questa nostra gloria nazionale, hanno raccolto un ampio consenso. In questo numero torniamo sull’argomento con diversi interventi che pure sottolineano l’unità della cultura. Ma se è vero che i saperi umanistici possono aprire la strada a vocazioni scientifiche, è anche vero che la mentalità scientifica, o i metodi mutuati da essa, sono assai produttivi per lo sviluppo delle humanities. Ne era ben consapevole Vito Volterra, il primo presidente del Cnr, di cui si parla qui a fianco, e su questa linea all’interno troverete due interventi, di Angelo Varni e di Vincenzo Fano, insieme a quello di Claudio Giunta che sottolinea - accanto agli argomenti, assai forti, ancora oggi validi per iscriversi al liceo classico - la percezione diffusa che non sia più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Classe dirigente oggi lo si diventa anche per altre vie. Allora la domanda diventa: quali sono i saperi necessari oggi per farsi strada nel mondo? E se siamo tutti d’accordo che sono le capacità logiche e argomentative - il pensiero critico - gli strumenti decisivi, perché non mettere queste al centro dell’intero sistema educativo? Si dice che lo studio del latino e del greco sviluppa le capacità di ragionare, di produrre analogie e inferenze logiche. Ma è vero anche il contrario: i più bravi a tradurre lo sono perché hanno buone capacità logiche e dialettiche. Perché non partire da qui? Perché non pensare che il trionfo della classicità, negli anni a venire, non possa passare per la creazione di tanti piccoli Socrate, capaci di usare il loro sapere critico negli ambiti più diversi? «Il mio successo in Silicon Valley? Lo devo tutto al liceo classico» –di Eleonora Chioda - 29 settembre 2015 – Il sole 24 ore «La Silicon Valley mi ha cambiato la vita, ma se ce l'ho fatta lo devo al liceo classico della mia cara Cava de' Tirreni». Adriano Farano, 34 anni, una laurea in Scienze Politiche, ex giornalista (ha fondato a Strasburgo il giornale online CafeBabel.com, che ha redazioni in 35 città europee), è un italiano di successo in Silicon Valley. Arrivato in California dopo aver vinto una prestigiosa borsa di ricerca all'università di Stanford, ha creato Watchup, un'applicazione di video news, che ha raccolto 4,3 milioni di dollari da investitori giganti come Microsoft, Tribune Media e la stessa Stanford Univeristy. «Studiare latino e greco non serve più? Gli eroi dell'antichità sono ancora i migliori maestri per chi vuole cambiare il mondo o make a dent in the universe, come diceva Steve Jobs» esordisce Farano, intervenendo da oltreoceano nel dibattito per la difesa della cultura umanistica. Per 5 buoni motivi. Trovi lavoro nelle aziende più high-tech del mondo «Per ogni ingegnere Adriano Olivetti era solito assumere un laureato in materie umanistiche. Olivetti e Steve Jobs non si sono mai incontrati ma la pensavano allo stesso modo: la creatività, motore della crescita economica, nasce dall'incontro tra sensibilità umanistica e genio scientifico. La mia applicazione Watchup ha una grande ambizione: rivoluzionare il modo di informarsi su dispositivi mobili e tablet. Il nostro investimento in tecnologia è grande ma nel mio ufficio a Palo Alto troneggia un poster dell'uomo vitruviano di Leonardo». Dalla forma mentis alla open mindness «La chiamavano forma mentis: uno stato mentale analitico ed elastico al tempo stesso. Nella grammatica latina e greca ogni parola ha un preciso posto nella frase, ma al tempo stesso può essere tradotta in almeno tre modi diversi. Per questo si parla di versione e non di traduzione. Come uno studente davanti a un testo antico, così oggi un giovane imprenditore deve sapersi adattare a nuove culture e nuovi linguaggi: giuridici, economici, tecnologici. Deve avere open mindness. Soprattutto quando, come me, passa dall'Italia, alla Francia, agli Usa». Omero e Dante, maestri di storytelling «Crescere tra Omero e Dante è ancora il miglior allenamento per padroneggiare l'arte del Keynote (PowerPoint per Mac). Grandi contenuti e brillanti idee rischiano di perdersi se non sono ben presentati. Che lo chiamino pure storytelling. Per me è ars oratoria. Per trovare investitori, nuovi partner o colleghi è fondamentale sapersi raccontare». Ogni tecnologia che funziona mette l'uomo-utente al centro «La cultura umanistica, figlia del Rinascimento, rimette l'uomo al centro della scoperta scientifica e intellettuale. Allo stesso modo, il processo di design di un prodotto in Silicon Valley — vera e propria Firenze del XXI secolo — è basato tutto su una tecnica che qui viene chiamata design thinking: prima di creare un'app, devi conoscere il tuo utente, i suoi bisogni, le sue passioni. Le tecnologie che vengono pensate in Silicon Valley finiscono per diventare universali perché qui, più che altrove, si pone l'utente al centro di tutto. Ed è questo metodo che abbiamo usato quando, con Watchup, abbiamo mirato a soddisfare un bisogno ancestrale: quello di informarsi, sfruttando il potere del videogiornalismo». Ulisse e Medea ti danno la forza per credere nei sogni «Antigone morì per ciò in cui credeva. Ulisse ha viaggiato una vita prima di tornare a casa perché imbevuto di curiositas. Medea ha scelto di sacrificarsi pur di lasciare un indelebile segno in chi l'aveva tradita. Eccoli gli eroi dell'antichità, trascinati da un pathos che li spingeva a perseguire i propri sogni, a qualunque costo. Per aspera ad astra. I miei maestri di vita sono stati loro. Leggendo le loro storie ho imparato a viaggiare, a inseguire i miei sogni, e a crederci fino in fondo. Nonostante le difficoltà. Cara Italia, non dimenticare il valore della cultura latina e greca. Non è mai stata così viva. E utile». Perché la versione serve a un fisico –di Guido Tonelli - 28 agosto 2016 – Il sole 24 ore Michael Hugo Leiters è un tipo tosto. Di quelli che ti guardano diritto negli occhi, senza sorridere. È tedesco, ed è un manager della Ferrari. È il responsabile della tecnologia, uno dei settori più importanti per le aziende che producono i costosissimi gioielli a quattro ruote. Leiters ha lavorato per anni alla Porsche e conosce molto bene l’ambiente delle supercars. Siamo a Maranello, nel palazzo della direzione. L’ edificio segue un bel disegno pulito di Fuksas; ma ti stupisce appena sali una rampa di scale e trovi il laghetto zen, una distesa di acqua e ciottoli di fiume, che occupa tutto il primo piano. Mi dicono che è stato fatto per favorire la meditazione e la visione strategica dei dirigenti dell’azienda fondata dal burbero e visionario Enzo. A fianco la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, più avanti, fra i vialetti, le avveniristiche linee di produzione da cui escono una trentina di 8 o 12 cilindri al giorno. Mi hanno chiamato qui, a fine luglio, perché vogliono mettere a confronto il lavoro di una scienziato del Cern con quello di un top manager della compagnia. L’intervista doppia procede con fluidità. Man mano che scorre la conversazione si scopre che i punti di contatto fra le due attività sono molti, taluni davvero inaspettati. Gli scopi sono assolutamente diversi. I nostri obiettivi sembrano talmente astratti da rasentare la filosofia: scoprire l’ origine della materia oscura o capire la fine che farà il nostro universo; i loro sono quanto di più concreto si possa concepire: vendere macchine in un mercato altamente competitivo. Ma per entrambi l’innovazione e la tecnologia sono componenti essenziali, quelli che possono determinare quella sottile differenza che ti può consegnare un successo clamoroso o far precipitare nella peggiore delle catastrofi. Lavoro di squadra, passione, amore per il rischio, cura quasi paranoica del più insignificante dei dettagli sono tutte cose che ci accomunano. Si sente che facciamo parte di una pattuglia di gente che respira la stessa aria sottile e pericolosa. Alla fine l’ atmosfera è talmente cordiale che passeggiando intorno al laghetto zen, Leiters si scioglie e mi racconta della sua formazione ad Aachen, al Fraunhofer Institute, uno dei centri di tecnologia più avanzati della Germania. E qui scatta il miracolo. Mi basta citare l’emozione che ho provato nel toccare il trono di Carlo Magno, tuttora conservato nella Cappella Palatina della vecchia Aquisgrana, che gli occhi del mio interlocutore si illuminano. E mi racconta con fervore del Sacro Romano Impero, e della sua passione per il latino che ha segnato indelebilmente la sua formazione classica. Ne nasce un’altra ora di conversazione fuori dal protocollo, in cui discutiamo dei Germani di Tacito, così diversi da quelli di Cesare del De bello Gallico. E solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di esempi illustri. Nel mondo della ricerca scientifica più avanzata conosco moltissimi colleghi che hanno avuto una formazione classica. La mia amica Fabiola Gianotti, tanto per citare un nome famoso. Ma si trova un sacco di gente che non ha dimenticato come si traduce dal greco e dal latino e che è a capo di grandi aziende, o, come Leiters, a dirigere entinaia di ingegneri impegnati nelle tecnologie più avanzate. Mi viene spesso da sorridere quando sento dire, da persone che solitamente non capiscono nulla di scienza e di tecnologia, che per imboccare con decisione la via dell’innovazione il nostro paese dovrebbe ridurre il peso e l’importanza degli studi classici. Con questa motivazione qualche grigio funzionario del ministero vorrebbe addirittura abolire le traduzioni dal greco e dal latino al liceo classico. Follia pura. Nel mondo della ricerca dura, quella segnata dalla più feroce competizione internazionale, lavorano moltissimi scienziati che hanno scelto di fare fisica proprio perché hanno fatto studi classici. Persone che non solo adorano greco e latino, ma spesso conoscono l’italiano, amano discutere di storia o di filosofia e sono appassionati d’arte. Come dice Semir Zeki, neuroscienziato dell’University College di Londra: «Il cervello non distingue tra cultura umanistica e scientifica». Cos’è che rende gli studi classici così adatti a formare la base per una preparazione scientifica d’eccellenza. Non è solo il rigore che richiedono e neanche l’ampiezza della formazione culturale che ti danno. Tutti ingredienti essenziali per attività che ti spingono ad allargare lo sguardo per esplorare sentieri mai battuti. Prendiamo proprio la traduzione dal greco e dal latino. Sei lì che combatti con il vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un gruppo di frasi e ti sembra di avere trovato la chiave. Soltanto che non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio. Ed ecco che di colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava un’ipotesi molto ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto questione di logica. Non saprei trovare un’attività più vicina al lavoro scientifico concreto che viviamo quotidianamente. Capita molto spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo particolare, apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto, questo stesso meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma. Una ragione in più per studiare in profondità il mondo classico, greco e latino, per conoscere le civiltà che sono alla base del nostro mondo e capirne le dinamiche che tutt’oggi lo attraversano. – Guido Tonelli, fisico del Cern, professore dell’Università di Pisa e ricercatore dell'Infn, è fai i principali protagonisti della scoperta del bosone di Higgs. Nel 2016 ha pubblicato «La nascita imperfetta delle cose» (Rizzoli) Fine del liceo classico come metonimia di Claudio Giunta - Domenicale del Sole 24 ore, 11 settembre 2016 Finite le scuole medie, una cara amica si sentì fare dal padre questo discorso: «Tu sei libera, puoi fare quello che ti pare, scegliere la scuola che vuoi. Dunque scegli: Tasso o Mamiani?». Il Tasso e il Mamiani sono due celebri licei classici di Roma, una volta andava così. Anche adesso, trent’anni dopo, va così, almeno per la mia amica (che si è laureata in Storia, non in Ingegneria), che non imporrà niente, si capisce, ai suoi figli, ma sarà lieta se vorranno anche loro scegliere, liberamente, tra il Tasso e il Mamiani; e va così anche per me (che mi sono laureato in Lettere, non in Ingegneria), che non imporrei niente ai miei figli, ma sarei lieto se anche loro, come me, decidessero di passare qualche anno della loro vita in compagnia dell’Eneide, degli aoristi, del locativo e di Baruch Spinoza. Buttarla sul personale, parlando di scelte scolastiche, è la prima cosa da fare, perché si tratta sempre di preferenze, inclinazioni personali, si tratta di scelte di vita, e pretendere di guardare dall’alto, da un punto di vista che si presume oggettivo, queste scelte di vita, e dire cos’è meglio e cos’è peggio non per sé o i propri figli ma in generale è ridicolo prima che sbagliato. Ciò premesso, è chiaro che i casi personali sono infiniti, e che un assetto all’istruzione bisogna darlo e si dà (che cosa insegnare a scuola? Come organizzare i curriculum? Quali discipline privilegiare e quali no?), quindi è del tutto legittimo domandarsi, per esempio, e lo si sta facendo in queste settimane, che destino può e deve toccare al liceo classico. Nei trent’anni che sono passati dal mio ingresso al liceo classico, infatti, il mondo è cambiato, forse più ancora di quanto fosse cambiato nei sessant’anni che separavano i miei anni Ottanta dalla riforma Gentile. Cambiamenti strutturali, nel modo in cui viviamo, comunichiamo, ci spostiamo; e cambiamenti culturali, in parte conseguenza di quelli strutturali, e che hanno intaccato quel complesso di idee e valori che sono il fondamento della pedagogia del liceo classico. Umanesimo/tecnologia, lingue morte/vive, tradizione/innovazione, conoscenza/competenza, teoria/pratica – tutti i termini sui quali il mondo di ieri metteva un segno più, i primi di ciascuna coppia, adesso hanno un segno meno: non che il mondo di oggi li snobbi del tutto, questo non si può dire, ma preferisce i secondi. Conseguenza pratica: se nel mondo di appena ieri frequentare il liceo classico era il modo migliore per cominciare a farsi strada nella vita, oggi molti pensano che non sia più così, e le iscrizioni al classico calano, rischiano di prosciugarsi. In un libro aureo e dimenticato, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero osservava: «Abbiamo ancora tutti moltissimo da trarre, dalla frequentazione della saggezza e della bellezza antica. Perché dunque pensare di volerci togliere l’uso di questo formidabile strumento di vita?». Semplice: perché (parlano sempre i molti, s’intende) ogni ora in più dedicata al latino e al greco è un’ora in meno dedicata all’inglese e all’informatica, che come strumenti per la vita odierna sono decisamente più utili. E che importa – commenta qualcuno – la crisi del liceo classico? È calato anche il numero di quelli che tirano di scherma, e il mondo ha continuato a girare. Osservazione sciocca, perché, dato che viviamo in Italia e non in Congo, liquidare il liceo classico significa anche liquidare, col latino e il greco, un pezzo sostanziale della nostra storia e della nostra cultura: l’una e l’altra anche economicamente molto produttive, dato che i turisti non vengono a trovarci soltanto per il mare e la cucina. Dunque la cosa importa, non solo a livello individuale, ed è bene che se ne discuta, e la parola difesa (‘difesa del liceo classico’), che ai liberali può suonare stridula, si adopera invece con pieno diritto. Tutto sta a intendersi sui modi. Intanto: è chiaro che il classico non è e non sarà più la scuola dell’élite, il vertice del triangolo alla cui base stanno le scuole professionali, i tecnici eccetera, o, come purtroppo ancora leggo in giro, il liceo d’eccellenza (uno non fa il classico proprio per imparare ad astenersi da parole del genere?). È e sarà un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che, per un pezzo della loro vita o per tutta, vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica. Può sembrare una cattiva notizia a quelli che vaneggiano della speciale apertura mentale conferita dallo studio del latino, o della Grande Bellezza che si dischiude solo ai classicisti, o di Zuckerberg che ha inventato Facebook perché ha letto l’Eneide. Ma non è necessariamente un brutta notizia. Un tempo si faceva il classico perché quella era la scuola di chi andava a comandare, o di chi ci provava: il latino e il greco erano una metonimia: averli studiati voleva dire appartenere a un piccolo club di privilegiati (quelli che l’irriflessività di alcuni tra gli attuali fautori del liceo classico scambia per ‘migliori’: ma se il fulcro della riforma Gentile fossero stati gli istituti tecnici è chiaro che i ‘migliori’, in quanto privilegiati, sarebbero stati i ragionieri). Adesso è e sarà la scuola di quelli che hanno un reale, non metonimico interesse per quelle discipline. Che il numero degli iscritti cali mi pare a questo punto inevitabile, e forse persino auspicabile. Le strade d’accesso all’élite si sono moltiplicate e diversificate, ed è bene che chi ha altri interessi li soddisfi attraverso altri indirizzi di studio. Questo dovrà forse avere qualche riflesso anche sulla prassi scolastica. Quando andavo a scuola io le bocciature fioccavano sin dalla quarta ginnasio perché, più che insegnare il latino e il greco, bisognava scremare chi era ‘da liceo classico’ e chi non lo era. Adesso servirà, se non davvero più gentilezza, più pazienza, e applicazione anche con i non predestinati. Questa scuola di non-élite conserverà il suo solido impianto umanistico, ma non potrà non adeguarsi ai tempi. Di fatto, mi pare che lo abbia già fatto e lo stia facendo: integrando al curriculum ore di scienze, portando la lingua straniera fino alla quinta, dando la possibilità a chi vuole di studiarne una seconda. Una buona preparazione umanistica e scientifica insieme non è una chimera, tant’è vero che molti ottimi scienziati hanno fatto il classico, specializzandosi poi all’università. Ricordo questo fatto ovvio solo perché mi pare invece che nel dibattito affiori ogni tanto una retorica scientista piuttosto rozza, e simmetrica a quella umanista: come se la scuola dovesse formare dei piccoli ingegneri o dei piccoli informatici, e tutto il tempo passato a far altro fosse tempo speso invano. Ma il liceo cura la formazione, non la professionalizzazione, e la formazione deve fondarsi su un novero di discipline ragionevolmente ampio, salvo produrre dei monomaniaci. Come fare spazio, al classico, alle nuove discipline (e alle nuove esigenze di vita: è ovvio che oggi lo sport ha un’importanza molto più grande di quella che aveva ai miei tempi, e chi lo pratica dev’essere incoraggiato a farlo)? Aumentare il monte ore? Non sarebbe uno scandalo, salvo però diminuire la quantità dei compiti a casa, lavorando di più in classe insieme all’insegnante (mentre mi pare prevalga ancora un approccio ‘universitario’, di fiduciosa delega allo studente, che non funziona più nemmeno all’università, e che insomma fa la fortuna del CEPU). Sacrificare qualche ora di greco, latino o italiano alle nuove discipline? La sola ipotesi sembra blasfema, dato che già con le ore a disposizione (gite e scioperi ed elezioni e feste nazionali aiutando) non si riesce mai a finire il programma. Ma qui allora, perché l’ipotesi non sia blasfema, il discorso deve prendere una piega diversa e riguardare non l’impianto disciplinare del liceo classico bensì i suoi contenuti. Nella discussione (semplifico) pro o contro la traduzione dalle lingue classiche io sto molto decisamente coi pro. Si cominci a tradurre, imparando il rigore, la precisione, la logica, la buona lingua e il resto (le idee sul mondo antico, i miti, l’antropologia eccetera) verrà di riflesso. Salvo errore, però, negli ultimi tre anni di liceo il tempo dedicato a leggere e tradurre i testi si riduce molto per lasciare spazio alla storia della letteratura. Vale per il greco e il latino e vale, con le differenze del caso, per l’italiano. Ebbene, è qui – su questa enciclopedia che va da Livio Andronico a Claudiano, da Esiodo a Nonno di Panopoli, dai trovatori a Zanzotto – che a mio avviso bisogna sfrondare, potare. L’obiettivo non è insegnare la genealogia, che impareranno, in pochi, all’università, ma il gusto e la capacità della lettura, capacità che la gran parte dei diplomati al classico, dopo tre anni di ‘autori’, non ha: provate a fargli leggere non dico Cicerone ma la lapide di un cimitero. Non c’è da abolire la storia, ma neppure da farne un feticcio; e c’è da abolire il mito della completezza, e i programmi sesquipedali pieni di nomi e di chiacchiere attorno ai nomi. Infine, adeguarsi ai tempi significa anche non ignorare il tempo presente. Gli studi classici nacquero e prosperarono in un mondo in cui l’offerta di novità culturali era scarsa e omogenea, un mondo nel quale esisteva un nesso di quasi naturale continuità con il mondo antico: i miti e gli eroi dell’epica tenevano nelle menti il posto che oggi è occupato dai personaggi dei film. Questo nesso non esiste più, questa famigliarità si è dissolta. Allo stesso tempo, l’offerta di novità culturali (libri, film, canzoni, giochi) si è dilatata all’infinito: sono ovunque e sono, spesso, meravigliose, e capaci di parlare a un adolescente con un’immediatezza che nessun classico può avere. Spalancare loro le porte significherebbe aumentare la confusione in un’età in cui serve invece soprattutto ordine; ma escluderle da un’istruzione che si definisce ‘umanistica’ è sbagliato, perché rischia di produrre dei mostriciattoli antipatici e reazionari, e patetiche torri d’avorio. Non si tratta di attualizzare i classici, sollecitando a collegamenti spericolati; si tratta di insegnare agli studenti a conoscere e a interessarsi anche a questo mondo, dato che è quello in cui devono vivere. Che una scuola in cui si insegnano cose vecchie di duemila anni trasmetta un’idea museale della cultura è perfettamente normale, e va benissimo; ma qualche correttivo sembra opportuno. Più bravi e regolari negli studi: la rivincita del liceo Classico di Antonella De Gregorio – Il corriere della sera – 1 novembre 2016 La ricerca Almalaure per il Corriere: chi si diploma in questo indirizzo ha voti più alti ed è più motivato. Ivano Dionigi: «Per rilanciarlo va riconosciuta l’importanza del Latino e del Greco. Potenziando la Matematica e le discipline scientifiche» Ma quali processi e petizioni: per salvare il liceo classico basterebbe guardare i numeri. Quelli del voto di laurea degli ex liceali: qualunque facoltà scelgano, hanno punteggi più alti dei colleghi: 105, di media, contro 103 di chi esce dallo Scientifico e 99,7 di chi ha studiato a un Tecnico. O quelli sulla regolarità degli studi, innanzitutto: in linea con i diplomati scientifici e davanti ai tecnici. La motivazione, poi: il 40,3% dei laureati con formazione classica si iscrive all’università spinto da interessi culturali, contro il 32,3% dei laureati con formazione scientifica e il 27,8% di coloro che hanno un diploma tecnico. Quando si trovano a giudicare il loro percorso universitario, infine, sono più «consapevoli» ed «esigenti».Ma quali processi e petizioni: per salvare il liceo classico basterebbe guardare i numeri. Quelli del voto di laurea degli ex liceali: qualunque facoltà scelgano, hanno punteggi più alti dei colleghi: 105, di media, contro 103 di chi esce dallo Scientifico e 99,7 di chi ha studiato a un Tecnico. O quelli sulla regolarità degli studi, innanzitutto: in linea con i diplomati scientifici e davanti ai tecnici. La motivazione, poi: il 40,3% dei laureati con formazione classica si iscrive all’università spinto da interessi culturali, contro il 32,3% dei laureati con formazione scientifica e il 27,8% di coloro che hanno un diploma tecnico. Quando si trovano a giudicare il loro percorso universitario, infine, sono più «consapevoli» ed «esigenti». La scuola che «tiene» di più Basta, questo, a raccontare il liceo classico come la scuola che «tiene» di più? Ne è convinto Ivano Dionigi - latinista, ex rettore dell’Università di Bologna (dove da poco è tornato a insegnare), presidente di Almalaurea - che ha fatto analizzare dal Consorzio le performance universitarie dei diplomati al classico in tutti i corsi: umanistici e scientificotecnologici. L’indagine, che Dionigi ha illustrato in anteprima al Corriere e che ha sondato 270mila laureati nell’anno solare 2015, sfata molti luoghi comuni. Intanto, che il Classico sia la scuola dei «figli di papà»: lo è stato forse fino al 1969, quando era l’unico indirizzo che dava accesso a qualsiasi facoltà universitaria, mentre chi proveniva dallo Scientifico non poteva iscriversi a Giurisprudenza o a Lettere. «Oggi è ancora vero che chi viene dal Classico gode di un contesto socio-culturale più avvantaggiato; ma il dato del 33,8% proveniente dalla classe media impiegatizia, sommato al 13,7% della classe del lavoro esecutivo, smonta l’equazione», dice Dionigi. Oppure che offra prospettive di lavoro circoscritte: i diplomati al classico svolgono lavori in ogni ambito, da Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Ginevra, al regista Gabriele Salvatores. E poi che agli studenti del Classico siano precluse (o risultino più ostiche) le facoltà scientifiche. A Bologna quelli iscritti a Medicina battono i colleghi dello Scientifico per media di voti d’esame, voto di laurea e regolarità di studi. Lo stesso a Roma, alla Sapienza; e al Politecnico di Milano, dove il rettore, Giovanni Azzone, ha elogiato gli ottimi risultati dei diplomati classici. Vori più alti In generale, dice Dionigi «i voti di laurea sono più elevati, in tutti i quindici raggruppamenti disciplinari esaminati, tranne ingegneria, dove classici e scientifici comunque pareggiano (102,1). I numeri ci dicono anche che sono più numerosi i classicisti che hanno svolto periodi di studio all’estero (15,7% contro il 12,2% e il 9%)». Mezzi familiari e motivazione culturale in questo caso giocano alla pari. La traduzione Ma allora quel gregge sempre più sparuto (dimezzato in meno di dieci anni) che ha scelto il classico - 6 ragazzi su 100, nel 2016 - ha più vantaggi o svantaggi nella laurea (e nel lavoro) rispetto a chi ha fatto percorsi scientifici e tecnici? Domanda che ciclicamente torna e riporta alla querelle passatisti/modernisti, conservatori/riformatori, sull’utilità e la validità del liceo classico e di alcune sue prerogative (traduzione sì o no, per esempio). A partire dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, che reputava il Classico un liceo nozionistico, da svecchiare e alleggerire. Ma i sostenitori ne apprezzano metodo e organizzazione: allena capacità di concentrazione e di astrazione, padronanza della lingua. Mentre quel meccanismo di logica e rigore che è la traduzione, costituisce un esercizio mentale e cognitivo unico, sostiene Massimo Cazzulo, grecista e docente al classico Tito Livio di Milano: «Tradurre un testo classico significa mettere in atto, e simultaneamente, un ragionamento complesso che stimola i processi analitici, sintetici, intuitivi, gnoseologici, che induce a impostare un’ipotesi di lavoro e sottoporla, poi, ad una critica serrata, per vedere se funziona realmente. E questo spiega perché gli studenti che escono dal Classico ottengono risultati eccellenti anche in materie molto lontane dalla classicità», afferma. Rilancio Come si sia arrivati a mettere all’angolo un liceo che ci è stato invidiato da mezzo mondo richiederebbe un libro. Tra le pagine, comparirebbero processi, appelli e da ultimo anche una «task force» per rilanciare l’indirizzo di studi (taskforceperilclassico.it). Va detto che le critiche al Classico nascono dall’esterno, non dall’interno: chi lo ha scelto, in 74 casi su cento lo rifarebbe. Lo dicono i dati di Almadiploma, la branca di Almalaurea dedicata alla scuola superiore. «Non si tratta solo di difenderlo ma di riflettere, seriamente», dice Ivano Dionigi (che ha anche scritto, di recente, un libro sul valore del Latino oggi: «Il presente non basta»). «La discussione è centrale, per non correre in direzione di licei sempre più mediocri». Per un rilancio, Dionigi invoca innanzitutto un pieno riconoscimento dell’importanza del latino e del greco. E poi, «anziché semplificare e sostituire, come è stato suggerito, potenziare e aggiungere. Dilatando gli orari scolastici, rivedendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti», dice. «Con un’adeguata e necessaria iniezione di matematica e discipline scientifiche nel classico, i segni più della nostra indagine si estenderebbero e affermerebbero in tutti gli indicatori». E continueremmo ad avere la miglior scuola d’Europa e d’Oltreoceano. Contro la scuola facile –di Paola Mastrocola - 29 maggio 2016 – Il sole 24 ore Si parla molto di latino e greco, oggi. Se ne parla perché le iscrizioni al liceo classico sono in calo, e perché si sta pensando di cambiare la seconda prova di maturità, la traduzione. C’è stato un «processo al Liceo classico», a Torino; un convegno al Politecnico di Milano; c’è un libro di Nicola Gardini sulla bellezza del latino; ci sono articoli, blog sul tema. Sono intervenuti personaggi della politica e della cultura, a favore o contro: Umberto Eco, Maurizio Bettini, Luigi Berlinguer, Federico Condello, Luciano Canfora,Luca Serianni (vedi il suo intervento su Domenica della settimana scorsa, ndr), e tanti altri. Insomma, c’è subbuglio, polemica, toni accesi. Sono contenta. Anzi, vorrei di più. Vorrei che si scatenasse l’inferno su questo tema, perché riguarda tutti noi, la cultura, l’Italia, il futuro del mondo, e del pensiero. Non vorrei lo si considerasse un problemino marginale che riguarda soltanto il latino e greco, e i licei... Per questo, oggi non saranno Paginette, ma un unico paginone. Il punto è questo: nessuno dice esplicitamente di voler abolire il liceo classico, né il latino allo scientifico; ma molti dicono di voler cambiare (ridimensionare?) la seconda prova agli esami di maturità: la traduzione. La proposta innovativa è di ridurre il testo da tradurre, e non chiederne più solo una mera traduzione, ma fare anche domande sul contesto, la storia, la letteratura, l’autore, la sua opera, le sue idee. Il fine dichiarato è di rendere più affascinanti materie ostiche, e mediamente poco amate, come il latino e greco, fare in modo che il loro studio appassioni i ragazzi dell’era digitale. Il problema esiste, non si può negare. Bisogna affrontarlo. E non credo che tenere tutto com’è sia una buona soluzione, qualcosa davvero dovrà cambiare. Io non ho la soluzione, ovviamente. Vorrei solo che tutti quanti ci interrogassimo, che pensassimo bene a cosa fare. Tutti quanti, non solo insegnanti, governanti, funzionari ministeriali, ma anche medici, ingegneri, panettieri, elettricisti, attori, artisti, ciclisti, clown, infermieri, tassisti, archeologi, scenografi, giornalisti... Tutti. Temo che, se passasse questa variante, sarebbe un ulteriore abbassamento di livello, per l’istruzione italiana. E uno snaturamento del liceo classico. Sarebbe ancora una volta edulcorare, annacquare, infiorare, indorare la pillola, per corrispondere alle richieste della maggioranza, adeguarsi, acchiappar consenso. Perché dico questo? Proviamo a immaginare. Davanti a un testo di Orazio, chiederemo all’allievo non di tradurlo, non di sapere grammatica e sintassi, ma di capirlo e interpretarlo, e “parlarne intorno”. Pazienza se non riconoscerà una finale, se sbaglierà una consecutio o non vedrà certi nessi consequenziali (beceri tecnicismi?); l’importante è che colga il senso generale, lo inquadri in un contesto e dica quel che pensa. Carino, niente da dire. Molto fascinoso, sicuramente allettante: meno fatica, meno rigore, meno «esattezza», più apertura (forse) agli aspetti della civiltà, della cultura, del pensiero, in senso ampio. Ma avrei due considerazioni da fare. La prima è: lo facciamo già! Facciamo «autori» e «letteratura» nei licei, non solo grammatica, non solo traduzione. Abbiamo un programma che prevede proprio questo: di leggere testi anche già tradotti, integrali o in antologia, di inquadrarli, di parlarne a tutto campo. A ciò molti insegnanti aggiungono, per passione, di fare anche teatro, dai testi antichi. E abbiamo prove che interrogano l’allievo su questo, anche alla maturità: all’orale e con le domande della cosiddetta «terza prova» si dà spazio proprio a quel che l’allievo ha studiato e ha amato. La seconda: non sarebbe un ulteriore invito al pressapochismo, alla chiacchiera? Se accanto alla traduzione di un passo facciamo anche le domandine sul carpe diem, ovvio che la prova diventa più facile: un discorsetto sulla transitorietà della vita umana lo butta giù chiunque abbia mediamente leggiucchiato qualche pagina o videata, o orecchiato qualche sprazzo di lezione. (Se poi saranno le solite domandine, lo spettro della scuola-test incombe e mi fa paura...). Perché voler intorbidare le acque adamantine di una prova chiarissima e semplice che richiede solo di saper tradurre? Che c’è di male? Con la traduzione si chiede di mettere in atto quelle capacità linguistico-logico-letterarie-culturali... che sono basilari e imprescindibili per capire e interpretare ciò che si legge. Tutto lì. Gli alati discorsi vengano dopo. Anche perché rischiano di essere aria fritta. In quanto poi alla passione, be’, difficile appassionarsi a Orazio senza capire cosa dice, senza saperlo tradurre. Se facilitiamo o riduciamo la traduzione, temo che a breve non sapremo più leggere Orazio, e ci ridurremo a poter frequentare solo i riassuntini di Wikipedia e fare solo discorsi generali (e superficiali) su Orazio. Alati discorsi, appunto. La traduzione dal latino e greco è una delle ultime cose difficili che son rimaste nella scuola italiana, insieme alla matematica. Quindi il calo di iscrizioni al classico non potrebbe voler dire che i ragazzi oggi, tout simplement, sono meno in grado di fare cose difficili? E come potrebbe piacerci questo? I risultati, è vero, non sono brillanti. Pochissimi arrivano a saper davvero tradurre. Quindi edulcoriamo? E, in prospettiva, aboliremo? Non mi sembra una soluzione. È come quando vediamo alzarsi i livelli di inquinamento nelle città e, invece di rendere l’aria più salubre, abbassiamo la soglia di pericolo. Strano modo di risolvere i problemi... Allo stesso modo, c’è un calo di iscrizioni al classico? Bene, allora alleggeriamo latino e greco? Non potremmo fare esattamente il contrario, e cioè potenziare e approfondire, e rendere tutti capaci di tradurre? (Anche perché è colpa nostra se i ragazzi sono sempre meno capaci di tradurre, e in generale di far cose difficili, è colpa della scuola che abbiamo costruito noi per loro negli ultimi anni, quindi sarebbe doveroso e onesto riparare una buona volta i danni che abbiamo arrecato, e non aggiungerne di nuovi!). Potremmo rendere latino e greco obbligatori fin dalla prima media. Potremmo ritenerli indispensabili e basilari a qualsiasi formazione. Almeno il latino, se non il greco. Ripristinare la prova di traduzione anche allo scientifico. Aumentare le ore di latino (o almeno riportarle a com’erano). Riproporre la traduzione dall’italiano. Innalzare il livello, per tutti, insomma. Rendere liceo classico tutta la scuola, cioè la scuola di massa. Potremmo anche prevedere delle certificazioni con le quali soltanto si può accedere a certe università, e si ottengono certi lavori. Lo ha fatto la Cusl (Consulta universitaria per gli studi latini): un certificato che attesta la conoscenza del latino, con quattro diversi livelli di competenza (anche se applicare al latino i criteri delle lingue moderne può lasciar perplessi...). Un certificato allegabile al curriculum, visto che ci sono aziende, soprattutto all’estero, che apprezzano molto la conoscenza del latino, e la richiedono. Ma bisogna crederci. Bisogna credere che fare latino e greco, quindi fare la traduzione, abbia ancora un senso. E perché non crederci? Quel che vedo io è che chi viene dal liceo, se ha fatto un buon liceo!, sa affrontare meglio gli esami più difficili nelle Facoltà più difficili. Chi ha fatto altre scuole invece arranca, e spesso deve abbandonare perché quegli esami non li passa. Questo non ci dice niente? (O non ci piace?). Ecco che cosa mi preoccupa: l’attuale deficit di motivazione nostra, di noi adulti, insegnanti, scrittori, intellettuali, politici, governanti, famiglie. Perché crediamo così poco nel greco e nel latino? Forse perché l’Europa, e l’America, fanno un altro tipo di scuola (che peraltro sta fallendo)? E se fossero invece proprio il latino e il greco a fare la nostra differenza, e la nostra eccellenza? Perché dovremmo rinunciarci, equiparandoci pedissequamente, e conformisticamente, agli altri? Non potremmo essere più orgogliosi e consapevoli, e auspicare che siano gli altri a imitare noi? O è per compiacere l’utenza, cioè famiglie e allievi, che vogliono una scuola facile e divertente? E se sbagliasse, questa benedetta «utenza» Abbiamo già reso facile e divertente la scuola. Da quarant’anni, e soprattutto negli ultimi quindici, non facciamo altro: il latino ai licei è già più facile e leggero. Anzi, è stato talmente annacquato che è ormai impossibile insegnarlo davvero. Questa è la verità, gravissima, che non si dice mai: il latino è una finzione che si tira avanti nella più completa ipocrisia. Non si fa più alle medie, si comincia in prima liceo con tre ore a settimana: impossibile insegnarlo, e quindi impararlo, per davvero. Impossibile arrivare a saper tradurre Cicerone, Seneca o Virgilio. Ma si continua a fare. È peggio che se fosse stato abolito: è finto. A parte lo strenuo impegno e ardore di qualche sparuto insegnante che, a dispetto degli orari ridotti e di tutto il resto, cerca ancora di insegnarlo come si deve, ma alla fine può ben poco. Quanti oggi, tra insegnanti e allievi, sanno ancora veramente il latino? Ecco perché, forse, si pensa di cambiare la seconda prova di maturità: per avvenuta insipienza collettiva. È amaro, lo so. Ma ancora più amaro è che, siccome non abbiamo (ancora) il coraggio di abolire il latino, lo spegniamo a poco a poco, gli togliamo aria, e, cosa ancor più grave, neghiamo di farlo. Questo mi fa male. Preferirei che l’Italia avesse il coraggio delle sue azioni, che i governanti, gli intellettuali, gli insegnanti, i funzionari ministeriali dicessero apertamente: scusate italiani, ci dispiace, non siamo più in grado di fare latino. Siamo un Paese che è andato così. Il latino non lo studiamo più, nessuno più ne ha voglia e dunque vada con Dio. Ci dispiace esser noi a doverci prendere questa responsabilità, di far fuori dopo tremila anni il latino e il greco, ma pazienza, qualcuno lo deve pur fare. D’altronde, è roba difficile e sa di vecchio: un futuro ben diverso ci aspetta e ci sorride. Il mondo attuale, la tecnologia, l’innovazione, il progresso, e bla bla... Preferirei. Così come, in fondo, preferisco le parole, sconcertanti ma coraggiose, di Luigi Berlinguer al convegno di un mesetto fa al Politecnico di Milano: la traduzione al liceo va abolita! Almeno ha coraggio, l’ex ministro Berlinguer. Tanto di cappello. (D’altronde, non aveva forse già abolito il tema, quindici anni fa? Dando un colpo mortale, secondo me, alla prova di scrittura...). Va bene. Se davvero non crediamo più che latino e greco siano le sole e migliori attività che allenano la mente, che insegnano una strutturazione logica del pensiero e via dicendo, d’accordo, sostituiamoli! Ma con cosa? Quali proposte stiamo facendo? Io non ne vedo una, sento solo parole vacue e confuse. Aria fritta. Che cosa di altrettanto impegnativo e difficile siamo in grado di proporre, se decidiamo di abolire o alleggerire la traduzione? Ho il sospetto che, semplicemente, vogliamo far fuori la difficoltà. Temo che il mondo si avvii a puntare quasi esclusivamente sul consenso, e stia diventando una gigantesca, universale macchina per produrre consenso. Lo vediamo nella rete, ma lo vediamo anche qui in Italia nella politica, e nella cultura: nella fattispecie, in quella particolare zona della cultura che si occupa di scuola. Dal ministero di Luigi Berlinguer in poi la scuola cerca consenso, cioè utenza, cioè iscritti. È un’azienda che deve far quadrare i conti. L’acchiappa-utenza è una macchina che gira tutto l’anno in tutte le scuole, e gioca su: orientamento, accoglienza, progetti Pof, incontri, dépliant. Materiale illustrativo e pubblicitario, insomma. Siamo sicuri che l’utenza vada così vezzeggiata e opportunisticamente ossequiata? È nell’importanza del difficile che dovremmo ricominciare a credere. Soltanto una scuola che abbia il coraggio di tener duro e continui a proporre cose difficili fa il bene dei nostri giovani, tutti, di qualsiasi condizione siano: consentirà loro quell’ascesa, intellettuale e sociale, che oggi non vediamo più realizzarsi, ma che fino a ieri, fino alla mia generazione, era possibile. E riusciva a cambiare drasticamente il destino di una persona.